lunedì 7 aprile 2008

Repubblica 7.4.08
La Sinistra attacca Franceschini sul voto utile
di Silvio Buzzanca


(...) A sinistra non è proprio piaciuta l´intervista a Repubblica del numero del Pd e quel suo paragone fra Fausto Bertinotti e Ralph Nader, il candidato indipendente che nel 2000 provocò negli Usa la sconfitta di Al Gore.
Il presidente della Camera respinge seccamente il paragone con Nader. E boccia anche l´apertura a riforme costituzionali improntate al presidenzialismo. «Queste cose di Franceschini - dice per esempio il candidato premier Bertinotti - non solo sono sgradevoli, ma anche un po´ allarmanti perché non si accorge che sono sostanzialmente anticostituzionali». e spiega c´è un unico modo per contrastare questa deriva presidenzialista: «Dare torto a Franceschini e far si che la Sinistra Arcobaleno abbia un successo tale che lo costringa a prendere atto che siamo in Italia e non negli Usa».
Gli altri leader della Sinistra Arcobaleno sono meno diplomatici del presidente della Camera. Così Oliviero Diliberto si chiede: «Ma come? Prima ci cacciano e non vogliono trovare l´accordo con noi e adesso ci dicono che se perdono è colpa nostra?». Circostanza che fa dire al leader del Pdci: «Franceschini ha una bella faccia tosta a dire che noi siamo come Nader. Se la bugia fosse un reato, oggi a Franceschini dovrebbero dare l´ergastolo».
Il segretario di Rifondazione Franco Giordano parla invece di «campagna greve e soprattutto disonesta. La verità è -conclude - che il Pd prevede un risultato inferiore alle aspettative e la leadership cerca di mettersi al riparo addossando preventivamente la colpa alla sinistra». Il verde Angelo Bonelli aggiunge che «Franceschini è il primo a sapere di dire cose non vere». Secondo il capogruppo verde alla Camera, «gli appelli del Pd al voto utile sono il segno della debolezza della proposta politica e programmatica del Pd». Infine Nicki Vendola, presidente della Regione Puglia, punta l´indice contro il «giochino un po´ sporco del voto utile o del paragone tra Bertinotti e Nader che serve solo per parlare ad un´Italia che si presume non sia in grado di non capire».
Veltroni, intanto lancia un nuovo appello contro l´astensionismo e per i voto utile. «L´astensionismo è l´anticamera delle peggiori tradizioni consumate nell´umanità», ha detto il candidato premier del Pd. E sulle polemiche innescate dall´intervista di Franceschini ha sottolineato: «Agli elettori della sinistra radicale dico che ogni voto è utile. Ma è chiaro che in questa ultima settimana si decide chi governerà il paese tra noi e la destra». Infine il leader del Pd ha ricordato che avrà l´età di Berlusconi solo nel 2026 e che è giunto il momento di « di dire basta con le battute per affrontare i problemi seri, basta con le corna ai vertici dei capi di Stato. L´Italia si merita un´altra leadership così come quella che hanno gli altri paesi».

Repubblica 7.4.08
Il leader Sd replica a Franceschini: "Nader siete voi che avete rotto l´alleanza"
Mussi: "Dal Pd un ricatto elettorale al Senato leveremo seggi alla destra"
di Umberto Rosso


La gara si sta giocando proprio con lo schema voluto da Veltroni. Io ho cercato il dialogo, ma ho trovato un muro

ROMA - L´ira di Fabio Mussi. «Un´intervista inaudita. Franceschini prova forse a prenderci per i fondelli?».
Ha lanciato un appello agli elettori della sinistra.
«No, è un vero e proprio ricatto elettorale. Prima il Pd ci scarica e ora, in extremis, di fronte ad una possibile, probabile sconfitta ecco che mette le mani avanti e si prepara ad addossarci la responsabilità del flop. Se Berlusconi vince, è colpa della sinistra che non vota Veltroni. Ma per favore. Io allora l´accusa la rovescio per intero».
In che modo, ministro?
«Mon ami, Ralph Nader c´est vous, siete voi del Pd. Mica Bertinotti».
Tesi piuttosto ardita. Va spiegata.
«La competizione si sta giocando esattamente con le regole che il Pd ha voluto, le squadre si affrontano con lo schema perseguito ostinatamente da Veltroni: la competizione con Berlusconi senza la sinistra. Non l´abbiamo certo voluta noi la fine del centrosinistra».
Ma anche per Rifondazione e la sinistra, dopo il governo Prodi, la fase dell´Unione era chiusa.
«Con i miei amici della Sinistra arcobaleno ho insistito molto, all´indomani della crisi di governo, per un incontro con Veltroni, per capire che margini c´erano. Noi la mossa l´abbiamo fatta ma dall´altra parte abbiamo trovato un muro. Il leader del Pd, alla fine, fece filtrare l´idea di una separazione consensuale. Ma quando mai: la scelta fu loro. Al diavolo la sinistra. Però stranamente in certi casi i voti della sinistra non olent, non puzzano».
Quando?
«Al comune di Roma, alle regionali in Sicilia, in centinaia di comuni in tutta Italia, dove il Pd si presenta insieme a noi».
La partita fra Veltroni e Berlusconi non si gioca sul filo dei voti?
«Non credo, ma ammesso e non concesso l´uscita di Franceschini è anche tecnicamente sbagliata: al Senato la Sinistra toglierà più seggi al Pdl che al Pd. Conti alla mano. Una ragione in più per impegnarsi al massimo, ovunque, a superare lo sbarramento dell´otto per cento. Scaricare su di noi è troppo facile e comodo, sia in chiave pre-elettorale ma anche post-elettorale...».
Allude ad una resa dei conti all´interno del Pd, in caso di sconfitta?
«Non metto bocca, le dinamiche interne del Pd sono cose che non mi riguardano più. Certo che a rovesciare su di noi i problemi loro, sono piuttosto abituati. Come per i 20 mesi di governo. Avevano 20 ministri su 25, il presidente del Consiglio, due vicepremier. Molti onori e molti oneri. Invece, se a Palazzo Chigi le cose non hanno funzionato, di chi è la colpa? Ma è ovvio: del ministro Mussi, di Ferrero, di Pecoraro. Ma ci sarà in quel partito qualcuno che si assume una responsabilità, "adsum qui feci", come citava spesso Alessandro Natta? Comunque, nelle parole di Franceschini c´è qualcosa di ancora più inquietante, che mi fa rizzare i capelli».
Addirittura?
«Il presidenzialismo di fatto, che si realizzerebbe nel nostro paese con la vittoria di Veltroni o di Berlusconi, al tempo stesso premier, segretario di partito e capo della maggioranza parlamentare. Vorrei ricordare a Franceschini che l´Italia è un regime parlamentare. E che meno di due anni fa abbiamo chiamato il popolo italiano ad un referendum per bocciare la riforma costituzionale della destra, a forte impalcatura presidenzialista. Adesso il vicesegretario pd ci propina l´elogio di tutti i poteri al leader. Ce lo dica: si preparano a ripresentare insieme a Berlusconi quella stessa controriforma bocciata dagli italiani?».
Appello al voto pro-Veltroni rispedito al mittente.
«Di più. Lo faccio io un appello, al vecchio elettorato dei Ds. Date un voto che garantisca le persone che si sentono di sinistra, fate in modo che siano rappresentate, e perché in futuro si possa tenere aperta una prospettiva di governo di centrosinistra. Influendo sulla politica del Pd».

Corriere della Sera 7.4.08
Mario Monicelli Il regista: io comunista, lui un amico che però ha guidato la Camera invece di fermare il leader pdl
«Sì a Fausto contro il Cavaliere. Ma sono più a sinistra»
Fabrizio Roncone


ROMA — Mario Monicelli, senta: lei, straordinario maestro del cinema italiano, insieme ad altri intellettuali firma un appello di sostegno alla Sinistra Arcobaleno e allora...
«Si fermi. Lei mi disturba per questo?».
Maestro...
«Mi dica: lei è rimasto sorpreso? Non abbia timore... coraggio, mi risponda: è rimasto sorpreso?».
Sorpreso, no. Ma certo questo suo schierarsi così netto...
«Netto? No, guardi: io fatico non poco a schierarmi con la Sinistra Arcobaleno».
Vuol dire che, istintivamente, sarebbe forse più propenso al Partito democratico di Walter Veltroni?
«Cosa? No no... quello lì, Veltroni intendo, ha come modello di riferimento gli Stati Uniti, e lei, beh, capirà...».
I fratelli Kennedy, e forse più Bob di John, e poi...
«E poi cosa? Lasci stare la dinastia Kennedy. Walter, purtroppo, ha come modello uno stato imperialista, spietato socialmente, dove chi è povero è molto povero e chi è ricco è molto ricco».
Sono discorsi da sinistra estrema.
«Infatti. I miei pensieri sono più a sinistra, e finalmente ci siamo, di quelli proposti dalla Sinistra Arcobaleno.
Era ciò che cercavo di spiegarle: fatico a votare persino per loro. Per quelli che fanno promesse, proclami e che poi...».
E che poi?
«Beh, poi vanno al governo, ci stanno due anni, e invece di mettere mano al conflitto di interessi di Berlusconi, preferiscono diventare presidente della Camera e realizzare, quindi, un quinto delle promesse fatte in campagna elettorale».
Lei si riferisce a Fausto Bertinotti.
«Guardi, io di Bertinotti sono amico, lo stimo e lo frequento con piacere, e lo incontro, spesso, a cena, con sua moglie Lella... solo che, davvero, io sarei un bel po' più a sinistra di lui e della Sinistra Arcobaleno. Ma cosa c'è in Italia più a sinistra di loro? Così mi tocca accontentarmi».
Lei è sempre stato così radicale?
«Mio padre Tomaso, giornalista celebre e critico teatrale, fu perseguitato dal fascismo e, per questo, nel 1945 si suicidò. La prima cosa che perciò si può dire è che io sono antifascista dentro, nell'animo».
Poi?
«Poi, nell'immediato dopoguerra, divenni socialista. Con il mio amico regista Mario Camerini facemmo pure un po' di propaganda: all'epoca, a Roma, si tenevano discorsi in piazza Montecitorio, o nella Galleria Colonna».
Quindi lei nasce socialista.
«E sa quando smetto? Quando compare il faccione autoritario, dispotico di Bettino Craxi. Un esponente politico borghese, gran corruttore».
Eppure la figura di Craxi è stata assai rivalutata, maestro.
«E chi se ne frega... Io non lo sopportavo, e così, politicamente, vagai qualche mese, finché non finii dentro il Pci».
Molti registi italiani finivano in quei ranghi.
«Il cinema italiano era rosso. Penso a Scola, a Scarpelli, a Benvenuti, a Gigi Magni...».
Comencini?
«Gran socialista».
E gli attori? Sordi, Mastroianni, Gassman, Tognazzi, Manfredi...
«Mah, vede, gli attori, in genere, sono dei malati di mente che hanno una sola ambizione: quella di piacere a tutti. Si figuri se qualche grande avesse voglia di schierarsi politicamente».
Gian Maria Volonté si schierò.
«E infatti era considerato un antipatico di prim'ordine».
A lei starà molto antipatico Silvio Berlusconi.
«Dovrebbe essere il nemico numero uno di milioni di italiani. Ma siccome gli italiani sono stupidi, lo adorano. Chiunque prometta agli italiani benessere, riceve il loro voto».
Lei è pessimista.
«Mi sfogo. Quando posso. E poi, le dico: sa perché sono riuscito ad arrivare a 93 anni così lucido da star qui a discutere di politica?».
No. Perché?
«Perché non sono pessimista. Ma superficiale e comunista».

l’Unità 7.4.08
Germania anno zero. Processo a Heidegger
di Marco Dolcetta


ARCHIVI Dalle carte del ministero degli Esteri francese riemergono gli atti del procedimento della Commissione Alleata a Friburgo contro il filosofo accusato di aver appoggiato il nazismo. L’imputazione, il dibattito e l’autodifesa dell’imputato

Una giuria mista fatta di tedeschi che avevano preso parte al complotto contro Hitler e di studiosi francesi

Discussione tesa che si risolse con l’interdizione accademica ma non con il divieto di insegnamento

Il linguaggio è la casa dell’Essere... (Martin Heidegger)

«Signor Presidente, signori membri stimati della Commissione formata sotto l’egida del Senato Accademico dell’Università di Friburgo e per delega dell’Amministrazione provvisoria, il vostro collega, Martin Heidegger, compare rispettosamente, davanti a voi a vostra domanda, per rispondere in suo nome alle accuse formulate contro di lui». Iniziano così, nell’originale tedesco e tradotto in francese dalle forze di occupazione Alleate francesi del Sud ovest della Germania, in data 23 luglio 1945, le 36 pagine del processo verbale della deposizione di Martin Heidegger davanti alla Commissione di denazificazione dell’Università Albert-Ludwig, a Fribourg-en-Brisgau. I componenti della Commissione: Presidente, Constantin von Dietze, membri, Artur Allgeier, Adolf Lampe, Friedrich Oehlkers, Gerhard Ritter. Questi documenti sono stati di recente ritrovati negli archivi del Ministero degli Esteri francese che si trovano a Colmar, nel Sud est della Francia.
I fatti: poco dopo l’occupazione di Friburgo, nella primavera del 1945, l’esercito francese inizia con un programma di ricostruzione, facendo capire subito chiaramente che l’Università non avrebbe beneficiato di alcun privilegio legato al suo statuto di istituzione autonoma, e non ci sarebbe stato alcuno spazio per un’ipotesi per un’eventuale possibilità di autoriabilitazione. L’Amministrazione militare e l’Università cominciarono così ad avere una difficile relazione caratterizzata da una parziale autorità di ciascuno e dall’implicazione discreta di intellettuali francesi, in differenti tempi consulenti, come spesso accadde in Francia, dell’Amministrazione militare al fine di indirizzare ideologicamente il Comitato di epurazione. Era sentita come un compromesso fra due istanze: strumento di controllo per i francesi che indirizzavano gli interfaccia palesi di Heidegger, ovvero gli universitari tedeschi. Tra i più conosciuti dai francesi emergono i nomi di Jean Paul Sartre, Jean Beaufret, De Touwarnicky, Jacques Lacan ed altri. I membri tedeschi della Commissione avevano preso parte al complotto del 20 luglio 1944 contro la vita di Adolf Hitler, imprigionati, erano sopravvissuti.
La commissione fu decisa nel maggio 1945. L’epoca era difficile, e l’appello a comparire davanti alla commissione universitaria non era il solo pensiero di Heidegger: i suoi due figli erano dispersi in Russia e il suo appartamento a Friburgo era stato requisito dagli occupanti.
Ma i membri della commissione erano propensi per la riabilitazione. Solo Lampe gli era contrario.
Le accuse erano le seguenti. Propaganda nazista effettuata da Heidegger presso gli studenti. Due, amministrazione dittatoriale dell’università da parte di Heidegger in conformità del principio del culto del Fuhrer. Tre, la restrizione della libertà dell’insegnamento esercitata da Heidegger nei confronti degli insegnanti negli anni 1933-34 in cui Heidegger era il Rettore.
Alla fine, contro solo il voto di Lampe. Infatti, la Commissione, nel settembre 1945, aveva stabilito che Heidegger era stato solamente un partigiano iniziale, benché ardente, della rivoluzione nazionalsocialista, giustificando così la rivoluzione agli occhi degli intellettuali tedeschi e rendendo loro più difficile conservare una certa indipendenza, ma che aveva smesso di essere nazionalsocialista a partite dal 1934. La sentenza raccomanda che Heidegger andasse subito in pensione, ma non fu sollevato dalle sue funzioni: poteva conservare il suo diritto di insegnare ma era escluso dall’amministrazione universitaria. Lampe non si arrende: il 4 novembre 1945 fornisce un rapporto circostanziato sulle attività di Heidegger durante il Terzo Reich, facendo una inchiesta informale presso professori e studenti dell’Università fino al 1945. Anche questo delicato rapporto si trova negli atti degli archivi del ministero degli Esteri francese.
Ma come si difese il filosofo dalle accuse in quella circostanza? Ecco uno stralcio della sua autodifesa. «L’intenzionalità come comportamento e la verità come apertura al mondo e rivelazione del mondo vanno mano nella mano - queste sono le ultime righe della difesa di Heidegger - «se l’università non può ripensare radicalmente l’intenzionalità, i suoi tentativi di rivendicazione di una neutralità di cui si vanta tanto e gli sforzi per evitare di essere l’organo dello Stato nazione del mercato sono del tutto inutili. La particolarità religiosa, dell’Università religiosa pre-moderna, sarà corrosa su due fronti: nazionalismo nascente e l’utilitarismo economico. Malgrado i suoi sforzi per mantenere un distacco teorico verso lo Stato e gli interessi del mercato, la sua secolarizzazione non è stata ottenuta per effetto della libertà dei valori ma per rimpiazzare un insieme di valori religiosi con altri valori più astratti. Come mi sono dunque comportato io che sono qui davanti a Voi, soggetto di diritto con l’impegno di fare una summa dei miei concetti filosofici, delle mie opinioni politiche, delle mie azioni e dei mie rapporti con i studenti e gli insegnati di questa università, esperienza intrapresa anche se avventurosa? Quelli che sperano di ascoltare qui delle ammissioni di colpevolezza o delle affermazioni di innocenza saranno delusi da ciò che avranno trovato. Sotto il sigillo di questo tribunale le mie parole saranno quelle di una viaggiatore, sebbene inopportune e premature, abbandonato da un educatore tragicamente sbattuto tra un ’non ancora e un già passato’».

l’Unità 7.4.08
Ecco il senso degli argomenti usati dal filosofo in quella istruttoria, ricostruiti sullo sfondo del controverso rapporto con il regime di Hitler, dal discorso «rettorale» del 1933 in avanti fino alla «revisione»
La tragedia del nazismo? Era stata tutta colpa dell’«Essere»
di Bruno Gravagnuolo


Una vicenda raccontata infinite volte e fonte ancora di polemiche, quella su Heidegger e il nazismo. Chiara altresì, almeno nei suoi contorni generali. E alla quale oggi i documenti sopra pubblicati apportano un ulteriore tassello di luce. Più che altro sul modo in cui il filosofo intese scagionare se stesso: modo sibillino e alquanto oracolare. Che non era né un’ammissione di colpa né un rigetto della colpa. Piuttosto una fuga speculativa, che avrebbe accettato magari una critica filosofica, ma non un giudizio etico-politico.
Prima di tornare su questo, riepiloghiamo di nuovo i fatti. Ormai è filologicamente comprovato. Heidegger, anche sotto l’influsso della moglie Elfride nazista convinta, fin dal 1932-33, era orientato politicamente (ed elettoralmente) verso il nazismo. A modo suo ovviamente, e non nel senso banale di partito (a cui si iscrisse altresì). Bensì in quello di un filosofo che voleva «cavalcare la tigre», e ravvisava nel nazionalsocialismo una rivoluzione conservatrice, anticapitalista e romantica. Capace di ridare lustro e prestigio all’Università tedesca, di rilanciarne il primato universale. Nonché di ricucire nella modernità, in quanto movimento politico, il legame tra «Zivilistation» tecnica, e senso greco dell’Essere, il «senso» alle origini della superiorità spirituale dell’Occidente.
Per questo il filosofo accettò la carica di Rettore dell’Università di Friburgo, inaugurando l’anno accademico 1933-34 con il celebre discorso su L’autoaffermazione dell’Università tedesca che gli fu a lungo rimproverato da allievi e avversari. In quel discorso Heidegger tracciava il profilo di «movimento» del «suo» regime nazista, delineando al contempo l’immagine mobile di una società organica, comunitaria, solidale. Del lavoro e della cultura. Compattata dall’«etnos» e fluidificata nei suoi vari comparti proprio dal ruolo d’avanguardia speculativa della filosofia. Al fine di riunificare in una radice più «intima e vera» il significato dei diversi saperi, rilanciando così la primazia della Germania. Governare la tecnica. Senza perdere la luce dell’Essere, dell’«autentico». Del divino numinoso e intramondano, oscurato dalla società massificata e inautentica, dal cosmopolitismo di matrice utilitarista e anglo-francese. Ecco il problema «politico» di Heidegger in quel momento. Uno Heidegger non lontano dalle pulsioni conservatrici di tanta parte della cultura tedesca di allora, secondo i moduli introdotti già nel 1915 dal Thomas Mann conservatore delle Considerazioni di un impolitico.
Sappiamo come si concluse l’avventura politica di Heidegger, costretto a dimettersi prima della scadenza del suo incarico, nel febbraio 1934. Essendosi rifiutato di estromettere dall’Università due colleghi avversi al regime e banditi apertamente dalle autorità nazionalsocialiste, che premevano in tal senso sullo studioso. In seguito i suoi corsi e la sua vita furono attentamente sorvegliati dalla polizia segreta e dalle Ss. Che, e ne abbiamo dato in passato ampio conto su queste pagine, non trovarono nulla di antinazista nella filosofia di Heidegger, anche perché non la capivano. Pur fiutando in essa motivi eccentrici e «disimpegnati».
Talché al filosofo, guardato a vista come «razionalista» (!) e «nichilista», fu impedito di pubblicare all’estero e anche di essere oggetto di recensioni alla sua opera. Così come di fatto, se non formalmente, gli fu inibito di partecipare a congressi di filosofia fuori dalla Germania.
Dunque, guardato a vista. Nondimeno, fino alla fine degli anni trenta, Heidegger continua a scorgere nel nazismo un «movimento» di «intima grandezza e verità». Benché, proprio a metà di quegli anni, inizi in lui un rovesciamento: dal nazismo come cura del «nichilismo tecnico», al nazismo come sintomo e conferma di quel nichilismo, frutto della Volontà di Potenza. Con la revisione su Nietzsche cambia quindi la prospettiva. E siamo all’«autodifesa» del 1945, citata in questa pagina. Heidegger si dichiara non imputabile, perché con la sua filosofia egli ha solo parlato dall’interno della tragedia del suo tempo, registrandola con «intenzione» libera, ed «esperienza avventurosa», seppur con inevitabile sviamento. Insomma la «colpa» era (stata) dell’Essere, del Destino, non del suo pastore e filosofo.

l’Unità 7.4.08
Le studentesse delle più prestigiose università difendono la loro castità ma il fenomeno ha più a che fare con una prova di forza che con valori come l’innocenza
La rivoluzione sessuale delle vergini di Harvard
di Stefano Pistolini


«La difesa della propria verginità non è tanto una questione di innocenza e purezza. Piuttosto ha a che vedere con un atteggiamento di forza». Ipse dixit una studentessa della notabile università di Harvard intervistata dal magazine domenicale del New York Times, che torna ad analizzare il fenomeno della difesa della castità tra i teenagers americani, storia che fece già il giro del mondo negli anni Novanta, allora ambientato nell’esplosione tra i postadolescenti dei comandamenti del neo-fondamentalismo. Adesso la faccenda ha colori diversi e più interessanti, per come si colloca in un ambiente culturalmente evoluto e trasversale come quello delle grandi università americane, poi per come rinuncia a percorrere le diffidabili strade epidemiche della «mania» generazionale, restando una scelta circoscritta, venata di attivismo più che di preghiera, esposta al dibattito tra coetanei e - questo lo aggiungiamo noi, da modesti osservatori da lontano - come effetto di una situazione d’insicurezza che si sta palpabilmente facendo strada tra la gioventù americana che, se a fronteggiare tante cose viene preparata dalle sue strutture educative, sembra quasi inerme nel momento di doversi consegnare a un messaggio d’incertezza, di futuro a temperatura variabile, di sogni da riporre nel cassetto, di ansie che si vanno diffondendo. Una questione di forza, dice la ventenne Janie Fredell, studentessa in scienze politiche nell’ateneo più rispettato d’America, noto oltre che i per i suoi formidabili standard culturali anche per l’attitudine disinvolta e gli stili di vita trasgressivi dei suoi studenti, impegnati collettivamente a dare un morso al momento magico della loro formazione. Janie è arrivata in quell’angolo del Massachusetts da Colorado Springs, una delle roccaforti fondamentaliste dell’America profonda, un posto dove, come racconta lei, al liceo indossare l’anello simbolo della castità sessuale non è più un gesto significato, dal momento che quell’anello lo indossano letteralmente tutte le ragazze della scuola. Per lei, tanto arrivare a Harvard è stato entusiasmante dal punto di vista della propria educazione, tanto è stato scioccante dal punto di vista dei comportamenti. Il sesso tra i banchi dell’università, è moneta corrente, dice strumento di socializzazione, deriva edonistica. Lei ha deciso di resistere a quanto le dava la sensazione di assediarla ormonalmente e di darsi da fare attivamente in una direzione diversa. Decisivo per finalizzare i suoi istinti, è stato l’incontro coi rappresentanti (forse 200, ma veramente attivi non più di una dozzina, confessa candidamente) del gruppo d’opinione True Love Revolution (http://www.hcs.harvard.edu/tlr/) che si definisce un’organizzazione studentesca apolitica, dedicata alla promozione dell’astinenza sessuale preconiugale, attraverso la presentazione della castità come un’alternativa positiva per motivi etici e di salute, al servizio di «coloro che desiderano restare forti». Ed ecco riaffiorare, sia pure sullo sfondo qualificato e liberale di Harvard - e non da un suburbia nel mezzo del nulla della Florida - la questione della «forza». La cosa principale da ricordare, scrive il sito della Rivoluzione del Vero Amore è che tanti ragazzi e ancor più ragazze che si concedono all’attività sessuale lo fanno perché si sentono pressati a farlo. Loro la chiamano la «dominante scena della seduzione», uno spietato dentro-o-fuori sociale al quale è difficile sottrarsi, salvo poi fare i conti col disagio derivato dalla consapevolezza che il sesso casuale non sia così piacevole come i media lasciano credere.
Ma di cosa ci sta parlando questo articolo del principale quotidiano americano? Parla forse di diffusione del senso di colpa e della paura del peccato negli strati postadolescenziali della parte più fortunata della nazione? Descrive con un certo voyeurismo le ultime frontiere di quell’arte di arrangiarsi sessualmente che ha sempre fatto da pendant ai divieti dottrinali (inerpicandosi in statistiche sul boom del sesso orale tra le stesse fanciulle che si battono in difesa della propria verginità)? Ripropone la questione del danno psichico diffuso tra i giovani dal rovinoso affair Clinton-Lewinsky e dalla sua squallida rappresentazione del sesso senza futuro? Oppure lascia intendere che l’importante per un giovane americano sia non restare indietro dal punto di vista della strutturazione sociale, tanto più in ambito universitario, insomma che l’affiliazione a una qualsivoglia organizzazione è l’anticamera del lobbismo a cui è sottoposta tutta l’organizzazione economica e politica dell’America che conta qualcosa? Probabile ci sia del vero in ciascuno di questi aspetti. Ma nel ritratto dell’America sempre più balbettante di questi tempi, dove s’intrecciano i ritrovati entusiasmi politici della campagna-Obama (non si sa ancora quanto venati di effimero) e gli strilli dei giornali che fanno a gara a gridare alla nuova Grande Depressione, in questo quadro destabilizzato, ci colpisce soprattutto l’appello a una condotta di «forza» prodotto dalla giovane vergine di provincia. Tener duro contro le tentazioni, non cedere il proprio corpo, preservarlo per la fantasticata comunione dei sentimenti con l’unico, vero, possibile amore. Uno slancio, per quanto ingenuo e artificioso appaia, che va in direzione dell’autostima, della difesa del sé dall’assedio delle insicurezze. Anche per questo, prima di sfottere le vergini americane e i loro volantinaggi sulla porta delle aule all’insegna del «Perché non aspetti?», viene un moto di simpatia. Nella speranza che non venga scambiato per una strategica variazione nell’inesauribile partitura del rimorchio sessuale.

l’Unità 7.4.08
Paleoantropologia. Nuove scoperte su l’Orrorin tugenesis
Camminava eretto 6 milioni di anni fa
di Davide Ludovisi


Nel 2000 in Kenia sono stati scoperti dei fossili che hanno scatenato da subito un intenso dibattito scientifico. Si trattava dei resti di un antenato umano risalente a sei milioni di anni fa, chiamato Orrorin tugenesis. Ora nuove analisi fatte dagli antropologi statunitensi Brian Richmond della George Washington University e da William Jungers della Stony Brook University di New York e pubblicate su Science, rivelano che già sei milioni di anni fa questo ominide era in grado di avere una deambulazione eretta. Le ossa fossili hanno infatti rivelato una notevole somiglianza con le analoghe strutture di Australopithecus e Paranthropus, che risalgono a un periodo ben più recente, tra i tre e i due milioni di anni fa.
Il paleontologo francese Martin Pickford, del Collège de France, che assieme alla collega Brigitte Senut ha scoperto i resti dell’Orrorin tugenesis, si dichiara soddisfatto: «Io e i miei colleghi abbiamo sempre sostenuto che l’Orrorin fosse bipede. All’inizio alcuni scienziati non concordarono con noi, ma la maggior parte ora si sono ricreduti».
«I nuovi studi lo confermano: i resti femorali dell’Orrorin suggeriscono che avesse un’andatura bipede e ciò lo rende un antico ominide», non una semplice scimmia, quindi, spiega Daniel Gebo, antropologo della Northern Illinois University e noto esperto di bipedismo. Le prime Tac sulle ossa dell’anca dell’Orrorin avevano fatto avanzare l’ipotesi che possedesse una postura simile alla scimmia, per potersi arrampicare sugli alberi. Gli scienziati americani, analizzando i femori di Orrorin e confrontandoli con quelli di altri ominidi fossili, delle grandi scimmie e dell’uomo, hanno invece concluso che l’articolazione dell’anca del nostro vecchio progenitore era perfettamente adatta a un’andatura bipede, andatura che venne mantenuta senza grossi cambiamenti per i successivi quattro milioni di anni.
«Lo studio dimostra che l’andatura eretta è una delle primissime caratteristiche umane ad essersi evoluta», racconta Brian Richmond. «Queste analisi confermano che i nostri primi progenitori erano adatti a camminare su due gambe già circa sei milioni di anni fa, appena dopo la separazione tra gli umani e gli scimpanzé». Il successo della nostra specie deve molto all’ottimo design delle nostre anche, quindi.
«Avere la prova che Orrorin sia stato uno dei primissimi antenati umani con un’andatura eretta è molto importante perché vogliamo conoscere le cause per le quali a un certo punto i nostri antenati si sono differenziati da quelli degli scimpanzé», spiega John Hawks, paleoantropologo dell’University of Wisconsin. «Ora - continua Richmond - la nuova sfida è capire che cosa abbia accelerato il passaggio da questi primi fortunati adattamenti della conformazione corporea a quelli più simili ai nostri, affermatisi circa due milioni di anni fa nei primi membri del genere Homo: cioè lunghe gambe, grandi giunture dell’anca, dita corte e diritte».

l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane
l’Unità 7.4.08
L’ultimatum per le donne dei libri
di Bruno Ugolini


Hanno un compito delicato e difficile. Sono in ventisei, quasi tutte donne. Non hanno a che fare con complicati macchinari. La loro non è una fatica manuale, è una fatica degli occhi e della mente. Maneggiano dalla mattina alla sera libri antichi e moderni, un patrimonio raro e prezioso. Alcune di loro in queste settimane, per fare un esempio, hanno analizzato testi del Cinquecento. Hanno imparato una professione, quella del bibliotecario. Lavorano da molti anni, dal 2004, nelle varie stanze del quarto piano della Biblioteca nazionale centrale di Roma. Non hanno trovato quel lavoro per caso. Sono state selezionate, raccontano in un’Email, sulla base di titoli sudati: laurea, curricula, specializzazioni, esperienze professionali. E una delle tante vicende che prendono di petto un tema che in questa campagna elettorale è stato sollevato da Veltroni. Raccontano, con una punta d’orgoglio, d’essere bibliotecari dell’Iccu, l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche. Un Istituto nato a seguito della costituzione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il compito di catalogare l’intero patrimonio bibliografico nazionale, a garanzia dello sviluppo di servizi di uguale livello su tutto il territorio nazionale. Un lavoro di soddisfazione: sanno che quei libri rappresentano una ricchezza da custodire e riordinare per questo paese frastornato. Ora però sono sommerse da drammatiche preoccupazioni. Il loro lavoro, infatti, come capita a tanti in Italia, magari trattati con qualche faciloneria come bamboccioni, non è considerato stabile. L’amministrazione pubblica ha stabilito con loro contratti di collaborazione, senza ricorrere, come spesso si fa, all’impiego di cooperative e a forme di cottimo nascosto. E così hanno potuto percepire finora uno stipendio pari a circa 1100 euro il mese, passando via via di contratto in contratto. Ora però, raccontano, sono «in scadenza». La data finale è il 31 maggio 2008. Qui dovrebbero trovare un’amara conclusione, le loro carriere professionali e le loro possibilità non solo di reddito, ma di un’esistenza in qualche misura appagante. Non è una scadenza obbligatoria, collegata alla fine di un progetto. Le loro incombenze investono l’attività istituzionale dell’Iccu, un’attività non certo esaurita. L’ultimatum, così, rappresenta un duro colpo. Gran parte di quelle donne, dai 30 anni in su, hanno dal 2004 organizzato la propria vita, si sono sposate, hanno avuto figli. Ed ora? Ora s’interrogano sulle cause del licenziamento. È una questione di soldi? Eppure lo Stato, in tutti questi anni, dal 2004 in poi, ha investito tempo e denaro per la loro formazione, per adeguare la loro professione. Un investimento che ora si vorrebbe gettare alle ortiche. Un atto di spreco incurante di persone che con il loro lavoro, rilevano, contribuiscono a creare e conservare la cultura del nostro paese. E aggiungono: «Ci chiediamo quale sia il motivo che porta il mondo politico in generale, ora alla vigilia delle elezioni, a tuonare contro il precariato, definito piaga ed emergenza sociale, ma a tacere sulle modalità di regolarizzazione di quanti abbiano contratti atipici in essere». Un invito, insomma, ad approfondire gli impegni già assunti (ad esempio dal Pd) per un giusto compenso ai precari e per favorire processi di stabilizzazione. Queste donne testimoniano di numerosi casi di persone con anni di contratto atipico e che rivendicano, dopo una tale prolungata fase, non la chiusura di ogni rapporto di lavoro, bensì un rapporto fisso. Scrivono ancora le nostre interlocutrici di volere «un contratto di lavoro dignitoso, in cambio di un lavoro di alto profilo e qualità». Pretendono che lo Stato non le butti via, buttando così una parte di se stesso. Ricordano a tutti noi: «La cultura non è meno importante della Tav del Corridoio 5 o del ponte sullo Stretto. La cultura è un’infrastruttura non tangibile, ma altrettanto concreta».
http://ugolini.blogspot.com/

l’Unità 7.4.08
Ferrara, oratore a senso unico
di Luigi Cancrini


La piazza bolognese che lancia sassi e pomodori contro Giuliano Ferrara è stata criticata con forza un po’ da tutti. L’impressione che ho, leggendo, è che le critiche nascondessero, tuttavia, un certo compiacimento. Mi sbaglio? Lei che ne pensa?
Lettera firmata

Il problema fondamentale della politica nelle democrazie moderne è stato correttamente indicato da Chomsky e da Herman e da molti altri come un problema di accesso alla comunicazione di massa. Come ben dimostrato ancora una volta da questa ultima campagna elettorale, il numero delle persone che hanno la possibilità non solo di parlare ma anche di decidere di che cosa si parla, di stabilire l’agenda degli argomenti rilevanti e di definire l’ordine delle possibili soluzioni è estremamente limitato. Osservato da questo punto di vista e al di là del merito, quella che si intravede dietro l’episodio comunque sgradevole di Bologna è una ingiusta (e poco democratica) distribuzione del potere fra un uomo che è a tutti gli effetti un Vip e può per questo motivo utilizzare la sua capacità e la sua non comune possibilità di trovare spazio su tutti i media del Paese (con rubriche e giornali suoi ma con una presenza fra le più invadenti anche sugli altri giornali e nei dibattiti televisivi non diretti da lui) per dare voce ad una sua crisi personale su un tema «eticamente sensibile» e il resto delle persone normali: quelle che non hanno nessuna possibilità di dire la loro sui media e che anche oggi, sulla piazza, sono costrette solo ad ascoltare e impossibilitate, nei fatti, a replicare. Nel silenzio imbarazzato e imbarazzante di quelli che sono, a tutti gli effetti, i due grandi protagonisti della vicenda elettorale impegnati in una corsa al centro che rende difficile trovare argomentazioni su cui si rischia di irritare il Papa e la Curia. Ma nel silenzio imbarazzato e imbarazzante, soprattutto, delle televisioni e dei grandi giornali che pensano di dover rispettare, nel nome di una par condicio che li libera dal dovere di critica, le condizioni di extraterritorialità («lo dice in campagna elettorale, noi dobbiamo solo riferire») delle sciocchezze terroristiche dette da Ferrara su un tema che meriterebbe ben altra capacità di riflessione e di rispetto.
L’aborto è questione che riguarda da vicino la coscienza e la sensibilità di ognuno di noi (e dunque di tutti quelli che si trovavano quel giorno in quella piazza) ed è davvero assurdo e per molti versi fastidioso sentire persone che ne parlano da un palco in modo così apertamente provocatorio: con tanta sicurezza, cioè, e con tanta violenza. Travestito da Gesù nel tempio, Giuliano Ferrara che si scaglia contro l’aborto considerato come il male del mondo non è credibile semplicemente perché la gente non può fare a meno di chiedersi da che pulpito viene quella predica. Solo chi è senza peccato può scagliare la prima pietra e davvero assai goffo è il tentativo fatto da un leader politico improvvisato di presentarsi come campione della moralità pubblica dopo essere stato, per tanti anni, fra i protagonisti più compiacenti e più premiati di un circo mediatico in cui la signora morale (così la chiamava Marx) è abitualmente assai trascurata. Sentirlo insultare (insulti sono purtroppo i suoi, che se ne renda conto o no) le persone che sono costrette (comunque dolorosamente, pagando comunque prezzi personali pesanti) ad affrontare il tema dell’aborto nel concreto della loro vita, vedere come si muovono intorno a questo nuovo tipo di furore (potente e ieratico, megalomanico e inutilmente presuntuoso) le angosce persecutorie di tante persone che stanno male (e che a questo star male cercano sollievo canalizzando impropriamente sugli altri una aggressività legata ai loro sensi di colpa) fa molta pena o più semplicemente una grande rabbia. Impossibilitati come erano nei fatti a contraddire un oratore così arrogante, quelli che non la pensavano come lui, quelli che si sentivano offesi dai suoi modi e dalle sue parole hanno comunicato con lui utilizzando i fischi e i pomodori. Abbassandosi di fatto al livello che era stato loro proposto.
Sono stato invitato una sola volta da Ferrara ad uno dei suoi talk-show. Non ero d’accordo con lui (ce l’aveva quella volta con i giudici e con i genitori di Rignano Flaminio) e lui è stato così villano pubblicamente da sentirsi costretto (nel nome forse dell’amicizia che avevo avuto con suo padre in passato) a chiedermene scusa poi in privato. Mi sono chiesto molte volte da allora il perché di tanta rabbia e di tanta sicurezza. Quello che me ne è rimasto come ricordo è il retrogusto amaro di una situazione in cui chi ha in mano le chiavi per l’accesso ai media pensa di poter condizionare e ricattare chi, facendo politica e non facendo parte del mondo dei Vip, di questo ha (o si pensa che abbia) bisogno.
Siamo di nuovo al punto, caro lettore, Chomsky ha ragione quando dice che oggi lo squilibrio fondamentale non è più solo quello che si determina intorno alla proprietà delle strutture di produzione ma anche e, a tratti, soprattutto quello che si determina intorno alla proprietà e al controllo delle strutture che governano l’informazione. Segnala proprio questo, in fondo, l’episodio di Bologna. Chiamando l’elettore che crede ancora nella politica a porsi nel momento del voto una domanda semplice sul perché l’agenda politica di questa campagna elettorale abbia ruotato sempre intorno ai soldi (da dare o da non togliere con promesse probabilmente irrealizzabili su salari, bonus e pensioni ai cittadini o alle famiglie) e mai o quasi mai intorno alla esigibilità dei diritti negati dalla debolezza sempre più grave dei servizi che si occupano dei bambini e degli anziani, dei pazienti psichiatrici e dei tossicodipendenti, degli immigrati e dei minori che arrivano con loro. Dei diritti di quelli che contano poco, cioè, perché non hanno rappresentanti: in politica, sui giornali e nei talk show televisivi.

Repubblica 7.4.08
Dossier Onu contro l'Italia "Discrimina gli zingari"
Anche gli sgomberi nel mirino del Cerd. "E alcuni politici incitano all'odio razziale"
di Davide Carlucci


"Negli ultimi mesi l´isteria anti rom ha raggiunto livelli allarmanti"
Critiche allo smantellamento dei campi senza dare un tetto alle persone evacuate

MILANO - In Italia è in corso «una campagna di discriminazione» senza precedenti contro rom e sinti. E per fermarla bisogna anche «perseguire i politici che incitano all´odio razziale». La tesi è contenuta nell´ultimo rapporto del Cerd, il comitato internazionale per l´eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale delle Nazioni unite. È un duro atto d´accusa all´Italia, colpevole, secondo l´organismo - che raccoglie le segnalazioni di Ong e associazioni - di diversi atti di segregazione verso le due comunità. Sono elencate tutte le contestazioni sugli sgomberi dei campi rom avvenuti negli ultimi mesi a Milano, Roma, Bologna, Pavia e altre città, mentre un robusto capitolo è dedicato alle esternazioni, riportate da stampa e tv, di leader come Gianfranco Fini, che il 4 novembre in un´intervista al Corriere della sera si è chiesto «come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavorare perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi».
La relazione sull´«antiziganismo» sarà resa pubblica domani a Milano - dove sono ancora roventi le polemiche per il recente sgombero del campo della Bovisasca - durante un incontro pubblico organizzato da Dijana Pavlovic, attrice e attivista rom candidata per la Sinistra Arcobaleno. Critiche al decreto del governo sull´allontanamento dei rom che commettono reati e agli sgomberi ciechi, senza la garanzia di un tetto per le persone evacuate. Molte pagine del documento riguardano le «discriminazioni nell´accesso ai diritti sociali, politici, civili ed economici». A pagina 17 si nota «con seria preoccupazione che nei recenti mesi, in seguito all´avvio delle operazioni previste dai patti di sicurezza in varie città italiane, l´isteria anti-Rom ha raggiunto nuovi e allarmanti livelli nei media». Nelle roulotte e nelle baracche, così, si respira un´atmosfera di paura al punto che alcune famiglie rom e sinti residenti a Pescara da generazioni che hanno chiesto di cambiare i loro cognomi per celare le loro reali origini. Abusi, secondo il rapporto, sarebbero stati commessi anche dalla polizia durante i controlli nel campo di via Casilino 900 di Roma, nell´insediamento di Stupinigi, alle porte di Torino e a Mantova. Episodi che vengono accostati alle violenze commesse da squadracce xenofobe come gli incendi che hanno colpito due accampamenti a Roma il 3 gennaio, o il raid sventato l´8 novembre a Torino dove, già un mese prima, si è sfiorata la strage per un incendio causato dal lancio di bombe molotov. La «discriminazione nell´accesso alla casa» sarebbe alla base delle frequenti tragedie come la morte dei quattro bambini di Livorno o come i tre incendi mortali del Casilino, di Caserta e di Bologna. Per non parlare delle bombe ecologiche: a Bolzano si sta cercando una soluzione per centinaia di rom accampati in un´area fortemente contaminata. Il rapporto prescrive all´Italia venti raccomandazioni, tra le quali il riconoscimento dei sinti e dei rom come minoranze nazionali e il ricorso all´azione penale contro i politici responsabili di incitazione all´odio razziale.

Repubblica 7.4.08
Un omaggio a due ricchissimi mercanti d'arte russi alla Royal Academy
Picasso, Matisse, Renoir sulla via di Mosca


LONDRA. Ai mercanti, ai mecenati, ai collezionisti è dedicata la bellissima mostra "Dalla Russia", in corso alla Royal Academy di Londra fino al 18 aprile. Un omaggio ai due mercanti russi Sergey Shchukin e Ivan Morozov. Due commercianti moscoviti della fine del secolo XIX, ricchissimi, rivali tra di loro, entrambi ansiosi di far conoscere in patria le novità parigine nel campo dell´arte.
Ambroise Vollard il mercante di Césanne, diceva di Morozov: «È un russo che non contratta e non bada a spese». Fu così che prese la via di Mosca, con ogni mezzo di trasporto, una incredibile quantità di opere degli impressionisti francesi e non solo. I curatori Ann Dumas e Norman Rosenthal hanno realizzato una mostra intellettualmente ambiziosa e visivamente affascinante. Morozov, dei due, era forse di gusti più conservatori, ma Shchukin acquistò un centinaio di opere di Picasso del periodo rosa, blu, cubista, e divenne il più importante mecenate di Matisse, al quale commissionò, nel 1909, La danza, l´impressionante murale oggi all´Hermitage. La mostra, ricca di centoventi capolavori, provenienti dai musei di Mosca e di San Pietroburgo, si divide in due sezioni: i dipinti francesi che i due mercanti fecero arrivare in Russia e le opere degli artisti russi.
Shchukin, fino ai primi del secolo non aveva amato particolarmente Picasso, ma racconta nelle sue memorie: «Sollecitato dagli amici ne acquistai uno. A Mosca però non sapevo dove sistemarlo. Non andava d´accordo con il resto della collezione. Alla fine lo collocai accanto alla porta d´ingresso. Ci passavo davanti tutti i giorni e naturalmente gli davo uno sguardo. Divenne un´abitudine inconscia. Dopo un mese mi resi conto che se non vedevo il dipinto non mi sentivo a mio agio e la colazione mi andava di traverso. Perché? Realizzai allora che quel quadro aveva una spina dorsale di ferro e tutti gli altri mi sembrava l´avessero di cotone». In breve Shchukin divenne "Picasso dipendente". Quello che aveva stregato Shchukin era quanto di barbaro, di violento, di essenziale c´era nell´arte di Picasso. E barbaro, violento, essenziale, sono fra gli elementi fondamentali della pittura russa della seconda metà dell´Ottocento. «Gratta un russo e troverai un barbaro». Non era concepibile, allora, che si potesse dipingere in Russia un´opera come Le dejeuner sur l´herbe di Manet. Per diversi motivi, sociali, religiosi e francamente realistici. Se si entra nel dipinto di Renoir Le moulin de la Galette e si scostano le fronde che nascondono in parte il tavolo e i commensali si avverte inevitabile un odore di cucina, cucina ricca e borghese. Sensazione impensabile per qualsiasi dipinto russo.
Ancora nel 1856, il giovane conte Leone Tolstoi scrive nel suo diario: «Il mio atteggiamento nei confronti dei servi della gleba comincia a darmi molti pensieri». La schiavitù venne abolita in Russia nel 1861 dallo zar riformatore Alessandro II, ucciso vent´anni dopo dilaniato dalla bomba di un terrorista. La conseguenza dei pensieri di Tolstoi, e non solo dei suoi, fu che l´elemento popolare, il neoprimitivismo, i grandi temi dei lavoratori, diventano fondamentali e ricchi di fermenti per tutta l´arte russa. Il grande Ilya Repin, l´artista più longevo e influente della scuola dei cosiddetti peredvizniki, gli ambulanti, ce ne regala una vera e propria enciclopedia, come I battaglieri del Volga, o Ottobre 1805, ma Repin, e come poteva farne a meno?, ascolta Tolstoi che dice: «Per dipingere ci vuole il cuore» e quando esegue il suo memorabile ritratto, lo ritrae nella sua tenuta di Jasnaia Poiana, vestito da contadino, a piedi nudi sull´erba, le mani dentro la cintura, come un povero pellegrino.
La profonda attenzione alla religione c´è sempre stata nella cultura russa fin dal tempo delle icone. La rassegna lo mette bene in rilievo, dando spazio ai contadini senza volto, vere immagini di Cristo, di Kasimir Malevic, che a volte li dipinge davanti a una croce, o meglio davanti a un´idea astratta di croce. Malevic minimalizza le immagini fino a tornare all´archetipo dell´icona. E un pathos religioso dal quale nascono le "croci nere", i "cerchi neri", i "quadrati neri". E siamo a qualche decennio prima di Rothko. Insomma il risultato di tanta pittura diversa che «arrivò a Mosca grazie a due mercanti di tessuti come Shchukin e Morozov», quando cominciarono a esporre Gauguin e Cézanne, e poi Picasso, Matisse e Derain, fu che gli artisti russi si trovarono a confrontarsi con un vero e proprio "nuovo corso", e l´effetto fu che la modernità, nel momento in cui toccò il suolo della Santa Madre Russia, si slavizzò nello stile vivace e selvaggio del neoprimitivismo, a volte anche romantico.
Ma forse la sezione russa della mostra, dedicata ai ritratti, è quella più coinvolgente. Il ritratto di Ida Lvovna Rubistein, la danzatrice famosa per i suoi ruoli di Cleopatra e di Sherazade, non è solo un capolavoro di Valentin Serov, ma è uno dei punti chiave del modernismo russo. È sì un bassorilievo arcaico, ma la protagonista si esibisce nella sua totale e affilata nudità con sicurezza malinconica e insolente. Forse, è proprio nel ritratto che si esprime meglio l´ansia rivoluzionaria, l´irrequietezza e spesso l´ambiguità degli artisti russi.
Ma "Dalla Russia" va oltre, oltre i ritratti, i paesaggi, il significato dei cubo futuristi, dei suprematisti, degli strutturalisti, perché sistemando i dipinti russi insieme ai francesi che spesso li hanno ispirati, alla Royal Academy si mette in evidenza il dialogo tra i padri fondatori, chiamiamoli così, i loro discendenti ribelli e rivoluzionari.

Repubblica 7.4.08
Appello di Moretti, Bellocchio & Co. contro Cinecittà
Braccio di ferro su Filmitalia il cinema italiano si divide
Niente più autonomia "Liberazione" parla di colpo di mano
di Franco Montini


ROMA - Insorge il cinema italiano con un appello lanciato da quaranta illustri cineasti - una trentina di registi, fra gli altri Bellocchio, Montaldo, Moretti, Muccino, Ozpetek, Piccioni, Rubini, Salvatores, Scola, Virzì ed una decina di produttori - contro l´ipotesi di incorporazione di Filmitalia, la società presieduta da Irene Bignardi che si occupa della promozione del cinema italiano all´estero, all´interno del Gruppo Pubblico. Il provvedimento dovrebbe essere discusso e approvato oggi dal consiglio d´amministrazione di Cinecittà Holding. Il quotidiano di Rifondazione Comunista Liberazione parla di colpo di mano innescando un´implicita polemica con il Partito Democratico, cui fanno riferimento i vertici di Cinecittà. Ma Daniele Luchetti, uno dei firmatari, parla solo di cinema: «In questi anni Filmitalia ha svolto una meritevole azione di diffusione del nostro cinema in tutto il mondo, riuscendo a sopperire alla scarsità del budget a disposizione, dieci volte inferiore a quello di Unifrance, l´analoga agenzia transalpina, grazie all´agilità della struttura, alla rapidità nel assumere le decisioni operative, alla mancanza di burocrazia. Temiamo che se Filmitalia venisse assorbita in una struttura più complicata, come è Cinecittà Holding, tutto diverrebbe più difficile e farraginoso e per la struttura sarebbe impossibile lavorare come ha sempre fatto».
Tuttavia le osservazioni di autori e produttori non convincono affatto i vertici del Gruppo Pubblico. «Nonostante i firmatari dell´appello siano tutte personalità di prestigio - annuncia Alessandro Battisti, presidente di Cinecittà Holding - non siamo disposti a tornare indietro. La mia impressione è che molti dei firmatari non siano sufficientemente informati sul progetto: non si tratta affatto di ridimensionare il ruolo e l´attività di Filmitalia, né tanto meno di chiuderla, bensì l´esatto contrario. Ciò che abbiamo previsto è una fusione per incorporazione, formula che garantisce i livelli occupazionali di Filmitalia. Attraverso questo meccanismo si eliminano semplicemente una serie di spese per il mantenimento della struttura».

Corriere della Sera 7.4.08
Parole, struttura linguistica, clima retorico del proemio: la ricostruzione filologica di un «documento non autentico»
«Canfora ha ragione. Quel papiro non è di Artemidoro»
di Maurizio Calvesi


La tesi di Calvesi: ha ragione Canfora. Simonidis copiò un testo dell'800 del tedesco Carl Ritter

Il testo del discusso «papiro di Artemidoro» venne presentato per la prima volta nel 1998 dalla rivista specializzata «Archiv für Papyrusforschung»

La vicenda del papiro cosiddetto di Artemidoro (che conterrebbe frammenti di una sua opera di geografia, preceduti da un proemio tra il mistico e il filosofico, risalendo al I secolo a.C.) è ben nota ai lettori del Corriere dopo la sua esposizione a Torino e a Berlino.Ma penso che la difficoltà di districarsi tra lemmi di greco antico non abbia consentito ancora a tutti di comprendere, pienamente, le pur indiscutibili ragioni di Luciano Canfora, che ha scoperto la non autenticità del manufatto. Ineccepibile è anche la sua attribuzione del papiro al famoso e abilissimo falsario greco Costantino Simonidis, nato nell'isola di Simi nel 1820 e morto in Egitto nel 1890. Ciò che ora ho trovato, in una mia autonoma ricerca, potrà forse consentire un più agevole orientamento del lettore, giacché si tratta del testo moderno da cui il falsario sembra aver tratto alcuni concetti e alcune parole, nonché lo stesso clima retorico, del solennissimo «proemio».
Questo testo è opera del grande scienziato tedesco Carl Ritter (1779-1859) che, famoso per la sua monumentale Erdkunde di vocazione storico-umanistica, ovvero un'opera di geografia correlata all'uomo, fu uno degli artefici della «rinascita » della geografia nel XIX secolo. Nel 1836 ebbe larga diffusione la pubblicazione in francese della sua Géographie générale comparée, le cui primissime righe introduttive trovano un pronto riscontro nelle primissime righe dell'introduzione, o «proemio», del sedicente trattato di geografia di Artemidoro. Il confronto tra un testo francese ed uno in greco antico non risulterebbe facilmente accessibile, trascrivo dunque entrambi gli incipit in lingua italiana.
Così, nel suo enfatico scritto, il Ritter esordisce: «Nell'introduzione a un'opera che ha per scopo di accogliere, in un corpo intimamente unito nelle sue parti, le diverse nozioni sulla terra, prima di esporre il piano è indispensabile che si indichi ciò che ha rapporto, in questa scienza, con l'uomo. (…) L'uomo morale, l'uomo che vuole agire in modo efficace, deve avere l'intima coscienza delle proprie forze (…); ogni società di uomini deve misurare anche le proprie forze interiori ed esteriori».
E così esordisce il «proemio»: «Chi intende dedicarsi a un'opera geografica è indispensabile che, prima, mostri la propria scienza (o "il proprio sapere") in tutta la sua interezza misurando il peso della propria anima (ovvero: "plasmando la propria anima") in rapporto a tale impegno e preparandosi con gli strumenti dello spirito preposti alla volontà per quanto lo consenta la sua forza, senza che l'anima ela volontà vengano meno».
Ho girato in corsivo «volontà», «forza », «anima» perché ci sono anche queste parole, e c'è anche il divino, subito dopo, nell'introduzione del Ritter: «È l'accordo della volontà con la forza che, laddove la chiarezza si unisce alla verità, si manifestano in atti sublimi ed eterni» e «fanno fremere la nostra anima nel presentimento di un Dio. Ma quale è la vera volontà dell'uomo? (…) In che modo la volontà e la forza si compenetrano?». A sua volta, poi, il papiro fa appello al divino, invocando «le divine Muse» (letteralmente «dee del pensiero», maestose, eterne) e «la divina filosofia».
Il tono predicatorio, mistico e quasi esaltato del Ritter è lo stesso del proemio di Simonidis, ma soprattutto ricorrono alcune parole, e alcuni dei concetti sono analoghi. (Fermo restando che altre idee di Simonidis discendono da Strabone e che il lessico è debitore al vescovo bizantino Eustazio, come dimostrato nel recente libro di Canfora).
Ma l'accostamento di singole frasi potrà far meglio percepire alcune sorprendenti affinità: «l'uomo che vuole» (Ritter) ha riscontro in «chi intende» (papiro). «Un'opera che ha per scopo di ricevere in un corpo intimamente unito nelle sue parti» (Ritter) corrisponde all'immagine offerta dal papiro di una «scienza in tutta la sua interezza», ovvero di un sapere umanisticamente integrale. (Luciano Bossina, in un intervento nel libro di Canfora, aveva parlato per questa frase di «affermazione dell'unità del sapere»).
«Prima è indispensabile che si indichi ciò che ha rapporto» (Ritter), viene quasi tradotto nel papiro in «prima è indispensabile che mostri (…) in rapporto». «Avere la coscienza intima delle proprie forze », «misurare le proprie forze interiori» (Ritter) andrà posto a riscontro con la frase del papiro «misurando (ovvero: "plasmando") il peso della propria anima», a proposito della quale Bossina aveva già scritto: «Al geografo è dunque richiesto di misurare preventivamente le proprie forze». «L'accordo della volontà con la forza», «la volontà e la forza» (Ritter), trovano eco in «la volontà per quanto lo consente la sua forza», «lo spirito e la volontà » (papiro).
La frase inizialmente citata del Ritter — «Nell'introduzione a un'opera che ha per scopo di accogliere (…) le diverse nozioni sulla terra, è prima indispensabile che si indichi ciò che ha rapporto con l'uomo» — torna a trovare riscontri anche nelle considerazioni finali del «Proemio ». Il Ritter intende dire che nell'introdurre un'opera che riunisce in un corpo di sapere unitario studi sulla terra e sulle varie terre, è necessario, prima di esporre il programma, indicare ciò che (ovvero "i luoghi che") ha ("hanno") un diretto rapporto con l'uomo. Ed ecco Simonidis: «L'uomo arriva a possedere tutte le parti del mondo e si consacra tutto intero al (…) divino parametro della filosofia. Allo stesso modo anche il geografo, approdato sulla terra ferma di un paese e conosciuta l'estensione del paese che gli sta intorno e dei paesi che stanno altrove (...), fermandosi si accinge a conciliare la propria anima ("a entrare in rapporto") con il paese che gli sta sotto gli occhi».
«Io — leggiamo nel papiro — sono pronto a porla (la geografia) sullo stesso piano della più divina filosofia»: è proprio questa in buona sostanza, anche se rudimentalmente espressa, la novità della concezione geografica di Karl Ritter, discepolo del filosofo e teologo J.G. Herder.
Di fronte a così sospette assonanze, sarà inutile invocare analisi scientifiche che rivelano l'antichità del papiro e la composizione degli inchiostri. Simonidis conosceva benissimo tale composizione chimica, come si legge in articoli a lui dedicati nel XIX secolo e resi noti dal Canfora, e ovviamente si serviva di papiri antichi.
C'è però, mescolata al suo animo truffaldino, una componente «risorgimentalmente » nobile (la Grecia ha avuto il suo Risorgimento, con moti d'indipendenza indirizzati anche contro un re proprio di ceppo tedesco, Ottone di Baviera). Si potrebbe arrivare a pensare che il «patriota » Simonidis, con il suo falso, volle dimostrare che non solo a Strabone, ma anche al suo precursore Artemidoro, ovvero a tutta l'antica cultura greca, risale il merito di aver precorso la concezione moderna (ottocentesca e soprattutto germanica) della geografia come «profonda » scienza umana.
In ogni caso il simulato Artemidoro è dunque un documento affascinante, come spia di uno degli aspetti più nascosti e intriganti della cultura nel XIX secolo. Chi ha acquistato, confidando nel parere di studiosi accreditati, il manoscritto di Simonidis si trova ora in possesso di un cimelio certo inferiore in termini economici alla stima iniziale, ma di non trascurabile interesse da un punto di vista culturale.

domenica 6 aprile 2008

l’Unità 6.4.08
A «Palazzo Te» i reperti dell’Ellade classica importati in Italia dai conquistatori romani in seguito destinati a diventare «collezionisti»
Mantova, la bella Grecia che catturò Roma
di Ibio Paolucci


«La forza del bello», che è il titolo di una stupenda mostra in corso a Mantova, è talmente forte che il poeta Orazio scrisse che «una volta conquistata, la Grecia conquistò i suoi selvaggi vincitori e portò le arti fra i contadini del Lazio». Che poi, tanto selvaggi i romani non erano, anche se faticarono un po’ a capire l’estrema bellezza dei maestri ateniesi. In un primo tempo, difatti, i generali conquistatori si servivano delle opere d’arte come altrettanti trofei da mostrare durante le grandi parate nelle strade di Roma. Poi, però, grazie a personaggi più sensibili al bello, ne compresero l’importanza tanto da diventare accaniti collezionisti e da richiamare, per la crescente richiesta, parecchie botteghe greche nella capitale.
La rassegna in questione, che presenta opere originali e copie romane, è esposta nella sede ideale di Palazzo Te, creazione di Giulio Romano. Così molti capolavori dell’arte greca figurano accanto alle rinascimentali decorazioni dell’allievo preferito di Raffaello.
La mostra ha per sottotitolo «L’arte greca conquista l’Italia», ed è nata da un’idea di Salvatore Settis e Paul Zanker, realizzata col sostegno di Lucia Franchi e dello staff del Centro Internazionale di arte e cultura di Palazzo Te. Il professor Settis, inoltre, ha anche curato, come meglio non si poteva, la mostra, accompagnata da un bel catalogo di Skira, assieme a Maria Luisa Catoni. Marmi, bronzi, ceramiche, terrecotte, affreschi: 120 pezzi in tutto, prestati da collezioni private e da musei di tutto il mondo e, fra questi, anche il celeberrimo vaso di Eufronio, del 515 a.C, restituito di recente dal Metropolitan Museum di New York all’Italia.
Atene e Roma, dunque. «L’appropriazione della cultura greca da parte dei romani - osserva Paul Zanker - è un fenomeno essenzialmente privo di analogie dal punto di vista storico: una società culturalmente inferiore (quella romana) si appropria in modo così assoluto della cultura di coloro che ha sconfitto (i Greci), che quest’ultima diventa parte integrante della sua identità». Un processo che, grosso modo, ha inizio nel terzo secolo a.C, quando Roma conquista la Magna Grecia e l’Oriente greco. Sempre più diventano presenti nelle abitazioni e nelle ville le opere dei maestri greci. Fra i maggiori collezionisti Lucullo e il pretore Verre, accusato da Cicerone, pure lui collezionista, di avere rapinato opere d’arte, abusando delle propria autorità, una specie di Goering di quei tempi. A partire dal II secolo a.C, arrivano a Roma i primi scultori greci, ben pagati. Ma le opere originali non erano bastanti a soddisfare la richiesta. Da qui il moltiplicarsi delle copie, importantissime, peraltro, quelle che si sono conservate, perché la stragrande maggioranza degli originali sono andati distrutti.
L’ampio percorso della rassegna, che si apre col Torso di Kouros, concesso dal Museo Archeologico di Firenze, ricomposto per la prima volta con la pertinente testa di Osimo, si divide in tre sezioni, che abbracciano un periodo pressochè millenario. Molti i capolavori assoluti, fra cui il ben noto Torso del Belvedere firmato dall’ateniese Apollonio, tanto ammirato da Michelangelo. E molte le repliche romane di Prassitele, Fidia, Policleto, tutte perdute e alcune delle quali, probabilmente, se di bronzo, fuse per fare armi o altri utensili, se di marmo, bruciate per farne calcina. Incantevole, fra i pezzi presenti, la statua bronzea di Apollo del I secolo a.C., prestata dal Louvre. Magnifica la stele funeraria di atleta con fanciullo in marmo del 430 a.C, che viene dal Museo vaticano. Di eccezionale interesse la statua di Zeus, in bronzo, di età arcaica, concessa dal Museo archeologico di Taranto, del 530 a.C. Affascinante il bacino marmoreo di Ascoli Satriano con le figure di Nereidi di straordinaria raffinatezza, che conserva preziosi pigmenti colorati. Quest’ultimo pezzo è esposto con altri, riavuti dal Getty Museum. Tantissime, come si è detto, le distruzioni, continuate, fra l’altro, anche in secoli più vicini a noi, fra il Quattro e il Cinquecento. Valga, in proposito, una lettera di Raffaello al Papa Leone X, che nel 1515 lo aveva nominato Conservatore delle antichità romane. È un grandissimo dolore quello che si prova - scriveva il grande artista - «vedendo quasi il cadavero di quest’alma nobile cittate, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerata». E ancora, facendosi sempre più aspra l’accusa: «Quanti pontefici, padre santo (.. .) hanno permesso le ruine e disfacimenti delli templi antichi, delle statue, delli archi e altri edifici, gloria delli lor fondatori?». E tuttavia, nonostante tutto, malgrado fino a noi sia arrivato ben poco, talmente grande è la forza dell’arte greca, che resta più che mai come modello ineguagliato di bellezza. La rassegna di Mantova ne è una evidente dimostrazione.

l’Unità 6.4.08
Ricerca, ultima fermata
di Pietro Greco


Lo ripete spesso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: se l’Italia non vuole ipotecare il suo futuro, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica devono cessare di essere una importante questione settoriale e devono diventare una grande questione nazionale. Un problema generale del paese. Una priorità assoluta della politica economica e sociale. La chiave - l’unica che abbiamo - per uscire dalla condizioni di declino economico (ma anche culturale e sociale) e avviare lo sviluppo (sostenibile) dell’Italia.
È questo il tema di fondo del manifesto, che non a caso è anche un appello, firmato da Rita Levi Montalcini, Carlo Bernardini, Margherita Hack, Marcello De Cecco e da ben 1.240 altri ricercatori, noti e meno noti, giovani e meno giovani, lanciato dall’Osservatorio Ricerca e che costituisce la base dell’incontro «Il futuro ipotecato! Come se ne esce?» (che si terrà domani 7 aprile dalle 9.30 alle 14.00 a Roma, a Palazzo Marini in Via del Pozzetto 158) con cui la comunità scientifica chiederà ai rappresentanti dei vari partiti politici che si presentano alle elezioni di assumere la consapevolezza culturale della posta in gioco e, di conseguenza, precisi impegni politici da realizzare nella prossima legislatura.
L’appello parte da un’analisi sincera. Da quasi vent’anni l’Italia è in una fase di declino relativo. Le nostre performance economiche peggiorano costantemente rispetto agli altri paesi europei, oltre che rispetto ad altri Paesi sia a economia matura che a economia emergente. La nostra ricchezza aumenta meno che negli altri paesi, la nostra occupazione (soprattutto quella femminile) è inferiore, la produttività pure. La competitività del paese come sistema è molto bassa e tende a scivolare sempre più giù. Ma la crisi non è solo economica. È anche sociale: la disuguaglianza nel nostro paese tendono a crescere; gli stipendi sono più bassi che nel resto d’Europa; si fatica ad arrivare alla quarta e, spesso, alla terza settimana. Ed è anche ecologica: non a caso siamo tra i paesi europei che fanno più fatica a rispettare lo spirito e la lettera di Kyoto; con un tasso elevatissimo di abusivismo edilizio e di distruzione del paesaggio; che a Napoli - ma non solo a Napoli - non riesce a “chiudere il cerchio” dei rifiuti e si ritrova ma monnezza per strada e i veleni nei campi.
Da dove nasce questa congerie di difficoltà che definiamo declino del Paese? Beh, nasce soprattutto dalla specializzazione produttiva del nostro sistema produttivo. Produciamo pochi beni e servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto. Ovvero produciamo molto poco di quei beni e di quei servizi fondati sull’innovazione che sono il motore dell'economia nell'era della conoscenza. Il mondo, là fuori, è cambiato: e noi non ce ne siamo accorti. Quindi cresciamo meno degli altri; le nostre imprese richiedono lavoro meno qualificato degli altri e, di conseguenza, pagano salari più bassi; abbiamo meno lavoro e abbiamo più difficoltà a rispettare l’ambiente. Più in generale: la nostra scarsa capacità di produrre reale innovazione rende stanca la nostra società, quasi rassegnata.
È contro questa cultura della rassegnazione al declino che, dunque, si mobilità la comunità scientifica. Non per chiedere interventi settoriali (pur necessari). Ma per porre un problema generale al paese. Anzi, il problema più generale: come reagire al declino e alla cultura del declino.
Beh, qualsiasi ricetta operativa passa attraverso la piena consapevolezza dell’esistenza del problema. Quella consapevolezza che il Presidente Giorgio Napolitano ha. Ma che i partiti politici non hanno. E, infatti, questo tema decisivo risulta clamorosamente assente dalla campagna elettorale. E la prima domanda che lunedì la comunità scientifica porrà ai rappresentanti dei vari partiti che si presentano alle elezioni è proprio questa: intendete assumere piena consapevolezza che il mondo sta cambiando (anzi è già cambiato), che stiamo entrando nella società e nell’economia della conoscenza e che noi non possiamo restarne fuori se non vogliamo ipotecare il nostro futuro?
Dalla risposta, speriamo positiva, a questa domanda generale derivano a cascata le risposte operative. Che riguardano sia il sostegno alla ricerca pubblica (e all’alta formazione) che allo sviluppo tecnologico delle imprese. Il sostegno alla ricerca pubblica passa, a sua volta, sia attraverso un netto aumento delle risorse, umane e finanziarie, sia attraverso una politica fondata sul rispetto dell’autonomia della ricerca e sul riconoscimento del merito attraverso gli strumenti della valutazione obiettiva. Il sostegno all’innovazione tecnologica passa attraverso una serie di iniziative fiscali, finanziarie, culturali che incentivino le imprese ad accettare la sfida della conoscenza e consentano al sistema Paese di modificare la propria specializzazione produttiva.
Non sono scelte né semplici né indolori. L’impresa è titanica. Ma il Paese non ha altra scelta. E le forze politiche hanno il dovere di tentare. Ecco perché quella che porrà lunedì la comunità scientifica a Roma non è una questione settoriale che riguarda poche decine di migliaia di persone, ma la madre di tutte le domande: vogliamo rassegnarci o vogliamo reagire al declino?

l’Unità 6.4.08
Il miraggio pillola del giorno dopo tra medici obiettori e consultori chiusi
Un´impresa farsela prescrivere nel weekend. Dopo il caso di Pisa, viaggio in asl e ospedali di tutta Italia
di Caterina Paolini


A Roma: "Il bambino potrebbe nascere lo stesso ma deforme" A Napoli: "È un farmaco mortale"

ROMA - Pillola del giorno dopo: un miraggio nei weekend. Quando è un´impresa ottenere la ricetta tra consultori chiusi, medici obiettori ed ospedali gestiti da religiosi come il Galliera di Genova dove il no è la regola. Perché non solo a Pisa il diritto alla pillola, stabilito per legge, viene negato. E comunque se e quando ti fanno finalmente la prescrizione, è una conquista sudata spesso con ore di attesa e umiliazioni. Segnata da giri da un capo all´altro della città chinando il capo davanti a medici obiettori, a gente «che ti guarda e ti fa sentire la persona peggiore della terra. Che ti dice che il bambino potrebbe comunque nascere deforme e con problemi mentali». Ore a insistere con «la paura di essere incinta e l´incubo altrimenti di dover affrontare un aborto», passando per cinque tra ospedali, consultori chiusi, telefonate alla guardia medica. Così racconta Marianna, signora romana che dopo un rapporto non protetto col marito ha attraversato la capitale ricevendo dinieghi a ripetizione. Bussando al Sant´Eugenio e Forlanini prima di avere finalmente la ricetta al Cto Garbatella.
E la sua non è un´eccezione. Lo conferma il viaggio delle croniste di Repubblica nelle maggiori città italiane che hanno avuto attese e risposte diverse nel weekend, quando molti consultori sono chiusi e i medici di conoscenza - tutti possono fare la ricetta senza obbligo di esami o visite - è in vacanza e non si sa a chi rivolgersi. Così c´è chi al Galliera di Genova ha ricevuto un no secco, chi a Palermo è stata mandata in reparto in attesa del ginecologo per la visita, mentre un´altra ragazza a Napoli dopo essersi vista negare da una dottoressa la pillola perché «è un farmaco mortale e io sono contraria anche agli anticoncezionali», ha avuto la prescrizione dopo essere stata informata sui rischi e aver firmato che era la prima volta.
E se a Bologna le guardie mediche sono disponibili 24 ore su 24, e a Bari le croniste hanno ottenuto tre prescrizioni su tre ospedali visitati, a Milano, nonostante la maggioranza di medici obiettori, assicurano di garantire il servizio. Come all´ospedale Sant´Anna di Torino dove si può avere la pillola del giorno dopo in qualsiasi momento, dice il medico Guido Viale. Ed è lì che si rivolgono le donne dopo aver ricevuto rifiuti motivati dall´assenza del ginecologo all´obiezione in altri ospedali cittadini. Di sabato anche a Firenze è faticoso avere la ricetta: solo un consultorio su otto risponde e comunque non c´è il ginecologo. Ospedali e guardie però funzionano: due ore di attesa al Torre Galli, 25 euro di ticket per la ricetta con tanto di farmaco antivomito. Tempi ridotti e prescrizione gratis invece alla guardia medica. Unica spesa gli 11 euro e 20 in farmacia per la pillola.

Repubblica 6.4.08
Wu Zhao, imperatrice maledetta
di Federico Rampini


Oltre duemila anni di tradizione confuciana hanno impresso alla società cinese un ordine patriarcale, dal vertice supremo fino al nucleo familiare. La sola eccezione è stata lei: vissuta dal 624 al 705, governò con pugno di ferro per quasi mezzo secolo Poi fu mitizzata, demonizzata, fatta oggetto di morbose fantasie E odiata, scrisse un contemporaneo, "in egual modo da uomini e dei"
Tutti gli altri sepolcri imperiali hanno una stele funeraria su cui sono scolpiti epitaffi elogiativi. La sua è una pietra liscia, vuota, dove neppure i figli sopravvissuti osarono incidere un pensiero

Vissuto cinque secoli prima di Cristo, il Maestro Kung Fu-Tzu - che in seguito i gesuiti "latinizzarono" come Confucio - non aveva davvero un´alta stima delle donne. Le scarne notizie che abbiamo su di lui ce lo descrivono decisamente come un misogino. Tra le ragioni che lo spinsero a lasciare un incarico politico e a dedicarsi alla filosofia, pesò il sospetto che il suo sovrano fosse irretito e manipolato da un gruppo di danzatrici. Nel dimettersi dal ruolo di consigliere del principe, Confucio citò un´antica canzone: «La lingua di una donna / Può costare all´uomo la sua posizione / Le parole di una donna / Possono costare all´uomo la sua testa». In una raccolta di biografie degli imperatori che gli viene attribuita, c´è questo passaggio: «La gallina non annuncia il sorgere del sole; il canto della gallina all´alba indica la sovversione della famiglia». Per oltre due millenni il confucianesimo ha impresso nella civiltà cinese un ordine patriarcale: come i figli devono rispettare l´autorità degli anziani, così le donne devono obbedienza ai mariti; solo queste regole garantiscono l´armonia sociale e rispecchiano sulla terra l´ordine dell´universo. E per oltre duemila anni, sotto il segno dominante del confucianesimo, la Cina ha sempre avuto imperatori maschi.
Con una eccezione. Una sola. È Wu Zhao l´unica imperatrice della Terra di Mezzo, che visse dal 624 al 705 dopo Cristo, e governò la Cina con pugno di ferro per quasi mezzo secolo. Prima e dopo di lei ci furono sì delle mogli e concubine influenti, capaci talora di manovrare gli imperatori. Ci furono regine-madri e matrigne, reggenti come la vedova Ci Xi, la mamma dell´ultimo imperatore con cui si estinse la dinastia Qing nel 1908. Ma nessuna, salvo Wu Zhao, infranse mai il tabù confuciano che vietava a una donna di esercitare in proprio la carica imperiale. Perciò la figura dell´unica imperatrice cinese giganteggia nella storia. È stata mitizzata o demonizzata; ha suscitato curiosità inesauribili e spesso morbose, che ancora oggi riaffiorano nella letteratura o nel cinema popolare. Femministe e leader politici hanno cercato di impadronirsene e strumentalizzarla.
Era ancora all´apice del suo potere quando uno storico caduto in disgrazia, Luo Binwang, le dedicava nell´anno 684 queste parole di fuoco: «Con il cuore di un serpente e il carattere di una volpe, ha arruolato sicofanti al suo servizio, ha rovinato i giusti. Ha ucciso sua sorella, massacrato i suoi fratelli, assassinato il suo principe consorte e sua madre. È odiata in egual modo dagli uomini e dagli dei». Al che lei rispondeva: «Hanno congiurato contro di me e li ho distrutti. Se siete più abili di loro, tocca a voi: provateci a sfidarmi. Altrimenti siate i miei servi, e risparmiate all´impero lo spettacolo della vostra ridicola disfatta».
L´atmosfera torbida e scabrosa che circonda la sua biografia sembra aleggiare ancora adesso attorno al suo monumento funerario. A settanta km a nordovest dell´antica capitale di Xian (quella dell´esercito di terracotta), il visitatore riconosce da lontano la tomba dell´imperatrice per «le due mammelle», come i cinesi hanno soprannominato le due colline simmetriche che la circondano, ciascuna con una torre che da lontano può assomigliare a un capezzolo. C´è un primo segnale anomalo: tutti gli altri sepolcri imperiali hanno all´ingresso una stele funeraria su cui furono scolpiti epitaffi elogiativi; la stele della tomba di Wu è una pietra liscia, vuota, dove neppure i figli sopravvissuti osarono incidere un pensiero su di lei. È un´omissione che non ha eguali in due millenni di storia imperiale. «È un gesto sinistro - ha commentato il sinologo inglese Jonathan Clements - come se su quella tomba pesassero per sempre l´odio e il rancore dei familiari che lei dominò». Intorno, le statue dei dignitari di corte e degli ambasciatori stranieri sono state decapitate: quasi che una maledizione abbia voluto cancellare tutto ciò che accadde sotto il suo regno.
L´immagine con cui viene evocata più spesso è «volpe traditrice». Ma il ritratto che emerge dalle cronache dell´epoca non è solo negativo, tutt´altro. Ce la descrivono bellissima, secondo i canonici dell´estetica femminile di allora: piacevano le facce rotonde e i fianchi generosi. Attraente doveva esserlo per forza visto che fu selezionata a tredici anni tra le concubine dell´imperatore Taizong (dinastia Sui): un riconoscimento equivalente alla vittoria in un concorso per reginette di bellezza ai nostri tempi. La sua sensualità ha eccitato per i secoli successivi la fantasia. I cinesi sono convinti che fece una rapida carriera all´interno dello harem imperiale perché «offriva prestazioni sessuali che nessun´altra donna osava». Era vanitosa fino al voyeurismo: amava guardarsi in uno specchio mentre faceva l´amore, un´abitudine che avrebbe conservato con vari amanti fino agli ottant´anni. Una spiegazione di quel ritratto di donna sessualmente liberata, perfino aggressiva a letto, è in chiave etnica: all´epoca delle dinastie Sui e poi Tang i cinesi si erano mescolati con tribù dell´Asia centrale, popoli nomadi turcomanni le cui donne portavano i pantaloni, andavano a cavallo e in famiglia avevano più peso delle cinesi.
L´alcova ha un ruolo centrale nella scalata al potere di Wu Zhao. Nel 649, quando muore l´imperatore Taizong, teoricamente lei deve raparsi a zero la testa ed entrare in un convento di vedove imperiali. Così fanno tutte le concubine che non hanno dato un figlio al sovrano. Ma lei si è già assicurata una posizione con il successore. Macchiandosi di incesto imperiale, quando ancora Taizong era vivo lei è diventata l´amante del figlio, il principe Gaozong. Non appena quest´ultimo ascende al trono la concubina si fa mettere incinta. Gli regala il primo erede maschio: una mossa vincente nella lotta per l´influenza alla corte imperiale. Wu indebolisce la posizione della moglie di Gaozong che risulta essere sterile, la fa ripudiare e la sostituisce come prima consorte. Più tardi - per non correre rischi - le farà tagliare braccia e gambe, e l´annegherà in una botte di vino. Nel 660 l´imperatore Gaozong è colpito da un ictus, resta paralizzato. Già da quel momento è Wu Zhao a governare di fatto la Cina, per procura. Alla morte del marito, nel 690 lei osa l´impensabile: si fa incoronare come imperatrice. È un oltraggio alla tradizione patriarcale, una prevaricazione che dovrebbe scontrarsi con resistenze fortissime nella corte e in tutta la classe dirigente. Ma durante gli anni del suo potere-ombra, quando era già lei a esercitare le veci del marito invalido, Wu Zhao si è costruita una formidabile rete di potere. Ha infiltrato la corte imperiale di suoi fedelissimi, spesso parenti, organizzati in una vera e propria polizia segreta: al suo servizio spiano, tramano, torturano e uccidono i potenziali avversari.
La grandezza di Wu Zhao però sta altrove. Lei intuisce che il potere fondato solo sul terrore e sulle congiure di palazzo è fragile ed effimero. Per conquistarsi il consenso della burocrazia imperiale ha una trovata di genio: usa la religione. S´impadronisce del buddismo contro il confucianesimo. L´aiuta in questa operazione uno dei suoi amanti, un commerciante di droghe e cosmetici con cui ha una relazione a partire dal 680. Per poterlo vedere a suo piacimento l´imperatrice lo nomina abate a capo del monastero del Cavallo Bianco, vicino alla città di Luoyang. Con l´aiuto dell´amante-abate, la regina inizia la costruzione di un "culto femminista" per legittimare il proprio potere. Viene riscoperto e glorificato un oscuro testo minore della tradizione buddista, la Sutra della Grande Luna, dove si esalta una divinità femminile, la Signora Celeste Pura e Radiosa. Il testo sacro profetizza che sette secoli dopo la morte di Budda la dea rinascerà in terra incarnandosi in una principessa. L´imperatrice Wu investe generosamente le ricchezze del tesoro pubblico per finanziare nuovi monasteri, templi e statue - tra cui un Budda gigante di diciassette metri nelle celebri grotte di Longmen - tutti devoti al culto della Maitreya-Budda, la dea madre che regnerà in un futuro paradiso. Cioè lei stessa, secondo la sua consacrazione divina che diventa legge nei monasteri dal 694.
Il nome di Wu Zhao, nell´ideogramma che lo esprime, è già denso di fascino: esprime il sole e la luna sopra il vuoto, la luce sospesa sul nulla. Dalla sua ascesa al trono l´imperatrice si attribuisce altri nomi sempre più impregnati di significati religiosi: si fa chiamare Ruota Dorata, Antichità Trascendente, Misericordiosa Bodhisattva, Scelta dal Cielo. Anche questa ubriacatura di titoli è una sorta di vendetta femminile. Nella tradizione patriarcale confuciana la lingua serve a discriminare tra uomini e donne. L´ideogramma femminile è usato per comporre caratteri negativi come schiavo, gelosia, prostituta, demonio, lussuria, indecenza, esibizionismo. L´imperatrice che trasforma se stessa in divinità buddista osa un esperimento di rottura radicale. Non le sarà perdonato. Alla sua morte - nel 705 viene deposta e assassinata da un golpe di palazzo - dilagano leggende che la dipingono come un essere immondo, dai vizi ripugnanti. La descrivono come una vecchia impudica e assetata di sesso che costringe più uomini a orge collettive nel suo letto, si droga di afrodisiaci «fino a che le ricrescono i denti e le sopracciglia».
Ricostruzioni più attendibili considerano invece il suo regno come un´epoca di relativa continuità nella prima "età dell´oro" della civiltà cinese. In quegli anni a cavallo tra le dinastie Sui e Tang l´Impero di Mezzo raggiunge un apogeo di sviluppo e di potenza. Alla corte di Wu Zhao s´intrecciano relazioni diplomatiche con il mondo intero, arrivano in visita principi persiani, mercanti ebrei e indiani, missionari tibetani, ambasciatori dall´impero bizantino, artisti giapponesi. È un periodo di benessere e di notevole apertura verso il resto del mondo, a cui contribuisce una sovrana senz´altro capace e intelligente.
Eppure la figura di Wu Zhao è rimasta troppo ingombrante per essere consegnata con serenità al bilancio degli storici. Dalla sua scomparsa non ha mai smesso di ossessionare i cinesi. Nel Sedicesimo secolo ispira un romanzo pornografico, Il Signore del Piacere Perfetto, ricco di dettagli osceni sui suoi amori senili. Nel Diciannovesimo secolo un altro romanzo, Fiori allo Specchio, la celebra invece come una vendicatrice di tutte le donne oppresse, una virago che impone la sua volontà perfino alla natura. Nel Novecento i comunisti riabilitano la sua memoria e s´impadroniscono del personaggio per propugnare l´emancipazione delle donne. A metà degli anni Settanta, sul finire della Rivoluzione culturale, quando Mao Zedong è ormai affetto dal morbo di Parkinson e nel partito comunista imperversa la lotta tra fazioni rivali, il simbolo dell´imperatrice donna viene gettato nel vortice della furiosa battaglia politica. Tutti usano il personaggio della storia antica per alludere a Jiang Qing, la moglie di Mao che fa parte della famigerata Banda dei Quattro, gli istigatori delle Guardie rosse. La corrente radicale ricostruisce la storia di Wu Zhao descrivendola come una moglie leale e fedele che governò degnamente la Cina sostituendo il marito malato. I moderati, nemici della Banda dei Quattro, rievocano dell´imperatrice una scandalosa immoralità.
L´unica donna che salì al trono dell´Impero Celeste non ha smesso di eccitare le controversie fino ai nostri giorni. Un´autorevole femminista, Shu-Fang Dien, ha dedicato un´opera monumentale a L´imperatrice Wu nella storia e nella letteratura. È un´appassionata rassegna della condizione della donna cinese, riletta in filigrana attraverso tutte le reincarnazioni di Wu Zhan nell´immaginario della nazione, fino alle telenovelas che la raffigurano in varie versioni sugli schermi televisivi nel Ventunesimo secolo. Si conclude con queste parole: «È dai tempi dell´imperatrice del Settimo secolo che cerchiamo di superare l´eredità dell´ideologia confuciana e del suo familismo maschilista e patriarcale. La lotta continua». L´ultimo scherzo che il destino ha riservato all´antica imperatrice è venuto da una casa editrice. Nel 1996 una biografia di successo di Hillary Clinton, scritta da un autore cinese, è uscita in libreria con questo sottotitolo: «Una imperatrice Wu alla Casa Bianca».

Repubblica Firenze 6.4.08
Repubblica sperimenta la trafila di una giovane donna a Firenze. Nuovo diniego denunciato a Pisa
Il balletto della pillola. Il giorno dopo: chi la prescrive, chi no, chi fa pagare il ticket
di Simona Poli e Gaia Rau


"Scusi, mi prescrive la pillola?"
Il giorno dopo, tra ospedali e obiettori: attese, ticket, qualche no
A Pisa, dopo i due rifiuti dei giorni scorsi, un altro caso: "Anche a me l´hanno negata"
Abbiamo provato la trafila di una giovane donna: le prime telefonate sono a vuoto

Qualche telefonata a vuoto, male che vada un paio d´ore di attesa e un ticket da pagare. Tutto sommato rimediare la pillola del giorno dopo a Firenze non è un grosso problema. Nemmeno nel fine settimana, quando i consultori sono chiusi e magari il medico di famiglia è irrintracciabile: rimangono infatti pronti soccorso e guardie mediche. Quest´ultima scelta può riservare amare sorprese: non tutti i medici di guardia si dichiarano disponibili a prescrivere il farmaco. Una serie di telefonate rivolte in tono accalorato tra le 12 e le 13,50 di ieri alle sedi degli ambulatori dei cinque quartieri fiorentini danno come risultato un netto 3 a 2: 3 guardie mediche (Via de´ Malcontenti, San Salvi e Isolotto) assicurano che la pillola verrà prescritta («ma prima le faremo qualche domanda nel suo interesse, naturalmente, come di prassi») e 2 (Gavinana-Sorgane-Ricorboli, Badia a Ripoli telefono 0556536899; Novoli-Peretola-Brozzi-Osmannoro telefono 055315225) invitano a cambiare indirizzo. «Sono obiettore - rispondono i medici di turno - e non prescrivo quel tipo di pillola. Ma può rivolgersi al pronto soccorso di Careggi, lì troverà un ginecologo e avrà quello che chiede. E´ sempre più sicuro andare in ospedale». Se il percorso può essere un po´ accidentato, insomma, alla fine una strada si trova. Vediamo come.
Repubblica ha sperimentato la trafila di una giovane donna alle prese con la ricerca del contraccettivo d´emergenza. Abbiamo ipotizzato che il rapporto non protetto sia avvenuto nella notte tra venerdì e sabato. La caccia alla pillola comincia il mattino successivo. Decidiamo di rivolgerci per prima cosa a un consultorio ma trovarne uno aperto nel fine settimana è praticamente impossibile. Su internet c´è un elenco delle otto strutture presenti in città, insieme al numero di un call center per prenotazioni e informazioni. Purtroppo, però, i cellulari non sono abilitati a chiamarlo e non ci resta che provare a contattare i singoli centri, uno per uno. Dopo varie telefonate a vuoto, finalmente qualcuno risponde. E´ il presidio di piazza Dalla Piccola, nel quartiere di San Iacopino. Una volta spiegato il problema il centralinista risponde picche: «Oggi il servizio di ginecologia non è disponibile», taglia corto. Chiediamo dove possiamo rivolgerci ma dopo una rapida ricerca al computer l´esito è ancora una volta negativo: «Nel fine settimana è tutto chiuso, provi al pronto soccorso o alla guardia medica», consiglia.
Decidiamo allora di metterci in viaggio per l´ospedale di Torregalli. Una volta arrivati al pronto soccorso, l´infermiere addetto al triage (la selezione dei casi che si presentano in base all´urgenza) chiede nome e generalità, e ci inserisce in lista d´attesa come codice azzurro. «Non si preoccupi, la chiamiamo noi». Sono le 11,47. Ci sediamo e aspettiamo. Dieci minuti, mezz´ora, un´ora, un´ora e mezzo: arrivano emergenze ben più gravi della nostra che giustamente passano avanti. Alle 13,36, finalmente, l´altoparlante chiama il nostro nome. Una dottoressa ci riceve: è gentile, rassicurante. Fa le necessarie domande sullo stato di salute e alla fine prescrive la pillola, insieme a un farmaco anti-vomito per precauzione. Per ritirare la ricetta dobbiamo pagare il ticket: 25 euro. Il tempo di trovare una farmacia aperta e, poco prima delle 14, abbiamo il nostro farmaco, che costa 11 euro e 20. Siamo in tempo: la pillola va assunta preferibilmente entro 12 ore dal rapporto a rischio, in ogni caso non dopo 72. La trafila è identica al pronto soccorso di Santa Maria Nuova. All´accettazione confermano che il farmaco è disponibile. Bisogna mettersi in lista, pagare il ticket e aspettare ma un medico prescriverà la pillola senza problemi.
C´era una strada più veloce e anche meno costosa. Se avessimo deciso di andare subito alla guardia medica di San Salvi, avremmo aspettato molto meno e non avremmo speso nemmeno un centesimo per la ricetta. A San Salvi ci accoglie una dottoressa che, messa a conoscenza del problema, prescrive il farmaco senza difficoltà. Anche lei è gentilissima, ha toni materni, fa di tutto per metterci a nostro agio. Raccontiamo che durante il rapporto il profilattico si è rotto. Lei annuisce ma consiglia: «Se la storia va avanti, pensi a un altro metodo anticoncezionale, come la pillola». Dopo nemmeno dieci minuti, abbiamo la ricetta in mano. Alla guardia medica di Montedomini il copione si ripete in maniera pressoché identica. Anche lì siamo ricevuti da un medico donna che, dopo aver fatto le domande di rito, compila la ricetta. Tempo di attesa, zero. Costo, zero.
Se Firenze supera la "prova pillola", non altrettanto si può dire di Pisa. Dove proprio ieri è stato segnalato un nuovo caso di rifiuto alla somministrazione da parte di una struttura sanitaria pubblica. Sarebbe il terzo in pochi mesi, dopo i due denunciati da due ragazze che hanno presentato un esposto e su cui indaga la magistratura. La nuova segnalazione è stata raccolta dall´Associazione radicale LiberaPisa, a cui due ragazzi hanno raccontato di un episodio avvenuto a febbraio analogo a quelli avvenuti a marzo. Anche questo sarà oggetto di un esposto che verrà presentato la prossima settimana alla procura di Pisa.

Repubblica Firenze 6.4.08
Panti: "Non si applica l'obiezione" Livi: "Entro 24 ore, 98% di protezione"
Il presidente dell'Ordine dei medici non ha dubbi su cosa devono fare i colleghi


«Sulla pillola del giorno dopo non si applica l´obiezione». Antonio Panti, presidente dell´ordine dei medici fiorentino è chiaro sul comportamento che devono tenere i suoi colleghi di fronte a chi chiede la prescrizione della pillola del giorno dopo. «In Italia l´obiezione di coscienza è un atto giuridicamente valido, sottoposto a rigidi passaggi amministrativi, solo in tre casi: interruzione di gravidanza, vivisezione e procreazione assistita. Per il resto l´obiezione non esiste. Nel codice deontologico dei medici, piuttosto, c´è scritto che il dottore per ragioni di convincimento clinico o morale può rifiutare la prestazione. E´ una clausola che ho scritto io stesso, ed ha due limiti: il rifiuto non deve provocare immediato danno al paziente e il dottore deve informare il cittadino su dove può essere soddisfatto il suo diritto. Il professionista deve alzare il telefono, non può dire "io quella medicina non la prescrivo" e lasciare il paziente a se stesso. Se poi non si vuole che il dottore del servizio sanitario nazionale rifiuti certe prestazioni allora è necessario fare una legge».
Claudia Livi, ginecologa nominata di recente presidente dell´associazione italiana di centri che si occupano di diagnosi e trattamento dell´infertilità, spiega che la pillola del giorno dopo si può prendere entro 72 ore dal rapporto a rischio ma il tempo ne condiziona comunque l´efficacia. «Nelle prime 24 ore assicura il 98% di protezione, tra le 24 e le 48 la percentuale scende di 10 punti, e tra le 48 e le 72 il 55%. Si tratta di un farmaco contraccettivo, non abortivo, che in altri paesi europei e in America è un prodotto da banco. Non va confusa con la Ru486, che agisce a gravidanza iniziata. La pillola del giorno dopo inibisce l´ovulazione se questa non è ancora iniziata e altera l´utero se invece lo è. Se la gravidanza è partita non serve a nulla».
(mi.bo.)

Corriere della Sera 6.4.08
Crimini della dittatura Otto e sette anni alla coppia: con l'aiuto di un militare «rubò» la neonata a due desaparecidos
Argentina, condannati i genitori «ladri»
Maria Eugenia, la figlia adottiva che li ha denunciati: sentenza storica, ma lieve
di Alessandra Coppola


Le avranno pure fatto i vaccini quando era piccola — la linea della difesa in aula — l'avranno mandata a scuola e le avranno addirittura permesso di imparare le lingue: il Tribunale federale numero 5 di Buenos Aires venerdì (notte in Italia) ha condannato Osvaldo Arturo Rivas e Maria Cristina Gómez Pinto. Appropriazione e occultamento di minore: otto e sette anni di reclusione al papà (che ha pure falsificato l'atto di nascita) e alla mamma con i quali Maria Eugenia si è trovata a vivere per più di vent'anni, per poi scoprire, nel 2001, che erano «ladri», che l'avevano rubata neonata a una coppia di oppositori alla dittatura, torturati e fatti scomparire come altri 30 mila desaparecidos. Dieci anni all'ambiguo amico di famiglia Enrique Berthier, il militare che ha fatto da tramite tra l'ospedale clandestino e la coppia che non poteva avere figli.
Non abbastanza. Sostenuta dall'associazione Nonne di Plaza de Mayo (che cercano i 500 bambini sottratti dai golpisti), la ragazza ha annunciato ricorso: sentenza «storica», ha detto, la prima in Argentina contro una finta famiglia adottiva. Ma troppo «lieve». La richiesta del suo avvocato, ripresa dal pm, era stata di 25 anni.
Così Maria Eugenia nell'unica conferenza stampa: «La domanda è se una persona che ha rubato un neonato, che gli ha nascosto di essere stato rubato, che forse ha sequestrato e torturato i suoi genitori, che l'ha separato da loro e dalla sua famiglia, che gli ha sempre mentito sulle sue origini, che - più frequentemente di quanto si voglia pensare - lo ha maltrattato, umiliato, ingannato; se una persona che ha fatto tutto o parte di tutto questo può sapere e sentire che cos'è l'amore filiale. Io rispondo di no, che il vincolo con questo tipo di persone resta di crudeltà e perversione».
Il male che imita l'affetto dei genitori. Maria Eugenia, oggi 30 anni, ha raccontato ai giudici delle grida e della tensione in casa, delle fughe dai vicini, di una perenne sensazione di estraneità. Di quando, appena ventenne, andò a vivere con le amiche. Di come i genitori impostori la insultassero: «Sei un'ingrata, una mocciosa che fa i capricci, se non fosse stato per noi saresti finita in un fosso».
Dello choc di scoprire la verità attraverso il confronto del Dna con i campioni depositati dai parenti dei desaparecidos nella «banca» delle Nonne. Di come a fatica e con molte lacune si sia riappropriata del proprio passato. «Questo è mio padre e questa è mia madre». Maria Eugenia ha mostrato le foto alle telecamere: Leonardo Ruben Sampallo e Mirta Mabel Barragán, operai comunisti e attivi nel sindacato, per questo segnalati da imprenditori favorevoli ai golpisti, portati in centri clandestini di tortura (prima al Club Atlético poi a El Banco), uccisi.
Al momento del sequestro la mamma era incinta. Tre mesi più tardi è venuta al mondo Maria Eugenia. «Luogo è data di nascita?», le hanno chiesto in aula quando ha testimoniato. «Non lo so», ha dovuto rispondere. Ma un giorno per festeggiare il compleanno ce l'ha: «L'abbiamo scelto democraticamente in famiglia (quella vera, ndr) — ha detto nell'unica intervista, al quotidiano Pagina 12 —: l'8 febbraio, l'anniversario di nozze di mia nonna. Se un giorno mi arriveranno altre informazioni, lo cambierò...».

Il vero padre
Leonardo Ruben Sampallo lavorava nel cantiere navale Rio Santiago, dove era delegato sindacale per la sezione Caldaie. Era anche militante del Partito comunista marxista leninista (Pcml) argentino. Nel dicembre 1977 — in Argentina da un anno, dopo il golpe, era al potere una giunta militare — insieme alla moglie Mirta fu sequestrato e condotto al centro clandestino di reclusione e tortura chiamato Club Atlético. Da qui a El Banco. Quindi scomparve
La vera madre
Mirta Mabel Barragán lavorava nella fabbrica Siap (Società industriale di apparecchi di precisione) ed era attiva nel sindacato, delegata nella sezione Pannelli. Come il marito, militava nel partito comunista. Avevano un bimbo di tre anni, Gustavo. Quando fu sequestrata, nel dicembre 1977, era incinta di sei mesi.
Fu portata via dal centro clandestino di tortura El Banco a febbraio 1978, per partorire, probabilmente all'Ospedale militare. Diede alla luce Maria Eugenia, quindi scomparve

Corriere della Sera 6.4.08
La vocazione del nostro continente è quella di superare i propri confini, anche ideologici. È sufficiente che ne prenda coscienza
La filosofia salverà l'Europa
Pensiero e scienza: condizioni fondamentali per costruire una nuova «potenza»
di Emanuele Severino


La rivista. Saggi sul futuro
L'articolo pubblicato in questa pagina è un ampio stralcio del saggio di Emanuele Severino «La potenza e l'Europa», contenuto nel numero 7 del bimestrale «Kos», rivista dell'Editrice San Raffaele, in libreria da domani. Il fascicolo ospita, oltre a un portfolio di Gianluigi Colin, interventi di Giovanni Reale, Luca Canali, Maria Grazia Roncarolo e Gianvito Martino, nonché il testo che il direttore e fondatore Luigi Maria Verzé ha pronunciato il giorno del suo ottantottesimo compleanno per la posa della statua dell'arcangelo Raffaele sulla cupola della nuova struttura detta Basilikon.

Per l'Europa, la sfavorevole congiuntura economica non è il pericolo maggiore. L'Europa è militarmente debole. Tradizionalmente collocata nella sfera della potenza militare statunitense, è per molti versi — cioè non solo dal punto di vista geografico, peraltro rilevante — più vicina alla Russia che agli Stati Uniti. Già dagli anni dell'implosione dell'Urss osservavo che quanto sarebbe stato impossibile durante la guerra fredda, stava diventando una possibilità non utopica anche se estremamente complessa e piena di incognite: quella collaborazione tra la ricchezza economica europea e il potenziale atomico russo, che avrebbe potuto prefigurare una vicinanza più profonda sul piano politico. Tale possibilità esiste tuttora. Ma dopo la guerra fredda l'Europa, confrontandosi con la Russia, poteva mettere sul piatto della bilancia un'economia forte, capace di aiutare la Russia in modo risolutivo. Quest'ultima aveva (come ha tuttora) un arsenale atomico in grado di distruggere qualsiasi nemico. Unica, insieme agli Usa, ad avere questa potenza. Che però (a differenza di quella americana) era alimentata da un'economia vacillante. Di qui l'importanza dell'aiuto europeo. Oggi, invece, l'economia russa è in forte ripresa ed è capace di sostenere quel potenziale atomico che separa la sorte di Stati Uniti e Russia da quella di tutti gli altri Stati del pianeta. In un mondo sempre più pericoloso, l'Europa tende pertanto a oscillare tra la consolidata protezione militare degli Stati Uniti — convinti peraltro di non dover rendere conto a nessuno, nemmeno ai loro alleati europei, delle loro decisioni di fondo — e una più stretta collaborazione con una Russia che d'altra parte suscita molte diffidenze nei governi dell'Unione. Tuttavia il discorso sull'Europa si fa estremamente più complesso di quanto già non sia sul piano economico-politico, quando ci si rivolga al significato della potenza.
La potenza che oggi consente agli Stati di sopravvivere — e che ha il proprio culmine nella potenza atomica — è dovuta alla tecnica guidata dalla scienza moderna. La tecnica riesce più di ogni altra potenza a cambiare il mondo. Giacché non pensa solo a muovere le montagne, ma anche le anime. E, daccapo, è in virtù di essa che il capitalismo è la forma dominante di produzione della ricchezza.
Tanto più si è capaci di cambiare il mondo quanto più lo si sa far diventare diverso da come esso è già. Dio è onnipotente perché è capace di creare il mondo dal nulla, ex nihilo. Se con certi materiali si costruiscono cose, si è capaci di sottoporli a un cambiamento: si produce una certa diversità tra essi e le cose con essi prodotte. Ora, la diversità massima sussiste non tra una certa cosa e un'altra, ma tra il nulla e una cosa, tra il nulla e l'essere. Dio è onnipotente, possiede il massimo della potenza, perché produce la diversità massima, cioè fa diventare cosa (mondo, essere) il nulla.
Se il senso dell'essere e del nulla rimane impensato, l'uomo non può nemmeno proporsi di produrre la diversità massima. Con questo pensiero la filosofia rende possibile la volontà di produrre la forma massima della potenza. Ma lungo l'intera tradizione della storia europea il culmine di tale forma è riservato a Dio. Sino a che tiene per sé il culmine della potenza massima, Dio limita il dispiegamento della forma massima della potenza dell'uomo. Ma nella storia europea è ancora una volta l'essenza del pensiero filosofico a mostrare l'impossibilità di ogni Dio eterno che si ponga come il padrone del dispiegamento totale della massima potenza. Soltanto per tale essenza, questo dispiegamento diviene accessibile all'uomo, sebbene non come un che di definitivamente ottenuto, ma come uno sviluppo infinito, dove l'uomo può progettare «nuovi» modi di essere uomo e mondo. Sono «nuovi», appunto perché sono ancora un nulla, un non essere, e si tratta di crearli ex nihilo.
Soltanto all'interno e sul fondamento dell'essenza del pensiero filosofico del nostro tempo la tecnica guidata dalla scienza moderna può essere il dispiegamento infinito della massima potenza.
Per lo più, scienza e tecnica non si curano del fondamento della loro potenza. Così facendo ignorano che la potenza massima è possibile solo producendo dal nulla e rendendo nulla le cose. Ma ignorandolo sono effettivamente incapaci di realizzare tale potenza. E ignorando che non può esistere alcun Ordinamento assoluto e divino che stabilisca Limiti inviolabili all'agire dell'uomo, scienza e tecnica limitano effettivamente il dispiegamento della potenza massima del proprio operare.
L'Europa è il luogo dove sono apparse queste, ora richiamate, che sono le condizioni fondamentali della massima potenza e del suo infinito dispiegamento: tradizione filosofica, scienza, distruzione filosofica di tale tradizione, tecnica. Non è un caso che l'Europa abbia dominato il mondo. Inoltre il mondo ha ereditato, con intensità e in modi diversi e per lo più separandole una dall'altra, quelle condizioni fondamentali. La «grande politica », ossia la capacità di sviluppare la forma massima della potenza, è la capacità di tenerle autenticamente insieme. In questo senso, se la grande politica non esiste ancora sulla Terra, l'Europa, nonostante la sua debolezza attuale, può tuttavia candidarsi alla realizzazione di tale politica non meno, e forse più, delle altre grandi forze planetarie: Stati Uniti, Russia, Cina, India. Questo discorso non ha nulla a che vedere con una sorta di fantastica «egemonia» planetaria dell'Europa: ha invece a che vedere col processo in cui la volontà di potenza non può non volere la potenza massima, superando ciò che la ostacola, e quindi ogni forma di contrapposizione di natura, religiosa, filosofica, economica, politica, ideologica.
Per realizzare certi loro scopi, queste e altre simili contrapposizioni (cioè ogni forza contrapposta) si servono della forma massima della potenza e del suo sviluppo, e quindi, proprio perché essa non è il loro scopo, ne limitano la consistenza. Limitano e frenano ciò con cui esse intendono realizzare i loro scopi: impediscono la grande politica, si rendono incapaci di realizzarla. L'Europa, più di altri, può prendere e far prendere coscienza del senso autentico della grande politica; ed è questa coscienza a liberare la potenza dai limiti in cui è stata trattenuta lungo la storia dell'Occidente. La grande politica: il dominio planetario da parte della scienza e della tecnica che hanno saputo ascoltare la filosofia. La vocazione dell'Europa: l'andare oltre i propri confini geografici, religiosi, artistici, morali, filosofici, economici, giuridici, politici: la produzione dell'onnipotenza planetaria. Ma a questo punto incomincia la questione decisiva, quella che riguarda la verità della potenza.

Corriere della Sera 6.4.08
Cinecittà Holding si appresterebbe ad «assorbire» la struttura che promuove le nostre pellicole nel mondo. Una lite a sinistra
«Salviamo FilmItalia»: appello dei nostri registi


41 firmatari
«Decisione presa in fretta e furia» dicono i firmatari, tra cui Moretti, Muccino, Scola, Rubini, Ozpetek e Bellocchio Cineasti uniti

ROMA — Claudia Cardinale dal suo «osservatorio» parigino o i grandi d'Oltreoceano che ci amano come Scorsese, dicono tutti che i film italiani all'estero non arrivano nemmeno in un buco di cineclub, se esiste ancora: schermi oscurati per il nostro Paese, fermo ai tempi gloriosi di Fellini. Il rischio è che se ne vedranno ancora meno.
Domani all'ordine del giorno del Consiglio d'amministrazione di Cinecittà Holding c'è la «semplificazione societaria». Traduzione: l'assorbimento delle funzioni di FilmItalia, la vetrina che promuove il cinema italiano nel mondo. Assorbimento fa rima con ridimensionamento, per alcuni è l'anticamera della chiusura. «Questa non è una bella notizia, anzi è un grave rischio per il nostro cinema», scrivono i 40 (41 se si considera che Paolo e Vittorio Taviani dai film alle lettere firmano insieme, ma all'anagrafe sono ancora distinti) firmatari di un appello che una volta tanto non è un piagnisteo e nemmeno una rivendicazione corporativa.
Novità: all'appello s'è unito perfino Nanni Moretti agli altri cineasti, registi e produttori tra cui il suo ex socio Angelo Barbagallo e Marco Bellocchio, Daniele Luchetti e Gabriele Muccino, Andrea Occhipinti e Gabriele Salvatores, Paolo Virzì e Ugo Gregoretti, Giuliano Montaldo e Ferzan Ozpetek, Sergio Rubini e Ettore Scola, Roberto Cicutto e Saverio Costanzo, Paolo Sorrentino e Gianni Zanasi, fino a Citto Maselli che non è mai stato ingeneroso quanto a megafoni e appelli.
I 40 (o 41) insorgono contro «una decisione importante presa in fretta e furia, senza un coinvolgimento e un dibattito con chi fa cinema ed è direttamente interessato alla promozione all'estero, vera risorsa strategica per il nostro settore ». La maggior parte dei firmatari è di sinistra e critica i vertici di Cinecittà Holding che sono per lo più ex Ds ed ex Margherita confluiti nel partito Democratico. Liberazione,
il quotidiano di Rifondazione: «Pd-Cinecittà: primo atto di regime ». E il Riformista titola: «FilmItalia chiude ma la chiamano semplificazione societaria». Urge tagliare, il primo ramo secco del gruppo pubblico cinematografico è considerato FilmItalia.
La battaglia degli enti inutili, l'hanno definita. Si spulcia l'indebitamento di Cinecittà Holding per 35 milioni di euro, 25 dei quali vengono dalla mancata vendita della catena di multiplex Mediaport, 150 schermi. L'accorpamento di FilmItalia in un gruppo «articolato e impegnato su più fronti» e senza un «piano strategico globale di riassetto » del nostro cinema, per i firmatari è un pensiero debole. Ma per i vertici di Cinecittà Holding bisogna centralizzare e non disperdere risorse, far cassa riducendo i costi.

Corriere della Sera Salute 6.4.08
Rapporto sulla mortalità infantile, indicatore importante della salute del Paese
L'Italia è una brava «mamma»
Ma la neonatologia è ancora carente nelle regioni del Sud
Siamo ai primi posti tra i Paesi «virtuosi», grazie alle condizioni socio-economiche, ambientali e sanitarie
di Maurizio Tucci


È stato presentato nei giorni scorsi un rapporto della Società italiana di pediatria (Sip) sulla "mortalità infantile" in Italia. La quota di bambini deceduti nel primo anno di vita (rispetto ai nati vivi nel periodo considerato) è ritenuta un indicatore significativo della salute di una popolazione, essendo correlato alle condizioni socio-economiche, ambientali, culturali e alla efficacia dell'organizzazione sanitaria. E una volta tanto l'Italia è ai primissimi posti tra i Paesi virtuosi a livello mondiale ( vedi tabella), con un tasso del 3,7 per mille (ultimi dati disponibili, del 2004). «Il dato più significativo — sottolinea il Presidente della Sip, Pasquale Di Pietro — è rappresentato dagli enormi progressi che abbiamo fatto grazie alla neonatologia italiana: nel 1970 il tasso di mortalità infantile in Italia era addirittura del 29,2 per mille e in trent'anni c'è stato un miglioramento del 79%, uno dei più consistenti dell' Europa occidentale».
La media nazionale, tuttavia, è data da valori molto diversi a seconda delle aree territoriali: si passa, infatti, dall'1,8 per mille del Friuli ad una media superiore al 4 per mille delle regioni del Sud, con una punta del 5,4 per mille in Calabria ( vedi tabella).
Ma, soprattutto, il divario tra regioni del Centro Nord e regioni del Sud negli ultimi anni è andato aumentando.
«Una delle cause di questa sperequazione — afferma Lodovico Perletti, pediatra e membro della Commissione nazionale del Ministero della Salute per i Lea (livelli essenziali di assistenza) — è la carenza o la completa assenza, in molte aree, del servizio di trasporto neonatale d'urgenza, malgrado la sua realizzazione in tutte le regioni fosse prevista già dal Progetto obiettivo materno infantile nazionale 1998-2000 e sia stata indicata come priorità da tutti i successivi Piani sanitari nazionali».
«Sappiamo bene — aggiunge Di Pietro — che di fronte ad una gravidanza a rischio il miglior modo di agire è trasferire la mamma prima del parto in un centro specializzato, ma per le situazioni non prevedibili è necessario che ovunque ci sia un trasporto neonatale efficiente, la cui carenza è responsabile di buona parte delle oltre 300 morti neonatali annuali considerate evitabili». Tra i maggiori fattori di rischio di mortalità neonatale ci sono la prematurità e il basso peso alla nascita, le anomalie congenite, la salute della mamma e la sua abitudine al fumo. Ma ci sono anche fattori sociali: livelli di reddito e scolarità della famiglia, famiglia costituita dalla sola mamma, entrambi i genitori con cittadinanza straniera. «L'aumento d'immigrati — dice Perletti — richiede l'adeguamento dei servizi sociosanitari alle nuove esigenze, quali, ad esempio, visite domiciliari di controllo dopo la nascita del bimbo. Va comunque detto che le disuguaglianze di mortalità infantile fra italiani e stranieri si stanno riducendo».

Il Sole - 24 Ore Domenica 6.4.08
Chi arma la spada della religione
Nella Bibbia convive il Dio degli eserciti e l’ammonimento a non iniziare un conflitto: Nei secoli l’interpretazione data dal clero è stata oscillante
di Emilio Gentile


Perché Dio, nella sua onniscienza e onnipotenza, lascia che ci sia la guerra fra gli uomini? Perché Dio, nella sua infinita bontà e infinito amore, permette che uomini armati uccidano innocenti inermi, che l'ingegno umano escogiti strumenti di morte sempre più immensamente micidiali, che nel suo nome si commettano assassini, stragi, stermini, genocidi? Queste domande sono un terribile ma affascinante problema intellettuale per un non credente, mentre per un credente sono un angosciante quesito teologico ed etico, che potrebbe insidiare con dubbi atroci il fondamento della sua fede e la sua immagine di Dio.
Se apre la Bibbia, il credente incontra nell'Antico Testamento il Dio degli eserciti, guerriero terrificante e vendicativo, che guida il popolo eletto alla conquista della Terra promessa, e gli ordina di sterminare uomini, donne e bambini dei popoli idolatri che vi abitano. Con la stessa implacabile volontà di massacro, il Dio degli eserciti punisce le Nazioni che sfidano la sua ira. «La spada del Signore è coperta di sangue». Così dice il profeta Isaia. Ma nel Nuovo Testamento, il Figlio di Dio ammonisce: «Chi pone mano alla spada, perirà di spada». Ma ha detto anche: «Io non sono venuto a portare la pace ma la spada. Colui che non ha una spada, venda il suo mantello c ne compri una». E nella Apocalisse di Giovanni, orribili guerre umane e cosmiche precedono il giorno del Giudizio universale e l'avvento del Regno di Dio.
Nel corso dei secoli, la Chiesa cattolica ha cercato di dare una risposta a queste domande, attribuendosi in modo esclusivo l'interpretazione della volontà divina. I Pontefici, seguendo l'insegnamento di Agostino e di Tommaso, hanno insegnato al credente che ha il dovere di combattere in una «guerra giusta», secondo una dottrina millenaria, che è stata ribadita dalla Chiesa attuale. Il vigente Catechismo proclama «inequivocabilmente la liceità per i Governi di provvedere alla legittima difesa con la forza militare e il dovere per i cittadini di accettare gli obblighi imposti dalla difesa nazionale», come osserva Daniele Menozzi, che ha studiato con appropriato senso storico, non disgiunto da inquietudine etica, il problema dell'atteggiamento della Chiesa nei confronti della guerra e della pace durante il Novecento.
Menozzi ripercorre il travaglio dottrinale e etico sofferto dalla Chiesa per cercare di salvare «il nesso inscindibile tra religione e pace che inevitabilmente finiva per gettare interrogativi sulla possibilità di una legittimazione della guerra da parte della Chiesa». Quel che emerge, dalla sua ricerca, è un percorso che lungo tutto il corso del Novecento «si caratterizza per approfondimenti, scarti, ondeggiamenti, fughe in avanti, ripiegamenti, sforzi di adattamento della dottrina tradizionale», che sono «evidentemente collegati al variare delle situazioni storiche in cui la chiesa si è trovata a operare».
Ma la storicità dell'atteggiamento della Chiesa si traduce in una storicizzazione della volontà divina, attraverso l'interpretazione che i pontefici, depositari della Rivelazione, hanno dato del significato della guerra nella vita degli uomini. Come fatto storico, il problema dell'aporia fra l'onniscienza e l'onnipotènza del Dio amore infinito, e l'onnipresenza della guerra nella storia umana, diventa un tema intellettualmente affascinante anche per il non credente. Perché molte e gravi sono state le conseguenze che la legittimazione religiosa della guerra ha avuto per l'esistenza di milioni di essere umani, cristiani e non cristiani, nel corso del ventesimo secolo, e tuttora ha, all'inizio del ventunesimo, per la sorte di milioni di esseri inermi, sterminati da guerrieri che affermano di combattere per volontà di Dio. Anche la Chiesa ha sostenuto per secoli questo atteggiamento, dalla persecuzione dei pagani e degli eretici alla guerra santa delle crociate contro i musulmani.
La prima guerra mondiale, pur condannata da Benedetto XV come «inutile strage», fu considerata dalla Chiesa e dalla grande maggioranza dei cattolici di ogni Paese belligerante - religiosamente legittimati a combattere in una grande guerra di cristiani contro cristiani, di cattolici contro cattolici - come la manifestazione della «punizione divina per il peccato che la società contemporanea ha compiuto abbandonando la sua dipendenza dalla religione e dalla Chiesa». All'inizio del Terzo Millennio, la Chiesa ha accantonato l'interpretazione della guerra come punizione divina, ha ripudiato il concetto della «guerra santa», e sia pure faticosamente, è giunta a riconoscere la legittimità dell'obiezione di coscienza. Ma appare ancora restia a formulare una definitiva «delegittimazione religiosa dei conflitti». Menozzi documenta gli oscillamenti dottrinari della Chiesa nella seconda metà del Novecento, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, soprattutto sul significato della guerra nella interpretazione della volontà di Dio. Sembra tuttavia che fra tanti oscillamenti, una convinzione sia rimasta salda, ora ribadita con vigore da Benedetto XVI: soltanto il ripudio della società moderna, scaturita dalla apostasia della secolarizzazione, con la subordinazione dei popoli al potere spirituale della Chiesa e del Papa, può scacciare dalla terra il flagello della guerra. Un ritorno all'unità cattolica del Medioevo? Eppure, neppure il Medioevo fu epoca senza guerre, giuste e sante, inflitte agli uomini dalla volontà divina.

Daniele Menozzi, «Chiesa, pace e guerra nel Novecento», Il Mulino, Bologna, pagg. 330, € 25,00.

Il Sole - 24 Ore Domenica 6.4.08
In principio era il piacere
AlainDaniélou svelò in Occidente il segreto delle rappresentazioni erotiche dei templi indiani; il «kama», la forza primordiale che lega gli amanti e fa incontrare individuale e universale
di Giuliano Boccali


Figlio di un ministro anticlericale e di una madre cattolica attivissima, fratello di Jean futuro cardinale e accademico di Francia, ne1 1936 Alain Daniélou (Neuilly-sur-Seine, 4 ottobre 1907 - Lonay, 27 gennaio 1994) ha alle spalle esperienze tanto intense quanto disparate: frequentazioni d'avanguardia, lezioni di danza con Nicolas Legat, il maestro del "volante" Nijinski, viaggi esotici: l'Afghanistan, poi l'Algeria dalla quale il Governatore generale lo espelle per la non celata simpatia verso gli "indigeni", purtroppo sequestrandogli il diario mai più ritrovato; Calcutta nel 1935 in auto, una Ford spider! Più volte il Bengala, per ascoltare Tagore nella sua università, a Shantiniketan.
Irrequieto e mondano, curioso di Paesi lontani, ma certo anche di quello della propria interiorità, nel 1936 è invitato a Hollywood dal celebre (e per l' epoca molto bizzarro) dietologo Gayelord Hauser; è il pretesto per un giro del mondo, che Pierre Gaxotte, caporedattore di «Candide», lo incarica di narrare. Quei resoconti con fotografie del suo compagno di viaggio Raymond Burnier e disegni dello stesso Daniélou sono ora pubblicati in italiano da CasadeiLibri con il titolo Il giro del mondo ne1 1936. Con scelta felice, l'editore accoppia a quest'uscita un breve testo, La scoperta dei templi. Arte ed eros dell'India tradizionale, che raccoglie tre saggi per l'epoca (anni Trenta, poi 1947-1949) davvero precorritori. Anche questo volumetto è impreziosito dalle fotografie di Burnier, che furono di fatto le prime a rivelare al mondo le fantasmagoriche figure dell'architettura e della scultura templare del sub Continente.
Rapidi ma non frettolosi, arguti senza mai essere acidi, i diari del viaggio affidano al colpo d'occhio delle visioni e all'immediatezza delle emozioni considerazioni mai banali. Sintetici e a piatto, i disegni ricordano vivacemente quelli di alcuni maestri coevi, fra i quali perfmo Matisse.
La maggior parte dei capitoli è dedicata ai Paesi asiatici: il Giappone «proprio come lo hanno descritto i suoi pittori. Gli abeti si contorcono con arte e, in lontananza,il Fuji Yama galleggia su una piana di lacca»; la Cina a Shanghai, dove la plebe immensa costituisce come «un humus fecondo (dal quale) si innalza la città più moderna del mondo, con i suoi innumerevoli grattacieli, gli alberghi di lusso, i locali notturni, i malavitosi e le sue incalcolabili ricchezze» (scrive, ricordiamo, nel 1936). Eletta è l'India, come si vedrà, dove l'arrivo a Benares provoca una considerazione indimenticabile sulle reazioni di chi «è uno spirito borghese» e dal viaggio non imparerà nulla o di chi invece, sentimentale e dotato di rendite, «si precipita alla Società Teosofica per indossare un saio, prudentemente disinfettato da ogni microbo...».
Caustica questa volta e molto condivisibile, Daniélou il diritto a questa considerazione se lo guadagna intero: smette i panni dell'intellettuale europeo colto e snob, di grande famiglia e di carattere ribelle; per tre lustri riveste a Benares quelli del discepolo, sottoponendosi a un insegnamento tradizionale. Si proibisce per anni di usare altro che la hindi e il sanscrito, si abitua a «vivere e pensare esattamente alla maniera indù», prende lezioni accoccolato ai piedi del maestro, per salutare il quale ci si prostra, a una certa distanza, sul ventre. Oltre alle filosofie, allo yoga, al tantrismo, studia in particolare la musica classica indiana, fino a diventare Direttore aggiunto del Collegio di musica dell'Università di Benares. Dopo il ritorno in Europa, con la missione di mostrare l'induismo nella sua autentica realtà, fonda a Berlino poi a Venezia (1963 e 1970) l'Istituto Internazionale di Studi Musicali Comparati.
Proprio per l'integrazione di esperienze opposte - quella dell'intellettuale europeo e quella interna all'induismo profondamente assorbita in India - i contributi di Alain Daniélou, sovente pionieristici, sembrano talora non poter distinguere le diverse prospettive, quella dello studioso e quella del praticante convinto. Ma è solo l'ombra di un alto pregio, poiché riflettono un processo personale di crescita e di conoscenza genuino, tenace, sempre sorretto dalla capacità di mettersi in discussione, di sperimentare concretamente, di pagare personalmente. Fra i temi numerosi cui Daniélou si è dedicato (mitologia, musica, storia e sociologia dell'India), i volumi da poco pubblicati offrono considerazioni penetranti soprattutto sull'arte e sulle raffigurazioni erotiche templari. Giudicate scandalose appena conosciute in Occidente, come pure da hindu di prima grandezza educati all'occidentale - Gandhi e Nehru fra i primi - queste raffigurazioni evocano per Daniélou il kama, "piacere", forza primordiale da cui si sprigiona l'intera manifestazione e alla quale ciascun essere irresistibilmente anela ritornare. Simboleggiata e favorita, secondo alcune correnti, dall'atto d'amore, la sua realtà piena è la «condizione ultima nella quale l'individuo e l'Universale cessano di essere separati», condizione dove «colui che abbraccia il Sé non conosce né il dentro né il fuori». Di questa realtà le coppie di amanti di pietra silenziosamente immerse nell'abbraccio sono l'immagine.

Alain Daniélou, «Il giro del mondo nel 1936», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg.156, €30,00;
«La scoperta dei templi. Arte ed eros dell'India tradizionale», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg. 48, € 6,00.
Da ricordare il volume autobiografico:
Alain Daniélou, «La Via del Labirinto. Ricordi d'Oriente e d'Occidente», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg. 400, € 25,00.

Il Sole - 24 Ore Domenica 6.4.08
Freud e le neuroscienze. Il cervello psicoanalitico
di Michele Di Francesco


«Probabilmente le carenze della nostra esposizione scomparirebbero se fossimo già nella condizione di sostituire i termini psicologici con quelli della Fisiologia o della Chimica (...). La Biologia è veramente un campo dalle possibilità illimitate, dal quale ci dobbiamo attendere le più sorprendenti delucidazioni; non possiamo quindi indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche decennio, ai problemi che abbiamo posto». Quando Sigmund Freud, avanzava queste profetiche osservazioni, nel saggio Al di là del principio del piacere (1920), non avrebbe certo immaginato che parte delle risposte sarebbero state fornite da studi su una lumaca di mare, l'Aplysia Californica. Eppure proprio l'indagine sui processi biochimici che portano alla formazione della memoria in questo mollusco, che sono valsi a Erich Kandel il Premio Nobe1 2000 per la Medicina, ha aperto un ponte tra Psicoanalisi e Biologia, permettendo di metterle in feconda comunicazione.
Questo perlomeno è quanto affermato da François Ansermet e Pierre Magistretti, docenti dell'Università di Losanna, nel volume A ciascuno il suo cervello. Plasticità neuronale e inconscio, dove viene individuato il punto di partenza del possibile incontro tra Psicoanalisi e Neuroscienze nelle ricerche sui meccanismi della memoria (ed è qui che l'Aplysia entra in scena). L'esperienza lascia una traccia, scrivono gli autori, e oggi noi possiamo studiare le manifestazioni di questa traccia non solo attraverso la Teoria Psicoanalitica, dove essa è indagata nella sua dimensione semantica, ma anche a livello cerebrale, - attraverso la nozione di plasticità neuronale. Grazie a ricerche come quelle proposte da Antonio Damasio nel fortunato volume L'errore di Cartesio (Adelphi), è oggi possibile indagare la natura dei meccanismi neurali che permettono all'esperienza di dare forma alla struttura emozionale del soggetto. Nella ricostruzione degli autori, alcune esperienze che lasciano una traccia nella "rete sinaptica" si legano a stati somatici, cui si assocerebbero in seguito ulteriori "valutazioni" emotive spesso non accessibili alla coscienza. Col passare del tempo il legame tra valutazione emotiva ed esperienza originaria si perderebbe sempre più, giungendo alla creazione di una realtà inconscia fantasmatica, non disponibile direttamente all'individuo, che ne condiziona tuttavia l'esistenza. Se a questo quadro aggiungiamo la tesi secondo cui l'unico accesso alla realtà fantasmatica «passa necessariamente attraverso un lavoro analitico» - il solo in grado di cogliere i «significanti sepolti nella rete associativa di tale scenario», possiamo farci un'idea del perché Ansermet e Magistretti considerino la propria proposta un tentativo di conciliazione tra Neuroscienze e Psicoanalisi.
In verità, malgrado le qualità anche espositive degli autori, il passaggio dalla Biologia all'Ermeneutica così prospettato appare per ora più suggestivo che supportato da dati di fatto conclusivi. Troppe sono le domande che ancora attendono una riposta, prima di poter dichiarare colmata la lacuna tra apparato analitico e spiegazione dei meccanismi cerebrali. Resta comunque un volume interessante e di gradevole lettura, che aiuta a pensare in modo nuovo l'annoso problema del rapporto tra cause e ragioni - e muove in questo senso un passo nella direzione auspicata da Freud.

François Ansermet, Pierre Magistretti, «A ciascuno il suo cervello. Plasticità neurale e inconscio», Bollati Boringhieri, Torino, pagg.l72, € 25,00.