La Sinistra attacca Franceschini sul voto utile
di Silvio Buzzanca
(...) A sinistra non è proprio piaciuta l´intervista a Repubblica del numero del Pd e quel suo paragone fra Fausto Bertinotti e Ralph Nader, il candidato indipendente che nel 2000 provocò negli Usa la sconfitta di Al Gore.
Il presidente della Camera respinge seccamente il paragone con Nader. E boccia anche l´apertura a riforme costituzionali improntate al presidenzialismo. «Queste cose di Franceschini - dice per esempio il candidato premier Bertinotti - non solo sono sgradevoli, ma anche un po´ allarmanti perché non si accorge che sono sostanzialmente anticostituzionali». e spiega c´è un unico modo per contrastare questa deriva presidenzialista: «Dare torto a Franceschini e far si che la Sinistra Arcobaleno abbia un successo tale che lo costringa a prendere atto che siamo in Italia e non negli Usa».
Gli altri leader della Sinistra Arcobaleno sono meno diplomatici del presidente della Camera. Così Oliviero Diliberto si chiede: «Ma come? Prima ci cacciano e non vogliono trovare l´accordo con noi e adesso ci dicono che se perdono è colpa nostra?». Circostanza che fa dire al leader del Pdci: «Franceschini ha una bella faccia tosta a dire che noi siamo come Nader. Se la bugia fosse un reato, oggi a Franceschini dovrebbero dare l´ergastolo».
Il segretario di Rifondazione Franco Giordano parla invece di «campagna greve e soprattutto disonesta. La verità è -conclude - che il Pd prevede un risultato inferiore alle aspettative e la leadership cerca di mettersi al riparo addossando preventivamente la colpa alla sinistra». Il verde Angelo Bonelli aggiunge che «Franceschini è il primo a sapere di dire cose non vere». Secondo il capogruppo verde alla Camera, «gli appelli del Pd al voto utile sono il segno della debolezza della proposta politica e programmatica del Pd». Infine Nicki Vendola, presidente della Regione Puglia, punta l´indice contro il «giochino un po´ sporco del voto utile o del paragone tra Bertinotti e Nader che serve solo per parlare ad un´Italia che si presume non sia in grado di non capire».
Veltroni, intanto lancia un nuovo appello contro l´astensionismo e per i voto utile. «L´astensionismo è l´anticamera delle peggiori tradizioni consumate nell´umanità», ha detto il candidato premier del Pd. E sulle polemiche innescate dall´intervista di Franceschini ha sottolineato: «Agli elettori della sinistra radicale dico che ogni voto è utile. Ma è chiaro che in questa ultima settimana si decide chi governerà il paese tra noi e la destra». Infine il leader del Pd ha ricordato che avrà l´età di Berlusconi solo nel 2026 e che è giunto il momento di « di dire basta con le battute per affrontare i problemi seri, basta con le corna ai vertici dei capi di Stato. L´Italia si merita un´altra leadership così come quella che hanno gli altri paesi».
Repubblica 7.4.08
Il leader Sd replica a Franceschini: "Nader siete voi che avete rotto l´alleanza"
Mussi: "Dal Pd un ricatto elettorale al Senato leveremo seggi alla destra"
di Umberto Rosso
La gara si sta giocando proprio con lo schema voluto da Veltroni. Io ho cercato il dialogo, ma ho trovato un muro
ROMA - L´ira di Fabio Mussi. «Un´intervista inaudita. Franceschini prova forse a prenderci per i fondelli?».
Ha lanciato un appello agli elettori della sinistra.
«No, è un vero e proprio ricatto elettorale. Prima il Pd ci scarica e ora, in extremis, di fronte ad una possibile, probabile sconfitta ecco che mette le mani avanti e si prepara ad addossarci la responsabilità del flop. Se Berlusconi vince, è colpa della sinistra che non vota Veltroni. Ma per favore. Io allora l´accusa la rovescio per intero».
In che modo, ministro?
«Mon ami, Ralph Nader c´est vous, siete voi del Pd. Mica Bertinotti».
Tesi piuttosto ardita. Va spiegata.
«La competizione si sta giocando esattamente con le regole che il Pd ha voluto, le squadre si affrontano con lo schema perseguito ostinatamente da Veltroni: la competizione con Berlusconi senza la sinistra. Non l´abbiamo certo voluta noi la fine del centrosinistra».
Ma anche per Rifondazione e la sinistra, dopo il governo Prodi, la fase dell´Unione era chiusa.
«Con i miei amici della Sinistra arcobaleno ho insistito molto, all´indomani della crisi di governo, per un incontro con Veltroni, per capire che margini c´erano. Noi la mossa l´abbiamo fatta ma dall´altra parte abbiamo trovato un muro. Il leader del Pd, alla fine, fece filtrare l´idea di una separazione consensuale. Ma quando mai: la scelta fu loro. Al diavolo la sinistra. Però stranamente in certi casi i voti della sinistra non olent, non puzzano».
Quando?
«Al comune di Roma, alle regionali in Sicilia, in centinaia di comuni in tutta Italia, dove il Pd si presenta insieme a noi».
La partita fra Veltroni e Berlusconi non si gioca sul filo dei voti?
«Non credo, ma ammesso e non concesso l´uscita di Franceschini è anche tecnicamente sbagliata: al Senato la Sinistra toglierà più seggi al Pdl che al Pd. Conti alla mano. Una ragione in più per impegnarsi al massimo, ovunque, a superare lo sbarramento dell´otto per cento. Scaricare su di noi è troppo facile e comodo, sia in chiave pre-elettorale ma anche post-elettorale...».
Allude ad una resa dei conti all´interno del Pd, in caso di sconfitta?
«Non metto bocca, le dinamiche interne del Pd sono cose che non mi riguardano più. Certo che a rovesciare su di noi i problemi loro, sono piuttosto abituati. Come per i 20 mesi di governo. Avevano 20 ministri su 25, il presidente del Consiglio, due vicepremier. Molti onori e molti oneri. Invece, se a Palazzo Chigi le cose non hanno funzionato, di chi è la colpa? Ma è ovvio: del ministro Mussi, di Ferrero, di Pecoraro. Ma ci sarà in quel partito qualcuno che si assume una responsabilità, "adsum qui feci", come citava spesso Alessandro Natta? Comunque, nelle parole di Franceschini c´è qualcosa di ancora più inquietante, che mi fa rizzare i capelli».
Addirittura?
«Il presidenzialismo di fatto, che si realizzerebbe nel nostro paese con la vittoria di Veltroni o di Berlusconi, al tempo stesso premier, segretario di partito e capo della maggioranza parlamentare. Vorrei ricordare a Franceschini che l´Italia è un regime parlamentare. E che meno di due anni fa abbiamo chiamato il popolo italiano ad un referendum per bocciare la riforma costituzionale della destra, a forte impalcatura presidenzialista. Adesso il vicesegretario pd ci propina l´elogio di tutti i poteri al leader. Ce lo dica: si preparano a ripresentare insieme a Berlusconi quella stessa controriforma bocciata dagli italiani?».
Appello al voto pro-Veltroni rispedito al mittente.
«Di più. Lo faccio io un appello, al vecchio elettorato dei Ds. Date un voto che garantisca le persone che si sentono di sinistra, fate in modo che siano rappresentate, e perché in futuro si possa tenere aperta una prospettiva di governo di centrosinistra. Influendo sulla politica del Pd».
Corriere della Sera 7.4.08
Mario Monicelli Il regista: io comunista, lui un amico che però ha guidato la Camera invece di fermare il leader pdl
«Sì a Fausto contro il Cavaliere. Ma sono più a sinistra»
Fabrizio Roncone
ROMA — Mario Monicelli, senta: lei, straordinario maestro del cinema italiano, insieme ad altri intellettuali firma un appello di sostegno alla Sinistra Arcobaleno e allora...
«Si fermi. Lei mi disturba per questo?».
Maestro...
«Mi dica: lei è rimasto sorpreso? Non abbia timore... coraggio, mi risponda: è rimasto sorpreso?».
Sorpreso, no. Ma certo questo suo schierarsi così netto...
«Netto? No, guardi: io fatico non poco a schierarmi con la Sinistra Arcobaleno».
Vuol dire che, istintivamente, sarebbe forse più propenso al Partito democratico di Walter Veltroni?
«Cosa? No no... quello lì, Veltroni intendo, ha come modello di riferimento gli Stati Uniti, e lei, beh, capirà...».
I fratelli Kennedy, e forse più Bob di John, e poi...
«E poi cosa? Lasci stare la dinastia Kennedy. Walter, purtroppo, ha come modello uno stato imperialista, spietato socialmente, dove chi è povero è molto povero e chi è ricco è molto ricco».
Sono discorsi da sinistra estrema.
«Infatti. I miei pensieri sono più a sinistra, e finalmente ci siamo, di quelli proposti dalla Sinistra Arcobaleno.
Era ciò che cercavo di spiegarle: fatico a votare persino per loro. Per quelli che fanno promesse, proclami e che poi...».
E che poi?
«Beh, poi vanno al governo, ci stanno due anni, e invece di mettere mano al conflitto di interessi di Berlusconi, preferiscono diventare presidente della Camera e realizzare, quindi, un quinto delle promesse fatte in campagna elettorale».
Lei si riferisce a Fausto Bertinotti.
«Guardi, io di Bertinotti sono amico, lo stimo e lo frequento con piacere, e lo incontro, spesso, a cena, con sua moglie Lella... solo che, davvero, io sarei un bel po' più a sinistra di lui e della Sinistra Arcobaleno. Ma cosa c'è in Italia più a sinistra di loro? Così mi tocca accontentarmi».
Lei è sempre stato così radicale?
«Mio padre Tomaso, giornalista celebre e critico teatrale, fu perseguitato dal fascismo e, per questo, nel 1945 si suicidò. La prima cosa che perciò si può dire è che io sono antifascista dentro, nell'animo».
Poi?
«Poi, nell'immediato dopoguerra, divenni socialista. Con il mio amico regista Mario Camerini facemmo pure un po' di propaganda: all'epoca, a Roma, si tenevano discorsi in piazza Montecitorio, o nella Galleria Colonna».
Quindi lei nasce socialista.
«E sa quando smetto? Quando compare il faccione autoritario, dispotico di Bettino Craxi. Un esponente politico borghese, gran corruttore».
Eppure la figura di Craxi è stata assai rivalutata, maestro.
«E chi se ne frega... Io non lo sopportavo, e così, politicamente, vagai qualche mese, finché non finii dentro il Pci».
Molti registi italiani finivano in quei ranghi.
«Il cinema italiano era rosso. Penso a Scola, a Scarpelli, a Benvenuti, a Gigi Magni...».
Comencini?
«Gran socialista».
E gli attori? Sordi, Mastroianni, Gassman, Tognazzi, Manfredi...
«Mah, vede, gli attori, in genere, sono dei malati di mente che hanno una sola ambizione: quella di piacere a tutti. Si figuri se qualche grande avesse voglia di schierarsi politicamente».
Gian Maria Volonté si schierò.
«E infatti era considerato un antipatico di prim'ordine».
A lei starà molto antipatico Silvio Berlusconi.
«Dovrebbe essere il nemico numero uno di milioni di italiani. Ma siccome gli italiani sono stupidi, lo adorano. Chiunque prometta agli italiani benessere, riceve il loro voto».
Lei è pessimista.
«Mi sfogo. Quando posso. E poi, le dico: sa perché sono riuscito ad arrivare a 93 anni così lucido da star qui a discutere di politica?».
No. Perché?
«Perché non sono pessimista. Ma superficiale e comunista».
l’Unità 7.4.08
Germania anno zero. Processo a Heidegger
di Marco Dolcetta
ARCHIVI Dalle carte del ministero degli Esteri francese riemergono gli atti del procedimento della Commissione Alleata a Friburgo contro il filosofo accusato di aver appoggiato il nazismo. L’imputazione, il dibattito e l’autodifesa dell’imputato
Una giuria mista fatta di tedeschi che avevano preso parte al complotto contro Hitler e di studiosi francesi
Discussione tesa che si risolse con l’interdizione accademica ma non con il divieto di insegnamento
Il linguaggio è la casa dell’Essere... (Martin Heidegger)
«Signor Presidente, signori membri stimati della Commissione formata sotto l’egida del Senato Accademico dell’Università di Friburgo e per delega dell’Amministrazione provvisoria, il vostro collega, Martin Heidegger, compare rispettosamente, davanti a voi a vostra domanda, per rispondere in suo nome alle accuse formulate contro di lui». Iniziano così, nell’originale tedesco e tradotto in francese dalle forze di occupazione Alleate francesi del Sud ovest della Germania, in data 23 luglio 1945, le 36 pagine del processo verbale della deposizione di Martin Heidegger davanti alla Commissione di denazificazione dell’Università Albert-Ludwig, a Fribourg-en-Brisgau. I componenti della Commissione: Presidente, Constantin von Dietze, membri, Artur Allgeier, Adolf Lampe, Friedrich Oehlkers, Gerhard Ritter. Questi documenti sono stati di recente ritrovati negli archivi del Ministero degli Esteri francese che si trovano a Colmar, nel Sud est della Francia.
I fatti: poco dopo l’occupazione di Friburgo, nella primavera del 1945, l’esercito francese inizia con un programma di ricostruzione, facendo capire subito chiaramente che l’Università non avrebbe beneficiato di alcun privilegio legato al suo statuto di istituzione autonoma, e non ci sarebbe stato alcuno spazio per un’ipotesi per un’eventuale possibilità di autoriabilitazione. L’Amministrazione militare e l’Università cominciarono così ad avere una difficile relazione caratterizzata da una parziale autorità di ciascuno e dall’implicazione discreta di intellettuali francesi, in differenti tempi consulenti, come spesso accadde in Francia, dell’Amministrazione militare al fine di indirizzare ideologicamente il Comitato di epurazione. Era sentita come un compromesso fra due istanze: strumento di controllo per i francesi che indirizzavano gli interfaccia palesi di Heidegger, ovvero gli universitari tedeschi. Tra i più conosciuti dai francesi emergono i nomi di Jean Paul Sartre, Jean Beaufret, De Touwarnicky, Jacques Lacan ed altri. I membri tedeschi della Commissione avevano preso parte al complotto del 20 luglio 1944 contro la vita di Adolf Hitler, imprigionati, erano sopravvissuti.
La commissione fu decisa nel maggio 1945. L’epoca era difficile, e l’appello a comparire davanti alla commissione universitaria non era il solo pensiero di Heidegger: i suoi due figli erano dispersi in Russia e il suo appartamento a Friburgo era stato requisito dagli occupanti.
Ma i membri della commissione erano propensi per la riabilitazione. Solo Lampe gli era contrario.
Le accuse erano le seguenti. Propaganda nazista effettuata da Heidegger presso gli studenti. Due, amministrazione dittatoriale dell’università da parte di Heidegger in conformità del principio del culto del Fuhrer. Tre, la restrizione della libertà dell’insegnamento esercitata da Heidegger nei confronti degli insegnanti negli anni 1933-34 in cui Heidegger era il Rettore.
Alla fine, contro solo il voto di Lampe. Infatti, la Commissione, nel settembre 1945, aveva stabilito che Heidegger era stato solamente un partigiano iniziale, benché ardente, della rivoluzione nazionalsocialista, giustificando così la rivoluzione agli occhi degli intellettuali tedeschi e rendendo loro più difficile conservare una certa indipendenza, ma che aveva smesso di essere nazionalsocialista a partite dal 1934. La sentenza raccomanda che Heidegger andasse subito in pensione, ma non fu sollevato dalle sue funzioni: poteva conservare il suo diritto di insegnare ma era escluso dall’amministrazione universitaria. Lampe non si arrende: il 4 novembre 1945 fornisce un rapporto circostanziato sulle attività di Heidegger durante il Terzo Reich, facendo una inchiesta informale presso professori e studenti dell’Università fino al 1945. Anche questo delicato rapporto si trova negli atti degli archivi del ministero degli Esteri francese.
Ma come si difese il filosofo dalle accuse in quella circostanza? Ecco uno stralcio della sua autodifesa. «L’intenzionalità come comportamento e la verità come apertura al mondo e rivelazione del mondo vanno mano nella mano - queste sono le ultime righe della difesa di Heidegger - «se l’università non può ripensare radicalmente l’intenzionalità, i suoi tentativi di rivendicazione di una neutralità di cui si vanta tanto e gli sforzi per evitare di essere l’organo dello Stato nazione del mercato sono del tutto inutili. La particolarità religiosa, dell’Università religiosa pre-moderna, sarà corrosa su due fronti: nazionalismo nascente e l’utilitarismo economico. Malgrado i suoi sforzi per mantenere un distacco teorico verso lo Stato e gli interessi del mercato, la sua secolarizzazione non è stata ottenuta per effetto della libertà dei valori ma per rimpiazzare un insieme di valori religiosi con altri valori più astratti. Come mi sono dunque comportato io che sono qui davanti a Voi, soggetto di diritto con l’impegno di fare una summa dei miei concetti filosofici, delle mie opinioni politiche, delle mie azioni e dei mie rapporti con i studenti e gli insegnati di questa università, esperienza intrapresa anche se avventurosa? Quelli che sperano di ascoltare qui delle ammissioni di colpevolezza o delle affermazioni di innocenza saranno delusi da ciò che avranno trovato. Sotto il sigillo di questo tribunale le mie parole saranno quelle di una viaggiatore, sebbene inopportune e premature, abbandonato da un educatore tragicamente sbattuto tra un ’non ancora e un già passato’».
l’Unità 7.4.08
Ecco il senso degli argomenti usati dal filosofo in quella istruttoria, ricostruiti sullo sfondo del controverso rapporto con il regime di Hitler, dal discorso «rettorale» del 1933 in avanti fino alla «revisione»
La tragedia del nazismo? Era stata tutta colpa dell’«Essere»
di Bruno Gravagnuolo
Una vicenda raccontata infinite volte e fonte ancora di polemiche, quella su Heidegger e il nazismo. Chiara altresì, almeno nei suoi contorni generali. E alla quale oggi i documenti sopra pubblicati apportano un ulteriore tassello di luce. Più che altro sul modo in cui il filosofo intese scagionare se stesso: modo sibillino e alquanto oracolare. Che non era né un’ammissione di colpa né un rigetto della colpa. Piuttosto una fuga speculativa, che avrebbe accettato magari una critica filosofica, ma non un giudizio etico-politico.
Prima di tornare su questo, riepiloghiamo di nuovo i fatti. Ormai è filologicamente comprovato. Heidegger, anche sotto l’influsso della moglie Elfride nazista convinta, fin dal 1932-33, era orientato politicamente (ed elettoralmente) verso il nazismo. A modo suo ovviamente, e non nel senso banale di partito (a cui si iscrisse altresì). Bensì in quello di un filosofo che voleva «cavalcare la tigre», e ravvisava nel nazionalsocialismo una rivoluzione conservatrice, anticapitalista e romantica. Capace di ridare lustro e prestigio all’Università tedesca, di rilanciarne il primato universale. Nonché di ricucire nella modernità, in quanto movimento politico, il legame tra «Zivilistation» tecnica, e senso greco dell’Essere, il «senso» alle origini della superiorità spirituale dell’Occidente.
Per questo il filosofo accettò la carica di Rettore dell’Università di Friburgo, inaugurando l’anno accademico 1933-34 con il celebre discorso su L’autoaffermazione dell’Università tedesca che gli fu a lungo rimproverato da allievi e avversari. In quel discorso Heidegger tracciava il profilo di «movimento» del «suo» regime nazista, delineando al contempo l’immagine mobile di una società organica, comunitaria, solidale. Del lavoro e della cultura. Compattata dall’«etnos» e fluidificata nei suoi vari comparti proprio dal ruolo d’avanguardia speculativa della filosofia. Al fine di riunificare in una radice più «intima e vera» il significato dei diversi saperi, rilanciando così la primazia della Germania. Governare la tecnica. Senza perdere la luce dell’Essere, dell’«autentico». Del divino numinoso e intramondano, oscurato dalla società massificata e inautentica, dal cosmopolitismo di matrice utilitarista e anglo-francese. Ecco il problema «politico» di Heidegger in quel momento. Uno Heidegger non lontano dalle pulsioni conservatrici di tanta parte della cultura tedesca di allora, secondo i moduli introdotti già nel 1915 dal Thomas Mann conservatore delle Considerazioni di un impolitico.
Sappiamo come si concluse l’avventura politica di Heidegger, costretto a dimettersi prima della scadenza del suo incarico, nel febbraio 1934. Essendosi rifiutato di estromettere dall’Università due colleghi avversi al regime e banditi apertamente dalle autorità nazionalsocialiste, che premevano in tal senso sullo studioso. In seguito i suoi corsi e la sua vita furono attentamente sorvegliati dalla polizia segreta e dalle Ss. Che, e ne abbiamo dato in passato ampio conto su queste pagine, non trovarono nulla di antinazista nella filosofia di Heidegger, anche perché non la capivano. Pur fiutando in essa motivi eccentrici e «disimpegnati».
Talché al filosofo, guardato a vista come «razionalista» (!) e «nichilista», fu impedito di pubblicare all’estero e anche di essere oggetto di recensioni alla sua opera. Così come di fatto, se non formalmente, gli fu inibito di partecipare a congressi di filosofia fuori dalla Germania.
Dunque, guardato a vista. Nondimeno, fino alla fine degli anni trenta, Heidegger continua a scorgere nel nazismo un «movimento» di «intima grandezza e verità». Benché, proprio a metà di quegli anni, inizi in lui un rovesciamento: dal nazismo come cura del «nichilismo tecnico», al nazismo come sintomo e conferma di quel nichilismo, frutto della Volontà di Potenza. Con la revisione su Nietzsche cambia quindi la prospettiva. E siamo all’«autodifesa» del 1945, citata in questa pagina. Heidegger si dichiara non imputabile, perché con la sua filosofia egli ha solo parlato dall’interno della tragedia del suo tempo, registrandola con «intenzione» libera, ed «esperienza avventurosa», seppur con inevitabile sviamento. Insomma la «colpa» era (stata) dell’Essere, del Destino, non del suo pastore e filosofo.
l’Unità 7.4.08
Le studentesse delle più prestigiose università difendono la loro castità ma il fenomeno ha più a che fare con una prova di forza che con valori come l’innocenza
La rivoluzione sessuale delle vergini di Harvard
di Stefano Pistolini
«La difesa della propria verginità non è tanto una questione di innocenza e purezza. Piuttosto ha a che vedere con un atteggiamento di forza». Ipse dixit una studentessa della notabile università di Harvard intervistata dal magazine domenicale del New York Times, che torna ad analizzare il fenomeno della difesa della castità tra i teenagers americani, storia che fece già il giro del mondo negli anni Novanta, allora ambientato nell’esplosione tra i postadolescenti dei comandamenti del neo-fondamentalismo. Adesso la faccenda ha colori diversi e più interessanti, per come si colloca in un ambiente culturalmente evoluto e trasversale come quello delle grandi università americane, poi per come rinuncia a percorrere le diffidabili strade epidemiche della «mania» generazionale, restando una scelta circoscritta, venata di attivismo più che di preghiera, esposta al dibattito tra coetanei e - questo lo aggiungiamo noi, da modesti osservatori da lontano - come effetto di una situazione d’insicurezza che si sta palpabilmente facendo strada tra la gioventù americana che, se a fronteggiare tante cose viene preparata dalle sue strutture educative, sembra quasi inerme nel momento di doversi consegnare a un messaggio d’incertezza, di futuro a temperatura variabile, di sogni da riporre nel cassetto, di ansie che si vanno diffondendo. Una questione di forza, dice la ventenne Janie Fredell, studentessa in scienze politiche nell’ateneo più rispettato d’America, noto oltre che i per i suoi formidabili standard culturali anche per l’attitudine disinvolta e gli stili di vita trasgressivi dei suoi studenti, impegnati collettivamente a dare un morso al momento magico della loro formazione. Janie è arrivata in quell’angolo del Massachusetts da Colorado Springs, una delle roccaforti fondamentaliste dell’America profonda, un posto dove, come racconta lei, al liceo indossare l’anello simbolo della castità sessuale non è più un gesto significato, dal momento che quell’anello lo indossano letteralmente tutte le ragazze della scuola. Per lei, tanto arrivare a Harvard è stato entusiasmante dal punto di vista della propria educazione, tanto è stato scioccante dal punto di vista dei comportamenti. Il sesso tra i banchi dell’università, è moneta corrente, dice strumento di socializzazione, deriva edonistica. Lei ha deciso di resistere a quanto le dava la sensazione di assediarla ormonalmente e di darsi da fare attivamente in una direzione diversa. Decisivo per finalizzare i suoi istinti, è stato l’incontro coi rappresentanti (forse 200, ma veramente attivi non più di una dozzina, confessa candidamente) del gruppo d’opinione True Love Revolution (http://www.hcs.harvard.edu/tlr/) che si definisce un’organizzazione studentesca apolitica, dedicata alla promozione dell’astinenza sessuale preconiugale, attraverso la presentazione della castità come un’alternativa positiva per motivi etici e di salute, al servizio di «coloro che desiderano restare forti». Ed ecco riaffiorare, sia pure sullo sfondo qualificato e liberale di Harvard - e non da un suburbia nel mezzo del nulla della Florida - la questione della «forza». La cosa principale da ricordare, scrive il sito della Rivoluzione del Vero Amore è che tanti ragazzi e ancor più ragazze che si concedono all’attività sessuale lo fanno perché si sentono pressati a farlo. Loro la chiamano la «dominante scena della seduzione», uno spietato dentro-o-fuori sociale al quale è difficile sottrarsi, salvo poi fare i conti col disagio derivato dalla consapevolezza che il sesso casuale non sia così piacevole come i media lasciano credere.
Ma di cosa ci sta parlando questo articolo del principale quotidiano americano? Parla forse di diffusione del senso di colpa e della paura del peccato negli strati postadolescenziali della parte più fortunata della nazione? Descrive con un certo voyeurismo le ultime frontiere di quell’arte di arrangiarsi sessualmente che ha sempre fatto da pendant ai divieti dottrinali (inerpicandosi in statistiche sul boom del sesso orale tra le stesse fanciulle che si battono in difesa della propria verginità)? Ripropone la questione del danno psichico diffuso tra i giovani dal rovinoso affair Clinton-Lewinsky e dalla sua squallida rappresentazione del sesso senza futuro? Oppure lascia intendere che l’importante per un giovane americano sia non restare indietro dal punto di vista della strutturazione sociale, tanto più in ambito universitario, insomma che l’affiliazione a una qualsivoglia organizzazione è l’anticamera del lobbismo a cui è sottoposta tutta l’organizzazione economica e politica dell’America che conta qualcosa? Probabile ci sia del vero in ciascuno di questi aspetti. Ma nel ritratto dell’America sempre più balbettante di questi tempi, dove s’intrecciano i ritrovati entusiasmi politici della campagna-Obama (non si sa ancora quanto venati di effimero) e gli strilli dei giornali che fanno a gara a gridare alla nuova Grande Depressione, in questo quadro destabilizzato, ci colpisce soprattutto l’appello a una condotta di «forza» prodotto dalla giovane vergine di provincia. Tener duro contro le tentazioni, non cedere il proprio corpo, preservarlo per la fantasticata comunione dei sentimenti con l’unico, vero, possibile amore. Uno slancio, per quanto ingenuo e artificioso appaia, che va in direzione dell’autostima, della difesa del sé dall’assedio delle insicurezze. Anche per questo, prima di sfottere le vergini americane e i loro volantinaggi sulla porta delle aule all’insegna del «Perché non aspetti?», viene un moto di simpatia. Nella speranza che non venga scambiato per una strategica variazione nell’inesauribile partitura del rimorchio sessuale.
l’Unità 7.4.08
Paleoantropologia. Nuove scoperte su l’Orrorin tugenesis
Camminava eretto 6 milioni di anni fa
di Davide Ludovisi
Nel 2000 in Kenia sono stati scoperti dei fossili che hanno scatenato da subito un intenso dibattito scientifico. Si trattava dei resti di un antenato umano risalente a sei milioni di anni fa, chiamato Orrorin tugenesis. Ora nuove analisi fatte dagli antropologi statunitensi Brian Richmond della George Washington University e da William Jungers della Stony Brook University di New York e pubblicate su Science, rivelano che già sei milioni di anni fa questo ominide era in grado di avere una deambulazione eretta. Le ossa fossili hanno infatti rivelato una notevole somiglianza con le analoghe strutture di Australopithecus e Paranthropus, che risalgono a un periodo ben più recente, tra i tre e i due milioni di anni fa.
Il paleontologo francese Martin Pickford, del Collège de France, che assieme alla collega Brigitte Senut ha scoperto i resti dell’Orrorin tugenesis, si dichiara soddisfatto: «Io e i miei colleghi abbiamo sempre sostenuto che l’Orrorin fosse bipede. All’inizio alcuni scienziati non concordarono con noi, ma la maggior parte ora si sono ricreduti».
«I nuovi studi lo confermano: i resti femorali dell’Orrorin suggeriscono che avesse un’andatura bipede e ciò lo rende un antico ominide», non una semplice scimmia, quindi, spiega Daniel Gebo, antropologo della Northern Illinois University e noto esperto di bipedismo. Le prime Tac sulle ossa dell’anca dell’Orrorin avevano fatto avanzare l’ipotesi che possedesse una postura simile alla scimmia, per potersi arrampicare sugli alberi. Gli scienziati americani, analizzando i femori di Orrorin e confrontandoli con quelli di altri ominidi fossili, delle grandi scimmie e dell’uomo, hanno invece concluso che l’articolazione dell’anca del nostro vecchio progenitore era perfettamente adatta a un’andatura bipede, andatura che venne mantenuta senza grossi cambiamenti per i successivi quattro milioni di anni.
«Lo studio dimostra che l’andatura eretta è una delle primissime caratteristiche umane ad essersi evoluta», racconta Brian Richmond. «Queste analisi confermano che i nostri primi progenitori erano adatti a camminare su due gambe già circa sei milioni di anni fa, appena dopo la separazione tra gli umani e gli scimpanzé». Il successo della nostra specie deve molto all’ottimo design delle nostre anche, quindi.
«Avere la prova che Orrorin sia stato uno dei primissimi antenati umani con un’andatura eretta è molto importante perché vogliamo conoscere le cause per le quali a un certo punto i nostri antenati si sono differenziati da quelli degli scimpanzé», spiega John Hawks, paleoantropologo dell’University of Wisconsin. «Ora - continua Richmond - la nuova sfida è capire che cosa abbia accelerato il passaggio da questi primi fortunati adattamenti della conformazione corporea a quelli più simili ai nostri, affermatisi circa due milioni di anni fa nei primi membri del genere Homo: cioè lunghe gambe, grandi giunture dell’anca, dita corte e diritte».
l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane
l’Unità 7.4.08
L’ultimatum per le donne dei libri
di Bruno Ugolini
Hanno un compito delicato e difficile. Sono in ventisei, quasi tutte donne. Non hanno a che fare con complicati macchinari. La loro non è una fatica manuale, è una fatica degli occhi e della mente. Maneggiano dalla mattina alla sera libri antichi e moderni, un patrimonio raro e prezioso. Alcune di loro in queste settimane, per fare un esempio, hanno analizzato testi del Cinquecento. Hanno imparato una professione, quella del bibliotecario. Lavorano da molti anni, dal 2004, nelle varie stanze del quarto piano della Biblioteca nazionale centrale di Roma. Non hanno trovato quel lavoro per caso. Sono state selezionate, raccontano in un’Email, sulla base di titoli sudati: laurea, curricula, specializzazioni, esperienze professionali. E una delle tante vicende che prendono di petto un tema che in questa campagna elettorale è stato sollevato da Veltroni. Raccontano, con una punta d’orgoglio, d’essere bibliotecari dell’Iccu, l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche. Un Istituto nato a seguito della costituzione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il compito di catalogare l’intero patrimonio bibliografico nazionale, a garanzia dello sviluppo di servizi di uguale livello su tutto il territorio nazionale. Un lavoro di soddisfazione: sanno che quei libri rappresentano una ricchezza da custodire e riordinare per questo paese frastornato. Ora però sono sommerse da drammatiche preoccupazioni. Il loro lavoro, infatti, come capita a tanti in Italia, magari trattati con qualche faciloneria come bamboccioni, non è considerato stabile. L’amministrazione pubblica ha stabilito con loro contratti di collaborazione, senza ricorrere, come spesso si fa, all’impiego di cooperative e a forme di cottimo nascosto. E così hanno potuto percepire finora uno stipendio pari a circa 1100 euro il mese, passando via via di contratto in contratto. Ora però, raccontano, sono «in scadenza». La data finale è il 31 maggio 2008. Qui dovrebbero trovare un’amara conclusione, le loro carriere professionali e le loro possibilità non solo di reddito, ma di un’esistenza in qualche misura appagante. Non è una scadenza obbligatoria, collegata alla fine di un progetto. Le loro incombenze investono l’attività istituzionale dell’Iccu, un’attività non certo esaurita. L’ultimatum, così, rappresenta un duro colpo. Gran parte di quelle donne, dai 30 anni in su, hanno dal 2004 organizzato la propria vita, si sono sposate, hanno avuto figli. Ed ora? Ora s’interrogano sulle cause del licenziamento. È una questione di soldi? Eppure lo Stato, in tutti questi anni, dal 2004 in poi, ha investito tempo e denaro per la loro formazione, per adeguare la loro professione. Un investimento che ora si vorrebbe gettare alle ortiche. Un atto di spreco incurante di persone che con il loro lavoro, rilevano, contribuiscono a creare e conservare la cultura del nostro paese. E aggiungono: «Ci chiediamo quale sia il motivo che porta il mondo politico in generale, ora alla vigilia delle elezioni, a tuonare contro il precariato, definito piaga ed emergenza sociale, ma a tacere sulle modalità di regolarizzazione di quanti abbiano contratti atipici in essere». Un invito, insomma, ad approfondire gli impegni già assunti (ad esempio dal Pd) per un giusto compenso ai precari e per favorire processi di stabilizzazione. Queste donne testimoniano di numerosi casi di persone con anni di contratto atipico e che rivendicano, dopo una tale prolungata fase, non la chiusura di ogni rapporto di lavoro, bensì un rapporto fisso. Scrivono ancora le nostre interlocutrici di volere «un contratto di lavoro dignitoso, in cambio di un lavoro di alto profilo e qualità». Pretendono che lo Stato non le butti via, buttando così una parte di se stesso. Ricordano a tutti noi: «La cultura non è meno importante della Tav del Corridoio 5 o del ponte sullo Stretto. La cultura è un’infrastruttura non tangibile, ma altrettanto concreta».
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l’Unità 7.4.08
Ferrara, oratore a senso unico
di Luigi Cancrini
La piazza bolognese che lancia sassi e pomodori contro Giuliano Ferrara è stata criticata con forza un po’ da tutti. L’impressione che ho, leggendo, è che le critiche nascondessero, tuttavia, un certo compiacimento. Mi sbaglio? Lei che ne pensa?
Lettera firmata
Il problema fondamentale della politica nelle democrazie moderne è stato correttamente indicato da Chomsky e da Herman e da molti altri come un problema di accesso alla comunicazione di massa. Come ben dimostrato ancora una volta da questa ultima campagna elettorale, il numero delle persone che hanno la possibilità non solo di parlare ma anche di decidere di che cosa si parla, di stabilire l’agenda degli argomenti rilevanti e di definire l’ordine delle possibili soluzioni è estremamente limitato. Osservato da questo punto di vista e al di là del merito, quella che si intravede dietro l’episodio comunque sgradevole di Bologna è una ingiusta (e poco democratica) distribuzione del potere fra un uomo che è a tutti gli effetti un Vip e può per questo motivo utilizzare la sua capacità e la sua non comune possibilità di trovare spazio su tutti i media del Paese (con rubriche e giornali suoi ma con una presenza fra le più invadenti anche sugli altri giornali e nei dibattiti televisivi non diretti da lui) per dare voce ad una sua crisi personale su un tema «eticamente sensibile» e il resto delle persone normali: quelle che non hanno nessuna possibilità di dire la loro sui media e che anche oggi, sulla piazza, sono costrette solo ad ascoltare e impossibilitate, nei fatti, a replicare. Nel silenzio imbarazzato e imbarazzante di quelli che sono, a tutti gli effetti, i due grandi protagonisti della vicenda elettorale impegnati in una corsa al centro che rende difficile trovare argomentazioni su cui si rischia di irritare il Papa e la Curia. Ma nel silenzio imbarazzato e imbarazzante, soprattutto, delle televisioni e dei grandi giornali che pensano di dover rispettare, nel nome di una par condicio che li libera dal dovere di critica, le condizioni di extraterritorialità («lo dice in campagna elettorale, noi dobbiamo solo riferire») delle sciocchezze terroristiche dette da Ferrara su un tema che meriterebbe ben altra capacità di riflessione e di rispetto.
L’aborto è questione che riguarda da vicino la coscienza e la sensibilità di ognuno di noi (e dunque di tutti quelli che si trovavano quel giorno in quella piazza) ed è davvero assurdo e per molti versi fastidioso sentire persone che ne parlano da un palco in modo così apertamente provocatorio: con tanta sicurezza, cioè, e con tanta violenza. Travestito da Gesù nel tempio, Giuliano Ferrara che si scaglia contro l’aborto considerato come il male del mondo non è credibile semplicemente perché la gente non può fare a meno di chiedersi da che pulpito viene quella predica. Solo chi è senza peccato può scagliare la prima pietra e davvero assai goffo è il tentativo fatto da un leader politico improvvisato di presentarsi come campione della moralità pubblica dopo essere stato, per tanti anni, fra i protagonisti più compiacenti e più premiati di un circo mediatico in cui la signora morale (così la chiamava Marx) è abitualmente assai trascurata. Sentirlo insultare (insulti sono purtroppo i suoi, che se ne renda conto o no) le persone che sono costrette (comunque dolorosamente, pagando comunque prezzi personali pesanti) ad affrontare il tema dell’aborto nel concreto della loro vita, vedere come si muovono intorno a questo nuovo tipo di furore (potente e ieratico, megalomanico e inutilmente presuntuoso) le angosce persecutorie di tante persone che stanno male (e che a questo star male cercano sollievo canalizzando impropriamente sugli altri una aggressività legata ai loro sensi di colpa) fa molta pena o più semplicemente una grande rabbia. Impossibilitati come erano nei fatti a contraddire un oratore così arrogante, quelli che non la pensavano come lui, quelli che si sentivano offesi dai suoi modi e dalle sue parole hanno comunicato con lui utilizzando i fischi e i pomodori. Abbassandosi di fatto al livello che era stato loro proposto.
Sono stato invitato una sola volta da Ferrara ad uno dei suoi talk-show. Non ero d’accordo con lui (ce l’aveva quella volta con i giudici e con i genitori di Rignano Flaminio) e lui è stato così villano pubblicamente da sentirsi costretto (nel nome forse dell’amicizia che avevo avuto con suo padre in passato) a chiedermene scusa poi in privato. Mi sono chiesto molte volte da allora il perché di tanta rabbia e di tanta sicurezza. Quello che me ne è rimasto come ricordo è il retrogusto amaro di una situazione in cui chi ha in mano le chiavi per l’accesso ai media pensa di poter condizionare e ricattare chi, facendo politica e non facendo parte del mondo dei Vip, di questo ha (o si pensa che abbia) bisogno.
Siamo di nuovo al punto, caro lettore, Chomsky ha ragione quando dice che oggi lo squilibrio fondamentale non è più solo quello che si determina intorno alla proprietà delle strutture di produzione ma anche e, a tratti, soprattutto quello che si determina intorno alla proprietà e al controllo delle strutture che governano l’informazione. Segnala proprio questo, in fondo, l’episodio di Bologna. Chiamando l’elettore che crede ancora nella politica a porsi nel momento del voto una domanda semplice sul perché l’agenda politica di questa campagna elettorale abbia ruotato sempre intorno ai soldi (da dare o da non togliere con promesse probabilmente irrealizzabili su salari, bonus e pensioni ai cittadini o alle famiglie) e mai o quasi mai intorno alla esigibilità dei diritti negati dalla debolezza sempre più grave dei servizi che si occupano dei bambini e degli anziani, dei pazienti psichiatrici e dei tossicodipendenti, degli immigrati e dei minori che arrivano con loro. Dei diritti di quelli che contano poco, cioè, perché non hanno rappresentanti: in politica, sui giornali e nei talk show televisivi.
Repubblica 7.4.08
Dossier Onu contro l'Italia "Discrimina gli zingari"
Anche gli sgomberi nel mirino del Cerd. "E alcuni politici incitano all'odio razziale"
di Davide Carlucci
"Negli ultimi mesi l´isteria anti rom ha raggiunto livelli allarmanti"
Critiche allo smantellamento dei campi senza dare un tetto alle persone evacuate
MILANO - In Italia è in corso «una campagna di discriminazione» senza precedenti contro rom e sinti. E per fermarla bisogna anche «perseguire i politici che incitano all´odio razziale». La tesi è contenuta nell´ultimo rapporto del Cerd, il comitato internazionale per l´eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale delle Nazioni unite. È un duro atto d´accusa all´Italia, colpevole, secondo l´organismo - che raccoglie le segnalazioni di Ong e associazioni - di diversi atti di segregazione verso le due comunità. Sono elencate tutte le contestazioni sugli sgomberi dei campi rom avvenuti negli ultimi mesi a Milano, Roma, Bologna, Pavia e altre città, mentre un robusto capitolo è dedicato alle esternazioni, riportate da stampa e tv, di leader come Gianfranco Fini, che il 4 novembre in un´intervista al Corriere della sera si è chiesto «come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavorare perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi».
La relazione sull´«antiziganismo» sarà resa pubblica domani a Milano - dove sono ancora roventi le polemiche per il recente sgombero del campo della Bovisasca - durante un incontro pubblico organizzato da Dijana Pavlovic, attrice e attivista rom candidata per la Sinistra Arcobaleno. Critiche al decreto del governo sull´allontanamento dei rom che commettono reati e agli sgomberi ciechi, senza la garanzia di un tetto per le persone evacuate. Molte pagine del documento riguardano le «discriminazioni nell´accesso ai diritti sociali, politici, civili ed economici». A pagina 17 si nota «con seria preoccupazione che nei recenti mesi, in seguito all´avvio delle operazioni previste dai patti di sicurezza in varie città italiane, l´isteria anti-Rom ha raggiunto nuovi e allarmanti livelli nei media». Nelle roulotte e nelle baracche, così, si respira un´atmosfera di paura al punto che alcune famiglie rom e sinti residenti a Pescara da generazioni che hanno chiesto di cambiare i loro cognomi per celare le loro reali origini. Abusi, secondo il rapporto, sarebbero stati commessi anche dalla polizia durante i controlli nel campo di via Casilino 900 di Roma, nell´insediamento di Stupinigi, alle porte di Torino e a Mantova. Episodi che vengono accostati alle violenze commesse da squadracce xenofobe come gli incendi che hanno colpito due accampamenti a Roma il 3 gennaio, o il raid sventato l´8 novembre a Torino dove, già un mese prima, si è sfiorata la strage per un incendio causato dal lancio di bombe molotov. La «discriminazione nell´accesso alla casa» sarebbe alla base delle frequenti tragedie come la morte dei quattro bambini di Livorno o come i tre incendi mortali del Casilino, di Caserta e di Bologna. Per non parlare delle bombe ecologiche: a Bolzano si sta cercando una soluzione per centinaia di rom accampati in un´area fortemente contaminata. Il rapporto prescrive all´Italia venti raccomandazioni, tra le quali il riconoscimento dei sinti e dei rom come minoranze nazionali e il ricorso all´azione penale contro i politici responsabili di incitazione all´odio razziale.
Repubblica 7.4.08
Un omaggio a due ricchissimi mercanti d'arte russi alla Royal Academy
Picasso, Matisse, Renoir sulla via di Mosca
LONDRA. Ai mercanti, ai mecenati, ai collezionisti è dedicata la bellissima mostra "Dalla Russia", in corso alla Royal Academy di Londra fino al 18 aprile. Un omaggio ai due mercanti russi Sergey Shchukin e Ivan Morozov. Due commercianti moscoviti della fine del secolo XIX, ricchissimi, rivali tra di loro, entrambi ansiosi di far conoscere in patria le novità parigine nel campo dell´arte.
Ambroise Vollard il mercante di Césanne, diceva di Morozov: «È un russo che non contratta e non bada a spese». Fu così che prese la via di Mosca, con ogni mezzo di trasporto, una incredibile quantità di opere degli impressionisti francesi e non solo. I curatori Ann Dumas e Norman Rosenthal hanno realizzato una mostra intellettualmente ambiziosa e visivamente affascinante. Morozov, dei due, era forse di gusti più conservatori, ma Shchukin acquistò un centinaio di opere di Picasso del periodo rosa, blu, cubista, e divenne il più importante mecenate di Matisse, al quale commissionò, nel 1909, La danza, l´impressionante murale oggi all´Hermitage. La mostra, ricca di centoventi capolavori, provenienti dai musei di Mosca e di San Pietroburgo, si divide in due sezioni: i dipinti francesi che i due mercanti fecero arrivare in Russia e le opere degli artisti russi.
Shchukin, fino ai primi del secolo non aveva amato particolarmente Picasso, ma racconta nelle sue memorie: «Sollecitato dagli amici ne acquistai uno. A Mosca però non sapevo dove sistemarlo. Non andava d´accordo con il resto della collezione. Alla fine lo collocai accanto alla porta d´ingresso. Ci passavo davanti tutti i giorni e naturalmente gli davo uno sguardo. Divenne un´abitudine inconscia. Dopo un mese mi resi conto che se non vedevo il dipinto non mi sentivo a mio agio e la colazione mi andava di traverso. Perché? Realizzai allora che quel quadro aveva una spina dorsale di ferro e tutti gli altri mi sembrava l´avessero di cotone». In breve Shchukin divenne "Picasso dipendente". Quello che aveva stregato Shchukin era quanto di barbaro, di violento, di essenziale c´era nell´arte di Picasso. E barbaro, violento, essenziale, sono fra gli elementi fondamentali della pittura russa della seconda metà dell´Ottocento. «Gratta un russo e troverai un barbaro». Non era concepibile, allora, che si potesse dipingere in Russia un´opera come Le dejeuner sur l´herbe di Manet. Per diversi motivi, sociali, religiosi e francamente realistici. Se si entra nel dipinto di Renoir Le moulin de la Galette e si scostano le fronde che nascondono in parte il tavolo e i commensali si avverte inevitabile un odore di cucina, cucina ricca e borghese. Sensazione impensabile per qualsiasi dipinto russo.
Ancora nel 1856, il giovane conte Leone Tolstoi scrive nel suo diario: «Il mio atteggiamento nei confronti dei servi della gleba comincia a darmi molti pensieri». La schiavitù venne abolita in Russia nel 1861 dallo zar riformatore Alessandro II, ucciso vent´anni dopo dilaniato dalla bomba di un terrorista. La conseguenza dei pensieri di Tolstoi, e non solo dei suoi, fu che l´elemento popolare, il neoprimitivismo, i grandi temi dei lavoratori, diventano fondamentali e ricchi di fermenti per tutta l´arte russa. Il grande Ilya Repin, l´artista più longevo e influente della scuola dei cosiddetti peredvizniki, gli ambulanti, ce ne regala una vera e propria enciclopedia, come I battaglieri del Volga, o Ottobre 1805, ma Repin, e come poteva farne a meno?, ascolta Tolstoi che dice: «Per dipingere ci vuole il cuore» e quando esegue il suo memorabile ritratto, lo ritrae nella sua tenuta di Jasnaia Poiana, vestito da contadino, a piedi nudi sull´erba, le mani dentro la cintura, come un povero pellegrino.
La profonda attenzione alla religione c´è sempre stata nella cultura russa fin dal tempo delle icone. La rassegna lo mette bene in rilievo, dando spazio ai contadini senza volto, vere immagini di Cristo, di Kasimir Malevic, che a volte li dipinge davanti a una croce, o meglio davanti a un´idea astratta di croce. Malevic minimalizza le immagini fino a tornare all´archetipo dell´icona. E un pathos religioso dal quale nascono le "croci nere", i "cerchi neri", i "quadrati neri". E siamo a qualche decennio prima di Rothko. Insomma il risultato di tanta pittura diversa che «arrivò a Mosca grazie a due mercanti di tessuti come Shchukin e Morozov», quando cominciarono a esporre Gauguin e Cézanne, e poi Picasso, Matisse e Derain, fu che gli artisti russi si trovarono a confrontarsi con un vero e proprio "nuovo corso", e l´effetto fu che la modernità, nel momento in cui toccò il suolo della Santa Madre Russia, si slavizzò nello stile vivace e selvaggio del neoprimitivismo, a volte anche romantico.
Ma forse la sezione russa della mostra, dedicata ai ritratti, è quella più coinvolgente. Il ritratto di Ida Lvovna Rubistein, la danzatrice famosa per i suoi ruoli di Cleopatra e di Sherazade, non è solo un capolavoro di Valentin Serov, ma è uno dei punti chiave del modernismo russo. È sì un bassorilievo arcaico, ma la protagonista si esibisce nella sua totale e affilata nudità con sicurezza malinconica e insolente. Forse, è proprio nel ritratto che si esprime meglio l´ansia rivoluzionaria, l´irrequietezza e spesso l´ambiguità degli artisti russi.
Ma "Dalla Russia" va oltre, oltre i ritratti, i paesaggi, il significato dei cubo futuristi, dei suprematisti, degli strutturalisti, perché sistemando i dipinti russi insieme ai francesi che spesso li hanno ispirati, alla Royal Academy si mette in evidenza il dialogo tra i padri fondatori, chiamiamoli così, i loro discendenti ribelli e rivoluzionari.
Repubblica 7.4.08
Appello di Moretti, Bellocchio & Co. contro Cinecittà
Braccio di ferro su Filmitalia il cinema italiano si divide
Niente più autonomia "Liberazione" parla di colpo di mano
di Franco Montini
ROMA - Insorge il cinema italiano con un appello lanciato da quaranta illustri cineasti - una trentina di registi, fra gli altri Bellocchio, Montaldo, Moretti, Muccino, Ozpetek, Piccioni, Rubini, Salvatores, Scola, Virzì ed una decina di produttori - contro l´ipotesi di incorporazione di Filmitalia, la società presieduta da Irene Bignardi che si occupa della promozione del cinema italiano all´estero, all´interno del Gruppo Pubblico. Il provvedimento dovrebbe essere discusso e approvato oggi dal consiglio d´amministrazione di Cinecittà Holding. Il quotidiano di Rifondazione Comunista Liberazione parla di colpo di mano innescando un´implicita polemica con il Partito Democratico, cui fanno riferimento i vertici di Cinecittà. Ma Daniele Luchetti, uno dei firmatari, parla solo di cinema: «In questi anni Filmitalia ha svolto una meritevole azione di diffusione del nostro cinema in tutto il mondo, riuscendo a sopperire alla scarsità del budget a disposizione, dieci volte inferiore a quello di Unifrance, l´analoga agenzia transalpina, grazie all´agilità della struttura, alla rapidità nel assumere le decisioni operative, alla mancanza di burocrazia. Temiamo che se Filmitalia venisse assorbita in una struttura più complicata, come è Cinecittà Holding, tutto diverrebbe più difficile e farraginoso e per la struttura sarebbe impossibile lavorare come ha sempre fatto».
Tuttavia le osservazioni di autori e produttori non convincono affatto i vertici del Gruppo Pubblico. «Nonostante i firmatari dell´appello siano tutte personalità di prestigio - annuncia Alessandro Battisti, presidente di Cinecittà Holding - non siamo disposti a tornare indietro. La mia impressione è che molti dei firmatari non siano sufficientemente informati sul progetto: non si tratta affatto di ridimensionare il ruolo e l´attività di Filmitalia, né tanto meno di chiuderla, bensì l´esatto contrario. Ciò che abbiamo previsto è una fusione per incorporazione, formula che garantisce i livelli occupazionali di Filmitalia. Attraverso questo meccanismo si eliminano semplicemente una serie di spese per il mantenimento della struttura».
Corriere della Sera 7.4.08
Parole, struttura linguistica, clima retorico del proemio: la ricostruzione filologica di un «documento non autentico»
«Canfora ha ragione. Quel papiro non è di Artemidoro»
di Maurizio Calvesi
La tesi di Calvesi: ha ragione Canfora. Simonidis copiò un testo dell'800 del tedesco Carl Ritter
Il testo del discusso «papiro di Artemidoro» venne presentato per la prima volta nel 1998 dalla rivista specializzata «Archiv für Papyrusforschung»
La vicenda del papiro cosiddetto di Artemidoro (che conterrebbe frammenti di una sua opera di geografia, preceduti da un proemio tra il mistico e il filosofico, risalendo al I secolo a.C.) è ben nota ai lettori del Corriere dopo la sua esposizione a Torino e a Berlino.Ma penso che la difficoltà di districarsi tra lemmi di greco antico non abbia consentito ancora a tutti di comprendere, pienamente, le pur indiscutibili ragioni di Luciano Canfora, che ha scoperto la non autenticità del manufatto. Ineccepibile è anche la sua attribuzione del papiro al famoso e abilissimo falsario greco Costantino Simonidis, nato nell'isola di Simi nel 1820 e morto in Egitto nel 1890. Ciò che ora ho trovato, in una mia autonoma ricerca, potrà forse consentire un più agevole orientamento del lettore, giacché si tratta del testo moderno da cui il falsario sembra aver tratto alcuni concetti e alcune parole, nonché lo stesso clima retorico, del solennissimo «proemio».
Questo testo è opera del grande scienziato tedesco Carl Ritter (1779-1859) che, famoso per la sua monumentale Erdkunde di vocazione storico-umanistica, ovvero un'opera di geografia correlata all'uomo, fu uno degli artefici della «rinascita » della geografia nel XIX secolo. Nel 1836 ebbe larga diffusione la pubblicazione in francese della sua Géographie générale comparée, le cui primissime righe introduttive trovano un pronto riscontro nelle primissime righe dell'introduzione, o «proemio», del sedicente trattato di geografia di Artemidoro. Il confronto tra un testo francese ed uno in greco antico non risulterebbe facilmente accessibile, trascrivo dunque entrambi gli incipit in lingua italiana.
Così, nel suo enfatico scritto, il Ritter esordisce: «Nell'introduzione a un'opera che ha per scopo di accogliere, in un corpo intimamente unito nelle sue parti, le diverse nozioni sulla terra, prima di esporre il piano è indispensabile che si indichi ciò che ha rapporto, in questa scienza, con l'uomo. (…) L'uomo morale, l'uomo che vuole agire in modo efficace, deve avere l'intima coscienza delle proprie forze (…); ogni società di uomini deve misurare anche le proprie forze interiori ed esteriori».
E così esordisce il «proemio»: «Chi intende dedicarsi a un'opera geografica è indispensabile che, prima, mostri la propria scienza (o "il proprio sapere") in tutta la sua interezza misurando il peso della propria anima (ovvero: "plasmando la propria anima") in rapporto a tale impegno e preparandosi con gli strumenti dello spirito preposti alla volontà per quanto lo consenta la sua forza, senza che l'anima ela volontà vengano meno».
Ho girato in corsivo «volontà», «forza », «anima» perché ci sono anche queste parole, e c'è anche il divino, subito dopo, nell'introduzione del Ritter: «È l'accordo della volontà con la forza che, laddove la chiarezza si unisce alla verità, si manifestano in atti sublimi ed eterni» e «fanno fremere la nostra anima nel presentimento di un Dio. Ma quale è la vera volontà dell'uomo? (…) In che modo la volontà e la forza si compenetrano?». A sua volta, poi, il papiro fa appello al divino, invocando «le divine Muse» (letteralmente «dee del pensiero», maestose, eterne) e «la divina filosofia».
Il tono predicatorio, mistico e quasi esaltato del Ritter è lo stesso del proemio di Simonidis, ma soprattutto ricorrono alcune parole, e alcuni dei concetti sono analoghi. (Fermo restando che altre idee di Simonidis discendono da Strabone e che il lessico è debitore al vescovo bizantino Eustazio, come dimostrato nel recente libro di Canfora).
Ma l'accostamento di singole frasi potrà far meglio percepire alcune sorprendenti affinità: «l'uomo che vuole» (Ritter) ha riscontro in «chi intende» (papiro). «Un'opera che ha per scopo di ricevere in un corpo intimamente unito nelle sue parti» (Ritter) corrisponde all'immagine offerta dal papiro di una «scienza in tutta la sua interezza», ovvero di un sapere umanisticamente integrale. (Luciano Bossina, in un intervento nel libro di Canfora, aveva parlato per questa frase di «affermazione dell'unità del sapere»).
«Prima è indispensabile che si indichi ciò che ha rapporto» (Ritter), viene quasi tradotto nel papiro in «prima è indispensabile che mostri (…) in rapporto». «Avere la coscienza intima delle proprie forze », «misurare le proprie forze interiori» (Ritter) andrà posto a riscontro con la frase del papiro «misurando (ovvero: "plasmando") il peso della propria anima», a proposito della quale Bossina aveva già scritto: «Al geografo è dunque richiesto di misurare preventivamente le proprie forze». «L'accordo della volontà con la forza», «la volontà e la forza» (Ritter), trovano eco in «la volontà per quanto lo consente la sua forza», «lo spirito e la volontà » (papiro).
La frase inizialmente citata del Ritter — «Nell'introduzione a un'opera che ha per scopo di accogliere (…) le diverse nozioni sulla terra, è prima indispensabile che si indichi ciò che ha rapporto con l'uomo» — torna a trovare riscontri anche nelle considerazioni finali del «Proemio ». Il Ritter intende dire che nell'introdurre un'opera che riunisce in un corpo di sapere unitario studi sulla terra e sulle varie terre, è necessario, prima di esporre il programma, indicare ciò che (ovvero "i luoghi che") ha ("hanno") un diretto rapporto con l'uomo. Ed ecco Simonidis: «L'uomo arriva a possedere tutte le parti del mondo e si consacra tutto intero al (…) divino parametro della filosofia. Allo stesso modo anche il geografo, approdato sulla terra ferma di un paese e conosciuta l'estensione del paese che gli sta intorno e dei paesi che stanno altrove (...), fermandosi si accinge a conciliare la propria anima ("a entrare in rapporto") con il paese che gli sta sotto gli occhi».
«Io — leggiamo nel papiro — sono pronto a porla (la geografia) sullo stesso piano della più divina filosofia»: è proprio questa in buona sostanza, anche se rudimentalmente espressa, la novità della concezione geografica di Karl Ritter, discepolo del filosofo e teologo J.G. Herder.
Di fronte a così sospette assonanze, sarà inutile invocare analisi scientifiche che rivelano l'antichità del papiro e la composizione degli inchiostri. Simonidis conosceva benissimo tale composizione chimica, come si legge in articoli a lui dedicati nel XIX secolo e resi noti dal Canfora, e ovviamente si serviva di papiri antichi.
C'è però, mescolata al suo animo truffaldino, una componente «risorgimentalmente » nobile (la Grecia ha avuto il suo Risorgimento, con moti d'indipendenza indirizzati anche contro un re proprio di ceppo tedesco, Ottone di Baviera). Si potrebbe arrivare a pensare che il «patriota » Simonidis, con il suo falso, volle dimostrare che non solo a Strabone, ma anche al suo precursore Artemidoro, ovvero a tutta l'antica cultura greca, risale il merito di aver precorso la concezione moderna (ottocentesca e soprattutto germanica) della geografia come «profonda » scienza umana.
In ogni caso il simulato Artemidoro è dunque un documento affascinante, come spia di uno degli aspetti più nascosti e intriganti della cultura nel XIX secolo. Chi ha acquistato, confidando nel parere di studiosi accreditati, il manoscritto di Simonidis si trova ora in possesso di un cimelio certo inferiore in termini economici alla stima iniziale, ma di non trascurabile interesse da un punto di vista culturale.