Elezioni, si rischia il rinvio è battaglia sul simbolo Dc
Veltroni e Berlusconi contrari. Il Viminale ricorre
Prodi: l´Italia si metterebbe in cattiva luce Ferrara: se accade mi suicido
di Francesco Bei
«Un rinvio delle elezioni oggi metterebbe l´Italia molto, molto in cattiva luce davanti al mondo». Quella di Romano Prodi sembrerebbe una constatazione ovvia su un´ipotesi d´accademia, se non fosse che proprio il rinvio è davvero uno dei possibili esiti di una vicenda kafkiana - maturata in un vortice di ricorsi, sentenze e ordinanze - che nasce dalla riammissione alla corsa elettorale della Dc di Giuseppe Pizza (alleato di Berlusconi) da parte del Consiglio di Stato.
Così l´ipotesi rinvio, obbligatoria se si vuole dar modo a Pizza di fare campagna elettorale per tutti i trenta giorni previsti dalla legge, per il ministro dell´Interno Giuliano Amato in mattinata diventa «un´eventualità che non posso escludere». E basta solo evocarla questa «eventualità» per provocare uno shock in tutto il mondo politico, schierato questa volta senza eccezioni - da Veltroni a Berlusconi, a tutti gli altri - a difesa della data prefissata. Per il leader del Pdl il rinvio «sarebbe un dramma» e si appella quindi al suo alleato chiedendogli «un segno di responsabilità». Il Cavaliere vorrebbe che Pizza (che si presenta solo al Senato nelle circoscrizioni italiane) rinunciasse alle sue pretese in cambio di maggiori spazi in tv, ma il segretario della Dc "pocket" per tutto il giorno si mostra irremovibile. Solo in serata Pizza apre uno spiraglio, nel caso «arrivasse una sollecitazione del capo dello Stato». Anche nel Pd la questione si pone con drammatica urgenza: «E´ una cosa aperta nella destra - sostiene Veltroni - la destra la risolva. Spero non sia un tentativo per rinviare le elezioni». Giuliano Ferrara minaccia conseguenze drastiche: «Se rinviano le elezioni, mi suicido». Più serio Fausto Bertinotti, che paventa «uno smarrimento nel Paese» in caso di prolungamento della campagna elettorale, perché «verrebbe percepita da tutti come la dilatazione dell´incertezza». Pier Ferdinando Casini, contro cui Pizza ha scagliato i suoi avvocati chiedendo il sequestro del simbolo Udc, liquida le pretese della Dc come «baggianate».
A bloccare il simbolo della Dc pizzina perché troppo simile a quello dell´Udc era stato l´ufficio elettorale del Viminale, che ne aveva bocciato lo scorso 4 marzo il simbolo insieme a quello della Dc di Sandri. Entrambi hanno però presentato ricorso in Cassazione, e l´8 marzo l´ufficio centrale elettorale li ha respinti. L´indomito Pizza si è rivolto a questo punto al Tar, sostenendo l´illegittimità dell´esclusione, ricevendo un´altra bocciatura. Quindi l´ennesimo ricorso al Consiglio di Stato, e la decisione di ieri l´altro che ha ribaltato le precedenti. E tuttavia il rinvio non è l´unica strada possibile. Il governo infatti non se né è stato con le mani in mano, consultando giuristi, costituzionalisti, funzionari del Viminale, esperti del Quirinale. Forte anche dell´articolo 61 della Costituzione, che prevede in modo tassativo che le elezioni si svolgano entro 70 giorni dallo scioglimento delle Camere (scadono il 16 aprile), nel pomeriggio, Amato ha dato incarico all´Avvocatura dello Stato di proporre ricorso in Cassazione per chiedere la revoca dell´ordinanza sulla Dc. Il vice avvocato generale, Glauco Nori, sta preparando in effetti due ricorsi, che verranno presentati oggi. Uno alle sezioni unite della Cassazione, per sostenere il difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato sulla materia. E un secondo ricorso allo stesso Consiglio di Stato, perché nella sua ordinanza non avrebbe tenuto conto che all´estero le operazioni di voto sono già iniziate (il 26 marzo), con militari e diplomatici che hanno votato su schede prive del simbolo di Pizza. Peraltro, se anche non si rinviasse il voto ma semplicemente venisse riammessa la Dc e i suoi candidati, bisognerebbe ristampare milioni di schede elettorali, con i costi immaginabili. Il Tar del Lazio poi deve ancora pronunciarsi nel merito del caso e, in teoria, potrebbe dare torto a Pizza anche dopo che la Dc abbia partecipato alle elezioni. In quel caso sul risultato elettorale penderebbe la ghigliottina dell´illegittimità, sia che si voti il 13-14 aprile, sia che si rinvii. In questo pasticcio giuridico qualcuno ieri già ricordava il precedente di Messina del 2005 quando - al termine di una battaglia legale dentro al Nuovo Psi - i giudici amministrativi annullarono le elezioni comunali e ordinarono la loro ripetizione.
La Repubblica 03.04.2008
Insulti e lanci di uova su Ferrara "Non ho paura, a voi piace l´aborto"
di Michele Smargiassi
Alle ore 18.48 Giuliano Ferrara risponde al fuoco. Riesce ad acchiappare al volo chissà come un paio dei pomodori che gli piovono addosso, e li rispedisce al mittente con mira alzo zero. «Cosa credete, che abbia paura di voi?», ruggisce, «smettetela, è dagli anni settanta che rompete i coglioni alla democratica Bologna!». Gli altri se possibile ruggiscono ancor più di lui, del resto sono alcune centinaia, e cominciano a spingere contro il cordone di polizia, è a questo punto che le cose si fanno difficili, volano manganellate, volano bottigliette d´acqua minerale, Ferrara taglia corto dopo meno di dieci minuti di un comizio che nessuno ha potuto ascoltare, «sì, sì, vado, ma solo perché mi aspettano a Imola, venite a Imola…», sfida, «ci vediamo a Imola», no, quegli altri vogliono vederlo prima e più da vicino, s´intrufolano dietro le divise, gli arrivano a un passo mentre è già sotto i portici, uno gli strappa via il berretto, la polizia reagisce, le botte bipartisan non si contano, un paio di fotografi ci rimettono le macchine e qualche livido, poi da chissà dove piove anche una sedia pieghevole di ferro, una di quelle del bar della piazza, e atterra sul cranio del vostro cronista che da quel momento, scusate, smette per un po´ di fare il cronista per farsi dare qualche punto di sutura al pronto soccorso, proprio mentre il direttore del Foglio commenta con i cronisti superstiti: «Clima da anni Settanta… Bologna è la città più aggressiva d´Italia».
Tutto come annunciato, come ampiamente previsto, tranne il prezzemolo. Quello che i gruppi femministi avevano giurato già dal giorno prima di far piovere sul capo del candidato premier della lista "Aborto No Grazie" prima, durante e dopo il previsto comizio nel cuore antico di Bologna. «Spero che il mio amico Cofferati, se mi aggrediscono, mandi le ruspe», aveva mandato a dire, guascone, Ferrara. Niente ruspe, ma doppie transenne antisfondamento a tutti gli ingressi di Piazza Maggiore, presidiati da agenti in tenuta antisommossa, uno schieramento che Bologna non vedeva da altri tempi. Filtro anti-contestatori: ma non serve. Un gruppetto-civetta rimane buono buono fuori coi cartelli, mentre gli altri uno ad uno s´infiltrano nella piazza, dove si entra solo in fila indiana. Sono ragazzi dei centri sociali (ma l´unico striscione firmato è quello del Tpo, storica sede dei disobbedienti), dei collettivi universitari, dei comitati di occupanti delle case. Rifondazione non c´è, ha scelto di evitare la mischia di distribuire volantini duecento metri lontano. Il comitato d´accoglienza cresce pian piano fino a ingrossarsi, non sono una marea ma ben attrezzati: megafono, fischietti e verdura in tasca. Le ragazze, giovanissime, infuriatissime, si schierano davanti. I cartelli resuscitano, riscritti all´ultimo momento su fogli da taccuino, si va da citazioni di Wittgenstein a un «Ferrara mangia di meno e tr… di più». Il gazebo antiabortista invece esibisce tartine al formaggio e un ratzingeriano "amore e buonumore». Ce ne sarà poco di entrambi. La contraerea sonora comincia già quando prende la parola la candidata Matilde Leonardi, e subito si capisce che non si capirà niente, che questo non è più un comizio ma una prova di forza, del resto lo ammette il secondo degli oratori, Giovanni Salizzoni, figlio di un famoso parlamentare bolognese della Dc, «quarant´anni fa mio padre da questo palco riuscì a zittirvi e ci riusciremo anche oggi», poco importa che allora non fosse ancora nato nessuno dei contestatori qui presenti, si va per categorie ovviamente.
Giuliano Ferrara sorride, sembra divertito, vestito come Pavarotti (sciarpona rossa, berretto floscio) sta con le mani appoggiate alla ringiera di tubi innocenti e cerca perfino di dire qualcosa agli urlanti, il labiale più o meno è: «Lasciate parlare loro, fischiate me». Intanto comincia a volare già qualcosa: monetine, un paio di pomodori, non marci, belli sodi. I poliziotti mettono il casco. Dietro ai duecento scatenati ce ne sono più o meno altrettanti tranquilli, non si sa se sostenitori o spettatori dello spettacolo previsto in cartellone. Ferrara quando tocca a lui non perde tempo e va subito al sodo, «Vi piace un miliardo di aborti? La vera libertà di scelta è quella di non abortire una volta concepito il bambino», almeno è quello che riescono a capire i più vicini agli altoparlanti mentre i contestatori urlano «fascista» e «buffone», tra gli insulti riferibili, fanno gestacci, un palloncino con la scritta "questo è mio" forse vorrebbe sembrare un utero, tra i più scatenati c´è un ragazzo con un bambino di pochi anni sulle spalle, un poliziotto perde la pazienza, «ma deficiente porta via quel bambino!», Ferrara intanto dà consigli, «andate al cinema a vedere Juno, di corsa! Vedrete un´eroina moderna». Anche dopo mezz´ora la potenza sonora è intatta, adesso però arrivano anche i proiettili, c´è già uno schizzo di tuorlo giallo come una medaglia sul taschino dell´oratore, «Voi siete contro la pena di morte? Non si direbbe...», e alla fine succede quel che abbiamo già detto, l´artiglieria incrociata, i manganelli e le sedie volanti. Sul campo resta anche una ragazza di 21 anni, Marianna, studentessa, si preme le mani sul viso e urla: «Mi ha colpito un poliziotto col manico del manganello, lo voglio denunciare». Ai bordi della piazza continuano impassibili a girare i venditori di telefonini di un noto provider, con cartelli che promettono «amici gratis», non capiscono che in politica, quando servono, è molto molto più facile procurarsi nemici gratis.
La Repubblica 03.04.2008
GAROFALO
tra i colori del raffaello ferrarese
Con 70 opere, le più importanti arrivano dalla Russia, comincia l´avventura della Fondazione Ermitage Al Castello Estense si apre sabato la grande retrospettiva dell´artista
Con «Garofalo. Pittore della Ferrara Estense» comincia la grande avventura italiana della Fondazione Ermitage, costituita poco più di sei mesi fa. La mostra, che apre sabato negli affascinanti e simbolici spazi del Castello Estense, sede d´onore della stessa Fondazione, vuol essere un omaggio alla città emiliana, scelta come sede italiana del grande museo russo, e al contempo un omaggio all´età rinascimentale che vide Ferrara tra le principali capitali culturali d´Europa. Ecco perché i curatori dell´evento - Tatiana Kustodieva e Mauro Lucco - hanno scelto Benvenuto Tisi detto il Garofalo, il «Raffaello ferrarese» secondo la definizione dei suoi contemporanei, artista di spicco della corte estense, morto cieco nel 1559, all´età di 78 anni. Fino ad oggi non era mai stato al centro di una vera retrospettiva come questa, che è supportata da grandi prestiti a cominciare, ovviamente, da quelli dell´Ermitage di San Pietroburgo.
Sono settanta le opere che raccontano la sua capacità di assimilare le novità coloristiche di Giorgione, l´attrazione per il classicismo raffaellesco, la curiosità per le novità introdotte da Giulio Romano e Girolamo da Carpi. Provengono dalle istituzioni di mezzo mondo anche se appartengono proprio alle collezioni del museo russo le «meraviglie», tre eccezionali dipinti di grandi dimensioni, realizzati da Garofalo intorno al 1530 per il convento di San Bernardino, il monastero acquistato da Lucrezia Borgia per la nipote Camilla: Le nozze di Cana, la Via Crucis e un´Allegoria del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Quest´ultima tela è una variante di un analogo soggetto custodito nella Pinacoteca di Ferrara, ed è poco conosciuta: per più di cinquant´anni l´opera, accesa dai bianchi, dai rossi, dagli azzurri, è rimasta arrotolata e solo quest´anno, dopo un accurato restauro, è tornata ad essere esposta al pubblico. Ma è arrivato dopo un viaggio di migliaia di chilometri, quindicimila, anche il quarto dipinto della serie: La moltiplicazione dei pani e dei pesci che nel 1931 fu trasferito dall´Ermitage al Museo di Belle Arti dell´Estremo Oriente, in Siberia, nella città di Khabarovsk, dove si trova tuttora. E non manca La Deposizione, il primo dipinto del Rinascimento italiano giunto in Russia ancora regnante Pietro il Grande, all´epoca attribuito a Raffaello.
Dunque ci sono legami «ideali» assai stretti tra il Garofalo e la Russia. Ribadisce Mauro Lucco, il curatore: «La mostra nasce proprio da queste coincidenze: il Garofalo fu il primo artista rinascimentale ad entrare nelle collezioni reali russe. Pochi mesi fa l´Ermitage gli ha dedicato una piccola mostra perché dopo cinquant´anni sono state restaurate le tele provenienti da San Bernardino, rimaste arrotolate nei depositi. Questa era l´occasione per farle vedere in Italia».
Ma è o è stato giusto sovrapporre il Garofalo a Raffaello?
«Se in realtà sta chiedendo: Garofalo è grande come Raffaello? La risposta è no. Raffaello è una delle primissime stelle del firmamento italiano. E´ una stella polare - non la stella di una costellazione come Garofalo, che è un artista di seconda grandezza ma bello, interessante. La nomea di Raffaello ferrarese viene fuori dal clima vissuto tra il Sei e il Settecento, dalla riscoperta delle singole individualità».
Voi cosa avete scoperto di Garofalo preparando questa mostra che è la prima grande retrospettiva dedicata all´artista?
«Non è una retrospettiva completissima. Rispondo con una metafora: abbiamo un puzzle, che è la carriera di Garofalo, composto da diecimila pezzi. Noi possediamo solo 5.673 pezzi sistemati in disordine. Se riusciamo a metterli in ordine garantiamo la leggibilità del disegno. Questo è quello che abbiamo cercato di fare. Non ci sono novità eclatanti o scoperte che sconvolgono la storia dell´arte. Ma ora riusciamo a leggere il percorso del Garofalo, vediamo come si è confrontato con altri artisti. Il nostro è stato un lavoro sottile. Garofalo è stato un uomo dalla vita normalissima, che ha cercato di fare bene il suo mestiere, in maniera assai civile. Ha dipinto bene, ha soddisfatto le esigenze delle comunità religiose di Ferrara. E´ vero che ha eseguito quasi sempre pale d´altare mentre Dosso realizzava opere più fantasiose, più eccitanti per il Duca. In un certo senso Garofalo è stato il contraltare di Dosso Dossi».
Più intimistico e religioso rispetto a Dosso?
«Intimistico no, ma religioso si. I committenti richiedevano pale d´altare e Garofalo soddisfaceva questa esigenze. Nella seconda metà del Quattrocento Ercole d´Este aveva messo in opera uno dei progetti urbanistici più ambiziosi dell´epoca, aveva costruito una nuova parte di città, dove furono innalzate tante chiese, bisognose di arredi, di pale d´altare. Garofalo rispose al meglio a queste domande del mercato».
Va messo tra i pittori «bigotti»?
«Ma se un artista incontra un duca bigotto che commissiona opere a carattere sacro perché poi deve essere definito bigotto? Eppure è quanto scrisse Roberto Longhi e ben presto divennero pittori da non considerare. Ma se uno guarda con attenzione scopre, ad esempio, che Domenico Panetti, il massimo del bigotto, nel 1497 copiò delle incisioni che Dürer aveva realizzato solo un anno prima. Quanti altri pittori avevano questa sensibilità, intelligenza, queste informazioni? Garofalo fece esattamente lo stesso. Era un allievo del Panetti e aveva la stessa strumentazione della bottega del maestro. Panetti copiò in un suo quadro dei dettagli di un´incisione di Dürer, successivamente li ritroviamo anche in un dipinto del Garofalo. Ci sono riprese da Dürer in molti dei dipinti giovanili del Garofalo ma non c´è da meravigliarsi e non è una banalità. E´ un modo, un mezzo per capire, uscire dalla confusione che spesso troviamo nel mondo dell´arte».
Un inedito c´è, ben pochi hanno visto il dipinto di Khabarovsk.
«Per farlo arrivare è stato mobilitato il ministero delle catastrofi, il corrispondente della nostra protezione civile. Solo loro hanno un aereo sufficientemente grande per trasportare in sicurezza il dipinto, che è tre metri di altezza per 2,5 di lunghezza. Faceva parte della collezione di Papa Pio VI, a Palazzo Braschi, a Roma. Arrivò in Russia nel 1840 per volontà dello Zar Nicola I assieme ad altre tre tele del complesso iconografico di San Bernardino, anche queste ora esposte a Ferrara. Ma ci sono molti quadri mai visti dal grande pubblico. Questa mostra è davvero un´occasione unica».
La Repubblica 03.04.2008
L'Odissea di Kubrik
"2001", IL FILM CHE INVENTÒ IL FUTURO
I 40 anni della pietra miliare del cinema. All´epoca non ebbe il successo che il tempo gli ha decretato
di Irene Bignardi
Poteva intitolarsi "Journey beyond the stars", viaggio al di là delle stelle. Avremmo potuto sentire "Il sogno di una notte di mezza estate" di Mendelssohn al posto del "Bel Danubio Blu" e i "Carmina burana" di Carl Orff al posto di Richard Strauss. Il monolito nero avrebbe potuto avere una forma completamente diversa: un cubo trasparente, una piramide, un tetraedro. A lungo si pensò di usare il formato 1:85 anziché il sontuoso formato dei 70mm superpanavision.
Insomma, sarebbe potuto essere completamente un altro film. Certo, un altro film di Stanley Kubrick. Invece, da quattro anni di pensamenti e ripensamenti, di innamoramenti, indagini scientifiche, studi, ipotesi, scritture parallele, invenzioni tecniche, traslochi tra l´America e l´Inghilterra, scontri, lacrime (dei collaboratori), paranoie (dell´autore), gelosie (tra il regista e il suo «scrittore» Arthur C. Clarke) e di cambiamenti (a dispetto di chi pensa che una sceneggiatura cinematografia hollywoodiana sia una botte di ferro) venne alla luce 2001: Odissea nello spazio, la pietra miliare del cinema che domani compie quarant´anni: quarant´anni dalla prima a New York del 4 aprile 1968 di un film che esplose con una combustione lenta mentre l´America e il mondo vivevano in un clima di controcultura giovanile e di protesta, con la guerra del Vietnam sullo sfondo e lo sbarco americano sulla luna di lì a poco.
Se esiste qualcosa che merita di esser chiamato zeitgeist, se quello era lo spirito del tempo, il film di Kubrick s´inseriva perfettamente nel quadro. Anche se non fu accolto con il successo che il tempo gli ha poi decretato. Basti dire che l´allora regina della critica americana, Pauline Kael, lo definì spregiativamente «il massimo film amatoriale», facendosi beffe anche dell´apparizione della figlia piccolina di Kubrick in una breve scena del film. Né gli resero giustizia (ma c´era da aspettarselo?) gli Oscar, che lo premiarono solo per gli effetti speciali. Ma con grande stupore del reparto marketing della Mgm, che aveva finanziato il film, gli resero giustizia i giovani, che corsero a vivere quella che consideravano alla stregua di un´esperienza psichedelica. E il biografo di Kubrick, Vincent Lobrutto, giura che nei teatri dove si presentava 2001: Odissea nello spazio, si respirava solo marijuana.
Il resto è la storia di un successo che dura da mezzo secolo e che era nato quattro anni prima, nel febbraio del 1964, a New York, dove Kubrick si trovava in occasione dell´uscita di Stranamore con Caras, il pubblicitario della Columbia che si occupava del film. Fu Caras che, di fronte all´interesse espresso da Kubrick per la fantascienza, gli suggerì il nome di Arthur C. Clarke. Uno scambio di telegrammi portò Clarke a New York dal suo eremo a Ceylon, mentre il sempre irrequieto Kubrick divorava un libro di scienza e fantascienza dietro l´altro. Clarke aveva suggerito intanto a Kubrick di leggere il suo racconto La sentinella - dove compare per la prima volta l´idea di una sorta di monolito. Ma il progetto si tradusse in qualcosa di molto più ambizioso e rischioso: sistemato al Chelsea Hotel di Mahattan, Clarke doveva scrivere, sulla base dei suoi racconti e secondo le grandi linee concordate con Kubrick, un romanzo che sarebbe stata la base della sceneggiatura (« la forma di scrittura meno comunicativa mai immaginata», diceva Kubrick), mentre il regista procedeva nelle ricerche e nella preparazione del film...
E di ricerche Kubrick ne ha fatte non poche, come si vede anche dal volume pubblicato recentemente da Isbn Edizioni, che raccoglie le ventun interviste realizzate dal regista (in realtà da Roger Caras, con Kubrick committente), davanti alla telecamera, ad altrettanti scienziati e pensatori, da Margaret Mead a Fred Whipple, da Skinner ad Asimov, ponendo loro l´imbarazzante domanda: che cosa ci riserva il futuro? Le risposte sono a dir poco buffe, viste dalla prospettiva del 2008. Il 2001 doveva sembrare molto lontano e ricco di speranze, di illusioni scientifiche e sociali: i computer sarebbero stati intelligenti come Hal 9000 ma buoni come lui non è, saremmo arrivati alla conquista del sistema solare, e via con le magnifiche sorti e progressive.
Da questa massa di letture, illusioni, discussioni (che aspetto dovrebbero avere gli extraterrestri per non ricadere nello stereotipo della fantascienza?), di istruzioni date a Clarke circa modifiche e nuove idee per il romanzo, uscì finalmente la sceneggiatura - che Kubrick disse di non amare. Troppo dialogo. Clarke tagliò. E alla fine, su 139 minuti di film, il dialogo avrebbe coperto solo 46 minuti. La lavorazione ebbe inizio il 29 dicembre 1965 in Inghilterra, negli studios di Boreham Wood, dove fu ricostruita la «centrifuga», la grande ruota dell´astronave Discovery. Il film doveva costare 6 milioni di dollari (ma la cifra alla fine avrebbe coperto solo gli effetti speciali, e il budget finale si assestò sui 10,5 milioni, una cifra spropositata per l´epoca, anche se ampiamente ripagata dai risultati). Fu una lavorazione di dimensioni e durata titaniche. Kubrick si trasferì armi e bagagli, moglie e figliolette, nel paese che sarebbe diventato il suo. Tra sperimentazioni ed effetti speciali mai prima sperimentati la lavorazione durò diciotto mesi. La diffidenza di Kubrick per i viaggi fece sì che persino la scena fondamentale in cui Moon-Watcher, lo scimmione capo, lancia il suo osso/arma nel cielo, creando, come disse Clarke, il più lungo flash forward della storia del cinema (quattro milioni di anni), fu girata non lontano dagli studios, tagliando fuori dall´immagine «il ventesimo secolo».
È la magia del cinema. Kubrick montò fino all´ultimo minuto, anche a bordo del Queen Elizabeth che lo portava a New York per la prima. Sapeva di aver fatto il film che segnava un´epoca. Ognuno l´avrebbe letto a suo modo. Molto si sarebbe discusso. Kubrick concesse, tra le tante spiegazioni, che poteva trattarsi della ricerca di Dio. Poi cominciò a sognare di fare il suo Napoleone.
La Repubblica 03.04.2008
Se la modernità fa male al diritto
A proposito delle tesi contenute in un saggio dello storico Paolo Grossi
di Stefano Rodotà
ll´Europa si addice la riflessione giuridica. Che è, insieme, capacità di penetrare una complessa vicenda culturale e consapevolezza dei molteplici modi attraverso i quali il diritto contribuisce a conformare l´organizzazione sociale. Lo fa, in modo nient´affatto compiacente, uno storico di gran rango, Paolo Grossi, al quale si deve un´impresa impegnativa, quella di ricostruire la vicenda giuridica europea dalla metà del primo millennio fino alle soglie del terzo (L´Europa del diritto, Laterza, pagg. 277, euro 20).
L´«intelligibilità di discorso» e la «prevalente attenzione» per il diritto privato, che l´autore proclama fin dalle prime pagine, non sono in alcun momento una limitazione o un impoverimento della trattazione. Se il libro è scritto per i non iniziati, in nessun momento questo significa un appiattirsi della narrazione: il linguaggio è forte, i giudizi taglienti. Vicende e problemi sono indicati in modo nitidissimo, sì che il libro diviene un´ineludibile pietra di paragone. Non appartiene ai soli giuristi o ai curiosi del diritto, ma è quasi una sfida lanciata a tutti quelli che riflettono su passato, presente e futuro dell´Europa.
Neppure la dichiarata intenzione di seguire prevalentemente il diritto «che ordina la vita quotidiana dei privati» induce a distogliere lo sguardo da una realtà più larga, a chiudersi in una gabbia. Se quello è il punto d´osservazione, da lì si contempla un orizzonte amplissimo, dove compaiono le logiche del potere e le durezze delle relazioni sociali.
Questa capacità di immergere il diritto nel fluire della realtà discende dal modo in cui Paolo Grossi considera il diritto e la sua storia: come esperienza giuridica che, nelle diverse civiltà, si manifesta attraverso diverse visioni e realizzazioni. Il diritto soffre quando lo si fa prigioniero di una logica che contraddice questa sua intima natura. «Il diritto - scrive Grossi - è vita, è esperienza mobilissima, ed è compresso - più che espresso - da un monopolio legislativo». Quando al pluralismo si sostituisce «il potere politico supremo come unica fonte del diritto», il risultato è quell´assolutismo giuridico che da anni costituisce l´oggetto polemico della ricerca di Paolo Grossi.
Non siamo di fronte ad affermazioni apodittiche, ma a conclusioni tratte da una ricca analisi che segue nei secoli le vicende del diritto nei vari luoghi dell´Europa, nelle sue diverse manifestazioni tecniche, nel suo incarnarsi nell´opera dei giuristi, il cui essenziale protagonismo Grossi sottolinea con attenzione partecipe e convinta. Da qui nasce una rappresentazione della vicenda giuridica europea quasi come lotta tra chi vuole salvaguardarne la molteplice ricchezza e chi vuole chiuderla, anche con una mossa autoritaria, entro schemi astratti e unificanti. Da qui una critica decisa alla modernità giuridica, che costituisce uno dei tratti forti dell´opera.
Nulla è risparmiato ai simboli per eccellenza di quella modernità, il soggetto giuridico astratto e la codificazione. Il linguaggio si accende, le parole sono rivelatrici. Grossi riconosce quelle che sono «autentiche conquiste della modernità», come l´abbattimento dei vincoli di ceto, il riconoscimento al soggetto dell´esercizio dei diritti che presidiano la sua personalità. Ma il prezzo? A Grossi appare troppo elevato: non più uomini in carne ed ossa, ma modelli astratti che si muovono in uno «scenario irreale», che non fa più i conti con la realtà e con la storia.
«È ovvio che da un simile presupposto venga fuori solo un catalogo, che è teoricamente suadente nel suo parlar sonoro di libertà, di uguaglianza, di diritti e - perché no? - di felicità (termine ingenuo che ricorre spesso nelle "carte" settecentesche), ma che non può consolare il nullatenente del quarto stato, che non è neppure sfiorato nella miseria della sua vita quotidiana, da uno scialo di dichiarazioni irrilevanti - se non schernitrici - per chi fa i conti con la fame. Dallo stato di natura discende una raffigurazione statica, come si conviene all´aria rarefatta della meta-storia; ma la vita - quella realmente vissuta - è consegnata tutta alla dinamica delle forze in lotta».
Così argomentando, Paolo Grossi non mette soltanto in evidenza limiti del diritto. Denuncia un vero e proprio suo scacco quando assume la forma alla quale la modernità ha voluto consegnarlo attraverso il giusnaturalismo e l´Illuminismo - la «strombazzata uguaglianza» del 1789, «museale» al pari di quel codice civile che «presuppone le mitologie legalistiche e legolatriche dell´illuminismo continentale»; la «foglia di fico» della volontà generale; l´individuo astratto dalle relazioni sociali e consegnato alla solitudine. La critica, conseguente, investe il soggetto storico di questa operazione, la borghesia, e il suo strumento essenziale, la proprietà, ai quali viene contrapposta la condizione di «poveri» e «sfruttati». Ancora parole forti, non usuali per il lessico giuridico (e ormai quasi assenti nello stesso linguaggio politico), alle quali Grossi si affida proprio per recuperare i dati di realtà, oscurati o cancellati dalla progressiva supremazia delle categorie giuridiche astratte.
Naturalmente qui le opinioni possono divergere, e si pone subito il problema se la critica sociale di questo modo d´essere del diritto moderno debba necessariamente portare con sé una ripulsa così totale dell´intera modernità giuridica (come Paolo Grossi sa, ho orientato diversamente la mia ricerca e, pur nella comune critica alla categoria della proprietà, continuo a ritenere che le acquisizioni in particolare dell´Illuminismo rimangano riferimento essenziale anche nell´attuale temperie di attacco alla persona e ai suoi diritti).
Vi è dunque un pensiero forte, fortissimo, che ispira e muove questo libro che così diviene politico nel senso più alto e pieno della parola. L´aver proposto, in un´opera dedicata al largo pubblico, tesi così impegnative è buona cosa, il punto di partenza per una rinnovata discussione, di cui qui possono essere solo accennati i motivi essenziali, che vanno dall´interrogarsi intorno ad una così radicale svalutazione dell´eguaglianza formale e dei diritti fondamentali fino all´essenziale riapertura della questione della costruzione di una soggettività non astratta.
Entrando nel secolo passato, nella ricostruzione di Grossi si scorgono precise indicazioni che sottolineano pure come la parentesi della modernità si sia, almeno in parte, chiusa, con il recupero del pluralismo, con l´articolazione delle fonti che sfida l´assolutismo giuridico, dunque con una marcata discontinuità rispetto allo schema prevalso nei due secoli precedenti. Di nuovo, Paolo Grossi intreccia con maestria i fili di una trama complessa, costituita dal convergere e divergere di tradizioni diverse (basta ricordare l´esperienza del diritto continentale e quella di common law) e di diversi ordinamenti giuridici, come quello della Chiesa.
A questo sono dedicate pagine assai belle, dove tra l´altro emerge il divaricarsi del suo diritto da quello statuale, permeato dagli spiriti dell´Illuminismo e della Rivoluzione, che della Chiesa divengono «feroci antagonisti» (tanto che, forse con qualche malizia, questa constatazione consente di dubitare che le radici dell´Europa possano essere ritrovate solo in quelle cristiane).
Corriere della Sera 03.04.2008
Addio al comunista, eroe da romanzo
Da Vittorini a Morselli: la parabola di un personaggio che per tanti incarnò le virtù del popolo
di Sergio Luzzatto
Quella cui stiamo assistendo è una campagna elettorale molto particolare, anzi unica nella storia dell'Italia repubblicana: è la prima senza la figura del «comunista». Beninteso, sul terreno concreto della lotta politica e sociale i comunisti erano spariti già da tempo, né un Oliviero Diliberto era mai bastato a risuscitarli. Ma per sessant'anni dopo la nascita della Repubblica, fino alle elezioni legislative del 2006, il comunista non era sparito dall'immaginario collettivo: era rimasto vivo, quanto meno, nella leggenda nera alimentata dagli avversari, in primis da Silvio Berlusconi. La campagna elettorale del 2008 segna invece la sua scomparsa dal nostro firmamento mentale. La sua eclissi totale e probabilmente definitiva, l'inappellabile morte di una stella.
Buona ragione per guardarsi indietro un'ultima volta, ragionando su che cosa il comunista (e la comunista) abbiano rappresentato lungo vari decenni della storia italiana: non tanto come presenze reali, elettori o eletti, militanti di base o dirigenti di partito, quanto piuttosto — per l'appunto — come presenze virtuali, figure dell'immaginario. E vale da guida un volume uscito proprio in questi giorni, intitolato
Il comunista e firmato da una giovane critica, Anna Baldini (Utet libreria, pp. 222, e 17,50). Dove l'astro oggi scomparso viene ritrovato come una stella fissa nel nostro universo letterario, e insieme viene scrutato nella molteplicità delle sue facce visibili o nascoste.
Partigiano, operaio, intellettuale, funzionario, sindacalista, (se donna) femminista…: dietro verifica, il comunista risulta figura diffusa nella letteratura italiana dalla Liberazione al Sessantotto. Ma se pure le incarnazioni del personaggio furono tante, fondativa e fondamentale riuscì quella del comunista come resistente. Da un racconto all'altro pubblicato su Rinascita
nei tardi anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta, da un romanzo all'altro pubblicato da Einaudi nel medesimo decennio, raffigurare il comunista significò anzitutto questo: raffigurare l'eroe della banda partigiana. Generalmente un operaio, meno spesso un contadino, comunque un proletario, che l'alter ego del narratore — generalmente un intellettuale, comunque un borghese — aveva incontrato sulle montagne durante la guerra civile del 1943-45, e dal quale aveva imparato le meravigliose virtù del popolo. Tutto un patrimonio di sanità e di bontà con cui correggere il degrado fisico e morale della borghesia; il viatico della Resistenza da portarsi dietro nell'Italia nuova.
Diseguale per qualità dei risultati (modesti in una Renata Viganò, notevoli in Vittorini o in Pavese), la letteratura che ruotava intorno al personaggio del partigiano comunista è stata per lo più rubricata sotto l'etichetta edificante del «neorealismo ». Allo sguardo tagliente di Anna Baldini, quella letteratura sembra partecipare però di qualcos'altro: di un «realismo socialista» all'italiana. E non soltanto nell'immagine oleografica dell'intellettuale degenerato che rinasce grazie all'incontro con il compagno proletario. Anche in altre strutture tipiche di tale narrativa, come la rappresentazione della donna borghese quale Eva tentatrice, o come lo stereotipo dell'adesione al comunismo quale provvidenziale superamento dell'immaturità fascista oppure attendista, quale vera e sola entrata nell'età adulta.
Tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, le scritture di due ex partigiani estranei al mondo comunista, Beppe Fenoglio e Luigi Meneghello, dimostrarono all'incontrario i limiti di una visione retorica della Resistenza. Ma la cultura stessa del comunismo italiano era allora più libera e più autocritica di quanto non vogliano dirne i denigratori d'oggidì, quelli secondo cui tutti i mali d'Italia deriverebbero dalla famigerata egemonia di Togliatti sul famigerato editore Einaudi. Dopo l'«indimenticabile» 1956, dai torchi einaudiani uscirono libri destinati a modificare significativamente l'immagine letteraria del comunista: Fausto e Anna eL a ragazza di Bube di Cassola,
Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani. Soprattutto, uscì dai torchi di Einaudi un libro decisivo sul comunista che scopre l'insufficienza del comunismo; e che scopre, in generale, l'insufficienza delle ideologie di fronte ai dilemmi della biologia, l'inanità della storia e del progresso nel risolvere le questioni ultime della natura e del destino. Quel libro era La giornata d'uno scrutatore, pubblicato nel 1963 da Italo Calvino.
Raccontava l'esperienza di un intellettuale comunista, Amerigo Ormea, scrutatore in una sezione elettorale posta all'interno del Cottolengo di Torino. Ne diceva lo sdegno per la mobilitazione politica dei disabili (i dementi oltre che gli storpi) ad opera della Democrazia cristiana e della Chiesa. Ma esplorava anche i dubbi di Amerigo intorno al fondo delle cose, al segreto della persona umana: dubbi rafforzati — in quella medesima, fatidica giornata — dalla scoperta che la sua partner occasionale, Lia, era incinta. E che forse Lia non avrebbe rinunciato alla creatura che portava in grembo. E che forse avrebbe fatto bene a non rinunciarvi. «Per lo spazio d'un secondo (cioè per sempre) gli sembrò d'aver capito come nello stesso significato della parola amore potessero stare insieme una cosa del genere di quella sua con Lia e la muta visita domenicale al "Cottolengo" del contadino al figlio».
Due anni più tardi, nel 1965, Calvino respinse per conto di Einaudi il dattiloscritto di un romanzo culturalmente affine al suo racconto lungo del '63: volume pubblicato postumo da Adelphi oltre dieci anni dopo, Il comunista di Guido Morselli. E tuttavia Calvino per primo misurò quanto il racconto su Amerigo Ormea, sui malati del Cottolengo e sulla gravidanza di Lia avesse modificato in maniera decisiva non soltanto il suo modo di essere scrittore engagé, ma l'intero orizzonte del rapporto fra letteratura e politica nell'Italia contemporanea. «I temi che tocco con La giornata d'uno scrutatore,
quello della infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione, non avevo mai osato sfiorarli prima d'ora. Non dico d'aver fatto più che sfiorarli; ma già l'ammettere la loro esistenza, il sapere che si deve tenerne conto, cambia molte cose».
La riflessione della Giornata d'uno scrutatore anticipava di mezzo secolo quella di un altro ex comunista determinato a interrogarsi sul travaglio della politica davanti alle cose ultime, la vita e la morte, l'amore e il dolore, l'aborto e l'eutanasia: anticipava la riflessione odierna di Giuliano Ferrara. Chissà se Italo Calvino ne sarebbe stato orgoglioso, o se — al contrario — se ne sarebbe vergognato.
Unità 03.04.2008
Molti, nelle chiese, nei gruppi nonviolenti, nelle organizzazioni di volontariato e di solidarietà con gli immigrati, nelle associazioni contro il razzismo, non si lasceranno sfuggire l’occasione per riaprire, nel confronto con questo straordinario personaggio, un dossier che ha molti fascicoli e che non è stato mai del tutto chiuso. Un dossier che non riguarda solamente una pagina critica della democrazia statunitense di questo secolo, ma che tocca problematiche tuttora in discussione anche in Europa: pace e sicurezza, militarismo ed economia, soluzione nonviolenta dei conflitti, povertà, multiculturalismo, razzismo. Solo per citare i nomi di alcuni di questi fascicoli.
In questo sta certamente l’interesse sempre vivo per il movimento per i diritti civili e la vita di questo profeta di pace, e quindi la fondata motivazione di consentire al grande pubblico una rilettura della vita di Martin Luther King chiara, sintetica ma anche ben documentata come quella offerta da L. Bennett.
Dal 1969 a oggi l’interesse per il personaggio King non è andato mai scemando, testimonianza ne è la ristampa delle oltre quaranta edizioni de La forza di amare, famosa raccolta di alcuni suoi sermoni utilizzati da tempo tanto nelle catechesi ecclesiastiche quanto nelle scuole. Il «sogno» di King di una società riconciliata e pacifica, pur nelle sue differenze etniche e culturali, non è mai tramontato. Al contrario, direi che oggi, dinanzi alla crisi delle ideologie, soprattutto quelle di sinistra, alcune delle quali troppo frettolosamente liquidarono King come un borghese al servizio della società capitalistica, unitamente al sogno si riscopre e valorizza la capacità strategica del suo movimento e la profondità della sua analisi politica che, partendo dalla grave situazione di razzismo negli Usa degli anni Cinquanta e Sessanta, si allarga poi a riflessioni più complesse sul militarismo e imperialismo Usa e sulle condizioni di povertà strutturale di tante fasce della stessa popolazione americana.
A questo proposito ritengo che vadano segnalati ai lettori interessati a un approfondimento, alcuni testi scelti tra i tanti. Il primo è la pubblicazione da parte di James Cone, un famoso teologo afroamericano che insegna allo Union Theological Seminary di New York, di una biografia intrecciata di Martin Luther King e Malcolm X. Il titolo del testo è: Martin, Malcolm and America: A Dream or a Nightmare (Maryknoll, Orbiss, 1991). L’opera è importante perché esprime la rivendicazione da parte della maggioranza della comunità afroamericana di entrambi i personaggi.
A un primo sguardo i due hanno in comune, oltre che il colore della pelle e la loro lotta appassionata contro il razzismo, solamente la loro morte violenta. Per il resto, nella metodologia come nelle finalità, appaiono a tratti addirittura speculari. Martin coltiva il sogno di una società riconciliata in cui i neri siano del tutto integrati nella società americana. Egli, assieme alla comunità nera d’America e ai liberal bianchi, persegue il suo obiettivo con una strategia rigorosamente nonviolenta mutuata in larga misura da uno dei suoi maestri, Gandhi. Per Malcolm, invece, non c’è alcun sogno americano, c’è solo un incubo. Per dirla con le sue stesse parole, «No, io non sono un americano. Io sono uno dei 22 milioni di neri vittime dell’americanismo, una delle vittime della democrazia americana che è nient’altro che una deprecabile ipocrisia. E quindi io non sto qui a parlarvi come un americano, come un patriota, o come uno che onora e saluta la bandiera. No, io no! Io vi parlo piuttosto come una vittima del sistema americano, io vedo questa nazione con gli occhi della vittima. Io non vedo nessun sogno americano; io vedo solo un incubo americano!».
Malcolm non si fida per nulla dei bianchi, neppure di quelli più «illuminati». Per lui, non l’integrazione è l’unica via d’uscita, ma la separazione, dapprima parlando di un possibile ritorno in Africa, poi della costituzione di una nazione indipendente in America. E infine ritiene che la strategia nonviolenta non sia né necessaria, né efficace.
Martin si presenta come il profeta di pace dei neri degli Stati del Sud, Malcolm come il leader trascinatore dei neri che vivono nelle grandi metropoli americane del Nord. Il primo è cristiano, il secondo musulmano.
L’approccio originale della biografia comparata di Cone sta nel fatto che i due personaggi siano colti diacronicamente nello sviluppo delle loro idee e posizioni politiche e religiose. E la scoperta maggiore sta nel rilevare il processo di avvicinamento dei due grandi leader alla luce delle proprie esperienze. King negli ultimi anni della sua vita rivolge sempre più spesso la sua attenzione a questioni come la povertà strutturale del Terzo mondo, il militarismo americano e la guerra del Vietnam. Il sogno non svanisce, ma più profonda diviene la sua consapevolezza rispetto al sistema politico-economico-militare che tiene sotto scacco non solo i neri d’America, ma anche tanti altri poveri dentro e fuori la nazione. Malcolm, per converso, è costretto a rivedere l’impostazione religiosa e ideologica della Nazione dell’Islam cui aveva dato il suo entusiastico contributo di leader carismatico.
È proprio in questa linea, attenta a cogliere lo sviluppo e la maturazione del pensiero politico e religioso di King, che si aggiunge nel 1993 un’importante iniziativa editoriale della Claudiana, rappresentata dalla traduzione e pubblicazione a cura di Paolo Naso di diversi scritti di King selezionati dall’antologia A Testament of Hope: The Essential Writings and Spechees of Martin Luther King, jr. Il libro, emblematicamente intitolato L’«altro» Martin Luther King, presenta una ragionata introduzione dello stesso curatore. Con il crescere della consapevolezza da parte di King del filo rosso che unisce razzismo, povertà e militarismo, cresce anche, è questa la tesi di Naso, un certo isolamento del leader che lo renderà più vulnerabile alla vigilia del suo assassinio, occorso il 4 aprile 1968.
È del 1994 la pubblicazione di Gabriella Lavina Serpente e colomba: la ricerca religiosa di Martin Luther King, volume edito a Napoli da La Città del Sole. Si tratta di un’opera di 650 pagine che descrive, con rigore scientifico e dovizia di fonti, il pensiero di King e l’ambiente politico e culturale nel quale il suo genio è maturato. La prima parte del titolo del libro prende spunto da uno dei sermoni di King raccolti in La Forza di amare, quello sul testo di Matteo 10,16 «Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe». Lavina indica nella dialettica tra «mente acuta e cuore tenero» la sintesi antropologica di King. Ma la metafora del serpente e della colomba bene esprime anche un aspetto fondamentale della sua spiritualità. La «mente robusta» sta nel suo rigore scientifico e nell’appello, spesso reiterato nei suoi sermoni, alla autorealizzazione. Il nero deve uscire dalla sua condizione di subalternità sociale anche attraverso un processo di emancipazione culturale e psicologica che gli consenta di acquisire fiducia nei propri mezzi e nelle proprie potenzialità. L’emancipazione passa per la cruna d’ago della formazione del carattere e della disciplina. «Secondo me, uno degli scopi principali dell’educazione - scrive infatti King allora ancora diciannovenne - consiste nel salvare l’uomo dalla palude della propaganda. L’educazione deve mettere in grado ognuno di vagliare, soppesare i fatti per metterli in evidenza, di distinguere il vero dal falso, il reale dall’illusorio e i fatti dalle finzioni (…). Dobbiamo ricordare che l’intelligenza non basta. Intelligenza più carattere: ecco lo scopo della vera educazione» (p. 49).
La fertilità della mente deve esprimersi in lucide strategie per smascherare il conflitto senza mai edulcorarlo o nasconderlo. Il confronto con la società razzista viene inseguito e messo a nudo con puntualità e pignoleria da King. Forse l’insistenza sulla mente acuta e penetrante è anche legata alla riconosciuta emotività del nero. Non di rado, ci riferisce infatti Bennett, King era irritato dalla predicazione di certi pastori neri, i quali tendevano a ridurre tutto il messaggio evangelico a mera emotività, risolvendosi il più delle volte in azione sterile proprio perché difettosa di robustezza, approfondimento, rigore. «Egli pensava che vi fosse eccedenza di pastori “scarsamente dotati intellettualmente, e poco preparati” nella chiesa nera» (p. 47).
Ma King era anche cosciente che questa emotività della comunità nera rappresentasse una sua forza dirompente e una riserva di energia pressoché inesauribile per la lotta. D’altra parte, nelle parole stesse di King «avere le qualità del serpente senza quelle della colomba, significa essere freddi, meschini ed egoisti; così come avere le qualità della colomba senza quelle del serpente significa essere sentimentali, anemici e inconsistenti» (La forza di amare).
Infine segnalo la recente pubblicazione, ancora da parte della Claudiana del testo curato da Paolo Naso, Il sogno e la storia. Il pensiero e l’attualità di Martin Luther King (Torino, 2007). Il testo, presentato in occasione di un importante convegno internazionale organizzato dall’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia e dalla Lott Carey Convention degli Usa, propone diversi saggi di autori italiani e americani sulla legacy del messaggio di King oggi.
Si tratta di un testo agevole, con saggi brevi, decisamente interessante, perché vi si intrecciano voci di uomini e donne, battisti italiani e afroamericani, persone credenti e non, che concorrono a ricomporre la personalità di King, inserendola nel contesto del movimento della Sclc (Southern Christian Leadership Conference), organizzazione che King stesso fondò nel febbraio del 1957, e della storia di quegli anni negli Usa e nel mondo.
La raccolta di saggi si interroga sull’attualità del messaggio di King a partire dalle questioni odierne della globalizzazione, della povertà e del dialogo interreligioso.
DOMANI CON L’UNITÀ a quarant’anni dalla sua uccisione la biografia del leader nero scritta da Lerone Bennett, suo amico e compagno di college. La storia e le battaglie dell’«uomo di Atlanta» ricostruita sul filo degli eventi dagli esordi alla morte
Unità 03.04.2008
Quella sera in casa di Martin Luther King
di Furio Colombo
Ero ad Atlanta, quel giorno, 4 aprile 1968. Ero in casa di Martin Luther King, all’ora di cena, che nel Sud degli Stati Uniti è molto presto. Coretta King era a capotavola, nella sala da pranzo un po’ pretenziosa della loro casa di borghesia colta e nera. Io sedevo di fronte a lei, i due bambini maschi da un lato, la bambina dall’altro, accanto al reverendo Martin Luther King senior, il padre del predicatore, predicatore lui stesso, e anzi fondatore della piccola chiesa di Auburn Avenue, che era ancora il centro di tutta l’attività del leader del Movimento per i Diritti Civili.
Mancava la figlia più grande, Yolanda. C’era una giovane donna, parente di Coretta King, che si curava dei piccoli, girava intorno a noi, correggendoli e un po’sgridandoli, ma senza sedersi a tavola, perché andava e veniva dal telefono che era in una stanzetta detta «lo studio del dottor King».
Quando non è tornata (erano le sette di sera) e ad uno ad uno gli adulti si sono radunati in quella stanza, davanti al televisore acceso, è toccato a me restare con i bambini.
Sapevano che il padre era a Memphis «a predicare a tanti uomini e donne che facevano una marcia». Il più grande, Martin, sapeva anche perché. Erano coloro che tenevano pulite le città e per tutto quel lavoro «non li pagavano niente». E allora facevano una grande protesta e suo padre era lì, con loro.
La parte privata del racconto finisce qui. Qui cominciano le immagini della televisione, la più difficile da dimenticare è quella di Andrew Young e di Raph Abernathy inginocchiati accanto al corpo di Martin Luther King, sul ballatoio del Lorraine Hotel di Memphis. Young cerca di sollevare con la mano la testa insanguinata di King, appena colpito. Obiettivo facile, più facile di un film. Nei motel poveri d’America per raggiungere le stanze si passa da una terrazza esterna, come nelle case italiane «a ringhiera». Basta sapere il numero della stanza e aspettare con l’arma di precisione puntata alla porta, dopo avere calcolato l’altezza, e dunque la testa della persona da uccidere.Ma il film, più vero e più drammatico e sorprendente di un thriller, continua. In un’altra inquadratura del celebre filmato di quella sera, Andrew Young indica di fronte a sé. Non si vede dove indica, nell’inquadratura. Ma al di là da un ampio spazio desolato, c’è una vecchia casa rossa con scale antincendio esterne, e una grande terrazza in alto, più o meno all’altezza del secondo piano del Lorraine e proprio di fronte alla stanza di King, l’ultima sul ballatoio (a sinistra, guardando da fuori). Dunque a quella casa di fronte, di là dallo spazio desolato (erba, terriccio, auto abbandonate) si può arrivare da dentro, attraverso scricchiolanti e malconce scale di legno, oppure arrampicandosi sulla scala di ferro, da fuori.
L’importante è arrivare prima e appostarsi.
Il perché l’ho capito arrivando, con il cameraman della Rai, dalle scale di legno. Il primo e il secondo piano sono vuoti. Il terzo è un immenso stanzone con brande e sedie. Ci sono una cinquantina di uomini quasi tutti anziani, alcuni incapaci di muoversi o per il tremore o per il disorientamento, perché guardano assenti. Non si vedono infermieri. C’è stato un putiferio di grida al nostro arrivo. Poi è cessato, quasi di colpo, e un grande silenzio, o parole dette a voce molto bassa e senza alcuna coerenza, seguivano il nostro lavoro di montare la telecamera.
Abbiamo chiesto dove si era piazzato l’uomo con l’arma di precisione. Uno che poteva camminare, con un sorriso dolce ci ha indicato un punto, poi un altro. Ha puntato in basso, dove non ci sono finestre, poi in alto, forse per dire dove vanno le anime dopo gli spari. Rideva in modo dolce, come se si rendesse conto della sua impotenza. E della nostra.
C’erano tracce di piedi e di scarponi, ma di chi, ma da quando? C’era già stata la polizia? Molti hanno battuto le mani, altri si sono voltati verso il muro.
Ci hanno avvertito della rivolta di Washington, diceva la radio: «La capitale degli Stati Uniti è in fiamme».
Siamo partiti subito. A quel tempo, in America, c’erano voli anche di notte. Si chiamavano red eyes (occhi rossi) e costavano meno. Era prima, molto prima della mitica de-regulation di Reagan, che ha tagliato a metà l’aviazione civile americana e moltiplicato i costi, perché tutto è stato lasciato alla discrezione di un cartello detto «concorrenza».
A Washington era difficile entrare in città, a causa dei posti di blocco di Guardia Nazionale e paracadutisti, i soldati che avevano sostituito la polizia metropolitana nel tentativo di riprendere il controllo della città. Ma a quel tempo le credenziali di giornalista erano sacre.
All’aeroporto abbiamo fatto la cosa più rischiosa ma anche più utile: abbiamo noleggiato una di quelle enormi auto scoperte che si vedono nelle parate dei film anni Cinquanta.
In quel modo potevamo filmare intorno senza i limiti dei finestrini. Con quell’auto, alla sera del primo giorno, e dopo avere filmato la distruzione (interi isolati di case in fiamme, incendi provocati dai rivoltosi neri nei quartieri e nelle case dei neri, il resto della città era sbarrato da cingolati messi per traverso, filo spinato e soldati) siamo andati nel piccolo edificio a due piani in cui Robert Kenney aveva organizzato il suo ufficio per la sua campagna elettorale. Era candidato democratico contro il presidente democratico Johnson, era il candidato contro la guerra nel Vietnam, votata da senatori e deputati del suo partito. Stava vincendo, ad una ad una, con i suoi indimenticabili discorsi, tutte le elezioni primarie.
Gli ho proposto l’idea pazzesca di venire sulla nostra auto scoperta. Saremmo andati alla Quattordicesima strada, angolo F street dove era cominciata la rivolta, una o due ore dopo la notizia dell’assassinio di Martin Luther King.
Robert Kennedy mi ha chiesto un quarto d’ora per riflettere. Si è ritirato in uno stanzino diviso da una porta a vetri. Potevamo filmarlo, mentre, muovendo un po’ le labbra, stava «pensandoci» come aveva detto, e lo abbiamo fatto, senza tagli o montaggi, Kennedy non ha consultato nessuno. Ha deciso da solo, neppure Ted Sorensen, comune amico e che si vede accanto a me e a lui nel documentario di quel momento. È venuto da solo.
Era notte e non c’erano luci perché l’energia elettrica era stata tolta in città. Siamo entrati in un’area che sembrava vuota e spenta. Ma quando abbiamo acceso l’unico riflettore, puntandolo su Robert Kennedy, che si era alzato e stava dritto sulla parte posteriore dell’auto, alcuni ragazzi si sono avvicinati. Sembravano dieci o venti, e invece erano molti di più, così è accaduto in pochi minuti. C’era una di quelle reti metalliche dei campi da gioco urbani. La rete consentiva a Bob Kennedy di appoggiarsi e di lasciarsi spingere più in alto. Non da noi, dalle mani dei giovani neri.
È in quel modo, in quella condizione, in quella notte, che il giovane senatore Robert Kennedy ha parlato ai neri di Washington in rivolta. Ha parlato di «mio fratello» e di «vostro padre» che sono stati assassinati nella stessa maniera.
«Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di rispondere alla violenza senza violenza. Noi ci siamo conquistati il diritto e la forza di non spargere sangue. Perché noi siamo la prossima America».
Mancavano solo due mesi, stesso giorno, quasi la stessa ora, all’assassinio di Robert Kennedy (ricordate?, Ambassador Hotel di Los Angeles, la notte tra il 4 e il 5 giugno di quello stesso 1968, dopo che Robert Kennedy aveva vinto anche le ultime elezioni primarie in California, e dunque era certo della sua designazione a candidato del partito democratico e certo della sua vittoria alle elezioni presidenziali).
Dunque «la prossima America», senza violenza di cui Kennedy ha parlato quella notte, dopo l’uccisione di Martin Luther King a Memphis e prima della sua uccisione a Los Angeles, quella volta non è venuta. Non ancora. Per questo ha mosso e sconvolto e appassionato gli americani il discorso di Barack Obama, appena due settimane fa a Filadelfia. «La prossima America» è di nuovo in cammino. Di nuovo cerca giustizia per coloro che sono stati lasciati indietro, di nuovo sta dicendo agli americani giovani che il loro destino è molto più grande e importante del morire e combattere. Di nuovo la parola «speranza» ha un senso più vasto e risonante della parola «potenza».
Per questo è giusto ricordarsi di Martin Luther King - e del suo fratello bianco Robert Kennedy - il 4 aprile di un anno in cui potrebbe accadere ciò che non è accaduto, qualcosa di grande e di preannunciato dal senso delle loro vite.
Unità 03.04.2008
esita a recarsi sul campo di battaglia alla testa dei suoi uomini, incoraggiandoli ed esortandoli fino alla vittoria. Soccomberà invece agli intrighi di corte, assassinata in circostanze misteriose nel 204 a.C. E Polibio tramanda che alla notizia della sua morte la città di Alessandria: «si riempì di gemiti, lacrime, lamenti incessanti».
L’occasione di incontrare questa straordinaria figura femminile è offerta in questi giorni dall’arrivo a Roma, ospitata nella Sala degli Arazzi del Palazzo dei Conservatori, di una magnifica testa in bronzo raffigurante la regina tolemaica. L’opera proviene dal Museo Civico del Palazzo Te di Mantova, dove si è appena inaugurata la mostra “La Forza del Bello. L’arte greca conquista l’Italia”, curata da Salvator Settis. Siccome i Musei Capitolini hanno concesso in prestito all’esposizione mantovana alcuni importanti capolavori delle loro collezioni di antichità, tra cui lo “Spinario”, il Museo Civico di Palazzo Te ha inviato a Roma, per tutto il periodo di durata della mostra, questo prezioso frammento di testa femminile in bronzo, di dimensioni leggermente più grandi del vero, raffigurante Arsinoe III, figlia di Tolemeo III e di Berenice II, sposa del debole e inetto fratello Tolemeo IV, con il quale regnò per sedici anni.
La scultura rappresenta una rara testimonianza di ritratto femminile in bronzo di età ellenistica, ancora più rara se si pensa che è stata realizzata in Egitto, un paese in cui nella statuaria era assai più diffuso l’uso del marmo rispetto a quello del bronzo. L’opera venne donata a Mantova dal diplomatico e collezionista di antichità egiziane Giuseppe Acerbi, che fu console generale austriaco ad Alessandria d’Egitto dal 1826 al 1834. Lo stato di conservazione della testa è eccezionale, se si eccettua la perdita degli occhi, tuttavia resta il rammarico che non si sia conservato il corpo. La statua, infatti, eseguita per commemorare la regina dopo la sua morte, doveva essere vestita di un chitone drappeggiato intorno al corpo. Il ritratto mostra un realismo di fondo, tuttavia l’acconciatura, semplice ma raffinata, che richiama quella delle divinità greche, sottolinea la natura divina della sovrana.
Fino al 06/07; Musei Capitolini
martedì -domenica 9.00-20.00 Tel. 060608