martedì 8 aprile 2008

Repubblica Firenze 8.4.08
Faccia a faccia al cinema Puccini tra il candidato premier dell'Arcobaleno e il leader dei professori
Bertinotti-Ginsborg, prove di sinistra
di m. v.


Bertinotti-Ginsborg, prove di sinistra. Di fronte alla platea gremita del Teatro Puccini, il candidato premier della Sinistra Arcobaleno si è incontrato con lo storico Paul Ginsborg, animatore della sinistra critica fiorentina e leader del movimento dei professori. Un faccia a faccia che è un interrogarsi a vicenda sul senso e sul futuro della sinistra. Ma prima di tutto Bertinotti incontra una delegazione dei lavoratori dell´Electrolux, tanto per chiarire da che parte sta la Sinistra Arcobaleno a costo di ritardare di mezz´ora l´inizio della serata. Bertinotti entra nel teatro e la platea si alza in piedi, cori e strette di mano per il presidente della Camera che si presenta con un «toscano» in bocca. Alla destra del pubblico, è Ginsborg che apre la maratona con il suo accento britannico. Parla del vecchio Pci che la domenica organizzava la diffusione dell´Unità e parla di una democrazia partecipata come nuovo modello della politica che la sinistra deve perseguire: «La democrazia va riempita di partecipazione» sostiene. Il pubblico applaude, Bertinotti anche. Beve un sorso d´acqua e chiede: «Che acqua è?». «Tranquillo presidente, è ancora acqua pubblica» gli grida qualcuno dalla platea. «Grazie per il calore di questa sera, questa Sinistra Arcobaleno deve riconquistare tante cose e deve anche riconquistare l´emozione della politica» dice Bertinotti inaugurando i cinque minuti che l´incontro ha assegnato a ciascuno dei due protagonisti come da programma. «Dobbiamo ricostruire le fondamenta della sinistra italiana» aggiunge il candidato premier, ma avverte: «Il nuovo inizio non si fa senza la memoria di dove si viene, non dobbiamo difendere l´esistente ma farci forza per avviare una nuova stagione».
Prima di raggiungere Firenze, Fausto Bertinotti era stato contestato a Livorno da alcuni esponenti dei centri sociali: «Traditore della falce e martello», gli hanno gridato. Il presidente della Camera si era imbattuto in una ventina di giovani dei centri sociali mentre, a piedi, stava raggiungendo il teatro Goldoni dove era in programma un comizio elettorale. Il momento di maggiore tensione era stato sotto il loggiato del teatro, quando gli esponenti del servizio d´ordine hanno bloccato i contestatori (in tutto una ventina) ed era scoppiato un parapiglia di breve durata. Poi Bertinotti è entrato nel teatro affollato e ha regolarmente presenziato all´iniziativa elettorale del suo partito.

Corriere della Sera 8.4.08
Il leader della Sinistra l'Arcobaleno: darò comunque una mano
Bertinotti, addio a Porta a porta: è l'ultima volta, largo ai giovani
«Basta incarichi di direzione, l'età vuole la sua parte»
di R.R.


Il presidente della Camera: c'è il tentativo di farci fuori, ma domani, se Veltroni perde, voglio vedere che cosa accade

ROMA — L'ultima volta di Fausto Bertinotti. L'«ultima volta a Porta a Porta», come annuncia lui stesso nel corso della registrazione del programma di Bruno Vespa. Ma, soprattutto, l'ultima volta da leader, «perché l'età vuole la sua parte».
Gli incarichi dirigenti della Sinistra, avverte il presidente della Camera, dovranno «andare alle nuove generazioni». Certo, Bertinotti non farà come la moglie, che questa volta, spiega il presidente della Camera, «è meno presente nella mia campagna elettorale per motivi che solo lei potrebbe dire, ma è molto solidale». Già, perché Lella Bertinotti in questo periodo sta facendo la nonna a tempo pieno. Però è da escludere che il marito si occupi solo della famiglia: darà «comunque una mano» alla nuova formazione della Sinistra, «ma senza incarichi di direzione».
Della politica Bertinotti, comunque, non saprebbe fare a meno. Lo si capisce da come ne parla. Il candidato premier della "Sinistra Arcobaleno" se la prende con il Pdl e il Pd che avrebbero voluto cambiare le schede elettorali. «Sconcertante, volevano una scheda anticostituzionale con due formazioni con una visibilità particolare e tutte le altre sullo sfondo».
Ed è proprio per evitare questa intesa tra Pd e Pdl, di cui la vicenda delle schede è un'ulteriore testimonianza, che, spiega Bertinotti, occorre votare la Sinistra: «Bisogna fermare questa diavoleria della grande coalizione». Ma nel caso in cui questo non accada e Berlusconi vinca le elezioni (caso assai probabile, secondo il presidente della Camera che dice a Vespa: «Sono anche meno di due i candidati a palazzo Chigi... ») bisognerà capire quali saranno le mosse del Pd. Sì, perché può anche succedere che il Partito democratico, dopo la sconfitta elettorale, «cambi strategia».
Dunque Bertinotti non esclude che più in là i rapporti con il Pd possano riprendere: «Oggi c'è il tentativo di far fuori la sinistra, ma domani, se Veltroni perde, voglio vedere che cosa accade ».
C'è però un punto su cui difficilmente, anche nella prossima legislatura, Partito Democratico e Sinistra potranno andare d'accordo. Infatti se sulla riforma presidenziale Veltroni e Berlusconi potrebbero trovare un'intesa, per la Sinistra quello è ancora un tabù che, promette Bertinotti, «combatteremo in tutti i modi».

Repubblica 8.4.08
No alla pillola del giorno dopo nuovo caso a Pisa, è scontro
Arriva Viale: la prescrivo io. L'Ordine: rifiutare si può, aiutare si deve
Il cartello affisso sulla porta della guardia medica: "Qui non facciamo la ricetta"
di Michele Bocci


PISA - Ancora un rifiuto di prescrivere la pillola del giorno dopo, a mezzo cartello fuori dalla porta dell´ambulatorio, ancora la guardia medica di Pisa al centro del ciclone e di un esposto alla procura. In città oggi l´atmosfera sarà ulteriormente riscaldata dall´arrivo da Torino del ginecologo ed esponente radicale Silvio Viale, che, promettono i suoi compagni di partito, dalle 18 prescriverà a tutte le donne che ne faranno richiesta il farmaco anticoncezionale. Intanto sul tema prendono posizione gli Ordini dei medici toscani e il sindacato Fimmg per le guardie mediche. I primi per dire che la libertà di coscienza del medico non si discute ma il professionista non deve abbandonare la donna bensì aiutarla a trovare una soluzione ai suoi problemi, in questo caso indicandole dove può ottenere la prescrizione. Il secondo per affermare che mettere un cartello è superficiale ma che si può capire la riluttanza della guardia medica di fronte ad una estranea, di cui non si conosce la storia clinica, che chieda il farmaco.
"Qui non si prescrive la pillola del giorno dopo". È questo il testo che due giovani pisani, 24 anni lei e 26 lui, hanno trovato sulla porta di uno studio di guardia medica il 2 febbraio scorso. La vicenda è stata resa nota solo ieri dall´associazione radicale LiberaPisa che ha presentato un esposto ipotizzando l´interruzione di pubblico servizio. Il caso è il terzo nella città toscana. Gli altri due, uno alla vigilia di Pasqua e l´altro qualche giorno dopo, sono già oggetto di un´inchiesta della procura e di un´indagine interna della Asl che sta valutando l´operato di due medici e decidendo se avviare nei loro confronti un provvedimento disciplinare. Anche a Firenze, ha denunciato via mail una donna a Repubblica, una guardia avrebbe rifiutato il farmaco nel febbraio scorso.
I due giovani protagonisti dell´episodio denunciato ieri sono associati di LiberaPisa. Hanno detto che, vista l´indisponibilità del medico di guardia, sono andati al reparto di ginecologia del Santa Chiara dove hanno spiegato loro che la ginecologa di turno era un obiettore, invitandoli a rivolgersi al pronto soccorso. «Siamo rimasti lì - racconta la giovane, Mauriana - Solo nel pomeriggio sono stata visitata da un´altra dottoressa, splendida: mi ha fatto un´ecografia da cui si è capito che non avevo bisogno del farmaco e mi ha rimandata a casa».
Per oggi il presidente di LiberaPisa Marco Cecchi annuncia l´arrivo di Silvio Viale che durante un incontro elettorale farà la ricetta per la pillola a chi la richiede. «Le donne se la possono acquistare a scopo preventivo, la ricetta vale un mese - spiega Cecchi - È assurdo che una città universitaria che si proclama di respiro europeo abbia strutture sanitarie che applicano procedure da terzo mondo». Non è d´accordo con l´iniziativa l´assessore toscano alla salute Enrico Rossi. «Non condivido le azioni che alzano i toni su questi temi - dice - Bisogna trovare soluzioni ragionevoli. Il medico che per motivi di coscienza non vuole prescrivere quel farmaco aiuti la donna, che va comunque presa in carico, a trovare un servizio che le assicuri la pillola. Come dice il codice etico dei dottori. E magari chi fa la ricetta inviti quella persona a partecipare ai corsi gratuiti dei consultori su sessualità e prevenzione». Rossi è sulla linea della federazione degli Ordini dei medici toscani, da dove si invitano i professionisti che non vogliono fare la prescrizione a non lasciare comunque sole le donne in un momento difficile.

Repubblica 8.4.08
Il nichilismo di oggi figlio del Sessantotto
di André Glucksmann


NEL 1945, grosso modo l´anno di nascita dei sessantottini, l´estenuazione globale dell´avventura umana è diventata una possibilità prosaica e ineffabile. Hiroshima annuncia la capacità tecnica di uno spegnimento generale di tutti i fuochi. La creazione dei campi della morte, Auschwitz, rivelano la capacità psicologica di sterminare ogni essere vivente, fino all´ultimo degli innocenti. Insieme ad altri, Sartre espresse l´ultima sconvolgente verità: l´umanità «è responsabile della propria vita e della propria morte; bisognerà che ogni giorno, ogni istante, accetti di vivere».
Un quarto di secolo dopo, il tempo per i sessantottini di imparare a vivere, il filosofo cattolico Jean Guitton reiterava l´allarme: «Ormai la metafisica e la morale non sono più relegate nelle coscienze dei singoli. Lasciano il segreto delle coscienze e degli oratori; si inseriscono nell´esperienza, nella politica, nei problemi internazionali, nei calcoli strategici. L´assoluto è sceso sulla terra attraverso la via del terrore. Un´evidenza sostituirà la fede. Il ragionevole è esigibile sotto pena di morte. Pericolo di morte. Queste parole sono scritte (invisibilmente) ovunque».
Non capirete nulla dell´emozionante primavera parigina se trascurerete il fatto che fu vissuta sull´orlo dell´abisso. Più insuperabile del marxismo e delle rivoluzioni sanguinose, si imponeva l´orizzonte di un´apocalisse, di una fine virtuale, banale e senza gloria, della condizione umana.
La nuova condizione umana pesa come un macigno. Svariate scappatoie, dal recupero dei dogmi alla post-filosofia e alla sentimentalità di sinistra, non permettono di ritrovare la sicurezza e la buona coscienza delle provvidenze, secolari o religiose, di un tempo. Essere affamati di consolazione non consola affatto. Ancora Montaigne: «Fede compiacente che non crede a ciò che crede perché non ha il coraggio di smettere di credere». Bisogna disimparare a sperare da ciò che si rivela disperante, anche se si dovesse far disperare Billancourt, Saint-Germain-des-Prés, e la buona immagine che si ha di sé. Il sessantottino disapprese più facilmente le illusioni dei genitori di quanto si liberò di quelle da cui derivava lo sradicamento. Perciò si mise a coltivare, lo si è visto, la peggiore di tutte: il fantasma dell´inesistenza del male.
L´eliminazione sistematica del sentimento dell´insopportabile genera la fumosa "permissività" per cui Nicolas Sarkozy e tanti altri si inquietano non senza ragione. Gli impegnati e gli arrabbiati del Sessantotto sono paradossalmente responsabili del «tutto permesso», loro che andavano ripentendo: «Quando la situazione è insopportabile, non si sopporta più!».
Distinguere.
Sì al relativismo: la contestazione delle norme dominanti nella vecchia Francia e presso la vecchia guardia spazzò via senza pietà non pochi pregiudizi. Cosa da nulla: un relativismo di questo genere, che tocca i valori che regolano la vita privata e pubblica degli adulti, è la più tradizionale delle tradizioni francesi. Gli storici non hanno forse indicato come la mancanza di rispetto rabelaisiana nei confronti dei dogmi religiosi fosse moneta corrente negli scherzi e nelle canzonature dei monaci e dei fraticelli medievali? L´insolenza, che nel Roman de Renart manda a gambe all´aria la società, non ha niente da invidiare agli slogan e alle scritte trasgressive che campeggiavano sui muri della Sorbona otto secoli dopo. All´ironico «Fa´ ciò che vuoi», che domina l´abbazia di Thélème, risponde un paradossale: «È vietato vietare». E Dany rincara la dose: «Vietato vietare di vietare». All´epicureismo di Gargantua, corrisponde, non meno provocatore, il «Godete senza limiti!». Le lezioni di morale e di galateo somministrate dai professori di oggi ai monelli di allora, rivelano uno spaventoso analfabetismo culturale. In Francia è meglio evitare di chiudere la bocca a Voltaire e di censurare Rabelais o François Villon.
No al nichilismo: agitati in provetta o rivoluzionari in sospeso, i rivoluzionari del Maggio Sessantotto non arrivavano alla preclusione di un "male assoluto" (che Sartre l´ateo e Maritain il cattolico denunciano insieme di fronte alla scoperta dei campi della morte). Da quando, al contrario, Kolyma e Auschwitz sono etichettati «denti cariati», concetti ripugnanti alla moderna delicatezza di pensiero, si spalanca la strada alla permissività nichilista. A ciascuno la sua paletta e il suo rastrello, a ciascuno la sua interpretazione, nel dopo Maggio dei castelli di sabbia e del «Me ne infischio» generalizzato. Il Maggio francese fu senza alcun dubbio ampiamente aperto sull´Europa. Rientrava nello slancio iniziale che aveva ispirato la ricostruzione del dopo quarantacinque. Tra i padri fondatori, democratico-cristiani, socialdemocratici, partigiani e patrioti di svariate tendenze, in materia di valori supremi la condivisione era esclusa d´ufficio: credenti e agnostici, destra e sinistra non avevano assolutamente cambiato impostazione mentale. In compenso tutti, ma proprio tutti, si richiamavano alla democrazia rappresentativa alla maniera di Churchill: «Il peggiore dei regimi, fatta eccezione per tutti gli altri». Cementava le energie la condivisione di vedute sul male minore, poiché "il male" conservava un colore e un sapore che non sfuggivano a nessuno.

il "male numero uno" era, a titolo postumo, Hitler. Di conseguenza veniva dato l´ostracismo ai cattivi geni che lo avevano tenuto a battesimo: l´ultranazionalismo, il razzismo, l´antisemitismo, l´intolleranza. Il "male numero due" erano Stalin e i regimi totalitari rossi, quelli dei mangiatori di uomini, che proliferavano oltre la cortina di ferro. Il "male numero tre" erano i piccoli e grandi imperi coloniali, che tuttavia venivano condannati con minor vigore: in considerazione di una regola implicita e senza possibilità di eccezioni, la Comunità Europea esigeva dai propri membri che mettessero fine alle guerre coloniali e concedessero l´indipendenza ai propri possedimenti d´oltremare. Insomma, il vecchio continente non si unificava nel cielo limpido dei valori "positivi". La sua professione di fede conteneva un triplice rifiuto: era antifascista, anticomunista e anticolonialista. Un´etica che attuava la volontà di sbarrare la porta ai tre "inferni" del ventesimo secolo: i sessantottini vi si riconobbero spontaneamente, a differenza dei postsessantottini, che non se ne cureranno più.
In mancanza di un accordo preliminare sui mali e sulle calamità da evitare, gli ideologi e i loro programmi politici si agitano in assenza di gravità come la colomba di Kant, che avrebbe volato molto più rapidamente una volta eliminata la resistenza dell´aria. L´abolizione a priori della possibilità di mettersi d´accordo su – o meglio contro – i pericoli che incombono, rimanda ciascuno alla ragnatela presente nel suo cervello. Se il male non esiste, non esiste comunanza di destino. Se ciascuno è schiavo del caso che ha presieduto alla sua nascita, diventa autistico o "comunitaristico", ma mai uomo tra gli uomini, mai condivisore di una condizione umana, mai capace di affrontare i pericoli, gli azzardi e gli ostacoli.

© 2008 - Edizioni Piemme

Repubblica 8.4.08
Quelle torture dall'Iraq a Bolzaneto
di Adriano Prosperi


NELL´ITALIA che ha mandato i suoi uomini in Afghanistan meriterebbe un qualche interesse un documento segreto del ministro della Difesa americano che è stato reso pubblico il 31 marzo scorso e sul quale ha richiamato l´attenzione il Washington Post. Si tratta di un memorandum del 14 marzo 2003 del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti sulle regole per condurre l´interrogatorio di prigionieri nemici da parte di personale militare nel corso di un conflitto armato. Il documento era la risposta a un´interrogazione presentata dal gen. William J. Haynes II, del Consiglio generale del Dipartimento della Difesa. Il documento è assai ampio e anche molto articolato, ma non assomiglia a quei testi che nel costume nostrano meritano simili aggettivi: questo per dire che se ne ricavano conclusioni piuttosto semplici e chiare. La questione in discussione è il valore di un principio fondamentale della Costituzione americana, quello per cui nessuna persona può essere privata della libertà, dei beni e della vita senza un giusto processo. Le risposte sono:
a) il quinto e l´ottavo emendamento della Costituzione non si applicano agli interrogatori a combattenti nemici fuori dai confini degli Usa.
b) Il documento ufficiale del 1988 delle Nazioni Unite contro la tortura e le punizioni crudeli e disumane fu accolto dall´amministrazione Reagan con una specifica interpretazione limitativa: la tortura che l´Onu definiva come atto capace di causare grave sofferenza («severe pain») fu definita come atto di «estremamente crudele e disumana natura» («extremely crudel and inhuman nature»).
In esso, per esempio, si escluse che potesse rientrare la brutalità poliziesca («police brutality»). E l´amministrazione Bush ha confermato questa interpretazione. Inoltre si ricorda che, in base ai principi del diritto internazionale, una nazione non può essere assoggettata senza suo consenso ai limiti imposti da una convenzione. C´è poi un principio fondamentale fra tutti: tra i diritti di un popolo quello primario è il diritto-dovere all´autodifesa. E se per difendersi c´è bisogno di metodi speciali di interrogazione dei prigionieri e dei nemici, va da sé che quei metodi sono legali anche se violano un documento dell´Onu sulla tortura.
Certo, qualche coscienza si può sentire offesa e perplessa. Ma anche la coscienza ha una storia e un´evoluzione. La Suprema Corte sottolinea che non si deve confondere la «coscienza contemporanea» col sentimentalismo privato o col fastidioso eccesso di scrupoli (ma l´inglese è più espressivo: «fastidious squeamishness or private sentimentalism»).
Il documento dovrà essere letto e meditato attentamente perché i temi che affronta riguardano il presente e il futuro dei diritti umani in un contesto in cui lo stato di guerra è mutato radicalmente. Il documento sottolinea, ad esempio, che i poteri del Presidente come comandante in capo in caso di guerra non possono essere misurati sui limiti che quello stesso presidente deve accettare come capo dell´Esecutivo nei confronti delle leggi civili. E qui la storia entra a grandi ondate. Tra i documenti di prova si citano quelli dei conflitti dell´800, uno del 1865 (guerra civile americana) e uno del 1873 (uccisione di prigionieri indiani). Da qui si ricava che i soldati dell´esercito regolare hanno licenza legale di privare altri uomini della libertà e della vita e che nessun esercito è mai stato o può mai essere considerato come un gruppo di volontari agli ordini di una magistratura civile.
Fin qui l´Ottocento della guerra civile e della conquista dei territori dei nativi americani. Altri documenti del secolo XX parlano una lingua nuova e diversa, quella della potenza imperiale americana: una sentenza della Corte Suprema del 1990 ricorda che gli Stati Uniti impiegano di frequente le forze armate al di fuori dei confini del Paese per proteggere cittadini americani o la sicurezza della Nazione e che i diritti costituzionali non si applicano a non cittadini o al di fuori del territorio americano. La conclusione è la stessa ma l´ambito è diverso e il suono è diversamente minaccioso. La bandiera degli Usa, come ha spiegato benissimo Arnaldo Nesti in un suo libro, è l´unico simbolo nazionale che vive di vita propria, cresce col tempo e col tempo aggiunge stelle e strisce; ma mentre quella bandiera cresce, con un movimento parallelo e opposto sembrano restringersi i sacri principi di libertà e di sicurezza individuale portati alla vittoria dalla rivoluzione americana. Non saranno gli europei a meravigliarsi. L´ideologia dei supremi interessi della nazione è un parto avvelenato della storia europea. Qui la sua versione formale e giuridica fa riferimento ai poteri supremi del Presidente come comandante supremo («Commander in Chief and Chief Executive») e ai casi di guerra e di politica internazionale. E nella guerra contro Al Qaeda e i suoi alleati le leggi non si applicano agli interrogatori dei prigionieri. Il dossier entrerà di diritto nella lunga storia delle discussioni su leggi di guerra e di pace. Oggi il lettore italiano sobbalza quando incontra tra le citazioni su cui si appoggia il dossier anche un trattato dell´esule religioso italiano del ´500 Alberico Gentili che dice, in sostanza, che un malfattore non può godere dei privilegi della legge di cui è nemico. E gli verrebbe voglia di ribattere che il linguaggio politico ha fatto qualche passo dai tempi di Alberico Gentili e che in un globo terrestre sempre più stretto la protezione della legge non è più considerato un privilegio ma un diritto universale di ogni essere umano.
Ma il problema che si pone davanti a un così preciso e nitido documento è un altro: è ancora vero che l´obbedienza non è più una virtù, come scrisse don Lorenzo Milani in polemica coi cappellani militari italiani? Perché una cosa è certa: se il soldato deve obbedire al comandante in capo che gli ordina di torturare i prigionieri allora la questione della sua coscienza balza in primo piano. Abbiamo ancora il diritto di criticare la soldatessa di Abu Ghraib che si divertiva a infliggere torture e umiliazioni ai prigionieri? E ancora: abbiamo il diritto di condannare i nazisti che si giustificarono al processo di Norimberga in nome dell´obbedienza dovuta ai comandi di Hitler? Resta poi, per noi italiani, figli di una cultura diversa e ben poco militaresca, la curiosità di sapere se anche nel caso delle torture di Bolzaneto ci fu un ordine scritto, una legittimazione dall´alto o se bastò la presenza di un ministro nella sala operativa della Questura a dare il senso dell´impunità ai torturatori.
Non è una domanda di curiosità accademica: i tempi non sono quelli di un mondo tranquillo o di un Paese privo di tensioni sociali. Nelle campagne elettorali parallele - quella statunitense e quella italiana le questioni di politica internazionale e quelle dei diritti umani sembrano circondate da una identica cortina di silenzio. Quanto a noi, se non fosse per la vittoria della candidatura di Milano per l´Expo 2015 l´Italia sembrerebbe un Paese sordo e chiuso al resto del mondo. E se non fosse per le sciagurate ordinanze di qualche assessore, non ci accorgeremmo nemmeno che esiste il problema di un mondo che viene da fuori, che si riversa sulle nostre strade e che cerca di entrare nella sfera luminosa dei diritti individuali.

Repubblica 8.4.08
Esce "il matematico impenitente" di Piergiorgio Odifreddi
Se i libri bruciano. Dall’antica cina ai nazisti
di Piergiorgio Odifreddi


È l´assolutismo a provocare questa forma di condanna all´inesistenza di qualunque pensiero sgradito ai potenti in ogni parte del mondo
Anche la Chiesa non mancò di condannare alle fiamme le opere sospette di eresia
In Germania gli autori "contrari allo spirito tedesco" vennero sottoposti all´autodafé

Nel saggio La muraglia e i libri, che apre le Altre inquisizioni, Borges ricorda che «l´uomo che ordinò l´edificazione della quasi infinita muraglia cinese fu quel primo imperatore, Shih Huang Ti, che dispose anche che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui», e nota che «bruciare libri ed erigere fortificazioni è compito comune dei principi: la sola cosa singolare in Shih Huang Ti fu la scala nella quale operò». Oltre alla maestosa duplicità dell´atto, Borges ne rileva anche l´apparente contraddittorietà: la costruzione della muraglia e la distruzione dei libri tendevano infatti, da un lato, a preservare nello spazio l´integrità territoriale dell´impero, e dall´altro, a cancellarne nel tempo la memoria storica. Si può dunque ipotizzare un loro ordine successivo, che a seconda dei casi mostrerebbe l´immagine di un re placato che cominciò col distruggere e poi si rassegnò a conservare, o quella di un re disingannato che finì per attaccare ciò che prima difendeva.
L´episodio cinese, rievocato anche da Elias Canetti in Autodafé, si situa a metà tra il fatto e la leggenda: possiede dunque entrambe le valenze, letterale e metaforica, che la storia e la letteratura hanno finito per associare all´immagine dei libri in fiamme. I quali, com´è noto, bruciano alla temperatura di Farenheit 451, pari a 233 gradi Celsius, che dà il titolo all´utopia negativa del romanzo di Ray Bradbury e all´omonimo film di François Truffaut.
Il più antico rogo di libri che la storia registri è probabilmente quello della biblioteca di Tebe, ordinato nel 1358 p.E.V. dal faraone Akhenaton, marito di Nefertiti e padre di Tutankhamon. Avendo sostituito il culto dei molti dèi egizi con quello del solo disco solare Aton, il primo monoteista della storia incappò immediatamente negli effetti collaterali più tipici delle fedi uniche: da un lato la persecuzione degli eretici e la distruzione delle loro opere, dall´altro la reazione fondamentalista provocata da ogni azione fondamentalista.
Puntualmente, infatti, alla morte di Akhenaton il clero di Tebe ristabilì il culto di Amon e cancellò a sua volta ogni memoria del riformatore. L´esempio del primo imperatore cinese mostra comunque che i roghi dei libri non sono monopolio del clero: è l´assolutismo a provocarli, e quello religioso non è che una delle sue tante forme.
Ma non bisogna confondere il proposito doloso di cancellare sistematicamente una cultura, con le fiamme appiccate più o meno colposamente durante guerre o rivolte, benché sia spesso difficile determinarne le cause e distinguerne gli effetti. L´unica cosa certa sono le ceneri e le rovine sotto le quali, ad esempio, nel 168 p.E.V., i Seleucidi seppellirono la biblioteca ebraica di Gerusalemme, così come nel 48 p.E.V. Cesare e nel 646 gli Arabi distrussero quella greca di Alessandria, nel 980 Almansor quella dei califfi di Córdoba, nel 1176 Saladino quella sciita del Cairo, nel 1204 i Cristiani quella classica di Costantinopoli, nel 1258 i Mongoli quella sunnita di Baghdad, nel 1560 il vescovo Diego de Landa quella maya dello Yucatán e nel 1691 il vescovo Nunez de la Vega quella maya del Chiapas (tra parentesi, per questo motivo oggi rimangono solo tre libri di questa cultura, uno dei quali è il famoso Popul Vuh). Diverso è il caso dei libri bruciati non alla rinfusa, ma in maniera mirata e per decreto di una suprema autorità censoria, deputata a colpirli uno a uno.
L´esempio più tipico di un tale organismo è naturalmente la Congregazione dell´Indice istituita nel 1571 e attiva fino al 1917, anche se l´Indice dei Libri Proibiti da essa gestito era già stato istituito nel 1559 da Paolo IV e fu abolito solo nel 1966 da Paolo VI. La vittima più famosa fu forse Giordano Bruno, le cui opere furono bruciate in piazza San Pietro il 17 febbraio 1600, nello stesso momento in cui l´autore stesso veniva immolato sul rogo a Campo de´ Fiori. (...)
Naturalmente, la Chiesa non aveva atteso l´Inquisizione per mandare al rogo le opere degli eretici: risalendo nel tempo, ce lo ricordano i processi e le sentenze contro Lutero nel 1520, Abelardo nel 1140 e 1121, Fozio nell´870 e Ario nel 325. Ma in realtà il Cristianesimo era nato infetto, perché il virus del fuoco lo si trova già negli Atti degli Apostoli (XIX, 19): in essi infatti si narra che «molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti». Non è dunque un caso che oggi i roghi dei libri e degli uomini si chiamino autodafé, parola che deriva appunto dal portoghese auto de fé e significa «atto di fede».
L´autodafé ufficiale veniva celebrato in pompa magna sulle pubbliche piazze e la cerimonia comprendeva una messa, una processione dei condannati rasati e messi alla gogna, e una lettura delle sentenze: non la tortura, né l´esecuzione, che erano rispettivamente amministrate prima e dopo, in separata sede. A partire dal primo autodafé registrato, nel 1242 a Parigi, queste macabre messe in scena furono eseguite innumerevoli volte e per secoli, in Europa e nelle Americhe: soprattutto in Spagna, tra il 1481 e il 1691. Voltaire le mise alla berlina nel sesto capitolo del Candide, che narra di «come si fece un bell´autodafé per scongiurare i terremoti», con tanto di fustigazione per Candide e di impiccagione per Pangloss: anche se, naturalmente, «lo stesso giorno la terra tremò di nuovo con un fracasso orribile». Ma non fu soltanto la barbara cristianità a bruciare i libri dei suoi eretici: secondo Diogene Laerzio (IX, 52) la stessa sorte toccò anche a Protagora nella raffinata Grecia, nel periodo buio che Atene visse alla fine del quinto secolo p.E.V. (...)
Se così fecero persino i Greci, cosa avremmo potuto aspettarci dai nazisti? Puntualmente, alla mezzanotte del 10 maggio 1933 migliaia di studenti del nascente regime celebrarono l´autodafé dei libri «degenerati», bruciando in varie città universitarie della Germania opere «contrarie allo spirito tedesco»: gli autori comprendevano la triade ebrea di Karl Marx, Sigmund Freud e Albert Einstein, ma spaziavano democraticamente anche fra ariani e stranieri, da Thomas Mann a Marcel Proust. Alla cerimonia sulla piazza dell´Opera di Berlino, il ministro della Propaganda Joseph Goebbels dichiarò soddisfatto: «L´anima del popolo germanico può di nuovo tornare ad esprimersi. Questi roghi non soltanto illuminano la fine di una vecchia era, ma accendono la nuova». Bertolt Brecht, invece, commemorò l´evento nella poesia Il rogo dei libri: «Quando il regime ordinò che fossero arsi in pubblico i libri di contenuto malefico, e per ogni dove i buoi furono costretti a trascinare ai roghi carri di libri, un poeta (uno di quelli al bando, uno dei migliori) scoprì sgomento, studiando l´elenco degli inceneriti, che i suoi libri erano stati dimenticati. Corse al suo scrittoio, alato d´ira, e scrisse ai potenti una lettera: "Bruciatemi", vergò di getto, "bruciatemi! Non fatemi questo torto! Non lasciatemi fuori! Non ho forse sempre testimoniato la verità, nei miei libri? E ora voi mi trattate come fossi un mentitore! Vi comando: bruciatemi!"».
Ma il mondo non imparò la lezione, e anche nel dopoguerra innumerevoli piromani, letterali o metaforici, si sono scatenati contro i libri e le altre opere dell´ingegno: dal tentativo di cancellare sistematicamente il pensiero «revisionista» messo in opera dalla Rivoluzione culturale cinese negli anni ´60, alla sentenza della Cassazione italiana che il 29 gennaio 1976 ordinò che fossero bruciate tutte le copie del film L´ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, alla fatwa dichiarata dall´ayatollah Khomeini il 14 febbraio 1989 contro i Versi satanici di Salman Rushdie, alle cannonate dei Talebani che nel marzo 2001 hanno distrutto le due statue del Buddha di Bamiyan.
L´ultimo rogo di libri è, per ora, quello che il 14 aprile 2003 ha azzerato a Baghdad la Biblioteca Coranica, la Biblioteca Nazionale e l´Archivio Nazionale, sotto l´occhio connivente dell´esercito statunitense invasore, che aveva già permesso il loro saccheggio per un´intera settimana. La città ha così rivissuto i giorni bui del sacco dei Mongoli di 750 anni prima, ma paradossalmente questa coazione a ripetere della storia conferma il giudizio espresso da Borges in Nathaniel Hawthorne, nelle già citate Altre inquisizioni: «Il proposito di abolire il passato fu già formulato nel passato e, paradossalmente, è una delle prove che il passato non può essere abolito. Il passato è indistruttibile: prima o poi tornano tutte le cose, e una delle cose che tornano è il progetto di abolire il passato».

Repubblica 8.4.08
"Poesia e ritratto nel Rinascimento" di Lina Bolzoni
Quell’amore allo specchio
di Benedetta Craveri


Era stato Petrarca a riaprire il dibattito sui legami tra pittura e scrittura dedicando due sonetti al ritratto di Laura eseguito da Simone Martini

Si racconta che nel 1560 la contessa Caterina Mandella, nuora di Baldassarre Castiglione, scoprì per caso che «un grande e bellissimo specchio», che decorava la parete di una stanza della casa d´Urbino dove un tempo aveva abitato suo suocero, era dotato di un congegno segreto. Esso si apriva a comando e rivelava, custodito nell´incasso del supporto di legno della cornice, «un ritratto di bellissima e principalissima signora, di mano di Rafael Sanzio d´Urbino». Nel nascondiglio erano conservati ugualmente due sonetti composti quarantatré anni prima da Castiglione. È possibile che il ritratto di Raffaello fosse quello di Elisabetta Gonzaga, duchessa d´Urbino, oggi conservato agli Uffizi, e che fosse lei l´oggetto di quell´«amore troppo alto e troppo sublime» che l´autore de Il Cortegiano era costretto a celebrare nel più profondo segreto.
Ben lungi dall´essere solo un semplice accorgimento pratico, l´espediente del nascondiglio dietro lo specchio obbediva a una precisa simbologia amorosa di ascendenza platonica: riflesso nello specchio, il volto dell´amante veniva a sovrapporsi all´effigie dell´amata e le due immagini si congiungevano così in una simbiosi segreta. Ai versi custoditi all´interno del mistico scrigno spettava invece il compito di dar voce al dialogo, altrimenti muto, delle immagini.
È proprio la lettura di questi celebri "Sonetti dello specchio" a costituire il momento culminante del viaggio dotto e appassionante di cui Lina Bolzoni ci illustra l´itinerario nel suo Poesia e Ritratto nel Rinascimento (testi a cura di Federica Pich, Laterza, pagg. 288, euro 38). I due componimenti di Castiglione condensano, infatti, i principali temi di una lunga riflessione poetica incentrata sul rapporto tra la parola e l´immagine, tra l´arte e la natura.
Era stato Francesco Petrarca, un secolo e mezzo prima, a riaprire il dibattito, che già aveva appassionato gli antichi, sulle diverse potenzialità espressive proprie alla scrittura e alla pittura e di cui Orazio aveva proposto la sintesi con la sua celebre formula Ut pictura poesis. Con i due sonetti del Canzoniere, composti tra 1338 e il 1343, in cui Petrarca evocava il ritratto di Laura, da lui stesso commissionato a Simone Martini e purtroppo andato smarrito, aveva infatti inizio una tradizione poetica che, scrive la Bolzoni, prendeva spunto dall´immagine pittorica «per variare e celebrare il lavoro della scrittura letteraria, per trarne materiale che permette di declinare in modo nuovo i topoi tradizionali del linguaggio amoroso». Una tradizione di cui la studiosa, che ha fatto del rapporto tra memoria, letteratura e immagine uno degli assi portanti della sua ricerca, ricostruisce oggi, in questo bel saggio, i momenti più significativi.
Nel primo sonetto Petrarca celebra la natura divina dell´ispirazione del pittore che è salito in cielo per contemplare l´immagine spirituale di Laura, infinitamente più bella della sua incarnazione terrestre: «Ma certo il mio Simon fu in paradiso/ onde questa gentil donna si parte:/ivi la vide, et la ritrasse in carte/ per far fede qua giù del suo bel viso». Quel «qua giù» annuncia, tuttavia, i limiti dell´impresa pittorica e la «incolmabile distanza tra il cielo e la terra», tra la visione della bellezza perfetta e originaria ideata da Dio e la sua impossibile rappresentazione. Come ci dice il secondo sonetto, la straordinaria capacità illusionistica del ritratto di Simone Martini - «benignamente assai par che m´ascolte,/ se risponder savesse a´ detti miei» - rende ancora più acuto il dolore per la perdita della donna amata e lascia intendere, al tempo stesso, come solo la poesia abbia la facoltà di dare voce a questa sofferenza e di commemorarla all´infinito.
Il progressivo diffondersi della pratica del ritratto in strati sempre più ampi della società doveva favorire, nel corso dei due secoli successivi, il confronto tra poesia e pittura, evidenziandone di volta in volta affinità e divergenze. Gli esempi propostici da Lina Bolzoni non potrebbero essere più suggestivi: sono qui Giovanni Della Casa e Tiziano, Castiglione e Raffaello, Niccolò da Correggio e Leonardo, Serafino Aquilano e Pinturicchio, Gian Battista Marino e Caravaggio a dialogare insieme a partire da un modello comune.
Pronta a celebrare la suggestione di ritratti di cui ancora oggi ci è dato di ammirare lo splendore, la poesia trovava un´alleata nella pittura, se ne serviva come fonte di immagini, di metafore e di ispirazione erotica, o ne denunciava le pericolose illusioni, ma non transigeva sulla sua superiorità. Se, come aveva teorizzato Leon Battista Alberti, la pittura possedeva la capacità di «far vedere ai vivi, molti secoli dopo, coloro che sono morti», garantendone così la memoria, la poesia sola si arrogava la facoltà di dare voce alle immagini e penetrare nell´interiorità delle persone ritratte.
A sua volta la pittura rispondeva alla sfida tentando di appropriarsi della parola poetica, ritraendo con sempre maggiore frequenza delle persone con in mano delle lettere o dei libri, o inserendo la scrittura all´interno stesso del quadro. È il caso del ritratto della incantevole Giovanna degli Albizzi Tornabuoni, eseguito da Domenico Ghirlandaio nel 1488, dove spicca sullo sfondo la scritta: «Arte, se potessi rappresentare anche i costumi e l´animo, non esisterebbe in terra quadro più bello». Ed è ancor più il caso dello straordinario ritratto di Laura Battiferri, dipinto intorno al 1560 da Bronzino, dove i rinvii tra pittura e poesia si fanno vertiginosi. Rappresentata di profilo, la poetessa schiva lo sguardo dello spettatore ma tiene invece, con ambo le mani, un libro bene aperto su cui è possibile leggere due sonetti trascritti dal Canzoniere di Petrarca, che diventano parola e anima del ritratto. Il quadro stesso, inoltre, aveva dato luogo a uno scambio di versi tra il Bronzino e la sua modella circa la possibilità di esternare l´interiorità in forme visibili.
Come scrive la Bolzoni, «la parola poetica penetra così nel cuore dell´immagine (...) e crea un complesso circuito di messaggi, ricco di allusioni e di sottintesi, che tuttora mette alla prova le capacità interpretative dei critici».
Per consentire, invece, ai lettori di seguirla più agevolmente nella sua esplorazione erudita, la studiosa ha provveduto a fornire loro, in appendice al suo saggio, l´insieme dei testi a cui ella fa riferimento, affidandoli alle cure di Federica Pich.
Sul filo di questa doppia lettura e delle immagini pittoriche che l´accompagnano ci troveremo al cuore di una civiltà per cui il mito del Parnaso ed il concerto armonioso delle Muse non erano ancora ridotti a stereotipi letterari, ma rispondevano a una concezione interdisciplinare delle arti e dei saperi dagli esiti meravigliosamente fecondi.

Repubblica 8.4.08
Habermas e Rorty. Un'amicizia iniziata con una sonora lite
di Jürgen Habermas


Lo studioso rievoca il filosofo americano, le loro divergenze e i punti di contatto. E la sua sfida sui grandi temi del pensiero e sulla lingua per esprimerlo

Pubblichiamo parte di un intervento di su Richard Rorty in uscita in questi giorni su "Iride", quadrimestrale di filosofia e discussione politica, edito da Il Mulino

Ho incontrato Richard Rorty la prima volta a San Diego nel 1974, in una conferenza su Heidegger. Dapprima fu mostrato il filmato di un´intervista con Herbert Marcuse, che in quell´occasione non era presente. Nell´intervista Marcuse parlava del suo rapporto con Heidegger dei primi anni Trenta in modo assai più indulgente di quanto avrebbe indotto a pensare la loro aspra corrispondenza del dopoguerra. Con mio grande disappunto ciò dette il tono all´intera conferenza, dove Heidegger venne fatto oggetto d´impolitica venerazione. Solo Majorie Green, che aveva anche studiato a Friburgo prima del 1933, si permise un commento sgarbato, sottolineando quanto per lo meno la cerchia più ristretta dei discepoli di Heidegger - cerchia cui anche Marcuse apparteneva - avesse allora potuto ingannarsi sulla miserabile ideologia politica del maestro.
In questo stato d´animo ascoltai allora l´intervento di un professore di Princeton, che a quella data mi era soltanto noto come curatore di una famosa raccolta di testi sulla Linguistic Turn. Nel suo intervento egli avanzava un raffronto provocante, cercando di armonizzare nel quadro di un insolito concerto le voci dissonanti di tre solisti famosi. In quest´orchestra John Dewey, il democratico più radicale e politicizzato tra i pragmatisti, si presentava fianco a fianco con Martin Heidegger, l´incarnazione più esemplare e arrogante dei mandarini tedeschi. Il terzo membro dell´insolito trio era rappresentato da Ludwig Wittgenstein, dalle cui Philosophische Untersuchungen io avevo certo tratto molto profitto, ma che non andava del tutto esente dai pregiudizi feticistici dell´ideologia tedesca e che comunque, accanto a Dewey, faceva una strana figura.
Nella prospettiva di Humboldt e dell´ermeneutica filosofica lo sguardo sulla Welterschliessung (apertura di mondo) del linguaggio istituisce un´originale parentela tra Heidegger e Wittgenstein. E questo sguardo fu ciò che affascinò letteralmente Rorty, già convinto da Thomas Kuhn ad assumere una versione contestualistica della storia scientifica. Ma come possiamo inserire in questa costellazione John Dewey, cioè l´incarnazione di quell´ala radical-democratica dei neohegeliani che tanto mancò al nostro quadro europeo? Dopo tutto, il modo di pensare di Dewey era in stridente contrasto con la presunzione greco-germanica di Heidegger, col tono raffinato e col gesto aristocratico di eletti cui è riservato un accesso alla verità che è precluso alle masse.
Allora questo accostamento mi parve talmente osceno che nella discussione io finii per perdere le staffe. Con mia sorpresa, tuttavia, l´importante professore di Princeton non si mostrò per nulla offeso dalla sonora protesta che gli giungeva dalla provincia tedesca, e anzi mi invitò amichevolmente a prendere parte al suo seminario. Quell´andata a Princeton segnò per me l´inizio di un´amicizia tanto felice quanto istruttiva. A partire dalla salda condivisione di analoghe opinioni politiche, potemmo sempre agevolmente discutere e tollerare le nostre divergenze teoriche. Tra noi trovava così praticamente conferma quella «priorità della politica sulla filosofia» di cui Dick voleva esplicitamente persuadermi in sede teorica. E per quanto riguarda Heidegger, devo anche aggiungere che quella mia iniziale irritazione era ingiustificata. Anche Dick apprezzava assai più lo Heidegger pragmatista di Sein und Zeit che non il pensatore esoterico in devoto ascolto della voce dell´essere.
Dopo il nostro primo incontro mi mandò un estratto del suo The World well Lost. L´ironia del titolo avrebbe già dovuto farmi intuire le qualità intellettuali e letterarie celate nel filosofo Rorty. Ma allora io lessi ancora le argomentazioni analitiche del saggio come si sogliono leggere i saggi del Journal of Philosophy. Ed effettivamente si trattava di un lavoro preparatorio a quella critica complessiva della teoria della conoscenza che sarebbe uscita pochi anni dopo. La filosofia e lo specchio della natura (Bompiani, 1986) ebbe un impatto formidabile. L´aspetto rivoluzionario della ricerca non stava tanto nella ricostruzione critica della «svolta linguistica» compiuta da Heidegger e Wittgenstein, quanto piuttosto nella messa in luce di una sola conseguenza cruciale di quel passaggio dalla «coscienza al linguaggio». Passo dopo passo, Rorty decostruiva il «modello dello spettatore» caratterizzante il pensiero rappresentativo e «fotocopiativo» dei fatti. Colpiva così a cuore una disciplina che, a partire da Russell e Carnap, aveva cercato la sua rispettabilità scienti-filosofica a partire da un trattamento logico e semantico dei problemi gnoseologici del diciassettesimo secolo.
Lasciate che vi richiami brevemente la tesi centrale. Se i fatti non sono pensabili a prescindere dalla struttura preposizionale del linguaggio, e se opinioni e asserzioni risultano correggibili solo a partire da altre opinioni e da altre asserzioni, allora l´idea di una «corrispondenza» tra i nostri pensieri e le cose che stanno fuori di noi, nel mondo, appare una idea fuorviante e insostenibile. Noi non possiamo descrivere la natura usando un linguaggio che crediamo essere il suo. Perciò, nella prospettiva del pragmatismo, conoscere la realtà non significa «fotocopiarla», ma «venire a capo» delle sue sfide. Noi arriviamo a conoscere i fatti solo imparando a elaborare costruttivamente un ambiente imprevedibile e complesso. Le risposte che ci dà la natura sono sempre indirette, in quanto restano legate alla struttura delle nostre domande. Ciò che chiamiamo «mondo» non è la totalità dei dati di fatto. Esso è l´insieme delle limitazioni cognitivamente significative che sono imposte ai nostri sforzi di imparare dalle - e di avere il controllo sulle - reazioni della natura a partire da previsioni attendibili.
Quest´accurata critica svolta da Rorty circa la presunta funzione «fotocopiativa» della conoscenza è apprezzabile anche dai colleghi che non sono disposti a seguirlo nelle conseguenze troppo ambiziose ch´egli ne trae. Quest´ambizione si tradì nell´estensione che il titolo americano del libro subì in traduzione tedesca. Philosophy and the Mirror of Nature divenne in tedesco: Der Spiegel der Natur. Eine Kritik der Philosophie (Lo specchio della natura. Una critica della filosofia). Io stesso giunsi a capire l´intera portata del progetto di Rorty - dunque il senso della costellazione che metteva accanto a Wittgenstein e Heidegger un autore come Dewey - solo dopo che ebbi letto l´introduzione a Consequences of Pragmatism (1982). Per chi lo conosceva personalmente, non era facile far coincidere l´enorme sfida avanzata da questo filosofo, scrittore e intellettuale politico, con la modesta, timida, delicata persona dallo stesso nome. I suoi interventi pubblici erano caratterizzati da retorica brillante e passione controllata, da un fascino giovanile e polemico, persino da un certo pathos. E, in effetti, lo «sgonfiamento» di concetti sublimi e l´esercizio dell´understatement possono anche avere un loro pathos particolare. Ma dietro l´aura dell´oratore affascinante e del docente appassionato si nascondeva appunto un carattere timido e sommesso, nobilmente riservato, integro e infinitamente amabile, cui nulla era più odioso che la presunzione della profondità.
Richard Rorty mirava, niente meno, che a promuovere una cultura che si liberasse dalle ossessioni concettuali della metafisica greca, nonché dalle ossessioni di un feticismo scientistico che ne seguiva le tracce. L´idea di metafisica da lui criticata si chiarisce soprattutto se noi badiamo all´impulso che è sotteso a quella critica. «I filosofi presero ad angosciarsi delle immagini del futuro solo dopo avere rinunciato alla speranza di guadagnarsi la conoscenza dell´eterno». Il platonismo tiene lo sguardo fisso sulle idee immutabili del buono e del vero, fino a creare una rete di distinzioni categoriali in cui vanno congelate le potenzialità di una specie umana auto-producentesi. Nella priorità della sostanza sul fenomeno, dell´universale sul particolare, della necessità sulla contingenza, della natura sulla storia, Rorty non vede solo una questione teorica. Le visioni del mondo strutturano forme di vita. Perciò Rorty vuole abituare i suoi contemporanei a un vocabolario che articoli una diversa visione del mondo e di noi stessi.
Una seconda, più radicale spinta dell´illuminismo deve così rinnovare le ragioni autentiche di una modernità che non ha tenuto fede alle sue promesse. La modernità deve ricavare ogni normatività solo dal proprio interno. Non c´è nessuna autorità, né punto fermo, al di là dell´impenetrabile vortice della contingenza. Nessuno può sottrarsi al proprio contesto locale senza ricadere immediatamente in un altro contesto. D´altro canto, la human condition è caratterizzata dal fatto che il realistico riconoscimento della finitezza e della corruttibilità dell´umana creatura - fallibilità dello spirito, vulnerabilità del corpo, conflittualità della convivenza sociale - può sempre trasformarsi nell´impulso creativo a migliorare società e cultura. In questa luce noi dobbiamo imparare a considerarci quali figli e figlie di una modernità consapevole, affinché - nella società mondiale lacerata sul piano politico, economico e sociale - non si debba rinunciare alla fede di Walt Whitman in una futuro migliore. Non dobbiamo lasciare ammutolire la democratica voce di una speranza sociale che ci giunge da lontano, invocando inclusoria e fraterna convivenza.

Corriere della Sera 8.4.08
Una ragione libera che unisce vita, simboli e teoria dei giochi. E così pensiero debole e società liquida diventano opportunità
Dalla caduta dei dogmi nasce il neoilluminismo
La lezione di Galileo e il ruolo delle scienze esatte
di Giulio Giorello


Sul finale della Prima Giornata del Dialogo sopra i massimi sistemi (1632) di Galileo Galilei, uno degli interlocutori (Sagredo) si rivolge agli altri due (l'aristotelico Simplicio e il copernicano Salviati) tessendo l'elogio delle arti — dalla musica che produce «diletto mirabile dell'udito» alla pittura capace di rappresentare gli oggetti tridimensionali su una tela a due dimensioni. «Ma sopra tutte le invenzioni stupende» va lodata l'arte di chi comunica «i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo», anzi parla «con quelli che sono nelle Indie... con quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni»: e tutto solo «con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta». Galileo celebra così linguaggio, scrittura e arte della stampa.
Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse posseduto Internet! Del resto, già nel Saggiatore (1623) aveva dichiarato che il mondo intero altro non era che un grande volume compilato da Dio «in caratteri geometrici». Come dire, studiate matematica e diventerete lettori della scrittura divina, che non coincide necessariamente con la Sacra Scrittura, cioè con la Bibbia, traduzione umana del dettato del Signore.
Queste battute del «maligno pisano» — come Carlo Emilio Gadda con burbero affetto chiamava il grande Galileo — mi sono tornate alla mente quando il mese scorso ho presentato al Festival della Matematica di Roma Allen Knutson, newyorchese di nascita e californiano d'adozione, matematico premiato e plurilaureato, nonché detentore (1990-1995) del record mondiale della International Jugglers Association in quei «giochi di palla» che affascinano «grandi e piccini» sulle pubbliche piazze. Da tempi immemorabili l'arte della «giocoleria » (o all'inglese, juggling) viene praticata con gli oggetti più diversi: sferette, clave, torce, coltelli e persino uova (mezzo quest'ultimo dispendioso e sporchevole se non si è molto bravi!).
Dal 1985 i Sagredo di turno hanno inventato un linguaggio matematico per esprimere l'essenziale di questa «nobile arte». Negli Usa la chiamano Siteswap; in Inghilterra, notazione di Cambridge. L'idea di fondo è che descrivere con il nostro linguaggio quotidiano tutte le tecniche del giocoliere sia compito arduo, se non impossibile: «Dovremmo essere capaci di descrivere la posizione di ogni muscolo del corpo di chi compie l'esercizio, in ciascuna frazione di secondo», dice Allen. Dovremmo essere come l'Ireneo Funes di Borges, in grado di avvertire il rumore di un filo d'erba che cresce! In mancanza di queste doti straordinarie, ci soccorre la matematica.
Il «linguaggio di Cambridge» si limita a indicare la mano che lancia l'oggetto, quella che lo prende, il numero di oggetti lanciati, l'istante del lancio e la cosiddetta durata di volo. Basta combinare opportunamente questi dati non solo per descrivere tutti i «trucchi » del giocoliere, ma per suggerire nuovi e impensati schemi — proprio quelli che fa vedere sul palco Allen, per la gioia di chi è rimasto nel suo cuore ragazzo e per la soddisfazione di chi continua a pensarla come Galileo. Inoltre, applicazioni di questo genere, non diversamente da quelle più tradizionali alle scienze naturali o all'economia, rivelano connessioni insospettate (nel caso di Knutson persino con le particelle e le antiparticelle della fisica).
Non è che l'ennesimo esempio della potenza del simbolico, come sa qualsiasi studente d'algebra. È operando su simboli, poniamo lettere dell'alfabeto — che magari stanno per altri simboli, i numeri di un calcolo aritmetico — che si impara a padroneggiare le più diverse situazioni, mentre se restassimo troppo legati alla natura degli oggetti considerati ci troveremmo in maggiore difficoltà, o magari non ce la caveremmo del tutto. Il fisico e fisiologo Ernst Mach la chiamava «economia di pensiero»; sembra quasi che i segni che tracci su carta o che digiti sullo schermo del computer siano più intelligenti di te, come già constatava Albert Einstein; tanto più che «il simbolo non è un rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario », come dichiarava il filosofo Ernst Cassirer. Proprio lui doveva dedicare gran parte della sua riflessione al simbolismo come punto di incontro di tutte le forme spirituali più diverse: dall'impresa tecnico-scientifica all'arte, alla religione e al mito.
Ma se le cose stanno così, non potrebbe anche il segno matematico essere contaminato da quell'ambiguità che è così presente in altre «forme simboliche» come le icone della fede o quelle della politica? Leggo nel recente volume di Elio Franzini, dedicato a I simboli e l'invisibile (il Saggiatore), che i simboli sono evidenze storiche e culturali il cui senso non si esaurisce alla prima occhiata, ma «richiedono interpretazioni, sguardi stratificati». Ben più «maligno» di Galileo, il lunatico irlandese George Berkeley insinuava che gli stessi matematici erano «giocolieri» che praticavano trucchi linguistici e psicologici (per esempio, nel calcolo infinitesimale: dove pretendevano di poter utilizzare nei calcoli «quantità più piccole di qualsiasi quantità concepibile»!).
Con il senno di poi, la matematica ha saputo rendere rigorosa la sua attività simbolica, mettendo ordine nell'anarchia dell'invisibile che aveva generato. Ma nella stessa proliferazione di arti, tecniche e scienze dei nostri giorni sembra difficile indicare un principio unitario, un «fondamento», cui ricondurre i molti strati del simbolico. Come constatava agli inizi del Novecento Mach, «il mondo è suddiviso e ritagliato dalle astrazioni, e questi frammenti parziali appaiono così aerei e privi di sostanza da insinuare il dubbio se sia ancora possibile reincollare il mondo». Forse, è qui che va cercata l'origine di un malessere che oggi chiamiamo con molti nomi: modernità «liquida », pensiero debole, paura della scienza, «relativismo», morte dell'arte e angoscia della tecnica. Eppure, è stato l'abbandono del fondamento che ha permesso al pensiero di conquistare orizzonti nuovi e sconfinati. Osserva Franzini che per quel fondamento possiamo provare una qualche forma di nostalgia, ma tale passione alla fine diventa tensione verso il nuovo, «ricerca del senso stesso del percorso, della volontà di costruire forme ». È dallo spregiudicato riconoscimento di questa nostra condizione che può oggi muovere un rinnovato Illuminismo. Dopodiché, come dicevano i personaggi del Dialogo galileiano, finito di discutere come vanno i cieli (o di come si può algebrizzare persino il lancio di clave o palline nella «giocoleria»!), ci si può permettere di «gustar per qualche ora il fresco nella gondola che ci aspetta».

Corriere della Sera 8.4.08
Il futuro del «continente giallo» secondo Gifford
Prigioniero di Confucio Un popolo in fuga dalla Casa di Ferro
di Fabio Cavalera


Un sistema di pensiero etico conservatore da cui sembra che il Paese non possa liberarsi

Oggi che la Cina è nel pieno di una grave crisi politica, è davvero importante decifrare i suoi ondeggiamenti e le sue ambiguità. Ripararsi dietro agli schemi mentali che catalogano un Paese attraverso i luoghi comuni positivi (il gigantismo economico) o negativi (la dittatura dell'intolleranza) non aiuta ad accompagnare la transizione di questo «continente» e a comprenderla. È possibile andare oltre le interpretazioni superficiali? E quali sorprese ci riserva il viaggio dentro «l'altrove Cina»?
Lu Xun, il più grande scrittore cinese del XX secolo, usò una metafora famosa per descrivere il torpore culturale del suo Paese all'inizio del Novecento. Nel racconto Na Han, Chiamata alle Armi immaginò «una casa di ferro senza finestre, indistruttibile, in cui dormono molte persone, condannate a morire per asfissia». «Tu sai — aggiungeva nell'introduzione — che la morte le coglierà nel sonno e non sarà dolorosa ». Poi chiedeva e concludeva: «Se lanci un grido abbastanza forte da svegliare qualcuno di quelli che hanno il sonno più leggero, credi di rendere loro un buon servizio condannandoli a soffrire le pene di una morte senza scampo? Ma se qualcuno si sveglia, non puoi affermare che non ci sia una speranza di distruggere la casa di ferro». La casa di ferro era un sistema di pensiero, un sistema etico conservatore, il confucianesimo, dal quale lui, pessimista, si augurava che la Cina potesse uscire. La «Chiamata alle Armi» era l'appello di Lu Xun ai cinesi: svegliatevi che avrete la «speranza» di scappare dalla casa di ferro. Lu Xun avvertiva che «il richiamo del passato, della sua eredità e della sua ineludibile storia» pesavano ancora molto sulla Cina. Però il popolo aveva per la prima volta l'opportunità di tracciare il futuro e non delegarne lo svolgimento ai despoti e agli imperatori, agli oppressori della mente e della cultura.
Quasi un secolo dopo, quelle parole hanno una straordinaria attualità. Sono un richiamo a non risolvere i dubbi con risposte scontate ma un invito a riflettere. È crollata «la casa di ferro»? Rob Gifford in Cina ha lavorato per oltre vent'anni, sei da corrispondente di «National Public Radio», avrebbe dunque tutte le carte in regola per dare risposte definitive sul «miracolo» e sui mutamenti della società cinese, per raccontarli e analizzarli. Invece, da vero intellettuale, oltre che giornalista, Rob Gifford ammette che sulla Cina in questo momento è impossibile regalare certezze e verità preconfezionate. E chi lo fa non ne conosce i tormenti. «Se il mondo occidentale non si scolla da una visione del Paese datata e rigida, sprecando superlativi sul suo sviluppo e sulla sua crescita senza precedenti oppure tirando in ballo vecchi stereotipi da guerra fredda, arrivando fino a sbandierare la minaccia del pericolo giallo», ebbene, lui, l'autore, che aveva cominciato «a costruirsi degli schemi mentali su quando la Cina sarebbe diventata una compiuta economia di mercato e quanto tempo avrebbe impegnato a trasformarsi in una democrazia » alla fine, dopo vent'anni, non se la sente più di formulare altro giudizio che questo: «È impossibile essere neutrali nei confronti della Cina (...) Mi chiedo se altri Paesi hanno il potere di dividere in modo così drastico le emozioni dei visitatori... Se vi sembro un po' confuso riguardo alla Cina è perché effettivamente lo sono». Un osservatore attento non può che essere travolto dallo stordimento e segnato dalla confusione di questi anni cinesi.
Rob Gifford ha scritto un libro bellissimo, essenziale per chi vuole entrare nel cuore e nella mente del Dragone. E lo ha fatto con una idea semplice ma suggestiva: proprio perché non riusciva più ad avere un quadro d'insieme sicuro della Cina, ha deciso di percorrere il «continente » con l'auto, il taxi, il camion lungo la «Strada Madre», la 312 che parte da Shanghai a est e arriva al confine con il Kazakistan a ovest. Transitando, per oltre quattromila chilometri, dalle bellezze agli orrori, dalla ricchezza alla povertà e alle ingiustizie.
La Cina è imprevedibile ma non misteriosa. Rob Gifford l'ha esplorata, svelata e descritta. Non è un nuovo miracolo e nemmeno un nuovo pericolo per l'umanità. La Cina è la terra di «un popolo con un cuore grande» che ha ripreso a camminare, forse per uscire dalla «casa di ferro». E questo moto non determina certezze, ma speranza. Niente più che speranza — in chi lo compie e in chi lo guarda. Quella speranza che Lu Xun invocava così: «Non si può dire che la speranza non esiste, né si può dire che esiste. Proprio come le strade che solcano la terra. Perché in realtà la terra all'inizio non ha nessuna strada... finché molti non la tracciano, passando, e allora la strada è fatta».

La7
Bertinotti, Fausto, classe 1940. Candidato premier alle elezioni del 2008 per la lista della Sinistra Arcobaleno dopo una vita di lotte spese tra il sindacato e la politica italiana. E’ il 1964 quando Bertinotti entra nella Cgil di cui diventerà segretario regionale del Piemonte dal 1975 al 1985, anno in cui verrà eletto segretario confederale. Sempre nel 1964 milita nel Partito Socialista di Unità Proletaria per poi confluire nel Pci in cui resterà fino allo scioglimento del 1991. Da sindacalista, nel 1980, è testimone delle 35 giornate di Torino. Lascia il PDS nel 1993 e un anno dopo diviene segretario di Rifondazione Comunista, carica che ricopre fino al 2006 quando sale sullo scranno più alto di Montecitorio. In Parlamento c’era entrato per la prima volta nel 1994, lo stesso dell’elezione al Parlamento europeo, dove sarà rieletto nel 1999. A Strasburgo, nel 2004, diventa presidente del Partito della Sinistra europea. Quando, nel 1996, sigla un patto di desistenza con l’Ulivo, permette al centrosinistra di vincere le elezioni. Il rapporto però si interrompe nel 1998, quando ritira l’appoggio al governo Prodi. Subisce una scissione nel partito per l’uscita dei membri contrari allo strappo che si riuniscono nei Comunisti Italiani. Un anno prima, nel 1997, volava in Messico per incontrare, nella Selva Lacandona, il sub comandante Marcos. Negli anni 2000 è l’artefice dell’avvicinamento del partito con i movimenti no-global che lo porteranno, nel 2001, a partecipare alle manifestazioni anti-G8 di Genova. Ricucito il rapporto con i Ds e la Margherita, si presenta alle primarie dell’Unione dove viene battuto da Romano Prodi. E’ il 2005 e un anno dopo lascerà la segreteria di Rifondazione per la presidenza della Camera. Diploma di perito industriale, Bertinotti e sposato dal 1965 con Gabriella Fagno dalla quale ha avuto un figlio. Alle critiche sulle sue frequentazioni nei salotti buoni risponde di aver trascorso più tempo davanti ai cancelli delle fabbriche e, riguardo alla cura nell’abbigliamento, ricorda l’insegnamento del padre, per il quale stare dalla parte dei lavoratori non significa doversi vestire come uno straccione. Da alcuni anni ha stretto un legame intellettuale con lo psichiatra Massimo Fagioli.

lunedì 7 aprile 2008

Repubblica 7.4.08
La Sinistra attacca Franceschini sul voto utile
di Silvio Buzzanca


(...) A sinistra non è proprio piaciuta l´intervista a Repubblica del numero del Pd e quel suo paragone fra Fausto Bertinotti e Ralph Nader, il candidato indipendente che nel 2000 provocò negli Usa la sconfitta di Al Gore.
Il presidente della Camera respinge seccamente il paragone con Nader. E boccia anche l´apertura a riforme costituzionali improntate al presidenzialismo. «Queste cose di Franceschini - dice per esempio il candidato premier Bertinotti - non solo sono sgradevoli, ma anche un po´ allarmanti perché non si accorge che sono sostanzialmente anticostituzionali». e spiega c´è un unico modo per contrastare questa deriva presidenzialista: «Dare torto a Franceschini e far si che la Sinistra Arcobaleno abbia un successo tale che lo costringa a prendere atto che siamo in Italia e non negli Usa».
Gli altri leader della Sinistra Arcobaleno sono meno diplomatici del presidente della Camera. Così Oliviero Diliberto si chiede: «Ma come? Prima ci cacciano e non vogliono trovare l´accordo con noi e adesso ci dicono che se perdono è colpa nostra?». Circostanza che fa dire al leader del Pdci: «Franceschini ha una bella faccia tosta a dire che noi siamo come Nader. Se la bugia fosse un reato, oggi a Franceschini dovrebbero dare l´ergastolo».
Il segretario di Rifondazione Franco Giordano parla invece di «campagna greve e soprattutto disonesta. La verità è -conclude - che il Pd prevede un risultato inferiore alle aspettative e la leadership cerca di mettersi al riparo addossando preventivamente la colpa alla sinistra». Il verde Angelo Bonelli aggiunge che «Franceschini è il primo a sapere di dire cose non vere». Secondo il capogruppo verde alla Camera, «gli appelli del Pd al voto utile sono il segno della debolezza della proposta politica e programmatica del Pd». Infine Nicki Vendola, presidente della Regione Puglia, punta l´indice contro il «giochino un po´ sporco del voto utile o del paragone tra Bertinotti e Nader che serve solo per parlare ad un´Italia che si presume non sia in grado di non capire».
Veltroni, intanto lancia un nuovo appello contro l´astensionismo e per i voto utile. «L´astensionismo è l´anticamera delle peggiori tradizioni consumate nell´umanità», ha detto il candidato premier del Pd. E sulle polemiche innescate dall´intervista di Franceschini ha sottolineato: «Agli elettori della sinistra radicale dico che ogni voto è utile. Ma è chiaro che in questa ultima settimana si decide chi governerà il paese tra noi e la destra». Infine il leader del Pd ha ricordato che avrà l´età di Berlusconi solo nel 2026 e che è giunto il momento di « di dire basta con le battute per affrontare i problemi seri, basta con le corna ai vertici dei capi di Stato. L´Italia si merita un´altra leadership così come quella che hanno gli altri paesi».

Repubblica 7.4.08
Il leader Sd replica a Franceschini: "Nader siete voi che avete rotto l´alleanza"
Mussi: "Dal Pd un ricatto elettorale al Senato leveremo seggi alla destra"
di Umberto Rosso


La gara si sta giocando proprio con lo schema voluto da Veltroni. Io ho cercato il dialogo, ma ho trovato un muro

ROMA - L´ira di Fabio Mussi. «Un´intervista inaudita. Franceschini prova forse a prenderci per i fondelli?».
Ha lanciato un appello agli elettori della sinistra.
«No, è un vero e proprio ricatto elettorale. Prima il Pd ci scarica e ora, in extremis, di fronte ad una possibile, probabile sconfitta ecco che mette le mani avanti e si prepara ad addossarci la responsabilità del flop. Se Berlusconi vince, è colpa della sinistra che non vota Veltroni. Ma per favore. Io allora l´accusa la rovescio per intero».
In che modo, ministro?
«Mon ami, Ralph Nader c´est vous, siete voi del Pd. Mica Bertinotti».
Tesi piuttosto ardita. Va spiegata.
«La competizione si sta giocando esattamente con le regole che il Pd ha voluto, le squadre si affrontano con lo schema perseguito ostinatamente da Veltroni: la competizione con Berlusconi senza la sinistra. Non l´abbiamo certo voluta noi la fine del centrosinistra».
Ma anche per Rifondazione e la sinistra, dopo il governo Prodi, la fase dell´Unione era chiusa.
«Con i miei amici della Sinistra arcobaleno ho insistito molto, all´indomani della crisi di governo, per un incontro con Veltroni, per capire che margini c´erano. Noi la mossa l´abbiamo fatta ma dall´altra parte abbiamo trovato un muro. Il leader del Pd, alla fine, fece filtrare l´idea di una separazione consensuale. Ma quando mai: la scelta fu loro. Al diavolo la sinistra. Però stranamente in certi casi i voti della sinistra non olent, non puzzano».
Quando?
«Al comune di Roma, alle regionali in Sicilia, in centinaia di comuni in tutta Italia, dove il Pd si presenta insieme a noi».
La partita fra Veltroni e Berlusconi non si gioca sul filo dei voti?
«Non credo, ma ammesso e non concesso l´uscita di Franceschini è anche tecnicamente sbagliata: al Senato la Sinistra toglierà più seggi al Pdl che al Pd. Conti alla mano. Una ragione in più per impegnarsi al massimo, ovunque, a superare lo sbarramento dell´otto per cento. Scaricare su di noi è troppo facile e comodo, sia in chiave pre-elettorale ma anche post-elettorale...».
Allude ad una resa dei conti all´interno del Pd, in caso di sconfitta?
«Non metto bocca, le dinamiche interne del Pd sono cose che non mi riguardano più. Certo che a rovesciare su di noi i problemi loro, sono piuttosto abituati. Come per i 20 mesi di governo. Avevano 20 ministri su 25, il presidente del Consiglio, due vicepremier. Molti onori e molti oneri. Invece, se a Palazzo Chigi le cose non hanno funzionato, di chi è la colpa? Ma è ovvio: del ministro Mussi, di Ferrero, di Pecoraro. Ma ci sarà in quel partito qualcuno che si assume una responsabilità, "adsum qui feci", come citava spesso Alessandro Natta? Comunque, nelle parole di Franceschini c´è qualcosa di ancora più inquietante, che mi fa rizzare i capelli».
Addirittura?
«Il presidenzialismo di fatto, che si realizzerebbe nel nostro paese con la vittoria di Veltroni o di Berlusconi, al tempo stesso premier, segretario di partito e capo della maggioranza parlamentare. Vorrei ricordare a Franceschini che l´Italia è un regime parlamentare. E che meno di due anni fa abbiamo chiamato il popolo italiano ad un referendum per bocciare la riforma costituzionale della destra, a forte impalcatura presidenzialista. Adesso il vicesegretario pd ci propina l´elogio di tutti i poteri al leader. Ce lo dica: si preparano a ripresentare insieme a Berlusconi quella stessa controriforma bocciata dagli italiani?».
Appello al voto pro-Veltroni rispedito al mittente.
«Di più. Lo faccio io un appello, al vecchio elettorato dei Ds. Date un voto che garantisca le persone che si sentono di sinistra, fate in modo che siano rappresentate, e perché in futuro si possa tenere aperta una prospettiva di governo di centrosinistra. Influendo sulla politica del Pd».

Corriere della Sera 7.4.08
Mario Monicelli Il regista: io comunista, lui un amico che però ha guidato la Camera invece di fermare il leader pdl
«Sì a Fausto contro il Cavaliere. Ma sono più a sinistra»
Fabrizio Roncone


ROMA — Mario Monicelli, senta: lei, straordinario maestro del cinema italiano, insieme ad altri intellettuali firma un appello di sostegno alla Sinistra Arcobaleno e allora...
«Si fermi. Lei mi disturba per questo?».
Maestro...
«Mi dica: lei è rimasto sorpreso? Non abbia timore... coraggio, mi risponda: è rimasto sorpreso?».
Sorpreso, no. Ma certo questo suo schierarsi così netto...
«Netto? No, guardi: io fatico non poco a schierarmi con la Sinistra Arcobaleno».
Vuol dire che, istintivamente, sarebbe forse più propenso al Partito democratico di Walter Veltroni?
«Cosa? No no... quello lì, Veltroni intendo, ha come modello di riferimento gli Stati Uniti, e lei, beh, capirà...».
I fratelli Kennedy, e forse più Bob di John, e poi...
«E poi cosa? Lasci stare la dinastia Kennedy. Walter, purtroppo, ha come modello uno stato imperialista, spietato socialmente, dove chi è povero è molto povero e chi è ricco è molto ricco».
Sono discorsi da sinistra estrema.
«Infatti. I miei pensieri sono più a sinistra, e finalmente ci siamo, di quelli proposti dalla Sinistra Arcobaleno.
Era ciò che cercavo di spiegarle: fatico a votare persino per loro. Per quelli che fanno promesse, proclami e che poi...».
E che poi?
«Beh, poi vanno al governo, ci stanno due anni, e invece di mettere mano al conflitto di interessi di Berlusconi, preferiscono diventare presidente della Camera e realizzare, quindi, un quinto delle promesse fatte in campagna elettorale».
Lei si riferisce a Fausto Bertinotti.
«Guardi, io di Bertinotti sono amico, lo stimo e lo frequento con piacere, e lo incontro, spesso, a cena, con sua moglie Lella... solo che, davvero, io sarei un bel po' più a sinistra di lui e della Sinistra Arcobaleno. Ma cosa c'è in Italia più a sinistra di loro? Così mi tocca accontentarmi».
Lei è sempre stato così radicale?
«Mio padre Tomaso, giornalista celebre e critico teatrale, fu perseguitato dal fascismo e, per questo, nel 1945 si suicidò. La prima cosa che perciò si può dire è che io sono antifascista dentro, nell'animo».
Poi?
«Poi, nell'immediato dopoguerra, divenni socialista. Con il mio amico regista Mario Camerini facemmo pure un po' di propaganda: all'epoca, a Roma, si tenevano discorsi in piazza Montecitorio, o nella Galleria Colonna».
Quindi lei nasce socialista.
«E sa quando smetto? Quando compare il faccione autoritario, dispotico di Bettino Craxi. Un esponente politico borghese, gran corruttore».
Eppure la figura di Craxi è stata assai rivalutata, maestro.
«E chi se ne frega... Io non lo sopportavo, e così, politicamente, vagai qualche mese, finché non finii dentro il Pci».
Molti registi italiani finivano in quei ranghi.
«Il cinema italiano era rosso. Penso a Scola, a Scarpelli, a Benvenuti, a Gigi Magni...».
Comencini?
«Gran socialista».
E gli attori? Sordi, Mastroianni, Gassman, Tognazzi, Manfredi...
«Mah, vede, gli attori, in genere, sono dei malati di mente che hanno una sola ambizione: quella di piacere a tutti. Si figuri se qualche grande avesse voglia di schierarsi politicamente».
Gian Maria Volonté si schierò.
«E infatti era considerato un antipatico di prim'ordine».
A lei starà molto antipatico Silvio Berlusconi.
«Dovrebbe essere il nemico numero uno di milioni di italiani. Ma siccome gli italiani sono stupidi, lo adorano. Chiunque prometta agli italiani benessere, riceve il loro voto».
Lei è pessimista.
«Mi sfogo. Quando posso. E poi, le dico: sa perché sono riuscito ad arrivare a 93 anni così lucido da star qui a discutere di politica?».
No. Perché?
«Perché non sono pessimista. Ma superficiale e comunista».

l’Unità 7.4.08
Germania anno zero. Processo a Heidegger
di Marco Dolcetta


ARCHIVI Dalle carte del ministero degli Esteri francese riemergono gli atti del procedimento della Commissione Alleata a Friburgo contro il filosofo accusato di aver appoggiato il nazismo. L’imputazione, il dibattito e l’autodifesa dell’imputato

Una giuria mista fatta di tedeschi che avevano preso parte al complotto contro Hitler e di studiosi francesi

Discussione tesa che si risolse con l’interdizione accademica ma non con il divieto di insegnamento

Il linguaggio è la casa dell’Essere... (Martin Heidegger)

«Signor Presidente, signori membri stimati della Commissione formata sotto l’egida del Senato Accademico dell’Università di Friburgo e per delega dell’Amministrazione provvisoria, il vostro collega, Martin Heidegger, compare rispettosamente, davanti a voi a vostra domanda, per rispondere in suo nome alle accuse formulate contro di lui». Iniziano così, nell’originale tedesco e tradotto in francese dalle forze di occupazione Alleate francesi del Sud ovest della Germania, in data 23 luglio 1945, le 36 pagine del processo verbale della deposizione di Martin Heidegger davanti alla Commissione di denazificazione dell’Università Albert-Ludwig, a Fribourg-en-Brisgau. I componenti della Commissione: Presidente, Constantin von Dietze, membri, Artur Allgeier, Adolf Lampe, Friedrich Oehlkers, Gerhard Ritter. Questi documenti sono stati di recente ritrovati negli archivi del Ministero degli Esteri francese che si trovano a Colmar, nel Sud est della Francia.
I fatti: poco dopo l’occupazione di Friburgo, nella primavera del 1945, l’esercito francese inizia con un programma di ricostruzione, facendo capire subito chiaramente che l’Università non avrebbe beneficiato di alcun privilegio legato al suo statuto di istituzione autonoma, e non ci sarebbe stato alcuno spazio per un’ipotesi per un’eventuale possibilità di autoriabilitazione. L’Amministrazione militare e l’Università cominciarono così ad avere una difficile relazione caratterizzata da una parziale autorità di ciascuno e dall’implicazione discreta di intellettuali francesi, in differenti tempi consulenti, come spesso accadde in Francia, dell’Amministrazione militare al fine di indirizzare ideologicamente il Comitato di epurazione. Era sentita come un compromesso fra due istanze: strumento di controllo per i francesi che indirizzavano gli interfaccia palesi di Heidegger, ovvero gli universitari tedeschi. Tra i più conosciuti dai francesi emergono i nomi di Jean Paul Sartre, Jean Beaufret, De Touwarnicky, Jacques Lacan ed altri. I membri tedeschi della Commissione avevano preso parte al complotto del 20 luglio 1944 contro la vita di Adolf Hitler, imprigionati, erano sopravvissuti.
La commissione fu decisa nel maggio 1945. L’epoca era difficile, e l’appello a comparire davanti alla commissione universitaria non era il solo pensiero di Heidegger: i suoi due figli erano dispersi in Russia e il suo appartamento a Friburgo era stato requisito dagli occupanti.
Ma i membri della commissione erano propensi per la riabilitazione. Solo Lampe gli era contrario.
Le accuse erano le seguenti. Propaganda nazista effettuata da Heidegger presso gli studenti. Due, amministrazione dittatoriale dell’università da parte di Heidegger in conformità del principio del culto del Fuhrer. Tre, la restrizione della libertà dell’insegnamento esercitata da Heidegger nei confronti degli insegnanti negli anni 1933-34 in cui Heidegger era il Rettore.
Alla fine, contro solo il voto di Lampe. Infatti, la Commissione, nel settembre 1945, aveva stabilito che Heidegger era stato solamente un partigiano iniziale, benché ardente, della rivoluzione nazionalsocialista, giustificando così la rivoluzione agli occhi degli intellettuali tedeschi e rendendo loro più difficile conservare una certa indipendenza, ma che aveva smesso di essere nazionalsocialista a partite dal 1934. La sentenza raccomanda che Heidegger andasse subito in pensione, ma non fu sollevato dalle sue funzioni: poteva conservare il suo diritto di insegnare ma era escluso dall’amministrazione universitaria. Lampe non si arrende: il 4 novembre 1945 fornisce un rapporto circostanziato sulle attività di Heidegger durante il Terzo Reich, facendo una inchiesta informale presso professori e studenti dell’Università fino al 1945. Anche questo delicato rapporto si trova negli atti degli archivi del ministero degli Esteri francese.
Ma come si difese il filosofo dalle accuse in quella circostanza? Ecco uno stralcio della sua autodifesa. «L’intenzionalità come comportamento e la verità come apertura al mondo e rivelazione del mondo vanno mano nella mano - queste sono le ultime righe della difesa di Heidegger - «se l’università non può ripensare radicalmente l’intenzionalità, i suoi tentativi di rivendicazione di una neutralità di cui si vanta tanto e gli sforzi per evitare di essere l’organo dello Stato nazione del mercato sono del tutto inutili. La particolarità religiosa, dell’Università religiosa pre-moderna, sarà corrosa su due fronti: nazionalismo nascente e l’utilitarismo economico. Malgrado i suoi sforzi per mantenere un distacco teorico verso lo Stato e gli interessi del mercato, la sua secolarizzazione non è stata ottenuta per effetto della libertà dei valori ma per rimpiazzare un insieme di valori religiosi con altri valori più astratti. Come mi sono dunque comportato io che sono qui davanti a Voi, soggetto di diritto con l’impegno di fare una summa dei miei concetti filosofici, delle mie opinioni politiche, delle mie azioni e dei mie rapporti con i studenti e gli insegnati di questa università, esperienza intrapresa anche se avventurosa? Quelli che sperano di ascoltare qui delle ammissioni di colpevolezza o delle affermazioni di innocenza saranno delusi da ciò che avranno trovato. Sotto il sigillo di questo tribunale le mie parole saranno quelle di una viaggiatore, sebbene inopportune e premature, abbandonato da un educatore tragicamente sbattuto tra un ’non ancora e un già passato’».

l’Unità 7.4.08
Ecco il senso degli argomenti usati dal filosofo in quella istruttoria, ricostruiti sullo sfondo del controverso rapporto con il regime di Hitler, dal discorso «rettorale» del 1933 in avanti fino alla «revisione»
La tragedia del nazismo? Era stata tutta colpa dell’«Essere»
di Bruno Gravagnuolo


Una vicenda raccontata infinite volte e fonte ancora di polemiche, quella su Heidegger e il nazismo. Chiara altresì, almeno nei suoi contorni generali. E alla quale oggi i documenti sopra pubblicati apportano un ulteriore tassello di luce. Più che altro sul modo in cui il filosofo intese scagionare se stesso: modo sibillino e alquanto oracolare. Che non era né un’ammissione di colpa né un rigetto della colpa. Piuttosto una fuga speculativa, che avrebbe accettato magari una critica filosofica, ma non un giudizio etico-politico.
Prima di tornare su questo, riepiloghiamo di nuovo i fatti. Ormai è filologicamente comprovato. Heidegger, anche sotto l’influsso della moglie Elfride nazista convinta, fin dal 1932-33, era orientato politicamente (ed elettoralmente) verso il nazismo. A modo suo ovviamente, e non nel senso banale di partito (a cui si iscrisse altresì). Bensì in quello di un filosofo che voleva «cavalcare la tigre», e ravvisava nel nazionalsocialismo una rivoluzione conservatrice, anticapitalista e romantica. Capace di ridare lustro e prestigio all’Università tedesca, di rilanciarne il primato universale. Nonché di ricucire nella modernità, in quanto movimento politico, il legame tra «Zivilistation» tecnica, e senso greco dell’Essere, il «senso» alle origini della superiorità spirituale dell’Occidente.
Per questo il filosofo accettò la carica di Rettore dell’Università di Friburgo, inaugurando l’anno accademico 1933-34 con il celebre discorso su L’autoaffermazione dell’Università tedesca che gli fu a lungo rimproverato da allievi e avversari. In quel discorso Heidegger tracciava il profilo di «movimento» del «suo» regime nazista, delineando al contempo l’immagine mobile di una società organica, comunitaria, solidale. Del lavoro e della cultura. Compattata dall’«etnos» e fluidificata nei suoi vari comparti proprio dal ruolo d’avanguardia speculativa della filosofia. Al fine di riunificare in una radice più «intima e vera» il significato dei diversi saperi, rilanciando così la primazia della Germania. Governare la tecnica. Senza perdere la luce dell’Essere, dell’«autentico». Del divino numinoso e intramondano, oscurato dalla società massificata e inautentica, dal cosmopolitismo di matrice utilitarista e anglo-francese. Ecco il problema «politico» di Heidegger in quel momento. Uno Heidegger non lontano dalle pulsioni conservatrici di tanta parte della cultura tedesca di allora, secondo i moduli introdotti già nel 1915 dal Thomas Mann conservatore delle Considerazioni di un impolitico.
Sappiamo come si concluse l’avventura politica di Heidegger, costretto a dimettersi prima della scadenza del suo incarico, nel febbraio 1934. Essendosi rifiutato di estromettere dall’Università due colleghi avversi al regime e banditi apertamente dalle autorità nazionalsocialiste, che premevano in tal senso sullo studioso. In seguito i suoi corsi e la sua vita furono attentamente sorvegliati dalla polizia segreta e dalle Ss. Che, e ne abbiamo dato in passato ampio conto su queste pagine, non trovarono nulla di antinazista nella filosofia di Heidegger, anche perché non la capivano. Pur fiutando in essa motivi eccentrici e «disimpegnati».
Talché al filosofo, guardato a vista come «razionalista» (!) e «nichilista», fu impedito di pubblicare all’estero e anche di essere oggetto di recensioni alla sua opera. Così come di fatto, se non formalmente, gli fu inibito di partecipare a congressi di filosofia fuori dalla Germania.
Dunque, guardato a vista. Nondimeno, fino alla fine degli anni trenta, Heidegger continua a scorgere nel nazismo un «movimento» di «intima grandezza e verità». Benché, proprio a metà di quegli anni, inizi in lui un rovesciamento: dal nazismo come cura del «nichilismo tecnico», al nazismo come sintomo e conferma di quel nichilismo, frutto della Volontà di Potenza. Con la revisione su Nietzsche cambia quindi la prospettiva. E siamo all’«autodifesa» del 1945, citata in questa pagina. Heidegger si dichiara non imputabile, perché con la sua filosofia egli ha solo parlato dall’interno della tragedia del suo tempo, registrandola con «intenzione» libera, ed «esperienza avventurosa», seppur con inevitabile sviamento. Insomma la «colpa» era (stata) dell’Essere, del Destino, non del suo pastore e filosofo.

l’Unità 7.4.08
Le studentesse delle più prestigiose università difendono la loro castità ma il fenomeno ha più a che fare con una prova di forza che con valori come l’innocenza
La rivoluzione sessuale delle vergini di Harvard
di Stefano Pistolini


«La difesa della propria verginità non è tanto una questione di innocenza e purezza. Piuttosto ha a che vedere con un atteggiamento di forza». Ipse dixit una studentessa della notabile università di Harvard intervistata dal magazine domenicale del New York Times, che torna ad analizzare il fenomeno della difesa della castità tra i teenagers americani, storia che fece già il giro del mondo negli anni Novanta, allora ambientato nell’esplosione tra i postadolescenti dei comandamenti del neo-fondamentalismo. Adesso la faccenda ha colori diversi e più interessanti, per come si colloca in un ambiente culturalmente evoluto e trasversale come quello delle grandi università americane, poi per come rinuncia a percorrere le diffidabili strade epidemiche della «mania» generazionale, restando una scelta circoscritta, venata di attivismo più che di preghiera, esposta al dibattito tra coetanei e - questo lo aggiungiamo noi, da modesti osservatori da lontano - come effetto di una situazione d’insicurezza che si sta palpabilmente facendo strada tra la gioventù americana che, se a fronteggiare tante cose viene preparata dalle sue strutture educative, sembra quasi inerme nel momento di doversi consegnare a un messaggio d’incertezza, di futuro a temperatura variabile, di sogni da riporre nel cassetto, di ansie che si vanno diffondendo. Una questione di forza, dice la ventenne Janie Fredell, studentessa in scienze politiche nell’ateneo più rispettato d’America, noto oltre che i per i suoi formidabili standard culturali anche per l’attitudine disinvolta e gli stili di vita trasgressivi dei suoi studenti, impegnati collettivamente a dare un morso al momento magico della loro formazione. Janie è arrivata in quell’angolo del Massachusetts da Colorado Springs, una delle roccaforti fondamentaliste dell’America profonda, un posto dove, come racconta lei, al liceo indossare l’anello simbolo della castità sessuale non è più un gesto significato, dal momento che quell’anello lo indossano letteralmente tutte le ragazze della scuola. Per lei, tanto arrivare a Harvard è stato entusiasmante dal punto di vista della propria educazione, tanto è stato scioccante dal punto di vista dei comportamenti. Il sesso tra i banchi dell’università, è moneta corrente, dice strumento di socializzazione, deriva edonistica. Lei ha deciso di resistere a quanto le dava la sensazione di assediarla ormonalmente e di darsi da fare attivamente in una direzione diversa. Decisivo per finalizzare i suoi istinti, è stato l’incontro coi rappresentanti (forse 200, ma veramente attivi non più di una dozzina, confessa candidamente) del gruppo d’opinione True Love Revolution (http://www.hcs.harvard.edu/tlr/) che si definisce un’organizzazione studentesca apolitica, dedicata alla promozione dell’astinenza sessuale preconiugale, attraverso la presentazione della castità come un’alternativa positiva per motivi etici e di salute, al servizio di «coloro che desiderano restare forti». Ed ecco riaffiorare, sia pure sullo sfondo qualificato e liberale di Harvard - e non da un suburbia nel mezzo del nulla della Florida - la questione della «forza». La cosa principale da ricordare, scrive il sito della Rivoluzione del Vero Amore è che tanti ragazzi e ancor più ragazze che si concedono all’attività sessuale lo fanno perché si sentono pressati a farlo. Loro la chiamano la «dominante scena della seduzione», uno spietato dentro-o-fuori sociale al quale è difficile sottrarsi, salvo poi fare i conti col disagio derivato dalla consapevolezza che il sesso casuale non sia così piacevole come i media lasciano credere.
Ma di cosa ci sta parlando questo articolo del principale quotidiano americano? Parla forse di diffusione del senso di colpa e della paura del peccato negli strati postadolescenziali della parte più fortunata della nazione? Descrive con un certo voyeurismo le ultime frontiere di quell’arte di arrangiarsi sessualmente che ha sempre fatto da pendant ai divieti dottrinali (inerpicandosi in statistiche sul boom del sesso orale tra le stesse fanciulle che si battono in difesa della propria verginità)? Ripropone la questione del danno psichico diffuso tra i giovani dal rovinoso affair Clinton-Lewinsky e dalla sua squallida rappresentazione del sesso senza futuro? Oppure lascia intendere che l’importante per un giovane americano sia non restare indietro dal punto di vista della strutturazione sociale, tanto più in ambito universitario, insomma che l’affiliazione a una qualsivoglia organizzazione è l’anticamera del lobbismo a cui è sottoposta tutta l’organizzazione economica e politica dell’America che conta qualcosa? Probabile ci sia del vero in ciascuno di questi aspetti. Ma nel ritratto dell’America sempre più balbettante di questi tempi, dove s’intrecciano i ritrovati entusiasmi politici della campagna-Obama (non si sa ancora quanto venati di effimero) e gli strilli dei giornali che fanno a gara a gridare alla nuova Grande Depressione, in questo quadro destabilizzato, ci colpisce soprattutto l’appello a una condotta di «forza» prodotto dalla giovane vergine di provincia. Tener duro contro le tentazioni, non cedere il proprio corpo, preservarlo per la fantasticata comunione dei sentimenti con l’unico, vero, possibile amore. Uno slancio, per quanto ingenuo e artificioso appaia, che va in direzione dell’autostima, della difesa del sé dall’assedio delle insicurezze. Anche per questo, prima di sfottere le vergini americane e i loro volantinaggi sulla porta delle aule all’insegna del «Perché non aspetti?», viene un moto di simpatia. Nella speranza che non venga scambiato per una strategica variazione nell’inesauribile partitura del rimorchio sessuale.

l’Unità 7.4.08
Paleoantropologia. Nuove scoperte su l’Orrorin tugenesis
Camminava eretto 6 milioni di anni fa
di Davide Ludovisi


Nel 2000 in Kenia sono stati scoperti dei fossili che hanno scatenato da subito un intenso dibattito scientifico. Si trattava dei resti di un antenato umano risalente a sei milioni di anni fa, chiamato Orrorin tugenesis. Ora nuove analisi fatte dagli antropologi statunitensi Brian Richmond della George Washington University e da William Jungers della Stony Brook University di New York e pubblicate su Science, rivelano che già sei milioni di anni fa questo ominide era in grado di avere una deambulazione eretta. Le ossa fossili hanno infatti rivelato una notevole somiglianza con le analoghe strutture di Australopithecus e Paranthropus, che risalgono a un periodo ben più recente, tra i tre e i due milioni di anni fa.
Il paleontologo francese Martin Pickford, del Collège de France, che assieme alla collega Brigitte Senut ha scoperto i resti dell’Orrorin tugenesis, si dichiara soddisfatto: «Io e i miei colleghi abbiamo sempre sostenuto che l’Orrorin fosse bipede. All’inizio alcuni scienziati non concordarono con noi, ma la maggior parte ora si sono ricreduti».
«I nuovi studi lo confermano: i resti femorali dell’Orrorin suggeriscono che avesse un’andatura bipede e ciò lo rende un antico ominide», non una semplice scimmia, quindi, spiega Daniel Gebo, antropologo della Northern Illinois University e noto esperto di bipedismo. Le prime Tac sulle ossa dell’anca dell’Orrorin avevano fatto avanzare l’ipotesi che possedesse una postura simile alla scimmia, per potersi arrampicare sugli alberi. Gli scienziati americani, analizzando i femori di Orrorin e confrontandoli con quelli di altri ominidi fossili, delle grandi scimmie e dell’uomo, hanno invece concluso che l’articolazione dell’anca del nostro vecchio progenitore era perfettamente adatta a un’andatura bipede, andatura che venne mantenuta senza grossi cambiamenti per i successivi quattro milioni di anni.
«Lo studio dimostra che l’andatura eretta è una delle primissime caratteristiche umane ad essersi evoluta», racconta Brian Richmond. «Queste analisi confermano che i nostri primi progenitori erano adatti a camminare su due gambe già circa sei milioni di anni fa, appena dopo la separazione tra gli umani e gli scimpanzé». Il successo della nostra specie deve molto all’ottimo design delle nostre anche, quindi.
«Avere la prova che Orrorin sia stato uno dei primissimi antenati umani con un’andatura eretta è molto importante perché vogliamo conoscere le cause per le quali a un certo punto i nostri antenati si sono differenziati da quelli degli scimpanzé», spiega John Hawks, paleoantropologo dell’University of Wisconsin. «Ora - continua Richmond - la nuova sfida è capire che cosa abbia accelerato il passaggio da questi primi fortunati adattamenti della conformazione corporea a quelli più simili ai nostri, affermatisi circa due milioni di anni fa nei primi membri del genere Homo: cioè lunghe gambe, grandi giunture dell’anca, dita corte e diritte».

l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane
l’Unità 7.4.08
L’ultimatum per le donne dei libri
di Bruno Ugolini


Hanno un compito delicato e difficile. Sono in ventisei, quasi tutte donne. Non hanno a che fare con complicati macchinari. La loro non è una fatica manuale, è una fatica degli occhi e della mente. Maneggiano dalla mattina alla sera libri antichi e moderni, un patrimonio raro e prezioso. Alcune di loro in queste settimane, per fare un esempio, hanno analizzato testi del Cinquecento. Hanno imparato una professione, quella del bibliotecario. Lavorano da molti anni, dal 2004, nelle varie stanze del quarto piano della Biblioteca nazionale centrale di Roma. Non hanno trovato quel lavoro per caso. Sono state selezionate, raccontano in un’Email, sulla base di titoli sudati: laurea, curricula, specializzazioni, esperienze professionali. E una delle tante vicende che prendono di petto un tema che in questa campagna elettorale è stato sollevato da Veltroni. Raccontano, con una punta d’orgoglio, d’essere bibliotecari dell’Iccu, l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche. Un Istituto nato a seguito della costituzione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il compito di catalogare l’intero patrimonio bibliografico nazionale, a garanzia dello sviluppo di servizi di uguale livello su tutto il territorio nazionale. Un lavoro di soddisfazione: sanno che quei libri rappresentano una ricchezza da custodire e riordinare per questo paese frastornato. Ora però sono sommerse da drammatiche preoccupazioni. Il loro lavoro, infatti, come capita a tanti in Italia, magari trattati con qualche faciloneria come bamboccioni, non è considerato stabile. L’amministrazione pubblica ha stabilito con loro contratti di collaborazione, senza ricorrere, come spesso si fa, all’impiego di cooperative e a forme di cottimo nascosto. E così hanno potuto percepire finora uno stipendio pari a circa 1100 euro il mese, passando via via di contratto in contratto. Ora però, raccontano, sono «in scadenza». La data finale è il 31 maggio 2008. Qui dovrebbero trovare un’amara conclusione, le loro carriere professionali e le loro possibilità non solo di reddito, ma di un’esistenza in qualche misura appagante. Non è una scadenza obbligatoria, collegata alla fine di un progetto. Le loro incombenze investono l’attività istituzionale dell’Iccu, un’attività non certo esaurita. L’ultimatum, così, rappresenta un duro colpo. Gran parte di quelle donne, dai 30 anni in su, hanno dal 2004 organizzato la propria vita, si sono sposate, hanno avuto figli. Ed ora? Ora s’interrogano sulle cause del licenziamento. È una questione di soldi? Eppure lo Stato, in tutti questi anni, dal 2004 in poi, ha investito tempo e denaro per la loro formazione, per adeguare la loro professione. Un investimento che ora si vorrebbe gettare alle ortiche. Un atto di spreco incurante di persone che con il loro lavoro, rilevano, contribuiscono a creare e conservare la cultura del nostro paese. E aggiungono: «Ci chiediamo quale sia il motivo che porta il mondo politico in generale, ora alla vigilia delle elezioni, a tuonare contro il precariato, definito piaga ed emergenza sociale, ma a tacere sulle modalità di regolarizzazione di quanti abbiano contratti atipici in essere». Un invito, insomma, ad approfondire gli impegni già assunti (ad esempio dal Pd) per un giusto compenso ai precari e per favorire processi di stabilizzazione. Queste donne testimoniano di numerosi casi di persone con anni di contratto atipico e che rivendicano, dopo una tale prolungata fase, non la chiusura di ogni rapporto di lavoro, bensì un rapporto fisso. Scrivono ancora le nostre interlocutrici di volere «un contratto di lavoro dignitoso, in cambio di un lavoro di alto profilo e qualità». Pretendono che lo Stato non le butti via, buttando così una parte di se stesso. Ricordano a tutti noi: «La cultura non è meno importante della Tav del Corridoio 5 o del ponte sullo Stretto. La cultura è un’infrastruttura non tangibile, ma altrettanto concreta».
http://ugolini.blogspot.com/

l’Unità 7.4.08
Ferrara, oratore a senso unico
di Luigi Cancrini


La piazza bolognese che lancia sassi e pomodori contro Giuliano Ferrara è stata criticata con forza un po’ da tutti. L’impressione che ho, leggendo, è che le critiche nascondessero, tuttavia, un certo compiacimento. Mi sbaglio? Lei che ne pensa?
Lettera firmata

Il problema fondamentale della politica nelle democrazie moderne è stato correttamente indicato da Chomsky e da Herman e da molti altri come un problema di accesso alla comunicazione di massa. Come ben dimostrato ancora una volta da questa ultima campagna elettorale, il numero delle persone che hanno la possibilità non solo di parlare ma anche di decidere di che cosa si parla, di stabilire l’agenda degli argomenti rilevanti e di definire l’ordine delle possibili soluzioni è estremamente limitato. Osservato da questo punto di vista e al di là del merito, quella che si intravede dietro l’episodio comunque sgradevole di Bologna è una ingiusta (e poco democratica) distribuzione del potere fra un uomo che è a tutti gli effetti un Vip e può per questo motivo utilizzare la sua capacità e la sua non comune possibilità di trovare spazio su tutti i media del Paese (con rubriche e giornali suoi ma con una presenza fra le più invadenti anche sugli altri giornali e nei dibattiti televisivi non diretti da lui) per dare voce ad una sua crisi personale su un tema «eticamente sensibile» e il resto delle persone normali: quelle che non hanno nessuna possibilità di dire la loro sui media e che anche oggi, sulla piazza, sono costrette solo ad ascoltare e impossibilitate, nei fatti, a replicare. Nel silenzio imbarazzato e imbarazzante di quelli che sono, a tutti gli effetti, i due grandi protagonisti della vicenda elettorale impegnati in una corsa al centro che rende difficile trovare argomentazioni su cui si rischia di irritare il Papa e la Curia. Ma nel silenzio imbarazzato e imbarazzante, soprattutto, delle televisioni e dei grandi giornali che pensano di dover rispettare, nel nome di una par condicio che li libera dal dovere di critica, le condizioni di extraterritorialità («lo dice in campagna elettorale, noi dobbiamo solo riferire») delle sciocchezze terroristiche dette da Ferrara su un tema che meriterebbe ben altra capacità di riflessione e di rispetto.
L’aborto è questione che riguarda da vicino la coscienza e la sensibilità di ognuno di noi (e dunque di tutti quelli che si trovavano quel giorno in quella piazza) ed è davvero assurdo e per molti versi fastidioso sentire persone che ne parlano da un palco in modo così apertamente provocatorio: con tanta sicurezza, cioè, e con tanta violenza. Travestito da Gesù nel tempio, Giuliano Ferrara che si scaglia contro l’aborto considerato come il male del mondo non è credibile semplicemente perché la gente non può fare a meno di chiedersi da che pulpito viene quella predica. Solo chi è senza peccato può scagliare la prima pietra e davvero assai goffo è il tentativo fatto da un leader politico improvvisato di presentarsi come campione della moralità pubblica dopo essere stato, per tanti anni, fra i protagonisti più compiacenti e più premiati di un circo mediatico in cui la signora morale (così la chiamava Marx) è abitualmente assai trascurata. Sentirlo insultare (insulti sono purtroppo i suoi, che se ne renda conto o no) le persone che sono costrette (comunque dolorosamente, pagando comunque prezzi personali pesanti) ad affrontare il tema dell’aborto nel concreto della loro vita, vedere come si muovono intorno a questo nuovo tipo di furore (potente e ieratico, megalomanico e inutilmente presuntuoso) le angosce persecutorie di tante persone che stanno male (e che a questo star male cercano sollievo canalizzando impropriamente sugli altri una aggressività legata ai loro sensi di colpa) fa molta pena o più semplicemente una grande rabbia. Impossibilitati come erano nei fatti a contraddire un oratore così arrogante, quelli che non la pensavano come lui, quelli che si sentivano offesi dai suoi modi e dalle sue parole hanno comunicato con lui utilizzando i fischi e i pomodori. Abbassandosi di fatto al livello che era stato loro proposto.
Sono stato invitato una sola volta da Ferrara ad uno dei suoi talk-show. Non ero d’accordo con lui (ce l’aveva quella volta con i giudici e con i genitori di Rignano Flaminio) e lui è stato così villano pubblicamente da sentirsi costretto (nel nome forse dell’amicizia che avevo avuto con suo padre in passato) a chiedermene scusa poi in privato. Mi sono chiesto molte volte da allora il perché di tanta rabbia e di tanta sicurezza. Quello che me ne è rimasto come ricordo è il retrogusto amaro di una situazione in cui chi ha in mano le chiavi per l’accesso ai media pensa di poter condizionare e ricattare chi, facendo politica e non facendo parte del mondo dei Vip, di questo ha (o si pensa che abbia) bisogno.
Siamo di nuovo al punto, caro lettore, Chomsky ha ragione quando dice che oggi lo squilibrio fondamentale non è più solo quello che si determina intorno alla proprietà delle strutture di produzione ma anche e, a tratti, soprattutto quello che si determina intorno alla proprietà e al controllo delle strutture che governano l’informazione. Segnala proprio questo, in fondo, l’episodio di Bologna. Chiamando l’elettore che crede ancora nella politica a porsi nel momento del voto una domanda semplice sul perché l’agenda politica di questa campagna elettorale abbia ruotato sempre intorno ai soldi (da dare o da non togliere con promesse probabilmente irrealizzabili su salari, bonus e pensioni ai cittadini o alle famiglie) e mai o quasi mai intorno alla esigibilità dei diritti negati dalla debolezza sempre più grave dei servizi che si occupano dei bambini e degli anziani, dei pazienti psichiatrici e dei tossicodipendenti, degli immigrati e dei minori che arrivano con loro. Dei diritti di quelli che contano poco, cioè, perché non hanno rappresentanti: in politica, sui giornali e nei talk show televisivi.

Repubblica 7.4.08
Dossier Onu contro l'Italia "Discrimina gli zingari"
Anche gli sgomberi nel mirino del Cerd. "E alcuni politici incitano all'odio razziale"
di Davide Carlucci


"Negli ultimi mesi l´isteria anti rom ha raggiunto livelli allarmanti"
Critiche allo smantellamento dei campi senza dare un tetto alle persone evacuate

MILANO - In Italia è in corso «una campagna di discriminazione» senza precedenti contro rom e sinti. E per fermarla bisogna anche «perseguire i politici che incitano all´odio razziale». La tesi è contenuta nell´ultimo rapporto del Cerd, il comitato internazionale per l´eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale delle Nazioni unite. È un duro atto d´accusa all´Italia, colpevole, secondo l´organismo - che raccoglie le segnalazioni di Ong e associazioni - di diversi atti di segregazione verso le due comunità. Sono elencate tutte le contestazioni sugli sgomberi dei campi rom avvenuti negli ultimi mesi a Milano, Roma, Bologna, Pavia e altre città, mentre un robusto capitolo è dedicato alle esternazioni, riportate da stampa e tv, di leader come Gianfranco Fini, che il 4 novembre in un´intervista al Corriere della sera si è chiesto «come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavorare perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi».
La relazione sull´«antiziganismo» sarà resa pubblica domani a Milano - dove sono ancora roventi le polemiche per il recente sgombero del campo della Bovisasca - durante un incontro pubblico organizzato da Dijana Pavlovic, attrice e attivista rom candidata per la Sinistra Arcobaleno. Critiche al decreto del governo sull´allontanamento dei rom che commettono reati e agli sgomberi ciechi, senza la garanzia di un tetto per le persone evacuate. Molte pagine del documento riguardano le «discriminazioni nell´accesso ai diritti sociali, politici, civili ed economici». A pagina 17 si nota «con seria preoccupazione che nei recenti mesi, in seguito all´avvio delle operazioni previste dai patti di sicurezza in varie città italiane, l´isteria anti-Rom ha raggiunto nuovi e allarmanti livelli nei media». Nelle roulotte e nelle baracche, così, si respira un´atmosfera di paura al punto che alcune famiglie rom e sinti residenti a Pescara da generazioni che hanno chiesto di cambiare i loro cognomi per celare le loro reali origini. Abusi, secondo il rapporto, sarebbero stati commessi anche dalla polizia durante i controlli nel campo di via Casilino 900 di Roma, nell´insediamento di Stupinigi, alle porte di Torino e a Mantova. Episodi che vengono accostati alle violenze commesse da squadracce xenofobe come gli incendi che hanno colpito due accampamenti a Roma il 3 gennaio, o il raid sventato l´8 novembre a Torino dove, già un mese prima, si è sfiorata la strage per un incendio causato dal lancio di bombe molotov. La «discriminazione nell´accesso alla casa» sarebbe alla base delle frequenti tragedie come la morte dei quattro bambini di Livorno o come i tre incendi mortali del Casilino, di Caserta e di Bologna. Per non parlare delle bombe ecologiche: a Bolzano si sta cercando una soluzione per centinaia di rom accampati in un´area fortemente contaminata. Il rapporto prescrive all´Italia venti raccomandazioni, tra le quali il riconoscimento dei sinti e dei rom come minoranze nazionali e il ricorso all´azione penale contro i politici responsabili di incitazione all´odio razziale.

Repubblica 7.4.08
Un omaggio a due ricchissimi mercanti d'arte russi alla Royal Academy
Picasso, Matisse, Renoir sulla via di Mosca


LONDRA. Ai mercanti, ai mecenati, ai collezionisti è dedicata la bellissima mostra "Dalla Russia", in corso alla Royal Academy di Londra fino al 18 aprile. Un omaggio ai due mercanti russi Sergey Shchukin e Ivan Morozov. Due commercianti moscoviti della fine del secolo XIX, ricchissimi, rivali tra di loro, entrambi ansiosi di far conoscere in patria le novità parigine nel campo dell´arte.
Ambroise Vollard il mercante di Césanne, diceva di Morozov: «È un russo che non contratta e non bada a spese». Fu così che prese la via di Mosca, con ogni mezzo di trasporto, una incredibile quantità di opere degli impressionisti francesi e non solo. I curatori Ann Dumas e Norman Rosenthal hanno realizzato una mostra intellettualmente ambiziosa e visivamente affascinante. Morozov, dei due, era forse di gusti più conservatori, ma Shchukin acquistò un centinaio di opere di Picasso del periodo rosa, blu, cubista, e divenne il più importante mecenate di Matisse, al quale commissionò, nel 1909, La danza, l´impressionante murale oggi all´Hermitage. La mostra, ricca di centoventi capolavori, provenienti dai musei di Mosca e di San Pietroburgo, si divide in due sezioni: i dipinti francesi che i due mercanti fecero arrivare in Russia e le opere degli artisti russi.
Shchukin, fino ai primi del secolo non aveva amato particolarmente Picasso, ma racconta nelle sue memorie: «Sollecitato dagli amici ne acquistai uno. A Mosca però non sapevo dove sistemarlo. Non andava d´accordo con il resto della collezione. Alla fine lo collocai accanto alla porta d´ingresso. Ci passavo davanti tutti i giorni e naturalmente gli davo uno sguardo. Divenne un´abitudine inconscia. Dopo un mese mi resi conto che se non vedevo il dipinto non mi sentivo a mio agio e la colazione mi andava di traverso. Perché? Realizzai allora che quel quadro aveva una spina dorsale di ferro e tutti gli altri mi sembrava l´avessero di cotone». In breve Shchukin divenne "Picasso dipendente". Quello che aveva stregato Shchukin era quanto di barbaro, di violento, di essenziale c´era nell´arte di Picasso. E barbaro, violento, essenziale, sono fra gli elementi fondamentali della pittura russa della seconda metà dell´Ottocento. «Gratta un russo e troverai un barbaro». Non era concepibile, allora, che si potesse dipingere in Russia un´opera come Le dejeuner sur l´herbe di Manet. Per diversi motivi, sociali, religiosi e francamente realistici. Se si entra nel dipinto di Renoir Le moulin de la Galette e si scostano le fronde che nascondono in parte il tavolo e i commensali si avverte inevitabile un odore di cucina, cucina ricca e borghese. Sensazione impensabile per qualsiasi dipinto russo.
Ancora nel 1856, il giovane conte Leone Tolstoi scrive nel suo diario: «Il mio atteggiamento nei confronti dei servi della gleba comincia a darmi molti pensieri». La schiavitù venne abolita in Russia nel 1861 dallo zar riformatore Alessandro II, ucciso vent´anni dopo dilaniato dalla bomba di un terrorista. La conseguenza dei pensieri di Tolstoi, e non solo dei suoi, fu che l´elemento popolare, il neoprimitivismo, i grandi temi dei lavoratori, diventano fondamentali e ricchi di fermenti per tutta l´arte russa. Il grande Ilya Repin, l´artista più longevo e influente della scuola dei cosiddetti peredvizniki, gli ambulanti, ce ne regala una vera e propria enciclopedia, come I battaglieri del Volga, o Ottobre 1805, ma Repin, e come poteva farne a meno?, ascolta Tolstoi che dice: «Per dipingere ci vuole il cuore» e quando esegue il suo memorabile ritratto, lo ritrae nella sua tenuta di Jasnaia Poiana, vestito da contadino, a piedi nudi sull´erba, le mani dentro la cintura, come un povero pellegrino.
La profonda attenzione alla religione c´è sempre stata nella cultura russa fin dal tempo delle icone. La rassegna lo mette bene in rilievo, dando spazio ai contadini senza volto, vere immagini di Cristo, di Kasimir Malevic, che a volte li dipinge davanti a una croce, o meglio davanti a un´idea astratta di croce. Malevic minimalizza le immagini fino a tornare all´archetipo dell´icona. E un pathos religioso dal quale nascono le "croci nere", i "cerchi neri", i "quadrati neri". E siamo a qualche decennio prima di Rothko. Insomma il risultato di tanta pittura diversa che «arrivò a Mosca grazie a due mercanti di tessuti come Shchukin e Morozov», quando cominciarono a esporre Gauguin e Cézanne, e poi Picasso, Matisse e Derain, fu che gli artisti russi si trovarono a confrontarsi con un vero e proprio "nuovo corso", e l´effetto fu che la modernità, nel momento in cui toccò il suolo della Santa Madre Russia, si slavizzò nello stile vivace e selvaggio del neoprimitivismo, a volte anche romantico.
Ma forse la sezione russa della mostra, dedicata ai ritratti, è quella più coinvolgente. Il ritratto di Ida Lvovna Rubistein, la danzatrice famosa per i suoi ruoli di Cleopatra e di Sherazade, non è solo un capolavoro di Valentin Serov, ma è uno dei punti chiave del modernismo russo. È sì un bassorilievo arcaico, ma la protagonista si esibisce nella sua totale e affilata nudità con sicurezza malinconica e insolente. Forse, è proprio nel ritratto che si esprime meglio l´ansia rivoluzionaria, l´irrequietezza e spesso l´ambiguità degli artisti russi.
Ma "Dalla Russia" va oltre, oltre i ritratti, i paesaggi, il significato dei cubo futuristi, dei suprematisti, degli strutturalisti, perché sistemando i dipinti russi insieme ai francesi che spesso li hanno ispirati, alla Royal Academy si mette in evidenza il dialogo tra i padri fondatori, chiamiamoli così, i loro discendenti ribelli e rivoluzionari.

Repubblica 7.4.08
Appello di Moretti, Bellocchio & Co. contro Cinecittà
Braccio di ferro su Filmitalia il cinema italiano si divide
Niente più autonomia "Liberazione" parla di colpo di mano
di Franco Montini


ROMA - Insorge il cinema italiano con un appello lanciato da quaranta illustri cineasti - una trentina di registi, fra gli altri Bellocchio, Montaldo, Moretti, Muccino, Ozpetek, Piccioni, Rubini, Salvatores, Scola, Virzì ed una decina di produttori - contro l´ipotesi di incorporazione di Filmitalia, la società presieduta da Irene Bignardi che si occupa della promozione del cinema italiano all´estero, all´interno del Gruppo Pubblico. Il provvedimento dovrebbe essere discusso e approvato oggi dal consiglio d´amministrazione di Cinecittà Holding. Il quotidiano di Rifondazione Comunista Liberazione parla di colpo di mano innescando un´implicita polemica con il Partito Democratico, cui fanno riferimento i vertici di Cinecittà. Ma Daniele Luchetti, uno dei firmatari, parla solo di cinema: «In questi anni Filmitalia ha svolto una meritevole azione di diffusione del nostro cinema in tutto il mondo, riuscendo a sopperire alla scarsità del budget a disposizione, dieci volte inferiore a quello di Unifrance, l´analoga agenzia transalpina, grazie all´agilità della struttura, alla rapidità nel assumere le decisioni operative, alla mancanza di burocrazia. Temiamo che se Filmitalia venisse assorbita in una struttura più complicata, come è Cinecittà Holding, tutto diverrebbe più difficile e farraginoso e per la struttura sarebbe impossibile lavorare come ha sempre fatto».
Tuttavia le osservazioni di autori e produttori non convincono affatto i vertici del Gruppo Pubblico. «Nonostante i firmatari dell´appello siano tutte personalità di prestigio - annuncia Alessandro Battisti, presidente di Cinecittà Holding - non siamo disposti a tornare indietro. La mia impressione è che molti dei firmatari non siano sufficientemente informati sul progetto: non si tratta affatto di ridimensionare il ruolo e l´attività di Filmitalia, né tanto meno di chiuderla, bensì l´esatto contrario. Ciò che abbiamo previsto è una fusione per incorporazione, formula che garantisce i livelli occupazionali di Filmitalia. Attraverso questo meccanismo si eliminano semplicemente una serie di spese per il mantenimento della struttura».

Corriere della Sera 7.4.08
Parole, struttura linguistica, clima retorico del proemio: la ricostruzione filologica di un «documento non autentico»
«Canfora ha ragione. Quel papiro non è di Artemidoro»
di Maurizio Calvesi


La tesi di Calvesi: ha ragione Canfora. Simonidis copiò un testo dell'800 del tedesco Carl Ritter

Il testo del discusso «papiro di Artemidoro» venne presentato per la prima volta nel 1998 dalla rivista specializzata «Archiv für Papyrusforschung»

La vicenda del papiro cosiddetto di Artemidoro (che conterrebbe frammenti di una sua opera di geografia, preceduti da un proemio tra il mistico e il filosofico, risalendo al I secolo a.C.) è ben nota ai lettori del Corriere dopo la sua esposizione a Torino e a Berlino.Ma penso che la difficoltà di districarsi tra lemmi di greco antico non abbia consentito ancora a tutti di comprendere, pienamente, le pur indiscutibili ragioni di Luciano Canfora, che ha scoperto la non autenticità del manufatto. Ineccepibile è anche la sua attribuzione del papiro al famoso e abilissimo falsario greco Costantino Simonidis, nato nell'isola di Simi nel 1820 e morto in Egitto nel 1890. Ciò che ora ho trovato, in una mia autonoma ricerca, potrà forse consentire un più agevole orientamento del lettore, giacché si tratta del testo moderno da cui il falsario sembra aver tratto alcuni concetti e alcune parole, nonché lo stesso clima retorico, del solennissimo «proemio».
Questo testo è opera del grande scienziato tedesco Carl Ritter (1779-1859) che, famoso per la sua monumentale Erdkunde di vocazione storico-umanistica, ovvero un'opera di geografia correlata all'uomo, fu uno degli artefici della «rinascita » della geografia nel XIX secolo. Nel 1836 ebbe larga diffusione la pubblicazione in francese della sua Géographie générale comparée, le cui primissime righe introduttive trovano un pronto riscontro nelle primissime righe dell'introduzione, o «proemio», del sedicente trattato di geografia di Artemidoro. Il confronto tra un testo francese ed uno in greco antico non risulterebbe facilmente accessibile, trascrivo dunque entrambi gli incipit in lingua italiana.
Così, nel suo enfatico scritto, il Ritter esordisce: «Nell'introduzione a un'opera che ha per scopo di accogliere, in un corpo intimamente unito nelle sue parti, le diverse nozioni sulla terra, prima di esporre il piano è indispensabile che si indichi ciò che ha rapporto, in questa scienza, con l'uomo. (…) L'uomo morale, l'uomo che vuole agire in modo efficace, deve avere l'intima coscienza delle proprie forze (…); ogni società di uomini deve misurare anche le proprie forze interiori ed esteriori».
E così esordisce il «proemio»: «Chi intende dedicarsi a un'opera geografica è indispensabile che, prima, mostri la propria scienza (o "il proprio sapere") in tutta la sua interezza misurando il peso della propria anima (ovvero: "plasmando la propria anima") in rapporto a tale impegno e preparandosi con gli strumenti dello spirito preposti alla volontà per quanto lo consenta la sua forza, senza che l'anima ela volontà vengano meno».
Ho girato in corsivo «volontà», «forza », «anima» perché ci sono anche queste parole, e c'è anche il divino, subito dopo, nell'introduzione del Ritter: «È l'accordo della volontà con la forza che, laddove la chiarezza si unisce alla verità, si manifestano in atti sublimi ed eterni» e «fanno fremere la nostra anima nel presentimento di un Dio. Ma quale è la vera volontà dell'uomo? (…) In che modo la volontà e la forza si compenetrano?». A sua volta, poi, il papiro fa appello al divino, invocando «le divine Muse» (letteralmente «dee del pensiero», maestose, eterne) e «la divina filosofia».
Il tono predicatorio, mistico e quasi esaltato del Ritter è lo stesso del proemio di Simonidis, ma soprattutto ricorrono alcune parole, e alcuni dei concetti sono analoghi. (Fermo restando che altre idee di Simonidis discendono da Strabone e che il lessico è debitore al vescovo bizantino Eustazio, come dimostrato nel recente libro di Canfora).
Ma l'accostamento di singole frasi potrà far meglio percepire alcune sorprendenti affinità: «l'uomo che vuole» (Ritter) ha riscontro in «chi intende» (papiro). «Un'opera che ha per scopo di ricevere in un corpo intimamente unito nelle sue parti» (Ritter) corrisponde all'immagine offerta dal papiro di una «scienza in tutta la sua interezza», ovvero di un sapere umanisticamente integrale. (Luciano Bossina, in un intervento nel libro di Canfora, aveva parlato per questa frase di «affermazione dell'unità del sapere»).
«Prima è indispensabile che si indichi ciò che ha rapporto» (Ritter), viene quasi tradotto nel papiro in «prima è indispensabile che mostri (…) in rapporto». «Avere la coscienza intima delle proprie forze », «misurare le proprie forze interiori» (Ritter) andrà posto a riscontro con la frase del papiro «misurando (ovvero: "plasmando") il peso della propria anima», a proposito della quale Bossina aveva già scritto: «Al geografo è dunque richiesto di misurare preventivamente le proprie forze». «L'accordo della volontà con la forza», «la volontà e la forza» (Ritter), trovano eco in «la volontà per quanto lo consente la sua forza», «lo spirito e la volontà » (papiro).
La frase inizialmente citata del Ritter — «Nell'introduzione a un'opera che ha per scopo di accogliere (…) le diverse nozioni sulla terra, è prima indispensabile che si indichi ciò che ha rapporto con l'uomo» — torna a trovare riscontri anche nelle considerazioni finali del «Proemio ». Il Ritter intende dire che nell'introdurre un'opera che riunisce in un corpo di sapere unitario studi sulla terra e sulle varie terre, è necessario, prima di esporre il programma, indicare ciò che (ovvero "i luoghi che") ha ("hanno") un diretto rapporto con l'uomo. Ed ecco Simonidis: «L'uomo arriva a possedere tutte le parti del mondo e si consacra tutto intero al (…) divino parametro della filosofia. Allo stesso modo anche il geografo, approdato sulla terra ferma di un paese e conosciuta l'estensione del paese che gli sta intorno e dei paesi che stanno altrove (...), fermandosi si accinge a conciliare la propria anima ("a entrare in rapporto") con il paese che gli sta sotto gli occhi».
«Io — leggiamo nel papiro — sono pronto a porla (la geografia) sullo stesso piano della più divina filosofia»: è proprio questa in buona sostanza, anche se rudimentalmente espressa, la novità della concezione geografica di Karl Ritter, discepolo del filosofo e teologo J.G. Herder.
Di fronte a così sospette assonanze, sarà inutile invocare analisi scientifiche che rivelano l'antichità del papiro e la composizione degli inchiostri. Simonidis conosceva benissimo tale composizione chimica, come si legge in articoli a lui dedicati nel XIX secolo e resi noti dal Canfora, e ovviamente si serviva di papiri antichi.
C'è però, mescolata al suo animo truffaldino, una componente «risorgimentalmente » nobile (la Grecia ha avuto il suo Risorgimento, con moti d'indipendenza indirizzati anche contro un re proprio di ceppo tedesco, Ottone di Baviera). Si potrebbe arrivare a pensare che il «patriota » Simonidis, con il suo falso, volle dimostrare che non solo a Strabone, ma anche al suo precursore Artemidoro, ovvero a tutta l'antica cultura greca, risale il merito di aver precorso la concezione moderna (ottocentesca e soprattutto germanica) della geografia come «profonda » scienza umana.
In ogni caso il simulato Artemidoro è dunque un documento affascinante, come spia di uno degli aspetti più nascosti e intriganti della cultura nel XIX secolo. Chi ha acquistato, confidando nel parere di studiosi accreditati, il manoscritto di Simonidis si trova ora in possesso di un cimelio certo inferiore in termini economici alla stima iniziale, ma di non trascurabile interesse da un punto di vista culturale.