domenica 6 aprile 2008

l’Unità 6.4.08
A «Palazzo Te» i reperti dell’Ellade classica importati in Italia dai conquistatori romani in seguito destinati a diventare «collezionisti»
Mantova, la bella Grecia che catturò Roma
di Ibio Paolucci


«La forza del bello», che è il titolo di una stupenda mostra in corso a Mantova, è talmente forte che il poeta Orazio scrisse che «una volta conquistata, la Grecia conquistò i suoi selvaggi vincitori e portò le arti fra i contadini del Lazio». Che poi, tanto selvaggi i romani non erano, anche se faticarono un po’ a capire l’estrema bellezza dei maestri ateniesi. In un primo tempo, difatti, i generali conquistatori si servivano delle opere d’arte come altrettanti trofei da mostrare durante le grandi parate nelle strade di Roma. Poi, però, grazie a personaggi più sensibili al bello, ne compresero l’importanza tanto da diventare accaniti collezionisti e da richiamare, per la crescente richiesta, parecchie botteghe greche nella capitale.
La rassegna in questione, che presenta opere originali e copie romane, è esposta nella sede ideale di Palazzo Te, creazione di Giulio Romano. Così molti capolavori dell’arte greca figurano accanto alle rinascimentali decorazioni dell’allievo preferito di Raffaello.
La mostra ha per sottotitolo «L’arte greca conquista l’Italia», ed è nata da un’idea di Salvatore Settis e Paul Zanker, realizzata col sostegno di Lucia Franchi e dello staff del Centro Internazionale di arte e cultura di Palazzo Te. Il professor Settis, inoltre, ha anche curato, come meglio non si poteva, la mostra, accompagnata da un bel catalogo di Skira, assieme a Maria Luisa Catoni. Marmi, bronzi, ceramiche, terrecotte, affreschi: 120 pezzi in tutto, prestati da collezioni private e da musei di tutto il mondo e, fra questi, anche il celeberrimo vaso di Eufronio, del 515 a.C, restituito di recente dal Metropolitan Museum di New York all’Italia.
Atene e Roma, dunque. «L’appropriazione della cultura greca da parte dei romani - osserva Paul Zanker - è un fenomeno essenzialmente privo di analogie dal punto di vista storico: una società culturalmente inferiore (quella romana) si appropria in modo così assoluto della cultura di coloro che ha sconfitto (i Greci), che quest’ultima diventa parte integrante della sua identità». Un processo che, grosso modo, ha inizio nel terzo secolo a.C, quando Roma conquista la Magna Grecia e l’Oriente greco. Sempre più diventano presenti nelle abitazioni e nelle ville le opere dei maestri greci. Fra i maggiori collezionisti Lucullo e il pretore Verre, accusato da Cicerone, pure lui collezionista, di avere rapinato opere d’arte, abusando delle propria autorità, una specie di Goering di quei tempi. A partire dal II secolo a.C, arrivano a Roma i primi scultori greci, ben pagati. Ma le opere originali non erano bastanti a soddisfare la richiesta. Da qui il moltiplicarsi delle copie, importantissime, peraltro, quelle che si sono conservate, perché la stragrande maggioranza degli originali sono andati distrutti.
L’ampio percorso della rassegna, che si apre col Torso di Kouros, concesso dal Museo Archeologico di Firenze, ricomposto per la prima volta con la pertinente testa di Osimo, si divide in tre sezioni, che abbracciano un periodo pressochè millenario. Molti i capolavori assoluti, fra cui il ben noto Torso del Belvedere firmato dall’ateniese Apollonio, tanto ammirato da Michelangelo. E molte le repliche romane di Prassitele, Fidia, Policleto, tutte perdute e alcune delle quali, probabilmente, se di bronzo, fuse per fare armi o altri utensili, se di marmo, bruciate per farne calcina. Incantevole, fra i pezzi presenti, la statua bronzea di Apollo del I secolo a.C., prestata dal Louvre. Magnifica la stele funeraria di atleta con fanciullo in marmo del 430 a.C, che viene dal Museo vaticano. Di eccezionale interesse la statua di Zeus, in bronzo, di età arcaica, concessa dal Museo archeologico di Taranto, del 530 a.C. Affascinante il bacino marmoreo di Ascoli Satriano con le figure di Nereidi di straordinaria raffinatezza, che conserva preziosi pigmenti colorati. Quest’ultimo pezzo è esposto con altri, riavuti dal Getty Museum. Tantissime, come si è detto, le distruzioni, continuate, fra l’altro, anche in secoli più vicini a noi, fra il Quattro e il Cinquecento. Valga, in proposito, una lettera di Raffaello al Papa Leone X, che nel 1515 lo aveva nominato Conservatore delle antichità romane. È un grandissimo dolore quello che si prova - scriveva il grande artista - «vedendo quasi il cadavero di quest’alma nobile cittate, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerata». E ancora, facendosi sempre più aspra l’accusa: «Quanti pontefici, padre santo (.. .) hanno permesso le ruine e disfacimenti delli templi antichi, delle statue, delli archi e altri edifici, gloria delli lor fondatori?». E tuttavia, nonostante tutto, malgrado fino a noi sia arrivato ben poco, talmente grande è la forza dell’arte greca, che resta più che mai come modello ineguagliato di bellezza. La rassegna di Mantova ne è una evidente dimostrazione.

l’Unità 6.4.08
Ricerca, ultima fermata
di Pietro Greco


Lo ripete spesso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: se l’Italia non vuole ipotecare il suo futuro, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica devono cessare di essere una importante questione settoriale e devono diventare una grande questione nazionale. Un problema generale del paese. Una priorità assoluta della politica economica e sociale. La chiave - l’unica che abbiamo - per uscire dalla condizioni di declino economico (ma anche culturale e sociale) e avviare lo sviluppo (sostenibile) dell’Italia.
È questo il tema di fondo del manifesto, che non a caso è anche un appello, firmato da Rita Levi Montalcini, Carlo Bernardini, Margherita Hack, Marcello De Cecco e da ben 1.240 altri ricercatori, noti e meno noti, giovani e meno giovani, lanciato dall’Osservatorio Ricerca e che costituisce la base dell’incontro «Il futuro ipotecato! Come se ne esce?» (che si terrà domani 7 aprile dalle 9.30 alle 14.00 a Roma, a Palazzo Marini in Via del Pozzetto 158) con cui la comunità scientifica chiederà ai rappresentanti dei vari partiti politici che si presentano alle elezioni di assumere la consapevolezza culturale della posta in gioco e, di conseguenza, precisi impegni politici da realizzare nella prossima legislatura.
L’appello parte da un’analisi sincera. Da quasi vent’anni l’Italia è in una fase di declino relativo. Le nostre performance economiche peggiorano costantemente rispetto agli altri paesi europei, oltre che rispetto ad altri Paesi sia a economia matura che a economia emergente. La nostra ricchezza aumenta meno che negli altri paesi, la nostra occupazione (soprattutto quella femminile) è inferiore, la produttività pure. La competitività del paese come sistema è molto bassa e tende a scivolare sempre più giù. Ma la crisi non è solo economica. È anche sociale: la disuguaglianza nel nostro paese tendono a crescere; gli stipendi sono più bassi che nel resto d’Europa; si fatica ad arrivare alla quarta e, spesso, alla terza settimana. Ed è anche ecologica: non a caso siamo tra i paesi europei che fanno più fatica a rispettare lo spirito e la lettera di Kyoto; con un tasso elevatissimo di abusivismo edilizio e di distruzione del paesaggio; che a Napoli - ma non solo a Napoli - non riesce a “chiudere il cerchio” dei rifiuti e si ritrova ma monnezza per strada e i veleni nei campi.
Da dove nasce questa congerie di difficoltà che definiamo declino del Paese? Beh, nasce soprattutto dalla specializzazione produttiva del nostro sistema produttivo. Produciamo pochi beni e servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto. Ovvero produciamo molto poco di quei beni e di quei servizi fondati sull’innovazione che sono il motore dell'economia nell'era della conoscenza. Il mondo, là fuori, è cambiato: e noi non ce ne siamo accorti. Quindi cresciamo meno degli altri; le nostre imprese richiedono lavoro meno qualificato degli altri e, di conseguenza, pagano salari più bassi; abbiamo meno lavoro e abbiamo più difficoltà a rispettare l’ambiente. Più in generale: la nostra scarsa capacità di produrre reale innovazione rende stanca la nostra società, quasi rassegnata.
È contro questa cultura della rassegnazione al declino che, dunque, si mobilità la comunità scientifica. Non per chiedere interventi settoriali (pur necessari). Ma per porre un problema generale al paese. Anzi, il problema più generale: come reagire al declino e alla cultura del declino.
Beh, qualsiasi ricetta operativa passa attraverso la piena consapevolezza dell’esistenza del problema. Quella consapevolezza che il Presidente Giorgio Napolitano ha. Ma che i partiti politici non hanno. E, infatti, questo tema decisivo risulta clamorosamente assente dalla campagna elettorale. E la prima domanda che lunedì la comunità scientifica porrà ai rappresentanti dei vari partiti che si presentano alle elezioni è proprio questa: intendete assumere piena consapevolezza che il mondo sta cambiando (anzi è già cambiato), che stiamo entrando nella società e nell’economia della conoscenza e che noi non possiamo restarne fuori se non vogliamo ipotecare il nostro futuro?
Dalla risposta, speriamo positiva, a questa domanda generale derivano a cascata le risposte operative. Che riguardano sia il sostegno alla ricerca pubblica (e all’alta formazione) che allo sviluppo tecnologico delle imprese. Il sostegno alla ricerca pubblica passa, a sua volta, sia attraverso un netto aumento delle risorse, umane e finanziarie, sia attraverso una politica fondata sul rispetto dell’autonomia della ricerca e sul riconoscimento del merito attraverso gli strumenti della valutazione obiettiva. Il sostegno all’innovazione tecnologica passa attraverso una serie di iniziative fiscali, finanziarie, culturali che incentivino le imprese ad accettare la sfida della conoscenza e consentano al sistema Paese di modificare la propria specializzazione produttiva.
Non sono scelte né semplici né indolori. L’impresa è titanica. Ma il Paese non ha altra scelta. E le forze politiche hanno il dovere di tentare. Ecco perché quella che porrà lunedì la comunità scientifica a Roma non è una questione settoriale che riguarda poche decine di migliaia di persone, ma la madre di tutte le domande: vogliamo rassegnarci o vogliamo reagire al declino?

l’Unità 6.4.08
Il miraggio pillola del giorno dopo tra medici obiettori e consultori chiusi
Un´impresa farsela prescrivere nel weekend. Dopo il caso di Pisa, viaggio in asl e ospedali di tutta Italia
di Caterina Paolini


A Roma: "Il bambino potrebbe nascere lo stesso ma deforme" A Napoli: "È un farmaco mortale"

ROMA - Pillola del giorno dopo: un miraggio nei weekend. Quando è un´impresa ottenere la ricetta tra consultori chiusi, medici obiettori ed ospedali gestiti da religiosi come il Galliera di Genova dove il no è la regola. Perché non solo a Pisa il diritto alla pillola, stabilito per legge, viene negato. E comunque se e quando ti fanno finalmente la prescrizione, è una conquista sudata spesso con ore di attesa e umiliazioni. Segnata da giri da un capo all´altro della città chinando il capo davanti a medici obiettori, a gente «che ti guarda e ti fa sentire la persona peggiore della terra. Che ti dice che il bambino potrebbe comunque nascere deforme e con problemi mentali». Ore a insistere con «la paura di essere incinta e l´incubo altrimenti di dover affrontare un aborto», passando per cinque tra ospedali, consultori chiusi, telefonate alla guardia medica. Così racconta Marianna, signora romana che dopo un rapporto non protetto col marito ha attraversato la capitale ricevendo dinieghi a ripetizione. Bussando al Sant´Eugenio e Forlanini prima di avere finalmente la ricetta al Cto Garbatella.
E la sua non è un´eccezione. Lo conferma il viaggio delle croniste di Repubblica nelle maggiori città italiane che hanno avuto attese e risposte diverse nel weekend, quando molti consultori sono chiusi e i medici di conoscenza - tutti possono fare la ricetta senza obbligo di esami o visite - è in vacanza e non si sa a chi rivolgersi. Così c´è chi al Galliera di Genova ha ricevuto un no secco, chi a Palermo è stata mandata in reparto in attesa del ginecologo per la visita, mentre un´altra ragazza a Napoli dopo essersi vista negare da una dottoressa la pillola perché «è un farmaco mortale e io sono contraria anche agli anticoncezionali», ha avuto la prescrizione dopo essere stata informata sui rischi e aver firmato che era la prima volta.
E se a Bologna le guardie mediche sono disponibili 24 ore su 24, e a Bari le croniste hanno ottenuto tre prescrizioni su tre ospedali visitati, a Milano, nonostante la maggioranza di medici obiettori, assicurano di garantire il servizio. Come all´ospedale Sant´Anna di Torino dove si può avere la pillola del giorno dopo in qualsiasi momento, dice il medico Guido Viale. Ed è lì che si rivolgono le donne dopo aver ricevuto rifiuti motivati dall´assenza del ginecologo all´obiezione in altri ospedali cittadini. Di sabato anche a Firenze è faticoso avere la ricetta: solo un consultorio su otto risponde e comunque non c´è il ginecologo. Ospedali e guardie però funzionano: due ore di attesa al Torre Galli, 25 euro di ticket per la ricetta con tanto di farmaco antivomito. Tempi ridotti e prescrizione gratis invece alla guardia medica. Unica spesa gli 11 euro e 20 in farmacia per la pillola.

Repubblica 6.4.08
Wu Zhao, imperatrice maledetta
di Federico Rampini


Oltre duemila anni di tradizione confuciana hanno impresso alla società cinese un ordine patriarcale, dal vertice supremo fino al nucleo familiare. La sola eccezione è stata lei: vissuta dal 624 al 705, governò con pugno di ferro per quasi mezzo secolo Poi fu mitizzata, demonizzata, fatta oggetto di morbose fantasie E odiata, scrisse un contemporaneo, "in egual modo da uomini e dei"
Tutti gli altri sepolcri imperiali hanno una stele funeraria su cui sono scolpiti epitaffi elogiativi. La sua è una pietra liscia, vuota, dove neppure i figli sopravvissuti osarono incidere un pensiero

Vissuto cinque secoli prima di Cristo, il Maestro Kung Fu-Tzu - che in seguito i gesuiti "latinizzarono" come Confucio - non aveva davvero un´alta stima delle donne. Le scarne notizie che abbiamo su di lui ce lo descrivono decisamente come un misogino. Tra le ragioni che lo spinsero a lasciare un incarico politico e a dedicarsi alla filosofia, pesò il sospetto che il suo sovrano fosse irretito e manipolato da un gruppo di danzatrici. Nel dimettersi dal ruolo di consigliere del principe, Confucio citò un´antica canzone: «La lingua di una donna / Può costare all´uomo la sua posizione / Le parole di una donna / Possono costare all´uomo la sua testa». In una raccolta di biografie degli imperatori che gli viene attribuita, c´è questo passaggio: «La gallina non annuncia il sorgere del sole; il canto della gallina all´alba indica la sovversione della famiglia». Per oltre due millenni il confucianesimo ha impresso nella civiltà cinese un ordine patriarcale: come i figli devono rispettare l´autorità degli anziani, così le donne devono obbedienza ai mariti; solo queste regole garantiscono l´armonia sociale e rispecchiano sulla terra l´ordine dell´universo. E per oltre duemila anni, sotto il segno dominante del confucianesimo, la Cina ha sempre avuto imperatori maschi.
Con una eccezione. Una sola. È Wu Zhao l´unica imperatrice della Terra di Mezzo, che visse dal 624 al 705 dopo Cristo, e governò la Cina con pugno di ferro per quasi mezzo secolo. Prima e dopo di lei ci furono sì delle mogli e concubine influenti, capaci talora di manovrare gli imperatori. Ci furono regine-madri e matrigne, reggenti come la vedova Ci Xi, la mamma dell´ultimo imperatore con cui si estinse la dinastia Qing nel 1908. Ma nessuna, salvo Wu Zhao, infranse mai il tabù confuciano che vietava a una donna di esercitare in proprio la carica imperiale. Perciò la figura dell´unica imperatrice cinese giganteggia nella storia. È stata mitizzata o demonizzata; ha suscitato curiosità inesauribili e spesso morbose, che ancora oggi riaffiorano nella letteratura o nel cinema popolare. Femministe e leader politici hanno cercato di impadronirsene e strumentalizzarla.
Era ancora all´apice del suo potere quando uno storico caduto in disgrazia, Luo Binwang, le dedicava nell´anno 684 queste parole di fuoco: «Con il cuore di un serpente e il carattere di una volpe, ha arruolato sicofanti al suo servizio, ha rovinato i giusti. Ha ucciso sua sorella, massacrato i suoi fratelli, assassinato il suo principe consorte e sua madre. È odiata in egual modo dagli uomini e dagli dei». Al che lei rispondeva: «Hanno congiurato contro di me e li ho distrutti. Se siete più abili di loro, tocca a voi: provateci a sfidarmi. Altrimenti siate i miei servi, e risparmiate all´impero lo spettacolo della vostra ridicola disfatta».
L´atmosfera torbida e scabrosa che circonda la sua biografia sembra aleggiare ancora adesso attorno al suo monumento funerario. A settanta km a nordovest dell´antica capitale di Xian (quella dell´esercito di terracotta), il visitatore riconosce da lontano la tomba dell´imperatrice per «le due mammelle», come i cinesi hanno soprannominato le due colline simmetriche che la circondano, ciascuna con una torre che da lontano può assomigliare a un capezzolo. C´è un primo segnale anomalo: tutti gli altri sepolcri imperiali hanno all´ingresso una stele funeraria su cui furono scolpiti epitaffi elogiativi; la stele della tomba di Wu è una pietra liscia, vuota, dove neppure i figli sopravvissuti osarono incidere un pensiero su di lei. È un´omissione che non ha eguali in due millenni di storia imperiale. «È un gesto sinistro - ha commentato il sinologo inglese Jonathan Clements - come se su quella tomba pesassero per sempre l´odio e il rancore dei familiari che lei dominò». Intorno, le statue dei dignitari di corte e degli ambasciatori stranieri sono state decapitate: quasi che una maledizione abbia voluto cancellare tutto ciò che accadde sotto il suo regno.
L´immagine con cui viene evocata più spesso è «volpe traditrice». Ma il ritratto che emerge dalle cronache dell´epoca non è solo negativo, tutt´altro. Ce la descrivono bellissima, secondo i canonici dell´estetica femminile di allora: piacevano le facce rotonde e i fianchi generosi. Attraente doveva esserlo per forza visto che fu selezionata a tredici anni tra le concubine dell´imperatore Taizong (dinastia Sui): un riconoscimento equivalente alla vittoria in un concorso per reginette di bellezza ai nostri tempi. La sua sensualità ha eccitato per i secoli successivi la fantasia. I cinesi sono convinti che fece una rapida carriera all´interno dello harem imperiale perché «offriva prestazioni sessuali che nessun´altra donna osava». Era vanitosa fino al voyeurismo: amava guardarsi in uno specchio mentre faceva l´amore, un´abitudine che avrebbe conservato con vari amanti fino agli ottant´anni. Una spiegazione di quel ritratto di donna sessualmente liberata, perfino aggressiva a letto, è in chiave etnica: all´epoca delle dinastie Sui e poi Tang i cinesi si erano mescolati con tribù dell´Asia centrale, popoli nomadi turcomanni le cui donne portavano i pantaloni, andavano a cavallo e in famiglia avevano più peso delle cinesi.
L´alcova ha un ruolo centrale nella scalata al potere di Wu Zhao. Nel 649, quando muore l´imperatore Taizong, teoricamente lei deve raparsi a zero la testa ed entrare in un convento di vedove imperiali. Così fanno tutte le concubine che non hanno dato un figlio al sovrano. Ma lei si è già assicurata una posizione con il successore. Macchiandosi di incesto imperiale, quando ancora Taizong era vivo lei è diventata l´amante del figlio, il principe Gaozong. Non appena quest´ultimo ascende al trono la concubina si fa mettere incinta. Gli regala il primo erede maschio: una mossa vincente nella lotta per l´influenza alla corte imperiale. Wu indebolisce la posizione della moglie di Gaozong che risulta essere sterile, la fa ripudiare e la sostituisce come prima consorte. Più tardi - per non correre rischi - le farà tagliare braccia e gambe, e l´annegherà in una botte di vino. Nel 660 l´imperatore Gaozong è colpito da un ictus, resta paralizzato. Già da quel momento è Wu Zhao a governare di fatto la Cina, per procura. Alla morte del marito, nel 690 lei osa l´impensabile: si fa incoronare come imperatrice. È un oltraggio alla tradizione patriarcale, una prevaricazione che dovrebbe scontrarsi con resistenze fortissime nella corte e in tutta la classe dirigente. Ma durante gli anni del suo potere-ombra, quando era già lei a esercitare le veci del marito invalido, Wu Zhao si è costruita una formidabile rete di potere. Ha infiltrato la corte imperiale di suoi fedelissimi, spesso parenti, organizzati in una vera e propria polizia segreta: al suo servizio spiano, tramano, torturano e uccidono i potenziali avversari.
La grandezza di Wu Zhao però sta altrove. Lei intuisce che il potere fondato solo sul terrore e sulle congiure di palazzo è fragile ed effimero. Per conquistarsi il consenso della burocrazia imperiale ha una trovata di genio: usa la religione. S´impadronisce del buddismo contro il confucianesimo. L´aiuta in questa operazione uno dei suoi amanti, un commerciante di droghe e cosmetici con cui ha una relazione a partire dal 680. Per poterlo vedere a suo piacimento l´imperatrice lo nomina abate a capo del monastero del Cavallo Bianco, vicino alla città di Luoyang. Con l´aiuto dell´amante-abate, la regina inizia la costruzione di un "culto femminista" per legittimare il proprio potere. Viene riscoperto e glorificato un oscuro testo minore della tradizione buddista, la Sutra della Grande Luna, dove si esalta una divinità femminile, la Signora Celeste Pura e Radiosa. Il testo sacro profetizza che sette secoli dopo la morte di Budda la dea rinascerà in terra incarnandosi in una principessa. L´imperatrice Wu investe generosamente le ricchezze del tesoro pubblico per finanziare nuovi monasteri, templi e statue - tra cui un Budda gigante di diciassette metri nelle celebri grotte di Longmen - tutti devoti al culto della Maitreya-Budda, la dea madre che regnerà in un futuro paradiso. Cioè lei stessa, secondo la sua consacrazione divina che diventa legge nei monasteri dal 694.
Il nome di Wu Zhao, nell´ideogramma che lo esprime, è già denso di fascino: esprime il sole e la luna sopra il vuoto, la luce sospesa sul nulla. Dalla sua ascesa al trono l´imperatrice si attribuisce altri nomi sempre più impregnati di significati religiosi: si fa chiamare Ruota Dorata, Antichità Trascendente, Misericordiosa Bodhisattva, Scelta dal Cielo. Anche questa ubriacatura di titoli è una sorta di vendetta femminile. Nella tradizione patriarcale confuciana la lingua serve a discriminare tra uomini e donne. L´ideogramma femminile è usato per comporre caratteri negativi come schiavo, gelosia, prostituta, demonio, lussuria, indecenza, esibizionismo. L´imperatrice che trasforma se stessa in divinità buddista osa un esperimento di rottura radicale. Non le sarà perdonato. Alla sua morte - nel 705 viene deposta e assassinata da un golpe di palazzo - dilagano leggende che la dipingono come un essere immondo, dai vizi ripugnanti. La descrivono come una vecchia impudica e assetata di sesso che costringe più uomini a orge collettive nel suo letto, si droga di afrodisiaci «fino a che le ricrescono i denti e le sopracciglia».
Ricostruzioni più attendibili considerano invece il suo regno come un´epoca di relativa continuità nella prima "età dell´oro" della civiltà cinese. In quegli anni a cavallo tra le dinastie Sui e Tang l´Impero di Mezzo raggiunge un apogeo di sviluppo e di potenza. Alla corte di Wu Zhao s´intrecciano relazioni diplomatiche con il mondo intero, arrivano in visita principi persiani, mercanti ebrei e indiani, missionari tibetani, ambasciatori dall´impero bizantino, artisti giapponesi. È un periodo di benessere e di notevole apertura verso il resto del mondo, a cui contribuisce una sovrana senz´altro capace e intelligente.
Eppure la figura di Wu Zhao è rimasta troppo ingombrante per essere consegnata con serenità al bilancio degli storici. Dalla sua scomparsa non ha mai smesso di ossessionare i cinesi. Nel Sedicesimo secolo ispira un romanzo pornografico, Il Signore del Piacere Perfetto, ricco di dettagli osceni sui suoi amori senili. Nel Diciannovesimo secolo un altro romanzo, Fiori allo Specchio, la celebra invece come una vendicatrice di tutte le donne oppresse, una virago che impone la sua volontà perfino alla natura. Nel Novecento i comunisti riabilitano la sua memoria e s´impadroniscono del personaggio per propugnare l´emancipazione delle donne. A metà degli anni Settanta, sul finire della Rivoluzione culturale, quando Mao Zedong è ormai affetto dal morbo di Parkinson e nel partito comunista imperversa la lotta tra fazioni rivali, il simbolo dell´imperatrice donna viene gettato nel vortice della furiosa battaglia politica. Tutti usano il personaggio della storia antica per alludere a Jiang Qing, la moglie di Mao che fa parte della famigerata Banda dei Quattro, gli istigatori delle Guardie rosse. La corrente radicale ricostruisce la storia di Wu Zhao descrivendola come una moglie leale e fedele che governò degnamente la Cina sostituendo il marito malato. I moderati, nemici della Banda dei Quattro, rievocano dell´imperatrice una scandalosa immoralità.
L´unica donna che salì al trono dell´Impero Celeste non ha smesso di eccitare le controversie fino ai nostri giorni. Un´autorevole femminista, Shu-Fang Dien, ha dedicato un´opera monumentale a L´imperatrice Wu nella storia e nella letteratura. È un´appassionata rassegna della condizione della donna cinese, riletta in filigrana attraverso tutte le reincarnazioni di Wu Zhan nell´immaginario della nazione, fino alle telenovelas che la raffigurano in varie versioni sugli schermi televisivi nel Ventunesimo secolo. Si conclude con queste parole: «È dai tempi dell´imperatrice del Settimo secolo che cerchiamo di superare l´eredità dell´ideologia confuciana e del suo familismo maschilista e patriarcale. La lotta continua». L´ultimo scherzo che il destino ha riservato all´antica imperatrice è venuto da una casa editrice. Nel 1996 una biografia di successo di Hillary Clinton, scritta da un autore cinese, è uscita in libreria con questo sottotitolo: «Una imperatrice Wu alla Casa Bianca».

Repubblica Firenze 6.4.08
Repubblica sperimenta la trafila di una giovane donna a Firenze. Nuovo diniego denunciato a Pisa
Il balletto della pillola. Il giorno dopo: chi la prescrive, chi no, chi fa pagare il ticket
di Simona Poli e Gaia Rau


"Scusi, mi prescrive la pillola?"
Il giorno dopo, tra ospedali e obiettori: attese, ticket, qualche no
A Pisa, dopo i due rifiuti dei giorni scorsi, un altro caso: "Anche a me l´hanno negata"
Abbiamo provato la trafila di una giovane donna: le prime telefonate sono a vuoto

Qualche telefonata a vuoto, male che vada un paio d´ore di attesa e un ticket da pagare. Tutto sommato rimediare la pillola del giorno dopo a Firenze non è un grosso problema. Nemmeno nel fine settimana, quando i consultori sono chiusi e magari il medico di famiglia è irrintracciabile: rimangono infatti pronti soccorso e guardie mediche. Quest´ultima scelta può riservare amare sorprese: non tutti i medici di guardia si dichiarano disponibili a prescrivere il farmaco. Una serie di telefonate rivolte in tono accalorato tra le 12 e le 13,50 di ieri alle sedi degli ambulatori dei cinque quartieri fiorentini danno come risultato un netto 3 a 2: 3 guardie mediche (Via de´ Malcontenti, San Salvi e Isolotto) assicurano che la pillola verrà prescritta («ma prima le faremo qualche domanda nel suo interesse, naturalmente, come di prassi») e 2 (Gavinana-Sorgane-Ricorboli, Badia a Ripoli telefono 0556536899; Novoli-Peretola-Brozzi-Osmannoro telefono 055315225) invitano a cambiare indirizzo. «Sono obiettore - rispondono i medici di turno - e non prescrivo quel tipo di pillola. Ma può rivolgersi al pronto soccorso di Careggi, lì troverà un ginecologo e avrà quello che chiede. E´ sempre più sicuro andare in ospedale». Se il percorso può essere un po´ accidentato, insomma, alla fine una strada si trova. Vediamo come.
Repubblica ha sperimentato la trafila di una giovane donna alle prese con la ricerca del contraccettivo d´emergenza. Abbiamo ipotizzato che il rapporto non protetto sia avvenuto nella notte tra venerdì e sabato. La caccia alla pillola comincia il mattino successivo. Decidiamo di rivolgerci per prima cosa a un consultorio ma trovarne uno aperto nel fine settimana è praticamente impossibile. Su internet c´è un elenco delle otto strutture presenti in città, insieme al numero di un call center per prenotazioni e informazioni. Purtroppo, però, i cellulari non sono abilitati a chiamarlo e non ci resta che provare a contattare i singoli centri, uno per uno. Dopo varie telefonate a vuoto, finalmente qualcuno risponde. E´ il presidio di piazza Dalla Piccola, nel quartiere di San Iacopino. Una volta spiegato il problema il centralinista risponde picche: «Oggi il servizio di ginecologia non è disponibile», taglia corto. Chiediamo dove possiamo rivolgerci ma dopo una rapida ricerca al computer l´esito è ancora una volta negativo: «Nel fine settimana è tutto chiuso, provi al pronto soccorso o alla guardia medica», consiglia.
Decidiamo allora di metterci in viaggio per l´ospedale di Torregalli. Una volta arrivati al pronto soccorso, l´infermiere addetto al triage (la selezione dei casi che si presentano in base all´urgenza) chiede nome e generalità, e ci inserisce in lista d´attesa come codice azzurro. «Non si preoccupi, la chiamiamo noi». Sono le 11,47. Ci sediamo e aspettiamo. Dieci minuti, mezz´ora, un´ora, un´ora e mezzo: arrivano emergenze ben più gravi della nostra che giustamente passano avanti. Alle 13,36, finalmente, l´altoparlante chiama il nostro nome. Una dottoressa ci riceve: è gentile, rassicurante. Fa le necessarie domande sullo stato di salute e alla fine prescrive la pillola, insieme a un farmaco anti-vomito per precauzione. Per ritirare la ricetta dobbiamo pagare il ticket: 25 euro. Il tempo di trovare una farmacia aperta e, poco prima delle 14, abbiamo il nostro farmaco, che costa 11 euro e 20. Siamo in tempo: la pillola va assunta preferibilmente entro 12 ore dal rapporto a rischio, in ogni caso non dopo 72. La trafila è identica al pronto soccorso di Santa Maria Nuova. All´accettazione confermano che il farmaco è disponibile. Bisogna mettersi in lista, pagare il ticket e aspettare ma un medico prescriverà la pillola senza problemi.
C´era una strada più veloce e anche meno costosa. Se avessimo deciso di andare subito alla guardia medica di San Salvi, avremmo aspettato molto meno e non avremmo speso nemmeno un centesimo per la ricetta. A San Salvi ci accoglie una dottoressa che, messa a conoscenza del problema, prescrive il farmaco senza difficoltà. Anche lei è gentilissima, ha toni materni, fa di tutto per metterci a nostro agio. Raccontiamo che durante il rapporto il profilattico si è rotto. Lei annuisce ma consiglia: «Se la storia va avanti, pensi a un altro metodo anticoncezionale, come la pillola». Dopo nemmeno dieci minuti, abbiamo la ricetta in mano. Alla guardia medica di Montedomini il copione si ripete in maniera pressoché identica. Anche lì siamo ricevuti da un medico donna che, dopo aver fatto le domande di rito, compila la ricetta. Tempo di attesa, zero. Costo, zero.
Se Firenze supera la "prova pillola", non altrettanto si può dire di Pisa. Dove proprio ieri è stato segnalato un nuovo caso di rifiuto alla somministrazione da parte di una struttura sanitaria pubblica. Sarebbe il terzo in pochi mesi, dopo i due denunciati da due ragazze che hanno presentato un esposto e su cui indaga la magistratura. La nuova segnalazione è stata raccolta dall´Associazione radicale LiberaPisa, a cui due ragazzi hanno raccontato di un episodio avvenuto a febbraio analogo a quelli avvenuti a marzo. Anche questo sarà oggetto di un esposto che verrà presentato la prossima settimana alla procura di Pisa.

Repubblica Firenze 6.4.08
Panti: "Non si applica l'obiezione" Livi: "Entro 24 ore, 98% di protezione"
Il presidente dell'Ordine dei medici non ha dubbi su cosa devono fare i colleghi


«Sulla pillola del giorno dopo non si applica l´obiezione». Antonio Panti, presidente dell´ordine dei medici fiorentino è chiaro sul comportamento che devono tenere i suoi colleghi di fronte a chi chiede la prescrizione della pillola del giorno dopo. «In Italia l´obiezione di coscienza è un atto giuridicamente valido, sottoposto a rigidi passaggi amministrativi, solo in tre casi: interruzione di gravidanza, vivisezione e procreazione assistita. Per il resto l´obiezione non esiste. Nel codice deontologico dei medici, piuttosto, c´è scritto che il dottore per ragioni di convincimento clinico o morale può rifiutare la prestazione. E´ una clausola che ho scritto io stesso, ed ha due limiti: il rifiuto non deve provocare immediato danno al paziente e il dottore deve informare il cittadino su dove può essere soddisfatto il suo diritto. Il professionista deve alzare il telefono, non può dire "io quella medicina non la prescrivo" e lasciare il paziente a se stesso. Se poi non si vuole che il dottore del servizio sanitario nazionale rifiuti certe prestazioni allora è necessario fare una legge».
Claudia Livi, ginecologa nominata di recente presidente dell´associazione italiana di centri che si occupano di diagnosi e trattamento dell´infertilità, spiega che la pillola del giorno dopo si può prendere entro 72 ore dal rapporto a rischio ma il tempo ne condiziona comunque l´efficacia. «Nelle prime 24 ore assicura il 98% di protezione, tra le 24 e le 48 la percentuale scende di 10 punti, e tra le 48 e le 72 il 55%. Si tratta di un farmaco contraccettivo, non abortivo, che in altri paesi europei e in America è un prodotto da banco. Non va confusa con la Ru486, che agisce a gravidanza iniziata. La pillola del giorno dopo inibisce l´ovulazione se questa non è ancora iniziata e altera l´utero se invece lo è. Se la gravidanza è partita non serve a nulla».
(mi.bo.)

Corriere della Sera 6.4.08
Crimini della dittatura Otto e sette anni alla coppia: con l'aiuto di un militare «rubò» la neonata a due desaparecidos
Argentina, condannati i genitori «ladri»
Maria Eugenia, la figlia adottiva che li ha denunciati: sentenza storica, ma lieve
di Alessandra Coppola


Le avranno pure fatto i vaccini quando era piccola — la linea della difesa in aula — l'avranno mandata a scuola e le avranno addirittura permesso di imparare le lingue: il Tribunale federale numero 5 di Buenos Aires venerdì (notte in Italia) ha condannato Osvaldo Arturo Rivas e Maria Cristina Gómez Pinto. Appropriazione e occultamento di minore: otto e sette anni di reclusione al papà (che ha pure falsificato l'atto di nascita) e alla mamma con i quali Maria Eugenia si è trovata a vivere per più di vent'anni, per poi scoprire, nel 2001, che erano «ladri», che l'avevano rubata neonata a una coppia di oppositori alla dittatura, torturati e fatti scomparire come altri 30 mila desaparecidos. Dieci anni all'ambiguo amico di famiglia Enrique Berthier, il militare che ha fatto da tramite tra l'ospedale clandestino e la coppia che non poteva avere figli.
Non abbastanza. Sostenuta dall'associazione Nonne di Plaza de Mayo (che cercano i 500 bambini sottratti dai golpisti), la ragazza ha annunciato ricorso: sentenza «storica», ha detto, la prima in Argentina contro una finta famiglia adottiva. Ma troppo «lieve». La richiesta del suo avvocato, ripresa dal pm, era stata di 25 anni.
Così Maria Eugenia nell'unica conferenza stampa: «La domanda è se una persona che ha rubato un neonato, che gli ha nascosto di essere stato rubato, che forse ha sequestrato e torturato i suoi genitori, che l'ha separato da loro e dalla sua famiglia, che gli ha sempre mentito sulle sue origini, che - più frequentemente di quanto si voglia pensare - lo ha maltrattato, umiliato, ingannato; se una persona che ha fatto tutto o parte di tutto questo può sapere e sentire che cos'è l'amore filiale. Io rispondo di no, che il vincolo con questo tipo di persone resta di crudeltà e perversione».
Il male che imita l'affetto dei genitori. Maria Eugenia, oggi 30 anni, ha raccontato ai giudici delle grida e della tensione in casa, delle fughe dai vicini, di una perenne sensazione di estraneità. Di quando, appena ventenne, andò a vivere con le amiche. Di come i genitori impostori la insultassero: «Sei un'ingrata, una mocciosa che fa i capricci, se non fosse stato per noi saresti finita in un fosso».
Dello choc di scoprire la verità attraverso il confronto del Dna con i campioni depositati dai parenti dei desaparecidos nella «banca» delle Nonne. Di come a fatica e con molte lacune si sia riappropriata del proprio passato. «Questo è mio padre e questa è mia madre». Maria Eugenia ha mostrato le foto alle telecamere: Leonardo Ruben Sampallo e Mirta Mabel Barragán, operai comunisti e attivi nel sindacato, per questo segnalati da imprenditori favorevoli ai golpisti, portati in centri clandestini di tortura (prima al Club Atlético poi a El Banco), uccisi.
Al momento del sequestro la mamma era incinta. Tre mesi più tardi è venuta al mondo Maria Eugenia. «Luogo è data di nascita?», le hanno chiesto in aula quando ha testimoniato. «Non lo so», ha dovuto rispondere. Ma un giorno per festeggiare il compleanno ce l'ha: «L'abbiamo scelto democraticamente in famiglia (quella vera, ndr) — ha detto nell'unica intervista, al quotidiano Pagina 12 —: l'8 febbraio, l'anniversario di nozze di mia nonna. Se un giorno mi arriveranno altre informazioni, lo cambierò...».

Il vero padre
Leonardo Ruben Sampallo lavorava nel cantiere navale Rio Santiago, dove era delegato sindacale per la sezione Caldaie. Era anche militante del Partito comunista marxista leninista (Pcml) argentino. Nel dicembre 1977 — in Argentina da un anno, dopo il golpe, era al potere una giunta militare — insieme alla moglie Mirta fu sequestrato e condotto al centro clandestino di reclusione e tortura chiamato Club Atlético. Da qui a El Banco. Quindi scomparve
La vera madre
Mirta Mabel Barragán lavorava nella fabbrica Siap (Società industriale di apparecchi di precisione) ed era attiva nel sindacato, delegata nella sezione Pannelli. Come il marito, militava nel partito comunista. Avevano un bimbo di tre anni, Gustavo. Quando fu sequestrata, nel dicembre 1977, era incinta di sei mesi.
Fu portata via dal centro clandestino di tortura El Banco a febbraio 1978, per partorire, probabilmente all'Ospedale militare. Diede alla luce Maria Eugenia, quindi scomparve

Corriere della Sera 6.4.08
La vocazione del nostro continente è quella di superare i propri confini, anche ideologici. È sufficiente che ne prenda coscienza
La filosofia salverà l'Europa
Pensiero e scienza: condizioni fondamentali per costruire una nuova «potenza»
di Emanuele Severino


La rivista. Saggi sul futuro
L'articolo pubblicato in questa pagina è un ampio stralcio del saggio di Emanuele Severino «La potenza e l'Europa», contenuto nel numero 7 del bimestrale «Kos», rivista dell'Editrice San Raffaele, in libreria da domani. Il fascicolo ospita, oltre a un portfolio di Gianluigi Colin, interventi di Giovanni Reale, Luca Canali, Maria Grazia Roncarolo e Gianvito Martino, nonché il testo che il direttore e fondatore Luigi Maria Verzé ha pronunciato il giorno del suo ottantottesimo compleanno per la posa della statua dell'arcangelo Raffaele sulla cupola della nuova struttura detta Basilikon.

Per l'Europa, la sfavorevole congiuntura economica non è il pericolo maggiore. L'Europa è militarmente debole. Tradizionalmente collocata nella sfera della potenza militare statunitense, è per molti versi — cioè non solo dal punto di vista geografico, peraltro rilevante — più vicina alla Russia che agli Stati Uniti. Già dagli anni dell'implosione dell'Urss osservavo che quanto sarebbe stato impossibile durante la guerra fredda, stava diventando una possibilità non utopica anche se estremamente complessa e piena di incognite: quella collaborazione tra la ricchezza economica europea e il potenziale atomico russo, che avrebbe potuto prefigurare una vicinanza più profonda sul piano politico. Tale possibilità esiste tuttora. Ma dopo la guerra fredda l'Europa, confrontandosi con la Russia, poteva mettere sul piatto della bilancia un'economia forte, capace di aiutare la Russia in modo risolutivo. Quest'ultima aveva (come ha tuttora) un arsenale atomico in grado di distruggere qualsiasi nemico. Unica, insieme agli Usa, ad avere questa potenza. Che però (a differenza di quella americana) era alimentata da un'economia vacillante. Di qui l'importanza dell'aiuto europeo. Oggi, invece, l'economia russa è in forte ripresa ed è capace di sostenere quel potenziale atomico che separa la sorte di Stati Uniti e Russia da quella di tutti gli altri Stati del pianeta. In un mondo sempre più pericoloso, l'Europa tende pertanto a oscillare tra la consolidata protezione militare degli Stati Uniti — convinti peraltro di non dover rendere conto a nessuno, nemmeno ai loro alleati europei, delle loro decisioni di fondo — e una più stretta collaborazione con una Russia che d'altra parte suscita molte diffidenze nei governi dell'Unione. Tuttavia il discorso sull'Europa si fa estremamente più complesso di quanto già non sia sul piano economico-politico, quando ci si rivolga al significato della potenza.
La potenza che oggi consente agli Stati di sopravvivere — e che ha il proprio culmine nella potenza atomica — è dovuta alla tecnica guidata dalla scienza moderna. La tecnica riesce più di ogni altra potenza a cambiare il mondo. Giacché non pensa solo a muovere le montagne, ma anche le anime. E, daccapo, è in virtù di essa che il capitalismo è la forma dominante di produzione della ricchezza.
Tanto più si è capaci di cambiare il mondo quanto più lo si sa far diventare diverso da come esso è già. Dio è onnipotente perché è capace di creare il mondo dal nulla, ex nihilo. Se con certi materiali si costruiscono cose, si è capaci di sottoporli a un cambiamento: si produce una certa diversità tra essi e le cose con essi prodotte. Ora, la diversità massima sussiste non tra una certa cosa e un'altra, ma tra il nulla e una cosa, tra il nulla e l'essere. Dio è onnipotente, possiede il massimo della potenza, perché produce la diversità massima, cioè fa diventare cosa (mondo, essere) il nulla.
Se il senso dell'essere e del nulla rimane impensato, l'uomo non può nemmeno proporsi di produrre la diversità massima. Con questo pensiero la filosofia rende possibile la volontà di produrre la forma massima della potenza. Ma lungo l'intera tradizione della storia europea il culmine di tale forma è riservato a Dio. Sino a che tiene per sé il culmine della potenza massima, Dio limita il dispiegamento della forma massima della potenza dell'uomo. Ma nella storia europea è ancora una volta l'essenza del pensiero filosofico a mostrare l'impossibilità di ogni Dio eterno che si ponga come il padrone del dispiegamento totale della massima potenza. Soltanto per tale essenza, questo dispiegamento diviene accessibile all'uomo, sebbene non come un che di definitivamente ottenuto, ma come uno sviluppo infinito, dove l'uomo può progettare «nuovi» modi di essere uomo e mondo. Sono «nuovi», appunto perché sono ancora un nulla, un non essere, e si tratta di crearli ex nihilo.
Soltanto all'interno e sul fondamento dell'essenza del pensiero filosofico del nostro tempo la tecnica guidata dalla scienza moderna può essere il dispiegamento infinito della massima potenza.
Per lo più, scienza e tecnica non si curano del fondamento della loro potenza. Così facendo ignorano che la potenza massima è possibile solo producendo dal nulla e rendendo nulla le cose. Ma ignorandolo sono effettivamente incapaci di realizzare tale potenza. E ignorando che non può esistere alcun Ordinamento assoluto e divino che stabilisca Limiti inviolabili all'agire dell'uomo, scienza e tecnica limitano effettivamente il dispiegamento della potenza massima del proprio operare.
L'Europa è il luogo dove sono apparse queste, ora richiamate, che sono le condizioni fondamentali della massima potenza e del suo infinito dispiegamento: tradizione filosofica, scienza, distruzione filosofica di tale tradizione, tecnica. Non è un caso che l'Europa abbia dominato il mondo. Inoltre il mondo ha ereditato, con intensità e in modi diversi e per lo più separandole una dall'altra, quelle condizioni fondamentali. La «grande politica », ossia la capacità di sviluppare la forma massima della potenza, è la capacità di tenerle autenticamente insieme. In questo senso, se la grande politica non esiste ancora sulla Terra, l'Europa, nonostante la sua debolezza attuale, può tuttavia candidarsi alla realizzazione di tale politica non meno, e forse più, delle altre grandi forze planetarie: Stati Uniti, Russia, Cina, India. Questo discorso non ha nulla a che vedere con una sorta di fantastica «egemonia» planetaria dell'Europa: ha invece a che vedere col processo in cui la volontà di potenza non può non volere la potenza massima, superando ciò che la ostacola, e quindi ogni forma di contrapposizione di natura, religiosa, filosofica, economica, politica, ideologica.
Per realizzare certi loro scopi, queste e altre simili contrapposizioni (cioè ogni forza contrapposta) si servono della forma massima della potenza e del suo sviluppo, e quindi, proprio perché essa non è il loro scopo, ne limitano la consistenza. Limitano e frenano ciò con cui esse intendono realizzare i loro scopi: impediscono la grande politica, si rendono incapaci di realizzarla. L'Europa, più di altri, può prendere e far prendere coscienza del senso autentico della grande politica; ed è questa coscienza a liberare la potenza dai limiti in cui è stata trattenuta lungo la storia dell'Occidente. La grande politica: il dominio planetario da parte della scienza e della tecnica che hanno saputo ascoltare la filosofia. La vocazione dell'Europa: l'andare oltre i propri confini geografici, religiosi, artistici, morali, filosofici, economici, giuridici, politici: la produzione dell'onnipotenza planetaria. Ma a questo punto incomincia la questione decisiva, quella che riguarda la verità della potenza.

Corriere della Sera 6.4.08
Cinecittà Holding si appresterebbe ad «assorbire» la struttura che promuove le nostre pellicole nel mondo. Una lite a sinistra
«Salviamo FilmItalia»: appello dei nostri registi


41 firmatari
«Decisione presa in fretta e furia» dicono i firmatari, tra cui Moretti, Muccino, Scola, Rubini, Ozpetek e Bellocchio Cineasti uniti

ROMA — Claudia Cardinale dal suo «osservatorio» parigino o i grandi d'Oltreoceano che ci amano come Scorsese, dicono tutti che i film italiani all'estero non arrivano nemmeno in un buco di cineclub, se esiste ancora: schermi oscurati per il nostro Paese, fermo ai tempi gloriosi di Fellini. Il rischio è che se ne vedranno ancora meno.
Domani all'ordine del giorno del Consiglio d'amministrazione di Cinecittà Holding c'è la «semplificazione societaria». Traduzione: l'assorbimento delle funzioni di FilmItalia, la vetrina che promuove il cinema italiano nel mondo. Assorbimento fa rima con ridimensionamento, per alcuni è l'anticamera della chiusura. «Questa non è una bella notizia, anzi è un grave rischio per il nostro cinema», scrivono i 40 (41 se si considera che Paolo e Vittorio Taviani dai film alle lettere firmano insieme, ma all'anagrafe sono ancora distinti) firmatari di un appello che una volta tanto non è un piagnisteo e nemmeno una rivendicazione corporativa.
Novità: all'appello s'è unito perfino Nanni Moretti agli altri cineasti, registi e produttori tra cui il suo ex socio Angelo Barbagallo e Marco Bellocchio, Daniele Luchetti e Gabriele Muccino, Andrea Occhipinti e Gabriele Salvatores, Paolo Virzì e Ugo Gregoretti, Giuliano Montaldo e Ferzan Ozpetek, Sergio Rubini e Ettore Scola, Roberto Cicutto e Saverio Costanzo, Paolo Sorrentino e Gianni Zanasi, fino a Citto Maselli che non è mai stato ingeneroso quanto a megafoni e appelli.
I 40 (o 41) insorgono contro «una decisione importante presa in fretta e furia, senza un coinvolgimento e un dibattito con chi fa cinema ed è direttamente interessato alla promozione all'estero, vera risorsa strategica per il nostro settore ». La maggior parte dei firmatari è di sinistra e critica i vertici di Cinecittà Holding che sono per lo più ex Ds ed ex Margherita confluiti nel partito Democratico. Liberazione,
il quotidiano di Rifondazione: «Pd-Cinecittà: primo atto di regime ». E il Riformista titola: «FilmItalia chiude ma la chiamano semplificazione societaria». Urge tagliare, il primo ramo secco del gruppo pubblico cinematografico è considerato FilmItalia.
La battaglia degli enti inutili, l'hanno definita. Si spulcia l'indebitamento di Cinecittà Holding per 35 milioni di euro, 25 dei quali vengono dalla mancata vendita della catena di multiplex Mediaport, 150 schermi. L'accorpamento di FilmItalia in un gruppo «articolato e impegnato su più fronti» e senza un «piano strategico globale di riassetto » del nostro cinema, per i firmatari è un pensiero debole. Ma per i vertici di Cinecittà Holding bisogna centralizzare e non disperdere risorse, far cassa riducendo i costi.

Corriere della Sera Salute 6.4.08
Rapporto sulla mortalità infantile, indicatore importante della salute del Paese
L'Italia è una brava «mamma»
Ma la neonatologia è ancora carente nelle regioni del Sud
Siamo ai primi posti tra i Paesi «virtuosi», grazie alle condizioni socio-economiche, ambientali e sanitarie
di Maurizio Tucci


È stato presentato nei giorni scorsi un rapporto della Società italiana di pediatria (Sip) sulla "mortalità infantile" in Italia. La quota di bambini deceduti nel primo anno di vita (rispetto ai nati vivi nel periodo considerato) è ritenuta un indicatore significativo della salute di una popolazione, essendo correlato alle condizioni socio-economiche, ambientali, culturali e alla efficacia dell'organizzazione sanitaria. E una volta tanto l'Italia è ai primissimi posti tra i Paesi virtuosi a livello mondiale ( vedi tabella), con un tasso del 3,7 per mille (ultimi dati disponibili, del 2004). «Il dato più significativo — sottolinea il Presidente della Sip, Pasquale Di Pietro — è rappresentato dagli enormi progressi che abbiamo fatto grazie alla neonatologia italiana: nel 1970 il tasso di mortalità infantile in Italia era addirittura del 29,2 per mille e in trent'anni c'è stato un miglioramento del 79%, uno dei più consistenti dell' Europa occidentale».
La media nazionale, tuttavia, è data da valori molto diversi a seconda delle aree territoriali: si passa, infatti, dall'1,8 per mille del Friuli ad una media superiore al 4 per mille delle regioni del Sud, con una punta del 5,4 per mille in Calabria ( vedi tabella).
Ma, soprattutto, il divario tra regioni del Centro Nord e regioni del Sud negli ultimi anni è andato aumentando.
«Una delle cause di questa sperequazione — afferma Lodovico Perletti, pediatra e membro della Commissione nazionale del Ministero della Salute per i Lea (livelli essenziali di assistenza) — è la carenza o la completa assenza, in molte aree, del servizio di trasporto neonatale d'urgenza, malgrado la sua realizzazione in tutte le regioni fosse prevista già dal Progetto obiettivo materno infantile nazionale 1998-2000 e sia stata indicata come priorità da tutti i successivi Piani sanitari nazionali».
«Sappiamo bene — aggiunge Di Pietro — che di fronte ad una gravidanza a rischio il miglior modo di agire è trasferire la mamma prima del parto in un centro specializzato, ma per le situazioni non prevedibili è necessario che ovunque ci sia un trasporto neonatale efficiente, la cui carenza è responsabile di buona parte delle oltre 300 morti neonatali annuali considerate evitabili». Tra i maggiori fattori di rischio di mortalità neonatale ci sono la prematurità e il basso peso alla nascita, le anomalie congenite, la salute della mamma e la sua abitudine al fumo. Ma ci sono anche fattori sociali: livelli di reddito e scolarità della famiglia, famiglia costituita dalla sola mamma, entrambi i genitori con cittadinanza straniera. «L'aumento d'immigrati — dice Perletti — richiede l'adeguamento dei servizi sociosanitari alle nuove esigenze, quali, ad esempio, visite domiciliari di controllo dopo la nascita del bimbo. Va comunque detto che le disuguaglianze di mortalità infantile fra italiani e stranieri si stanno riducendo».

Il Sole - 24 Ore Domenica 6.4.08
Chi arma la spada della religione
Nella Bibbia convive il Dio degli eserciti e l’ammonimento a non iniziare un conflitto: Nei secoli l’interpretazione data dal clero è stata oscillante
di Emilio Gentile


Perché Dio, nella sua onniscienza e onnipotenza, lascia che ci sia la guerra fra gli uomini? Perché Dio, nella sua infinita bontà e infinito amore, permette che uomini armati uccidano innocenti inermi, che l'ingegno umano escogiti strumenti di morte sempre più immensamente micidiali, che nel suo nome si commettano assassini, stragi, stermini, genocidi? Queste domande sono un terribile ma affascinante problema intellettuale per un non credente, mentre per un credente sono un angosciante quesito teologico ed etico, che potrebbe insidiare con dubbi atroci il fondamento della sua fede e la sua immagine di Dio.
Se apre la Bibbia, il credente incontra nell'Antico Testamento il Dio degli eserciti, guerriero terrificante e vendicativo, che guida il popolo eletto alla conquista della Terra promessa, e gli ordina di sterminare uomini, donne e bambini dei popoli idolatri che vi abitano. Con la stessa implacabile volontà di massacro, il Dio degli eserciti punisce le Nazioni che sfidano la sua ira. «La spada del Signore è coperta di sangue». Così dice il profeta Isaia. Ma nel Nuovo Testamento, il Figlio di Dio ammonisce: «Chi pone mano alla spada, perirà di spada». Ma ha detto anche: «Io non sono venuto a portare la pace ma la spada. Colui che non ha una spada, venda il suo mantello c ne compri una». E nella Apocalisse di Giovanni, orribili guerre umane e cosmiche precedono il giorno del Giudizio universale e l'avvento del Regno di Dio.
Nel corso dei secoli, la Chiesa cattolica ha cercato di dare una risposta a queste domande, attribuendosi in modo esclusivo l'interpretazione della volontà divina. I Pontefici, seguendo l'insegnamento di Agostino e di Tommaso, hanno insegnato al credente che ha il dovere di combattere in una «guerra giusta», secondo una dottrina millenaria, che è stata ribadita dalla Chiesa attuale. Il vigente Catechismo proclama «inequivocabilmente la liceità per i Governi di provvedere alla legittima difesa con la forza militare e il dovere per i cittadini di accettare gli obblighi imposti dalla difesa nazionale», come osserva Daniele Menozzi, che ha studiato con appropriato senso storico, non disgiunto da inquietudine etica, il problema dell'atteggiamento della Chiesa nei confronti della guerra e della pace durante il Novecento.
Menozzi ripercorre il travaglio dottrinale e etico sofferto dalla Chiesa per cercare di salvare «il nesso inscindibile tra religione e pace che inevitabilmente finiva per gettare interrogativi sulla possibilità di una legittimazione della guerra da parte della Chiesa». Quel che emerge, dalla sua ricerca, è un percorso che lungo tutto il corso del Novecento «si caratterizza per approfondimenti, scarti, ondeggiamenti, fughe in avanti, ripiegamenti, sforzi di adattamento della dottrina tradizionale», che sono «evidentemente collegati al variare delle situazioni storiche in cui la chiesa si è trovata a operare».
Ma la storicità dell'atteggiamento della Chiesa si traduce in una storicizzazione della volontà divina, attraverso l'interpretazione che i pontefici, depositari della Rivelazione, hanno dato del significato della guerra nella vita degli uomini. Come fatto storico, il problema dell'aporia fra l'onniscienza e l'onnipotènza del Dio amore infinito, e l'onnipresenza della guerra nella storia umana, diventa un tema intellettualmente affascinante anche per il non credente. Perché molte e gravi sono state le conseguenze che la legittimazione religiosa della guerra ha avuto per l'esistenza di milioni di essere umani, cristiani e non cristiani, nel corso del ventesimo secolo, e tuttora ha, all'inizio del ventunesimo, per la sorte di milioni di esseri inermi, sterminati da guerrieri che affermano di combattere per volontà di Dio. Anche la Chiesa ha sostenuto per secoli questo atteggiamento, dalla persecuzione dei pagani e degli eretici alla guerra santa delle crociate contro i musulmani.
La prima guerra mondiale, pur condannata da Benedetto XV come «inutile strage», fu considerata dalla Chiesa e dalla grande maggioranza dei cattolici di ogni Paese belligerante - religiosamente legittimati a combattere in una grande guerra di cristiani contro cristiani, di cattolici contro cattolici - come la manifestazione della «punizione divina per il peccato che la società contemporanea ha compiuto abbandonando la sua dipendenza dalla religione e dalla Chiesa». All'inizio del Terzo Millennio, la Chiesa ha accantonato l'interpretazione della guerra come punizione divina, ha ripudiato il concetto della «guerra santa», e sia pure faticosamente, è giunta a riconoscere la legittimità dell'obiezione di coscienza. Ma appare ancora restia a formulare una definitiva «delegittimazione religiosa dei conflitti». Menozzi documenta gli oscillamenti dottrinari della Chiesa nella seconda metà del Novecento, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, soprattutto sul significato della guerra nella interpretazione della volontà di Dio. Sembra tuttavia che fra tanti oscillamenti, una convinzione sia rimasta salda, ora ribadita con vigore da Benedetto XVI: soltanto il ripudio della società moderna, scaturita dalla apostasia della secolarizzazione, con la subordinazione dei popoli al potere spirituale della Chiesa e del Papa, può scacciare dalla terra il flagello della guerra. Un ritorno all'unità cattolica del Medioevo? Eppure, neppure il Medioevo fu epoca senza guerre, giuste e sante, inflitte agli uomini dalla volontà divina.

Daniele Menozzi, «Chiesa, pace e guerra nel Novecento», Il Mulino, Bologna, pagg. 330, € 25,00.

Il Sole - 24 Ore Domenica 6.4.08
In principio era il piacere
AlainDaniélou svelò in Occidente il segreto delle rappresentazioni erotiche dei templi indiani; il «kama», la forza primordiale che lega gli amanti e fa incontrare individuale e universale
di Giuliano Boccali


Figlio di un ministro anticlericale e di una madre cattolica attivissima, fratello di Jean futuro cardinale e accademico di Francia, ne1 1936 Alain Daniélou (Neuilly-sur-Seine, 4 ottobre 1907 - Lonay, 27 gennaio 1994) ha alle spalle esperienze tanto intense quanto disparate: frequentazioni d'avanguardia, lezioni di danza con Nicolas Legat, il maestro del "volante" Nijinski, viaggi esotici: l'Afghanistan, poi l'Algeria dalla quale il Governatore generale lo espelle per la non celata simpatia verso gli "indigeni", purtroppo sequestrandogli il diario mai più ritrovato; Calcutta nel 1935 in auto, una Ford spider! Più volte il Bengala, per ascoltare Tagore nella sua università, a Shantiniketan.
Irrequieto e mondano, curioso di Paesi lontani, ma certo anche di quello della propria interiorità, nel 1936 è invitato a Hollywood dal celebre (e per l' epoca molto bizzarro) dietologo Gayelord Hauser; è il pretesto per un giro del mondo, che Pierre Gaxotte, caporedattore di «Candide», lo incarica di narrare. Quei resoconti con fotografie del suo compagno di viaggio Raymond Burnier e disegni dello stesso Daniélou sono ora pubblicati in italiano da CasadeiLibri con il titolo Il giro del mondo ne1 1936. Con scelta felice, l'editore accoppia a quest'uscita un breve testo, La scoperta dei templi. Arte ed eros dell'India tradizionale, che raccoglie tre saggi per l'epoca (anni Trenta, poi 1947-1949) davvero precorritori. Anche questo volumetto è impreziosito dalle fotografie di Burnier, che furono di fatto le prime a rivelare al mondo le fantasmagoriche figure dell'architettura e della scultura templare del sub Continente.
Rapidi ma non frettolosi, arguti senza mai essere acidi, i diari del viaggio affidano al colpo d'occhio delle visioni e all'immediatezza delle emozioni considerazioni mai banali. Sintetici e a piatto, i disegni ricordano vivacemente quelli di alcuni maestri coevi, fra i quali perfmo Matisse.
La maggior parte dei capitoli è dedicata ai Paesi asiatici: il Giappone «proprio come lo hanno descritto i suoi pittori. Gli abeti si contorcono con arte e, in lontananza,il Fuji Yama galleggia su una piana di lacca»; la Cina a Shanghai, dove la plebe immensa costituisce come «un humus fecondo (dal quale) si innalza la città più moderna del mondo, con i suoi innumerevoli grattacieli, gli alberghi di lusso, i locali notturni, i malavitosi e le sue incalcolabili ricchezze» (scrive, ricordiamo, nel 1936). Eletta è l'India, come si vedrà, dove l'arrivo a Benares provoca una considerazione indimenticabile sulle reazioni di chi «è uno spirito borghese» e dal viaggio non imparerà nulla o di chi invece, sentimentale e dotato di rendite, «si precipita alla Società Teosofica per indossare un saio, prudentemente disinfettato da ogni microbo...».
Caustica questa volta e molto condivisibile, Daniélou il diritto a questa considerazione se lo guadagna intero: smette i panni dell'intellettuale europeo colto e snob, di grande famiglia e di carattere ribelle; per tre lustri riveste a Benares quelli del discepolo, sottoponendosi a un insegnamento tradizionale. Si proibisce per anni di usare altro che la hindi e il sanscrito, si abitua a «vivere e pensare esattamente alla maniera indù», prende lezioni accoccolato ai piedi del maestro, per salutare il quale ci si prostra, a una certa distanza, sul ventre. Oltre alle filosofie, allo yoga, al tantrismo, studia in particolare la musica classica indiana, fino a diventare Direttore aggiunto del Collegio di musica dell'Università di Benares. Dopo il ritorno in Europa, con la missione di mostrare l'induismo nella sua autentica realtà, fonda a Berlino poi a Venezia (1963 e 1970) l'Istituto Internazionale di Studi Musicali Comparati.
Proprio per l'integrazione di esperienze opposte - quella dell'intellettuale europeo e quella interna all'induismo profondamente assorbita in India - i contributi di Alain Daniélou, sovente pionieristici, sembrano talora non poter distinguere le diverse prospettive, quella dello studioso e quella del praticante convinto. Ma è solo l'ombra di un alto pregio, poiché riflettono un processo personale di crescita e di conoscenza genuino, tenace, sempre sorretto dalla capacità di mettersi in discussione, di sperimentare concretamente, di pagare personalmente. Fra i temi numerosi cui Daniélou si è dedicato (mitologia, musica, storia e sociologia dell'India), i volumi da poco pubblicati offrono considerazioni penetranti soprattutto sull'arte e sulle raffigurazioni erotiche templari. Giudicate scandalose appena conosciute in Occidente, come pure da hindu di prima grandezza educati all'occidentale - Gandhi e Nehru fra i primi - queste raffigurazioni evocano per Daniélou il kama, "piacere", forza primordiale da cui si sprigiona l'intera manifestazione e alla quale ciascun essere irresistibilmente anela ritornare. Simboleggiata e favorita, secondo alcune correnti, dall'atto d'amore, la sua realtà piena è la «condizione ultima nella quale l'individuo e l'Universale cessano di essere separati», condizione dove «colui che abbraccia il Sé non conosce né il dentro né il fuori». Di questa realtà le coppie di amanti di pietra silenziosamente immerse nell'abbraccio sono l'immagine.

Alain Daniélou, «Il giro del mondo nel 1936», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg.156, €30,00;
«La scoperta dei templi. Arte ed eros dell'India tradizionale», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg. 48, € 6,00.
Da ricordare il volume autobiografico:
Alain Daniélou, «La Via del Labirinto. Ricordi d'Oriente e d'Occidente», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg. 400, € 25,00.

Il Sole - 24 Ore Domenica 6.4.08
Freud e le neuroscienze. Il cervello psicoanalitico
di Michele Di Francesco


«Probabilmente le carenze della nostra esposizione scomparirebbero se fossimo già nella condizione di sostituire i termini psicologici con quelli della Fisiologia o della Chimica (...). La Biologia è veramente un campo dalle possibilità illimitate, dal quale ci dobbiamo attendere le più sorprendenti delucidazioni; non possiamo quindi indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche decennio, ai problemi che abbiamo posto». Quando Sigmund Freud, avanzava queste profetiche osservazioni, nel saggio Al di là del principio del piacere (1920), non avrebbe certo immaginato che parte delle risposte sarebbero state fornite da studi su una lumaca di mare, l'Aplysia Californica. Eppure proprio l'indagine sui processi biochimici che portano alla formazione della memoria in questo mollusco, che sono valsi a Erich Kandel il Premio Nobe1 2000 per la Medicina, ha aperto un ponte tra Psicoanalisi e Biologia, permettendo di metterle in feconda comunicazione.
Questo perlomeno è quanto affermato da François Ansermet e Pierre Magistretti, docenti dell'Università di Losanna, nel volume A ciascuno il suo cervello. Plasticità neuronale e inconscio, dove viene individuato il punto di partenza del possibile incontro tra Psicoanalisi e Neuroscienze nelle ricerche sui meccanismi della memoria (ed è qui che l'Aplysia entra in scena). L'esperienza lascia una traccia, scrivono gli autori, e oggi noi possiamo studiare le manifestazioni di questa traccia non solo attraverso la Teoria Psicoanalitica, dove essa è indagata nella sua dimensione semantica, ma anche a livello cerebrale, - attraverso la nozione di plasticità neuronale. Grazie a ricerche come quelle proposte da Antonio Damasio nel fortunato volume L'errore di Cartesio (Adelphi), è oggi possibile indagare la natura dei meccanismi neurali che permettono all'esperienza di dare forma alla struttura emozionale del soggetto. Nella ricostruzione degli autori, alcune esperienze che lasciano una traccia nella "rete sinaptica" si legano a stati somatici, cui si assocerebbero in seguito ulteriori "valutazioni" emotive spesso non accessibili alla coscienza. Col passare del tempo il legame tra valutazione emotiva ed esperienza originaria si perderebbe sempre più, giungendo alla creazione di una realtà inconscia fantasmatica, non disponibile direttamente all'individuo, che ne condiziona tuttavia l'esistenza. Se a questo quadro aggiungiamo la tesi secondo cui l'unico accesso alla realtà fantasmatica «passa necessariamente attraverso un lavoro analitico» - il solo in grado di cogliere i «significanti sepolti nella rete associativa di tale scenario», possiamo farci un'idea del perché Ansermet e Magistretti considerino la propria proposta un tentativo di conciliazione tra Neuroscienze e Psicoanalisi.
In verità, malgrado le qualità anche espositive degli autori, il passaggio dalla Biologia all'Ermeneutica così prospettato appare per ora più suggestivo che supportato da dati di fatto conclusivi. Troppe sono le domande che ancora attendono una riposta, prima di poter dichiarare colmata la lacuna tra apparato analitico e spiegazione dei meccanismi cerebrali. Resta comunque un volume interessante e di gradevole lettura, che aiuta a pensare in modo nuovo l'annoso problema del rapporto tra cause e ragioni - e muove in questo senso un passo nella direzione auspicata da Freud.

François Ansermet, Pierre Magistretti, «A ciascuno il suo cervello. Plasticità neurale e inconscio», Bollati Boringhieri, Torino, pagg.l72, € 25,00.

sabato 5 aprile 2008

l’Unità 5.4.08
Se Boselli e Bertinotti...
di Giuseppe Tamburrano


Nei giorni scorsi Bertinotti ha rivolto delle avances a Boselli: facciano un incontro allo scopo di trovare un’intesa per la difesa dei valori del laicismo e dei diritti dei cittadini. Borselli ha accolto l’invito ponendo come condizione che il confronto avvenga prima delle elezioni. Ignoro il seguito. Qualche tempo fa, l’ipotesi di un accordo elettorale tra i Socialisti e la Sinistra è stato discusso nelle due case. Ma veti personali e vecchie ruggini hanno fatto naufragare quella prospettiva. La quale riemerge ora a pochi giorni dal voto. Vorrei cercare di capire il motivo di questa resipiscenza e riflettere sulle possibili conseguenze di un accordo tra i due soggetti politici. Al fondo vi è un inconscio o meglio istintivo desiderio di preservare un patrimonio di valori i quali se non sono comuni hanno in comune le radici: il socialismo, la sinistra. Le liti e le divisioni storiche non ne hanno distrutto il carattere "familiare". Questo patrimonio è a rischio scomparsa. Anche negli altri paesi europei i valori del socialismo sono sbiaditi. Ma - a parte che sono in crescita partiti e movimenti caratterizzati da idee e programmi di sinistra, come la Sinistra tedesca - in tutti i paesi europei sopravvivono i partiti della vecchia famiglia socialista, con programmi certo impalliditi, ma pur sempre con le loro strutture e i loro simboli. Soggetti che, per il fatto di esistere, possono essere rianimati e possono adottare progetti socialisti all’altezza dei tempi. Qualora se ne creino le condizioni. La crisi del capitalismo liberista e globalizzato e l’aggravarsi della questione sociale aprono nuovi terreni alla iniziativa teorica, politica e sociale dei partiti. In Italia si stanno dissolvendo i partiti del socialismo, e con essi le speranze di una rinascita. Nessuno può negare che si tratta di un problema importante. Certo non è questa la ragione fondamentale del dialogo Bertinotti-Boselli. Vi è un altro motivo più pratico: portare in Parlamento un congruo numero di rappresentanti dei due partiti.
Qual è lo scenario che si presenta a noi? In caso di vittoria di Berlusconi o di Veltroni non vi saranno problemi. Ma se la vittoria - dell’uno o dell’altro - è zoppa al Senato le cose si complicano e le soluzioni diventano tre: 1) si torna a votare; 2) si dà vita ad una "grande coalizione" tra i due partiti ed altri; 3) si trova un rincalzo omogeneo, una ingessatura o una stampella che consenta di assicurare la maggioranza anche al Senato. Nel caso che il vincitore claudicante sia il Pd, Veltroni potrebbe trovare il necessario sostegno di senatori alla sua sinistra. Ed ecco il punto. Se Boselli e Bertinotti decidono il voto disgiunto, cioè una desistenza generalizzata nelle regioni in cui la somma dei voti al Senato attribuibile ai due partiti sulla base delle previsioni elettorali supera l’otto per cento, questa pattuglia di senatori può negoziare una intesa con il Pd e consentire la nascita di un governo assistito e garantito da una solida maggioranza. Una intesa tra i due soggetti che avesse la forza di un grande messaggio quale "vogliamo la rinascita del socialismo e della sinistra" potrebbe indurre ad andare a votare un numero elevato di indecisi e cioè coloro che si sentono orfani dei loro valori socialisti e di sinistra. Sarebbero questi voti sottratti non al Pd, al quale non appartengono, ma all’astensione. Le osservazioni a questa ipotesi sono almeno due e pesanti. La prima: è difficile che a pochi giorni dal voto quel messaggio possa essere diffuso e seguito da elettorati divisi da antichi rancori: invece di una somma di voti potrebbe provocare una sottrazione. La seconda si avrebbe una soluzione non molto diversa da quella del governo Prodi, con un Veltroni costretto - dopo averne respinto l’ipotesi - a negoziare con Di Pietro, Bonino, Bertinotti e Boselli. Ma gli scherzi degli esiti elettorali sono frequenti. Nel diritto di successione francese vi è l’aforismo: le mort saisit le vif. Traduzione: la vendetta di Prodi! Con i suoi inconvenienti sarebbe meno peggio della vittoria di Berlusconi o di una grande coalizione (premier Berlusconi e vice Veltroni??!!). Queste considerazioni di umorismo nero non tolgono le speranze a chi vorrebbe un rinnovato socialismo oltre alla sconfitta di Berlusconi. Ripeto l’aforismo di Guglielmo D’Orange: «Non c’è bisogno di sperare per iniziare, né di riuscire per perseverare».

l’Unità 5.4.08
Telefono azzurro: in un anno 923 casi di abusi


ROMA È emergenza abusi in Italia nei confronti dei minori. Telefono azzurro ha presentato ieri a Roma i dati raccolti dal proprio centro nazionale di ascolto relativi al 2007: su 3.495 casi gestiti, 923, il 26,4% del totale, riguardano abusi. In tutto, sono state 1.155 le forme di abuso rilevate (alcuni minori hanno subito più abusi) tra quelle fisiche (32,5%), sessuali (12,2%), psicologiche (34,5%) e di grave trascuratezza (20,8%). Le principali vittime sono le femmine (54,6%) e, in generale, i bambini fino a 10 anni (56,6%), trascurati (72,5%) e vittime di abusi psicologici (58,6%); la maggior parte dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni è invece vittima di abusi fisici (33,7%), mentre la classe adolescenziale subisce abusi fisici (20,3%) e sessuali (21,8%). I principali responsabili di queste situazioni sono il padre (45,8%) o la madre (41%). Dei 3.168 casi trattati, il 17% denuncia un abuso, soprattutto fisico (39,2% dei casi) e psicologico (28,6%). In generale le chiamate arrivate l’anno scorso provenivano da Lombardia (15,3%), Lazio (13%), Sicilia (11,8%), Puglia e Campania (9,6%) e Veneto (7,2%). Per contrastare il fenomeno dell’abuso, Telefono azzurro promuove la campagna «Aprile azzurro» e ieri, tramite il suo presidente Ernesto Caffo, ha chiesto aiuto alla politica, «perché esistono carenze gravi sugli interventi nei confronti dei minori». Tra i primi a rispondere ieri, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi.

l’Unità 5.4.08
Salari bassi, così a scuola restano solo le donne
di Marina Boscaino


Dopo 15 anni i docenti italiani della superiore prendono 32.169 dollari contro la media di 40.269 nel resto d’Europa

Un docente di scuola materna ed elementare, percepisce tra i 1130 e i 1231 euro

Uno di scuola media tra i 1210 e i 1311
Così più o meno nelle superiori. Persone laureate e superspecializzate

DILEGGIATI e frustrati, benché tutti dicano che dalla scuola dovranno uscire le future classi dirigenti. E i docenti, invece, sono tra i meno pagati d’Europa. Cosicché la professione si sta «femminilizzando»: il 100% nella scuola dell’infanzia. Con milletrecento euro al mese s’avanza una classe di nuovi poveri

«I nostri figli sono in mano ad un manipolo di frustrati che incitano all’eversione». Ricordate l’illuminata riflessione consegnata da Gianfranco Fini al «Corriere della Sera» lo scorso 11 luglio? Un’elegantissima e responsabile definizione dei docenti italiani, che sarebbe bene tenere presente il 13 e 14 aprile. Frustrati perché mal pagati e apologeti dell’eversione (perché "comunisti"). Se la seconda definizione è tipica della folkloristica campagna di insulti e delegittimazione che il centro destra ha riservato da tempo agli insegnanti italiani, la frustrazione è un sentimento reale, che meriterebbe un trattamento differente dal dileggio e dall’ironia dedicati da Fini all’argomento.
Molte più frustrate che frustrati, nella scuola italiana. Secondo i dati del Ministero della Pubblica Istruzione attualmente le insegnanti sono circa il 100% nella scuola dell’infanzia, il 95,6% nella scuola primaria, il 76.5% nella media, il 60.3% nella superiore. Dove la femminilizzazione riguarda soprattutto i licei e le materie letterarie. Distribuita un po’ più omogeneamente la docenza negli istituti tecnici e professionali. Si tratta di un fenomeno a quel che sembra inarrestabile: nell’anno scolastico 1984-85 il 69% degli insegnanti era donna, nel 1999-2000 il 75.5%. Esiste un rapporto diretto tra il fenomeno della femminilizzazione dell’insegnamento e la questione salariale. L’incremento progressivo del livello di istruzione delle donne e il loro conseguente ingresso nel mondo del lavoro ha trovato nella scuola - a partire dagli anni ’60 - un punto di convergenza. A quell’epoca gli stipendi degli insegnanti erano proporzionalmente più consistenti degli attuali: l’entrata massiccia delle donne ha coinciso con un lento abbassamento della considerazione a livello sociale della funzione docente e, contemporaneamente, con un rallentamento della progressione economica. Il patto tacito sembrò allora consistere nell’accettazione di stipendi bassi a fronte di un lavoro limitato a poche ore settimanali, compresi i vari vantaggi che ancora compaiono nell’immaginario dei detrattori della scuola; ma che - nel frattempo, almeno per chi si impegna e crede nella propria funzione - sono definitivamente scomparsi: 3 mesi di ferie, pomeriggi liberi.
L’immagine dell’insegnante donna, moglie possibilmente di un professionista, che lavora la mattina e durante il pomeriggio provvede ai figli e alle cure domestiche o ai propri interessi (parrucchiere e shopping inclusi) è stata soppiantata da quella di tante lavoratrici coinvolte a tempo pieno su fronti differenti, tutti ugualmente impegnativi. Perché, nel frattempo, la scuola è cambiata: formalmente le ore di lavoro sono 18; ma le condizioni di lavoro sono profondamente mutate. La scuola - non per tutti, certamente, ma per molti - rappresenta un impiego a tempo pieno; con l’aggiunta, non irrilevante, che tale impiego si svolge con e per bambini e ragazzi; ed è finalizzato alla formazione, all’educazione, alla creazione di cittadini consapevoli, di autonomia critica. Ridurre le pertinenze di un insegnante alle ore curriculari è sbagliato: nel 1974 - anno di nascita degli organi collegiali - e, dopo, nel 1999 con l’autonomia, si sono aperti, nel bene e nel male, ampi spazi di intervento e di partecipazione (non sempre efficaci) al funzionamento e allo sviluppo di ciascun istituto. Inoltre gli insegnanti di molte discipline dedicano tempo ed energie alla correzione di elaborati; non ultimo, c’è bisogno di tempo - per chi li pratica, dal momento che si tratta di attività non riconosciuta né incentivata - per curare aggiornamento e studio.
Qualche settimana fa l’Ocse ha collocato il nostro Paese nella classifica dei salari medi netti al 23° posto sui trenta totali. L’Italia occupa posizioni ben arretrate non solo rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna, ma anche a Paesi come Grecia e Spagna. Uno studio della Banca d’Italia, tratto dalla relazione annuale del 31 maggio 2007 - Le condizioni finanziarie delle famiglie e delle imprese - rivela che la crescita degli stipendi è ferma al 2000 e che il livello di impoverimento è in aumento, specie tra i lavoratori dipendenti: che incrementano le proprie retribuzioni dal 2000 al 2006 di uno 0.3% contro il 13.1% degli autonomi. Nel settembre 2007 il Ministero della Pubblica Istruzione ha presentato i dati del Quaderno Bianco: in quell’occasione vennero citate le stime Ocse 2006, secondo le quali - dopo 15 anni di attività - la retribuzione annua pro capite dei docenti italiani della scuola superiore è di 32.169 dollari contro la media di 40.269 calcolata fra Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Inghilterra, Italia, Scozia, Spagna, Stati Uniti e Svezia. Nella secondaria inferiore 31.292 dollari (contro una media di 37.489) e nella primaria di 28.732 (contro 35.100). Solo gli insegnanti greci stanno peggio di quelli italiani. Tra i quali un trattamento particolarmente penalizzante è riservato ai precari, una categoria numerosa, sottoposta a un regime che spesso prevede l’interruzione del servizio, che esclude le ferie; la mancanza di continuità didattica, con frequenti cambiamenti di scuole; sedi disagiate, lontane, con le conseguenze economiche che ne derivano. Gianfranco Pignatelli, presidente del Cip, illustra il salario dei precari di ogni ordine di scuola: un docente di scuola materna ed elementare, percepisce tra i 1130 e i 1231 euro; uno di scuola media tra i 1210 e i 1311, come uno di scuola secondaria superiore, al netto delle ritenute degli enti locali.
L’obiezione che viene normalmente fatta quando si constata il divario è che a salari europei debbano corrispondere orari europei. Come si evince dalla tabella riportata in pagina, gli orari italiani non si discostano di molto da quelli europei, la cui media si attesta a 23 ore settimanali nella primaria, 20 nella secondaria inferiore, 18 e 20 minuti nella secondaria superiore. E si tenga conto che non emerge qui il lavoro sommerso cui si faceva riferimento poc’anzi.
Insomma, quello dei salari degli insegnanti rappresenta un campo in cui sarebbe opportuno intervenire, come viene chiesto da anni. Considerate le cifre sopra indicate, tra i "nuovi poveri" figuriamo a buon diritto anche noi: gli insegnanti. Esercitare questa professione è possibile solo se non si fa parte di una famiglia monoreddito: un lusso, di questi tempi, che non tutti possono permettersi. La irrisorietà dei salari rappresenta uno degli elementi che incentiva una mentalità impiegatizia nel mondo della scuola, che pure esiste; l’afflusso di persone demotivate, talvolta poco preparate, defilate, spente, indisponibili alla partecipazione e all’impegno è incoraggiato dagli stipendi bassi. La scuola continua a camminare sulle gambe di quelli che, incapaci di far ricadere sugli alunni le conseguenze dell’inciviltà del disinvestimento culturale che si è fatto sull’istruzione, interpretano eticamente e politicamente la professione, spesso devolvendo energie, competenze, impegno, passione senza riconoscimento o con incentivi insignificanti e alcuna considerazione sociale.
La legittima frustrazione di chi opera quotidianamente con convinzione e capacità nella scuola italiana meriterebbe parole ben diverse da quelle di Fini. E una riflessione coraggiosa e capace di scardinare luoghi comuni da parte di chi potrà intervenire su questa problematica.

l’Unità 5.4.08
A occhi nudi nel parco dell’arte
di Beppe Sebaste


CAMMINARE NELL’OPERA che sia una scultura da «visitare» o un giardino artistico. Ma anche una città, una cappella, una mostra... La creazione contemporanea offre al pubblico la possibilità di interagire con tutto il corpo

Tra i grandi meriti dell’arte contemporanea non c’è solo l’invenzione e la combinazione di nuove forme e materiali, «idee» comprese (nel senso del rifiuto di «rappresentarle»). C’è soprattutto la sperimentazione di nuovi modi di avvicinarsi all’arte, nuovi rapporti che con l’arte (anche quella non contemporanea) possiamo intrattenere. Non è solo il superamento dei luoghi in cui l’arte si mostra dall’Ottocento, in una dimensione sempre più privata, come la galleria. È l’allargamento al contesto, la partecipazione comunitaria delle opere, con un’attenzione nuova ai temi del paesaggio, dell’abitare, dell’ambiente. Così si spiega ad esempio la fecondità della Land Art, e la nascita di luoghi alternativi al museo tradizionale, spesso all’aperto. L’arte crea una relazione col pubblico che non si limita a una fruizione visiva, ma prevede un’interazione con l’intero corpo - camminare tra le opere, se non addirittura nelle opere - come esperienza estetica. È grazie all’arte contemporanea che la politica culturale delle città può superare il concetto angusto di arredo urbano (cioè, in breve, opere trattate come fioriere). La cosiddetta Public Art, opere e installazioni il cui essere situate nel territorio è parte integrante dell’opera stessa, promuove una politica comune della bellezza.
C’è poi l’Arte ambientale, e quella cosiddetta Site specific, e anche in Italia si moltiplicano i «parchi d’arte», spesso per iniziativa di imprenditori e collezionisti - dalla Fattoria di Celle tra Pistoia e Prato a Fiumara d’arte in Sicilia, dal parco della Marrana a Montemarcello al Giardino di Daniel Spoerri (uno dei maestri dell’Arte povera) nei pressi dell’Amiata. Presto a Torino, in un’area industriale in trasformazione di oltre due ettari, sarà inaugurato il PAV, Parco Arte Vivente, che vuole essere «un’area verde aperta al pubblico, ma anche un nuovo museo interattivo e un luogo di incontro fra Biotecnologie, Arte Contemporanea, Ecologia». Altri luoghi d’arte hanno un’origine diversa, come l’immenso impressionante Grande Cretto di Alberto Burri, che dalle sue tele migrò a ricoprire e custodire la memoria di Gibellina devastata dal terremoto nel 1968, come una pudica Pompei, o il Giardino de Tarocchi di Niki de Saint-Phalle a Capalbio.
Ma questa nuova interazione con l’arte che dobbiamo agli artisti contemporanei è forse qualcosa di antico. È grazie ad essi che possiamo riscoprire che anche la Cappella Sistina richiede un’analoga partecipazione, un camminare che è parte integrante del progetto estetico dell’opera. E che dire della città medievale? E cosa sarebbero state le avanguardie storiche senza la scoperta (e il relativo pellegrinaggio nel Novecento) delle grotte di Lascaux e Altamira, che tanto contribuirono all’esaltazione di una spontaneità sorgiva e di un’abitabilità dell’arte? Tutto il romanzo Nadja di André Breton è un invito a percorrere la città come una riserva di tesori percettivi, un’immensa opera d’arte. Ciò che invita a fare, in una riscoperta soprattutto delle realtà interstiziali e periferiche, il gruppo romano Stalker, che fonde arte, architettura, politica ed ecologia, e che nel libro firmato da Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica (Einaudi), percorre il nomadismo estetico dalla preistoria - epoca in cui la scultura verticale nasce come orientamento spaziale - al Dadaismo degli anni ’20, al Situazionismo degli anni ’60, e naturalmente alla Land Art, Richard Long soprattutto.
Alcuni anni fa, in compagnia dello scultore Kan Yasuda, mi trovavo a East Hampton (Long Island, N.Y.) ospite di Ruth Guggenheim Nivola, vedova di Costantino Nivola, il grande artista sardo emigrato in America negli anni del fascismo. Toccavo con mano i modelli delle sculture maggiori di Costantino Nivola, oppure i suoi bellissimi «letti» di terracotta, grandi come micche di pane. Camminando tra la casa e lo studio, attraverso il corridoio di sabbia che era esso stesso atelier (per quel sand casting che inventò un giorno sulla spiaggia di Montauk giocando coi nipotini), tra i cedri e le querce, posavamo i piedi sui modelli di pietra dei pannelli murali di Nivola, posti lì come soglie. L’emozione di camminare sulle sculture mi fece riflettere sull’uso delle opere d’arte, e ne parlai con Ruth, amorevole custode della memoria di Costantino e artista a sua volta. Le dissi che camminare su sculture era un’esperienza insolita, ma forse un tempo, all’epoca delle città, quando tra l’idea e la pratica dell’arte vi era l’idea e la pratica della comunità, di un «essere (in) comune», e la città intera, selciato compreso, era un’ampia scultura, camminare sopra le opere fatte dall’arte doveva essere esperienza quotidiana e condivisa. Con un sorriso, la risposta soave di Ruth fu: «infatti una volta si sapeva camminare».
In quei giorni avevo visitato anche il museo voluto e costruito come un’opera dal suo maestro Isamu Noguchi (The Isamu Noguchi Garden Museum), dove le opere del grande scultore giapponese, già maestro di Kan Yasuda, sono disposte all’interno, ma anche nel giardino esterno, di una sobria palazzina periferica tra Long Island e Queen, in una compenetrazione di natura, architettura e scultura, spazio e volumi, tatto e visione. Anche percorrere quel museo è un’esperienza attiva del visitatore. Il mio apprendistato all’arte pubblica fu dato dalla frequentazione di amici scultori come Kan Yasuda, che ha recentemente esaudito il desiderio di creare un proprio parco di sculture in Giappone (e di cui si è appena conclusa una splendida mostra ai Mercati di Traiano a Roma, dove i suoi marmi e bronzi, posti tra i resti archeologici, sembravano più antichi delle pietre e capitelli romani), o come il francese Jean-Paul Philippe, che ha disseminato le sue sculture come monoliti nei terreni d’argilla a sud del Chianti. Non si tratta solo uscire dai luoghi di fruizione abituali, di stare all’aperto o comunque in un luogo che non sia un contenitore preesistente, ma di inventare un contesto che prende forma e visibilità insieme alle opere, e sia il luogo di un’esperienza estetica. Le opere d’arte così situate non stanno come merci al mercato (o appese alla parete, non importa), ma allo stesso modo di piante in un orto botanico, o meglio ancora in un lembo di natura non addomesticata. Camminare nell’arte non significa solo attraversamento di spazi, ma pratica estetica e di conoscenza, dove il sentire comprende il toccare, guardare, ascoltare, assaporare, annusare, confondersi col paesaggio, perdersi, riorientarsi, e trasforma il luogo da spazio astratto e cartesiano a dimensione vissuta e affettiva.
Evidentemente lo stesso discorso vale per la pittura e le altre arti. Vale per esempio per la Galleria l’Attico di Fabio Sargentini a Roma, che lungi dall’essere un contenitore neutro ha partecipato e ispirato ogni mostra-evento, mostrando come la cornice, il margine, sia già sempre parte dell’opera. L’atteggiamento che le opere richiedono, e non da oggi, non è una fruizione ma una contemplazione. Contemplazione, ricordavo su queste pagine a proposito dell’opera di Claudio Parmiggiani, viene da tempio, e contemplare è come recintare uno spazio come tempio, fondare un tempio nello spazio. Ci si può chiedere se nella nostra società tutto questo sia ancora possibile. L’arte si trova infatti nella stessa situazione paradossale della dialettica del sacro. Sacrare è separare - cose, gesti, o persone - dalla sfera dell’uso comune; profanare sarebbe viceversa restituire cose, gesti o persone all’uso comune. In una civiltà il cui estremismo mercantile porta a consumare oggetti inusabili perde sia la possibilità del sacro che quella della profanazione. Il filosofo Giorgio Agamben, nel suo libro Profanazioni (Nottetempo), spiega che «l’impossibilità di usare ha il suo luogo topico nel Museo. La museificazione del mondo è oggi un fatto compiuto (...)Museo non designa qui un luogo o uno spazio fisico determinato, ma la dimensione separata in cui si trasferisce ciò che un tempo era sentito come vero e decisivo, ora non più. Il Museo può coincidere, in questo senso, con un’intera città (Evora, Venezia, dichiarate per questo patrimonio dell’umanità), con una regione (dichiarata parco o oasi naturale) e perfino con un gruppo di individui (in quanto rappresentano una forma di vita scomparsa). Ma, più in generale, tutto può diventare Museo, perché questo termine nomina semplicemente l’esposizione di una impossibilità di usare, di abitare, di fare esperienza».
Mi si permetta un’altra piccola storia. Nei primi anni Settanta, quando giovanissimo mi affacciavo all’arte e alla poesia, fui invitato ad assistere a un festival d’avanguardia. A una certa ora del pomeriggio, ne pressi di un paesino dell’Emilia, ci sarebbe stato uno degli eventi clou. In tanti ci si trasferì, e il luogo risultò essere un cantiere dismesso, con montagne di sabbia e di ghiaia, una gru sullo sfondo, e tutti quegli elementi insieme naturali e artificiali del lavoro edile così difficili da descrivere, perché difficili da osservare. Tutt’intorno una specie di nulla. Nell’attesa dell’evento, i crocchi di persone socializzavano, camminavano, finché alcuni cominciarono a giocare come bambini sulle sabbia, salendo e ruzzolando giù dalle montagnole, interagendo con l’ambiente fino all’imbrunire. A poco emergeva la consapevolezza che quello stare lì fosse l’evento stesso, artisti e pubblico componevano con la loro interazione un’opera di spazio e tempo. Qualcosa come un «gioco», che ricorda la favola su L’autobus 75 di Gianni Rodari. Questo ricordo segna l’inizio della mia comprensione dell’arte, e della (sua) politica. Quando Agamben scrive che il valore d’uso, il fare uso inerente alla necessaria profanazione del sacro oggi è diventato impossibile, al culmine di un consumismo senza scopo, senza uso e senza felicità, lascia aperta la possibilità del gioco e dell’ozio (otium), che decostruisce e rende inoperoso il vecchio uso perduto. Come il camminare nelle periferie del gruppo Stalker, come la flânerie, o la passeggiata dadaista, o il nomadismo di chi rifiuta la stanzialità e la divisione del lavoro della Storia per vagare nella Preistoria. Che sia percorso sacro, danza, arte o pellegrinaggio religioso (il lavoro di Richard Long è tutto questo insieme), credo sia la ricchezza estetica dei nuovi luoghi dell’arte, nella partecipazione comunitaria alle opere.

Repubblica 5.4.08
Nei piani di Silvio un'offerta al Pd
di Claudio Tito


L´ex premier e l´incubo di incassare una vittoria "inutile": ecco da dove nasce il piano del dialogo
Il Cavaliere getta la rete per il dopo voto "Accordo con il Pd per sbloccare il paese"
Il profilo di alcuni possibili ministri come Frattini e Castellaneta è un "segnale"
Il leader del Pdl ai suoi fedelissimi: "Non voglio ritro-varmi imbrigliato come Prodi"

Gli ultimi sondaggi lo preoccupano non poco. Silvio Berlusconi continua a leggere nei numeri che gli vengono portati quotidianamente la vittoria alla Camera, ma vede anche che la «lotteria» del Senato potrebbe riservargli un biglietto non vincente. Ecco perché negli ultimi giorni è ripartita la strategia del dialogo con il Pd, con il grande mediatore Gianni Letta che si è rimesso in moto.
Passo dopo passo il Cavaliere tesse la tela, prepara il terreno per lanciare subito dopo il voto l´offensiva per irretire Walter Veltroni e costringerlo a collaborare, a condividere la responsabilità di un governo che dovrà affrontare la recessione economica e aprire «la stagione delle riforme». Una stagione che potrebbe anche creare le condizioni per portarlo al Quirinale.
Convinto che, a prescindere dal risultato, la prossima legislatura sarà una delle più difficili che il Paese abbia mai affrontato, Berlusconi ha ripreso con forza questi ragionamenti con il gruppo più ristretto dei suoi fedelissimi.
«Noi vinceremo e saremo noi a fare il governo - tranquillizza i suoi uomini - ma non possiamo pensare di cambiare il Paese avendo tutti contro». Le incognite del Senato, poi, si confermano sempre più un brutto sogno per il leader forzista. Una coalizione blindata a Palazzo Madama non è più una certezza per Berlusconi. Ma gli interrogativi riguardano pure "il Paese fuori dalle Camere". E lì, a suo giudizio, l´elenco dei potenziali "rematori contro" resta lungo: i sindacati, la pubblica amministrazione, i salotti della finanza, i cosiddetti "poteri forti", i vertici istituzionali. Compreso il capo dello Stato che il Cavaliere non riesce a considerare completamente neutrale. Tante rischiano di essere pure le spine, come l´Alitalia. Nodi che Berlusconi non vorrebbe sciogliere da solo.
«Se vogliamo davvero cambiare il Paese - è il refrain ripetuto in ogni staff meeting - bisogna costruire un clima di dialogo». Prima di tutto in Parlamento. «Senza una maggioranza ampia, non si può fare niente». E l´idea di fare i conti con la crisi economica, le liberalizzazioni e le riforme istituzionali in un´atmosfera conflittuale, non lascia affatto tranquillo Berlusconi. «Non voglio ritrovarmi imbrigliato come lo è stato Romano Prodi in questi due anni». Tutto il suo staff ancora ricorda le parole piene di comprensione pronunciate dopo aver incrociato il premier uscente ad una cerimonia militare: «In fondo lo capisco, non è stato e non è facile stare in quella posizione». Non è un caso, allora, che in una recente cena a Milano si sia sfogato meravigliando i commensali: «Se potessi io cercherei in ogni caso, visto che la mia vittoria sarà piena, un grande accordo anche sull´esecutivo. Ma non so se sarà possibile».
Negli ultimi giorni il Cavaliere non dà nemmeno per scontato che la legislatura duri effettivamente cinque anni: «Non ho lo sfera di cristallo», sospira davanti alle domande. Se poi il risultato del Pdl sarà meno brillante di quanto gli dicono i suoi sondaggisti e il pareggio si rivelasse realtà il 14 aprile, allora il percorso di un governo tecnico sostenuto insieme al Pd diventerebbe un´opzione inevitabile. «È ovvio - ha ammesso in pubblico cinque giorni fa - che in caso di pareggio non ci può essere un governo di parte».
Così, il faccia a faccia di dicembre con il segretario democratico per Berlusconi è una sorta di architrave su cui costruire i prossimi cinque anni. Lo considera un momento di «svolta» per i rapporti tra gli schieramenti. Da allora non hai mai smesso di versare miele, in privato, sul suo «avversario». Lo ha fatto persino l´altro ieri nel corso del ricevimento con gli ambasciatori dell´Unione europea organizzata a Villa Almone, sede della diplomazia tedesca. Davanti alle feluche si è scagliato contro la sinistra radicale, ma nei confronti di Veltroni e di Prodi solo commenti ovattati. Da tempo Berlusconi spiega ai suoi che «Walter è il meglio che una sinistra moderna possa offrire in Italia».
Frasi puntate, appunto, in primo luogo a «sdoganare» il rapporto con l´ex sindaco di Roma. Del resto, con lo scioglimento delle Camere il leader forzista ha decisamente virato su una campagna fatta di colpi di fioretto piuttosto che di clava. Non è più il ‘94 o il ‘96, e non è nemmeno il 2001 o il 2006. Tant´è che negli ultimi giorni si è lamentato dei toni, a suo dire, troppo hard del segretario Pd: «Perché esagera così? Perché insiste sulla mia età? Non ce n´è bisogno».
Il suo obiettivo resta comunque quello di non ritrovarsi il 14 aprile con un Parlamento in "stato di guerra". «Altrimenti le riforme non le facciamo e il Paese non lo cambiamo». Non per niente, la lista dei ministri che già si trova nella sua tasca sembra stilata proprio per non indispettire l´eventuale futura minoranza. Basti pensare che Gianni Letta - se il Pdl vincerà - sarà il vicepremier unico, un moderato come Franco Frattini andrà agli Interni e agli Esteri un "quasi-tecnico" come Gianni Castallaneta, il suo ex consigliere diplomatico quando sedeva ancora a Palazzo Chigi, poi nominato ambasciatore a Washington, ma non sostituito da Massimo D´Alema. Ogni passo, dunque, è studiato per pervenire ad «una convergenza almeno sui grandi temi». Lo ha spiegato pure ai diplomatici europei mercoledì scorso: «Lascerò da grande statista dopo aver fatto le riforme». E molti di quelli che lo ascoltavano hanno pensato che fosse il primo atto ufficiale per una candidatura al Quirinale. Che, secondo i fedelissimi della prima ora, è ormai diventata una "ossessione". Al punto che c´è chi gli rimprovera di compiere ogni mossa in quell´ottica: «Corteggia Veltroni per essere sdoganato».

Repubblica 5.4.08
Incontro difficile al circolo Mario Mieli per il candidato della Sa. Un gruppo di trans lo contesta: "Ti occupi di froci solo in campagna elettorale"
I gay a Bertinotti: dopo il 14 aprile non ci scordare
di g.c.


ROMA - Va nella tana di gay, transgender e lesbiche, Fausto Bertinotti. Ad accogliere il candidato premier della Sinistra Arcobaleno al Circolo di cultura omosessuale "Mario Mieli" di Roma, non solo applausi e apprezzamento - «Sei l´unico leader a essere venuto» - ma anche una chiassosa contestazione capitanata dalla trans Helena Velena: «Ti occupi dei froci solo in campagna elettorale ma poi durante la legislatura ti dimentichi di noi...». Quindi, distribuzione di volantini con lo slogan: «Non vi daremo il nostro voto». Bertinotti minimizza: «Un confronto tra forze politiche e movimenti non può essere privo di momenti di confronto anche forti. Se mi fossi stupito delle intemperanze non sarei uscito vivo da 35 anni di attività sindacale...», commenta sorridendo.
Sui gay, il leader della Sinistra lancia l´affondo contro il partito di Veltroni e le «tendenze omofobiche» sia del generale Del Vecchio che di Paola Binetti: «Come si poteva facilmente immaginare, il Pd piuttosto che mantenere la promessa di avere, sul tema delle unioni civili, una linea definita, in realtà è una coalizione di forze dentro le quali ci sono le posizioni più diverse, in particolare il totale rifiuto e intolleranza da parte della senatrice Binetti». La comunità gay chiede impegni concreti «senza se e senza ma». Due anni di governo Prodi - dice la presidente del circolo Rossana Praitano - sono stati «un´occasione persa». Aurelio Mancuso dell´Arcigay descrive la delusione e prevede un «preoccupante astensionismo lesbo-gay». Bertinotti s´impegna: «Bisogna procedere con gradualità, quindi si ricomincia dai Pacs, o anche dai Dico», purché si tratti di un disegno di legge per il diritti dei conviventi «fattibile» senza cioè l´escamotage della raccomandata con ricevuta di ritorno che è «un paradosso». Ma il traguardo per Bertinotti è «l´autogestione delle diverse forme di unione», cioè la possibilità in futuro di scegliere anche il matrimonio gay. Infine, rivendica con orgoglio di avere portato in Parlamento il primo trans, Vladmir Luxuria: «È stata un´innovazione che resterà nelle istituzioni, lo so che è un diritto, ma è stato faticoso persino come chiamarla, le condizioni di vivibilità alla Camera, mi riferisco alla storia se poteva andare alla toilette delle donne o doveva recarsi a quella degli uomini». E alle proteste che la comunità gay muove alla Sinistra per avere candidato Luxuria in Sicilia, Bertinotti riconosce che «le liste sono state un compromesso», che si sta passando per «le forche caudine per fare un soggetto unitario». Applausi. Anche se sul voto per il Campidoglio, il movimento gay prende le distanze dall´appoggio della Sinistra a Rutelli: «A Roma appoggiamo Grillini perché Rutelli non dà garanzie». Nota ironica: al Movimento trans è arrivato un invito elettorale da Pier Ferdinando Casini.
Da questa campagna elettorale del resto, lo stesso Bertinotti ammette di essere un po´ deluso: «Confesso che per una parte sì», dirà dopo. «Insisto su questo carattere scisso della campagna elettorale. Una è la campagna elettorale massmediatica che è davvero potente e io credo per un difetto di sistema, davvero poverissima. L´altra campagna, quella nel Paese reale, è autentica». Giudica inoltre un successo andare «oltre quello che dicono i sondaggi», ma non s´illude di raggiungere quell´11,5% che sarebbe la somma dei partiti che compongono la Sinistra secondo i numeri del 2006: «È cambiato il mondo...». È Sa, ripete, «l´antidoto contro il Veltrusconi».

Corriere della Sera 5.4.08
Arcobaleno Il leader contestato dal transgender Velena
Bertinotti accusa «Veltrusconi» «Per loro la sinistra rischia la vita»
di Giuliano Gallo


ROMA — Ne aveva già parlato in cento comizi, con accenti più o meno polemici, perché a Fausto Bertinotti il discorso sul «voto utile », invocato all'unisono da Walter Veltroni e Silvio Berlusconi, non è ovviamente mai andato giù. Ma finora contro lo spettro del «Veltrusconismo » non aveva mai usato toni così drammatici come quelli adoperati ieri, nel corso di una puntata di Otto e mezzo su La7: «È un rischio drammatico che esiste, la sinistra rischia di essere messa fuori gioco dall'americanizzazione della politica e di questa campagna elettorale, e dal bipartitismo».
I pressanti inviti di Veltroni e Berlusconi a votare solo i due schieramenti maggiori significa di fatto, per il leader della Sinistra Arcobaleno, «azzerare la Repubblica parlamentare ». Solitamente pacato, anche quando fa trapelare la passione, Bertinotti ieri sera ha usato anche il sarcasmo: «Attenzione a questa riduzione impressionante della democrazia: da due coalizioni si passa a due partiti, poi a due persone. E il rischio è che alla fine si pensi che può bastare una persona sola... Finiremo con lo scegliere il tiranno, così le decisioni sono garantite ». Onestamente, alla fine Bertinotti finisce però per ammettere che la frammentazione è un «vizio antico» della sinistra italiana. «La ragione nobile è l'identità, ma questa diventa devastante quando impedisce il rapporto e il dialogo fra le diverse componenti».
L'analisi che il candidato premier della Sinistra fa è la stessa fin dall'inizio della campagna elettorale: Popolo della libertà e Partito democratico «competono al centro, e quindi i loro programmi reali sono comuni. Perché prevedono il primato del mercato, mentre la sinistra mette in discussione questo sistema ». Certo, quel termine che detesta, «Veltrusconismo», è solo una «formula corsara» inventata dai giornali, ammette. «Ma con una sua verità interna». E dunque il successo della Sinistra Arcobaleno «è essenziale per spezzare l'incantesimo e sottrarsi a questa droga della grande coalizione». E se invece per il Pd ci fosse una sconfitta? «Sarebbe costretto a un ripensamento significativo della sua linea politica», ammonisce il presidente della Camera uscente.
Un allarme ripreso, anche se con toni meno forti di quelli usati da Bertinotti, da Cesare Salvi, capogruppo al Senato della Sinistra democratica e ora candidato della Sa. «Noi — dice — siamo sicuramente vicini alla quota dell'8%, ma se questa soglia non fosse raggiunta, i nostri voti verrebbero di fatto dispersi, e i nostri seggi andrebbero al partito più forte fra i "perdenti" di ciascuna regione. Siamo l'unica forza politica di sinistra in Italia — rivendica con orgoglio — avendo il Pd scelto un'altra collocazione».
Unico fra i candidati alle elezioni, Fausto Bertinotti ieri pomeriggio è andato al circolo Mario Mieli di Roma, luogo storico per gli omosessuali. Una visita non rituale, e nemmeno facile: c'era molto scetticismo, in sala. E anche qualche critica più dura. Opera di Helena Velena, transgender piuttosto nota nell'ambiente. «Ti occupi di froci solo in campagna elettorale, durante la legislatura invece ti dimentichi di noi», gli ha gridato. Cercando poi di impedire l'incontro. Bertinotti non si è scomposto più di tanto: «Come potete capire questo è un luogo libero, dove tutti sono liberi di contestare». Ma anche senza grida, la platea era rimasta comunque piuttosto scettica: l'unico applauso che aveva interrotto l'intervento del candidato era stato quando Bertinotti aveva ammesso la robusta omofobia che pervadeva il vecchio partito comunista.

Corriere della Sera 5.4.08
Scoperto nello Yucatan il luogo di riunione della nobiltà
La piramide a fumetti per l'assemblea Maya
di Viviano Domenici


Il pittore maya impostò la scena di getto; poi stese il colore su corpi e vestiti, quindi tracciò il contorno nero delle figure rendendo alla perfezione la trasparenza della veste azzurra indossata dalla robusta signora che, al centro del dipinto, afferra una grande giara poggiata sulla testa di una donna raffigurata nell'atto di accovacciarsi. La protagonista dell'azione è senz'altro lei: indossa orecchini, bracciali e cavigliere di preziosa giada e sull'abito ha segni di scrittura (glifi), che dovrebbero indicare il nome del pittore che dipinse la stoffa. Ai lati della scena, due nobili scriba, con la tipica acconciatura di "quelli dei libri sacri" e gonnellini che ricordano i kilt scozzesi, sono intenti a preparare e assaggiare una bevanda a base di mais ( aj ul), ancora oggi consumata in Messico. Il dipinto, realizzato attorno al quarto secolo dopo Cristo, è uno dei tanti "fotogrammi" che decorano i tre gradoni di una piccola piramide che gli archeologi messicani hanno dissepolto a Calakmul, la metropoli maya nascosta nella foresta dello stato di Campeche, nello Yucatan. L'intero ciclo pittorico raffigura le diverse fasi della preparazione rituale di bevande e cibi da consumarsi durante le cerimonie religiose. La metropoli di Calakmul fu una delle città più importanti del mondo maya.
Sede dell'antico Regno del Sepente, organizzò per decenni una forte opposizione all'espansione di Tikal, l'altra grande capitale maya, ma alla fine dovette soccombere. Alcuni anni fa gli archeologi scoprirono, all'interno della piramide maggiore, la tomba intatta di Artiglio di Giaguaro, il sovrano protagonista dello scontro con Tikal; ora sono impegnati a riportare alla luce la piramide dipinta e una panchina lunga parecchie decine di metri che delimita un vasto spazio pubblico. Questo singolare sedile è completamente decorato con immagini di uccelli acquatici, tartarughe, gigli d'acqua e segni di scrittura (glifi) traducibili come "Pianta di Giglio d'Acqua", un nome che ricorre spesso nelle iscrizioni maya come il luogo in cui si verificarono importanti eventi politico-religiosi. Tutto fa pensare che gli archeologi siano entrati esattamente nello spazio sacro dove nobili e sacerdoti si riunivano per decidere i destini del Regno del Serpente. Insomma, una sorta di Parlamento dell'aristocrazia maya.
Mentre il lavoro dei ricercatori messicani prosegue, dal Perù arriva la notizia della scoperta del più antico manufatto d'oro dell'America precolombiana: una collana antica di oltre 4.000 la anni composta da nove vaghi d'oro intercalati con pietre turchesi. La scoperta, annunciata dagli archeologi dell'Università dell'Arizona, a Tucson, è avvenuta a Jiskairumoko, nella regione del Lago Titicaca. Il gioiello, realizzato con materiali reperibili solo a oltre 200 chilometri di distanza, è stato rinvenuto nella tomba di un uomo appartenente a una comunità di cacciatori-raccoglitori, cioè a un gruppo umano che si trovava a uno stadio di organizzazione sociale in cui, normalmente, non sono riscontrabili ne' differenze sociali ne' accumulo di beni.

Corriere della Sera 5.4.08
La non violenza di Dolci molto più di un'utopia
di Arturo Colombo


A una decina d'anni dalla scomparsa, è facile riconoscere che Danilo Dolci (1924-1997) rimane quasi sconosciuto, anche se ha avuto momenti di polemica notorietà: per esempio, con il suo libro-inchiesta «Banditi a Partinico» (1955) o durante il suo duro, e contestatissimo, impegno antimafia. Da qui l'interesse per l'antologia, curata da Giuseppe Barone. I testi raccolti — a cominciare da una intervista del '95: «Perché i sogni diventino progetti» — danno la misura del temperamento di lottatore, che ha caratterizzato Dolci fin dalla giovanile esperienza a Nomadelfia. Un lottatore, però, mai isolato; tenacemente convinto della necessità di perseguire un'opera «corale» come condizione per tentare di sconfiggere quel «sistema clientelare-mafioso », che costituisce una piaga, anzi un cancro, là dove si intrecciano i circuiti perversi della «criminalità privata» e della «criminalità di Stato». «Se non cresce la creatività di ognuno, individuo e gruppo, quasi per gravità tende a imporsi chi ha più potere cercando di accumulare altro potere, anche il potere altrui »: ecco uno dei capisaldi della strategia di lotta, che Dolci ha cercato di perseguire, e di insegnare, convinto che la triade «Trasmettere, Informare, Comunicare » costituisce uno dei presupposti essenziali, per coinvolgere sempre più persone in un processo di conquista-diffusione di un costume democratico, senza il quale la nonviolenza rimarrà velleitaria.
DANILO DOLCI, Una rivoluzione nonviolenta, EDIZIONI ALTRECONOMIA PP. 158, e 10

Corriere della Sera 5.4.08
Garofalo, l'ambasciatore
Piotrovsky: «L'Ermitage apre all'Italia e combatterà i musei-Disneyland»
di Stefano Bucci


Intervista al direttore della prestigiosa istituzione di San Pietroburgo.
L'esposizione sul pittore emiliano del Cinquecento inaugura una nuova stagione di studi e collaborazioni

Certi edifici seducono più per la caffetteria o il bookshop. Recuperiamo lo spirito del Grand Tour
Le collezioni universalistiche hanno il dovere di valorizzare gli artisti poco conosciuti

SAN PIETROBURGO — Toccherà in qualche modo al Garofalo, «pittore della Ferrara estense», il difficile compito di far conoscere al mondo il futuro dell'Ermitage. Almeno quello immaginato dal suo attuale direttore, Mikhail Borisovich Piotrovsky: la mostra di Ferrara, la prima della neonata fondazione Ermitage- Italia, «non è che una piccola parte di un progetto ben più ampio — spiega Piotrovosky —, quello destinato alla creazione di uno museo universale, nel quale possano convivere le più differenti culture, dove lo scambio tra "piccoli" e "grandi" sia costante e continuo». Guai, dunque, a parlare di una semplice mostra, anche se dedicata a quello che viene definito il «Raffaello ferrarese »: «La mostra su Garofalo sarà la nostra «chiave di volta» per cambiare il futuro dei musei, di tutti i musei» tiene subito a precisare. A cominciare proprio dal «suo» Ermitage.
Piotrovosky, d'altra parte, conosce bene questo mondo fatto di tesori «a volte fin troppo esposti» e di altri, al contrario, «troppo a lungo dimenticati nei depositi». Nato a Yerevan (in Armenia) nel 1944, Mikhail è figlio di quel Boris Borisovich Piotrovsky che aveva diretto l'Ermitage dal 1964 al 1990.
Si laurea con lode nella Facoltà di Studi orientali dell'Università di Stato di Leningrado con specializzazione in studi arabi; frequenta l'Università del Cairo, partecipa a numerosissime spedizioni archeologiche; entra nell'Istituto di Studi orientali di Leningrado. Poi, nel 1992, il grande salto: viene nominato direttore dell'Ermitage «per decreto governativo ». Mikhail è ancora lì (sono passati ventisei anni): con la sua faccia da professore attento segnata dagli occhiali, con le rughe che sempre più numerose circondano gli occhi chiari, con i suoi (foltissimi) capelli bianchi pettinati all'indietro, con i suoi vestiti (giacca e pantaloni grigi, camicia azzurra, golfino blu, cravatta bordeaux) certo non molto à la page (piuttosto old russian style).
Tecnologia e design ultramoderno sembrano lontanissimi dal suo ufficio affacciato sulla Neva dove spicca un tavolone lunghissimo di legno scuro (è quella la sua postazione di lavoro) sommerso di carte, libri, fogli, appunti, quaderni (alle pareti ci sono però bellissimi arazzi d'Aubusson con scene di ninfe, pastori, foreste lussureggianti e animali fantastici). Da lì Piotrovsky regge un vero e proprio impero dell'arte: tre milioni di oggetti (16.783 quadri, 621.274 opere di grafica, 12.556 sculture, 298.775 manufatti archeologici, oltre un milione e 200mila monete); 374 sale aperte al pubblico; dieci palazzi; cinquantamila metri quadrati di esposizione; ventiquattro chilometri di percorso; in ordine sparso (tra l'altro) trentotto Rubens, ventiquattro Van Dyck, dieci Tiepolo, la Danse di Matisse, la Madonna dell'Annunciazione di Simone Martini. E soprattutto quasi quattro milioni di visitatori ogni anno.
I grandi numeri (quelli dei visitatori in particolare) danno ragione a Piotrovsky. Che, però, chiarisce subito i suoi intenti: «I musei devono recuperare l'antico rigore scientifico, devono tornare ad essere luoghi per studiosi e per chi vuole crescere, chi vuole approfondire, chi vuole cambiare in meglio — dice —. Non voglio, certo, che l'Ermitage sia un santuario, tetro e inaccessibile, ma nemmeno che diventi una Disneyland ». Un rischio che gli deve sembrare davvero concreto: «Oggi troppo spesso i musei, a cominciare dai più grandi, inseguono il guadagno, vogliono avere sempre più visitatori dei loro concorrenti. Per farlo, però, devono offrire qualcosa che non rientra più nella natura stessa dei musei: il divertimento, il gioco, l'allegria, l'impegno per fare in modo che il visitatore esca sempre soddisfatto, non tanto per quello che ha visto, quanto perché, ad esempio, la caffetteria era buona o il bookshop era ben fornito» (e i «servizi» dell'Ermitage sono comunque efficienti pur non avendo niente di glamour).
E sempre per questa voglia di stupire il direttore boccia anche le architetture ad effetto (dal Guggenheim di Bilbao al nuovo museo «semovente» di Zaha Hadid) che «sembrano non tanto essere concepite per contenere opere d'arte» ma quanto per attirare visitatori «disattenti ». Il sogno di Piotrosvky? «Recuperare l'antico spirito del Grand Tour». Un sogno comunque difficile: «Oggi i musei sono diventati realtà anche economiche e politiche. Questo serve certo a potenziarne il ruolo sociale ma, dietro la facciata, si nascondono molte, moltissime insidie». Ad esempio «quella di perdere la propria missione storica o quella educativa, per diventare soltanto una sorta di lunapark, una macchina infernale buona per fare soldi».
Davanti alle parole di Piotrovsky viene così da pensare che non sia un caso che nelle sale dell'Ermitage sia ancora possibile trovare un attimo di tranquillità e di riflessione (cosa che al Louvre o agli Uffizi è ormai impossibile catturare). O che la custode blocchi immediatamente la turista che, armata di flash, cerca di immortalare la Madonna di Benois di Leonardo. Sembra tutto far parte di una strategia, non casuale, ma voluta dal direttore: «I musei come l'Ermitage, il Louvre, gli Uffizi, la National Gallery — chiarisce — sono musei universalistici che hanno come compito primario quello di insegnare la diversità delle culture, che abituano alla convivenza e al rispetto». Come? «Facendo conoscere i propri tesori ma non solo. Un momento importante, in questo processo di conoscenza, è lo studio delle collezioni, l'organizzazione secondo criteri puramente scientifici, l'esposizione di un quadro ritrovato oppure restaurato oppure di una nuova acquisizione». In questo contesto, l'esposizione di Ferrara dedicata a Benvenuto Tisi detto il Garofalo appare indicativa: «Una mostra che presenta opere uniche, un buon nucleo di queste viene appunto dalla nostra collezione, e che permette di scoprire un pittore a molti ancora sconosciuti». Su questa stessa linea si collocano la mostra che l'Ermitage di appresta a dedicare al mito di Danae o quella che viene, in questi giorni, dedicata invece all'arte islamica.
Piotrovsky è un uomo sempre in movimento (oltreché carico di onori, dalla Legion d'Honneur francese all'Ordine al Servizio della Madrepatria). Ma è granitico in questa sua idea di museo del futuro dove a fare i soldi (e ad attirare i visitatori) sembrano dover esser, prima di tutto, le mostre-evento. E dove, dice ancora, «mi piacerebbe tantissimo che si stringessero legami sempre più stretti fra grandi e piccoli musei. I grandi musei potrebbero trasformarsi in vere e proprie vetrine per tesori e realtà che ben pochi conoscono, uno scambio che servirebbe a renderci tutti più forti. Sarebbe bellissimo che il museo diventasse davvero universalistico, che non conoscesse insomma confini». Ma Piotrovsky non nasconde neppure le proprie paure: «Se il museo non sarà capace di diventare un'arma di dialogo, rischierà di trasformarsi in una pericolosissima "miccia" per futuri conflitti».

Corriere della Sera 5.4.08
Il mondo del «Raffaello ferrarese»
Madonne, bambini e santi in una nuvola di sogno
Così Garofalo racconta il sacro in modo profano
di Francesca Montorfano


Ha imparato l'arte dal Panetti e dal Boccaccino, è rimasto affascinato dai paesaggi fantastici di Dürer e dalla sensibilità per il colore di Giorgione, ha conosciuto Michelangelo e colto i nuovi fermenti che venivano da Roma al punto da venir chiamato «il Raffaello ferrarese ».
Eppure lui, quel Benvenuto Tisi detto il Garofalo dal paese di origine del padre (e che talvolta firmava le sue tele con un piccolo garofano rosso), tra i più richiesti pittori del primo Cinquecento ferrarese, è stato a lungo sottovalutato dalla critica e poco conosciuto dal grande pubblico. Non così all'estero, però. Non in Germania, Francia, Inghilterra, Austria o Ungheria dove le rotte del collezionismo hanno condotto molti dei suoi capolavori dispersi già alla fine del Cinquecento. E soprattutto non in Russia: è del Garofalo, infatti, la prima opera del Rinascimento italiano giunta alla corte di Pietro il Grande, quella stupenda «Deposizione» che il cardinale Ottoboni aveva regalato all'agente commerciale dello zar a Venezia e che questi aveva avuto «l'ardire» di portare alla corte russa nel 1720, primo passo della futura collezione.
Del maestro ferrarese l'Ermitage di San Pietroburgo possiede un importante nucleo di opere, tra cui tre dipinti di grandi dimensioni realizzati dal Garofalo intorno al 1530 per il convento di San Bernardino che la giovane Lucrezia Borgia sposa di Alfonso d'Este aveva voluto acquistare e che oggi è andato distrutto: «Le nozze di Cana di Galilea », «l'Andata al Calvario e «l'Allegoria del Vecchio e del Nuovo Testamento», rimasta arrotolata per più di cinquant'anni e ora recuperata in tutta la sua bellezza.
«Garofalo, pittore della Ferrara estense» è oggi l'omaggio di San Pietroburgo all'artista che ha fatto conoscere in Russia la grande arte rinascimentale italiana e la magnificenza di una corte tra le più illuminate d'Europa. Una rassegna di ampio respiro curata da Mauro Lucco e Tatiana Kustodieva che nello scenario del Castello Estense— prestigiosa sede di Ermitage Italia — vedrà per la prima volta riuniti oltre settanta capolavori del pittore, provenienti da San Pietroburgo e da alcune delle più importanti istituzioni europee: tra di essi la celebre «Moltiplicazione dei pani e dei pesci» giunta dalla Siberia dopo un viaggio di oltre 15.000 chilometri. Saranno esposte anche opere di artisti a lui contemporanei, come la «Sibilla» di Dosso Dossi o la bellissima «Madonna in trono» e «il piccolo Compianto sul Cristo morto» di Francesco Francia, gioielli dell'Ermitage, per ricostruire non solo l'intera parabola creativa di Benvenuto Tisi, ma anche l'effervescente clima culturale che allora si respirava in città.
«Merito grande del pittore è di essersi confrontato con quanto di meglio i maestri del Rinascimento andavano elaborando a Venezia e a Roma, rimanendo sempre fedele a se stesso — precisa Mauro Lucco —. Il Garofalo è stato un artista fuori dagli schemi, che ha dipinto quasi unicamente pale d'altare e temi religiosi per le chiese e le confraternite della città, ma senza perdere di vista il mondo che lo circondava. Trattando un tema tradizionale come quello sacro in modo nuovo, profano, reinterpretandolo alla luce di quella cultura dell'intrattenimento elaborata nelle stanze del potere, inserendolo in un meraviglioso universo fantastico con gusto tipicamente narrativo».
E così Benvenuto Tisi dipinge Madonne, Bambini e Santi che sembrano personaggi di una favola avventurosa, e con soluzioni originali, con una poesia della natura intimamente sentita, li cala non in chiese o in cappelle, ma nel clima di corte, in ambientazioni fatte di paesaggi fiabeschi e inverosimili, vicino a rocce scoscese, costoni a picco e specchi d'acqua nei quali si riflette il cielo, tra luci che paiono fuochi d'artificio, vapori di nebbie e magici tramonti. Il suo è un mondo di sogno, sereno, lontano da affanni e dolori. Le sue immagini - sia le pale d'altare che i grandi cicli di affreschi realizzati per le residenze estensi - di una bellezza senza tempo, che conquistò allora i suoi concittadini entrando a far parte dell'immaginario collettivo ferrarese e che ancora oggi, cinquecento anni dopo, colpisce ed emoziona. E anche in questo risiede quella «modernità » che il Vasari tanto apprezzava nell'artista.