giovedì 3 aprile 2008

La Repubblica 03.04.2008
Elezioni, si rischia il rinvio è battaglia sul simbolo Dc

Veltroni e Berlusconi contrari. Il Viminale ricorre
Prodi: l´Italia si metterebbe in cattiva luce Ferrara: se accade mi suicido

di Francesco Bei
«Un rinvio delle elezioni oggi metterebbe l´Italia molto, molto in cattiva luce davanti al mondo». Quella di Romano Prodi sembrerebbe una constatazione ovvia su un´ipotesi d´accademia, se non fosse che proprio il rinvio è davvero uno dei possibili esiti di una vicenda kafkiana - maturata in un vortice di ricorsi, sentenze e ordinanze - che nasce dalla riammissione alla corsa elettorale della Dc di Giuseppe Pizza (alleato di Berlusconi) da parte del Consiglio di Stato.
Così l´ipotesi rinvio, obbligatoria se si vuole dar modo a Pizza di fare campagna elettorale per tutti i trenta giorni previsti dalla legge, per il ministro dell´Interno Giuliano Amato in mattinata diventa «un´eventualità che non posso escludere». E basta solo evocarla questa «eventualità» per provocare uno shock in tutto il mondo politico, schierato questa volta senza eccezioni - da Veltroni a Berlusconi, a tutti gli altri - a difesa della data prefissata. Per il leader del Pdl il rinvio «sarebbe un dramma» e si appella quindi al suo alleato chiedendogli «un segno di responsabilità». Il Cavaliere vorrebbe che Pizza (che si presenta solo al Senato nelle circoscrizioni italiane) rinunciasse alle sue pretese in cambio di maggiori spazi in tv, ma il segretario della Dc "pocket" per tutto il giorno si mostra irremovibile. Solo in serata Pizza apre uno spiraglio, nel caso «arrivasse una sollecitazione del capo dello Stato». Anche nel Pd la questione si pone con drammatica urgenza: «E´ una cosa aperta nella destra - sostiene Veltroni - la destra la risolva. Spero non sia un tentativo per rinviare le elezioni». Giuliano Ferrara minaccia conseguenze drastiche: «Se rinviano le elezioni, mi suicido». Più serio Fausto Bertinotti, che paventa «uno smarrimento nel Paese» in caso di prolungamento della campagna elettorale, perché «verrebbe percepita da tutti come la dilatazione dell´incertezza». Pier Ferdinando Casini, contro cui Pizza ha scagliato i suoi avvocati chiedendo il sequestro del simbolo Udc, liquida le pretese della Dc come «baggianate».
A bloccare il simbolo della Dc pizzina perché troppo simile a quello dell´Udc era stato l´ufficio elettorale del Viminale, che ne aveva bocciato lo scorso 4 marzo il simbolo insieme a quello della Dc di Sandri. Entrambi hanno però presentato ricorso in Cassazione, e l´8 marzo l´ufficio centrale elettorale li ha respinti. L´indomito Pizza si è rivolto a questo punto al Tar, sostenendo l´illegittimità dell´esclusione, ricevendo un´altra bocciatura. Quindi l´ennesimo ricorso al Consiglio di Stato, e la decisione di ieri l´altro che ha ribaltato le precedenti. E tuttavia il rinvio non è l´unica strada possibile. Il governo infatti non se né è stato con le mani in mano, consultando giuristi, costituzionalisti, funzionari del Viminale, esperti del Quirinale. Forte anche dell´articolo 61 della Costituzione, che prevede in modo tassativo che le elezioni si svolgano entro 70 giorni dallo scioglimento delle Camere (scadono il 16 aprile), nel pomeriggio, Amato ha dato incarico all´Avvocatura dello Stato di proporre ricorso in Cassazione per chiedere la revoca dell´ordinanza sulla Dc. Il vice avvocato generale, Glauco Nori, sta preparando in effetti due ricorsi, che verranno presentati oggi. Uno alle sezioni unite della Cassazione, per sostenere il difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato sulla materia. E un secondo ricorso allo stesso Consiglio di Stato, perché nella sua ordinanza non avrebbe tenuto conto che all´estero le operazioni di voto sono già iniziate (il 26 marzo), con militari e diplomatici che hanno votato su schede prive del simbolo di Pizza. Peraltro, se anche non si rinviasse il voto ma semplicemente venisse riammessa la Dc e i suoi candidati, bisognerebbe ristampare milioni di schede elettorali, con i costi immaginabili. Il Tar del Lazio poi deve ancora pronunciarsi nel merito del caso e, in teoria, potrebbe dare torto a Pizza anche dopo che la Dc abbia partecipato alle elezioni. In quel caso sul risultato elettorale penderebbe la ghigliottina dell´illegittimità, sia che si voti il 13-14 aprile, sia che si rinvii. In questo pasticcio giuridico qualcuno ieri già ricordava il precedente di Messina del 2005 quando - al termine di una battaglia legale dentro al Nuovo Psi - i giudici amministrativi annullarono le elezioni comunali e ordinarono la loro ripetizione.

La Repubblica 03.04.2008
Insulti e lanci di uova su Ferrara "Non ho paura, a voi piace l´aborto"
di Michele Smargiassi
Alle ore 18.48 Giuliano Ferrara risponde al fuoco. Riesce ad acchiappare al volo chissà come un paio dei pomodori che gli piovono addosso, e li rispedisce al mittente con mira alzo zero. «Cosa credete, che abbia paura di voi?», ruggisce, «smettetela, è dagli anni settanta che rompete i coglioni alla democratica Bologna!». Gli altri se possibile ruggiscono ancor più di lui, del resto sono alcune centinaia, e cominciano a spingere contro il cordone di polizia, è a questo punto che le cose si fanno difficili, volano manganellate, volano bottigliette d´acqua minerale, Ferrara taglia corto dopo meno di dieci minuti di un comizio che nessuno ha potuto ascoltare, «sì, sì, vado, ma solo perché mi aspettano a Imola, venite a Imola…», sfida, «ci vediamo a Imola», no, quegli altri vogliono vederlo prima e più da vicino, s´intrufolano dietro le divise, gli arrivano a un passo mentre è già sotto i portici, uno gli strappa via il berretto, la polizia reagisce, le botte bipartisan non si contano, un paio di fotografi ci rimettono le macchine e qualche livido, poi da chissà dove piove anche una sedia pieghevole di ferro, una di quelle del bar della piazza, e atterra sul cranio del vostro cronista che da quel momento, scusate, smette per un po´ di fare il cronista per farsi dare qualche punto di sutura al pronto soccorso, proprio mentre il direttore del Foglio commenta con i cronisti superstiti: «Clima da anni Settanta… Bologna è la città più aggressiva d´Italia».
Tutto come annunciato, come ampiamente previsto, tranne il prezzemolo. Quello che i gruppi femministi avevano giurato già dal giorno prima di far piovere sul capo del candidato premier della lista "Aborto No Grazie" prima, durante e dopo il previsto comizio nel cuore antico di Bologna. «Spero che il mio amico Cofferati, se mi aggrediscono, mandi le ruspe», aveva mandato a dire, guascone, Ferrara. Niente ruspe, ma doppie transenne antisfondamento a tutti gli ingressi di Piazza Maggiore, presidiati da agenti in tenuta antisommossa, uno schieramento che Bologna non vedeva da altri tempi. Filtro anti-contestatori: ma non serve. Un gruppetto-civetta rimane buono buono fuori coi cartelli, mentre gli altri uno ad uno s´infiltrano nella piazza, dove si entra solo in fila indiana. Sono ragazzi dei centri sociali (ma l´unico striscione firmato è quello del Tpo, storica sede dei disobbedienti), dei collettivi universitari, dei comitati di occupanti delle case. Rifondazione non c´è, ha scelto di evitare la mischia di distribuire volantini duecento metri lontano. Il comitato d´accoglienza cresce pian piano fino a ingrossarsi, non sono una marea ma ben attrezzati: megafono, fischietti e verdura in tasca. Le ragazze, giovanissime, infuriatissime, si schierano davanti. I cartelli resuscitano, riscritti all´ultimo momento su fogli da taccuino, si va da citazioni di Wittgenstein a un «Ferrara mangia di meno e tr… di più». Il gazebo antiabortista invece esibisce tartine al formaggio e un ratzingeriano "amore e buonumore». Ce ne sarà poco di entrambi. La contraerea sonora comincia già quando prende la parola la candidata Matilde Leonardi, e subito si capisce che non si capirà niente, che questo non è più un comizio ma una prova di forza, del resto lo ammette il secondo degli oratori, Giovanni Salizzoni, figlio di un famoso parlamentare bolognese della Dc, «quarant´anni fa mio padre da questo palco riuscì a zittirvi e ci riusciremo anche oggi», poco importa che allora non fosse ancora nato nessuno dei contestatori qui presenti, si va per categorie ovviamente.
Giuliano Ferrara sorride, sembra divertito, vestito come Pavarotti (sciarpona rossa, berretto floscio) sta con le mani appoggiate alla ringiera di tubi innocenti e cerca perfino di dire qualcosa agli urlanti, il labiale più o meno è: «Lasciate parlare loro, fischiate me». Intanto comincia a volare già qualcosa: monetine, un paio di pomodori, non marci, belli sodi. I poliziotti mettono il casco. Dietro ai duecento scatenati ce ne sono più o meno altrettanti tranquilli, non si sa se sostenitori o spettatori dello spettacolo previsto in cartellone. Ferrara quando tocca a lui non perde tempo e va subito al sodo, «Vi piace un miliardo di aborti? La vera libertà di scelta è quella di non abortire una volta concepito il bambino», almeno è quello che riescono a capire i più vicini agli altoparlanti mentre i contestatori urlano «fascista» e «buffone», tra gli insulti riferibili, fanno gestacci, un palloncino con la scritta "questo è mio" forse vorrebbe sembrare un utero, tra i più scatenati c´è un ragazzo con un bambino di pochi anni sulle spalle, un poliziotto perde la pazienza, «ma deficiente porta via quel bambino!», Ferrara intanto dà consigli, «andate al cinema a vedere Juno, di corsa! Vedrete un´eroina moderna». Anche dopo mezz´ora la potenza sonora è intatta, adesso però arrivano anche i proiettili, c´è già uno schizzo di tuorlo giallo come una medaglia sul taschino dell´oratore, «Voi siete contro la pena di morte? Non si direbbe...», e alla fine succede quel che abbiamo già detto, l´artiglieria incrociata, i manganelli e le sedie volanti. Sul campo resta anche una ragazza di 21 anni, Marianna, studentessa, si preme le mani sul viso e urla: «Mi ha colpito un poliziotto col manico del manganello, lo voglio denunciare». Ai bordi della piazza continuano impassibili a girare i venditori di telefonini di un noto provider, con cartelli che promettono «amici gratis», non capiscono che in politica, quando servono, è molto molto più facile procurarsi nemici gratis.


La Repubblica 03.04.2008
GAROFALO
tra i colori del raffaello ferrarese
Con 70 opere, le più importanti arrivano dalla Russia, comincia l´avventura della Fondazione Ermitage Al Castello Estense si apre sabato la grande retrospettiva dell´artista
Con «Garofalo. Pittore della Ferrara Estense» comincia la grande avventura italiana della Fondazione Ermitage, costituita poco più di sei mesi fa. La mostra, che apre sabato negli affascinanti e simbolici spazi del Castello Estense, sede d´onore della stessa Fondazione, vuol essere un omaggio alla città emiliana, scelta come sede italiana del grande museo russo, e al contempo un omaggio all´età rinascimentale che vide Ferrara tra le principali capitali culturali d´Europa. Ecco perché i curatori dell´evento - Tatiana Kustodieva e Mauro Lucco - hanno scelto Benvenuto Tisi detto il Garofalo, il «Raffaello ferrarese» secondo la definizione dei suoi contemporanei, artista di spicco della corte estense, morto cieco nel 1559, all´età di 78 anni. Fino ad oggi non era mai stato al centro di una vera retrospettiva come questa, che è supportata da grandi prestiti a cominciare, ovviamente, da quelli dell´Ermitage di San Pietroburgo.
Sono settanta le opere che raccontano la sua capacità di assimilare le novità coloristiche di Giorgione, l´attrazione per il classicismo raffaellesco, la curiosità per le novità introdotte da Giulio Romano e Girolamo da Carpi. Provengono dalle istituzioni di mezzo mondo anche se appartengono proprio alle collezioni del museo russo le «meraviglie», tre eccezionali dipinti di grandi dimensioni, realizzati da Garofalo intorno al 1530 per il convento di San Bernardino, il monastero acquistato da Lucrezia Borgia per la nipote Camilla: Le nozze di Cana, la Via Crucis e un´Allegoria del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Quest´ultima tela è una variante di un analogo soggetto custodito nella Pinacoteca di Ferrara, ed è poco conosciuta: per più di cinquant´anni l´opera, accesa dai bianchi, dai rossi, dagli azzurri, è rimasta arrotolata e solo quest´anno, dopo un accurato restauro, è tornata ad essere esposta al pubblico. Ma è arrivato dopo un viaggio di migliaia di chilometri, quindicimila, anche il quarto dipinto della serie: La moltiplicazione dei pani e dei pesci che nel 1931 fu trasferito dall´Ermitage al Museo di Belle Arti dell´Estremo Oriente, in Siberia, nella città di Khabarovsk, dove si trova tuttora. E non manca La Deposizione, il primo dipinto del Rinascimento italiano giunto in Russia ancora regnante Pietro il Grande, all´epoca attribuito a Raffaello.
Dunque ci sono legami «ideali» assai stretti tra il Garofalo e la Russia. Ribadisce Mauro Lucco, il curatore: «La mostra nasce proprio da queste coincidenze: il Garofalo fu il primo artista rinascimentale ad entrare nelle collezioni reali russe. Pochi mesi fa l´Ermitage gli ha dedicato una piccola mostra perché dopo cinquant´anni sono state restaurate le tele provenienti da San Bernardino, rimaste arrotolate nei depositi. Questa era l´occasione per farle vedere in Italia».
Ma è o è stato giusto sovrapporre il Garofalo a Raffaello?
«Se in realtà sta chiedendo: Garofalo è grande come Raffaello? La risposta è no. Raffaello è una delle primissime stelle del firmamento italiano. E´ una stella polare - non la stella di una costellazione come Garofalo, che è un artista di seconda grandezza ma bello, interessante. La nomea di Raffaello ferrarese viene fuori dal clima vissuto tra il Sei e il Settecento, dalla riscoperta delle singole individualità».
Voi cosa avete scoperto di Garofalo preparando questa mostra che è la prima grande retrospettiva dedicata all´artista?
«Non è una retrospettiva completissima. Rispondo con una metafora: abbiamo un puzzle, che è la carriera di Garofalo, composto da diecimila pezzi. Noi possediamo solo 5.673 pezzi sistemati in disordine. Se riusciamo a metterli in ordine garantiamo la leggibilità del disegno. Questo è quello che abbiamo cercato di fare. Non ci sono novità eclatanti o scoperte che sconvolgono la storia dell´arte. Ma ora riusciamo a leggere il percorso del Garofalo, vediamo come si è confrontato con altri artisti. Il nostro è stato un lavoro sottile. Garofalo è stato un uomo dalla vita normalissima, che ha cercato di fare bene il suo mestiere, in maniera assai civile. Ha dipinto bene, ha soddisfatto le esigenze delle comunità religiose di Ferrara. E´ vero che ha eseguito quasi sempre pale d´altare mentre Dosso realizzava opere più fantasiose, più eccitanti per il Duca. In un certo senso Garofalo è stato il contraltare di Dosso Dossi».
Più intimistico e religioso rispetto a Dosso?
«Intimistico no, ma religioso si. I committenti richiedevano pale d´altare e Garofalo soddisfaceva questa esigenze. Nella seconda metà del Quattrocento Ercole d´Este aveva messo in opera uno dei progetti urbanistici più ambiziosi dell´epoca, aveva costruito una nuova parte di città, dove furono innalzate tante chiese, bisognose di arredi, di pale d´altare. Garofalo rispose al meglio a queste domande del mercato».
Va messo tra i pittori «bigotti»?
«Ma se un artista incontra un duca bigotto che commissiona opere a carattere sacro perché poi deve essere definito bigotto? Eppure è quanto scrisse Roberto Longhi e ben presto divennero pittori da non considerare. Ma se uno guarda con attenzione scopre, ad esempio, che Domenico Panetti, il massimo del bigotto, nel 1497 copiò delle incisioni che Dürer aveva realizzato solo un anno prima. Quanti altri pittori avevano questa sensibilità, intelligenza, queste informazioni? Garofalo fece esattamente lo stesso. Era un allievo del Panetti e aveva la stessa strumentazione della bottega del maestro. Panetti copiò in un suo quadro dei dettagli di un´incisione di Dürer, successivamente li ritroviamo anche in un dipinto del Garofalo. Ci sono riprese da Dürer in molti dei dipinti giovanili del Garofalo ma non c´è da meravigliarsi e non è una banalità. E´ un modo, un mezzo per capire, uscire dalla confusione che spesso troviamo nel mondo dell´arte».
Un inedito c´è, ben pochi hanno visto il dipinto di Khabarovsk.
«Per farlo arrivare è stato mobilitato il ministero delle catastrofi, il corrispondente della nostra protezione civile. Solo loro hanno un aereo sufficientemente grande per trasportare in sicurezza il dipinto, che è tre metri di altezza per 2,5 di lunghezza. Faceva parte della collezione di Papa Pio VI, a Palazzo Braschi, a Roma. Arrivò in Russia nel 1840 per volontà dello Zar Nicola I assieme ad altre tre tele del complesso iconografico di San Bernardino, anche queste ora esposte a Ferrara. Ma ci sono molti quadri mai visti dal grande pubblico. Questa mostra è davvero un´occasione unica».


La Repubblica 03.04.2008
L'Odissea di Kubrik
"2001", IL FILM CHE INVENTÒ IL FUTURO
I 40 anni della pietra miliare del cinema. All´epoca non ebbe il successo che il tempo gli ha decretato
di Irene Bignardi
Poteva intitolarsi "Journey beyond the stars", viaggio al di là delle stelle. Avremmo potuto sentire "Il sogno di una notte di mezza estate" di Mendelssohn al posto del "Bel Danubio Blu" e i "Carmina burana" di Carl Orff al posto di Richard Strauss. Il monolito nero avrebbe potuto avere una forma completamente diversa: un cubo trasparente, una piramide, un tetraedro. A lungo si pensò di usare il formato 1:85 anziché il sontuoso formato dei 70mm superpanavision.
Insomma, sarebbe potuto essere completamente un altro film. Certo, un altro film di Stanley Kubrick. Invece, da quattro anni di pensamenti e ripensamenti, di innamoramenti, indagini scientifiche, studi, ipotesi, scritture parallele, invenzioni tecniche, traslochi tra l´America e l´Inghilterra, scontri, lacrime (dei collaboratori), paranoie (dell´autore), gelosie (tra il regista e il suo «scrittore» Arthur C. Clarke) e di cambiamenti (a dispetto di chi pensa che una sceneggiatura cinematografia hollywoodiana sia una botte di ferro) venne alla luce 2001: Odissea nello spazio, la pietra miliare del cinema che domani compie quarant´anni: quarant´anni dalla prima a New York del 4 aprile 1968 di un film che esplose con una combustione lenta mentre l´America e il mondo vivevano in un clima di controcultura giovanile e di protesta, con la guerra del Vietnam sullo sfondo e lo sbarco americano sulla luna di lì a poco.
Se esiste qualcosa che merita di esser chiamato zeitgeist, se quello era lo spirito del tempo, il film di Kubrick s´inseriva perfettamente nel quadro. Anche se non fu accolto con il successo che il tempo gli ha poi decretato. Basti dire che l´allora regina della critica americana, Pauline Kael, lo definì spregiativamente «il massimo film amatoriale», facendosi beffe anche dell´apparizione della figlia piccolina di Kubrick in una breve scena del film. Né gli resero giustizia (ma c´era da aspettarselo?) gli Oscar, che lo premiarono solo per gli effetti speciali. Ma con grande stupore del reparto marketing della Mgm, che aveva finanziato il film, gli resero giustizia i giovani, che corsero a vivere quella che consideravano alla stregua di un´esperienza psichedelica. E il biografo di Kubrick, Vincent Lobrutto, giura che nei teatri dove si presentava 2001: Odissea nello spazio, si respirava solo marijuana.
Il resto è la storia di un successo che dura da mezzo secolo e che era nato quattro anni prima, nel febbraio del 1964, a New York, dove Kubrick si trovava in occasione dell´uscita di Stranamore con Caras, il pubblicitario della Columbia che si occupava del film. Fu Caras che, di fronte all´interesse espresso da Kubrick per la fantascienza, gli suggerì il nome di Arthur C. Clarke. Uno scambio di telegrammi portò Clarke a New York dal suo eremo a Ceylon, mentre il sempre irrequieto Kubrick divorava un libro di scienza e fantascienza dietro l´altro. Clarke aveva suggerito intanto a Kubrick di leggere il suo racconto La sentinella - dove compare per la prima volta l´idea di una sorta di monolito. Ma il progetto si tradusse in qualcosa di molto più ambizioso e rischioso: sistemato al Chelsea Hotel di Mahattan, Clarke doveva scrivere, sulla base dei suoi racconti e secondo le grandi linee concordate con Kubrick, un romanzo che sarebbe stata la base della sceneggiatura (« la forma di scrittura meno comunicativa mai immaginata», diceva Kubrick), mentre il regista procedeva nelle ricerche e nella preparazione del film...
E di ricerche Kubrick ne ha fatte non poche, come si vede anche dal volume pubblicato recentemente da Isbn Edizioni, che raccoglie le ventun interviste realizzate dal regista (in realtà da Roger Caras, con Kubrick committente), davanti alla telecamera, ad altrettanti scienziati e pensatori, da Margaret Mead a Fred Whipple, da Skinner ad Asimov, ponendo loro l´imbarazzante domanda: che cosa ci riserva il futuro? Le risposte sono a dir poco buffe, viste dalla prospettiva del 2008. Il 2001 doveva sembrare molto lontano e ricco di speranze, di illusioni scientifiche e sociali: i computer sarebbero stati intelligenti come Hal 9000 ma buoni come lui non è, saremmo arrivati alla conquista del sistema solare, e via con le magnifiche sorti e progressive.
Da questa massa di letture, illusioni, discussioni (che aspetto dovrebbero avere gli extraterrestri per non ricadere nello stereotipo della fantascienza?), di istruzioni date a Clarke circa modifiche e nuove idee per il romanzo, uscì finalmente la sceneggiatura - che Kubrick disse di non amare. Troppo dialogo. Clarke tagliò. E alla fine, su 139 minuti di film, il dialogo avrebbe coperto solo 46 minuti. La lavorazione ebbe inizio il 29 dicembre 1965 in Inghilterra, negli studios di Boreham Wood, dove fu ricostruita la «centrifuga», la grande ruota dell´astronave Discovery. Il film doveva costare 6 milioni di dollari (ma la cifra alla fine avrebbe coperto solo gli effetti speciali, e il budget finale si assestò sui 10,5 milioni, una cifra spropositata per l´epoca, anche se ampiamente ripagata dai risultati). Fu una lavorazione di dimensioni e durata titaniche. Kubrick si trasferì armi e bagagli, moglie e figliolette, nel paese che sarebbe diventato il suo. Tra sperimentazioni ed effetti speciali mai prima sperimentati la lavorazione durò diciotto mesi. La diffidenza di Kubrick per i viaggi fece sì che persino la scena fondamentale in cui Moon-Watcher, lo scimmione capo, lancia il suo osso/arma nel cielo, creando, come disse Clarke, il più lungo flash forward della storia del cinema (quattro milioni di anni), fu girata non lontano dagli studios, tagliando fuori dall´immagine «il ventesimo secolo».
È la magia del cinema. Kubrick montò fino all´ultimo minuto, anche a bordo del Queen Elizabeth che lo portava a New York per la prima. Sapeva di aver fatto il film che segnava un´epoca. Ognuno l´avrebbe letto a suo modo. Molto si sarebbe discusso. Kubrick concesse, tra le tante spiegazioni, che poteva trattarsi della ricerca di Dio. Poi cominciò a sognare di fare il suo Napoleone.


La Repubblica 03.04.2008
Se la modernità fa male al diritto
A proposito delle tesi contenute in un saggio dello storico Paolo Grossi
di Stefano Rodotà

ll´Europa si addice la riflessione giuridica. Che è, insieme, capacità di penetrare una complessa vicenda culturale e consapevolezza dei molteplici modi attraverso i quali il diritto contribuisce a conformare l´organizzazione sociale. Lo fa, in modo nient´affatto compiacente, uno storico di gran rango, Paolo Grossi, al quale si deve un´impresa impegnativa, quella di ricostruire la vicenda giuridica europea dalla metà del primo millennio fino alle soglie del terzo (L´Europa del diritto, Laterza, pagg. 277, euro 20).
L´«intelligibilità di discorso» e la «prevalente attenzione» per il diritto privato, che l´autore proclama fin dalle prime pagine, non sono in alcun momento una limitazione o un impoverimento della trattazione. Se il libro è scritto per i non iniziati, in nessun momento questo significa un appiattirsi della narrazione: il linguaggio è forte, i giudizi taglienti. Vicende e problemi sono indicati in modo nitidissimo, sì che il libro diviene un´ineludibile pietra di paragone. Non appartiene ai soli giuristi o ai curiosi del diritto, ma è quasi una sfida lanciata a tutti quelli che riflettono su passato, presente e futuro dell´Europa.
Neppure la dichiarata intenzione di seguire prevalentemente il diritto «che ordina la vita quotidiana dei privati» induce a distogliere lo sguardo da una realtà più larga, a chiudersi in una gabbia. Se quello è il punto d´osservazione, da lì si contempla un orizzonte amplissimo, dove compaiono le logiche del potere e le durezze delle relazioni sociali.
Questa capacità di immergere il diritto nel fluire della realtà discende dal modo in cui Paolo Grossi considera il diritto e la sua storia: come esperienza giuridica che, nelle diverse civiltà, si manifesta attraverso diverse visioni e realizzazioni. Il diritto soffre quando lo si fa prigioniero di una logica che contraddice questa sua intima natura. «Il diritto - scrive Grossi - è vita, è esperienza mobilissima, ed è compresso - più che espresso - da un monopolio legislativo». Quando al pluralismo si sostituisce «il potere politico supremo come unica fonte del diritto», il risultato è quell´assolutismo giuridico che da anni costituisce l´oggetto polemico della ricerca di Paolo Grossi.
Non siamo di fronte ad affermazioni apodittiche, ma a conclusioni tratte da una ricca analisi che segue nei secoli le vicende del diritto nei vari luoghi dell´Europa, nelle sue diverse manifestazioni tecniche, nel suo incarnarsi nell´opera dei giuristi, il cui essenziale protagonismo Grossi sottolinea con attenzione partecipe e convinta. Da qui nasce una rappresentazione della vicenda giuridica europea quasi come lotta tra chi vuole salvaguardarne la molteplice ricchezza e chi vuole chiuderla, anche con una mossa autoritaria, entro schemi astratti e unificanti. Da qui una critica decisa alla modernità giuridica, che costituisce uno dei tratti forti dell´opera.
Nulla è risparmiato ai simboli per eccellenza di quella modernità, il soggetto giuridico astratto e la codificazione. Il linguaggio si accende, le parole sono rivelatrici. Grossi riconosce quelle che sono «autentiche conquiste della modernità», come l´abbattimento dei vincoli di ceto, il riconoscimento al soggetto dell´esercizio dei diritti che presidiano la sua personalità. Ma il prezzo? A Grossi appare troppo elevato: non più uomini in carne ed ossa, ma modelli astratti che si muovono in uno «scenario irreale», che non fa più i conti con la realtà e con la storia.
«È ovvio che da un simile presupposto venga fuori solo un catalogo, che è teoricamente suadente nel suo parlar sonoro di libertà, di uguaglianza, di diritti e - perché no? - di felicità (termine ingenuo che ricorre spesso nelle "carte" settecentesche), ma che non può consolare il nullatenente del quarto stato, che non è neppure sfiorato nella miseria della sua vita quotidiana, da uno scialo di dichiarazioni irrilevanti - se non schernitrici - per chi fa i conti con la fame. Dallo stato di natura discende una raffigurazione statica, come si conviene all´aria rarefatta della meta-storia; ma la vita - quella realmente vissuta - è consegnata tutta alla dinamica delle forze in lotta».
Così argomentando, Paolo Grossi non mette soltanto in evidenza limiti del diritto. Denuncia un vero e proprio suo scacco quando assume la forma alla quale la modernità ha voluto consegnarlo attraverso il giusnaturalismo e l´Illuminismo - la «strombazzata uguaglianza» del 1789, «museale» al pari di quel codice civile che «presuppone le mitologie legalistiche e legolatriche dell´illuminismo continentale»; la «foglia di fico» della volontà generale; l´individuo astratto dalle relazioni sociali e consegnato alla solitudine. La critica, conseguente, investe il soggetto storico di questa operazione, la borghesia, e il suo strumento essenziale, la proprietà, ai quali viene contrapposta la condizione di «poveri» e «sfruttati». Ancora parole forti, non usuali per il lessico giuridico (e ormai quasi assenti nello stesso linguaggio politico), alle quali Grossi si affida proprio per recuperare i dati di realtà, oscurati o cancellati dalla progressiva supremazia delle categorie giuridiche astratte.
Naturalmente qui le opinioni possono divergere, e si pone subito il problema se la critica sociale di questo modo d´essere del diritto moderno debba necessariamente portare con sé una ripulsa così totale dell´intera modernità giuridica (come Paolo Grossi sa, ho orientato diversamente la mia ricerca e, pur nella comune critica alla categoria della proprietà, continuo a ritenere che le acquisizioni in particolare dell´Illuminismo rimangano riferimento essenziale anche nell´attuale temperie di attacco alla persona e ai suoi diritti).
Vi è dunque un pensiero forte, fortissimo, che ispira e muove questo libro che così diviene politico nel senso più alto e pieno della parola. L´aver proposto, in un´opera dedicata al largo pubblico, tesi così impegnative è buona cosa, il punto di partenza per una rinnovata discussione, di cui qui possono essere solo accennati i motivi essenziali, che vanno dall´interrogarsi intorno ad una così radicale svalutazione dell´eguaglianza formale e dei diritti fondamentali fino all´essenziale riapertura della questione della costruzione di una soggettività non astratta.
Entrando nel secolo passato, nella ricostruzione di Grossi si scorgono precise indicazioni che sottolineano pure come la parentesi della modernità si sia, almeno in parte, chiusa, con il recupero del pluralismo, con l´articolazione delle fonti che sfida l´assolutismo giuridico, dunque con una marcata discontinuità rispetto allo schema prevalso nei due secoli precedenti. Di nuovo, Paolo Grossi intreccia con maestria i fili di una trama complessa, costituita dal convergere e divergere di tradizioni diverse (basta ricordare l´esperienza del diritto continentale e quella di common law) e di diversi ordinamenti giuridici, come quello della Chiesa.
A questo sono dedicate pagine assai belle, dove tra l´altro emerge il divaricarsi del suo diritto da quello statuale, permeato dagli spiriti dell´Illuminismo e della Rivoluzione, che della Chiesa divengono «feroci antagonisti» (tanto che, forse con qualche malizia, questa constatazione consente di dubitare che le radici dell´Europa possano essere ritrovate solo in quelle cristiane).

Corriere della Sera 03.04.2008
Addio al comunista, eroe da romanzo
Da Vittorini a Morselli: la parabola di un personaggio che per tanti incarnò le virtù del popolo

di Sergio Luzzatto
Quella cui stiamo assistendo è una campagna elettorale molto particolare, anzi unica nella storia dell'Italia repubblicana: è la prima senza la figura del «comunista». Beninteso, sul terreno concreto della lotta politica e sociale i comunisti erano spariti già da tempo, né un Oliviero Diliberto era mai bastato a risuscitarli. Ma per sessant'anni dopo la nascita della Repubblica, fino alle elezioni legislative del 2006, il comunista non era sparito dall'immaginario collettivo: era rimasto vivo, quanto meno, nella leggenda nera alimentata dagli avversari, in primis da Silvio Berlusconi. La campagna elettorale del 2008 segna invece la sua scomparsa dal nostro firmamento mentale. La sua eclissi totale e probabilmente definitiva, l'inappellabile morte di una stella.
Buona ragione per guardarsi indietro un'ultima volta, ragionando su che cosa il comunista (e la comunista) abbiano rappresentato lungo vari decenni della storia italiana: non tanto come presenze reali, elettori o eletti, militanti di base o dirigenti di partito, quanto piuttosto — per l'appunto — come presenze virtuali, figure dell'immaginario. E vale da guida un volume uscito proprio in questi giorni, intitolato
Il comunista e firmato da una giovane critica, Anna Baldini (Utet libreria, pp. 222, e 17,50). Dove l'astro oggi scomparso viene ritrovato come una stella fissa nel nostro universo letterario, e insieme viene scrutato nella molteplicità delle sue facce visibili o nascoste.
Partigiano, operaio, intellettuale, funzionario, sindacalista, (se donna) femminista…: dietro verifica, il comunista risulta figura diffusa nella letteratura italiana dalla Liberazione al Sessantotto. Ma se pure le incarnazioni del personaggio furono tante, fondativa e fondamentale riuscì quella del comunista come resistente. Da un racconto all'altro pubblicato su Rinascita
nei tardi anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta, da un romanzo all'altro pubblicato da Einaudi nel medesimo decennio, raffigurare il comunista significò anzitutto questo: raffigurare l'eroe della banda partigiana. Generalmente un operaio, meno spesso un contadino, comunque un proletario, che l'alter ego del narratore — generalmente un intellettuale, comunque un borghese — aveva incontrato sulle montagne durante la guerra civile del 1943-45, e dal quale aveva imparato le meravigliose virtù del popolo. Tutto un patrimonio di sanità e di bontà con cui correggere il degrado fisico e morale della borghesia; il viatico della Resistenza da portarsi dietro nell'Italia nuova.
Diseguale per qualità dei risultati (modesti in una Renata Viganò, notevoli in Vittorini o in Pavese), la letteratura che ruotava intorno al personaggio del partigiano comunista è stata per lo più rubricata sotto l'etichetta edificante del «neorealismo ». Allo sguardo tagliente di Anna Baldini, quella letteratura sembra partecipare però di qualcos'altro: di un «realismo socialista» all'italiana. E non soltanto nell'immagine oleografica dell'intellettuale degenerato che rinasce grazie all'incontro con il compagno proletario. Anche in altre strutture tipiche di tale narrativa, come la rappresentazione della donna borghese quale Eva tentatrice, o come lo stereotipo dell'adesione al comunismo quale provvidenziale superamento dell'immaturità fascista oppure attendista, quale vera e sola entrata nell'età adulta.
Tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, le scritture di due ex partigiani estranei al mondo comunista, Beppe Fenoglio e Luigi Meneghello, dimostrarono all'incontrario i limiti di una visione retorica della Resistenza. Ma la cultura stessa del comunismo italiano era allora più libera e più autocritica di quanto non vogliano dirne i denigratori d'oggidì, quelli secondo cui tutti i mali d'Italia deriverebbero dalla famigerata egemonia di Togliatti sul famigerato editore Einaudi. Dopo l'«indimenticabile» 1956, dai torchi einaudiani uscirono libri destinati a modificare significativamente l'immagine letteraria del comunista: Fausto e Anna eL a ragazza di Bube di Cassola,
Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani. Soprattutto, uscì dai torchi di Einaudi un libro decisivo sul comunista che scopre l'insufficienza del comunismo; e che scopre, in generale, l'insufficienza delle ideologie di fronte ai dilemmi della biologia, l'inanità della storia e del progresso nel risolvere le questioni ultime della natura e del destino. Quel libro era La giornata d'uno scrutatore, pubblicato nel 1963 da Italo Calvino.
Raccontava l'esperienza di un intellettuale comunista, Amerigo Ormea, scrutatore in una sezione elettorale posta all'interno del Cottolengo di Torino. Ne diceva lo sdegno per la mobilitazione politica dei disabili (i dementi oltre che gli storpi) ad opera della Democrazia cristiana e della Chiesa. Ma esplorava anche i dubbi di Amerigo intorno al fondo delle cose, al segreto della persona umana: dubbi rafforzati — in quella medesima, fatidica giornata — dalla scoperta che la sua partner occasionale, Lia, era incinta. E che forse Lia non avrebbe rinunciato alla creatura che portava in grembo. E che forse avrebbe fatto bene a non rinunciarvi. «Per lo spazio d'un secondo (cioè per sempre) gli sembrò d'aver capito come nello stesso significato della parola amore potessero stare insieme una cosa del genere di quella sua con Lia e la muta visita domenicale al "Cottolengo" del contadino al figlio».
Due anni più tardi, nel 1965, Calvino respinse per conto di Einaudi il dattiloscritto di un romanzo culturalmente affine al suo racconto lungo del '63: volume pubblicato postumo da Adelphi oltre dieci anni dopo, Il comunista di Guido Morselli. E tuttavia Calvino per primo misurò quanto il racconto su Amerigo Ormea, sui malati del Cottolengo e sulla gravidanza di Lia avesse modificato in maniera decisiva non soltanto il suo modo di essere scrittore engagé, ma l'intero orizzonte del rapporto fra letteratura e politica nell'Italia contemporanea. «I temi che tocco con La giornata d'uno scrutatore,
quello della infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione, non avevo mai osato sfiorarli prima d'ora. Non dico d'aver fatto più che sfiorarli; ma già l'ammettere la loro esistenza, il sapere che si deve tenerne conto, cambia molte cose».
La riflessione della Giornata d'uno scrutatore anticipava di mezzo secolo quella di un altro ex comunista determinato a interrogarsi sul travaglio della politica davanti alle cose ultime, la vita e la morte, l'amore e il dolore, l'aborto e l'eutanasia: anticipava la riflessione odierna di Giuliano Ferrara. Chissà se Italo Calvino ne sarebbe stato orgoglioso, o se — al contrario — se ne sarebbe vergognato.

Unità 03.04.2008
King, il Lutero nero dei diritti umani
di Massimo Aprile
L’Unità, a buona ragione, ha deciso di ristampare la biografia di Lerone Bennett, pubblicata per la prima volta in Italia nel 1969, a cura della Claudiana, e di farlo in occasione del 40° anniversario del tragico assassinio di Martin Luther King Jr. occorso il 4 aprile 1968.
Molti, nelle chiese, nei gruppi nonviolenti, nelle organizzazioni di volontariato e di solidarietà con gli immigrati, nelle associazioni contro il razzismo, non si lasceranno sfuggire l’occasione per riaprire, nel confronto con questo straordinario personaggio, un dossier che ha molti fascicoli e che non è stato mai del tutto chiuso. Un dossier che non riguarda solamente una pagina critica della democrazia statunitense di questo secolo, ma che tocca problematiche tuttora in discussione anche in Europa: pace e sicurezza, militarismo ed economia, soluzione nonviolenta dei conflitti, povertà, multiculturalismo, razzismo. Solo per citare i nomi di alcuni di questi fascicoli.
In questo sta certamente l’interesse sempre vivo per il movimento per i diritti civili e la vita di questo profeta di pace, e quindi la fondata motivazione di consentire al grande pubblico una rilettura della vita di Martin Luther King chiara, sintetica ma anche ben documentata come quella offerta da L. Bennett.
Dal 1969 a oggi l’interesse per il personaggio King non è andato mai scemando, testimonianza ne è la ristampa delle oltre quaranta edizioni de La forza di amare, famosa raccolta di alcuni suoi sermoni utilizzati da tempo tanto nelle catechesi ecclesiastiche quanto nelle scuole. Il «sogno» di King di una società riconciliata e pacifica, pur nelle sue differenze etniche e culturali, non è mai tramontato. Al contrario, direi che oggi, dinanzi alla crisi delle ideologie, soprattutto quelle di sinistra, alcune delle quali troppo frettolosamente liquidarono King come un borghese al servizio della società capitalistica, unitamente al sogno si riscopre e valorizza la capacità strategica del suo movimento e la profondità della sua analisi politica che, partendo dalla grave situazione di razzismo negli Usa degli anni Cinquanta e Sessanta, si allarga poi a riflessioni più complesse sul militarismo e imperialismo Usa e sulle condizioni di povertà strutturale di tante fasce della stessa popolazione americana.
A questo proposito ritengo che vadano segnalati ai lettori interessati a un approfondimento, alcuni testi scelti tra i tanti. Il primo è la pubblicazione da parte di James Cone, un famoso teologo afroamericano che insegna allo Union Theological Seminary di New York, di una biografia intrecciata di Martin Luther King e Malcolm X. Il titolo del testo è: Martin, Malcolm and America: A Dream or a Nightmare (Maryknoll, Orbiss, 1991). L’opera è importante perché esprime la rivendicazione da parte della maggioranza della comunità afroamericana di entrambi i personaggi.
A un primo sguardo i due hanno in comune, oltre che il colore della pelle e la loro lotta appassionata contro il razzismo, solamente la loro morte violenta. Per il resto, nella metodologia come nelle finalità, appaiono a tratti addirittura speculari. Martin coltiva il sogno di una società riconciliata in cui i neri siano del tutto integrati nella società americana. Egli, assieme alla comunità nera d’America e ai liberal bianchi, persegue il suo obiettivo con una strategia rigorosamente nonviolenta mutuata in larga misura da uno dei suoi maestri, Gandhi. Per Malcolm, invece, non c’è alcun sogno americano, c’è solo un incubo. Per dirla con le sue stesse parole, «No, io non sono un americano. Io sono uno dei 22 milioni di neri vittime dell’americanismo, una delle vittime della democrazia americana che è nient’altro che una deprecabile ipocrisia. E quindi io non sto qui a parlarvi come un americano, come un patriota, o come uno che onora e saluta la bandiera. No, io no! Io vi parlo piuttosto come una vittima del sistema americano, io vedo questa nazione con gli occhi della vittima. Io non vedo nessun sogno americano; io vedo solo un incubo americano!».
Malcolm non si fida per nulla dei bianchi, neppure di quelli più «illuminati». Per lui, non l’integrazione è l’unica via d’uscita, ma la separazione, dapprima parlando di un possibile ritorno in Africa, poi della costituzione di una nazione indipendente in America. E infine ritiene che la strategia nonviolenta non sia né necessaria, né efficace.
Martin si presenta come il profeta di pace dei neri degli Stati del Sud, Malcolm come il leader trascinatore dei neri che vivono nelle grandi metropoli americane del Nord. Il primo è cristiano, il secondo musulmano.
L’approccio originale della biografia comparata di Cone sta nel fatto che i due personaggi siano colti diacronicamente nello sviluppo delle loro idee e posizioni politiche e religiose. E la scoperta maggiore sta nel rilevare il processo di avvicinamento dei due grandi leader alla luce delle proprie esperienze. King negli ultimi anni della sua vita rivolge sempre più spesso la sua attenzione a questioni come la povertà strutturale del Terzo mondo, il militarismo americano e la guerra del Vietnam. Il sogno non svanisce, ma più profonda diviene la sua consapevolezza rispetto al sistema politico-economico-militare che tiene sotto scacco non solo i neri d’America, ma anche tanti altri poveri dentro e fuori la nazione. Malcolm, per converso, è costretto a rivedere l’impostazione religiosa e ideologica della Nazione dell’Islam cui aveva dato il suo entusiastico contributo di leader carismatico.
È proprio in questa linea, attenta a cogliere lo sviluppo e la maturazione del pensiero politico e religioso di King, che si aggiunge nel 1993 un’importante iniziativa editoriale della Claudiana, rappresentata dalla traduzione e pubblicazione a cura di Paolo Naso di diversi scritti di King selezionati dall’antologia A Testament of Hope: The Essential Writings and Spechees of Martin Luther King, jr. Il libro, emblematicamente intitolato L’«altro» Martin Luther King, presenta una ragionata introduzione dello stesso curatore. Con il crescere della consapevolezza da parte di King del filo rosso che unisce razzismo, povertà e militarismo, cresce anche, è questa la tesi di Naso, un certo isolamento del leader che lo renderà più vulnerabile alla vigilia del suo assassinio, occorso il 4 aprile 1968.
È del 1994 la pubblicazione di Gabriella Lavina Serpente e colomba: la ricerca religiosa di Martin Luther King, volume edito a Napoli da La Città del Sole. Si tratta di un’opera di 650 pagine che descrive, con rigore scientifico e dovizia di fonti, il pensiero di King e l’ambiente politico e culturale nel quale il suo genio è maturato. La prima parte del titolo del libro prende spunto da uno dei sermoni di King raccolti in La Forza di amare, quello sul testo di Matteo 10,16 «Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe». Lavina indica nella dialettica tra «mente acuta e cuore tenero» la sintesi antropologica di King. Ma la metafora del serpente e della colomba bene esprime anche un aspetto fondamentale della sua spiritualità. La «mente robusta» sta nel suo rigore scientifico e nell’appello, spesso reiterato nei suoi sermoni, alla autorealizzazione. Il nero deve uscire dalla sua condizione di subalternità sociale anche attraverso un processo di emancipazione culturale e psicologica che gli consenta di acquisire fiducia nei propri mezzi e nelle proprie potenzialità. L’emancipazione passa per la cruna d’ago della formazione del carattere e della disciplina. «Secondo me, uno degli scopi principali dell’educazione - scrive infatti King allora ancora diciannovenne - consiste nel salvare l’uomo dalla palude della propaganda. L’educazione deve mettere in grado ognuno di vagliare, soppesare i fatti per metterli in evidenza, di distinguere il vero dal falso, il reale dall’illusorio e i fatti dalle finzioni (…). Dobbiamo ricordare che l’intelligenza non basta. Intelligenza più carattere: ecco lo scopo della vera educazione» (p. 49).
La fertilità della mente deve esprimersi in lucide strategie per smascherare il conflitto senza mai edulcorarlo o nasconderlo. Il confronto con la società razzista viene inseguito e messo a nudo con puntualità e pignoleria da King. Forse l’insistenza sulla mente acuta e penetrante è anche legata alla riconosciuta emotività del nero. Non di rado, ci riferisce infatti Bennett, King era irritato dalla predicazione di certi pastori neri, i quali tendevano a ridurre tutto il messaggio evangelico a mera emotività, risolvendosi il più delle volte in azione sterile proprio perché difettosa di robustezza, approfondimento, rigore. «Egli pensava che vi fosse eccedenza di pastori “scarsamente dotati intellettualmente, e poco preparati” nella chiesa nera» (p. 47).
Ma King era anche cosciente che questa emotività della comunità nera rappresentasse una sua forza dirompente e una riserva di energia pressoché inesauribile per la lotta. D’altra parte, nelle parole stesse di King «avere le qualità del serpente senza quelle della colomba, significa essere freddi, meschini ed egoisti; così come avere le qualità della colomba senza quelle del serpente significa essere sentimentali, anemici e inconsistenti» (La forza di amare).
Infine segnalo la recente pubblicazione, ancora da parte della Claudiana del testo curato da Paolo Naso, Il sogno e la storia. Il pensiero e l’attualità di Martin Luther King (Torino, 2007). Il testo, presentato in occasione di un importante convegno internazionale organizzato dall’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia e dalla Lott Carey Convention degli Usa, propone diversi saggi di autori italiani e americani sulla legacy del messaggio di King oggi.
Si tratta di un testo agevole, con saggi brevi, decisamente interessante, perché vi si intrecciano voci di uomini e donne, battisti italiani e afroamericani, persone credenti e non, che concorrono a ricomporre la personalità di King, inserendola nel contesto del movimento della Sclc (Southern Christian Leadership Conference), organizzazione che King stesso fondò nel febbraio del 1957, e della storia di quegli anni negli Usa e nel mondo.
La raccolta di saggi si interroga sull’attualità del messaggio di King a partire dalle questioni odierne della globalizzazione, della povertà e del dialogo interreligioso.


DOMANI CON L’UNITÀ a quarant’anni dalla sua uccisione la biografia del leader nero scritta da Lerone Bennett, suo amico e compagno di college. La storia e le battaglie dell’«uomo di Atlanta» ricostruita sul filo degli eventi dagli esordi alla morte



Unità 03.04.2008
Quella sera in casa di Martin Luther King
di Furio Colombo

Ero ad Atlanta, quel giorno, 4 aprile 1968. Ero in casa di Martin Luther King, all’ora di cena, che nel Sud degli Stati Uniti è molto presto. Coretta King era a capotavola, nella sala da pranzo un po’ pretenziosa della loro casa di borghesia colta e nera. Io sedevo di fronte a lei, i due bambini maschi da un lato, la bambina dall’altro, accanto al reverendo Martin Luther King senior, il padre del predicatore, predicatore lui stesso, e anzi fondatore della piccola chiesa di Auburn Avenue, che era ancora il centro di tutta l’attività del leader del Movimento per i Diritti Civili.
Mancava la figlia più grande, Yolanda. C’era una giovane donna, parente di Coretta King, che si curava dei piccoli, girava intorno a noi, correggendoli e un po’sgridandoli, ma senza sedersi a tavola, perché andava e veniva dal telefono che era in una stanzetta detta «lo studio del dottor King».
Quando non è tornata (erano le sette di sera) e ad uno ad uno gli adulti si sono radunati in quella stanza, davanti al televisore acceso, è toccato a me restare con i bambini.
Sapevano che il padre era a Memphis «a predicare a tanti uomini e donne che facevano una marcia». Il più grande, Martin, sapeva anche perché. Erano coloro che tenevano pulite le città e per tutto quel lavoro «non li pagavano niente». E allora facevano una grande protesta e suo padre era lì, con loro.
La parte privata del racconto finisce qui. Qui cominciano le immagini della televisione, la più difficile da dimenticare è quella di Andrew Young e di Raph Abernathy inginocchiati accanto al corpo di Martin Luther King, sul ballatoio del Lorraine Hotel di Memphis. Young cerca di sollevare con la mano la testa insanguinata di King, appena colpito. Obiettivo facile, più facile di un film. Nei motel poveri d’America per raggiungere le stanze si passa da una terrazza esterna, come nelle case italiane «a ringhiera». Basta sapere il numero della stanza e aspettare con l’arma di precisione puntata alla porta, dopo avere calcolato l’altezza, e dunque la testa della persona da uccidere.Ma il film, più vero e più drammatico e sorprendente di un thriller, continua. In un’altra inquadratura del celebre filmato di quella sera, Andrew Young indica di fronte a sé. Non si vede dove indica, nell’inquadratura. Ma al di là da un ampio spazio desolato, c’è una vecchia casa rossa con scale antincendio esterne, e una grande terrazza in alto, più o meno all’altezza del secondo piano del Lorraine e proprio di fronte alla stanza di King, l’ultima sul ballatoio (a sinistra, guardando da fuori). Dunque a quella casa di fronte, di là dallo spazio desolato (erba, terriccio, auto abbandonate) si può arrivare da dentro, attraverso scricchiolanti e malconce scale di legno, oppure arrampicandosi sulla scala di ferro, da fuori.
L’importante è arrivare prima e appostarsi.
Il perché l’ho capito arrivando, con il cameraman della Rai, dalle scale di legno. Il primo e il secondo piano sono vuoti. Il terzo è un immenso stanzone con brande e sedie. Ci sono una cinquantina di uomini quasi tutti anziani, alcuni incapaci di muoversi o per il tremore o per il disorientamento, perché guardano assenti. Non si vedono infermieri. C’è stato un putiferio di grida al nostro arrivo. Poi è cessato, quasi di colpo, e un grande silenzio, o parole dette a voce molto bassa e senza alcuna coerenza, seguivano il nostro lavoro di montare la telecamera.
Abbiamo chiesto dove si era piazzato l’uomo con l’arma di precisione. Uno che poteva camminare, con un sorriso dolce ci ha indicato un punto, poi un altro. Ha puntato in basso, dove non ci sono finestre, poi in alto, forse per dire dove vanno le anime dopo gli spari. Rideva in modo dolce, come se si rendesse conto della sua impotenza. E della nostra.
C’erano tracce di piedi e di scarponi, ma di chi, ma da quando? C’era già stata la polizia? Molti hanno battuto le mani, altri si sono voltati verso il muro.
Ci hanno avvertito della rivolta di Washington, diceva la radio: «La capitale degli Stati Uniti è in fiamme».
Siamo partiti subito. A quel tempo, in America, c’erano voli anche di notte. Si chiamavano red eyes (occhi rossi) e costavano meno. Era prima, molto prima della mitica de-regulation di Reagan, che ha tagliato a metà l’aviazione civile americana e moltiplicato i costi, perché tutto è stato lasciato alla discrezione di un cartello detto «concorrenza».
A Washington era difficile entrare in città, a causa dei posti di blocco di Guardia Nazionale e paracadutisti, i soldati che avevano sostituito la polizia metropolitana nel tentativo di riprendere il controllo della città. Ma a quel tempo le credenziali di giornalista erano sacre.
All’aeroporto abbiamo fatto la cosa più rischiosa ma anche più utile: abbiamo noleggiato una di quelle enormi auto scoperte che si vedono nelle parate dei film anni Cinquanta.
In quel modo potevamo filmare intorno senza i limiti dei finestrini. Con quell’auto, alla sera del primo giorno, e dopo avere filmato la distruzione (interi isolati di case in fiamme, incendi provocati dai rivoltosi neri nei quartieri e nelle case dei neri, il resto della città era sbarrato da cingolati messi per traverso, filo spinato e soldati) siamo andati nel piccolo edificio a due piani in cui Robert Kenney aveva organizzato il suo ufficio per la sua campagna elettorale. Era candidato democratico contro il presidente democratico Johnson, era il candidato contro la guerra nel Vietnam, votata da senatori e deputati del suo partito. Stava vincendo, ad una ad una, con i suoi indimenticabili discorsi, tutte le elezioni primarie.
Gli ho proposto l’idea pazzesca di venire sulla nostra auto scoperta. Saremmo andati alla Quattordicesima strada, angolo F street dove era cominciata la rivolta, una o due ore dopo la notizia dell’assassinio di Martin Luther King.
Robert Kennedy mi ha chiesto un quarto d’ora per riflettere. Si è ritirato in uno stanzino diviso da una porta a vetri. Potevamo filmarlo, mentre, muovendo un po’ le labbra, stava «pensandoci» come aveva detto, e lo abbiamo fatto, senza tagli o montaggi, Kennedy non ha consultato nessuno. Ha deciso da solo, neppure Ted Sorensen, comune amico e che si vede accanto a me e a lui nel documentario di quel momento. È venuto da solo.
Era notte e non c’erano luci perché l’energia elettrica era stata tolta in città. Siamo entrati in un’area che sembrava vuota e spenta. Ma quando abbiamo acceso l’unico riflettore, puntandolo su Robert Kennedy, che si era alzato e stava dritto sulla parte posteriore dell’auto, alcuni ragazzi si sono avvicinati. Sembravano dieci o venti, e invece erano molti di più, così è accaduto in pochi minuti. C’era una di quelle reti metalliche dei campi da gioco urbani. La rete consentiva a Bob Kennedy di appoggiarsi e di lasciarsi spingere più in alto. Non da noi, dalle mani dei giovani neri.
È in quel modo, in quella condizione, in quella notte, che il giovane senatore Robert Kennedy ha parlato ai neri di Washington in rivolta. Ha parlato di «mio fratello» e di «vostro padre» che sono stati assassinati nella stessa maniera.
«Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di rispondere alla violenza senza violenza. Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di non spargere sangue. Perché noi siamo la prossima America».
Mancavano solo due mesi, stesso giorno, quasi la stessa ora, all’assassinio di Robert Kennedy (ricordate?, Ambassador Hotel di Los Angeles, la notte tra il 4 e il 5 giugno di quello stesso 1968, dopo che Robert Kennedy aveva vinto anche le ultime elezioni primarie in California, e dunque era certo della sua designazione a candidato del partito democratico e certo della sua vittoria alle elezioni presidenziali).
Dunque «la prossima America», senza violenza di cui Kennedy ha parlato quella notte, dopo l’uccisione di Martin Luther King a Memphis e prima della sua uccisione a Los Angeles, quella volta non è venuta. Non ancora. Per questo ha mosso e sconvolto e appassionato gli americani il discorso di Barack Obama, appena due settimane fa a Filadelfia. «La prossima America» è di nuovo in cammino. Di nuovo cerca giustizia per coloro che sono stati lasciati indietro, di nuovo sta dicendo agli americani giovani che il loro destino è molto più grande e importante del morire e combattere. Di nuovo la parola «speranza» ha un senso più vasto e risonante della parola «potenza».
Per questo è giusto ricordarsi di Martin Luther King - e del suo fratello bianco Robert Kennedy - il 4 aprile di un anno in cui potrebbe accadere ciò che non è accaduto, qualcosa di grande e di preannunciato dal senso delle loro vite.


Unità 03.04.2008
Arsinoe, regina guerriera
Ai capitolini la testa in bronzo proveniente da palazzo Te a Mantova
di Flavia Matitti

Ai capitolini la testa in bronzo proveniente da palazzo Te a Mantova
di Flavia Matitti
REGINE Rispetto al resto del mondo antico, in Egitto le regine avevano un grande potere e qualcuna riuscì perfino a governare il paese assumendo il titolo di faraone. Ma la sovrana tolemaica Arsinoe III era diversa. Incarnava, piuttosto, il tipo dell’eroina, che non
esita a recarsi sul campo di battaglia alla testa dei suoi uomini, incoraggiandoli ed esortandoli fino alla vittoria. Soccomberà invece agli intrighi di corte, assassinata in circostanze misteriose nel 204 a.C. E Polibio tramanda che alla notizia della sua morte la città di Alessandria: «si riempì di gemiti, lacrime, lamenti incessanti».
L’occasione di incontrare questa straordinaria figura femminile è offerta in questi giorni dall’arrivo a Roma, ospitata nella Sala degli Arazzi del Palazzo dei Conservatori, di una magnifica testa in bronzo raffigurante la regina tolemaica. L’opera proviene dal Museo Civico del Palazzo Te di Mantova, dove si è appena inaugurata la mostra “La Forza del Bello. L’arte greca conquista l’Italia”, curata da Salvator Settis. Siccome i Musei Capitolini hanno concesso in prestito all’esposizione mantovana alcuni importanti capolavori delle loro collezioni di antichità, tra cui lo “Spinario”, il Museo Civico di Palazzo Te ha inviato a Roma, per tutto il periodo di durata della mostra, questo prezioso frammento di testa femminile in bronzo, di dimensioni leggermente più grandi del vero, raffigurante Arsinoe III, figlia di Tolemeo III e di Berenice II, sposa del debole e inetto fratello Tolemeo IV, con il quale regnò per sedici anni.
La scultura rappresenta una rara testimonianza di ritratto femminile in bronzo di età ellenistica, ancora più rara se si pensa che è stata realizzata in Egitto, un paese in cui nella statuaria era assai più diffuso l’uso del marmo rispetto a quello del bronzo. L’opera venne donata a Mantova dal diplomatico e collezionista di antichità egiziane Giuseppe Acerbi, che fu console generale austriaco ad Alessandria d’Egitto dal 1826 al 1834. Lo stato di conservazione della testa è eccezionale, se si eccettua la perdita degli occhi, tuttavia resta il rammarico che non si sia conservato il corpo. La statua, infatti, eseguita per commemorare la regina dopo la sua morte, doveva essere vestita di un chitone drappeggiato intorno al corpo. Il ritratto mostra un realismo di fondo, tuttavia l’acconciatura, semplice ma raffinata, che richiama quella delle divinità greche, sottolinea la natura divina della sovrana.
Fino al 06/07; Musei Capitolini
martedì -domenica 9.00-20.00 Tel. 060608

mercoledì 2 aprile 2008


APCOM 02/04/2008
BERTINOTTI: DA INDECISI SINISTRA DIPENDE SUCCESSO SA

Roma, 2 apr. (Apcom) - "C'e' una parte rilevante di incerti di sinistra, dalla cui decisione di voto dipende l'esito della Sinistra arcobaleno". Lo ha spiegato Fausto Bertinotti, intervenendo alla trasmissione di Radiotre Rai 'Radio tre mondo'. Ma far 'passare' la proposta politica di Sa, osserva il candidato premier della Sinistra Arcobaleno, è difficile : "Non parlo di un complotto, ma sono in molti ad avere interesse che la Sinistra arcobaleno non cresca. C'e' una campagna violentissima per ridurre a due la politica italiana, e quindi poi dire che per noi c'è una difficoltà di accesso diventa una tautologia". Se questa è la situazione sui media tradizionale, diversa per Bertinotti è e la "realtà delle piazze e delle strade, dove trovo persino entusiasmo", dovuto al tentativo di "costruzione di una nuova sinistra".

E proprio questo Bertinotti dice agli indecisi di sinistra, delusi dall'esperienza di governo: "E' una delusione condivisa, faccio parte anch'io di questo popolo deluso. Noi ci abbiamo provato, dovevamo provarci dopo 5 anni di Berlusconi, e fin dall'inizio abbiamo chiesto ad esempio di intervenire su salari, stipendi e pensioni,: ci abbiamo provato per due Finanziarie, ci proviamo ancora oggi chiedendo il decreto legge". Ma ora "ci proviamo dall'opposizione, ripartendo dal Paese reale, a costruire una soggettivita' politica per riannodare i fili, costruire una nuova casa di tutti quelli che sentono il bisogno di avere una sinistra. Ora è il momento di decidere se vuoi rassegnarti ad avere un'Italia senza sinistra o metterci del tuo in un nuovo inizio per la costruzione della sinistra in Italia".



La Repubblica 02.04.2008


Pisa, negata a due ragazze: ma la legge non prevede l´obiezione
Quando il medico rifiuta la pillola del giorno dopo
di Miriam Mafai

Un medico non può rifiutarsi di prescrivere la cosiddetta "pillola del giorno dopo" a una donna che ne faccia richiesta. Né un farmacista può rifiutarsi di venderla. Né il medico né il farmacista possono in questo caso fare ricorso alla obiezione di coscienza. Al contrario rischiano una sanzione disciplinare dell´azienda sanitaria dalla quale dipendono e una denuncia alla magistratura.

È quanto è accaduto recentemente a Pisa dove la guardia medica e il pronto soccorso hanno rifiutato a due ragazze l´anticoncezionale di cui avevano bisogno.
"Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte agli interventi per l´interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione": così recita l´articolo 9 della legge 194. E´ in questo caso e solo in questo caso, esplicitamente previsto dalla legge, che un medico può rifiutarsi di dare assistenza a una paziente. E´ impensabile che questa facoltà venga estesa, quale che ne sia la giustificazione, alla prescrizione e alla vendita di un anticoncezionale.
Ma a Pisa, nei giorni scorsi, questo è accaduto. Può darsi, naturalmente, che si tratti di un caso isolato. Di un medico o di un farmacista che forse immagina di vivere nello Stato Pontificio anziché nella nostra Repubblica. Qualcuno, spero, lo convincerà che si è sbagliato e che anche in quel di Pisa valgono le nostre leggi.
Ma non vorremmo, invece, che questo episodio fosse il segnale, da parte cattolica, di qualcosa di diverso, di una nuova campagna (culturale? politica? ideologica?) contro le donne e il loro pieno diritto di servirsi di tutti gli anticoncezionali autorizzati dalla legge (dalla spirale alle pillola del giorno prima a quella del giorno dopo). Il cui uso, tra l´altro, andrebbe largamente promosso, quale che sia in materia la posizione della Chiesa, anche per evitare gravidanze indesiderate e l´eventuale ricorso all´aborto.
Un caso analogo a quello di Pisa si verificò, a quanto ricordiamo, nell´ormai lontanissimo 1994 quando un farmacista e una dottoressa cattolica si rifiutarono di prescrivere e di vendere contraccettivi appellandosi alle proprie convinzioni religiose. All´epoca il ministro della Sanità, la democristiana Maria Pia Garavaglia, richiamò immediatamente il farmacista e la dottoressa al rispetto delle leggi dello Stato italiano che consentivano la vendita dei contraccettivi (e ne ebbe per questo un duro richiamo dell´Osservatore Romano)
Nessun dubbio che un analogo richiamo alle leggi dello Stato italiano verrà espresso dall´attuale ministro della Sanità, dall´Azienda Sanitaria da cui dipendono il medico e il farmacista di Pisa, e dal Consiglio Regionale della Toscana che aveva già avvertito che sarebbero stati responsabili di interruzione di pubblico servizio i medici che avessero rifiutato di prescrivere la "pillola del giorno dopo".
E tuttavia non possiamo fare a meno di valutare l´episodio di Pisa come allarmante non solo per quanto si riferisce alla condizione delle donne, alla loro libertà e al loro diritto alla contraccezione, ma anche per quanto si riferisce al principio di laicità del nostro paese. In particolare quando, come oggi accade, la Chiesa cattolica rivendica una maggiore presenza nello spazio pubblico. Ma questa maggiore presenza nello spazio pubblico non può comportare la imposizione di una serie di scelte etiche di matrice cattolica a tutta la nostra società, ormai largamente secolarizzata. Né, tanto meno, la possibilità o il diritto per i cattolici, di sottrarsi alle leggi dello Stato quando queste sembrino loro in contrasto con le proprie convinzioni religiose.
Nella sfera privata questa possibilità è certamente garantita. Il cattolico potrà certamente non fare ricorso né al divorzio né all´aborto (per citare due leggi dello Stato nei confronti delle quali la Chiesa conferma legittimamente la sua intransigenza), ma una analoga scelta non è possibile né pensabile quando il cattolico opera nella sfera pubblica (come nel caso del farmacista o del medico di Pisa). Nella sfera pubblica infatti valgono per tutti, quali che siano le scelte etiche o religiose, le leggi dello Stato.
Ed è bene che sia così. A nessuno di noi, penso piacerebbe vivere in una società nella quale dovessimo chiedere al medico o al farmacista cui ci rivolgiamo quotidianamente quali sono le sue profonde convinzioni religiose. Faccio un esempio classico a proposito della necessaria neutralità di coloro che operano nello spazio pubblico. I Testimoni di Geova, come noto, sono contrari alle trasfusioni di sangue e la loro richiesta, per quello che so, viene rispettata nei nostri ospedali quando avanzata da un adulto cosciente. Ma un medico testimone di Geova che operi in un ospedale non potrà rifiutare, per quello che so, una trasfusione di sangue a un paziente che ne abbia bisogno. O dovrò chiedere al medico che mi opera, prima di entrare in sala operatoria, quali sono le sue convinzioni religiose?


La Repubblica 02.04.2008
Saranno distribuiti alle donne povere ed extracomunitarie
Puglia, contraccettivi gratis "Così ridurremo gli aborti"
di Piero Ricci

BARI - Contraccettivi gratis nei consultori pugliesi. È quanto prevede una delibera della giunta regionale guidata da Nichi Vendola. La distribuzione gratuita riguarda in particolare gli estro-progestinici orali a basso dosaggio, anelli vaginali, contraccettivi orali a base di soli progestinici e contraccettivi ormonali per via transdermica.
L´obiettivo della delibera è di mettere a disposizione metodi anticoncezionali più moderni a donne a basso reddito che hanno diritto all´esenzione del ticket, alle giovani, alle immigrate e alle donne che hanno appena partorito o abortito e, in questo caso, evitare recidive. Plaude il ministro della Salute, Livia Turco: «Sono molto contenta, spero che anche altre regioni seguano l´esempio della Puglia, applicando le mie linee di indirizzo sulla legge 194». Così alla Regione Lazio, l´assessore alla cultura Giulia Rodano giudicando «ottima l´iniziativa», invita «a seguire l´esempio della Puglia».
L´opposizione di centrodestra in Puglia, intanto, non gradisce: «Con questo ennesimo scempio dei valori cattolici, siamo praticamente ad un passo dalla sterilizzazione di massa», ha attaccato il capogruppo regionale di Forza Italia, Rocco Palese. «È evidente che da cattolici non condividiamo l´intervento che suona piuttosto come una moratoria sulle nascite», osserva il coordinatore regionale di Alleanza nazionale, l´eurodeputata Adriana Poli Bortone.
L´assessore regionale alla salute, Alberto Tedesco (Pd) attacca: «Atteggiamento oscurantista e bigotto. Vogliamo contrastare il fenomeno dell´interruzione di gravidanza, che in Puglia ha raggiunto percentuali altissime: circa il 50%, il doppio della media nazionale».



L' Unità 02.04.2008
«Pillola del giorno dopo? Mai»
Medici sotto inchiesta
Pisa, a due ragazze niente farmaco contraccettivo
«Interruzione di servizio pubblico». La Asl: l’abbiamo somministrata
di Sonia Renzini
PENSAVANO di risolvere la paura di una gravidanza indesiderata con una corsa al Pronto soccorso. Magari, sperando di trovare il conforto di un medico che facesse svanire quell’ansia e quel vortice frenetico dei pensieri che girano cercando di definire le dimen-
sioni di quella carenza di precauzioni.
Invece, per due ragazze di Pisa, accompagnate rispettivamente dal fidanzato e dall’amica in tutta fretta a chiedere la pillola del giorno dopo, ci sono state solo porte sbattute in faccia. La prima alla vigilia di Pasqua, presso la guardia medica del villaggio “I passi”. Sulla porta, un cartello appeso non lascia spazio ai dubbi. «Presso questo ufficio non viene prescritta la cosiddetta pillola del giorno dopo», c’è scritto. La ragazza, studentessa di 20 anni, è disperata. «Erano le 2 di notte - racconta al Tirreno - non potevo trovare né il mio medico, né il mio ginecologo».
Decide di andare direttamente al Pronto soccorso, ma la situazione non cambia: il medico di guardia è obiettore di coscienza, di prescrivere la pillola non se ne parla. Non resta che apettare le 6 del mattino per ricevere il farmaco. Intanto, le ore trascorrono e con loro il rischio che il farmaco perda di efficacia, le paure della ragazza invece di diminuire aumentano. Pochi giorni dopo, lo stesso calvario viene rivissuto da un’altra giovane donna. Nella notte tra mercoledì e giovedì scorso va al Pronto soccorso dell’ospedale Santa Chiara insieme a un’amica, ma ci sono troppe emergenze, meglio ripiegare sulla guardia medica. Niente da fare. Al telefono qualcuno fa sapere che nessuno lì darà mai la pillola. Solo l’aiuto di un medico, parente dell’amica, svegliato in piena notte, risolve la situazione. La vicenda ripropone il problema dei medici obiettori di coscienza sollevato più volte a proposito della legge 194. Qui, però il problema è più grave. L’obiezione di coscienza riguarda l’interruzione di gravidanza, ma la pillola del giorno dopo è un anticoncezionale, non un farmaco abortivo. Il paradosso è che tutto questo avviene nella stessa Asl che è stata l’avamposto toscano e nazionale per l’uso della pillola abortiva Ru486, visto che è la prima sperimentazione è stata fatta nell’ospedale di Pontedera.
Sulla vicenda ora indaga la magistratura. L’ipotesi è interruzione di pubblico servizio. Anche la Asl 5 di Pisa ha avviato un’indagine interna. «Non avevamo idea che ci fossero medici di guardia che rifiutano la somministrazione della pillola del giorno dopo - fanno sapere dalla Asl 5 - Anche perché non hanno mai dichiarato di essere obiettori. Oltretutto, l’obiezione non riguarda gli anticoncezionali». In serata la precisazione: «La pillola è stata soministrata in entrambi i casi. Risulta da un controllo sui registri di accesso il 22 e il 23 marzo. La prestazione rientra nei cosiddetti codici bianchi e dunque se l’ambulatorio è chiuso bisogna aspettare che vengano smaltite le urgenze. Dalle verifiche non risulta che nessuno dei medici abbia detto di rivolgersi altrove, solo di aspettare il loro turno». Intanto il ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Fioroni aveva ribattuto la libertà di coscienza dei medici è sancita nella Costituzione: «Le inchieste sui valori incostituzionali mi sembrano fuori luogo». Una delibera del Consiglio regionale toscano del 27 febbraio mette nero su bianco: «rifiutare di fornire la pillola del giorno dopo è un’interruzione di pubblico servizio»

La Repubblica 02.04.2008
L´ossessione del cavaliere
Quindici anni di ostilità contro l´istituzione più alta
di Massimo Giannini

È infiacchito. Sembra imbolsito. Si dice che non abbia più tanta voglia. Ma ora che si avvicina l´ordalia del 13 aprile, sempre più spesso il Cavaliere stanco si lascia sopraffare dal vecchio Caimano che è in lui. Dai giorni ruggenti della sua discesa in campo del ´94, Berlusconi ha trasformato il conflitto ideologico in uno strumento irriducibile della sua legittimazione politica, e il conflitto istituzionale in un metodo irrinunciabile della sua avventura di governo. Ora che risente vicina la possibilità di un ritorno a Palazzo Chigi, il leader del Pdl non resiste al richiamo della foresta.
E riapre le ostilità contro con un simbolo che per gli italiani rappresenta la più preziosa delle istituzioni, ma per lui costituisce la più tormentosa delle ossessioni. Equiparare la presidenza della Repubblica alle «forche caudine» di un Capo dello Stato «che sta dall´altra parte» non è solo un´offesa nei confronti di un galantuomo come Giorgio Napolitano, che in questi due anni difficili non ha mai sconfinato dal perimetro delle funzioni istituzionali che la Costituzione gli assegna e non ha mai valicato il confine delle attribuzioni politiche che il mandato delle Camere gli ha assegnato.
La sortita del Cavaliere è soprattutto un insulto nei confronti del sistema dei valori repubblicani, fondato sulla leale collaborazione tra le istituzioni, sul rispetto degli organi di garanzia, sul bilanciamento dei poteri dello Stato. Nonostante i quindici anni di militanza politica e i sei anni e mezzo di esperienza di governo, Berlusconi dimostra di non aver mai metabolizzato fino in fondo questi valori. Lui è e resta «altro». Per lui non ci sono interlocutori istituzionali o politici con i quali dialogare, ma solo nemici da sconfiggere o da imprigionare. Per lui il governo è e resta il Quartier Generale da espugnare, e il Quirinale è e resta il Palazzo d´Inverno da assediare. Ovviamente nell´attesa messianica di conquistare anche quello, e di consegnare finalmente se stesso alla Storia.
La sua uscita di ieri si può spiegare solo in questa ottica distorta del gioco democratico. E a niente valgono i soliti tentativi di ridimensionare la portata dell´attacco al Colle, con la prassi collaudata delle autosmentite successive. Non bastano le parole riparatorie nei confronti di Napolitano, non basta evocare «l´ottimo rapporto», la «stima e l´affetto» ricambiati. Non basta la telefonata di scuse con il Capo dello Stato, per precisare che «lui non c´entra niente». Per quanto cordiale e contrita sia stata quella chiamata, il danno si è già prodotto. O meglio: ri-prodotto. La toppa che il Cavaliere prova a mettere in serata è peggiore del buco che creato nel pomeriggio. Berlusconi chiarisce che il suo discorso si riferiva al precedente settennato di Carlo Azeglio Ciampi, con il quale il suo governo ha avuto «un rapporto dialettico», e con il quale si è creato un attrito a proposito della riforma della legge elettorale, con quel premio di maggioranza regionale «che il Quirinale ha preteso».
Il Cavaliere mente due volte. La prima volta: il «rapporto dialettico» con Ciampi lo ha creato lui, con le continue forzature legislative che hanno piegato l´economia ai suoi sogni personali e il diritto ai suoi bisogni processuali. Se Ciampi ha rifiutato di firmare la legge Gasparri sulle Tv o la legge Castelli sulla giustizia non dipende dal fatto che stesse «dall´altra parte», cioè che fosse un pericoloso «comunista», ma dal fatto che «dall´altra parte» ci stesse invece lui, il Cavaliere, che era e resta un avventuroso populista. La seconda volta: non è stato certo Ciampi a imporre il premio su base regionale a Palazzo Madama nella formula mostruosa declinata dal «porcellum». Il Colle, in quell´occasione, si limitò a segnalare la necessità che si rispettasse il dettato costituzionale: l´articolo 57 prescrive che il Senato della Repubblica sia «eletto a base regionale». Tutto qui. Il resto, che l´Italia sta pagando a caro prezzo, lo fecero i sedicenti «esperti» della vecchia Casa delle Libertà: quattro apprendisti stregoni riuniti in una baita di Lorenzago. Semmai, se l´ex Capo dello Stato ha avuto una colpa, è stata quella di non aver rimandato alle Camere anche quell´orribile legge Calderoli, costruita con l´unico obiettivo (purtroppo raggiunto) di rendere il Paese ingovernabile. Altro che «dall´altra parte»: Berlusconi dovrebbe ringraziare Ciampi, invece che insolentirlo.
Si tratta ora di vedere quali saranno gli effetti di questo ennesimo strappo istituzionale, nei pochi giorni che restano prima delle elezioni. Anche se animato dalla giusta intenzione di ristabilire un principio, ma anche di svelenire la polemica, è difficile che il comunicato diffuso dal Quirinale possa chiudere la partita. Quel testo è al tempo stesso inquietante e confortante. Inquieta il fatto che la più alta magistratura istituzionale del Paese debba essere costretta a ribadire, in piena campagna elettorale, un´evidenza oggettiva di cui nessun leader politico e nessun cittadino comune dovrebbe mai dubitare: la presidenza della Repubblica è per definizione sostanziale e costituzionale un organo di garanzia, che interloquisce ma non interferisce con gli altri poteri dello Stato.
Conforta il fatto che in questa nostra «Repubblica transitoria» in cui tutto sembra rapidamente deperibile e variamente manipolabile, dai fatti della cronaca ai giudizi della storia, il Quirinale rappresenta l´unico presidio autenticamente no-partisan del sistema democratico. L´unico «luogo» fisico e simbolico della politica italiana che non si lascia snaturare dalle logiche iper-partisan e che assicura la necessaria unità dell´azione e la doverosa continuità della missione, indipendentemente da chi sia l´inquilino che lo abita. Non è una cosa da poco, visti i possibili scenari del dopo 13 aprile. E visto soprattutto l´incontenibile istinto del Cavaliere ad usare l´Italia come una semplice appendice di Forza Italia.

La Repubblica 02.04.2008
Dimenticare il sessantotto
Un libro-intervista di Daniel Cohn-Bendit
Di STÉPHANE PAOLIJEAN VIARD

Daniel Cohn-Bendit: «Ho voluto intitolare questo libro Forget 68, ovvero Dimenticare il Sessantotto. Il Sessantotto è finito! Questo non vuol dire che quel passato sia morto, ma soltanto che è sepolto da quaranta tonnellate di selciato che, da allora, hanno segnato e trasformato il mondo. Questo mondo, infatti, non è assolutamente più quello del ‘68, e ciò significa che il ‘68 e gli anni successivi sono alle spalle. Il ‘68 è stato il primo movimento su scala globale divulgato in tempo reale. Abbiamo vissuto al ritmo di Berkeley, di Berlino, di Parigi, di Roma, di Budapest e infine di Praga. Era un mondo di rivoluzioni, differenti e ciò nondimeno collegate tra loro. Ne ho discusso abbastanza a lungo con Adam Michnik, uno dei protagonisti della rivolta del 1968 dell´università di Varsavia: là gli studenti chiedevano la democrazia, la libertà, perfino il capitalismo. Noi invece ci sintonizzavamo su una medesima frequenza per la ribellione contro l´autoritarismo e la morale del comunismo. Per loro contava la politica, ma anche il jazz! Un´empatia anti-autoritaria esisteva, era reale, anche se i due sistemi non erano paragonabili e c´erano molteplici differenze tra i due movimenti.
«Quale il lascito odierno del Sessantotto? Prima di tutto ciò che è cambiato nelle nostre società, ciò che ha dato vita a un´evoluzione straordinaria. Da un punto di vista sociale, diciamo culturale, ci abbiamo sicuramente guadagnato. Dal punto di vista sociale potrei fare il seguente esempio: nel 1990-1991 ero vicesindaco multiculturale della città di Francoforte, mi occupavo di immigrazione e nel corso di un dibattito sull´integrazione che avevo organizzato, al momento opportuno un consigliere municipale di destra - cattolico, praticante, molto simpatico - si alza in piedi e mi dice: "Dany sei straordinario, ma non capisci una cosa: il problema non è l´immigrazione. Il problema è l´Islam, perché non riconosce l´uguaglianza tra gli uomini e le donne, il pilastro stesso della democrazia". Al che io esclamo: "Da 20-25 anni mi andavo domandando in che cosa il ‘68 avesse avuto successo, e ora finalmente tu mi hai dato la risposta che cercavo!". Un uomo profondamente cattolico, praticante, che a più di 20 anni dal 1968 mi dice che la base della libertà e della democrazia è l´eguaglianza tra uomini e donne. Fantastico! Esclamo: "Ce l´abbiamo fatta!" (...)
«Dove zoppichiamo ancora è nel nostro rapporto nei confronti della globalizzazione, nella comprensione del mondo odierno. Spesso si resta completamente incollati a categorie politiche superate: capitalismo contro socialismo, bene contro male, Stato contro mercato, mercato contro Stato. Da questo punto di vista siamo dunque autorizzati a chiederci se ci sia effettivamente stato un cambiamento d´epoca. Poiché politicamente, da un versante come dall´altro, siamo rimasti invischiati dove eravamo».
Jean Viard: «La domanda da porsi è la seguente: in un mondo simile, come associarci e diventare coesi pur mantenendo ciascuno le proprie caratteristiche? La grande angoscia della destra - che cresce ovunque, con Bush, con Sarkozy - è la paura che questo mondo iper-individualista non sia governato, non sia governabile.
«La destra sostiene che per riuscire a governarlo occorre far ritorno a strutture forti, e così questa grande onda conservatrice cerca di rinnovare la politica a partire dagli organici di ieri. Mi sembra che è questo ciò che dobbiamo desumere dagli attacchi al ‘68 di Nicolas Sarkozy. Non si incontra difficoltà forse a dire come aggregarsi, come fare politica, con questo tipo di valori, o a rispondere all´onda conservatrice che sostiene che non resta che ritornare a fare ciò che si faceva prima, riprendere l´autorità... stavo quasi per dire far tornare le donne in casa e i padroni in fabbrica?».
Daniel Cohn-Bendit: «Si ripresenta oggi un vecchio dibattito, che ebbe inizio con le aspirazioni all´autogestione e fu ripreso poi dal movimento alternativo degli anni Settanta: come creare spazi di azione, di gestione, di lavoro, di vita collettiva che si poggino sull´autonomia degli individui e sulla loro libertà? (...) Creare un "noi" attorno a un "io" molto forte».
Stéphane Paoli: « Ma esiste! E´ orizzontale e si chiama Internet».
Jean Viard: « Internet, non è la stessa cosa. Non è una politica strutturata».
Stéphane Paoli: « Non ancora, ma un giorno potrebbe diventarlo».
Daniel Cohn-Bendit: «Internet può essere un mezzo per divulgare il "noi". La base della piccola comunità simpatizzante. Una parte del successo di Ségolène Royal, al di là di tutte le sue mancanze e dei suoi errori - deve averne sicuramente fatti, altrimenti avrebbe vinto - dipende da questa idea di partecipazione alla politica, in particolare attraverso la Rete che crea un "noi" nel quale tutti sono intelligenti e al quale tutti prendono parte (...)».
Stéphane Paoli: «Vorresti veicolare il Maggio ‘68, metterlo in Internet per far sì che quel "noi" là prenda corpo in quello spazio là?».
Daniel Cohn-Bendit: «Credo che questo dibattito abbia luogo e in particolare abbia avuto luogo dopo l´intervento di Sarkozy. Due incomprensioni di primo piano del ‘68 meritano tutta la nostra attenzione. La prima è quella di Sarkozy e della destra per i quali tutti i mali della Francia odierna discendono dal ‘68: l´individualismo, le clausole di buonuscita, la disintegrazione della società, le disfunzioni della scuola, la rivolta delle banlieue. Per aver scritto sui muri "Vietato vietare" la generazione del ‘68 sarebbe responsabile di tutto ciò che va male in Francia. Chiaramente vi è una mancanza di comprensione totale, tanto della società odierna quanto del tipo di società che si mise in movimento nel 1968 e che continuò a muoversi negli anni Settanta. Ciò non toglie, ovviamente che questo non preclude che il movimento abbia potuto fare o dire cose orribili, stupide o idiote. Ma non è questo il punto.
«La seconda incomprensione risiede nella favola dell´estrema sinistra per la quale che il ‘68 coroni il pieno successo resta un punto all´ordine del giorno. Basterebbe dunque ricominciare ogni cosa da capo: il movimento, lo sciopero generale e così via per riuscire finalmente a conquistare il potere. Per Sarkozy il ‘68 è fallito perché fu terribile per la società. Per gli altri il ‘68 è fallito perché la conquista del potere non c´è stata. Ma il Sessantotto è tutto tranne che questo!
«Quando parlo di ribellione, è precisamente per dire che prima di tutto il ‘68 ha innescato un processo di trasformazione nella società, o per meglio dire forse ha semplicemente accelerato un processo già iniziato e che si è protratto in seguito. In secondo luogo, il ‘68 è rimasto al contempo invischiato nelle contraddizioni di questo processo. A quaranta anni di distanza ci si rende conto che l´interrogativo è sempre il medesimo: come potrebbe essere una nuova politica? Alain Touraine ha appena pubblicato un libro che si intitola Penser autrement, pensare in altro modo. (...) Il pensiero di Touraine si colloca nel presente, superando l´immobilismo con una riflessione che si confina nei miti sessantottardi. Al contrario di Alain Badiou, che riduce Sarkozy alla Francia di Vichy e divaga al punto di arrivare a un accecamento colpevole quando tenta di salvare l´idea del comunismo facendo riferimento al ‘68. Come sempre, i marxisti sono incapaci di superare l´hegelismo primario che hanno ereditato e che santificano.
«Ripetono senza interruzione sempre la stessa cosa e il loro marxismo storico si riduce a un determinismo ideologico conservatore. E così che dimenticano che per l´orizzonte del passato, il comunismo non è un miraggio, bensì una follia devastatrice. (...) Il 22 marzo 1968 Jean Baudrillard, allora assistente professore a Nanterre, mi spedì una lettera che sventuratamente ho poi perso. In quella lettera - e mi emoziono sempre, ripensadoci - mi diceva: «Dany, sei straordinario... è incredibile quello che sei riuscito a fare oggi in questo dibattito.. Ma soprattutto, mi raccomando, non lasciarti irreggimentare da tutte queste forze di sinistra che ti condurranno a distruggere tutto ciò che oggi può nascere da questa formidabile novità che siete in procinto di creare». Aveva ragione. Oggi, a quaranta anni di distanza, le sue parole sono ancora vere come non mai.
Copyright, Editions de l´Aube



La Repubblica 02.04.2008
Edoardo Boncinelli, genetista e biologo molecolare
"Camperemo fino a 120 anni e con la genetica anche di più"

Edoardo Boncinelli, genetista, biologo molecolare e a lungo impegnato nella ricerca clinica sulla farmacologia molecolare e i processi d´invecchiamento all´ospedale San Raffaele di Milano, è tra gli scienziati più ottimisti sul possibile allungamento della vita umana: a 120 anni in virtù della medicina, scriveva nel suo saggio Verso l´immortalità? (Cortina), e a 200-300 quando scenderà in campo la manipolazione genetica.
La sorprende, professore, che dei 7 anni di vita media in più conquistati in 30 anni, si calcola che quasi sei siano dovuti ai progressi nella cura del cuore?
«Non mi sorprende se a cuore sostituiamo apparato cardiovascolare. Pensi a quante persone conosce che dopo i 60 anni prendono una pillola per l´ipertensione: è il più comune degli allunga-vita».
Nel calcolo della vita media entrano tutti i casi di morte, incidenti compresi. La vita si allunga più per le cure o per la prevenzione dei rischi?
«La cosa sorprendente, in realtà, è che sul piano statistico l´allungamento della vita il rischio di incidente lo aumenta: più si vive e più si è esposti agli incidenti. Quindi in teoria l´allungamento della vita media ne dovrebbe risultare rallentato. E invece i progressi della medicina sono tali che l´aumento medio non flette».
Lei prevede addirittura che con l´ingegneria genetica si impennerà...
«In campo biologico, tra gli addetti ai lavori, ne sono tutti convinti. Ma ci vorranno ancora molti anni per averne l´evidenza clinica».
(m.b.)


La Repubblica 02.04.2008

L´ultimo mistero di Stonehenge
È cominciata pochi giorni fa la campagna, dopo cinquant´anni, nel sito dell´Inghilterra meridionale L´obiettivo, oltre a una datazione più certa, è capire se il monumento era la "Lourdes della preistoria"
di Cinzia Dal Maso

Lunedì scorso, ore otto di mattina. Parte il primo colpo di piccone. Il primo che viola il "sacro" suolo di Stonehenge dopo quasi cinquant´anni. Nessuno, dal 1964 a oggi, ha mai potuto toccare la terra del circolo di pietre più famoso al mondo, nell´Inghilterra meridionale, vicino a Salisbury. Icona del nostro immaginario. Simbolo della preistoria europea. Mito e mistero sin dal lontano Medioevo. E ora al centro di una suggestiva ipotesi che va verificata proprio in questi scavi: Stohenenge era la Lourdes della preistoria, la meta di continui pellegrinaggi.
Finora il monumento non è mai stato indagato con gli strumenti della scienza e della tecnologia moderne. Persino le sue datazioni sono incerte, visto che gli strumenti adeguati sono stati messi a punto solo negli ultimi decenni. E infatti le date esatte sono uno degli obiettivi principali dei due archeologi che hanno ottenuto dall´English Heritage lo storico permesso di scavo e la sponsorizzazione della Bbc. Tim Darvill della Bournemouth University e Geoff Wainwright presidente della Society of Antiquaries (ma già archeologo capo dell´English Heritage) indagano Stonehenge e la preistoria britannica da una vita. Furono loro ad annunciare al mondo nel 2005 di aver individuato la cava tra i monti del Galles dove i costruttori di Stonehenge presero le famose "pietre blu", 80 massi di dolerite (roccia vulcanica di colore bluastro e dai riflessi bianchi) alti quasi due metri e pesanti fino a quattro tonnellate ciascuno. Massi trascinati per terra, mare e fiume per oltre 350 chilometri fino a Stonehenge che a quel tempo, più o meno verso il 2600 a. C., era già un circolo sacro ma fatto solo di pali di legno. Un´opera immensa, ciclopica. Perché tanta fatica? Quando fu intrapresa? E quanto durò questo primo monumento, visto che a un certo punto le pietre blu furono spostate per creare, assieme alle enormi pietre di sarsen (pietre calcaree di 25 tonnellate ciascuna) la Stonehenge che oggi conosciamo? Sono queste le domande a cui Darvill e Wainwright contano di trovare risposta. E contano soprattutto di trovare con ciò una conferma, la prova del nove della loro ipotesi rivoluzionaria: Stonehenge non era un osservatorio astronomico né un centro di cerimonie, come si è sempre creduto, ma un luogo di guarigione meta di pellegrinaggi.
Gli indizi, a detta di Darvill e Wainwright, sono molti. Innanzitutto le "pietre blu", pietre sacre nella fantasia popolare: fino ai primi del Novecento la gente ne staccava piccoli pezzi per fare talismani. Forse perché le Prescelly Mountains del Galles, origine delle pietre secondo gli archeologi, sono ricche di sorgenti sacre dalle proverbiali qualità curative. Qualità acquisite per trasposizione anche dalle pietre. Altro indizio sono le molte tombe trovate attorno a Stonehenge, per lo più di gente venuta da lontano (alcuni proprio dal Galles, mentre il cosiddetto "arciere di Amesbury" veniva addirittura dalle Alpi) e con evidenti tracce di traumi nelle ossa: forse affrontavano il lungo viaggio nella speranza di una guarigione. Forse quel viaggio era per loro l´ultima speranza in una vita di sofferenze. Forse. È un´ipotesi che, come le molte altre su Stonehenge, non convince tutta la comunità scientifica. Mancano prove certe, e Darvill e Wainwright contano di trovarle nelle sacre e misteriose pietre blu. «Perché sono la vera chiave per capire il significato e lo scopo di Stonehenge», ha dichiarato Simon Thurley dell´English Heritage. «Il loro arrivo ha segnato una svolta nella sua storia». Dunque lo scavo, che durerà due settimane, si concentrerà nelle fosse dove le pietre blu furono collocate in origine, alla ricerca di materiali organici che consentano la datazione con il metodo del carbonio 14, e di qualsiasi oggetto o strumento che possa dire qualcosa di chi per primo ha eretto quelle pietre. I due archeologi sono ottimisti. «Abbiamo ricevuto persino la visita dei Druidi (gli "eredi spirituali" dei sacerdoti celtici)», ha raccontato Geoff Wainwright. «Hanno fatto una cerimonia, un giro attorno al circolo di pietre, e ci hanno augurato buona fortuna. We are ok now, abbiamo proprio tutto».




La Repubblica 02.04.2008
La poligamia nascosta tra gli islamici d´Italia
Le famiglie multiple sono in continuo aumento, con il boom degli immigrati i casi sono 15-20mila. Ecco le loro storie
di Francesca Caferri


Per Baba Kar è la cosa più naturale del mondo: «Ho due mogli. E vivo con loro in Italia. Lo so che qui è proibito dalla legge, ma questo riguarda voi italiani, non noi: io sono musulmano e il Corano dice che posso avere fino a quattro mogli. Seguo la mia religione. Del resto con lo Stato italiano non ho mai avuto nessun problema». Senegalese, 33 anni, in Italia da 9, da 7 ben radicato a Brescia, il signor Kar è la punta di un iceberg dalle dimensioni misteriose, quello dei poligami italiani. Musulmani - immigrati, ma anche italiani convertiti - che usufruiscono della possibilità, prevista dal Corano, per un uomo di avere fino a quattro spose.
Il fenomeno è, per definizione, scivoloso: pochi immigrati, e ancor meno italiani, ammettono pubblicamente di aver contratto più di un matrimonio.
È illegale, ma anche da noi è una realtà Non esistono cifre ufficiali, però gli studiosi di Islam ritengono che esistano almeno 15-20 mila casi. I musulmani si dividono: una violazione dei diritti delle donne o soltanto una tradizione? Ecco cosa dicono mariti e mogli protagonisti di matrimoni multipli nel nostro Paese Suad Sbai: "Gli uomini picchiano le mogli che non vogliono accettare una nuova sposa" Najat, Roma "Violenza, sangue e inganno: questa è la storia che ho vissuto io" Baba Kar, Brescia "Dove sono nato è una consuetudine, non ci rinuncio perché vivo qui"
In assenza di statistiche, qualcuno parla di poche centinaia di casi, altri di decine di migliaia: cifre non confermate né confermabili. Quel che è certo però, è che il fenomeno esiste e che negli ultimi anni è aumentato, proporzionalmente all´aumento del numero degli immigrati musulmani che hanno scelto di risiedere nel nostro paese: oggi, secondo la Caritas, sono poco più di 1.200.000 i musulmani che vivono in Italia.
A partire da febbraio in Gran Bretagna lo stato ha di fatto accettato la poligamia, consentendo ai mariti che la praticano di richiedere un assegno familiare per ogni moglie "aggiuntiva". In Italia di questo non si parla, ma basta la naturalezza con cui il signor Kar parla per capire che il suo non è un caso isolato: «Moltissimi miei amici hanno più mogli qui in Italia. Non solo senegalesi: marocchini, egiziani, tanti davvero».
Kar è venuto in Italia da solo lasciando le mogli, che aveva già sposato, in Senegal: dopo un paio di anni ha fatto arrivare con il ricongiungimento familiare Fadu, 25 anni, insieme al figlio che allora ne aveva tre. Poi con permesso di lavoro è arrivata Nkeir, 22 anni, la seconda sposa. Le due donne, insieme al piccolo Mamadou, dividono con il marito un appartamento di una sessantina di metri quadri non lontano dal centro di Brescia. Un angolo di Senegal lontano migliaia di chilometri da Dakar: due stanze, in cui Kar si alterna ogni due notti, un salottino, un bagno e una piccola cucina. Alle pareti, ritratti di leader religiosi e foto di famiglia, sullo schermo della televisione i canali senegalesi. Quando passa un video musicale che racconta la lite fra una prima e una seconda moglie, Fadu ride: «Noi non abbiamo nessun problema. Certo, all´inizio quando lui si è risposato ero gelosa: ma poi è passato. Da noi si usa così».
In Italia no, ma per lo Stato - che pure considera la poligamia reato - Kar non è fuorilegge, perché solo il primo dei suoi matrimoni è registrato. Ma anche se lo fossero stati entrambi non ci sarebbe stata troppa differenza: nel 2003 il tribunale di Bologna riconobbe a due figli dello stesso padre il diritto di far arrivare in Italia le rispettive madri, prima e seconda moglie dell´uomo in questione. In questo caso, argomentò il giudice, il reato non sussiste, essendo entrambe le nozze state contratte in un paese che le consente. Allora la sentenza fece scandalo: ammettendo la presenza contemporanea di due mogli per uno stesso marito, non legittimava ma riconosceva come dato di fatto in Italia un uso che è sì vecchio di secoli, ma contro il quale negli ultimi decenni le donne nel mondo musulmano si sono battute, fino ad ottenerne la limitazione e, in molti casi, la scomparsa.
Proibita da decenni in Tunisia e in Turchia, praticamente annullata dal nuovo codice della famiglia marocchino, severamente regolamentata in molti altri paesi, nel mondo arabo la poligamia riguarda, secondo gli esperti, non più del 2 per cento delle famiglie. E in Italia? C´è chi parla di 15-20mila casi, ma il sociologo Stefano Allievi, uno dei massimi esperti dell´Islam italiano, non è d´accordo: «Dare un numero preciso è impossibile - dice - ma è un fenomeno statisticamente irrilevante: riguarda poche famiglie, all´interno delle quali spesso la presenza di più mogli non crea alcun problema: perché è normale nella cultura di provenienza o perché è accettata anche da donne italiane convertite». Opposta la visione di Suad Sbai, presidentessa dell´associazione donne marocchine in Italia e candidata con il centrodestra alle elezioni: «Ci sono migliaia di casi di poligamia - dice - e nella maggior parte le donne subiscono abusi. I mariti picchiano le mogli che non vogliono accettare una nuova sposa o dopo qualche anno abbandonano la seconda: e la poveretta si ritrova che non può chiedere il divorzio perché per lo Stato non si è mai sposata, quindi non ha alimenti né garanzie». La Sbai racconta di matrimoni celebrati - secondo l´uso musulmano per il quale le nozze sono un contratto civile, non un sacramento religioso - nei consolati dei paesi di origine o, in assenza di funzionari civili, di fronte a imam compiacenti, che non si pongono il problema di scavalcare, nei fatti, la legge italiana.
A conferma delle sue parole cita il caso della signora Najat: marocchina, sposata nell´88 in Italia con un egiziano, sei anni fa si è trovata in casa la seconda moglie. Anche lei marocchina, anche lei sposata in Italia. «Per risposarsi mio marito aveva falsificato la lettera in cui avrei dovuto dare il mio consenso - racconta Najat - abbiamo vissuto per anni in 45 metri quadri: due famiglie. Io e i miei quattro figli, lei e il suo: io non volevo accettare e per questo venivo picchiata, continuamente». Dopo anni di tensioni, l´uomo è fuggito in Egitto e ha portato con sé con i due figli minori di Najat, oggi 8 e 12 anni, e una volta lì l´ha denunciata per abbandono del tetto coniugale. «Non posso andare a prenderli, perché mi metterebbero in carcere. Questa è la poligamia», dice lei con le lacrime agli occhi. Accanto a lei siede Zohra, marocchina: quando si è sposata il marito, egiziano, le aveva assicurato di essere celibe. Dopo un anno ha scoperto che c´era una prima moglie e che, insieme al figlio, stava per arrivare in Italia. Zohra si è opposta e ed è stata massacrata di botte. Per ritrovare la serenità è dovuta fuggire di casa. «Per queste donne non c´è tutela - si infervora Sbai - serve una legge che ragioni in termini di territorio e dica che chi sta in Italia, anche se immigrato, può avere una moglie sola». «Il fenomeno ha molte facce - sostiene però Allievi - È vero, purtroppo capita che chi ha una moglie nel paese d´origine ne prenda un´altra qui e che spesso la seconda sia inconsapevole. Ma c´è anche chi arriva in Italia ed è già sposato pacificamente due volte. E ci sono i casi in cui le seconde mogli, anche italiane, sono consapevoli della situazione e non hanno problemi ad accettarla. Non esiste una soluzione che vada bene per tutti».
«Indubbiamente ci troviamo di fronte a un problema che finora il diritto europeo non è riuscito ad risolvere - dice Roberta Aluffi, docente di Diritto islamico all´università di Torino - la poligamia è contraria al nostro concetto di uguaglianza, ma è vero anche che occorre rispettare una donna che ha contratto matrimonio secondo la religione e la legge del suo paese e che non può essere spogliata di ogni diritto una volta arrivata qui». Il Corano stabilisce che un uomo possa avere fino a quattro mogli, ma la condizione imprescindibile è che riservi a tutte lo stesso trattamento, in termini di tempo, attenzioni e denaro. Formalmente, argomenta Aluffi, già il fatto che lo Stato italiano riconosca solo a una delle spose il titolo di moglie ufficiale non permette di rispettare il principio dell´uguaglianza. In queste condizioni, argomenta come Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana in Italia, «secondo le stesse leggi dell´Islam la poligamia non è consentita».
In materia finora ogni paese europeo ha scelto una sua strada: l´apertura della Gran Bretagna ha fatto scalpore, ma anche Germania e Belgio garantiscono benefici a chi ha più mogli. In Italia in sede ufficiale nessun rappresentante delle comunità nella Consulta islamica ha messo sul tavolo la questione del riconoscimento delle unioni poligamiche, anche se a più riprese membri dell´Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d´Italia) hanno chiesto il riconoscimento della possibilità per un musulmano di contrarre matrimonio in moschea senza che questo abbia alcun valore giuridico. Ma negli ultimi tempi sulla questione c´è molta prudenza: «Nell´Islam la poligamia è una possibilità e non un obbligo - spiega Noureddine Chemmaoui, responsabile del dipartimento Affari sociali dell´Ucoii - noi non la incoraggiamo e anzi cerchiamo di controllarla, perché siamo in Italia e qui la legge non la prevede. In moschea celebriamo nozze solo per chi porta un documento che provi che non è già sposato».
Le polemiche degli ultimi tempi non hanno turbato la vita di Mohammed Bikri: marocchino, in Italia dal 1988, il signor Bikri è uno dei volti del successo degli immigrati nel nostro paese. In vent´anni ha messo su una piccola attività e oggi è il leader dei marocchini in Sardegna: aiuta i suoi connazionali ad integrarsi. Durante tutto il percorso le sue due mogli, sposate in Marocco, gli sono state accanto: per anni lui, loro e i quattro figli (due ciascuna) hanno vissuto in un´unica casa. Oggi ha due appartamenti in villaggi vicini e si divide fra essi: «I ragazzi vanno e vengono come vogliono - racconta - e le mie mogli si vogliono bene come sorelle. Ho avuto qualche problema all´inizio, ma ora va tutto bene, quando ci ritroviamo tutti siamo una grande famiglia». Allargata. Una delle tante nell´Italia del 2008.

Il Corriere della Sera 02.04.2008
Il film Le anticipazioni della Abc sul controverso «W»: in una scena il futuro presidente, ubriaco, insulta il padre
George secondo Stone: alcol, Dio e l'ossessione per Saddam
di Ennio Caretto

Oliver Stone lo definisce una «biopic», un film biografico su George W. Bush, politico e umano al tempo stesso. Ma dalle anticipazioni della tv Abc, il suo film sul presidente, intitolato semplicemente «W», potrebbe essere devastante, come lo fu quello fu Richard Nixon. Il controverso regista traccia un ritratto polemico di Bush, prima di un alcolizzato in continua competizione con il padre, poi di un leader deciso a distruggere il nemico che aveva tentato di assassinarglielo, Saddam Hussein. E pur evidenziandone il tormento interiore e la religiosità, gli attribuisce un linguaggio scurrile. In uno dei momenti più drammatici della vigilia della guerra dello Iraq, quando il presidente francese Jacques Chirac chiede una proroga di un mese per gli ispettori dell'Onu, Bush non ci vede più: «Trenta giorni! — urla nel film —. Mi piacerebbe infilare un intero piatto di patatine della libertà in gola a quel viscido pezzo di m...!». Patatine della libertà fu il nome dato da Bush alle «french fries», le patatine fritte, in spregio a Chirac.
«W» ripercorre la vita del presidente, dal fermo di polizia all'università di Yale per avere abbattuto un palo della porta del campo di football alle ubriacature continue a base di vodka e succo d'arancia coi compagni. In uno degli episodi familiari più avvilenti, Bush padre richiama il figlio ormai adulto, che ebbro al volante ha investito un deposito di rifiuti: «Rivolgiti all'Anonima alcolici!». Bush Jr. lo insulta, lo sfida a fare pugni: «Tu, mister perfezione! Tu mister eroe di guerra! Tu mister va a ....!».
Per Oliver Stone, che ha scritto il copione assieme a Stanley Wieser, il fantasma paterno è la chiave di lettura di Bush figlio, che non si sente alla sua altezza, non vi si sentirà neppure dopo che il predicatore Billy Graham lo avrà liberato dall'alcool e reso un «cristiano rinato» in presunto contatto diretto con Dio. Persino la madre Barbara continuerà a dubitare di lui, gli chiederà di rinviare la sua candidatura a governatore del Texas: «Sei una linguaccia e hai scatti d'ira incontrollabili, non ti eleggeranno».
Nel film, la guerra dell'Iraq è un regolamento di conti di «W» con Saddam Hussein. Il ministro della difesa Donald Rumsfeld obbietta che «la scimmia ammaestrata che ci ha portato l'inferno è Bin Laden, non Saddam», e il presidente s'infuria: «Tu non attenti alla vita di un Bush e poi te ne vanti. Hai capito?». Secondo Stone, il presidente è convinto che il padre sia stato sconfitto alle elezioni del '92 da Bill Clinton perché non ha eliminato il raìs: «Se tu lo avessi fatto, saresti stato rieletto », dice a Bush sr. Quando l'Onu tergiversa, si rivolge al premier inglese Blair: «Mettiamo le insegne dell'Onu su un caccia, e uccidiamo Saddam».
Ma quando annuncia la guerra al principe saudita Bandar, s'interrompe per guardare una partita di football in tv, e quasi soffoca ingoiando una ciambella. Nel corso del conflitto la sua condotta si fa bizzarra. Confida al vicepresidente Cheney di correre più in fretta facendo jogging «per dare un contributo personale alla vittoria». Ari Fleischer, l'ex portavoce di Bush, ha protestato che «è tutto inventato, non ho mai sentito il presidente dire volgarità, e il suo rapporto col padre è molto stretto». «W», che sarà interpretato dall'attore Josh Brolin e da Elizabeth Banks nella parte della first lady Laura, si chiude con Bush che sogna di giocare a baseball con i Rangers: impugna il bastone, guarda al cielo, ma non c'è la palla. Forse è una metafora per una presidenza andata a male, «per il buio che mi segue» come disse a Billy Graham. Il candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain può solo augurarsi che Stone non distribuisca il film prima delle elezioni di novembre.


Il Corriere della Sera 02.04.2008
Ricerca Gli scienziati di Newcastle hanno affermato di essere riusciti nell'operazione. La sopravvivenza è stata di soli tre giorni
Annuncio in Inghilterra: creati gli embrioni chimera
di Mario Pappagallo

Gli embrioni-chimera umani sono una realtà. Non è un pesce d'aprile. L'autorizzazione dalle autorità di ricerca e bioetiche britanniche era arrivata a gennaio di quest'anno. A tre centri: l'università di Newcastle, il centro di Edimburgo dove lavora il papà della pecora Dolly (il primo animale clonato) e al King's College di Londra. Ieri, i ricercatori di Newcastle hanno annunciato alla Bbc di essere riusciti nell'operazione.
Almeno in parte. Gli embrioni sono sopravvissuti tre giorni. Dovrebbero arrivare almeno a sei per avere cellule staminali utili per studiare l'evoluzione di malattie degenerative come il diabete, il Parkinson, l'Alzheimer. E per verificare poi come bloccarle o come farle regredire del tutto. Insomma, come «ordinare » alle cellule adulte di ringiovanire.
Tra un mese il Parlamento dovrà votare una legge per consacrare queste ricerche. Ed è battaglia. La chiesa cattolica, con l'arcivescovo Keith O'Brien, tuona contro queste «sperimentazioni Frankenstein », contro queste «manipolazioni innaturali». Al contrario, le associazioni dei malati ritengono «vitali» questi studi: «Servono per la comprensione delle malattie e per arrivare finalmente a curarle ». Cosa impossibile da fare usando uova umane, data la scarsità delle donazioni. «Questo sì che non sarebbe etico», sentenzia Stephen Minger, teorico degli embrioni chimera che lui chiama interspecie o Ad mixed.
Al microscopio gli agglomerati di cellule Ad mixed sono simili agli altri embrioni. Sono generati iniettando il Dna di cellule umane adulte della pelle in uova di mucca, «ripulite» del loro materiale genetico. In questi ibridi, assicurano gli scienziati, non c'è traccia di Dna bovino.
L'americano Minger, 52 anni, dirige uno dei laboratori del Wolfson Centre for Age-Related Disease, al King's College di Londra. E' stato battuto sul tempo da Newcastle. «Però — spiega — bisogna arrivare a 14 giorni di vita per avere cellule "matrice" utili a studiare le malattie». Per la clonazione di cellule a scopo terapeutico. «Andare oltre i 14 giorni non interessa proprio». Una sfida «eticamente corretta», ribadisce. Ma non sono «chimere» innaturali? «No, la cellula uovo di mucca è usata solo come involucro "fertilizzante" per la cellula umana completa. Una scarica elettrica dà l'input alla trasformazione: dall'adulta ecco due cellule di embrione che iniziano a raddoppiarsi ». John Burn che guida i ricercatori di Newcastle definisce questi studi «eticamente in regola». E ritiene questi primi successi un fondamentale passo avanti. «Su che cosa accade nell'embrione prima e nel feto poi non si sa nulla — concorda Minger —. Dai 6 giorni ai 6 mesi. Vogliamo sapere come si differenziano cellule in apparenza tutte uguali, tutte predisposte a tutto, ma che in una ma-lattia genetica a un certo punto fanno un'altra cosa».


Il Corriere della Sera 02.04.2008
Antichità Maurizio Bettini ritrova suoni e significati perduti
Quando le voci animali ispiravano agli uomini musica, favole e poesie
di Eva Cantarella

Anche le voci hanno una storia. Una storia e un'antropologia. Ce lo ricorda, in un libro affascinante, Maurizio Bettini, uno degli studiosi più interessanti e più originali dell'antichità classica, che da anni indaga aspetti e vicende del mondo antico con gli strumenti di una disciplina, l'antropologia storica, la cui presenza nelle università italiane è legata alla sua infaticabile attività. A Bettini si deve infatti, nel 1986, la fondazione dell'associazione Antropologia del mondo antico, e del Centro interdipartimentale di studi antropologici sulla cultura antica, sempre da lui fondato presso l'Università di Siena. Ed ora, grazie a lui, ecco un nuovo, bellissimo libro, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, nato da un'idea che solo lui poteva avere: quello di ricostruire, all'interno della fonosfera antica, i suoni prodotti dagli animali. I rumori in cui viviamo immersi oggi (clacson di automobili, rombo di aerei, squilli di cellulari) allora non esistevano, ma esistevano suoni che oggi sono andati perduti: il cigolio dei carri, i colpi di martello di fabbri, stagnai, maniscalchi e carpentieri, il rumore delle macine dei mugnai... e, all'interno di questo mondo sonoro, le voci degli animali. Come recuperarle? Come sempre, cercandole nei testi, unico strumento per ricostruire l'immagine mentale dei suoni percepiti dai nostri antenati.
Parole per suoni, dunque. Molte, moltissime parole: del bue è proprio il mugire, della pecora il balare, dei cavalli l'hinnire, della gallina il pipare. In un testo tramandatoci sotto il nome di Svetonio leggiamo del rancare delle tigri, del mugire dei buoi, del grunnire dei porci, del barrire degli elefanti, del coaxare delle rane, e via dicendo. Una vera e propria enciclopedia, il cui ordine, osserva Bettini, non è legato alle caratteristiche zoologiche, ma al modo in cui gli animali venivano culturalmente costruiti in quel mondo.
Le voci degli animali, infatti vengono sfruttate simbolicamente, come la loro forma, colore e comportamento. Nascono così proverbi e modi di dire: «tanto va la gatta al lardo», «furbo come la volpe». Nascono favole: Il lupo e l'agnello, La volpe e l'uva. Nascono poesie: come dimenticare il cosiddetto «giambo sulle donne», in cui Semonide classifica le donne secondo i caratteri degli animali cui somigliano? La donna-scrofa non si lava mai, indossa abiti sporchissimi e ingrassa, rotolandosi nel letame; la donna-volpe sa tutto, controlla tutto, ma si adegua agli eventi, e vi si adatta; la donna- cagna vagola per la casa latrando, non tace neppure se la bastoni; l'asina invece, paziente e lavoratrice, puoi bastonarla e non protesta...
Ma torniamo alle voci: tante e diverse, esattamente come le lingue umane. Ed esattamente come le lingue, originariamente tutte uguali. Un tempo infatti, racconta Filone di Alessandria, gli animali avevano tutti la stessa voce. Ma un giorno, perso ogni senso della misura, chiesero l'immortalità. E furono puniti: da quel momento cominciarono a parlare in modo diverso, ogni specie a modo suo: superfluo segnalare il parallelo con il racconto di Babele.
Tante lingue, dunque, all'interno delle quali Bettini si sofferma, in particolare, su quella degli uccelli e la indaga seguendo diverse strade: quella, già segnalata, della capacità delle loro voci di veicolare significati simbolici e culturali; quella, non meno affascinante, della riarticolazione sonora della loro voce, per far pronunziar loro brevi messaggi in lingua umana: a partire da Alcmane (che affermava di aver trovato la propria poesia rielaborando il canto delle pernici) si arriva, per citare un celebre caso, alla riarticolazione del verso della gallina in Giovanni Pascoli, nella poesia Valentino: «le galline cantavano, Un cocco! / ecco ecco un cocco un cocco per te ». E poi, ancora, i racconti mitologici, in cui si trovano animali che possiedono una compiuta capacità linguistica. E per finire la divinazione: trasformato in «segni», il canto degli uccelli attribuisce loro la capacità di predire il futuro e di dare ordini. Erano animali autorevoli gli uccelli, nell'antichità. Non a caso Aristofane, nella commedia che da loro prende il nome, immagina che, aiutando gli ateniesi disgustati delle condizioni di vita in patria a fondare una nuova città fra cielo e terra, essi possano riconquistare l'antica signoria, usurpata dagli dei. Nell'impossibilità di rendere conto della ricchezza di questo libro, per segnalarne la rilevanza basterà ricordare, concludendo, che grazie a esso l'antropologia delle antiche voci animali diventa antropologia della cultura classica: la trascrizione delle loro voci ci consente di vedere gli animali come li vedevano gli antichi.



Il Corriere della Sera 02.04.2008
Scenari Giovanni Ricci ricostruisce ipotesi e trucchi legati al «pericolo turco» dopo la presa di Costantinopoli
La storia fatta con i travestimenti
Schiave cristiane velate, finti ambasciatori, spade dell'Islam posticce
di Aurelio Lepre

Nel 1453 Costantinopoli fu conquistata dai turchi, che si aprirono così la strada per dilagare nei Balcani. «E se, dopo Costantinopoli, i turchi avessero invaso anche l'Italia?», si chiede Giovanni Ricci nel suo ultimo saggio I turchi alle porte (Il Mulino, pp. 177, e 13,50), in libreria da domani. Ed eccoci trasportati in piena storia controfattuale, nel regno dell'Ucronia, che «rivela le pieghe nascoste del tempo reale, i casi fortuiti e le microragioni accessorie capaci di produrre conseguenze grandiose».
Non si tratta di abbandonarsi al gioco delle ipotesi, ma di ricordare che siamo, come dice benissimo Ricci, «il prodotto di un futuro che facilmente avrebbe potuto non esserci», circondati «da possibilità rimaste intanto inattuate ».
Leggendo queste pagine mi è tornato alla mente il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges — biforcazione nel tempo, non nello spazio —, metafora di un romanzo caotico, che può essere oggi anche la metafora della storia.
Oggi, molto più che in passato. Il secolo XX ha distrutto tutte le certezze degli storici, le hegeliane, le marxiste, le illuministiche e anche quella cristiana del tempo lineare.
Non scorre più verso un approdo sicuro (la resurrezione o il progresso che sia), ma si riavvolge su se stesso e qualche sentinella impaurita, dall'alto di una torre costiera di avvistamento, può credere di vedere spuntare dalla nebbia del passato la flotta del grande ammiraglio Gedük Ahmed, pascià di Valona, che il 28 luglio del 1480 sbarcò a Otranto e, dopo un assedio di quindici giorni, prese la città e «uccise tutti i maschi, eccetto i fanciulli, li quali servò per suo servizio con le donne».
L'occupazione turca fu raccontata molti anni dopo a Leandro Alberti, geografo e storico del Cinquecento, da un misterioso testimone. C'è da fidarsi di testimoni che rievocano a distanza di diversi decenni i fatti a cui hanno assistito? Ricci non se ne fida e, per ricostruire gli avvenimenti di Otranto, indaga sull'indagine di Alberti. Non è facile. Anche se il dominio turco durò solo alcuni mesi, lasciò tracce profonde nei sopravvissuti, li spinse a fingere o a esagerare. Su chi sopravvive a una terribile esperienza gravano sempre sospetti. Soprattutto sulle donne.
Maria Pizzuto era stata fatta schiava a dieci anni, era stata poi riscattata e si era sposata «molto onoratamente». Come per le bambine che, nei film western, vengono rapite dagli indiani e tornano alla loro città solo dopo alcuni anni, anche allora il matrimonio poteva lavare i possibili oltraggi subiti durante la schiavitù. Ma si trattava proprio di oltraggi? Le donne cristiane che a Otranto, dopo la resa dei musulmani, tentarono, travestite da turche, d'imbarcarsi con gli invasori che si ritiravano, lo fecero perché costrette o di loro volontà? E perché le cristiane liberate di Chio, nel 1694, invece di andare incontro ai liberatori, cercarono, anch'esse in vesti turche, asilo in una moschea? La ritirata di un esercito, nota Ricci, porta alla luce strati di realtà sommersi o contraddittori. Lo abbiamo visto anche nel XX secolo, con i travestimenti, le ipocrisie, le ambiguità rimaste sul fondo dopo il ritrarsi dell'ondata nazista.
Il tema del travestimento è anch'esso indagato a fondo da Ricci. Di per sé, è un tema affascinante, che getta un'ombra inquietante anche su ciò che sembrerebbe chiaro, come, mi sembra, volle gettarla Caravaggio sulla scena della decapitazione di Giovanni Battista, raffigurando, in un suo famoso dipinto, il carceriere in abito turco. Con un ragionamento indiziario e non probatorio, Ricci suggerisce di considerare quel tema come un avvio alla moderna identità individuale. L'esempio sul quale però più si sofferma, quello del tale vestito da turco che nel 1576 si presentò ad Alfonso II d'Este, spacciandosi per inviato del sultano Murad III e raccontando che il suo signore aveva intenzione di proclamare Alfonso «re di Gerusalemme », riguarda più un certo modo di fare politica beffandosi degli avversari che la nascita dell'identità dell'Io, visto che quel tale potrebbe essere stato mandato da Francesco I de' Medici, all'insaputa dell'ambasciatore toscano, per prendersi gioco di Alfonso. Politica o commedia? Il sospetto dell'ambasciatore che il falso turco fosse, in realtà, napoletano, ci fa pensare, irresistibilmente, a Totò.
Ma forse anche nel Cinquecento le due cose erano spesso indistinguibili e, del resto, l'immagine di un duca di Ferrara che crede di poter diventare re di Gerusalemme non è molto diversa da quella di Mussolini che sguaina la spada dell'Islam di fronte a schiere di cavalieri arabi osannanti.
Fondato, e attuale, mi sembra il collegamento del travestimento con la diffusione di un senso generale d'insicurezza. A volte crediamo di essere più sicuri se fingiamo di non essere quello che siamo: come in guerra la mimetizzazione aiuta la sopravvivenza, così spesso, in Occidente, diamo l'impressione di mimetizzarci per evitare che qualcuno faccia di noi un bersaglio facile.
A proposito del paragone tra gli atteggiamenti del passato e quelli odierni, all'intrigante libro di Ricci manca forse qualche pagina. C'è una forma di travestimento, la pseudorivoluzionaria, che avrebbe meritato qualche accenno in più.
Ricci ricorda l'istintivo, rabbioso rivoltoso di Bologna che nel 1508, prima di essere impiccato, dichiarò «vorria più tosto el governo del Turco che quello di preti», ma penso anche al più raziocinante pseudorivoluzionario Maurizio De Rinaldis, il seguace di Tommaso Campanella, che si proponeva «mutazione di secolo, e del Regno» con l'aiuto dei turchi, credendo che si sarebbero accontentati di «assistere nel mare, per far paura a chi lo contrastasse ». Ce ne sono molti ancor oggi come Maurizio De Rinaldis, che, per contrastare l'Occidente e gli Stati Uniti, aspettano sulla spiaggia, travestiti da kamikaze, l'arrivo dei discendenti di Gedük Ahmed. Rischiando la possibile delusione di trovarsi invece di fronte ai laici, occidentalizzati nipoti di Atatürk.

L' Unità 02.04.2008
E Bertinotti tese la mano ai «compagni socialisti»
di s.c.
«Dopo il voto apriamo un dialogo». Boselli: «Un patto andava fatto prima, tu hai scelto l’opposizione»
Marciare divisi per colpire uniti può andare bene solo fino a un certo punto, poi bisogna fare fronte comune. Ecco perché Fausto Bertinotti tende una mano ai «compagni socialisti», auspicando l’apertura di un dialogo all’indomani del voto. «La questione di una forza socialista in Italia è un problema aperto, in questa campagna non ha una risposta soddisfacente», nota il presidente della Camera nel corso di una videochat sul sito web della Sinistra arcobaleno. Da qui la proposta a tutte «le componenti socialiste che sono interessate alle sorti della sinistra italiana» di aprire un canale di comunicazione che parta dalla «vicinanza sulla laicità, sull’idea di difendere la persona da ogni forma di oscurantismo».
Al candidato premier della Sinistra arcobaleno non sfugge che con Enrico Boselli e i suoi ci sono anche elementi di diversità, in particolare sul terreno della politica economica e sociale: «I socialisti si sono andati convincendo dell’utilità di una politica sostanzialmente liberale, dell’idea della privatizzazione, che invece secondo me ha fallito». Ma Bertinotti si rende anche conto che quello che definisce il «duopolio» Pd-Pdl mette a rischio l’esistenza stessa di grandi famiglie culturali e politiche italiane. E se l’unità della sinistra cosiddetta radicale è per Bertinotti «questione di vita o di morte», le soglie di sbarramento del 4% alla Camera e dell’8% al Senato dell’attuale legge elettorale mettono i socialisti di fronte a un serio rischio di estinzione in Parlamento.
La risposta di Boselli non si fa attendere, ma contiene anche elementi critici: «Un patto in difesa della laicità va fatto, ma andrebbe fatto prima del voto», dice il candidato premier del Partito socialista. «Bertinotti, invece, scegliendo programmaticamente di stare all’opposizione, ha reso impercorribile il cammino di un accordo comune per una sinistra riformista e socialdemocratica».
Accenti polemici che al quartier generale della Sinistra arcobaleno vengono minimizzati. Un po’ perché lo stesso Boselli ammette comunque che il dialogo «resta fondamentale» perché «i diritti di libertà e di laicità chiaramente non passano il Pd di Veltroni e Di Pietro». Un po’ perché all’interno dello stesso Partito socialista c’è chi, come Lanfranco Turci, dice che al di là delle differenze tra sinistra movimentista e sinistra riformista, «è giusto tenere aperto un confronto in vista di un futuro post elettorale» in cui il punto interrogativo sarà il ruolo che giocherà il Pd.
Comunque vadano queste prove di dialogo, Bertinotti è convinto che quello dell’unità a sinistra è un «processo irreversibile», che dopo il voto di aprile bisogna aprire il processo costituente della Sinistra arcobaleno che vada ben al di là della «ipotesi federativa» di cui parla Oliviero Diliberto e che in questa fase «è meglio passare per l’opposizione, ricostruire i rapporti di forza, di partecipazione e quindi l’emozione».