mercoledì 2 aprile 2008


APCOM 02/04/2008
BERTINOTTI: DA INDECISI SINISTRA DIPENDE SUCCESSO SA

Roma, 2 apr. (Apcom) - "C'e' una parte rilevante di incerti di sinistra, dalla cui decisione di voto dipende l'esito della Sinistra arcobaleno". Lo ha spiegato Fausto Bertinotti, intervenendo alla trasmissione di Radiotre Rai 'Radio tre mondo'. Ma far 'passare' la proposta politica di Sa, osserva il candidato premier della Sinistra Arcobaleno, è difficile : "Non parlo di un complotto, ma sono in molti ad avere interesse che la Sinistra arcobaleno non cresca. C'e' una campagna violentissima per ridurre a due la politica italiana, e quindi poi dire che per noi c'è una difficoltà di accesso diventa una tautologia". Se questa è la situazione sui media tradizionale, diversa per Bertinotti è e la "realtà delle piazze e delle strade, dove trovo persino entusiasmo", dovuto al tentativo di "costruzione di una nuova sinistra".

E proprio questo Bertinotti dice agli indecisi di sinistra, delusi dall'esperienza di governo: "E' una delusione condivisa, faccio parte anch'io di questo popolo deluso. Noi ci abbiamo provato, dovevamo provarci dopo 5 anni di Berlusconi, e fin dall'inizio abbiamo chiesto ad esempio di intervenire su salari, stipendi e pensioni,: ci abbiamo provato per due Finanziarie, ci proviamo ancora oggi chiedendo il decreto legge". Ma ora "ci proviamo dall'opposizione, ripartendo dal Paese reale, a costruire una soggettivita' politica per riannodare i fili, costruire una nuova casa di tutti quelli che sentono il bisogno di avere una sinistra. Ora è il momento di decidere se vuoi rassegnarti ad avere un'Italia senza sinistra o metterci del tuo in un nuovo inizio per la costruzione della sinistra in Italia".



La Repubblica 02.04.2008


Pisa, negata a due ragazze: ma la legge non prevede l´obiezione
Quando il medico rifiuta la pillola del giorno dopo
di Miriam Mafai

Un medico non può rifiutarsi di prescrivere la cosiddetta "pillola del giorno dopo" a una donna che ne faccia richiesta. Né un farmacista può rifiutarsi di venderla. Né il medico né il farmacista possono in questo caso fare ricorso alla obiezione di coscienza. Al contrario rischiano una sanzione disciplinare dell´azienda sanitaria dalla quale dipendono e una denuncia alla magistratura.

È quanto è accaduto recentemente a Pisa dove la guardia medica e il pronto soccorso hanno rifiutato a due ragazze l´anticoncezionale di cui avevano bisogno.
"Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte agli interventi per l´interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione": così recita l´articolo 9 della legge 194. E´ in questo caso e solo in questo caso, esplicitamente previsto dalla legge, che un medico può rifiutarsi di dare assistenza a una paziente. E´ impensabile che questa facoltà venga estesa, quale che ne sia la giustificazione, alla prescrizione e alla vendita di un anticoncezionale.
Ma a Pisa, nei giorni scorsi, questo è accaduto. Può darsi, naturalmente, che si tratti di un caso isolato. Di un medico o di un farmacista che forse immagina di vivere nello Stato Pontificio anziché nella nostra Repubblica. Qualcuno, spero, lo convincerà che si è sbagliato e che anche in quel di Pisa valgono le nostre leggi.
Ma non vorremmo, invece, che questo episodio fosse il segnale, da parte cattolica, di qualcosa di diverso, di una nuova campagna (culturale? politica? ideologica?) contro le donne e il loro pieno diritto di servirsi di tutti gli anticoncezionali autorizzati dalla legge (dalla spirale alle pillola del giorno prima a quella del giorno dopo). Il cui uso, tra l´altro, andrebbe largamente promosso, quale che sia in materia la posizione della Chiesa, anche per evitare gravidanze indesiderate e l´eventuale ricorso all´aborto.
Un caso analogo a quello di Pisa si verificò, a quanto ricordiamo, nell´ormai lontanissimo 1994 quando un farmacista e una dottoressa cattolica si rifiutarono di prescrivere e di vendere contraccettivi appellandosi alle proprie convinzioni religiose. All´epoca il ministro della Sanità, la democristiana Maria Pia Garavaglia, richiamò immediatamente il farmacista e la dottoressa al rispetto delle leggi dello Stato italiano che consentivano la vendita dei contraccettivi (e ne ebbe per questo un duro richiamo dell´Osservatore Romano)
Nessun dubbio che un analogo richiamo alle leggi dello Stato italiano verrà espresso dall´attuale ministro della Sanità, dall´Azienda Sanitaria da cui dipendono il medico e il farmacista di Pisa, e dal Consiglio Regionale della Toscana che aveva già avvertito che sarebbero stati responsabili di interruzione di pubblico servizio i medici che avessero rifiutato di prescrivere la "pillola del giorno dopo".
E tuttavia non possiamo fare a meno di valutare l´episodio di Pisa come allarmante non solo per quanto si riferisce alla condizione delle donne, alla loro libertà e al loro diritto alla contraccezione, ma anche per quanto si riferisce al principio di laicità del nostro paese. In particolare quando, come oggi accade, la Chiesa cattolica rivendica una maggiore presenza nello spazio pubblico. Ma questa maggiore presenza nello spazio pubblico non può comportare la imposizione di una serie di scelte etiche di matrice cattolica a tutta la nostra società, ormai largamente secolarizzata. Né, tanto meno, la possibilità o il diritto per i cattolici, di sottrarsi alle leggi dello Stato quando queste sembrino loro in contrasto con le proprie convinzioni religiose.
Nella sfera privata questa possibilità è certamente garantita. Il cattolico potrà certamente non fare ricorso né al divorzio né all´aborto (per citare due leggi dello Stato nei confronti delle quali la Chiesa conferma legittimamente la sua intransigenza), ma una analoga scelta non è possibile né pensabile quando il cattolico opera nella sfera pubblica (come nel caso del farmacista o del medico di Pisa). Nella sfera pubblica infatti valgono per tutti, quali che siano le scelte etiche o religiose, le leggi dello Stato.
Ed è bene che sia così. A nessuno di noi, penso piacerebbe vivere in una società nella quale dovessimo chiedere al medico o al farmacista cui ci rivolgiamo quotidianamente quali sono le sue profonde convinzioni religiose. Faccio un esempio classico a proposito della necessaria neutralità di coloro che operano nello spazio pubblico. I Testimoni di Geova, come noto, sono contrari alle trasfusioni di sangue e la loro richiesta, per quello che so, viene rispettata nei nostri ospedali quando avanzata da un adulto cosciente. Ma un medico testimone di Geova che operi in un ospedale non potrà rifiutare, per quello che so, una trasfusione di sangue a un paziente che ne abbia bisogno. O dovrò chiedere al medico che mi opera, prima di entrare in sala operatoria, quali sono le sue convinzioni religiose?


La Repubblica 02.04.2008
Saranno distribuiti alle donne povere ed extracomunitarie
Puglia, contraccettivi gratis "Così ridurremo gli aborti"
di Piero Ricci

BARI - Contraccettivi gratis nei consultori pugliesi. È quanto prevede una delibera della giunta regionale guidata da Nichi Vendola. La distribuzione gratuita riguarda in particolare gli estro-progestinici orali a basso dosaggio, anelli vaginali, contraccettivi orali a base di soli progestinici e contraccettivi ormonali per via transdermica.
L´obiettivo della delibera è di mettere a disposizione metodi anticoncezionali più moderni a donne a basso reddito che hanno diritto all´esenzione del ticket, alle giovani, alle immigrate e alle donne che hanno appena partorito o abortito e, in questo caso, evitare recidive. Plaude il ministro della Salute, Livia Turco: «Sono molto contenta, spero che anche altre regioni seguano l´esempio della Puglia, applicando le mie linee di indirizzo sulla legge 194». Così alla Regione Lazio, l´assessore alla cultura Giulia Rodano giudicando «ottima l´iniziativa», invita «a seguire l´esempio della Puglia».
L´opposizione di centrodestra in Puglia, intanto, non gradisce: «Con questo ennesimo scempio dei valori cattolici, siamo praticamente ad un passo dalla sterilizzazione di massa», ha attaccato il capogruppo regionale di Forza Italia, Rocco Palese. «È evidente che da cattolici non condividiamo l´intervento che suona piuttosto come una moratoria sulle nascite», osserva il coordinatore regionale di Alleanza nazionale, l´eurodeputata Adriana Poli Bortone.
L´assessore regionale alla salute, Alberto Tedesco (Pd) attacca: «Atteggiamento oscurantista e bigotto. Vogliamo contrastare il fenomeno dell´interruzione di gravidanza, che in Puglia ha raggiunto percentuali altissime: circa il 50%, il doppio della media nazionale».



L' Unità 02.04.2008
«Pillola del giorno dopo? Mai»
Medici sotto inchiesta
Pisa, a due ragazze niente farmaco contraccettivo
«Interruzione di servizio pubblico». La Asl: l’abbiamo somministrata
di Sonia Renzini
PENSAVANO di risolvere la paura di una gravidanza indesiderata con una corsa al Pronto soccorso. Magari, sperando di trovare il conforto di un medico che facesse svanire quell’ansia e quel vortice frenetico dei pensieri che girano cercando di definire le dimen-
sioni di quella carenza di precauzioni.
Invece, per due ragazze di Pisa, accompagnate rispettivamente dal fidanzato e dall’amica in tutta fretta a chiedere la pillola del giorno dopo, ci sono state solo porte sbattute in faccia. La prima alla vigilia di Pasqua, presso la guardia medica del villaggio “I passi”. Sulla porta, un cartello appeso non lascia spazio ai dubbi. «Presso questo ufficio non viene prescritta la cosiddetta pillola del giorno dopo», c’è scritto. La ragazza, studentessa di 20 anni, è disperata. «Erano le 2 di notte - racconta al Tirreno - non potevo trovare né il mio medico, né il mio ginecologo».
Decide di andare direttamente al Pronto soccorso, ma la situazione non cambia: il medico di guardia è obiettore di coscienza, di prescrivere la pillola non se ne parla. Non resta che apettare le 6 del mattino per ricevere il farmaco. Intanto, le ore trascorrono e con loro il rischio che il farmaco perda di efficacia, le paure della ragazza invece di diminuire aumentano. Pochi giorni dopo, lo stesso calvario viene rivissuto da un’altra giovane donna. Nella notte tra mercoledì e giovedì scorso va al Pronto soccorso dell’ospedale Santa Chiara insieme a un’amica, ma ci sono troppe emergenze, meglio ripiegare sulla guardia medica. Niente da fare. Al telefono qualcuno fa sapere che nessuno lì darà mai la pillola. Solo l’aiuto di un medico, parente dell’amica, svegliato in piena notte, risolve la situazione. La vicenda ripropone il problema dei medici obiettori di coscienza sollevato più volte a proposito della legge 194. Qui, però il problema è più grave. L’obiezione di coscienza riguarda l’interruzione di gravidanza, ma la pillola del giorno dopo è un anticoncezionale, non un farmaco abortivo. Il paradosso è che tutto questo avviene nella stessa Asl che è stata l’avamposto toscano e nazionale per l’uso della pillola abortiva Ru486, visto che è la prima sperimentazione è stata fatta nell’ospedale di Pontedera.
Sulla vicenda ora indaga la magistratura. L’ipotesi è interruzione di pubblico servizio. Anche la Asl 5 di Pisa ha avviato un’indagine interna. «Non avevamo idea che ci fossero medici di guardia che rifiutano la somministrazione della pillola del giorno dopo - fanno sapere dalla Asl 5 - Anche perché non hanno mai dichiarato di essere obiettori. Oltretutto, l’obiezione non riguarda gli anticoncezionali». In serata la precisazione: «La pillola è stata soministrata in entrambi i casi. Risulta da un controllo sui registri di accesso il 22 e il 23 marzo. La prestazione rientra nei cosiddetti codici bianchi e dunque se l’ambulatorio è chiuso bisogna aspettare che vengano smaltite le urgenze. Dalle verifiche non risulta che nessuno dei medici abbia detto di rivolgersi altrove, solo di aspettare il loro turno». Intanto il ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Fioroni aveva ribattuto la libertà di coscienza dei medici è sancita nella Costituzione: «Le inchieste sui valori incostituzionali mi sembrano fuori luogo». Una delibera del Consiglio regionale toscano del 27 febbraio mette nero su bianco: «rifiutare di fornire la pillola del giorno dopo è un’interruzione di pubblico servizio»

La Repubblica 02.04.2008
L´ossessione del cavaliere
Quindici anni di ostilità contro l´istituzione più alta
di Massimo Giannini

È infiacchito. Sembra imbolsito. Si dice che non abbia più tanta voglia. Ma ora che si avvicina l´ordalia del 13 aprile, sempre più spesso il Cavaliere stanco si lascia sopraffare dal vecchio Caimano che è in lui. Dai giorni ruggenti della sua discesa in campo del ´94, Berlusconi ha trasformato il conflitto ideologico in uno strumento irriducibile della sua legittimazione politica, e il conflitto istituzionale in un metodo irrinunciabile della sua avventura di governo. Ora che risente vicina la possibilità di un ritorno a Palazzo Chigi, il leader del Pdl non resiste al richiamo della foresta.
E riapre le ostilità contro con un simbolo che per gli italiani rappresenta la più preziosa delle istituzioni, ma per lui costituisce la più tormentosa delle ossessioni. Equiparare la presidenza della Repubblica alle «forche caudine» di un Capo dello Stato «che sta dall´altra parte» non è solo un´offesa nei confronti di un galantuomo come Giorgio Napolitano, che in questi due anni difficili non ha mai sconfinato dal perimetro delle funzioni istituzionali che la Costituzione gli assegna e non ha mai valicato il confine delle attribuzioni politiche che il mandato delle Camere gli ha assegnato.
La sortita del Cavaliere è soprattutto un insulto nei confronti del sistema dei valori repubblicani, fondato sulla leale collaborazione tra le istituzioni, sul rispetto degli organi di garanzia, sul bilanciamento dei poteri dello Stato. Nonostante i quindici anni di militanza politica e i sei anni e mezzo di esperienza di governo, Berlusconi dimostra di non aver mai metabolizzato fino in fondo questi valori. Lui è e resta «altro». Per lui non ci sono interlocutori istituzionali o politici con i quali dialogare, ma solo nemici da sconfiggere o da imprigionare. Per lui il governo è e resta il Quartier Generale da espugnare, e il Quirinale è e resta il Palazzo d´Inverno da assediare. Ovviamente nell´attesa messianica di conquistare anche quello, e di consegnare finalmente se stesso alla Storia.
La sua uscita di ieri si può spiegare solo in questa ottica distorta del gioco democratico. E a niente valgono i soliti tentativi di ridimensionare la portata dell´attacco al Colle, con la prassi collaudata delle autosmentite successive. Non bastano le parole riparatorie nei confronti di Napolitano, non basta evocare «l´ottimo rapporto», la «stima e l´affetto» ricambiati. Non basta la telefonata di scuse con il Capo dello Stato, per precisare che «lui non c´entra niente». Per quanto cordiale e contrita sia stata quella chiamata, il danno si è già prodotto. O meglio: ri-prodotto. La toppa che il Cavaliere prova a mettere in serata è peggiore del buco che creato nel pomeriggio. Berlusconi chiarisce che il suo discorso si riferiva al precedente settennato di Carlo Azeglio Ciampi, con il quale il suo governo ha avuto «un rapporto dialettico», e con il quale si è creato un attrito a proposito della riforma della legge elettorale, con quel premio di maggioranza regionale «che il Quirinale ha preteso».
Il Cavaliere mente due volte. La prima volta: il «rapporto dialettico» con Ciampi lo ha creato lui, con le continue forzature legislative che hanno piegato l´economia ai suoi sogni personali e il diritto ai suoi bisogni processuali. Se Ciampi ha rifiutato di firmare la legge Gasparri sulle Tv o la legge Castelli sulla giustizia non dipende dal fatto che stesse «dall´altra parte», cioè che fosse un pericoloso «comunista», ma dal fatto che «dall´altra parte» ci stesse invece lui, il Cavaliere, che era e resta un avventuroso populista. La seconda volta: non è stato certo Ciampi a imporre il premio su base regionale a Palazzo Madama nella formula mostruosa declinata dal «porcellum». Il Colle, in quell´occasione, si limitò a segnalare la necessità che si rispettasse il dettato costituzionale: l´articolo 57 prescrive che il Senato della Repubblica sia «eletto a base regionale». Tutto qui. Il resto, che l´Italia sta pagando a caro prezzo, lo fecero i sedicenti «esperti» della vecchia Casa delle Libertà: quattro apprendisti stregoni riuniti in una baita di Lorenzago. Semmai, se l´ex Capo dello Stato ha avuto una colpa, è stata quella di non aver rimandato alle Camere anche quell´orribile legge Calderoli, costruita con l´unico obiettivo (purtroppo raggiunto) di rendere il Paese ingovernabile. Altro che «dall´altra parte»: Berlusconi dovrebbe ringraziare Ciampi, invece che insolentirlo.
Si tratta ora di vedere quali saranno gli effetti di questo ennesimo strappo istituzionale, nei pochi giorni che restano prima delle elezioni. Anche se animato dalla giusta intenzione di ristabilire un principio, ma anche di svelenire la polemica, è difficile che il comunicato diffuso dal Quirinale possa chiudere la partita. Quel testo è al tempo stesso inquietante e confortante. Inquieta il fatto che la più alta magistratura istituzionale del Paese debba essere costretta a ribadire, in piena campagna elettorale, un´evidenza oggettiva di cui nessun leader politico e nessun cittadino comune dovrebbe mai dubitare: la presidenza della Repubblica è per definizione sostanziale e costituzionale un organo di garanzia, che interloquisce ma non interferisce con gli altri poteri dello Stato.
Conforta il fatto che in questa nostra «Repubblica transitoria» in cui tutto sembra rapidamente deperibile e variamente manipolabile, dai fatti della cronaca ai giudizi della storia, il Quirinale rappresenta l´unico presidio autenticamente no-partisan del sistema democratico. L´unico «luogo» fisico e simbolico della politica italiana che non si lascia snaturare dalle logiche iper-partisan e che assicura la necessaria unità dell´azione e la doverosa continuità della missione, indipendentemente da chi sia l´inquilino che lo abita. Non è una cosa da poco, visti i possibili scenari del dopo 13 aprile. E visto soprattutto l´incontenibile istinto del Cavaliere ad usare l´Italia come una semplice appendice di Forza Italia.

La Repubblica 02.04.2008
Dimenticare il sessantotto
Un libro-intervista di Daniel Cohn-Bendit
Di STÉPHANE PAOLIJEAN VIARD

Daniel Cohn-Bendit: «Ho voluto intitolare questo libro Forget 68, ovvero Dimenticare il Sessantotto. Il Sessantotto è finito! Questo non vuol dire che quel passato sia morto, ma soltanto che è sepolto da quaranta tonnellate di selciato che, da allora, hanno segnato e trasformato il mondo. Questo mondo, infatti, non è assolutamente più quello del ‘68, e ciò significa che il ‘68 e gli anni successivi sono alle spalle. Il ‘68 è stato il primo movimento su scala globale divulgato in tempo reale. Abbiamo vissuto al ritmo di Berkeley, di Berlino, di Parigi, di Roma, di Budapest e infine di Praga. Era un mondo di rivoluzioni, differenti e ciò nondimeno collegate tra loro. Ne ho discusso abbastanza a lungo con Adam Michnik, uno dei protagonisti della rivolta del 1968 dell´università di Varsavia: là gli studenti chiedevano la democrazia, la libertà, perfino il capitalismo. Noi invece ci sintonizzavamo su una medesima frequenza per la ribellione contro l´autoritarismo e la morale del comunismo. Per loro contava la politica, ma anche il jazz! Un´empatia anti-autoritaria esisteva, era reale, anche se i due sistemi non erano paragonabili e c´erano molteplici differenze tra i due movimenti.
«Quale il lascito odierno del Sessantotto? Prima di tutto ciò che è cambiato nelle nostre società, ciò che ha dato vita a un´evoluzione straordinaria. Da un punto di vista sociale, diciamo culturale, ci abbiamo sicuramente guadagnato. Dal punto di vista sociale potrei fare il seguente esempio: nel 1990-1991 ero vicesindaco multiculturale della città di Francoforte, mi occupavo di immigrazione e nel corso di un dibattito sull´integrazione che avevo organizzato, al momento opportuno un consigliere municipale di destra - cattolico, praticante, molto simpatico - si alza in piedi e mi dice: "Dany sei straordinario, ma non capisci una cosa: il problema non è l´immigrazione. Il problema è l´Islam, perché non riconosce l´uguaglianza tra gli uomini e le donne, il pilastro stesso della democrazia". Al che io esclamo: "Da 20-25 anni mi andavo domandando in che cosa il ‘68 avesse avuto successo, e ora finalmente tu mi hai dato la risposta che cercavo!". Un uomo profondamente cattolico, praticante, che a più di 20 anni dal 1968 mi dice che la base della libertà e della democrazia è l´eguaglianza tra uomini e donne. Fantastico! Esclamo: "Ce l´abbiamo fatta!" (...)
«Dove zoppichiamo ancora è nel nostro rapporto nei confronti della globalizzazione, nella comprensione del mondo odierno. Spesso si resta completamente incollati a categorie politiche superate: capitalismo contro socialismo, bene contro male, Stato contro mercato, mercato contro Stato. Da questo punto di vista siamo dunque autorizzati a chiederci se ci sia effettivamente stato un cambiamento d´epoca. Poiché politicamente, da un versante come dall´altro, siamo rimasti invischiati dove eravamo».
Jean Viard: «La domanda da porsi è la seguente: in un mondo simile, come associarci e diventare coesi pur mantenendo ciascuno le proprie caratteristiche? La grande angoscia della destra - che cresce ovunque, con Bush, con Sarkozy - è la paura che questo mondo iper-individualista non sia governato, non sia governabile.
«La destra sostiene che per riuscire a governarlo occorre far ritorno a strutture forti, e così questa grande onda conservatrice cerca di rinnovare la politica a partire dagli organici di ieri. Mi sembra che è questo ciò che dobbiamo desumere dagli attacchi al ‘68 di Nicolas Sarkozy. Non si incontra difficoltà forse a dire come aggregarsi, come fare politica, con questo tipo di valori, o a rispondere all´onda conservatrice che sostiene che non resta che ritornare a fare ciò che si faceva prima, riprendere l´autorità... stavo quasi per dire far tornare le donne in casa e i padroni in fabbrica?».
Daniel Cohn-Bendit: «Si ripresenta oggi un vecchio dibattito, che ebbe inizio con le aspirazioni all´autogestione e fu ripreso poi dal movimento alternativo degli anni Settanta: come creare spazi di azione, di gestione, di lavoro, di vita collettiva che si poggino sull´autonomia degli individui e sulla loro libertà? (...) Creare un "noi" attorno a un "io" molto forte».
Stéphane Paoli: « Ma esiste! E´ orizzontale e si chiama Internet».
Jean Viard: « Internet, non è la stessa cosa. Non è una politica strutturata».
Stéphane Paoli: « Non ancora, ma un giorno potrebbe diventarlo».
Daniel Cohn-Bendit: «Internet può essere un mezzo per divulgare il "noi". La base della piccola comunità simpatizzante. Una parte del successo di Ségolène Royal, al di là di tutte le sue mancanze e dei suoi errori - deve averne sicuramente fatti, altrimenti avrebbe vinto - dipende da questa idea di partecipazione alla politica, in particolare attraverso la Rete che crea un "noi" nel quale tutti sono intelligenti e al quale tutti prendono parte (...)».
Stéphane Paoli: «Vorresti veicolare il Maggio ‘68, metterlo in Internet per far sì che quel "noi" là prenda corpo in quello spazio là?».
Daniel Cohn-Bendit: «Credo che questo dibattito abbia luogo e in particolare abbia avuto luogo dopo l´intervento di Sarkozy. Due incomprensioni di primo piano del ‘68 meritano tutta la nostra attenzione. La prima è quella di Sarkozy e della destra per i quali tutti i mali della Francia odierna discendono dal ‘68: l´individualismo, le clausole di buonuscita, la disintegrazione della società, le disfunzioni della scuola, la rivolta delle banlieue. Per aver scritto sui muri "Vietato vietare" la generazione del ‘68 sarebbe responsabile di tutto ciò che va male in Francia. Chiaramente vi è una mancanza di comprensione totale, tanto della società odierna quanto del tipo di società che si mise in movimento nel 1968 e che continuò a muoversi negli anni Settanta. Ciò non toglie, ovviamente che questo non preclude che il movimento abbia potuto fare o dire cose orribili, stupide o idiote. Ma non è questo il punto.
«La seconda incomprensione risiede nella favola dell´estrema sinistra per la quale che il ‘68 coroni il pieno successo resta un punto all´ordine del giorno. Basterebbe dunque ricominciare ogni cosa da capo: il movimento, lo sciopero generale e così via per riuscire finalmente a conquistare il potere. Per Sarkozy il ‘68 è fallito perché fu terribile per la società. Per gli altri il ‘68 è fallito perché la conquista del potere non c´è stata. Ma il Sessantotto è tutto tranne che questo!
«Quando parlo di ribellione, è precisamente per dire che prima di tutto il ‘68 ha innescato un processo di trasformazione nella società, o per meglio dire forse ha semplicemente accelerato un processo già iniziato e che si è protratto in seguito. In secondo luogo, il ‘68 è rimasto al contempo invischiato nelle contraddizioni di questo processo. A quaranta anni di distanza ci si rende conto che l´interrogativo è sempre il medesimo: come potrebbe essere una nuova politica? Alain Touraine ha appena pubblicato un libro che si intitola Penser autrement, pensare in altro modo. (...) Il pensiero di Touraine si colloca nel presente, superando l´immobilismo con una riflessione che si confina nei miti sessantottardi. Al contrario di Alain Badiou, che riduce Sarkozy alla Francia di Vichy e divaga al punto di arrivare a un accecamento colpevole quando tenta di salvare l´idea del comunismo facendo riferimento al ‘68. Come sempre, i marxisti sono incapaci di superare l´hegelismo primario che hanno ereditato e che santificano.
«Ripetono senza interruzione sempre la stessa cosa e il loro marxismo storico si riduce a un determinismo ideologico conservatore. E così che dimenticano che per l´orizzonte del passato, il comunismo non è un miraggio, bensì una follia devastatrice. (...) Il 22 marzo 1968 Jean Baudrillard, allora assistente professore a Nanterre, mi spedì una lettera che sventuratamente ho poi perso. In quella lettera - e mi emoziono sempre, ripensadoci - mi diceva: «Dany, sei straordinario... è incredibile quello che sei riuscito a fare oggi in questo dibattito.. Ma soprattutto, mi raccomando, non lasciarti irreggimentare da tutte queste forze di sinistra che ti condurranno a distruggere tutto ciò che oggi può nascere da questa formidabile novità che siete in procinto di creare». Aveva ragione. Oggi, a quaranta anni di distanza, le sue parole sono ancora vere come non mai.
Copyright, Editions de l´Aube



La Repubblica 02.04.2008
Edoardo Boncinelli, genetista e biologo molecolare
"Camperemo fino a 120 anni e con la genetica anche di più"

Edoardo Boncinelli, genetista, biologo molecolare e a lungo impegnato nella ricerca clinica sulla farmacologia molecolare e i processi d´invecchiamento all´ospedale San Raffaele di Milano, è tra gli scienziati più ottimisti sul possibile allungamento della vita umana: a 120 anni in virtù della medicina, scriveva nel suo saggio Verso l´immortalità? (Cortina), e a 200-300 quando scenderà in campo la manipolazione genetica.
La sorprende, professore, che dei 7 anni di vita media in più conquistati in 30 anni, si calcola che quasi sei siano dovuti ai progressi nella cura del cuore?
«Non mi sorprende se a cuore sostituiamo apparato cardiovascolare. Pensi a quante persone conosce che dopo i 60 anni prendono una pillola per l´ipertensione: è il più comune degli allunga-vita».
Nel calcolo della vita media entrano tutti i casi di morte, incidenti compresi. La vita si allunga più per le cure o per la prevenzione dei rischi?
«La cosa sorprendente, in realtà, è che sul piano statistico l´allungamento della vita il rischio di incidente lo aumenta: più si vive e più si è esposti agli incidenti. Quindi in teoria l´allungamento della vita media ne dovrebbe risultare rallentato. E invece i progressi della medicina sono tali che l´aumento medio non flette».
Lei prevede addirittura che con l´ingegneria genetica si impennerà...
«In campo biologico, tra gli addetti ai lavori, ne sono tutti convinti. Ma ci vorranno ancora molti anni per averne l´evidenza clinica».
(m.b.)


La Repubblica 02.04.2008

L´ultimo mistero di Stonehenge
È cominciata pochi giorni fa la campagna, dopo cinquant´anni, nel sito dell´Inghilterra meridionale L´obiettivo, oltre a una datazione più certa, è capire se il monumento era la "Lourdes della preistoria"
di Cinzia Dal Maso

Lunedì scorso, ore otto di mattina. Parte il primo colpo di piccone. Il primo che viola il "sacro" suolo di Stonehenge dopo quasi cinquant´anni. Nessuno, dal 1964 a oggi, ha mai potuto toccare la terra del circolo di pietre più famoso al mondo, nell´Inghilterra meridionale, vicino a Salisbury. Icona del nostro immaginario. Simbolo della preistoria europea. Mito e mistero sin dal lontano Medioevo. E ora al centro di una suggestiva ipotesi che va verificata proprio in questi scavi: Stohenenge era la Lourdes della preistoria, la meta di continui pellegrinaggi.
Finora il monumento non è mai stato indagato con gli strumenti della scienza e della tecnologia moderne. Persino le sue datazioni sono incerte, visto che gli strumenti adeguati sono stati messi a punto solo negli ultimi decenni. E infatti le date esatte sono uno degli obiettivi principali dei due archeologi che hanno ottenuto dall´English Heritage lo storico permesso di scavo e la sponsorizzazione della Bbc. Tim Darvill della Bournemouth University e Geoff Wainwright presidente della Society of Antiquaries (ma già archeologo capo dell´English Heritage) indagano Stonehenge e la preistoria britannica da una vita. Furono loro ad annunciare al mondo nel 2005 di aver individuato la cava tra i monti del Galles dove i costruttori di Stonehenge presero le famose "pietre blu", 80 massi di dolerite (roccia vulcanica di colore bluastro e dai riflessi bianchi) alti quasi due metri e pesanti fino a quattro tonnellate ciascuno. Massi trascinati per terra, mare e fiume per oltre 350 chilometri fino a Stonehenge che a quel tempo, più o meno verso il 2600 a. C., era già un circolo sacro ma fatto solo di pali di legno. Un´opera immensa, ciclopica. Perché tanta fatica? Quando fu intrapresa? E quanto durò questo primo monumento, visto che a un certo punto le pietre blu furono spostate per creare, assieme alle enormi pietre di sarsen (pietre calcaree di 25 tonnellate ciascuna) la Stonehenge che oggi conosciamo? Sono queste le domande a cui Darvill e Wainwright contano di trovare risposta. E contano soprattutto di trovare con ciò una conferma, la prova del nove della loro ipotesi rivoluzionaria: Stonehenge non era un osservatorio astronomico né un centro di cerimonie, come si è sempre creduto, ma un luogo di guarigione meta di pellegrinaggi.
Gli indizi, a detta di Darvill e Wainwright, sono molti. Innanzitutto le "pietre blu", pietre sacre nella fantasia popolare: fino ai primi del Novecento la gente ne staccava piccoli pezzi per fare talismani. Forse perché le Prescelly Mountains del Galles, origine delle pietre secondo gli archeologi, sono ricche di sorgenti sacre dalle proverbiali qualità curative. Qualità acquisite per trasposizione anche dalle pietre. Altro indizio sono le molte tombe trovate attorno a Stonehenge, per lo più di gente venuta da lontano (alcuni proprio dal Galles, mentre il cosiddetto "arciere di Amesbury" veniva addirittura dalle Alpi) e con evidenti tracce di traumi nelle ossa: forse affrontavano il lungo viaggio nella speranza di una guarigione. Forse quel viaggio era per loro l´ultima speranza in una vita di sofferenze. Forse. È un´ipotesi che, come le molte altre su Stonehenge, non convince tutta la comunità scientifica. Mancano prove certe, e Darvill e Wainwright contano di trovarle nelle sacre e misteriose pietre blu. «Perché sono la vera chiave per capire il significato e lo scopo di Stonehenge», ha dichiarato Simon Thurley dell´English Heritage. «Il loro arrivo ha segnato una svolta nella sua storia». Dunque lo scavo, che durerà due settimane, si concentrerà nelle fosse dove le pietre blu furono collocate in origine, alla ricerca di materiali organici che consentano la datazione con il metodo del carbonio 14, e di qualsiasi oggetto o strumento che possa dire qualcosa di chi per primo ha eretto quelle pietre. I due archeologi sono ottimisti. «Abbiamo ricevuto persino la visita dei Druidi (gli "eredi spirituali" dei sacerdoti celtici)», ha raccontato Geoff Wainwright. «Hanno fatto una cerimonia, un giro attorno al circolo di pietre, e ci hanno augurato buona fortuna. We are ok now, abbiamo proprio tutto».




La Repubblica 02.04.2008
La poligamia nascosta tra gli islamici d´Italia
Le famiglie multiple sono in continuo aumento, con il boom degli immigrati i casi sono 15-20mila. Ecco le loro storie
di Francesca Caferri


Per Baba Kar è la cosa più naturale del mondo: «Ho due mogli. E vivo con loro in Italia. Lo so che qui è proibito dalla legge, ma questo riguarda voi italiani, non noi: io sono musulmano e il Corano dice che posso avere fino a quattro mogli. Seguo la mia religione. Del resto con lo Stato italiano non ho mai avuto nessun problema». Senegalese, 33 anni, in Italia da 9, da 7 ben radicato a Brescia, il signor Kar è la punta di un iceberg dalle dimensioni misteriose, quello dei poligami italiani. Musulmani - immigrati, ma anche italiani convertiti - che usufruiscono della possibilità, prevista dal Corano, per un uomo di avere fino a quattro spose.
Il fenomeno è, per definizione, scivoloso: pochi immigrati, e ancor meno italiani, ammettono pubblicamente di aver contratto più di un matrimonio.
È illegale, ma anche da noi è una realtà Non esistono cifre ufficiali, però gli studiosi di Islam ritengono che esistano almeno 15-20 mila casi. I musulmani si dividono: una violazione dei diritti delle donne o soltanto una tradizione? Ecco cosa dicono mariti e mogli protagonisti di matrimoni multipli nel nostro Paese Suad Sbai: "Gli uomini picchiano le mogli che non vogliono accettare una nuova sposa" Najat, Roma "Violenza, sangue e inganno: questa è la storia che ho vissuto io" Baba Kar, Brescia "Dove sono nato è una consuetudine, non ci rinuncio perché vivo qui"
In assenza di statistiche, qualcuno parla di poche centinaia di casi, altri di decine di migliaia: cifre non confermate né confermabili. Quel che è certo però, è che il fenomeno esiste e che negli ultimi anni è aumentato, proporzionalmente all´aumento del numero degli immigrati musulmani che hanno scelto di risiedere nel nostro paese: oggi, secondo la Caritas, sono poco più di 1.200.000 i musulmani che vivono in Italia.
A partire da febbraio in Gran Bretagna lo stato ha di fatto accettato la poligamia, consentendo ai mariti che la praticano di richiedere un assegno familiare per ogni moglie "aggiuntiva". In Italia di questo non si parla, ma basta la naturalezza con cui il signor Kar parla per capire che il suo non è un caso isolato: «Moltissimi miei amici hanno più mogli qui in Italia. Non solo senegalesi: marocchini, egiziani, tanti davvero».
Kar è venuto in Italia da solo lasciando le mogli, che aveva già sposato, in Senegal: dopo un paio di anni ha fatto arrivare con il ricongiungimento familiare Fadu, 25 anni, insieme al figlio che allora ne aveva tre. Poi con permesso di lavoro è arrivata Nkeir, 22 anni, la seconda sposa. Le due donne, insieme al piccolo Mamadou, dividono con il marito un appartamento di una sessantina di metri quadri non lontano dal centro di Brescia. Un angolo di Senegal lontano migliaia di chilometri da Dakar: due stanze, in cui Kar si alterna ogni due notti, un salottino, un bagno e una piccola cucina. Alle pareti, ritratti di leader religiosi e foto di famiglia, sullo schermo della televisione i canali senegalesi. Quando passa un video musicale che racconta la lite fra una prima e una seconda moglie, Fadu ride: «Noi non abbiamo nessun problema. Certo, all´inizio quando lui si è risposato ero gelosa: ma poi è passato. Da noi si usa così».
In Italia no, ma per lo Stato - che pure considera la poligamia reato - Kar non è fuorilegge, perché solo il primo dei suoi matrimoni è registrato. Ma anche se lo fossero stati entrambi non ci sarebbe stata troppa differenza: nel 2003 il tribunale di Bologna riconobbe a due figli dello stesso padre il diritto di far arrivare in Italia le rispettive madri, prima e seconda moglie dell´uomo in questione. In questo caso, argomentò il giudice, il reato non sussiste, essendo entrambe le nozze state contratte in un paese che le consente. Allora la sentenza fece scandalo: ammettendo la presenza contemporanea di due mogli per uno stesso marito, non legittimava ma riconosceva come dato di fatto in Italia un uso che è sì vecchio di secoli, ma contro il quale negli ultimi decenni le donne nel mondo musulmano si sono battute, fino ad ottenerne la limitazione e, in molti casi, la scomparsa.
Proibita da decenni in Tunisia e in Turchia, praticamente annullata dal nuovo codice della famiglia marocchino, severamente regolamentata in molti altri paesi, nel mondo arabo la poligamia riguarda, secondo gli esperti, non più del 2 per cento delle famiglie. E in Italia? C´è chi parla di 15-20mila casi, ma il sociologo Stefano Allievi, uno dei massimi esperti dell´Islam italiano, non è d´accordo: «Dare un numero preciso è impossibile - dice - ma è un fenomeno statisticamente irrilevante: riguarda poche famiglie, all´interno delle quali spesso la presenza di più mogli non crea alcun problema: perché è normale nella cultura di provenienza o perché è accettata anche da donne italiane convertite». Opposta la visione di Suad Sbai, presidentessa dell´associazione donne marocchine in Italia e candidata con il centrodestra alle elezioni: «Ci sono migliaia di casi di poligamia - dice - e nella maggior parte le donne subiscono abusi. I mariti picchiano le mogli che non vogliono accettare una nuova sposa o dopo qualche anno abbandonano la seconda: e la poveretta si ritrova che non può chiedere il divorzio perché per lo Stato non si è mai sposata, quindi non ha alimenti né garanzie». La Sbai racconta di matrimoni celebrati - secondo l´uso musulmano per il quale le nozze sono un contratto civile, non un sacramento religioso - nei consolati dei paesi di origine o, in assenza di funzionari civili, di fronte a imam compiacenti, che non si pongono il problema di scavalcare, nei fatti, la legge italiana.
A conferma delle sue parole cita il caso della signora Najat: marocchina, sposata nell´88 in Italia con un egiziano, sei anni fa si è trovata in casa la seconda moglie. Anche lei marocchina, anche lei sposata in Italia. «Per risposarsi mio marito aveva falsificato la lettera in cui avrei dovuto dare il mio consenso - racconta Najat - abbiamo vissuto per anni in 45 metri quadri: due famiglie. Io e i miei quattro figli, lei e il suo: io non volevo accettare e per questo venivo picchiata, continuamente». Dopo anni di tensioni, l´uomo è fuggito in Egitto e ha portato con sé con i due figli minori di Najat, oggi 8 e 12 anni, e una volta lì l´ha denunciata per abbandono del tetto coniugale. «Non posso andare a prenderli, perché mi metterebbero in carcere. Questa è la poligamia», dice lei con le lacrime agli occhi. Accanto a lei siede Zohra, marocchina: quando si è sposata il marito, egiziano, le aveva assicurato di essere celibe. Dopo un anno ha scoperto che c´era una prima moglie e che, insieme al figlio, stava per arrivare in Italia. Zohra si è opposta e ed è stata massacrata di botte. Per ritrovare la serenità è dovuta fuggire di casa. «Per queste donne non c´è tutela - si infervora Sbai - serve una legge che ragioni in termini di territorio e dica che chi sta in Italia, anche se immigrato, può avere una moglie sola». «Il fenomeno ha molte facce - sostiene però Allievi - È vero, purtroppo capita che chi ha una moglie nel paese d´origine ne prenda un´altra qui e che spesso la seconda sia inconsapevole. Ma c´è anche chi arriva in Italia ed è già sposato pacificamente due volte. E ci sono i casi in cui le seconde mogli, anche italiane, sono consapevoli della situazione e non hanno problemi ad accettarla. Non esiste una soluzione che vada bene per tutti».
«Indubbiamente ci troviamo di fronte a un problema che finora il diritto europeo non è riuscito ad risolvere - dice Roberta Aluffi, docente di Diritto islamico all´università di Torino - la poligamia è contraria al nostro concetto di uguaglianza, ma è vero anche che occorre rispettare una donna che ha contratto matrimonio secondo la religione e la legge del suo paese e che non può essere spogliata di ogni diritto una volta arrivata qui». Il Corano stabilisce che un uomo possa avere fino a quattro mogli, ma la condizione imprescindibile è che riservi a tutte lo stesso trattamento, in termini di tempo, attenzioni e denaro. Formalmente, argomenta Aluffi, già il fatto che lo Stato italiano riconosca solo a una delle spose il titolo di moglie ufficiale non permette di rispettare il principio dell´uguaglianza. In queste condizioni, argomenta come Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana in Italia, «secondo le stesse leggi dell´Islam la poligamia non è consentita».
In materia finora ogni paese europeo ha scelto una sua strada: l´apertura della Gran Bretagna ha fatto scalpore, ma anche Germania e Belgio garantiscono benefici a chi ha più mogli. In Italia in sede ufficiale nessun rappresentante delle comunità nella Consulta islamica ha messo sul tavolo la questione del riconoscimento delle unioni poligamiche, anche se a più riprese membri dell´Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d´Italia) hanno chiesto il riconoscimento della possibilità per un musulmano di contrarre matrimonio in moschea senza che questo abbia alcun valore giuridico. Ma negli ultimi tempi sulla questione c´è molta prudenza: «Nell´Islam la poligamia è una possibilità e non un obbligo - spiega Noureddine Chemmaoui, responsabile del dipartimento Affari sociali dell´Ucoii - noi non la incoraggiamo e anzi cerchiamo di controllarla, perché siamo in Italia e qui la legge non la prevede. In moschea celebriamo nozze solo per chi porta un documento che provi che non è già sposato».
Le polemiche degli ultimi tempi non hanno turbato la vita di Mohammed Bikri: marocchino, in Italia dal 1988, il signor Bikri è uno dei volti del successo degli immigrati nel nostro paese. In vent´anni ha messo su una piccola attività e oggi è il leader dei marocchini in Sardegna: aiuta i suoi connazionali ad integrarsi. Durante tutto il percorso le sue due mogli, sposate in Marocco, gli sono state accanto: per anni lui, loro e i quattro figli (due ciascuna) hanno vissuto in un´unica casa. Oggi ha due appartamenti in villaggi vicini e si divide fra essi: «I ragazzi vanno e vengono come vogliono - racconta - e le mie mogli si vogliono bene come sorelle. Ho avuto qualche problema all´inizio, ma ora va tutto bene, quando ci ritroviamo tutti siamo una grande famiglia». Allargata. Una delle tante nell´Italia del 2008.

Il Corriere della Sera 02.04.2008
Il film Le anticipazioni della Abc sul controverso «W»: in una scena il futuro presidente, ubriaco, insulta il padre
George secondo Stone: alcol, Dio e l'ossessione per Saddam
di Ennio Caretto

Oliver Stone lo definisce una «biopic», un film biografico su George W. Bush, politico e umano al tempo stesso. Ma dalle anticipazioni della tv Abc, il suo film sul presidente, intitolato semplicemente «W», potrebbe essere devastante, come lo fu quello fu Richard Nixon. Il controverso regista traccia un ritratto polemico di Bush, prima di un alcolizzato in continua competizione con il padre, poi di un leader deciso a distruggere il nemico che aveva tentato di assassinarglielo, Saddam Hussein. E pur evidenziandone il tormento interiore e la religiosità, gli attribuisce un linguaggio scurrile. In uno dei momenti più drammatici della vigilia della guerra dello Iraq, quando il presidente francese Jacques Chirac chiede una proroga di un mese per gli ispettori dell'Onu, Bush non ci vede più: «Trenta giorni! — urla nel film —. Mi piacerebbe infilare un intero piatto di patatine della libertà in gola a quel viscido pezzo di m...!». Patatine della libertà fu il nome dato da Bush alle «french fries», le patatine fritte, in spregio a Chirac.
«W» ripercorre la vita del presidente, dal fermo di polizia all'università di Yale per avere abbattuto un palo della porta del campo di football alle ubriacature continue a base di vodka e succo d'arancia coi compagni. In uno degli episodi familiari più avvilenti, Bush padre richiama il figlio ormai adulto, che ebbro al volante ha investito un deposito di rifiuti: «Rivolgiti all'Anonima alcolici!». Bush Jr. lo insulta, lo sfida a fare pugni: «Tu, mister perfezione! Tu mister eroe di guerra! Tu mister va a ....!».
Per Oliver Stone, che ha scritto il copione assieme a Stanley Wieser, il fantasma paterno è la chiave di lettura di Bush figlio, che non si sente alla sua altezza, non vi si sentirà neppure dopo che il predicatore Billy Graham lo avrà liberato dall'alcool e reso un «cristiano rinato» in presunto contatto diretto con Dio. Persino la madre Barbara continuerà a dubitare di lui, gli chiederà di rinviare la sua candidatura a governatore del Texas: «Sei una linguaccia e hai scatti d'ira incontrollabili, non ti eleggeranno».
Nel film, la guerra dell'Iraq è un regolamento di conti di «W» con Saddam Hussein. Il ministro della difesa Donald Rumsfeld obbietta che «la scimmia ammaestrata che ci ha portato l'inferno è Bin Laden, non Saddam», e il presidente s'infuria: «Tu non attenti alla vita di un Bush e poi te ne vanti. Hai capito?». Secondo Stone, il presidente è convinto che il padre sia stato sconfitto alle elezioni del '92 da Bill Clinton perché non ha eliminato il raìs: «Se tu lo avessi fatto, saresti stato rieletto », dice a Bush sr. Quando l'Onu tergiversa, si rivolge al premier inglese Blair: «Mettiamo le insegne dell'Onu su un caccia, e uccidiamo Saddam».
Ma quando annuncia la guerra al principe saudita Bandar, s'interrompe per guardare una partita di football in tv, e quasi soffoca ingoiando una ciambella. Nel corso del conflitto la sua condotta si fa bizzarra. Confida al vicepresidente Cheney di correre più in fretta facendo jogging «per dare un contributo personale alla vittoria». Ari Fleischer, l'ex portavoce di Bush, ha protestato che «è tutto inventato, non ho mai sentito il presidente dire volgarità, e il suo rapporto col padre è molto stretto». «W», che sarà interpretato dall'attore Josh Brolin e da Elizabeth Banks nella parte della first lady Laura, si chiude con Bush che sogna di giocare a baseball con i Rangers: impugna il bastone, guarda al cielo, ma non c'è la palla. Forse è una metafora per una presidenza andata a male, «per il buio che mi segue» come disse a Billy Graham. Il candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain può solo augurarsi che Stone non distribuisca il film prima delle elezioni di novembre.


Il Corriere della Sera 02.04.2008
Ricerca Gli scienziati di Newcastle hanno affermato di essere riusciti nell'operazione. La sopravvivenza è stata di soli tre giorni
Annuncio in Inghilterra: creati gli embrioni chimera
di Mario Pappagallo

Gli embrioni-chimera umani sono una realtà. Non è un pesce d'aprile. L'autorizzazione dalle autorità di ricerca e bioetiche britanniche era arrivata a gennaio di quest'anno. A tre centri: l'università di Newcastle, il centro di Edimburgo dove lavora il papà della pecora Dolly (il primo animale clonato) e al King's College di Londra. Ieri, i ricercatori di Newcastle hanno annunciato alla Bbc di essere riusciti nell'operazione.
Almeno in parte. Gli embrioni sono sopravvissuti tre giorni. Dovrebbero arrivare almeno a sei per avere cellule staminali utili per studiare l'evoluzione di malattie degenerative come il diabete, il Parkinson, l'Alzheimer. E per verificare poi come bloccarle o come farle regredire del tutto. Insomma, come «ordinare » alle cellule adulte di ringiovanire.
Tra un mese il Parlamento dovrà votare una legge per consacrare queste ricerche. Ed è battaglia. La chiesa cattolica, con l'arcivescovo Keith O'Brien, tuona contro queste «sperimentazioni Frankenstein », contro queste «manipolazioni innaturali». Al contrario, le associazioni dei malati ritengono «vitali» questi studi: «Servono per la comprensione delle malattie e per arrivare finalmente a curarle ». Cosa impossibile da fare usando uova umane, data la scarsità delle donazioni. «Questo sì che non sarebbe etico», sentenzia Stephen Minger, teorico degli embrioni chimera che lui chiama interspecie o Ad mixed.
Al microscopio gli agglomerati di cellule Ad mixed sono simili agli altri embrioni. Sono generati iniettando il Dna di cellule umane adulte della pelle in uova di mucca, «ripulite» del loro materiale genetico. In questi ibridi, assicurano gli scienziati, non c'è traccia di Dna bovino.
L'americano Minger, 52 anni, dirige uno dei laboratori del Wolfson Centre for Age-Related Disease, al King's College di Londra. E' stato battuto sul tempo da Newcastle. «Però — spiega — bisogna arrivare a 14 giorni di vita per avere cellule "matrice" utili a studiare le malattie». Per la clonazione di cellule a scopo terapeutico. «Andare oltre i 14 giorni non interessa proprio». Una sfida «eticamente corretta», ribadisce. Ma non sono «chimere» innaturali? «No, la cellula uovo di mucca è usata solo come involucro "fertilizzante" per la cellula umana completa. Una scarica elettrica dà l'input alla trasformazione: dall'adulta ecco due cellule di embrione che iniziano a raddoppiarsi ». John Burn che guida i ricercatori di Newcastle definisce questi studi «eticamente in regola». E ritiene questi primi successi un fondamentale passo avanti. «Su che cosa accade nell'embrione prima e nel feto poi non si sa nulla — concorda Minger —. Dai 6 giorni ai 6 mesi. Vogliamo sapere come si differenziano cellule in apparenza tutte uguali, tutte predisposte a tutto, ma che in una ma-lattia genetica a un certo punto fanno un'altra cosa».


Il Corriere della Sera 02.04.2008
Antichità Maurizio Bettini ritrova suoni e significati perduti
Quando le voci animali ispiravano agli uomini musica, favole e poesie
di Eva Cantarella

Anche le voci hanno una storia. Una storia e un'antropologia. Ce lo ricorda, in un libro affascinante, Maurizio Bettini, uno degli studiosi più interessanti e più originali dell'antichità classica, che da anni indaga aspetti e vicende del mondo antico con gli strumenti di una disciplina, l'antropologia storica, la cui presenza nelle università italiane è legata alla sua infaticabile attività. A Bettini si deve infatti, nel 1986, la fondazione dell'associazione Antropologia del mondo antico, e del Centro interdipartimentale di studi antropologici sulla cultura antica, sempre da lui fondato presso l'Università di Siena. Ed ora, grazie a lui, ecco un nuovo, bellissimo libro, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, nato da un'idea che solo lui poteva avere: quello di ricostruire, all'interno della fonosfera antica, i suoni prodotti dagli animali. I rumori in cui viviamo immersi oggi (clacson di automobili, rombo di aerei, squilli di cellulari) allora non esistevano, ma esistevano suoni che oggi sono andati perduti: il cigolio dei carri, i colpi di martello di fabbri, stagnai, maniscalchi e carpentieri, il rumore delle macine dei mugnai... e, all'interno di questo mondo sonoro, le voci degli animali. Come recuperarle? Come sempre, cercandole nei testi, unico strumento per ricostruire l'immagine mentale dei suoni percepiti dai nostri antenati.
Parole per suoni, dunque. Molte, moltissime parole: del bue è proprio il mugire, della pecora il balare, dei cavalli l'hinnire, della gallina il pipare. In un testo tramandatoci sotto il nome di Svetonio leggiamo del rancare delle tigri, del mugire dei buoi, del grunnire dei porci, del barrire degli elefanti, del coaxare delle rane, e via dicendo. Una vera e propria enciclopedia, il cui ordine, osserva Bettini, non è legato alle caratteristiche zoologiche, ma al modo in cui gli animali venivano culturalmente costruiti in quel mondo.
Le voci degli animali, infatti vengono sfruttate simbolicamente, come la loro forma, colore e comportamento. Nascono così proverbi e modi di dire: «tanto va la gatta al lardo», «furbo come la volpe». Nascono favole: Il lupo e l'agnello, La volpe e l'uva. Nascono poesie: come dimenticare il cosiddetto «giambo sulle donne», in cui Semonide classifica le donne secondo i caratteri degli animali cui somigliano? La donna-scrofa non si lava mai, indossa abiti sporchissimi e ingrassa, rotolandosi nel letame; la donna-volpe sa tutto, controlla tutto, ma si adegua agli eventi, e vi si adatta; la donna- cagna vagola per la casa latrando, non tace neppure se la bastoni; l'asina invece, paziente e lavoratrice, puoi bastonarla e non protesta...
Ma torniamo alle voci: tante e diverse, esattamente come le lingue umane. Ed esattamente come le lingue, originariamente tutte uguali. Un tempo infatti, racconta Filone di Alessandria, gli animali avevano tutti la stessa voce. Ma un giorno, perso ogni senso della misura, chiesero l'immortalità. E furono puniti: da quel momento cominciarono a parlare in modo diverso, ogni specie a modo suo: superfluo segnalare il parallelo con il racconto di Babele.
Tante lingue, dunque, all'interno delle quali Bettini si sofferma, in particolare, su quella degli uccelli e la indaga seguendo diverse strade: quella, già segnalata, della capacità delle loro voci di veicolare significati simbolici e culturali; quella, non meno affascinante, della riarticolazione sonora della loro voce, per far pronunziar loro brevi messaggi in lingua umana: a partire da Alcmane (che affermava di aver trovato la propria poesia rielaborando il canto delle pernici) si arriva, per citare un celebre caso, alla riarticolazione del verso della gallina in Giovanni Pascoli, nella poesia Valentino: «le galline cantavano, Un cocco! / ecco ecco un cocco un cocco per te ». E poi, ancora, i racconti mitologici, in cui si trovano animali che possiedono una compiuta capacità linguistica. E per finire la divinazione: trasformato in «segni», il canto degli uccelli attribuisce loro la capacità di predire il futuro e di dare ordini. Erano animali autorevoli gli uccelli, nell'antichità. Non a caso Aristofane, nella commedia che da loro prende il nome, immagina che, aiutando gli ateniesi disgustati delle condizioni di vita in patria a fondare una nuova città fra cielo e terra, essi possano riconquistare l'antica signoria, usurpata dagli dei. Nell'impossibilità di rendere conto della ricchezza di questo libro, per segnalarne la rilevanza basterà ricordare, concludendo, che grazie a esso l'antropologia delle antiche voci animali diventa antropologia della cultura classica: la trascrizione delle loro voci ci consente di vedere gli animali come li vedevano gli antichi.



Il Corriere della Sera 02.04.2008
Scenari Giovanni Ricci ricostruisce ipotesi e trucchi legati al «pericolo turco» dopo la presa di Costantinopoli
La storia fatta con i travestimenti
Schiave cristiane velate, finti ambasciatori, spade dell'Islam posticce
di Aurelio Lepre

Nel 1453 Costantinopoli fu conquistata dai turchi, che si aprirono così la strada per dilagare nei Balcani. «E se, dopo Costantinopoli, i turchi avessero invaso anche l'Italia?», si chiede Giovanni Ricci nel suo ultimo saggio I turchi alle porte (Il Mulino, pp. 177, e 13,50), in libreria da domani. Ed eccoci trasportati in piena storia controfattuale, nel regno dell'Ucronia, che «rivela le pieghe nascoste del tempo reale, i casi fortuiti e le microragioni accessorie capaci di produrre conseguenze grandiose».
Non si tratta di abbandonarsi al gioco delle ipotesi, ma di ricordare che siamo, come dice benissimo Ricci, «il prodotto di un futuro che facilmente avrebbe potuto non esserci», circondati «da possibilità rimaste intanto inattuate ».
Leggendo queste pagine mi è tornato alla mente il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges — biforcazione nel tempo, non nello spazio —, metafora di un romanzo caotico, che può essere oggi anche la metafora della storia.
Oggi, molto più che in passato. Il secolo XX ha distrutto tutte le certezze degli storici, le hegeliane, le marxiste, le illuministiche e anche quella cristiana del tempo lineare.
Non scorre più verso un approdo sicuro (la resurrezione o il progresso che sia), ma si riavvolge su se stesso e qualche sentinella impaurita, dall'alto di una torre costiera di avvistamento, può credere di vedere spuntare dalla nebbia del passato la flotta del grande ammiraglio Gedük Ahmed, pascià di Valona, che il 28 luglio del 1480 sbarcò a Otranto e, dopo un assedio di quindici giorni, prese la città e «uccise tutti i maschi, eccetto i fanciulli, li quali servò per suo servizio con le donne».
L'occupazione turca fu raccontata molti anni dopo a Leandro Alberti, geografo e storico del Cinquecento, da un misterioso testimone. C'è da fidarsi di testimoni che rievocano a distanza di diversi decenni i fatti a cui hanno assistito? Ricci non se ne fida e, per ricostruire gli avvenimenti di Otranto, indaga sull'indagine di Alberti. Non è facile. Anche se il dominio turco durò solo alcuni mesi, lasciò tracce profonde nei sopravvissuti, li spinse a fingere o a esagerare. Su chi sopravvive a una terribile esperienza gravano sempre sospetti. Soprattutto sulle donne.
Maria Pizzuto era stata fatta schiava a dieci anni, era stata poi riscattata e si era sposata «molto onoratamente». Come per le bambine che, nei film western, vengono rapite dagli indiani e tornano alla loro città solo dopo alcuni anni, anche allora il matrimonio poteva lavare i possibili oltraggi subiti durante la schiavitù. Ma si trattava proprio di oltraggi? Le donne cristiane che a Otranto, dopo la resa dei musulmani, tentarono, travestite da turche, d'imbarcarsi con gli invasori che si ritiravano, lo fecero perché costrette o di loro volontà? E perché le cristiane liberate di Chio, nel 1694, invece di andare incontro ai liberatori, cercarono, anch'esse in vesti turche, asilo in una moschea? La ritirata di un esercito, nota Ricci, porta alla luce strati di realtà sommersi o contraddittori. Lo abbiamo visto anche nel XX secolo, con i travestimenti, le ipocrisie, le ambiguità rimaste sul fondo dopo il ritrarsi dell'ondata nazista.
Il tema del travestimento è anch'esso indagato a fondo da Ricci. Di per sé, è un tema affascinante, che getta un'ombra inquietante anche su ciò che sembrerebbe chiaro, come, mi sembra, volle gettarla Caravaggio sulla scena della decapitazione di Giovanni Battista, raffigurando, in un suo famoso dipinto, il carceriere in abito turco. Con un ragionamento indiziario e non probatorio, Ricci suggerisce di considerare quel tema come un avvio alla moderna identità individuale. L'esempio sul quale però più si sofferma, quello del tale vestito da turco che nel 1576 si presentò ad Alfonso II d'Este, spacciandosi per inviato del sultano Murad III e raccontando che il suo signore aveva intenzione di proclamare Alfonso «re di Gerusalemme », riguarda più un certo modo di fare politica beffandosi degli avversari che la nascita dell'identità dell'Io, visto che quel tale potrebbe essere stato mandato da Francesco I de' Medici, all'insaputa dell'ambasciatore toscano, per prendersi gioco di Alfonso. Politica o commedia? Il sospetto dell'ambasciatore che il falso turco fosse, in realtà, napoletano, ci fa pensare, irresistibilmente, a Totò.
Ma forse anche nel Cinquecento le due cose erano spesso indistinguibili e, del resto, l'immagine di un duca di Ferrara che crede di poter diventare re di Gerusalemme non è molto diversa da quella di Mussolini che sguaina la spada dell'Islam di fronte a schiere di cavalieri arabi osannanti.
Fondato, e attuale, mi sembra il collegamento del travestimento con la diffusione di un senso generale d'insicurezza. A volte crediamo di essere più sicuri se fingiamo di non essere quello che siamo: come in guerra la mimetizzazione aiuta la sopravvivenza, così spesso, in Occidente, diamo l'impressione di mimetizzarci per evitare che qualcuno faccia di noi un bersaglio facile.
A proposito del paragone tra gli atteggiamenti del passato e quelli odierni, all'intrigante libro di Ricci manca forse qualche pagina. C'è una forma di travestimento, la pseudorivoluzionaria, che avrebbe meritato qualche accenno in più.
Ricci ricorda l'istintivo, rabbioso rivoltoso di Bologna che nel 1508, prima di essere impiccato, dichiarò «vorria più tosto el governo del Turco che quello di preti», ma penso anche al più raziocinante pseudorivoluzionario Maurizio De Rinaldis, il seguace di Tommaso Campanella, che si proponeva «mutazione di secolo, e del Regno» con l'aiuto dei turchi, credendo che si sarebbero accontentati di «assistere nel mare, per far paura a chi lo contrastasse ». Ce ne sono molti ancor oggi come Maurizio De Rinaldis, che, per contrastare l'Occidente e gli Stati Uniti, aspettano sulla spiaggia, travestiti da kamikaze, l'arrivo dei discendenti di Gedük Ahmed. Rischiando la possibile delusione di trovarsi invece di fronte ai laici, occidentalizzati nipoti di Atatürk.

L' Unità 02.04.2008
E Bertinotti tese la mano ai «compagni socialisti»
di s.c.
«Dopo il voto apriamo un dialogo». Boselli: «Un patto andava fatto prima, tu hai scelto l’opposizione»
Marciare divisi per colpire uniti può andare bene solo fino a un certo punto, poi bisogna fare fronte comune. Ecco perché Fausto Bertinotti tende una mano ai «compagni socialisti», auspicando l’apertura di un dialogo all’indomani del voto. «La questione di una forza socialista in Italia è un problema aperto, in questa campagna non ha una risposta soddisfacente», nota il presidente della Camera nel corso di una videochat sul sito web della Sinistra arcobaleno. Da qui la proposta a tutte «le componenti socialiste che sono interessate alle sorti della sinistra italiana» di aprire un canale di comunicazione che parta dalla «vicinanza sulla laicità, sull’idea di difendere la persona da ogni forma di oscurantismo».
Al candidato premier della Sinistra arcobaleno non sfugge che con Enrico Boselli e i suoi ci sono anche elementi di diversità, in particolare sul terreno della politica economica e sociale: «I socialisti si sono andati convincendo dell’utilità di una politica sostanzialmente liberale, dell’idea della privatizzazione, che invece secondo me ha fallito». Ma Bertinotti si rende anche conto che quello che definisce il «duopolio» Pd-Pdl mette a rischio l’esistenza stessa di grandi famiglie culturali e politiche italiane. E se l’unità della sinistra cosiddetta radicale è per Bertinotti «questione di vita o di morte», le soglie di sbarramento del 4% alla Camera e dell’8% al Senato dell’attuale legge elettorale mettono i socialisti di fronte a un serio rischio di estinzione in Parlamento.
La risposta di Boselli non si fa attendere, ma contiene anche elementi critici: «Un patto in difesa della laicità va fatto, ma andrebbe fatto prima del voto», dice il candidato premier del Partito socialista. «Bertinotti, invece, scegliendo programmaticamente di stare all’opposizione, ha reso impercorribile il cammino di un accordo comune per una sinistra riformista e socialdemocratica».
Accenti polemici che al quartier generale della Sinistra arcobaleno vengono minimizzati. Un po’ perché lo stesso Boselli ammette comunque che il dialogo «resta fondamentale» perché «i diritti di libertà e di laicità chiaramente non passano il Pd di Veltroni e Di Pietro». Un po’ perché all’interno dello stesso Partito socialista c’è chi, come Lanfranco Turci, dice che al di là delle differenze tra sinistra movimentista e sinistra riformista, «è giusto tenere aperto un confronto in vista di un futuro post elettorale» in cui il punto interrogativo sarà il ruolo che giocherà il Pd.
Comunque vadano queste prove di dialogo, Bertinotti è convinto che quello dell’unità a sinistra è un «processo irreversibile», che dopo il voto di aprile bisogna aprire il processo costituente della Sinistra arcobaleno che vada ben al di là della «ipotesi federativa» di cui parla Oliviero Diliberto e che in questa fase «è meglio passare per l’opposizione, ricostruire i rapporti di forza, di partecipazione e quindi l’emozione».



martedì 1 aprile 2008

La Repubblica 1 aprile 2008
Il Pd, negli ultimi giorni di campagna elettorale, cerca lo scatto vincente
E Per il ministero dell'Economia continua il pressing su Mario Monti
Libri gratis, via le tasse universitarie
Veltroni studia la mossa pro-famiglia
di GOFFREDO DE MARCHIS


- Nei prossimi giorni Walter Veltroni presenterà la proposte del Partito democratico su sanità, giustizia (con un riferimento particolare alla certezza della pena), nuovo welfare (immaginando un patto sul potere d'acquisto). Ma lui per primo sa che nel rush finale c'è bisogno di un'iniziativa molto più forte, di un messaggio "generale, che interessi una platea di elettori la più vasta possibile". In una parola, le famiglie. E sul tavolo del candidato premier del Pd si va materializzando la parola d'ordine degli ultimi dieci giorni. Si lavora intorno al tema della formazione, quindi sul futuro. I tecnici stanno verificando la sostenibilità finanziaria di una vera rivoluzione: il taglio netto delle tasse universitarie o addirittura l'abolizione e la gratuità dei libri di testo per le scuole dell'obbligo.

È questa l'ipotesi principale nella cartella di Veltroni, il segno che può rimanere impresso sulla campagna elettorale come la proposta di abolire l'Ici lanciata da Berlusconi sul filo di lana nel 2006 che per poco non si portò via il vantaggio di Romano Prodi. Dentro il tema della formazione c'è tutto, i genitori e i figli, le nuove generazioni, le pari opportunità, un punto di vista che guarda in avanti. Domenica sera, al vertice dei fedelissimi con Goffredo Bettini, Walter Verini, Claudio Novelli e il vice Dario Franceschini, Veltroni ha sparso ottimismo a piene mani: "Sono sicuro
che alla fine vinceremo. Ce la faremo al Senato e alla Camera". Non a caso ha chiesto al costituzionalista Ceccanti e a Walter Vitali di uscire oggi sull'Unità con un fuoco di sbarramento al voto disgiunto. Eppure questa sicurezza va sorretta con proposte chiare, che arrivino a tutti.

Lo è il taglio secco delle tasse universitarie e dei costi dei libri. Ma tra gli altri progetti nelle ultime ore era spuntata anche la abolizione del bollo auto su una macchina a famiglia. Ipotesi scartata perché il Pd si presenta come un partito attento all'ambiente. L'altra strategia del loft
prevede una forte personalizzazione della battaglia. I sondaggi sono chiarissimi: il Pd soffre contro il Pdl, ma nel confronto Veltroni-Berlusconi il primo ha un buon margine di vantaggio. A questo sarebbe servito il duello televisivo con il Cavaliere: a concentrare il duello sulla persona e a polarizzare il voto, cosa che secondo gli esperti è destinata ad accadere comunque nei giorni finali. Veltroni quindi cercherà il corpo a corpo, per privilegiare la scelta tra due pretendenti a Palazzo Chigi e non tra due coalizioni.

Un candidato convinto del successo si preoccupa poco delle subordinate. Magari preferisce annunciare ai suoi interlocutori, come è successo domenica sera, che il Lazio, una delle regioni in bilico, finirà al Pd: "Rutelli e Zingaretti stanno conquistando voti anche per noi". Certo, quota 35 per cento è sempre la soglia minima negli obiettivi veltroniani. Gli consentirebbe, anche nel caso peggiore, di governare il partito e gli strascichi del dopo voto. Sapendo che qualcuno cercherà di fargliela pagare. Le insidie possono venire dal fronte dalemiano. La battuta del ministro
degli Esteri ("Lo slogan "'Si può fare' è moscio'") è stata considerata poco più di una battuta. Con qualche sospetto in più è stata letta l'intervista di Pierluigi Bersani alla Stampa.

Il titolare dell'Industria spiega che il Pd deve ancora fare il salto di qualità, che non parla davvero agli indecisi e al Nord. Ma in piena campagna elettorale Veltroni ha deciso di tirare dritto. L'uscita di Bersani non gli è piaciuta, per i modi e i tempi, ma i due si sono sentiti e l'autore delle liberalizzazioni andrà a rappresentare il partito nelle prossime trasmissioni tv. Resta un dato di fatto: una parte del Pd affila le armi per il dopo voto.

L'ultimo, ma forse più importante nodo da sciogliere, è legato alla squadra di governo. Anche ieri Veltroni ha garantito che farà alcuni nomi prima del 13 aprile. Nomi esterni, perché i politici non si toccano altrimenti qualche escluso potrebbe smettere di tirare la volata. Naturalmente, l'indicazione più attesa riguarda l'Economia. Veltroni ha corteggiato Mario Monti. E continua a farlo. È la sua primissima scelta, i due si sono sentiti spesso in queste settimane. Ma l'ex commissario europeo deve aver declinato l'invito se Veltroni, ancora pochi giorni fa, reagiva così a una domanda sull'uomo dei conti pubblici: "Non sta scritto da nessun parte che debba fare il nome del ministro del Tesoro. In nessun paese del mondo lo si sceglie prima del voto". Il pressing su Monti però va avanti.


La Repubblica 1 aprile 2008
Il candidato della Sinistra Arcobaleno risponde agli ascoltatori di
Repubblica Tv
"Ridurre il numero dei parlamentari ed abolire una delle due camere"
Mussi: "Con il Pd c'è competizione
tremo all'idea di un accordo con Pdl"
di EDOARDO BUFFONI

ROMA - Un accordo Berlusconi-Veltroni? Tremo solo all'idea. Con il Pd in questa campagna elettorale c'è un "gentlement agreement", ma anche competizione. Il voto utile? Esiste solo il voto che ti rappresenta. Fabio Mussi, ministro per la Ricerca e l'Università, candidato per la Sinistra Arcobaleno, risponde alle domande dei lettori nel videoforum di Repubblica Tv. Attaccando sia il Pd che il Pdl, e qualsiasi ipotesi di accordo post-elettorale tra i due partiti maggiori: "Un accordo sulle riforme non può essere un gioco a due tra Pd e Pdl, un passo doppio. Se però parliamo di riduzione del numero dei parlamentari, per noi è un invito a nozze. Una sola
Camera addirittura un doppio invito a nozze, mentre di fronte ad un iperpresidenzialismo la nostra risposta è no. Quanto alla legge elettorale, vorrei invitare i miei amici del Partito Democratico alla prudenza, perché non è prudente fare una legge elettorale che a tavolino cancelli qualsiasi altra variante".

Mussi su questo punto è drastico: "Non sarebbe possibile governare città e amministrazioni locali con i voti della sinistra, come Roma, e poi fare una legge elettorale che cancella tutto ciò che non è Pd e Pdl, perché non si può avere 7 botti piene e 7 moglie ubriache".

Molte le domande dei lettori sul voto utile: votare Pd o Sinistra Arcobaleno per il Senato, a seconda delle regioni, per contrastare Berlusconi.
"L'elettore - risponde Mussi - non può essere accompagnato alla soglia del seggio da esperti. Le scelta delle persone sono più semplici e alla fine anche più giuste. Il voto utile è prima di tutto quello che ti rappresenta, che rappresenta i tuoi valori e le tue idee". La vostra campagna non è
troppo sbilanciata contro il Pd, osservano alcuni lettori: "E' il Pd che ha radicalmente escluso la sinistra, definendola il male, e che ha fatto una campagna sistematica per dire: non votare a sinistra".

Ma con le vostre idee non vi condannate all'opposizione?
"Saremo all'opposizione solo se perderemo le elezioni. Ma voglio sottolineare che l'Italia rischia di essere l'unico grande paese europeo a rischiare di non avere più una forza politica che si dichiari di sinistra.
Ed è per questo che ho scelto di non aderire al Pd. Invece dovrà esistere nel futuro una forza di sinistra in Italia, per influenzare e condizionare la politica del Partito Democratico".

Ma la sinistra ce la può fare?
"Io spero prima di tutto che perda Berlusconi, e lo dico per ragioni patriottiche. Berlusconi è il lato tragicomico della vicenda italiana. E' sempre più stonato. Con la sua visione scombinata e populistica dell'Italia, che ha già fatto tanti danni".

Ma la Sinistra Arcobaleno resterà unita anche dopo le elezioni?
"Abbiamo fatto una lista comune. Se fosse un semplice cartello elettorale sarebbe destinato al fallimento. Invece stiamo creando una forza unita. E lo sta dicendo con forza anche Bertinotti".

Non era meglio candidare premier un leader più giovane, ad esempio Nichi Vendola?
"Mi sembra che Bertinotti si stia spendendo con autorevolezza. Sta facendo bene".

Cosa critica del governo Prodi?
"Aver spinto troppo sul risanamento dei conti pubblici. Si poteva destinare qualcosa in più per salari, fisco, ricerca scientifica. Ma quando lo dicevamo noi, tutti ci criticavano. Ora molti se ne sono accorti. Ma solo ora".

Come ministro, cosa è contento di aver realizzato?
"Ho fermato la proliferazione delle sedi, le lauree facili, i concorsi finti. Ora il sistema può essere governato secondo standard europei.
Purtroppo ho avuto solo 20 mesi di lavoro al ministero. Ma sono a un passo dall'approvazione l'agenzia nazionale di valutazione, i nuovi concorsi per associati e ordinari, e la riforma della governance delle università. Chiunque verrà dopo di me, dovrà riprendere da dove sono arrivato io".


La Repubblica 1 aprile 2008
Bossi: no al voto agli immigrati, consulterò la gente
Borghezio: se fa il ddl, allora governo addio
Berlusconi: "Da Santoro
uso criminoso della tv"
di ANDREA MONTANARI

"Michele Santoro fa ancora un uso criminale della tv". Sceglie questa volta Milano Silvio Berlusconi per lanciare il suo nuovo editto contro il conduttore di "Annozero". Nel corso della videochat con il Corriere ieri a Milano, prima nega perfino di avere pronunciato il precedente editto contro Enzo Biagi, poi attacca Santoro: "L'uso criminoso di una televisione pubblica pagata con i mezzi di tutti consiste nell'attaccare gli avversari senza dare a questi avversari la possibilità di una replica, cosa che lui continua impunemente a fare anche adesso."

Nel frattempo, non si placa la polemica con la Lega sulla sua proposta di dare il voto agli immigrati. Dopo la bocciatura di Roberto Maroni ieri su Repubblica, è direttamente Umberto Bossi a bacchettarlo. Fino a minacciare un referendum tra gli italiani, se insisterà ancora. Il Senatur non l'ha presa bene: "Berlusconi lo conosciamo. In certi momenti fa arrabbiare gli
alleati. Ma nel bene e nel male, è così. Vuole piacere, si adegua al posto dove va... Ma poi è troppo, se c'è un patto va rispettato". E Borghezio va oltre: "Se presenta un ddl, il governo è già finito".

L'ex premier sembra abbozzare. Nel corso del nuovo tour al Nord, prima a Milano e poi a Torino non solo non ne fa più cenno, ma raccoglie l'applauso più forte del pubblico torinese quando scalda la platea accusando la sinistra "di averci riempito di immigrati, tenendo troppo aperte le frontiere". Vorrebbe un modello educativo alla Sarkozy. Propone un decalogo per i giornalisti e gli insegnanti. "Dovrebbero portare sempre la cravatta" e "come gli scolari alzarsi in piedi davanti ai professori". Sostiene addirittura di essersi tenuto lontano gli anni scorsi da programmi come
"Ballarò" o "Annozero" perché i politici che li ospitavano "gli facevano ribrezzo". Lui si chiama fuori, spiegando che "la sua età in politica è solo quattordici anni".

Ma la sala resta fredda. Nella sua foga di piacere a tutti costi non si accorge nemmeno delle gaffe. Al mattino, ad esempio, nel comizio milanese davanti ai militanti del Partito dei pensionati rivolto a un gruppo di signore azzarda: "Ma guarda che belle tuse, da quella parte c'è il settore della menopausa". Subito dopo, sferra un durissimo attacco contro i partiti picccoli, quelli, a suo dire del voto inutile. Dimenticando, però, che sta parlando proprio dal palco di uno di questi, quello dei Pensionati, che pur avendo preso alle scorse elezioni solo lo 0,7 per cento alla Camera e l'1 al
Senato, gli ha fatto perdere le elezioni perché non si era alleato con la Cdl. Lui forse per farsi perdonare promette: "In pensione cinque anni prima alle famiglie che ospitano un anziano".

Non come la "sinistra delle favole di Veltroni". Come quella di Antonio Di Pietro "che percepisce la pensione da magistrato da quando ha quarantacinque anni". Non quella di Bertinotti "che considera i poliziotti e i carabinietri ddei traditori del proletariato". E nemmeno quella di "quei
mangiapreti dei radicali che dovranno vedersela nel Partito democratico con i teodem che sono dei baciapile".

A chi gli fa notare che non fa più sognare gli italiani risponde: "È difficile sognare oggi. Ci vuole un gran coraggio oggi a voler assumere responsabilità di governo. Bisogna essere quasi dei temerari". Dalla sala del teatro Nuovo di Torino qualcuno gli urla: "E allora non ci andare". Fa
finta di nulla, ma poi ammette che "al Senato sarà difficile avere una solida maggioranza".

Torna alla sua ossessione. I piccoli partiti. "Cosa hanno mai fatto in questi anni per il paese , se non esistere per appagare l'ambizione dei loro leader"? Non cita Pier Ferdinando Casini, ma è chiaramente a lui che allude quando dice: "Non si può votare uno solo perché è un bel fieu". Quindi una raccomandazione: "Nonni e nonne, prima di andare a votare fate le prove generali con il fac simile della scheda elettorale. Quella preparata dal ministero degli Interni rischia di farvi perdere la vista. Questa volta non sbagliate".



La Repubblica 1 aprile 2008
Il Cavaliere contro il Professore che rivendica il successo del governo
E l'altro replica: "Rovina un bel momento per il paese, si deve vergognare"
Expo, scontro Prodi-Berlusconi
"Non è merito del premier"
Plauso bipartisan al risultato di Milano. D'Alema: "L'Italia è un osso duro"
Rutelli: "Esempio di leale collaborazione". Bossi: "Felice per il Nord e la
Moratti"

E' una vittoria che "premia lo sforzo comune", "motivo di orgoglio per l'Italia intera". Le parole di Giorgio Napolitano arrivano poco dopo la proclamazione ufficiale di Milano vincitrice nella "finale" con Smirne per l'assegnazione dell'Expo 2015. Un risultato accolto con entusiasmo da ogni parte politica e frutto, è il commento generale, di un grande lavoro di squadra. Ma la soddisfazione bipartisan sfuma velocemente per lasciare il posto alla contesa sul merito. Perché quello dell'Esposizione universale diventa terreno di scontro per Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Se il primo traduce l'evento in un successo dell'Italia e del governo, "anche se abbiamo avuto un po' di paura negli ultimi giorni", il secondo commenta: "Non è merito del presidente del Consiglio". L'altro lo accusa di "rovinare un bel momento per il paese" e gli intima di "vergognarsi". La palla passa al portavoce del Cavaliere, Paolo Bonaiuti: "Si vergogni lui", dice riferendosi al premier.

A dire la verità, una prima frecciata la lancia il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema. Che, da Parigi, sottolinea l'"impegno corale" e il fatto che "l'Italia è un osso duro": "Ogni volta che ci siamo candidati a livello internazionale abbiamo sempre vinto. Questo vuol dire - ha precisato il
titolare della Farnesina - che questo Paese è migliore di come lo raccontiamo". Berlusconi invece non risparmia un cenno all'emergenza rifiuti dicendosi "molto lieto" della notizia di Milano dopo "il dramma di Napoli e della Campania". E si prende una fettina di torta: "Spero di essere stato
utile anch'io, con la mia amicizia con tanti capi di Stato".

"Amarezza e sconcerto" da Walter Veltroni "nel vedere che anche una grande vittoria "sia utilizzata per basse polemiche elettorali". Fra una tappa elettorale e l'altra - oggi nel Lazio - il candidato premier del Pd trova il modo per un plauso al risultato "raggiunto grazie al lavoro fatto tutti insieme", prova che "quando il paese è unito, nella differenza di opinioni e posizioni politiche ma unito istituzionalmente, si raggiungono obiettivi come questo".

Trattiene a stento la commozione il sindaco di Milano, Letizia Moratti, "contenta per la città e per il mondo perché sarà un'esposizione per il mondo, ci ho creduto, ci ho creduto proprio" dice, e le fa eco il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, che parla di "un risultato
indiscutibile, frutto del grande lavoro svolto insieme dalle nostre istituzioni e da tante forze della società civile".

"Un buon progetto, determinazione, gioco di squadra e capacità di dialogo": questi gli ingredienti della vittoria secondo il ministro del Commercio estero, Emma Bonino, anche lei a Parigi. "Sono contenta - ha detto - è segno che abbiamo un rapporto solido con gli altri Paesi". Gioia e soddisfazione per Francesco Rutelli: il ministro per i Beni culturali parla di "un buon
esempio di leale collaborazione istituzionale, fra governo e enti territoriali milanesi, che dovrebbe essere seguito ogni volta in cui è in causa il buon nome dell'Italia".

La vittoria di Milano "è una vittoria del Paese, frutto di un ottimo lavoro di squadra" anche per il ministro per le Politiche giovanili, Giovanna Melandri, che individua nello "spirito di coesione e unità" l'ingrediente "di una vittoria auspicata e meritata che, già da domani, chiama tutti a
dare il massimo". Milano "torni a essere un faro per tutta l'Italia - dice il ministro delle Pari opportunità Barbara Pollastrini - prima per dialogo, solidarietà, civismo, diritti civili, scienza".

E se nel centrodestra c'è chi è tentato dal vedere il lato positivo, come Umberto Bossi che si dice "molto felice sia per il Nord che per Moratti che si è data un gran da fare", c'è anche chi ne approfitta per battere sul tasto Alitalia. Renato Brunetta (Fi) e Roberto Calderoli (Lega) sono
convinti che adesso sia ancora più importante che la Lombardia e Milano abbiano un aeroporto di prima classe, un vero e proprio hub dove atterri e decolli la compagnia di bandiera. Quindi, Prodi e i suoi ministri devono fare retromarcia su Air France "oppure pensano - ironizza Calderoli - di far arrivare i 29 milioni di visitatori attesi a Milano a piedi o con il pullman di Veltroni?". Al contrario, secondo Prodi: il successo dell'Expo è il trampolino per rilanciare Milano e la Lombardia con una "prospettiva solida e forte, l'occasione di essere sotto i riflettori del mondo".

A rivendicare il successo di Milano anche i sindacati. Il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, precisa che il risultato "è stato raggiunto anche grazie al ruolo svolto unitariamente dalle tre confederazioni a livello nazionale, lombardo e milanese".


La Repubblica 1 aprile 2008
La torre, il parco, miliardi e cantieri
le promesse e i rischi dell'Expò
Il problema del "dopo": come sarà utilizzato quello che resterà?
di GIUSEPPINA PIANO

MILANO - Una città dove si respira meglio perché emette il 15 per cento in meno di Co2. Dove si viaggia in metrò da Niguarda a San Siro, e da Lorenteggio a Linate. Dove saranno stati spesi 14 miliardi di euro in infrastrutture, autostrade e opere pubbliche. Ma anche una Milano con sette
anni di cantieri davanti e 29 milioni di persone in visita nei cinque mesi dell'Esposizione universale dedicata all'alimentazione, previste in media 160mila al giorno con (con punte di 250mila).

Una città da skyline anche verticale, con l'Expo Tower a Rho-Pero a contendere ai giganti di Citylife il record di altezza milanese. E con 11 miliondi di metri quadri di verde in più sparsi per tutte le periferie. Ma anche con un nuovo quartiere residenziale a Rho-Pero, dopo che smontata una parte dei padiglioni tirati su per l'Esposizione, si costruiranno al loro posto case e uffici.

Promesse e cartoline dalla Milano del 2015. Sperando di usare la locomotiva Expo per ripartire. Le stime, a guardare il dossier di candidatura di un migliaio di pagine, parlano di 70mila nuovi posti di lavoro - stima di una ricerca della Bocconi - per costruire tutto l'occorrente. Di quasi quattro miliardi di euro di indotto per il sistema economico locale. Di un'Esposizione universale ecosostenibile, un evento a "impatto zero", dove si viaggerà a idrogeno e si prenderà energia dai pannelli solari.

Ma arrivarci non sarà indolore. C'è tutta l'area della Fiera di Rho-Pero da trasformare in un cantiere a ciclo continuo per accogliere i visitatori. E di certo non aiuta l'umore vedere che oggi, a tre anni dall'apertura del polo sotto la Vela di Fuksas, non siano ancora finiti i lavori per strade e
collegamenti intorno.

Il rispetto dei tempi, questo sarà il primo banco di prova per l'operazione-Expo. L'altro sarà trovare, con bandi internazionali, gli architetti che disegneranno le strutture. A partire dalla torre di 200 metri d'altezza che dovrà diventare il simbolo dell'evento. Serviranno architetti, ingegneri, tecnici. Ma serviranno, anche, 36mila volontari che dovranno contribuire all'accoglienza dell'esercito di stranieri che farà tappa a Milano. A tutti sarà chiesto un impegno non più lungo di 16 giorni.

Il dossier da un migliaio di pagine con cui Milano si è candidata a vincere racconta la rivoluzione per Rho-Pero. L'area espositiva dovrà praticamente raddoppiare rispetto a oggi. Allargandosi verso est. Un milione di metri quadrati aperti al pubblico solo per gli spazi espositivi, altrettanti per le strutture di servizio e la logistica (parcheggi, alberghi, ristoranti, bar, un centro congressi). In totale, due milioni di metri quadri da strasformare.

Chi la visiterà, nel 2015, si troverà otto padiglioni per illustrare i progetti espositivi di mezzo mondo sull'alimentazione immersi in un parco, che da solo coprirà circa la metà dell'area giardino all'inglese. Un lago artificiale e ruscelli. Al centro di tutto, cuore e simbolo, la torre con ai lati due "ali" con sale per eventi, seminari, attività culturali, negozi. E pure un "centro ecumenico" per la preghiera. Sopra la torre invece, a 200 metri d'altezza, terrazza panoramica e ristoranti.

Il tutto con padiglioni immersi in un parco di 500mila metri quadrati, la metà dell'area. Ristoranti per 8mila metri quadrati e altrettanti per bar e ristoranti, 2.500 metri quadrati di negozi. Piazza Italia con un anfiteatro all'aperto di 9mila metri quadrati, e un auditorium di 6mila. Verde che dovrebbe aumentare comunque in tutta la città con 11 milioni di parchi in più. Altro capitolo delle promesse.

Ma cinque mesi di Expo non si fermano a Rho-Pero. Il dossier di canditura racconta di tutta una Milano ambientalista. Miracolosamente capace di diminuire del 15 per cento entro il 2012 (e del 20 per cento entro il 2020) le sue emissioni di anidride carbonica e dare una mano contro il gas serra.
E se la scossa dell'Ecopass ormai sarà stata ampiamente metabolizzata, dovrà contribuire la bioedilizia, il teleriscaldamento e l'utilizzo dell'acqua di falda. Il tutto, però, contando sul fatto che nel frattempo le sempre attese infrastrutture, dalla Brebemi alla Pedemontana, alla Tav e alle
metropolitane 4 e 5 in città, siano più che pronte per sopportare il peso dei turisti. Un capitolo da non meno di 10 miliardi di euro di investimenti pubblici in cantieri.

Solo per l'Expo serviranno quattro miliardi di euro, per costruire l'area fieristica e i collegamenti, 530mila metri quadrati di parcheggi e la ricettività. Quasi altrettanti torneranno però come indotto assicurato dalla vetrina internazionale e dall'afflusso dei visitatori. L'Esposizione in sé,
tra affitto dei padiglioni, sponsorizzazioni e vendita dei biglietti d'ingresso, garantirà invece circa 900 milioni di euro.

La Milano del 2015 non sarà un'altra città ma almeno, oggi, spera di usare la locomotiva Expo per crescere.

Altro, fondamentale capitolo, è quello sull'eredità. Qui molte sono le incognite. Si sa che a Rho-Pero resterà il parco, resterà la torre che dovrà essere rigenerata come spazio culturale e sociale. Resteranno altri padiglioni ed edifici di servizio. Ma la loro rigenerazione pubblica, oggi,
è ancora tutta da inventare. Il punto è che la maggior parte dei padiglioni verrà smontata. Le aree date in prestito al Comune torneranno ai loro proprietari, privati, ovvero la Fiera e il gruppo Cabassi. E là dove fino a oggi non si poteva costruire, in una zona vincolata dal piano regolatore per uso agricolo, potranno farci un nuovo quartiere residenziale.

L’Unità 1 aprile 2008

I 93 ANNI CON LA LECTIO DI CAMILLERI
Ingrao: parlate di più degli operai e della pace

Tra affetto e ammirazione Andrea Camilleri ha tenuto ieri a Roma a Palazzo Valdina una lectio magistralis per il 93esimo compleanno di Pietro Ingrao, anticipata da l’Unità. Per il padre di Montalbano, Ingrao è «un perfetto eroe dei nostri anni» che suscita «oltre a stima e ammirazione, la simpatia umana anche in chi non lo conosce». Utilizzando come filo conduttore «la qualità del dubbio ingraiano» vissuto come «strumento di conoscenza» lo scrittore ha ripercorso alcune delle scelte del politico. Commosso, Ingrao ha ringraziato: «I miei simili sono stati sempre per me un enorme dato di attrazione, un'emozione perenne e hanno segnato il senso più profondo del mio agire politico. Mi sarebbe piaciuto avere il tempo di sedermi a un caffè e vedere scorrere il fiume dell’umanità, osservare i volti e gli sguardi...». Poi ha ammonito: «In questa campagna elettorale si dovrebbe parlare di più delle condizioni dei lavoratori e del bisogno di pace in Medioriente e nel mondo, un problema bruciante». All’incontro, organizzato dal Crs e presieduto da Mario Tronti, erano presenti tra gli altri oltre a Fausto Bertinotti, che ha rivolto il saluto della Presidenza della Camera a Ingrao, anche Goffredo Bettini, Gennaro Migliore, Aldo Tortorella, Walter Tocci e Vincenzo Vita.


L’Unità 1 aprile 2008

IN LIBRERIA Nella nuova fatica di Fulvio Abbate, «Quando è la rivoluzione», un gruppo di maoisti interrompe un pranzo di nozze e...
Colpo di stato, i comunisti occupano «L’antico Girarrosto»
di Riccardo De Gennaro

Nel suo ultimo romanzo, Quando è la rivoluzione (pagine 311, euro 17,00, Baldini Castoldi Dalai), Fulvio Abbate immagina la presa del potere dell’Unione dei comunisti italiani, raggruppamento d’ispirazione maoista attivo a cavallo degli anni Settanta e guidato da Aldo Brandirali, oggi fervente ciellino.
Del colpo di stato, se di colpo di stato si tratta, si racconta tuttavia soltanto un episodio, l’occupazione armata di un ristorante della periferia romana, «L’antico Girarrosto», dove è in corso il pranzo di nozze di una coppia di «coatti» dell’Appio-Tuscolano. A quel punto gli invitati devono rinunciare all’esibizione del loro idolo, il cantante Drupi, e forzatamente assistere al documentario Viva il Primo Maggio rosso e proletario di
Marco Bellocchio, convinto all’epoca che il libretto di Mao potesse davvero trovare applicazione in Italia. Il particolare che quel 15 febbraio, presumibilmente del ’71 (ma Il mare color del vino di Sciascia, citato nel libro, è del ’73), la Rai continui a mandare in onda lunghi servizi dedicati all’Unione dei comunisti e Claudio Villa canti alla radio Bandiera rossa ci dice che i maoisti hanno preso possesso anche dei mezzi d’informazione.
La storia del matrimonio che «s’ha da fare», ma solo secondo i dettami contenuti nell’opuscolo Un matrimonio comunista, realmente edito da «Servire il popolo», s’intreccia con le vicissitudini di un annoiato gruppo di esponenti dell’alta borghesia salottiera che quello stesso giorno parte per andare a trovare Ugo Tognazzi, ma - data la sua assenza - finisce non si sa come a Cinecittà.
Qui il gruppo, guidato da una signora piuttosto sboccata e da un allievo di Lacan dal pene minuscolo, incontrerà Mario Schifano, il quale s’aggira proprio con Brandirali sul set di uno dei tanti B-movie a sfondo boccaccesco realizzati dopo il Decameron di Pasolini. Presto giungeranno a Cinecittà anche i «coatti», i capi delle guardie rosse e alla fine - con un’accelerazione di ritmo della comicità, che oscilla sempre tra Villaggio e Verdone - il papa in persona (Paolo VI) con un clistere in mano a mo’ di aspersorio.
Oltre al suo romanzo più bello, Zero maggio a Palermo, il primo, ambientato anch’esso negli anni Settanta ma scritto con grande leggerezza e poesia, questo nuovo libro di Abbate fa pensare al precedente Roma, la sua «guida non conformista» alla città. Quando è la rivoluzione è affollato di personaggi realmente frequentati dall’autore, che a questo proposito si abbandona, durante la narrazione, ad alcune digressioni. Il rischio è che l’attesa suscitata nel lettore da un’idea indiscutibilmente originale (l’improvvisa presa del potere dell’Unione dei comunisti nel loro momento di massimo fulgore) venga penalizzata dalla propensione all’omaggio e alla rievocazione di Abbate.
Il quale ama citare anche i nomi delle vie dove abitavano i vari Mastroianni, Sordi, Tognazzi, Pasolini o dove avevano sede i bar e i ristoranti più di moda della città, come se la guida Roma - un libro in cui, attraverso numerosissimi aneddoti, si passano in rassegna luoghi e protagonisti della vita mondana della Capitale - gli fosse rimasto ancora un po’ nella penna.

L’Unità 1 aprile 2008

Gabriela ha 50 anni, inventò il sesso senza peccato
di Franco Mimmi

Profumo di garofano, colore di cannella, Gabriela compie 50 anni ma è giovane, fresca e più o meno ventenne come quando Jorge Amado la diede alla luce, nel maggio del 1958. E già, senza neppure aspettare il giorno anniversario, è di nuovo nelle librerie di tutto il Brasile in una edizione (la numero 80) lanciata dalla casa editrice Companhia das Letras, che l’anno scorso battè le altre grandi case brasiliane e si aggiudicò i diritti delle opere dello scrittore baiano morto nel 2001. Ignoto il lato economico dell’offerta, che prevedeva pure la divulgazione nelle scuole e una intensa campagna di marketing per ridare smalto alle opere di Amado - ben 35 titoli - secondo i desideri della famiglia.
E infatti ecco già in vista l’omaggio ad Amado, che si è tenuto a Rio de Janeiro il 19 marzo, nell’Accademia brasiliana delle lettere. Ecco, a Rio e a San Paolo, la mostra Jorge Amado nel cinema. E il lancio ufficiale della collana, cui parteciperanno artisti come Caetano Veloso e Chico Buarque. Poi una esposizione fotografica. Poi uno show di Nana, Dori e Danilo Caymmi, figli del famoso cantante e compositore Dorival Caymmi che fu grande amico di Amado e scrisse quasi tutte le canzoni per i film e gli sceneggiati televisi tratti dai suoi romanzi. Autore, tra l’altro, della Modinha para Gabriela che nel 1975 accompagnava in tv, cantata da Gal Costa, una Sonia Braga allegra, spontanea, sensuale e primitivamente amorale (ma né lei né Marcello Mastroianni, nella parte del sirio Nacib, sarebbero riusciti a salvare dalla mediocrità il film di Bruno Barreto di otto anni dopo). Paradossalmente Bahia, terra natale dello scrittore, entrerà per ultima nel programma, in aprile, ma col vantaggio di poterlo fare nel bell’edificio azzurro che ospita la «Fondazione Casa di Jorge Amado» in pieno Pelourinho, il centro coloniale di Salvador.
Gabriela cravo e canela è la storia di una ragazza che nel 1925, durante uno dei peggiori periodi di siccità mai sofferti dal Nordeste, emigra dall’interno a Ilhéus, città costiera che sta vivendo il boom del cacao, e lì conquista tutti con la sua bellezza e la sua sensualità. Sposa il sirio Nacib, per il quale faceva la cuoca, ma gli è infedele e il matrimonio viene annullato grazie al fatto che i documenti di lei erano falsi. Separati, i due finiranno per riprendere la loro relazione amorosa, mentre la città assiste alla condanna in tribunale di un potentato che aveva ucciso sua moglie e l’amante di lei: i tempi sono cambiati, e superati i concetti di una società patriarcale o addirittura feudale.
Fu il libro nuovo di uno scrittore che, già notissimo per la quindicina di titoli pubblicati, si rivelava nuovo anch’egli, distaccato dai dogmi della militanza politica che avevano caratterizzato i primi venticinque anni di una carriera letteraria incominciata a diciannove. Forse era stata, con il Congresso del Pcus del 1956, la fine dell’era e del mito di Stalin; forse era stato l’incontro con Zelia Gattai e col suo spirito italiano anarchico e ironico al tempo stesso; certo è che Amado, con la freschezza di Gabriela, aveva evidentemente trovato una nuova forma letteraria per esprimere la sua critica della realtà sociale: una forma compassionevole, partecipe, affettuosa, in cui i vecchi temi tornano (in realtà il romanzo di Gabriela si riallaccia a Terre del finimondo e a São Jorge dos Ilhéus, ovvero al cosiddetto «ciclo del cacao»), la volontà di denunciare lo sfruttamento delle classi lavoratrici resta, ma con un umorismo che smussa la crudezza delle vicende narrate, le storie degli uomini e delle donne (e degli orixá, i «santi» del candomblé spesso chiamati in azione) che affollano la povera, violenta, crudele, allegra, bellissima Bahia.
Il romanzo fu subito un grande successo, sei edizioni nel primo anno, poi le traduzioni all’estero, a trenta lingue, perché il personaggio di Gabriela, con la sua libertà che comportava la separazione della parola sesso dalla parola peccato, rappresentava in quegli anni una provocazione enorme (per chi sia troppo giovane per ricordare l’ipocrisia dell’epoca: il film inglese del 1957 The Naked Truth, ovvero la nuda verità, uscì in Italia col titolo La verità... quasi nuda). E infatti Amado ricevette tali minacce, dalle signore della buona società di Ilhéus offese nella loro rispettabilità, che per anni evitò di rimettervi piede.
Sbaglia, dunque, chi pensi che da questo spartiacque la letteratura di Amado si faccia folclore: sempre, nei suoi romanzi, la storia e la realtà del Brasile in genere, del Nordeste in particolare, occupano una posizione di fondo sulla quale i personaggi di primo piano proiettano vicende illuminanti. «Ogni volta - scrisse Amado - io sto più vicino al popolo, al popolo più povero, al popolo più miserabile, sfruttato e oppresso. Ogni volta cerco più anti-eroi...». E infatti le donne di Amado non si limitano a vivere le loro vite dure e sorridenti (Gabriella garofano e canella, Teresa Batista stanca di guerra), tenere e vittoriose (Dona Flor e i suoi due mariti, Vita e Miracoli di Tieta d’Agreste): esse rivendicano i loro diritti, lottano per sostenerli, pagano per questo prezzi altissimi, e se strappano ai lettori il sorriso e la commozione è perchè già ne hanno riscosso la solidarietà.
Eppure non era questo né il personaggio né il libro preferito di Jorge Amado, che privilegiava il Pedro Archanjo de La bottega dei miracoli. Come non capirlo? È questo il romanzo della «miscigenação», ovvero della mescolanza quasi generale di sangue bianco e nero che, per quanto negata, pervade la società brasiliana, e Pedro Archanjo è l’eroe (o l’anti-eroe) mulatto che ridicolizza questo rifiuto. Però lo stesso Amado ammetteva che la sua creatura più conosciuta era Gabriella, che solo intende di cibo e d’amore. Perché? «Perché lei - ha detto Jorge Araújo, professore di letteratura brasiliana - non obbedisce alle regole della grammatica sociale ed è capace di vivere il piacere come istanza della libertà umana». Come non appassionarsi, per una donna così.


Corriere della Sera 01.04.2008

Internet Sul primo numero Cacciari ed Eco. Verrà presentata questa sera a Milano
Ecco «Sophias», rivista online di filosofia

Di Armando Torno

Questa sera alle 18, alla Casa della Cultura di Milano (via Borgogna, 3) verrà presentata Sophias, rivista online quadrimestrale gratuita di filosofia. Diretta da Chiara Colombo, laureanda poco più che ventenne alla Cattolica di Milano, nel Numero 0 — già disponibile in rete: www.ilmondodisofia. it — sono ospitati, oltre l'editoriale, interventi di Massimo Cacciari (è l'articolo «Fare» scritto per l'Enciclopedia
filosofica Bompiani), Alessandro Ghisalberti ( L'abisso in Sant'Agostino)
e Massimo Marassi ( Il concetto di campo e la storia dei problemi).
Parte poi la rubrica «Contributi kantiani», curata da Piero Giordanetti, che si propone di pubblicare ogni numero note di commento ed esegesi alla Critica della ragion pura
del sommo tedesco, in modo da consentire a studenti e studiosi un aggiornamento costante su una delle opere fondamentali del pensiero. Chiudono questo numero-prova un'intervista a Carlo Sini e alcune poesie filosofiche di Umberto Eco.
Nell'incontro di questa sera si parlerà anche dell'associazione culturale «Il mondo di Sofia», sorta a Milano nel luglio 2007 con il beneplacito di Jostein Gaarder, autore dell'omonimo libro (tradotto da Longanesi). Da essa è nata la rivista. La quale non sostituisce quelle cartacee, come le prestigiose
Rivista di storia della filosofia
(Franco Angeli) o Elenchos (Bibliopolis), ma copre uno spazio in rete accessibile a un vastissimo pubblico.
In un dialogo con Massimo Marassi, professore di Filosofia della Storia alla Cattolica e padre culturale di
Sophias, chi scrive ha chiesto quali opere potranno essere continuamente commentate e chiosate online da questa rivista, accanto e oltre la Ragion pura di Kant. Ha risposto: «La
Metafisica di Aristotele e la Fenomenologia dello spirito di Hegel». E per il Novecento? Aggiunge: « Essere e tempo di Heidegger, il Tractatus di Wittgenstein». Sarà lui insieme a un abile timoniere editoriale come Mario Andreose, un appassionato che sa far di conto quale lo svizzero Silvio Leoni e un professore con crediti internazionali come Riccardo Pozzo — tutti presenti questa sera — a rendere feconda Sophias, sino a trasformarla nel portale di riferimento in Italia della filosofia.

Il Riformista 1 aprile 2008
TONINO IN RETE È MEGLIO DI MARZULLO IN TV
di Mambo: l'editoriale

Di Pietro è un mago della Rete. Il suo conflitto storico con la lingua italiana diventa pace eterna quando viaggia su Internet. È forse il politico più cliccato. Ha due blog. Il primo con il suo nome. Il secondo con quello del partito che ha fondato e a cui ha affittato il proprio appartamento per
farne una sede politica e anche un po¹ di soldi (tiene famiglia, pure il ministro). Sui blog trovi una marea di video. Di Pietro in camicia, Di Pietro con la giacca, Di Pietro che parla a Repubblica Tv. C¹è Transilvania T. che fa l¹elenco di quanto gli faccia schifo il partito di Di Pietro ma lo
vota lo stesso. Poi ci sono i rimandi a Beppe Grillo che a sua volta rimanda a Di Pietro. Poi ci sono, infaticabili, i Di Pietro bloggers. Sono tanti.
Scrivono su tutto. Fino a ieri notte sono stati 917 sui temi del lavoro, 642 sulla sicurezza, 779 sulla legalità, 852 sulla politica, 728 sull¹informazione. Si può dire che sia riuscito a Di Pietro, attraverso la Rete, il collegamento della politica più mestierante con l¹antipolitica. E
si sfiora il sublime. Scrive un candidato da eleggere al Nord, il medico di Napoli Antonio Palagiano: «Devo presentarmi, a volte raccontarsi diventa una necessità per fermare un momento, un¹emozione, un¹esperienza. Per parlarsi.
Per capirsi... Non morire mai completamente in tutte quelle volte in cui in una vita si muore per poi rinascere di nuovo». E qui capite che il nuovo di Walter incontra inesorabilmente Gigi Marzullo.

Il Giornale di Vicenza 1.04.2008
Filosofia. Il fallito tentativo di completare "Essere e Tempo" in un saggio rimasto inedito e che doveva essere pubblicato solo cent'anni dopo la morte
Il naufragio di Heideggernel gran mare dell‚Essere
di Franco Volpi

Dalla baita di Todtnauberg, nell'alta Foresta Nera, «dove tutto è ancora come una volta», il 18 settembre 1932 Heidegger scriveva all'amica Elisabeth Blochmann: «Per il momento sto studiando i miei manoscritti, cioè leggo me stesso, e devo dire che, in positivo e in negativo, mi risulta molto più fruttuoso di altre letture». Forse che qui „la volpe Heidegger" - come lo apostrofava Hannah Arendt - cominciava a mordersi la coda? No, Heidegger cercava soltanto di ritrovare se stesso e di portare a termine Essere e tempo, l'opera pub blicata come „Prima parte‰ nel 1927 e di cui il mondo filosofico aspettava la seconda. Nella stessa lettera aggiungeva: «Già si fanno speculazioni e discorsi sul fatto che starei scrivendo Essere e tempo II. E va bene. Tuttavia, dato che Essere e tempo I è stato per me un cammino che mi ha portato da qualche parte ma che adesso non è più ba ttuto ed è ormai ricoperto di vegetazione, non posso più assolutamente scrivere Essere e tempo II. Né sto scrivendo alcun libro».
Heidegger stava in realtà pensando a una nuova grande opera, i Contributi alla filosofia, in cui intendeva riprendere la problematica della parte rimasta inedita di Essere e tempo. A interrompere il progetto sopraggiunse il fatale intermezzo politico del 1933, e solo dopo le dimissioni da rettore Heidegger ritroverà la concentrazione per realizzarlo. Tra il 1936 e il 1938 stende la nuova opera, ma la lascia inedita e dispone che sia resa pubblica solo a cent'anni dalla sua morte. Contrariamente al suo volere, essa è stata edita nel 1989 per il centenario della nascita, ed è ora tradotta da Adelphi (anche se priva di una adeguata introduzione, in ottemperanza a un'ottusa disposizione degli eredi, cui peraltro altri editori italiani, a ragione, non si attengono).
NUOVO APPROCCIO ALL‚ ESSERE. Avvolti in un'aura esoterica, e salutati come il secondo capolavoro di Heidegger, in realtà i Contributi rimangono ancora tutti da spiegare e da interpretare. Costruiti su un'ardita architettonica e scritti in un linguaggio insolito e ostico, sono il tentativo più organico e coerente - dopo la cosiddetta „svolta", cioè dopo l'interruzione del progetto di Essere e tempo - di trovare un nuovo approccio al problema dell'Essere. Essi squadernano un universo speculativo profondamente diverso e sorprendente rispetto a quello di Essere e tempo. Abbandonata la comprensione quasi trascendentale dell'esistenza, concentrata sul suo autoprogettarsi nel futuro, l'attenzione si rivolge ora alla immemoriale provenienza della fatticità: all'Essere stesso. Già, ma come pensare l'Essere se in linea di principio esso si sottrae alla nostra presa? La via tentata da Heidegger si orienta su un concetto, «intraducibile al pari della parola greca Logos e di quella cinese Tao», come egli stesso dichiarerà: Ereignis, "evento-appropriazione". Esso indica la coappartenenza di Essere ed essere umano, caratterizzata da una alternanza di manifestazioni e occultamenti che ritmano le „epoche" della storia tra un primo inizio greco e l‚"altro inizio" postmetafisico. Intorno a tale concetto Heidegger o rchestra tutta una serie di motivi, tra cui una sua diagnosi della modernità come epoca segnata dal „deserto che avanza" del nichilismo, cioè dalla dimenticanza dell'Essere e dal predominio dell'ente. E sceglie due figure di riferimento, che trasfigura in simboli: Nietzsche, che porta a compimento la metafisica, e Hölderlin, il poeta degli dei fuggiti, che annuncia l'evo a venir e.
IN MANOSCRITTO. I Contributi, consentono di scorgere l'ampio disegno speculativo sotteso alle meditazioni apparentemente disparate dello Heidegger dopo la „svolta". In ciò sta senza dubbio la loro importanza. Ma essi rimangono un'opera di transizione, lasciata non a caso allo stato di manoscritto, in cui chi sa leggere percepisce la cautela, la vigilanza critica e l'insoddisfazione di Heidegger nei confronti dei suoi stessi concetti. Si ha l'impressione - venuta meno la sorpresa iniziale e frequentato il testo con una certa assiduità - che il genio filosofico di Heidegger, la sua fantasia e la sua creatività si isteriliscano e subiscano un'involuzione. Forse per la natura stessa dell'interrogare filosofico, che spingendosi alla massima radicalità non si ferma dinanzi a nulla ma attacca e corrode tutto. Forse perché il pensare di Heidegger finisce per girare a vuoto, rinchiuso nel recinto della sua intelligenza come in una gabbia. In questo senso, anche lo stile dell'opera non è - come si è detto - sentenziale o aforistico, ma è qualcos'altro: ha la brevità, l'insistenza, la ripetitività che sono tradizionalmente proprie dei mantra, dell'orazione e della litania, più che dell'argomentazione filosofica.
CORPO A CORPO CON NIETZSCHE. Alla fine della stesura dei Contributi - che coincide c on il corpo a corpo con Nietzsche svolto nelle lezioni universitarie coeve - Heidegger cade in una profonda crisi filosofica e personale. Medita anche il suicidio, come si può inferire da un testamento (Le mie ultime volontà) di cui gli eredi negano l'esistenza. A Jaspers confiderà sconsolato: «Ho la sensazione di crescere ormai solo nelle radici, non più nei rami». Effettivamente il fuoco appiccato da Nietzsche brucia ormai per tutta la casa, e Heidegger non trova più concetto, intuizione o proposta filosofica che resista a una interrogazione filosofica radicale. L'esperienza di Nietzsche vuota le sue metafore, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi. Nella triste luce dell'esaurimento, l'Essere - quest'ospite solitamente fugace dei nostri pensieri - rimane per lui l'ultima chimera che valga la pena di sognare. Ma quanto più i suoi sforzi mirano a quest'unica meta, tanto più i sentieri gli appaiono interrotti.
[\FIRMA]FEROCI CRITICHE. -La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo „procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Si è detto: Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio. Richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti. Demonizza la tecnica fi ngendo di accettarla come destino. Fabbrica una visione del mondo catastrofista. Azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose - l'Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo - e soffia sul mito greco-germanico dell'originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l'aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell'etimologia si rivela un abuso. La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia, in cui l'uomo funge da pastore dell'Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell'ultimo Heidegger, bensì l'ammirazione supina e priva di spirito critico che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Non è detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se così fosse, allora i Contributi alla filosofia, questo tentativo fallito di completare Essere e tempo, sarebbero davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo al largo nel mare dell'Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo c he si offre alla vista è sublime.