mercoledì 9 aprile 2008

Repubblica 9.4.08
Dopo le sentenze contro la legge 40 molte coppie fanno causa
Fecondazione artificiale in arrivo pioggia di ricorsi
di Caterina Paolini


Nel mirino la costituzionalità delle norme sulla procreazione assistita
I viaggi della speranza delle donne italiane: "Siamo tutte fuorilegge"

Sandra, Grazia, Miriam. A decine hanno deciso di dare battaglia in tribunale, tutte assieme. Di raccontare le loro storie di aspiranti madri «tradite dalla legge», di usare il loro dolore e unire le forze perché venga cambiata la norma sulla fecondazione assistita. Una sorta di class action al femminile per convincere chi vive e decide nei palazzi del potere «a non trattarci come cittadini di serie B».
«cioè come cittadini che hanno diritto ad avere figli ma solo malati. Oppure costretti ad emigrare».
Chiedono speranza e giustizia, rispetto della salute e rimborsi per i viaggi all´estero, visto che ogni anno sono più di cinquemila le coppie espatriate nelle capitali europee a fare quello che i medici italiani sanno benissimo fare, ma non possono in base alle linee guida della legge 40. Bocciate dal Tar del Lazio a febbraio, ma mai corrette.
Le singole vittorie ottenute nei mesi scorsi con le sentenze di Cagliari, con il via libera alla diagnosi pre-impianto per una donna talassemica o quella del Lazio che ha bocciato le linee guida della legge, non bastano più. È in arrivo una pioggia di ricorsi: in 50 con i loro compagni presenteranno infatti decine di citazioni nei prossimi giorni. «Il tentativo», spiega l´avvocato Maria Paola Costantini che segue una ventina di casi, «è da una parte quello di farsi autorizzare dal giudice l´accesso alla diagnosi pre-impianto dall´altra quello di sollevare eccezione di incostituzionalità». Arrivando così a cambiare la norma.
Sono donne con la valigia piena di sogni e volontà, emigranti per amore e divieti ad avere deciso di rivolgersi ai tribunali. Per loro, per quelle che verranno. Determinate, nonostante la malattia e i tentativi falliti, a cambiare una legge che, raccontano, le tratta come numeri, ignorando la loro storia, età e salute. Che costringe il loro corpo a bombardamenti ormonali ripetuti «perché non ti consente di produrre più di tre embrioni alla volta e ti impedisce di congelarli, usandoli così in futuro». Decise a cambiare norme che escludono dalle tecniche di riproduzione compagne di strada il cui unico desiderio è che il loro bambino non abbia le malattie di cui sono portatrici sane: talassemia, mutazioni cromosomiche. Che non muoia di fibrosi cistica.
Sandra Sgroi, 34 anni, portatrice sana di talassemia come il marito, è una di loro. In Italia non avrebbe nemmeno potuto sottoporsi alla fecondazione assistita. «È prevista dalla legge solo per le persone sterili mentre io come chi ha altre malattie rare o genetiche, posso avere figli. Sono quindi una cittadina di serie B: autorizzata a partorire bambini con un´altissima probabilità di vederli nascere malati, costretti a trasfusioni due volte al mese dalla culla e un´aspettativa di vita ridotta. Quale genitore vorrebbe un simile strazio per il figlio?», mormora lei che se n´è andata ad Istanbul, spendendo 18 mila euro a furia di tentativi falliti, tra esami, soggiorno e diagnosi pre-impianto, prima di ritrovarsi a contare i giorni che ora la separarono dal parto.
Donne che vogliono giustizia e speranza nei ricorsi presentati da Milano a Roma, da Napoli a Firenze, appoggiandosi ad associazioni come Hera, Madre Cicogna, Lega Italia contro la Fibrosi Cistica, Sos infertilità, che hanno istituito un numero verde (800097999) e che continuano a ricevere chiamate, segnalazioni facendo prevedere una valanga di ricorsi per l´estate. Chiedono in alcuni casi anche il rimborso dei danni psicologici e dei costi materiali per quelle trasferte organizzate per ottenere la diagnosi di pre-impianto, ora legale in Italia da febbraio. «Ma nel nostro Paese purtroppo inutile da fare visto che statisticamente la diagnosi su tre embrioni, numero massimo consentito per legge, non è significativa», spiega il professor Guglielmino tra i massimi esperti e che da anni a Catania si occupa di fertilità e tecniche di riproduzione assistita all´associazione onlus Hera.
Donne che non vogliono sentire parlare di eugenetica, di ricerca della perfezione. «Io non voglio un figlio bello o con gli occhi blu. E nel mio caso non è nemmeno questione di volerlo più o meno sano, ma di vederlo nascere», racconta Grazia, siracusana trentenne, tra quelle che hanno presentato una citazione. «Ho la traslocazione robertsoniana, un´anomalia cromosomica per cui al 75% è destino: non supero il terzo mese di gravidanza. Ogni volta abortisco naturalmente. Sono rimasta incinta quattro volte, quattro volte la speranza di un figlio si è interrotta prima della 12 settimana. Senza la fecondazione artificiale, senza la diagnosi pre-impianto non ho speranza. E tre embrioni, come prescrive la legge non bastano alla diagnosi: la statistiche dicono che c´è n´è uno sano ogni 6. Senza contare che per legge mi impianterebbero anche quello malato, lasciandomi poi la scelta di abortire, dopo. Ma chi ha scritto quelle norme sa cosa significa?». Lei come le altre ha già un biglietto in tasca per l´estero se la legge non cambierà. Ma non rinuncia a lottare in tribunale.

Corriere della Sera 9.4.08
Bertinotti: il comunismo? Solo «tendenza culturale»
di R. Zuc.


E a Prodi: non ha capito le ragioni della caduta
Replica al premier dopo le accuse (smentite) sul «fuoco amico»: ha preferito il risanamento alla giustizia sociale

ROMA — Dopo Walter Veltroni, Romano Prodi. Al traguardo della campagna elettorale Fausto Bertinotti è sotto il tiro incrociato dell'ex «fuoco amico », che lo incolpa di avere lavorato per far cadere il governo dell'Unione. Ultima uscita, appunto, quella del presidente del Consiglio, che sulla Stampa
rimprovera la sua Rifondazione di «avere minato continuamente » l'azione dell'esecutivo. A tarda sera Prodi sostiene che quell'articolo «non esiste», ma ormai è già partita la controffensiva bertinottiana. Al veleno la battuta pronunciata dal leader della Sinistra l'Arcobaleno in visita al quartiere di Testaccio: «È peggio non aver capito le ragioni della sconfitta del suo governo che aver subito la sconfitta». Perché, per il presidente della Camera, la caduta del governo è invece tutta colpa del centro moderato dell'ex coalizione. Che oggi si ritrova divisa di fronte alle urne e, negli ultimi giorni prima del voto, sceglie lo scontro totale.
Già in mattinata l'articolo della Stampa aveva suscitato una mezza rivolta nelle varie componenti della Sinistra unita. Il segretario del Prc, Franco Giordano, parlava di «parole sgradevoli e fuorvianti» e accusava «i moderati del Pd». Mentre Fabio Mussi definiva le accuse prodiane «una colossale balla ». Perché, «a far cadere il governo sono stati Mastella e Dini ».
Poi è toccato rispondere allo stesso Bertinotti: «È caduto perché sono venute a mancare le basi del consenso di massa ed era finito nella trappola della politica in due tempi: prima il risanamento, poi la giustizia sociale. Che non viene mai». In altre parole: «L'Unione ha subìto un logoramento con la sua base elettorale, dovuto al condizionamento delle forze moderate e dei poteri forti». E di questo «il presidente del Consiglio porta una responsabilità». Insomma, ormai il dado è tratto, «la sinistra è diversa dai moderati del Pd» e «se Veltroni ci chiamasse dopo le elezioni sarebbe un truffatore perché ha dichiarato più volte di non volere accordi con noi». Diverso è il discorso che riguarda la conquista del Comune di Roma, là dove Bertinotti assicura «massima lealtà» alla campagna di Francesco Rutelli: «Puntiamo a vincere al primo turno».
E il futuro della Cosa nata a sinistra? È evidente che molto dipenderà dal risultato elettorale, ma il presidente della Camera lo vede comunque unitario: «Un soggetto unico, democratico e partecipato». Dentro il quale il comunismo sarà una «tendenza culturale». Al pari di quella «ecologista e femminista». E non conoscerà più verticismi, ma sarà condotta da una «leadership collegiale».

Corriere della Sera 9.4.08
Dialogo Il grande intellettuale bulgaro spiega il suo distacco dallo strutturalismo. E risponde alle obiezioni di Cesare Segre sulla funzione della critica
«La vera eredità europea non è cristiana»
Tzvetan Todorov: le nostre radici sono nell'Illuminismo, che significa pluralità di culture
di Paolo Di Stefano


PARIGI — Dalla critica letteraria alla storia della cultura. Dalla letteratura alla filosofia morale, al pensiero politico. E ritorno. L'itinerario di Tzvetan Todorov è solo in apparenza imprevedibile, e chi ha visto nell'ultimo libro dello studioso bulgaro il risultato di una «conversione» semplifica le cose. È vero, è stato uno dei pionieri dello strutturalismo e ora, con La letteratura in pericolo (Garzanti), mette in guardia dall'abuso degli strumenti critici. Ma quarant'anni dopo, Todorov è diventato uno degli intellettuali europei più autorevoli grazie alle sue riflessioni sulla memoria, sui regimi totalitari, sulle ideologie, sull'identità. Un cammino molto lungo da quando, ventiquattrenne, nel '63 lasciò Sofia per stabilirsi a Parigi, accanto ai mostri sacri Barthes e Genette. C'è anche una questione autobiografica dietro la svolta di oggi.
È di questo che Todorov parla, tranquillamente seduto a un tavolino del Café de la Contrescarpe, che guarda su una piazzetta a due passi dal Panthéon: «In Bulgaria era una necessità affrontare gli elementi che sfuggivano all'ideologia: stile, forma narrativa, tecnica compositiva. Ma stando in Francia, è venuto meno il tabù che pesava sulle idee, sulle relazioni tra letteratura e mondo. Dunque a poco a poco ho maturato una coscienza nuova: mi sono reso conto che per avanzare in una migliore comprensione dell'essere umano, che è l'obiettivo delle scienze umane, è necessario mettere in gioco la propria stessa esistenza». Così le pretese scientiste del formalismo, nell'approccio alla letteratura, venivano messe in crisi: «Capii che non potevo più esercitare la mia intelligenza su un oggetto come se mi fosse estraneo: è stata la mia biografia a portarmi verso argomenti come l'altro, l'incontro di culture, le scelte morali imposte all'individuo dal totalitarismo».
Dopo studi memorabili quali I formalisti russi
e La letteratura fantastica, nei primi anni '80 si arriverà a La conquista dell'America. Fino agli studi sull'Illuminismo («il pensiero di un'epoca non abita solo nei libri di filosofia, ma anche nelle opere d'arte: il mio sogno è scrivere una storia dell'Illuminismo attraverso la pittura») e al pamphlet
sull'Europa: «Si parla tanto di eredità cristiana, ma l'Europa ha anche una tradizione greca, romana, ebraica, musulmana, del libero pensiero. Il suo statuto è la pluralità. Il richiamo ai Lumi, che per la prima volta hanno percepito il pluralismo come virtù, mi sembrerebbe più attuale e indispensabile che il richiamo alle origini cristiane: la decisione di accogliere le diversità è un'invenzione esclusiva dei Lumi e certamente non appartiene a nessuna tradizione religiosa. Lungi da me ogni velleità di ignorare la funzione del Cristianesimo nella nostra cultura, ma sul piano politico, come cittadini dobbiamo riconoscere che sono stati i Lumi a svolgere il ruolo decisivo».
Torniamo al problema dell'altro: «Ho vissuto ormai in Francia il doppio del tempo che ho vissuto al mio Paese, ma sono sempre uno straniero. È una condizione che fa parte di me. Alla fine degli Anni 70 andai in Messico, lessi le cronache di viaggio e le relazioni dei conquistadores,
e ne rimasi abbagliato, come se quella gente del XVI secolo mi rivelasse la mia identità di uomo del Novecento ». Una conversione già allora?
Non proprio: «Per interpretare quei documenti provai a servirmi di tutto ciò che avevo imparato nelle analisi letterarie: ne venne fuori una specie di semiotica del comportamento dei conquistatori da una parte e degli indiani dall'altra. Il mio bagaglio strutturalista mi serviva per capire una realtà storica. Ancora oggi cerco di convocare tutti i metodi utili e i tipi di sapere: lo studio delle strutture e dello stile, la storia, l'approccio sociologico, marxista o psicoanalitico. Per questo non penso proprio di aver compiuto una svolta di 180 gradi».
Niente conversione, dunque. Todorov parla di «glissement»: «Nel mio caso si è prodotto uno slittamento durato trent'anni: il metodo è solo uno strumento di conoscenza e non bisogna confonderlo con l'oggetto della conoscenza, che è il senso di un'opera letteraria, e cioè un insieme che risponde a una preoccupazione esistenziale e comprende le forme, gli eventi narrati, le idee, i significati, la morale, la politica, la storia. È questo che deve trasmettere l'insegnamento scolastico». Si tratta di orientarsi più sui contenuti, sul messaggio? «Non parlerei semplicemente di contenuti. A scuola bisogna capire che cos'è la letteratura e che cosa trasmette sul piano esistenziale. Oggi si parla di antropologia, sociologia, psicologia, ma per molto tempo queste scienze non esistevano e il sapere sull'essere umano e sulla società lo si trovava solo nella letteratura. Sarebbe criminale dimenticare tutto questo.
Se Freud aveva l'umiltà di sostenere che i romanzieri erano i suoi maestri, tanto più noi tutti dovremmo riconoscerlo».
E a chi rimprovera a Todorov e ai suoi vecchi compagni di viaggio di essere stati fondamentalisti del metodo, come risponde? «Era il fondamentalismo dei neofiti, l'eccitazione della scoperta, l'entusiasmo nel riproporre vecchi testi dei formalisti Anni Venti. C'era un'effervescenza internazionale che coinvolgeva anche studiosi italiani come Segre, Maria Corti, Eco, Aldo Rossi. Ma certo, alla lunga si continuava a concentrarsi sugli strumenti e sulle forme, e le forme sono solo un modo per far vivere il senso di un'opera ». Come ha scritto Alessandro Piperno sul Corriere, oggi certe formule, come «la morte dell'autore» inventata da Roland Barthes, fanno un po' sorridere. Si può ancora essere d'accordo? «Barthes aveva una personalità che non si riduceva a nessuna delle formule che era capace di inventare. Maneggiava la lingua con straordinaria facilità e prestava la sua eloquenza a ogni tipo di idee. Direi che il vero Barthes non era in questa o in quella formula. Un giorno scriveva La morte dell'autore e il giorno dopo poteva scrivere un libro intitolato Roland Barthes visto da Roland Barthes, da cui si deduceva che l'autore non era affatto morto».
Dimenticato Barthes, quali sono i critici del nostro tempo che puntano diritti verso il senso della letteratura? Todorov si accarezza la nuvola di capelli bianchi e fa non più di due o tre nomi: l'americano Joseph Frank («che studiando Dostoevskij come nessuno aveva fatto prima, unisce diversi ingredienti: contesto sociologico e ideologico, analisi strutturale, biografia»), il francese Paul Bénichou («che si occupava di letteratura da storico delle idee»), lo svizzero Jean Starobinski («un grande commentatore più che un teorico»).
Quella che proprio Todorov non sopporta è la critica che asseconda la voga letteraria, particolarmente francese, del nichilismo: «La critica giornalistica spesso considera la letteratura come un'entità separata dal mondo esterno e la tratta come una pura forma attraverso cui si affermano il nulla, la catastrofe, la fine. Io credo che nessuno possa vivere e scrivere con una visione totalmente nera della vita. Leggo certe critiche in cui si dice: questo autore rivela l'inesistenza assoluta di ogni sentimento umano, la distruzione di tutti i valori... Uno scrittore o un critico finiscono di scrivere queste cose e poi necessariamente tornano alla vita di tutti i giorni: abbracciano il loro amore, si preoccupano dei figli, preparano da mangiare, partono in vacanza, vanno al cinema, eccetera. Insomma, continuano a fare tante cose normali e positive al di là delle loro dichiarazioni di disperazione infinita. Tutto ciò rivela una rottura tra letteratura e mondo. Ora, secondo me si può dire tutto in un romanzo, ma ci si dimentica spesso che c'è una continuità tra letteratura e vita».
Qualche nome. Houellebecq? «È uno dei grandi rappresentanti del nichilismo contemporaneo ». Altri? «Elfriede Jelinek e il classico del genere: Bernhard. Non ha importanza che non mi piacciano. Ricordo solo che anche i testi più disperati di Beckett, attraverso la loro bellezza, la perfezione, la capacità di far ridere, comunicavano comunque una speranza».
Secondo punto dolente della narrativa d'oggi, quella che Todorov chiama «egoletteratura»: «Non so in Italia, ma in Francia ci sono scrittori che per 250 pagine raccontano in ogni dettaglio i propri amori, gli incontri quotidiani, il sesso, le rabbie, i litigi, le separazioni e poi i divorzi. È la cosiddetta autofinzione, una formula lanciata qualche anno fa per dire che si può fare letteratura partendo da fatti strettamente riservati: uno statuto intermedio tra l'autobiografia e la finzione, che produce libri secondo me molto poveri, romanzi che raccontano un mondo a parte, confinato, personale, senza conflitti, senza banlieue, senza immigrati, senza le trasformazioni della mondializzazione. Ma detto questo, io mi astengo dal dare consigli agli scrittori. La letteratura è una cosa troppo seria...».
Un autore che va in un'altra direzione? «Il romanzo americano ha la forte tradizione di parlare del presente, e a me piacciono i romanzi che ti interpellano sui grandi temi che viviamo. Ma se devo fare un nome, mah, penso a un autore spagnolo: Antonio Muñoz Molina. I suoi romanzi in genere fanno riflettere sul nostro tempo, sul mondo, sulla società, sulla violenza, sulle guerre civili. E sono fuochi d'artificio di complessità, di pluralità, di voci, di tempi narrativi e di punti di vista. Sono aperti al mondo e appassionati alla forma ». Piacerebbero anche agli ultimi strutturalisti.

il Riformista 9.4.08
Anche in Rai c’è la casta
di Alessandro Curzi


Quale rapporto, quali analogie e quanta sovrapponibilità esistono fra l'Italia che non ne può più dell'autoreferenzialità e della separatezza della politica (ed è tentata di fuggire dalle urne), e l'Italia che non ne può più dell'autoreferenzialità ripetitiva e della separatezza della tv generalista dai linguaggi, dalle aspettative e dalla vita della gente comune (ed è tentata di passare ad altre scelte di comunicazione e di intrattenimento)? Me lo sto chiedendo spesso in questi giorni di campagna elettorale - ottimamente sintetizzata dal titolo di ieri de Le Monde : «Quand l'Italie s'ennuie» - e di non casuali interventi critici (credo anche con qualche punta di consapevolezza autocritica) di tre fra i migliori quadri dirigenti che abbia avuto recentemente la Rai. Mi riferisco agli articoli di Giovanni Minoli («Il duello in tv? L'ha già vinto Fabrizio Corona») e Stefano Munafò («Rai in crisi non solo per le elezioni») sul Riformista di ieri e di Carlo Freccero («E la tv non sa più a che santo votarsi») sul Manifesto di lunedì.
Anche i sassi sanno quanto sia lontana da me, dalla mia vita, dalla mia antica militanza e anche dalle mie più recenti acquisizioni di pezzi di cultura moderna, la cosiddetta anti-politica. Ma debbo ricorrere alla categoria della «casta» per individuare ciò che accomuna i contenuti e le forme prevalenti in politica con i contenuti e le forme prevalenti ormai nella tv generalista. Insomma, un inamovibile ceto di potere e di privilegiati si è effettivamente, stabilmente insediato - per una serie di ragioni, tutte inscrivibili nel processo di formazione del ceto dirigente e mediatico prevalso con l'esplosione del mercato della comunicazione - attorno alle anomale caratteristiche assunte in Italia dalla democrazia di massa, alle anomale peculiarità assunte in Italia dai consumi televisivi, dal mercato pubblicitario e dall'informazione e ai conseguenti, anomali intrecci fra politica, mass media e affari.

il Riformista 9.4.08
Sindaco. Patto di sostegno, ma la base rifondarola soffre
Fausto fa il soccorso rosso a Rutelli
A Roma va in scena il Pd de' sinistra
Al Loft non far sapere quel che succede al Campidoglio
di Stefano Cappellini


Sono le quasi le sei del pomeriggio quando Francesco Rutelli fa il suo ingresso a sorpresa nella Casa della Sinistra a Testaccio, la prima sezione unitaria dell'Arcobaleno a Roma inaugurata ieri da Fausto Bertinotti. E sfortuna vuole che lo faccia nel momento meno adatto. Il presidente della Camera ha appena concluso una sfuriata a tutto fiato contro il Pd: «C'è chi vuole cancellare la sinistra in Italia, chi, con l'inganno del voto utile, ci chiede di assistere dagli spalti a una partita dove in campo non c'è la nostra squadra. Noi dobbiamo impedirlo». Ovvio che quando la platea di militanti della storica sezione testaccina - già del Pci e strappata da Fabio Mussi al Pd - si vede comparire in sala Rutelli l'accoglienza è un gelido silenzio. È come se si materializzasse il nemico appena evocato. A rompere l'imbarazzo è Bertinotti, tra i pochi in sala a non essere rimasto sorpreso della visita. L'ha concordata lui stesso, la sera prima. «Salutiamo il nostro candidato sindaco», dice il presidente della Camera. Parte un tiepido applauso. Rutelli partecipa al brindisi, resta pochi minuti e fugge verso altre iniziative. Ma il fugace appuntamento è la fotografia migliore della campagna romana del centrosinistra, dove una coalizione sconfessata a livello nazionale si trova a combattere insieme una battaglia non facile per tenere a sinistra la capitale.
Per Rutelli, poi, il problema è duplice, perché sull'ex leader della Margherita grava la diffidenza di una parte del popolo rifondarolo, consolidata ai tempi del referendum della fecondazione assistita e quando il candidato sindaco era sospettato di volersi traghettare armi e bagagli in un centro montezemoliano e ruiniano. Rutelli e Bertinotti hanno ben chiaro il problema e stanno correndo ai ripari. Anche perché a Roma la corsa del vicepremier per evitare il ballottaggio si gioca sul filo di pochi voti e, in pratica, tutta a sinistra. Ecco perché la prima intervista ufficiale della campagna rutelliana è stata concessa al manifesto . La seconda intervista? A radio Popolare. La conversazione con Liberazione è già in agenda. E se ieri l'ex sindaco era a Testaccio con Bertinotti, il giorno prima era a poche decine di metri, a deporre un mazzo di fiori sulla lapide che al Ponte di Ferro ricorda l'eccidio di dieci donne per mano dei nazisti il 7 aprile del 1944.
L'incubo di Rutelli (e di Bertinotti) ha un nome: si chiama voto disgiunto. Il sasso l'ha lanciato per primo Vladimir Luxuria: «Voto Arcobaleno, ma Grillini sindaco», ha dichiarato il deputato Prc. Quella che sembrava un'uscita estemporanea e solitaria si è tramutata in un tam tam nella base del partito (e ha trovato spazio pure nel Pd, dove il candidato Andrea Benedino, esponente della comunità gay, ha rilanciato l'appello di Luxuria). I vertici del Prc hanno dovuto affrontare di petto la questione. «Il voto disgiunto, un pensiero in apparenza leggero e creativo, rischia di consegnare Rutelli all'alleanza coi centristi e mettere noi in un imbuto», ha detto il deputato e segretario romano Massimiliano Smeriglio. L'altroieri il segretario Franco Girodano ha dovuto convocare una conferenza stampa ad hoc per fugare ogni sospetto sulla posizione del partito: «Il voto disgiunto è una bizzarria e non va contro Rutelli, ma contro noi stessi. Se andremo al secondo turno, infatti, saremo costretti a ricontrattare quella parte di programma che abbiamo strappato con le unghie e con i denti». E Giordano è andato oltre, definendo Rutelli «un sindaco migliore di Veltroni».
Ma dietro il voto disgiunto, che non ha mai assunto proporzioni di massa, c'è soprattutto lo spettro dell'astensionismo a sinistra. E Rifondazione ha un interesse vitale a contrastare il fenomeno e, al tempo stesso, a conservare a Roma un laboratorio unitario del centrosinistra. Operazione complicata da spiegare al proprio elettorato mentre dal Loft piovono pietre sulla ex ala rosso-verde dell'Unione e lo stesso Romano Prodi accusa Bertinotti (poi in parte smentendo) di aver destabilizzato il suo esecutivo. Ieri Rina Gagliardi su Liberazione ha commentato con sarcasmo l'intervista a Repubblica in cui Dario Franceschini (ribattezzato per l'occasione «Dariuccio il bipolarista») chiude la porta a future alleanze del Pd con la Sinistra. Il minimo che possa uscire da questo quadro è una campagna schizofrenica: Rutelli, l'inventore delle «alleanze di nuovo conio», ora si trova a dover corteggiare serratamente le vittime designate di quell'invenzione. Veltroni professa la tolleranza zero sui nomadi e l'ex leader margheritino dice al manifesto : «Sarò il sindaco anche dei rom». Bertinotti deve attaccare il Pd nazionale ma salvare quello romano; ribattere a Prodi e Veltroni e intanto aiutare senza se e senza ma Rutelli. A Roma il Pd ha un bisogno disperato della sinistra radicale, e viceversa. Dice Smeriglio: «Veltroni e Franceschini non ci aiutano a saldare, come noi vogliamo, l'alleanza di governo che abbiamo fatto su Roma. È un'alleanza che noi difendiamo. Rutelli se ne faccia garante». Il candidato al Campidoglio e Patrizia Sentinelli, coordinatrice della campagna arcobaleno e vicesindaco in pectore, hanno affrontato in piena sintonia persino la vicenda delle occupazioni di casa alla Bufalotta, rapidamente rientrata dopo la condanna anche da parte di Rifondazione. Il Campidoglio dista poche centinaia di metri dal Loft di piazza Sant'Anastasia. Eppure sembra tutta un'altra città, tutta un'altra storia.

il manifesto 8.4.08
La crocetta del cittadino
di Marco d'Eramo


Cittadina/o: incarnazione dell'essere umano che si manifesta in un solo irripetibile gesto, ogni due, tre o quattro anni. Cittadina/o è colei/ui che fa una croce su un foglio di carta in un separé ligneo la cui forma accosta il rito del voto alla memoria dei vespasiani. Uscito dal bugigattolo elettorale, il bipede umano smette la sua veste di cittadina/o che riporrà nel guardaroba, con adeguata naftalina antitarme, per riesumarla e indossarla alla prossima scadenza.
O per lo meno è così che ci vorrebbe chi ci governa, ma non riesce a dominarci (non del tutto, almeno). Però troppo spesso è così che finiamo per vederci noi stessi che insieme sopravvalutiamo e snobbiamo questa croce (un «per»? un «più»? un simbolo religioso? un'ammissione di analfabetismo?), come se il nostro destino fosse tutto appeso a questa statistica di milioni di crocette individuali, o come se esse fossero del tutto irrilevanti.
In questo stanco quarantennale di '68, la celebre categoria di «unideminsionalità antropologica» allora formulata da Herbert Marcuse, può essere applicata all'uomo in quanto animale politico: lo si vuole ridurre sì a una e una sola dimensione, ma è quella elettorale. Fa quasi tenerezza vedere il «fantasma del comunismo» aggirarsi non per l'Europa ma nei sondaggi della Doxa, e i soi-disant eredi della «rivoluzione proletaria» sfiancarsi in dotte disquisizioni su dove (Lazio? Toscana?) puntare per superare l'8% al senato.
In realtà il nostro vivere politico è multidimensionale: una dimensione - non la più importante - parlamentare, che si esprime nella fatidica crocetta; una sociale: quella dei conflitti, degli scioperi, dei movimenti, delle manifestazioni no-global; una culturale che si batte contro i pilastri dell'ideologia conservatrice, contro la «società dei proprietari» e per non solo la libertà religiosa, ma anche la libertà dalla religione; una comportamentale, dei gesti spiccioli, in cui ognuno di noi fa politica con l'ospitalità verso gli immigrati o la carta e i vetri nella raccolta differenziata.
Da questi ultimi tre punti di vista, quasi nulla ci offre la dimensione puramente elettorale. Anzi, forse ci toglie qualcosa il Pd di Walter Veltroni, dei generali anti-culattoni, delle signorine capolista «non capisco di politica niente e me ne vanto», degli imprenditori rigidissimi sulla flessibilità (altrui). Come si fa a invocare un voto utile per l'ineffabile Paola Binetti? (Ci sarebbe per altro da interrogarsi sull'utilità elettorale dei teodem: quanti voti portano davvero, ma quanti ne tolgono?) Di nuovo vediamo l'insopprimibile vizio di partiti che invece di rappresentare le classi subalterne contro gli interessi dominanti, rappresentano la subalternità alle classi dominanti e si fanno in quattro per essere ammessi (nei salotti), per essere accreditati (presso il Vaticano, la grande finanza..): per due anni il governo Prodi ha avuto l'unico obiettivo non di riequilibrare la selvaggia redistribuzione dei redditi che ha devastato la società italiana, ma di farsi mettere un buon voto dai banchieri di Francoforte («diligenti, ma potrebbero fare di più», c'è scritto in pagella). Né offre molto la Sinistra arcobaleno che sembra evitare in tutti i modi di attaccare la destra e Silvio Berlusconi: nessuno che lo sfotta per le sue mirabolanti promesse del 2001. Nessuno attacca il clericalismo. Che sinistra è una che non attacca la destra?
Abbiamo un candidato premier (Fausto Bertinotti) che nel suo ultimo appello sul manifesto si butta sul registro poetico: il lirismo è l'ultimo ricorso dei politici a corto di argomenti, un po' come «il patriottismo è l'ultimo rifugio dei furfanti» (dottor Johnson). Se il Pd ha la sua Binetti, la Sinistra arcobaleno si ritrova per ideologo un guru come Massimo Fagioli. Questa Sinistra arcobaleno non ha il coraggio né della laicità né dell'ambientalismo. Da ministro dell'università, Fabio Mussi non ha avuto l'ardire di schierarsi con quel gruppo di professori (molti dei quali l'avevano in precedenza sostenuto) che difendeva la laicità dell'università di Roma contro il tentativo d'imporre una pontificia lectio magistralis. E i verdi? In una delle più drammatiche emergenze ambientali dell'Italia repubblicana, è assordante il loro silenzio sull'ambiente.
Più in generale, quali sono le parole d'ordine che dovrebbero mobilitare i giovani? Veltroni si richiama a Obama, ma dove sono i liceali che vanno a fare attivismo tra i leghisti della Valtellina o i mastelliani di Ceppaloni? I ventenni di oggi non hanno nessun ricordo personale del Pci. Perché dovrebbero votare per partiti che ancora dopo 18 anni non sono riusciti a elaborare quel lutto? Sembra che Pd e Sinistra arcobaleno stiano facendo di tutto per far vincere Berlusconi.
Astenersi allora? No. Allora votare per quel che passa il convento, visto che al gioco elettorale bisogna partecipare secondo le regole e i limiti elettorali. Perché non votare è già un voto, proprio come non decidere è una decisione. Voterò quindi Sinistra arcobaleno, sapendo però che il centro dello scontro politico oggi si situa altrove, e ricordando che mai un parlamento eletto ha approvato «buone leggi» senza una forte pressione dall'esterno. Tutte le riforme degne di questo nome, dal voto alle donne conquistato dalle suffragette, alle ferie pagate del fronte Popolare, allo statuto dei lavoratori dell'autunno caldo, al divorzio e all'aborto, tutto è avvenuto solo su pressione esterna da parte di movimenti di piazza, violenti e non violenti.
Il voto non cambierà molto (anche se un esito diverso negli Usa avrebbe forse risparmiato al mondo una guerra in Iraq). Però con le elezioni avviene quel che capita con le «libertà formali» che non rendono davvero liberi, ma la cui assenza rende davvero schiavi. Così il voto ha scarsa influenza, ma le società che non votano stanno parecchio peggio. Accettiamo quindi di (ap)portare la nostra croce.

martedì 8 aprile 2008

Repubblica Firenze 8.4.08
Faccia a faccia al cinema Puccini tra il candidato premier dell'Arcobaleno e il leader dei professori
Bertinotti-Ginsborg, prove di sinistra
di m. v.


Bertinotti-Ginsborg, prove di sinistra. Di fronte alla platea gremita del Teatro Puccini, il candidato premier della Sinistra Arcobaleno si è incontrato con lo storico Paul Ginsborg, animatore della sinistra critica fiorentina e leader del movimento dei professori. Un faccia a faccia che è un interrogarsi a vicenda sul senso e sul futuro della sinistra. Ma prima di tutto Bertinotti incontra una delegazione dei lavoratori dell´Electrolux, tanto per chiarire da che parte sta la Sinistra Arcobaleno a costo di ritardare di mezz´ora l´inizio della serata. Bertinotti entra nel teatro e la platea si alza in piedi, cori e strette di mano per il presidente della Camera che si presenta con un «toscano» in bocca. Alla destra del pubblico, è Ginsborg che apre la maratona con il suo accento britannico. Parla del vecchio Pci che la domenica organizzava la diffusione dell´Unità e parla di una democrazia partecipata come nuovo modello della politica che la sinistra deve perseguire: «La democrazia va riempita di partecipazione» sostiene. Il pubblico applaude, Bertinotti anche. Beve un sorso d´acqua e chiede: «Che acqua è?». «Tranquillo presidente, è ancora acqua pubblica» gli grida qualcuno dalla platea. «Grazie per il calore di questa sera, questa Sinistra Arcobaleno deve riconquistare tante cose e deve anche riconquistare l´emozione della politica» dice Bertinotti inaugurando i cinque minuti che l´incontro ha assegnato a ciascuno dei due protagonisti come da programma. «Dobbiamo ricostruire le fondamenta della sinistra italiana» aggiunge il candidato premier, ma avverte: «Il nuovo inizio non si fa senza la memoria di dove si viene, non dobbiamo difendere l´esistente ma farci forza per avviare una nuova stagione».
Prima di raggiungere Firenze, Fausto Bertinotti era stato contestato a Livorno da alcuni esponenti dei centri sociali: «Traditore della falce e martello», gli hanno gridato. Il presidente della Camera si era imbattuto in una ventina di giovani dei centri sociali mentre, a piedi, stava raggiungendo il teatro Goldoni dove era in programma un comizio elettorale. Il momento di maggiore tensione era stato sotto il loggiato del teatro, quando gli esponenti del servizio d´ordine hanno bloccato i contestatori (in tutto una ventina) ed era scoppiato un parapiglia di breve durata. Poi Bertinotti è entrato nel teatro affollato e ha regolarmente presenziato all´iniziativa elettorale del suo partito.

Corriere della Sera 8.4.08
Il leader della Sinistra l'Arcobaleno: darò comunque una mano
Bertinotti, addio a Porta a porta: è l'ultima volta, largo ai giovani
«Basta incarichi di direzione, l'età vuole la sua parte»
di R.R.


Il presidente della Camera: c'è il tentativo di farci fuori, ma domani, se Veltroni perde, voglio vedere che cosa accade

ROMA — L'ultima volta di Fausto Bertinotti. L'«ultima volta a Porta a Porta», come annuncia lui stesso nel corso della registrazione del programma di Bruno Vespa. Ma, soprattutto, l'ultima volta da leader, «perché l'età vuole la sua parte».
Gli incarichi dirigenti della Sinistra, avverte il presidente della Camera, dovranno «andare alle nuove generazioni». Certo, Bertinotti non farà come la moglie, che questa volta, spiega il presidente della Camera, «è meno presente nella mia campagna elettorale per motivi che solo lei potrebbe dire, ma è molto solidale». Già, perché Lella Bertinotti in questo periodo sta facendo la nonna a tempo pieno. Però è da escludere che il marito si occupi solo della famiglia: darà «comunque una mano» alla nuova formazione della Sinistra, «ma senza incarichi di direzione».
Della politica Bertinotti, comunque, non saprebbe fare a meno. Lo si capisce da come ne parla. Il candidato premier della "Sinistra Arcobaleno" se la prende con il Pdl e il Pd che avrebbero voluto cambiare le schede elettorali. «Sconcertante, volevano una scheda anticostituzionale con due formazioni con una visibilità particolare e tutte le altre sullo sfondo».
Ed è proprio per evitare questa intesa tra Pd e Pdl, di cui la vicenda delle schede è un'ulteriore testimonianza, che, spiega Bertinotti, occorre votare la Sinistra: «Bisogna fermare questa diavoleria della grande coalizione». Ma nel caso in cui questo non accada e Berlusconi vinca le elezioni (caso assai probabile, secondo il presidente della Camera che dice a Vespa: «Sono anche meno di due i candidati a palazzo Chigi... ») bisognerà capire quali saranno le mosse del Pd. Sì, perché può anche succedere che il Partito democratico, dopo la sconfitta elettorale, «cambi strategia».
Dunque Bertinotti non esclude che più in là i rapporti con il Pd possano riprendere: «Oggi c'è il tentativo di far fuori la sinistra, ma domani, se Veltroni perde, voglio vedere che cosa accade ».
C'è però un punto su cui difficilmente, anche nella prossima legislatura, Partito Democratico e Sinistra potranno andare d'accordo. Infatti se sulla riforma presidenziale Veltroni e Berlusconi potrebbero trovare un'intesa, per la Sinistra quello è ancora un tabù che, promette Bertinotti, «combatteremo in tutti i modi».

Repubblica 8.4.08
No alla pillola del giorno dopo nuovo caso a Pisa, è scontro
Arriva Viale: la prescrivo io. L'Ordine: rifiutare si può, aiutare si deve
Il cartello affisso sulla porta della guardia medica: "Qui non facciamo la ricetta"
di Michele Bocci


PISA - Ancora un rifiuto di prescrivere la pillola del giorno dopo, a mezzo cartello fuori dalla porta dell´ambulatorio, ancora la guardia medica di Pisa al centro del ciclone e di un esposto alla procura. In città oggi l´atmosfera sarà ulteriormente riscaldata dall´arrivo da Torino del ginecologo ed esponente radicale Silvio Viale, che, promettono i suoi compagni di partito, dalle 18 prescriverà a tutte le donne che ne faranno richiesta il farmaco anticoncezionale. Intanto sul tema prendono posizione gli Ordini dei medici toscani e il sindacato Fimmg per le guardie mediche. I primi per dire che la libertà di coscienza del medico non si discute ma il professionista non deve abbandonare la donna bensì aiutarla a trovare una soluzione ai suoi problemi, in questo caso indicandole dove può ottenere la prescrizione. Il secondo per affermare che mettere un cartello è superficiale ma che si può capire la riluttanza della guardia medica di fronte ad una estranea, di cui non si conosce la storia clinica, che chieda il farmaco.
"Qui non si prescrive la pillola del giorno dopo". È questo il testo che due giovani pisani, 24 anni lei e 26 lui, hanno trovato sulla porta di uno studio di guardia medica il 2 febbraio scorso. La vicenda è stata resa nota solo ieri dall´associazione radicale LiberaPisa che ha presentato un esposto ipotizzando l´interruzione di pubblico servizio. Il caso è il terzo nella città toscana. Gli altri due, uno alla vigilia di Pasqua e l´altro qualche giorno dopo, sono già oggetto di un´inchiesta della procura e di un´indagine interna della Asl che sta valutando l´operato di due medici e decidendo se avviare nei loro confronti un provvedimento disciplinare. Anche a Firenze, ha denunciato via mail una donna a Repubblica, una guardia avrebbe rifiutato il farmaco nel febbraio scorso.
I due giovani protagonisti dell´episodio denunciato ieri sono associati di LiberaPisa. Hanno detto che, vista l´indisponibilità del medico di guardia, sono andati al reparto di ginecologia del Santa Chiara dove hanno spiegato loro che la ginecologa di turno era un obiettore, invitandoli a rivolgersi al pronto soccorso. «Siamo rimasti lì - racconta la giovane, Mauriana - Solo nel pomeriggio sono stata visitata da un´altra dottoressa, splendida: mi ha fatto un´ecografia da cui si è capito che non avevo bisogno del farmaco e mi ha rimandata a casa».
Per oggi il presidente di LiberaPisa Marco Cecchi annuncia l´arrivo di Silvio Viale che durante un incontro elettorale farà la ricetta per la pillola a chi la richiede. «Le donne se la possono acquistare a scopo preventivo, la ricetta vale un mese - spiega Cecchi - È assurdo che una città universitaria che si proclama di respiro europeo abbia strutture sanitarie che applicano procedure da terzo mondo». Non è d´accordo con l´iniziativa l´assessore toscano alla salute Enrico Rossi. «Non condivido le azioni che alzano i toni su questi temi - dice - Bisogna trovare soluzioni ragionevoli. Il medico che per motivi di coscienza non vuole prescrivere quel farmaco aiuti la donna, che va comunque presa in carico, a trovare un servizio che le assicuri la pillola. Come dice il codice etico dei dottori. E magari chi fa la ricetta inviti quella persona a partecipare ai corsi gratuiti dei consultori su sessualità e prevenzione». Rossi è sulla linea della federazione degli Ordini dei medici toscani, da dove si invitano i professionisti che non vogliono fare la prescrizione a non lasciare comunque sole le donne in un momento difficile.

Repubblica 8.4.08
Il nichilismo di oggi figlio del Sessantotto
di André Glucksmann


NEL 1945, grosso modo l´anno di nascita dei sessantottini, l´estenuazione globale dell´avventura umana è diventata una possibilità prosaica e ineffabile. Hiroshima annuncia la capacità tecnica di uno spegnimento generale di tutti i fuochi. La creazione dei campi della morte, Auschwitz, rivelano la capacità psicologica di sterminare ogni essere vivente, fino all´ultimo degli innocenti. Insieme ad altri, Sartre espresse l´ultima sconvolgente verità: l´umanità «è responsabile della propria vita e della propria morte; bisognerà che ogni giorno, ogni istante, accetti di vivere».
Un quarto di secolo dopo, il tempo per i sessantottini di imparare a vivere, il filosofo cattolico Jean Guitton reiterava l´allarme: «Ormai la metafisica e la morale non sono più relegate nelle coscienze dei singoli. Lasciano il segreto delle coscienze e degli oratori; si inseriscono nell´esperienza, nella politica, nei problemi internazionali, nei calcoli strategici. L´assoluto è sceso sulla terra attraverso la via del terrore. Un´evidenza sostituirà la fede. Il ragionevole è esigibile sotto pena di morte. Pericolo di morte. Queste parole sono scritte (invisibilmente) ovunque».
Non capirete nulla dell´emozionante primavera parigina se trascurerete il fatto che fu vissuta sull´orlo dell´abisso. Più insuperabile del marxismo e delle rivoluzioni sanguinose, si imponeva l´orizzonte di un´apocalisse, di una fine virtuale, banale e senza gloria, della condizione umana.
La nuova condizione umana pesa come un macigno. Svariate scappatoie, dal recupero dei dogmi alla post-filosofia e alla sentimentalità di sinistra, non permettono di ritrovare la sicurezza e la buona coscienza delle provvidenze, secolari o religiose, di un tempo. Essere affamati di consolazione non consola affatto. Ancora Montaigne: «Fede compiacente che non crede a ciò che crede perché non ha il coraggio di smettere di credere». Bisogna disimparare a sperare da ciò che si rivela disperante, anche se si dovesse far disperare Billancourt, Saint-Germain-des-Prés, e la buona immagine che si ha di sé. Il sessantottino disapprese più facilmente le illusioni dei genitori di quanto si liberò di quelle da cui derivava lo sradicamento. Perciò si mise a coltivare, lo si è visto, la peggiore di tutte: il fantasma dell´inesistenza del male.
L´eliminazione sistematica del sentimento dell´insopportabile genera la fumosa "permissività" per cui Nicolas Sarkozy e tanti altri si inquietano non senza ragione. Gli impegnati e gli arrabbiati del Sessantotto sono paradossalmente responsabili del «tutto permesso», loro che andavano ripentendo: «Quando la situazione è insopportabile, non si sopporta più!».
Distinguere.
Sì al relativismo: la contestazione delle norme dominanti nella vecchia Francia e presso la vecchia guardia spazzò via senza pietà non pochi pregiudizi. Cosa da nulla: un relativismo di questo genere, che tocca i valori che regolano la vita privata e pubblica degli adulti, è la più tradizionale delle tradizioni francesi. Gli storici non hanno forse indicato come la mancanza di rispetto rabelaisiana nei confronti dei dogmi religiosi fosse moneta corrente negli scherzi e nelle canzonature dei monaci e dei fraticelli medievali? L´insolenza, che nel Roman de Renart manda a gambe all´aria la società, non ha niente da invidiare agli slogan e alle scritte trasgressive che campeggiavano sui muri della Sorbona otto secoli dopo. All´ironico «Fa´ ciò che vuoi», che domina l´abbazia di Thélème, risponde un paradossale: «È vietato vietare». E Dany rincara la dose: «Vietato vietare di vietare». All´epicureismo di Gargantua, corrisponde, non meno provocatore, il «Godete senza limiti!». Le lezioni di morale e di galateo somministrate dai professori di oggi ai monelli di allora, rivelano uno spaventoso analfabetismo culturale. In Francia è meglio evitare di chiudere la bocca a Voltaire e di censurare Rabelais o François Villon.
No al nichilismo: agitati in provetta o rivoluzionari in sospeso, i rivoluzionari del Maggio Sessantotto non arrivavano alla preclusione di un "male assoluto" (che Sartre l´ateo e Maritain il cattolico denunciano insieme di fronte alla scoperta dei campi della morte). Da quando, al contrario, Kolyma e Auschwitz sono etichettati «denti cariati», concetti ripugnanti alla moderna delicatezza di pensiero, si spalanca la strada alla permissività nichilista. A ciascuno la sua paletta e il suo rastrello, a ciascuno la sua interpretazione, nel dopo Maggio dei castelli di sabbia e del «Me ne infischio» generalizzato. Il Maggio francese fu senza alcun dubbio ampiamente aperto sull´Europa. Rientrava nello slancio iniziale che aveva ispirato la ricostruzione del dopo quarantacinque. Tra i padri fondatori, democratico-cristiani, socialdemocratici, partigiani e patrioti di svariate tendenze, in materia di valori supremi la condivisione era esclusa d´ufficio: credenti e agnostici, destra e sinistra non avevano assolutamente cambiato impostazione mentale. In compenso tutti, ma proprio tutti, si richiamavano alla democrazia rappresentativa alla maniera di Churchill: «Il peggiore dei regimi, fatta eccezione per tutti gli altri». Cementava le energie la condivisione di vedute sul male minore, poiché "il male" conservava un colore e un sapore che non sfuggivano a nessuno.

il "male numero uno" era, a titolo postumo, Hitler. Di conseguenza veniva dato l´ostracismo ai cattivi geni che lo avevano tenuto a battesimo: l´ultranazionalismo, il razzismo, l´antisemitismo, l´intolleranza. Il "male numero due" erano Stalin e i regimi totalitari rossi, quelli dei mangiatori di uomini, che proliferavano oltre la cortina di ferro. Il "male numero tre" erano i piccoli e grandi imperi coloniali, che tuttavia venivano condannati con minor vigore: in considerazione di una regola implicita e senza possibilità di eccezioni, la Comunità Europea esigeva dai propri membri che mettessero fine alle guerre coloniali e concedessero l´indipendenza ai propri possedimenti d´oltremare. Insomma, il vecchio continente non si unificava nel cielo limpido dei valori "positivi". La sua professione di fede conteneva un triplice rifiuto: era antifascista, anticomunista e anticolonialista. Un´etica che attuava la volontà di sbarrare la porta ai tre "inferni" del ventesimo secolo: i sessantottini vi si riconobbero spontaneamente, a differenza dei postsessantottini, che non se ne cureranno più.
In mancanza di un accordo preliminare sui mali e sulle calamità da evitare, gli ideologi e i loro programmi politici si agitano in assenza di gravità come la colomba di Kant, che avrebbe volato molto più rapidamente una volta eliminata la resistenza dell´aria. L´abolizione a priori della possibilità di mettersi d´accordo su – o meglio contro – i pericoli che incombono, rimanda ciascuno alla ragnatela presente nel suo cervello. Se il male non esiste, non esiste comunanza di destino. Se ciascuno è schiavo del caso che ha presieduto alla sua nascita, diventa autistico o "comunitaristico", ma mai uomo tra gli uomini, mai condivisore di una condizione umana, mai capace di affrontare i pericoli, gli azzardi e gli ostacoli.

© 2008 - Edizioni Piemme

Repubblica 8.4.08
Quelle torture dall'Iraq a Bolzaneto
di Adriano Prosperi


NELL´ITALIA che ha mandato i suoi uomini in Afghanistan meriterebbe un qualche interesse un documento segreto del ministro della Difesa americano che è stato reso pubblico il 31 marzo scorso e sul quale ha richiamato l´attenzione il Washington Post. Si tratta di un memorandum del 14 marzo 2003 del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti sulle regole per condurre l´interrogatorio di prigionieri nemici da parte di personale militare nel corso di un conflitto armato. Il documento era la risposta a un´interrogazione presentata dal gen. William J. Haynes II, del Consiglio generale del Dipartimento della Difesa. Il documento è assai ampio e anche molto articolato, ma non assomiglia a quei testi che nel costume nostrano meritano simili aggettivi: questo per dire che se ne ricavano conclusioni piuttosto semplici e chiare. La questione in discussione è il valore di un principio fondamentale della Costituzione americana, quello per cui nessuna persona può essere privata della libertà, dei beni e della vita senza un giusto processo. Le risposte sono:
a) il quinto e l´ottavo emendamento della Costituzione non si applicano agli interrogatori a combattenti nemici fuori dai confini degli Usa.
b) Il documento ufficiale del 1988 delle Nazioni Unite contro la tortura e le punizioni crudeli e disumane fu accolto dall´amministrazione Reagan con una specifica interpretazione limitativa: la tortura che l´Onu definiva come atto capace di causare grave sofferenza («severe pain») fu definita come atto di «estremamente crudele e disumana natura» («extremely crudel and inhuman nature»).
In esso, per esempio, si escluse che potesse rientrare la brutalità poliziesca («police brutality»). E l´amministrazione Bush ha confermato questa interpretazione. Inoltre si ricorda che, in base ai principi del diritto internazionale, una nazione non può essere assoggettata senza suo consenso ai limiti imposti da una convenzione. C´è poi un principio fondamentale fra tutti: tra i diritti di un popolo quello primario è il diritto-dovere all´autodifesa. E se per difendersi c´è bisogno di metodi speciali di interrogazione dei prigionieri e dei nemici, va da sé che quei metodi sono legali anche se violano un documento dell´Onu sulla tortura.
Certo, qualche coscienza si può sentire offesa e perplessa. Ma anche la coscienza ha una storia e un´evoluzione. La Suprema Corte sottolinea che non si deve confondere la «coscienza contemporanea» col sentimentalismo privato o col fastidioso eccesso di scrupoli (ma l´inglese è più espressivo: «fastidious squeamishness or private sentimentalism»).
Il documento dovrà essere letto e meditato attentamente perché i temi che affronta riguardano il presente e il futuro dei diritti umani in un contesto in cui lo stato di guerra è mutato radicalmente. Il documento sottolinea, ad esempio, che i poteri del Presidente come comandante in capo in caso di guerra non possono essere misurati sui limiti che quello stesso presidente deve accettare come capo dell´Esecutivo nei confronti delle leggi civili. E qui la storia entra a grandi ondate. Tra i documenti di prova si citano quelli dei conflitti dell´800, uno del 1865 (guerra civile americana) e uno del 1873 (uccisione di prigionieri indiani). Da qui si ricava che i soldati dell´esercito regolare hanno licenza legale di privare altri uomini della libertà e della vita e che nessun esercito è mai stato o può mai essere considerato come un gruppo di volontari agli ordini di una magistratura civile.
Fin qui l´Ottocento della guerra civile e della conquista dei territori dei nativi americani. Altri documenti del secolo XX parlano una lingua nuova e diversa, quella della potenza imperiale americana: una sentenza della Corte Suprema del 1990 ricorda che gli Stati Uniti impiegano di frequente le forze armate al di fuori dei confini del Paese per proteggere cittadini americani o la sicurezza della Nazione e che i diritti costituzionali non si applicano a non cittadini o al di fuori del territorio americano. La conclusione è la stessa ma l´ambito è diverso e il suono è diversamente minaccioso. La bandiera degli Usa, come ha spiegato benissimo Arnaldo Nesti in un suo libro, è l´unico simbolo nazionale che vive di vita propria, cresce col tempo e col tempo aggiunge stelle e strisce; ma mentre quella bandiera cresce, con un movimento parallelo e opposto sembrano restringersi i sacri principi di libertà e di sicurezza individuale portati alla vittoria dalla rivoluzione americana. Non saranno gli europei a meravigliarsi. L´ideologia dei supremi interessi della nazione è un parto avvelenato della storia europea. Qui la sua versione formale e giuridica fa riferimento ai poteri supremi del Presidente come comandante supremo («Commander in Chief and Chief Executive») e ai casi di guerra e di politica internazionale. E nella guerra contro Al Qaeda e i suoi alleati le leggi non si applicano agli interrogatori dei prigionieri. Il dossier entrerà di diritto nella lunga storia delle discussioni su leggi di guerra e di pace. Oggi il lettore italiano sobbalza quando incontra tra le citazioni su cui si appoggia il dossier anche un trattato dell´esule religioso italiano del ´500 Alberico Gentili che dice, in sostanza, che un malfattore non può godere dei privilegi della legge di cui è nemico. E gli verrebbe voglia di ribattere che il linguaggio politico ha fatto qualche passo dai tempi di Alberico Gentili e che in un globo terrestre sempre più stretto la protezione della legge non è più considerato un privilegio ma un diritto universale di ogni essere umano.
Ma il problema che si pone davanti a un così preciso e nitido documento è un altro: è ancora vero che l´obbedienza non è più una virtù, come scrisse don Lorenzo Milani in polemica coi cappellani militari italiani? Perché una cosa è certa: se il soldato deve obbedire al comandante in capo che gli ordina di torturare i prigionieri allora la questione della sua coscienza balza in primo piano. Abbiamo ancora il diritto di criticare la soldatessa di Abu Ghraib che si divertiva a infliggere torture e umiliazioni ai prigionieri? E ancora: abbiamo il diritto di condannare i nazisti che si giustificarono al processo di Norimberga in nome dell´obbedienza dovuta ai comandi di Hitler? Resta poi, per noi italiani, figli di una cultura diversa e ben poco militaresca, la curiosità di sapere se anche nel caso delle torture di Bolzaneto ci fu un ordine scritto, una legittimazione dall´alto o se bastò la presenza di un ministro nella sala operativa della Questura a dare il senso dell´impunità ai torturatori.
Non è una domanda di curiosità accademica: i tempi non sono quelli di un mondo tranquillo o di un Paese privo di tensioni sociali. Nelle campagne elettorali parallele - quella statunitense e quella italiana le questioni di politica internazionale e quelle dei diritti umani sembrano circondate da una identica cortina di silenzio. Quanto a noi, se non fosse per la vittoria della candidatura di Milano per l´Expo 2015 l´Italia sembrerebbe un Paese sordo e chiuso al resto del mondo. E se non fosse per le sciagurate ordinanze di qualche assessore, non ci accorgeremmo nemmeno che esiste il problema di un mondo che viene da fuori, che si riversa sulle nostre strade e che cerca di entrare nella sfera luminosa dei diritti individuali.

Repubblica 8.4.08
Esce "il matematico impenitente" di Piergiorgio Odifreddi
Se i libri bruciano. Dall’antica cina ai nazisti
di Piergiorgio Odifreddi


È l´assolutismo a provocare questa forma di condanna all´inesistenza di qualunque pensiero sgradito ai potenti in ogni parte del mondo
Anche la Chiesa non mancò di condannare alle fiamme le opere sospette di eresia
In Germania gli autori "contrari allo spirito tedesco" vennero sottoposti all´autodafé

Nel saggio La muraglia e i libri, che apre le Altre inquisizioni, Borges ricorda che «l´uomo che ordinò l´edificazione della quasi infinita muraglia cinese fu quel primo imperatore, Shih Huang Ti, che dispose anche che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui», e nota che «bruciare libri ed erigere fortificazioni è compito comune dei principi: la sola cosa singolare in Shih Huang Ti fu la scala nella quale operò». Oltre alla maestosa duplicità dell´atto, Borges ne rileva anche l´apparente contraddittorietà: la costruzione della muraglia e la distruzione dei libri tendevano infatti, da un lato, a preservare nello spazio l´integrità territoriale dell´impero, e dall´altro, a cancellarne nel tempo la memoria storica. Si può dunque ipotizzare un loro ordine successivo, che a seconda dei casi mostrerebbe l´immagine di un re placato che cominciò col distruggere e poi si rassegnò a conservare, o quella di un re disingannato che finì per attaccare ciò che prima difendeva.
L´episodio cinese, rievocato anche da Elias Canetti in Autodafé, si situa a metà tra il fatto e la leggenda: possiede dunque entrambe le valenze, letterale e metaforica, che la storia e la letteratura hanno finito per associare all´immagine dei libri in fiamme. I quali, com´è noto, bruciano alla temperatura di Farenheit 451, pari a 233 gradi Celsius, che dà il titolo all´utopia negativa del romanzo di Ray Bradbury e all´omonimo film di François Truffaut.
Il più antico rogo di libri che la storia registri è probabilmente quello della biblioteca di Tebe, ordinato nel 1358 p.E.V. dal faraone Akhenaton, marito di Nefertiti e padre di Tutankhamon. Avendo sostituito il culto dei molti dèi egizi con quello del solo disco solare Aton, il primo monoteista della storia incappò immediatamente negli effetti collaterali più tipici delle fedi uniche: da un lato la persecuzione degli eretici e la distruzione delle loro opere, dall´altro la reazione fondamentalista provocata da ogni azione fondamentalista.
Puntualmente, infatti, alla morte di Akhenaton il clero di Tebe ristabilì il culto di Amon e cancellò a sua volta ogni memoria del riformatore. L´esempio del primo imperatore cinese mostra comunque che i roghi dei libri non sono monopolio del clero: è l´assolutismo a provocarli, e quello religioso non è che una delle sue tante forme.
Ma non bisogna confondere il proposito doloso di cancellare sistematicamente una cultura, con le fiamme appiccate più o meno colposamente durante guerre o rivolte, benché sia spesso difficile determinarne le cause e distinguerne gli effetti. L´unica cosa certa sono le ceneri e le rovine sotto le quali, ad esempio, nel 168 p.E.V., i Seleucidi seppellirono la biblioteca ebraica di Gerusalemme, così come nel 48 p.E.V. Cesare e nel 646 gli Arabi distrussero quella greca di Alessandria, nel 980 Almansor quella dei califfi di Córdoba, nel 1176 Saladino quella sciita del Cairo, nel 1204 i Cristiani quella classica di Costantinopoli, nel 1258 i Mongoli quella sunnita di Baghdad, nel 1560 il vescovo Diego de Landa quella maya dello Yucatán e nel 1691 il vescovo Nunez de la Vega quella maya del Chiapas (tra parentesi, per questo motivo oggi rimangono solo tre libri di questa cultura, uno dei quali è il famoso Popul Vuh). Diverso è il caso dei libri bruciati non alla rinfusa, ma in maniera mirata e per decreto di una suprema autorità censoria, deputata a colpirli uno a uno.
L´esempio più tipico di un tale organismo è naturalmente la Congregazione dell´Indice istituita nel 1571 e attiva fino al 1917, anche se l´Indice dei Libri Proibiti da essa gestito era già stato istituito nel 1559 da Paolo IV e fu abolito solo nel 1966 da Paolo VI. La vittima più famosa fu forse Giordano Bruno, le cui opere furono bruciate in piazza San Pietro il 17 febbraio 1600, nello stesso momento in cui l´autore stesso veniva immolato sul rogo a Campo de´ Fiori. (...)
Naturalmente, la Chiesa non aveva atteso l´Inquisizione per mandare al rogo le opere degli eretici: risalendo nel tempo, ce lo ricordano i processi e le sentenze contro Lutero nel 1520, Abelardo nel 1140 e 1121, Fozio nell´870 e Ario nel 325. Ma in realtà il Cristianesimo era nato infetto, perché il virus del fuoco lo si trova già negli Atti degli Apostoli (XIX, 19): in essi infatti si narra che «molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti». Non è dunque un caso che oggi i roghi dei libri e degli uomini si chiamino autodafé, parola che deriva appunto dal portoghese auto de fé e significa «atto di fede».
L´autodafé ufficiale veniva celebrato in pompa magna sulle pubbliche piazze e la cerimonia comprendeva una messa, una processione dei condannati rasati e messi alla gogna, e una lettura delle sentenze: non la tortura, né l´esecuzione, che erano rispettivamente amministrate prima e dopo, in separata sede. A partire dal primo autodafé registrato, nel 1242 a Parigi, queste macabre messe in scena furono eseguite innumerevoli volte e per secoli, in Europa e nelle Americhe: soprattutto in Spagna, tra il 1481 e il 1691. Voltaire le mise alla berlina nel sesto capitolo del Candide, che narra di «come si fece un bell´autodafé per scongiurare i terremoti», con tanto di fustigazione per Candide e di impiccagione per Pangloss: anche se, naturalmente, «lo stesso giorno la terra tremò di nuovo con un fracasso orribile». Ma non fu soltanto la barbara cristianità a bruciare i libri dei suoi eretici: secondo Diogene Laerzio (IX, 52) la stessa sorte toccò anche a Protagora nella raffinata Grecia, nel periodo buio che Atene visse alla fine del quinto secolo p.E.V. (...)
Se così fecero persino i Greci, cosa avremmo potuto aspettarci dai nazisti? Puntualmente, alla mezzanotte del 10 maggio 1933 migliaia di studenti del nascente regime celebrarono l´autodafé dei libri «degenerati», bruciando in varie città universitarie della Germania opere «contrarie allo spirito tedesco»: gli autori comprendevano la triade ebrea di Karl Marx, Sigmund Freud e Albert Einstein, ma spaziavano democraticamente anche fra ariani e stranieri, da Thomas Mann a Marcel Proust. Alla cerimonia sulla piazza dell´Opera di Berlino, il ministro della Propaganda Joseph Goebbels dichiarò soddisfatto: «L´anima del popolo germanico può di nuovo tornare ad esprimersi. Questi roghi non soltanto illuminano la fine di una vecchia era, ma accendono la nuova». Bertolt Brecht, invece, commemorò l´evento nella poesia Il rogo dei libri: «Quando il regime ordinò che fossero arsi in pubblico i libri di contenuto malefico, e per ogni dove i buoi furono costretti a trascinare ai roghi carri di libri, un poeta (uno di quelli al bando, uno dei migliori) scoprì sgomento, studiando l´elenco degli inceneriti, che i suoi libri erano stati dimenticati. Corse al suo scrittoio, alato d´ira, e scrisse ai potenti una lettera: "Bruciatemi", vergò di getto, "bruciatemi! Non fatemi questo torto! Non lasciatemi fuori! Non ho forse sempre testimoniato la verità, nei miei libri? E ora voi mi trattate come fossi un mentitore! Vi comando: bruciatemi!"».
Ma il mondo non imparò la lezione, e anche nel dopoguerra innumerevoli piromani, letterali o metaforici, si sono scatenati contro i libri e le altre opere dell´ingegno: dal tentativo di cancellare sistematicamente il pensiero «revisionista» messo in opera dalla Rivoluzione culturale cinese negli anni ´60, alla sentenza della Cassazione italiana che il 29 gennaio 1976 ordinò che fossero bruciate tutte le copie del film L´ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, alla fatwa dichiarata dall´ayatollah Khomeini il 14 febbraio 1989 contro i Versi satanici di Salman Rushdie, alle cannonate dei Talebani che nel marzo 2001 hanno distrutto le due statue del Buddha di Bamiyan.
L´ultimo rogo di libri è, per ora, quello che il 14 aprile 2003 ha azzerato a Baghdad la Biblioteca Coranica, la Biblioteca Nazionale e l´Archivio Nazionale, sotto l´occhio connivente dell´esercito statunitense invasore, che aveva già permesso il loro saccheggio per un´intera settimana. La città ha così rivissuto i giorni bui del sacco dei Mongoli di 750 anni prima, ma paradossalmente questa coazione a ripetere della storia conferma il giudizio espresso da Borges in Nathaniel Hawthorne, nelle già citate Altre inquisizioni: «Il proposito di abolire il passato fu già formulato nel passato e, paradossalmente, è una delle prove che il passato non può essere abolito. Il passato è indistruttibile: prima o poi tornano tutte le cose, e una delle cose che tornano è il progetto di abolire il passato».

Repubblica 8.4.08
"Poesia e ritratto nel Rinascimento" di Lina Bolzoni
Quell’amore allo specchio
di Benedetta Craveri


Era stato Petrarca a riaprire il dibattito sui legami tra pittura e scrittura dedicando due sonetti al ritratto di Laura eseguito da Simone Martini

Si racconta che nel 1560 la contessa Caterina Mandella, nuora di Baldassarre Castiglione, scoprì per caso che «un grande e bellissimo specchio», che decorava la parete di una stanza della casa d´Urbino dove un tempo aveva abitato suo suocero, era dotato di un congegno segreto. Esso si apriva a comando e rivelava, custodito nell´incasso del supporto di legno della cornice, «un ritratto di bellissima e principalissima signora, di mano di Rafael Sanzio d´Urbino». Nel nascondiglio erano conservati ugualmente due sonetti composti quarantatré anni prima da Castiglione. È possibile che il ritratto di Raffaello fosse quello di Elisabetta Gonzaga, duchessa d´Urbino, oggi conservato agli Uffizi, e che fosse lei l´oggetto di quell´«amore troppo alto e troppo sublime» che l´autore de Il Cortegiano era costretto a celebrare nel più profondo segreto.
Ben lungi dall´essere solo un semplice accorgimento pratico, l´espediente del nascondiglio dietro lo specchio obbediva a una precisa simbologia amorosa di ascendenza platonica: riflesso nello specchio, il volto dell´amante veniva a sovrapporsi all´effigie dell´amata e le due immagini si congiungevano così in una simbiosi segreta. Ai versi custoditi all´interno del mistico scrigno spettava invece il compito di dar voce al dialogo, altrimenti muto, delle immagini.
È proprio la lettura di questi celebri "Sonetti dello specchio" a costituire il momento culminante del viaggio dotto e appassionante di cui Lina Bolzoni ci illustra l´itinerario nel suo Poesia e Ritratto nel Rinascimento (testi a cura di Federica Pich, Laterza, pagg. 288, euro 38). I due componimenti di Castiglione condensano, infatti, i principali temi di una lunga riflessione poetica incentrata sul rapporto tra la parola e l´immagine, tra l´arte e la natura.
Era stato Francesco Petrarca, un secolo e mezzo prima, a riaprire il dibattito, che già aveva appassionato gli antichi, sulle diverse potenzialità espressive proprie alla scrittura e alla pittura e di cui Orazio aveva proposto la sintesi con la sua celebre formula Ut pictura poesis. Con i due sonetti del Canzoniere, composti tra 1338 e il 1343, in cui Petrarca evocava il ritratto di Laura, da lui stesso commissionato a Simone Martini e purtroppo andato smarrito, aveva infatti inizio una tradizione poetica che, scrive la Bolzoni, prendeva spunto dall´immagine pittorica «per variare e celebrare il lavoro della scrittura letteraria, per trarne materiale che permette di declinare in modo nuovo i topoi tradizionali del linguaggio amoroso». Una tradizione di cui la studiosa, che ha fatto del rapporto tra memoria, letteratura e immagine uno degli assi portanti della sua ricerca, ricostruisce oggi, in questo bel saggio, i momenti più significativi.
Nel primo sonetto Petrarca celebra la natura divina dell´ispirazione del pittore che è salito in cielo per contemplare l´immagine spirituale di Laura, infinitamente più bella della sua incarnazione terrestre: «Ma certo il mio Simon fu in paradiso/ onde questa gentil donna si parte:/ivi la vide, et la ritrasse in carte/ per far fede qua giù del suo bel viso». Quel «qua giù» annuncia, tuttavia, i limiti dell´impresa pittorica e la «incolmabile distanza tra il cielo e la terra», tra la visione della bellezza perfetta e originaria ideata da Dio e la sua impossibile rappresentazione. Come ci dice il secondo sonetto, la straordinaria capacità illusionistica del ritratto di Simone Martini - «benignamente assai par che m´ascolte,/ se risponder savesse a´ detti miei» - rende ancora più acuto il dolore per la perdita della donna amata e lascia intendere, al tempo stesso, come solo la poesia abbia la facoltà di dare voce a questa sofferenza e di commemorarla all´infinito.
Il progressivo diffondersi della pratica del ritratto in strati sempre più ampi della società doveva favorire, nel corso dei due secoli successivi, il confronto tra poesia e pittura, evidenziandone di volta in volta affinità e divergenze. Gli esempi propostici da Lina Bolzoni non potrebbero essere più suggestivi: sono qui Giovanni Della Casa e Tiziano, Castiglione e Raffaello, Niccolò da Correggio e Leonardo, Serafino Aquilano e Pinturicchio, Gian Battista Marino e Caravaggio a dialogare insieme a partire da un modello comune.
Pronta a celebrare la suggestione di ritratti di cui ancora oggi ci è dato di ammirare lo splendore, la poesia trovava un´alleata nella pittura, se ne serviva come fonte di immagini, di metafore e di ispirazione erotica, o ne denunciava le pericolose illusioni, ma non transigeva sulla sua superiorità. Se, come aveva teorizzato Leon Battista Alberti, la pittura possedeva la capacità di «far vedere ai vivi, molti secoli dopo, coloro che sono morti», garantendone così la memoria, la poesia sola si arrogava la facoltà di dare voce alle immagini e penetrare nell´interiorità delle persone ritratte.
A sua volta la pittura rispondeva alla sfida tentando di appropriarsi della parola poetica, ritraendo con sempre maggiore frequenza delle persone con in mano delle lettere o dei libri, o inserendo la scrittura all´interno stesso del quadro. È il caso del ritratto della incantevole Giovanna degli Albizzi Tornabuoni, eseguito da Domenico Ghirlandaio nel 1488, dove spicca sullo sfondo la scritta: «Arte, se potessi rappresentare anche i costumi e l´animo, non esisterebbe in terra quadro più bello». Ed è ancor più il caso dello straordinario ritratto di Laura Battiferri, dipinto intorno al 1560 da Bronzino, dove i rinvii tra pittura e poesia si fanno vertiginosi. Rappresentata di profilo, la poetessa schiva lo sguardo dello spettatore ma tiene invece, con ambo le mani, un libro bene aperto su cui è possibile leggere due sonetti trascritti dal Canzoniere di Petrarca, che diventano parola e anima del ritratto. Il quadro stesso, inoltre, aveva dato luogo a uno scambio di versi tra il Bronzino e la sua modella circa la possibilità di esternare l´interiorità in forme visibili.
Come scrive la Bolzoni, «la parola poetica penetra così nel cuore dell´immagine (...) e crea un complesso circuito di messaggi, ricco di allusioni e di sottintesi, che tuttora mette alla prova le capacità interpretative dei critici».
Per consentire, invece, ai lettori di seguirla più agevolmente nella sua esplorazione erudita, la studiosa ha provveduto a fornire loro, in appendice al suo saggio, l´insieme dei testi a cui ella fa riferimento, affidandoli alle cure di Federica Pich.
Sul filo di questa doppia lettura e delle immagini pittoriche che l´accompagnano ci troveremo al cuore di una civiltà per cui il mito del Parnaso ed il concerto armonioso delle Muse non erano ancora ridotti a stereotipi letterari, ma rispondevano a una concezione interdisciplinare delle arti e dei saperi dagli esiti meravigliosamente fecondi.

Repubblica 8.4.08
Habermas e Rorty. Un'amicizia iniziata con una sonora lite
di Jürgen Habermas


Lo studioso rievoca il filosofo americano, le loro divergenze e i punti di contatto. E la sua sfida sui grandi temi del pensiero e sulla lingua per esprimerlo

Pubblichiamo parte di un intervento di su Richard Rorty in uscita in questi giorni su "Iride", quadrimestrale di filosofia e discussione politica, edito da Il Mulino

Ho incontrato Richard Rorty la prima volta a San Diego nel 1974, in una conferenza su Heidegger. Dapprima fu mostrato il filmato di un´intervista con Herbert Marcuse, che in quell´occasione non era presente. Nell´intervista Marcuse parlava del suo rapporto con Heidegger dei primi anni Trenta in modo assai più indulgente di quanto avrebbe indotto a pensare la loro aspra corrispondenza del dopoguerra. Con mio grande disappunto ciò dette il tono all´intera conferenza, dove Heidegger venne fatto oggetto d´impolitica venerazione. Solo Majorie Green, che aveva anche studiato a Friburgo prima del 1933, si permise un commento sgarbato, sottolineando quanto per lo meno la cerchia più ristretta dei discepoli di Heidegger - cerchia cui anche Marcuse apparteneva - avesse allora potuto ingannarsi sulla miserabile ideologia politica del maestro.
In questo stato d´animo ascoltai allora l´intervento di un professore di Princeton, che a quella data mi era soltanto noto come curatore di una famosa raccolta di testi sulla Linguistic Turn. Nel suo intervento egli avanzava un raffronto provocante, cercando di armonizzare nel quadro di un insolito concerto le voci dissonanti di tre solisti famosi. In quest´orchestra John Dewey, il democratico più radicale e politicizzato tra i pragmatisti, si presentava fianco a fianco con Martin Heidegger, l´incarnazione più esemplare e arrogante dei mandarini tedeschi. Il terzo membro dell´insolito trio era rappresentato da Ludwig Wittgenstein, dalle cui Philosophische Untersuchungen io avevo certo tratto molto profitto, ma che non andava del tutto esente dai pregiudizi feticistici dell´ideologia tedesca e che comunque, accanto a Dewey, faceva una strana figura.
Nella prospettiva di Humboldt e dell´ermeneutica filosofica lo sguardo sulla Welterschliessung (apertura di mondo) del linguaggio istituisce un´originale parentela tra Heidegger e Wittgenstein. E questo sguardo fu ciò che affascinò letteralmente Rorty, già convinto da Thomas Kuhn ad assumere una versione contestualistica della storia scientifica. Ma come possiamo inserire in questa costellazione John Dewey, cioè l´incarnazione di quell´ala radical-democratica dei neohegeliani che tanto mancò al nostro quadro europeo? Dopo tutto, il modo di pensare di Dewey era in stridente contrasto con la presunzione greco-germanica di Heidegger, col tono raffinato e col gesto aristocratico di eletti cui è riservato un accesso alla verità che è precluso alle masse.
Allora questo accostamento mi parve talmente osceno che nella discussione io finii per perdere le staffe. Con mia sorpresa, tuttavia, l´importante professore di Princeton non si mostrò per nulla offeso dalla sonora protesta che gli giungeva dalla provincia tedesca, e anzi mi invitò amichevolmente a prendere parte al suo seminario. Quell´andata a Princeton segnò per me l´inizio di un´amicizia tanto felice quanto istruttiva. A partire dalla salda condivisione di analoghe opinioni politiche, potemmo sempre agevolmente discutere e tollerare le nostre divergenze teoriche. Tra noi trovava così praticamente conferma quella «priorità della politica sulla filosofia» di cui Dick voleva esplicitamente persuadermi in sede teorica. E per quanto riguarda Heidegger, devo anche aggiungere che quella mia iniziale irritazione era ingiustificata. Anche Dick apprezzava assai più lo Heidegger pragmatista di Sein und Zeit che non il pensatore esoterico in devoto ascolto della voce dell´essere.
Dopo il nostro primo incontro mi mandò un estratto del suo The World well Lost. L´ironia del titolo avrebbe già dovuto farmi intuire le qualità intellettuali e letterarie celate nel filosofo Rorty. Ma allora io lessi ancora le argomentazioni analitiche del saggio come si sogliono leggere i saggi del Journal of Philosophy. Ed effettivamente si trattava di un lavoro preparatorio a quella critica complessiva della teoria della conoscenza che sarebbe uscita pochi anni dopo. La filosofia e lo specchio della natura (Bompiani, 1986) ebbe un impatto formidabile. L´aspetto rivoluzionario della ricerca non stava tanto nella ricostruzione critica della «svolta linguistica» compiuta da Heidegger e Wittgenstein, quanto piuttosto nella messa in luce di una sola conseguenza cruciale di quel passaggio dalla «coscienza al linguaggio». Passo dopo passo, Rorty decostruiva il «modello dello spettatore» caratterizzante il pensiero rappresentativo e «fotocopiativo» dei fatti. Colpiva così a cuore una disciplina che, a partire da Russell e Carnap, aveva cercato la sua rispettabilità scienti-filosofica a partire da un trattamento logico e semantico dei problemi gnoseologici del diciassettesimo secolo.
Lasciate che vi richiami brevemente la tesi centrale. Se i fatti non sono pensabili a prescindere dalla struttura preposizionale del linguaggio, e se opinioni e asserzioni risultano correggibili solo a partire da altre opinioni e da altre asserzioni, allora l´idea di una «corrispondenza» tra i nostri pensieri e le cose che stanno fuori di noi, nel mondo, appare una idea fuorviante e insostenibile. Noi non possiamo descrivere la natura usando un linguaggio che crediamo essere il suo. Perciò, nella prospettiva del pragmatismo, conoscere la realtà non significa «fotocopiarla», ma «venire a capo» delle sue sfide. Noi arriviamo a conoscere i fatti solo imparando a elaborare costruttivamente un ambiente imprevedibile e complesso. Le risposte che ci dà la natura sono sempre indirette, in quanto restano legate alla struttura delle nostre domande. Ciò che chiamiamo «mondo» non è la totalità dei dati di fatto. Esso è l´insieme delle limitazioni cognitivamente significative che sono imposte ai nostri sforzi di imparare dalle - e di avere il controllo sulle - reazioni della natura a partire da previsioni attendibili.
Quest´accurata critica svolta da Rorty circa la presunta funzione «fotocopiativa» della conoscenza è apprezzabile anche dai colleghi che non sono disposti a seguirlo nelle conseguenze troppo ambiziose ch´egli ne trae. Quest´ambizione si tradì nell´estensione che il titolo americano del libro subì in traduzione tedesca. Philosophy and the Mirror of Nature divenne in tedesco: Der Spiegel der Natur. Eine Kritik der Philosophie (Lo specchio della natura. Una critica della filosofia). Io stesso giunsi a capire l´intera portata del progetto di Rorty - dunque il senso della costellazione che metteva accanto a Wittgenstein e Heidegger un autore come Dewey - solo dopo che ebbi letto l´introduzione a Consequences of Pragmatism (1982). Per chi lo conosceva personalmente, non era facile far coincidere l´enorme sfida avanzata da questo filosofo, scrittore e intellettuale politico, con la modesta, timida, delicata persona dallo stesso nome. I suoi interventi pubblici erano caratterizzati da retorica brillante e passione controllata, da un fascino giovanile e polemico, persino da un certo pathos. E, in effetti, lo «sgonfiamento» di concetti sublimi e l´esercizio dell´understatement possono anche avere un loro pathos particolare. Ma dietro l´aura dell´oratore affascinante e del docente appassionato si nascondeva appunto un carattere timido e sommesso, nobilmente riservato, integro e infinitamente amabile, cui nulla era più odioso che la presunzione della profondità.
Richard Rorty mirava, niente meno, che a promuovere una cultura che si liberasse dalle ossessioni concettuali della metafisica greca, nonché dalle ossessioni di un feticismo scientistico che ne seguiva le tracce. L´idea di metafisica da lui criticata si chiarisce soprattutto se noi badiamo all´impulso che è sotteso a quella critica. «I filosofi presero ad angosciarsi delle immagini del futuro solo dopo avere rinunciato alla speranza di guadagnarsi la conoscenza dell´eterno». Il platonismo tiene lo sguardo fisso sulle idee immutabili del buono e del vero, fino a creare una rete di distinzioni categoriali in cui vanno congelate le potenzialità di una specie umana auto-producentesi. Nella priorità della sostanza sul fenomeno, dell´universale sul particolare, della necessità sulla contingenza, della natura sulla storia, Rorty non vede solo una questione teorica. Le visioni del mondo strutturano forme di vita. Perciò Rorty vuole abituare i suoi contemporanei a un vocabolario che articoli una diversa visione del mondo e di noi stessi.
Una seconda, più radicale spinta dell´illuminismo deve così rinnovare le ragioni autentiche di una modernità che non ha tenuto fede alle sue promesse. La modernità deve ricavare ogni normatività solo dal proprio interno. Non c´è nessuna autorità, né punto fermo, al di là dell´impenetrabile vortice della contingenza. Nessuno può sottrarsi al proprio contesto locale senza ricadere immediatamente in un altro contesto. D´altro canto, la human condition è caratterizzata dal fatto che il realistico riconoscimento della finitezza e della corruttibilità dell´umana creatura - fallibilità dello spirito, vulnerabilità del corpo, conflittualità della convivenza sociale - può sempre trasformarsi nell´impulso creativo a migliorare società e cultura. In questa luce noi dobbiamo imparare a considerarci quali figli e figlie di una modernità consapevole, affinché - nella società mondiale lacerata sul piano politico, economico e sociale - non si debba rinunciare alla fede di Walt Whitman in una futuro migliore. Non dobbiamo lasciare ammutolire la democratica voce di una speranza sociale che ci giunge da lontano, invocando inclusoria e fraterna convivenza.

Corriere della Sera 8.4.08
Una ragione libera che unisce vita, simboli e teoria dei giochi. E così pensiero debole e società liquida diventano opportunità
Dalla caduta dei dogmi nasce il neoilluminismo
La lezione di Galileo e il ruolo delle scienze esatte
di Giulio Giorello


Sul finale della Prima Giornata del Dialogo sopra i massimi sistemi (1632) di Galileo Galilei, uno degli interlocutori (Sagredo) si rivolge agli altri due (l'aristotelico Simplicio e il copernicano Salviati) tessendo l'elogio delle arti — dalla musica che produce «diletto mirabile dell'udito» alla pittura capace di rappresentare gli oggetti tridimensionali su una tela a due dimensioni. «Ma sopra tutte le invenzioni stupende» va lodata l'arte di chi comunica «i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo», anzi parla «con quelli che sono nelle Indie... con quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni»: e tutto solo «con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta». Galileo celebra così linguaggio, scrittura e arte della stampa.
Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse posseduto Internet! Del resto, già nel Saggiatore (1623) aveva dichiarato che il mondo intero altro non era che un grande volume compilato da Dio «in caratteri geometrici». Come dire, studiate matematica e diventerete lettori della scrittura divina, che non coincide necessariamente con la Sacra Scrittura, cioè con la Bibbia, traduzione umana del dettato del Signore.
Queste battute del «maligno pisano» — come Carlo Emilio Gadda con burbero affetto chiamava il grande Galileo — mi sono tornate alla mente quando il mese scorso ho presentato al Festival della Matematica di Roma Allen Knutson, newyorchese di nascita e californiano d'adozione, matematico premiato e plurilaureato, nonché detentore (1990-1995) del record mondiale della International Jugglers Association in quei «giochi di palla» che affascinano «grandi e piccini» sulle pubbliche piazze. Da tempi immemorabili l'arte della «giocoleria » (o all'inglese, juggling) viene praticata con gli oggetti più diversi: sferette, clave, torce, coltelli e persino uova (mezzo quest'ultimo dispendioso e sporchevole se non si è molto bravi!).
Dal 1985 i Sagredo di turno hanno inventato un linguaggio matematico per esprimere l'essenziale di questa «nobile arte». Negli Usa la chiamano Siteswap; in Inghilterra, notazione di Cambridge. L'idea di fondo è che descrivere con il nostro linguaggio quotidiano tutte le tecniche del giocoliere sia compito arduo, se non impossibile: «Dovremmo essere capaci di descrivere la posizione di ogni muscolo del corpo di chi compie l'esercizio, in ciascuna frazione di secondo», dice Allen. Dovremmo essere come l'Ireneo Funes di Borges, in grado di avvertire il rumore di un filo d'erba che cresce! In mancanza di queste doti straordinarie, ci soccorre la matematica.
Il «linguaggio di Cambridge» si limita a indicare la mano che lancia l'oggetto, quella che lo prende, il numero di oggetti lanciati, l'istante del lancio e la cosiddetta durata di volo. Basta combinare opportunamente questi dati non solo per descrivere tutti i «trucchi » del giocoliere, ma per suggerire nuovi e impensati schemi — proprio quelli che fa vedere sul palco Allen, per la gioia di chi è rimasto nel suo cuore ragazzo e per la soddisfazione di chi continua a pensarla come Galileo. Inoltre, applicazioni di questo genere, non diversamente da quelle più tradizionali alle scienze naturali o all'economia, rivelano connessioni insospettate (nel caso di Knutson persino con le particelle e le antiparticelle della fisica).
Non è che l'ennesimo esempio della potenza del simbolico, come sa qualsiasi studente d'algebra. È operando su simboli, poniamo lettere dell'alfabeto — che magari stanno per altri simboli, i numeri di un calcolo aritmetico — che si impara a padroneggiare le più diverse situazioni, mentre se restassimo troppo legati alla natura degli oggetti considerati ci troveremmo in maggiore difficoltà, o magari non ce la caveremmo del tutto. Il fisico e fisiologo Ernst Mach la chiamava «economia di pensiero»; sembra quasi che i segni che tracci su carta o che digiti sullo schermo del computer siano più intelligenti di te, come già constatava Albert Einstein; tanto più che «il simbolo non è un rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario », come dichiarava il filosofo Ernst Cassirer. Proprio lui doveva dedicare gran parte della sua riflessione al simbolismo come punto di incontro di tutte le forme spirituali più diverse: dall'impresa tecnico-scientifica all'arte, alla religione e al mito.
Ma se le cose stanno così, non potrebbe anche il segno matematico essere contaminato da quell'ambiguità che è così presente in altre «forme simboliche» come le icone della fede o quelle della politica? Leggo nel recente volume di Elio Franzini, dedicato a I simboli e l'invisibile (il Saggiatore), che i simboli sono evidenze storiche e culturali il cui senso non si esaurisce alla prima occhiata, ma «richiedono interpretazioni, sguardi stratificati». Ben più «maligno» di Galileo, il lunatico irlandese George Berkeley insinuava che gli stessi matematici erano «giocolieri» che praticavano trucchi linguistici e psicologici (per esempio, nel calcolo infinitesimale: dove pretendevano di poter utilizzare nei calcoli «quantità più piccole di qualsiasi quantità concepibile»!).
Con il senno di poi, la matematica ha saputo rendere rigorosa la sua attività simbolica, mettendo ordine nell'anarchia dell'invisibile che aveva generato. Ma nella stessa proliferazione di arti, tecniche e scienze dei nostri giorni sembra difficile indicare un principio unitario, un «fondamento», cui ricondurre i molti strati del simbolico. Come constatava agli inizi del Novecento Mach, «il mondo è suddiviso e ritagliato dalle astrazioni, e questi frammenti parziali appaiono così aerei e privi di sostanza da insinuare il dubbio se sia ancora possibile reincollare il mondo». Forse, è qui che va cercata l'origine di un malessere che oggi chiamiamo con molti nomi: modernità «liquida », pensiero debole, paura della scienza, «relativismo», morte dell'arte e angoscia della tecnica. Eppure, è stato l'abbandono del fondamento che ha permesso al pensiero di conquistare orizzonti nuovi e sconfinati. Osserva Franzini che per quel fondamento possiamo provare una qualche forma di nostalgia, ma tale passione alla fine diventa tensione verso il nuovo, «ricerca del senso stesso del percorso, della volontà di costruire forme ». È dallo spregiudicato riconoscimento di questa nostra condizione che può oggi muovere un rinnovato Illuminismo. Dopodiché, come dicevano i personaggi del Dialogo galileiano, finito di discutere come vanno i cieli (o di come si può algebrizzare persino il lancio di clave o palline nella «giocoleria»!), ci si può permettere di «gustar per qualche ora il fresco nella gondola che ci aspetta».

Corriere della Sera 8.4.08
Il futuro del «continente giallo» secondo Gifford
Prigioniero di Confucio Un popolo in fuga dalla Casa di Ferro
di Fabio Cavalera


Un sistema di pensiero etico conservatore da cui sembra che il Paese non possa liberarsi

Oggi che la Cina è nel pieno di una grave crisi politica, è davvero importante decifrare i suoi ondeggiamenti e le sue ambiguità. Ripararsi dietro agli schemi mentali che catalogano un Paese attraverso i luoghi comuni positivi (il gigantismo economico) o negativi (la dittatura dell'intolleranza) non aiuta ad accompagnare la transizione di questo «continente» e a comprenderla. È possibile andare oltre le interpretazioni superficiali? E quali sorprese ci riserva il viaggio dentro «l'altrove Cina»?
Lu Xun, il più grande scrittore cinese del XX secolo, usò una metafora famosa per descrivere il torpore culturale del suo Paese all'inizio del Novecento. Nel racconto Na Han, Chiamata alle Armi immaginò «una casa di ferro senza finestre, indistruttibile, in cui dormono molte persone, condannate a morire per asfissia». «Tu sai — aggiungeva nell'introduzione — che la morte le coglierà nel sonno e non sarà dolorosa ». Poi chiedeva e concludeva: «Se lanci un grido abbastanza forte da svegliare qualcuno di quelli che hanno il sonno più leggero, credi di rendere loro un buon servizio condannandoli a soffrire le pene di una morte senza scampo? Ma se qualcuno si sveglia, non puoi affermare che non ci sia una speranza di distruggere la casa di ferro». La casa di ferro era un sistema di pensiero, un sistema etico conservatore, il confucianesimo, dal quale lui, pessimista, si augurava che la Cina potesse uscire. La «Chiamata alle Armi» era l'appello di Lu Xun ai cinesi: svegliatevi che avrete la «speranza» di scappare dalla casa di ferro. Lu Xun avvertiva che «il richiamo del passato, della sua eredità e della sua ineludibile storia» pesavano ancora molto sulla Cina. Però il popolo aveva per la prima volta l'opportunità di tracciare il futuro e non delegarne lo svolgimento ai despoti e agli imperatori, agli oppressori della mente e della cultura.
Quasi un secolo dopo, quelle parole hanno una straordinaria attualità. Sono un richiamo a non risolvere i dubbi con risposte scontate ma un invito a riflettere. È crollata «la casa di ferro»? Rob Gifford in Cina ha lavorato per oltre vent'anni, sei da corrispondente di «National Public Radio», avrebbe dunque tutte le carte in regola per dare risposte definitive sul «miracolo» e sui mutamenti della società cinese, per raccontarli e analizzarli. Invece, da vero intellettuale, oltre che giornalista, Rob Gifford ammette che sulla Cina in questo momento è impossibile regalare certezze e verità preconfezionate. E chi lo fa non ne conosce i tormenti. «Se il mondo occidentale non si scolla da una visione del Paese datata e rigida, sprecando superlativi sul suo sviluppo e sulla sua crescita senza precedenti oppure tirando in ballo vecchi stereotipi da guerra fredda, arrivando fino a sbandierare la minaccia del pericolo giallo», ebbene, lui, l'autore, che aveva cominciato «a costruirsi degli schemi mentali su quando la Cina sarebbe diventata una compiuta economia di mercato e quanto tempo avrebbe impegnato a trasformarsi in una democrazia » alla fine, dopo vent'anni, non se la sente più di formulare altro giudizio che questo: «È impossibile essere neutrali nei confronti della Cina (...) Mi chiedo se altri Paesi hanno il potere di dividere in modo così drastico le emozioni dei visitatori... Se vi sembro un po' confuso riguardo alla Cina è perché effettivamente lo sono». Un osservatore attento non può che essere travolto dallo stordimento e segnato dalla confusione di questi anni cinesi.
Rob Gifford ha scritto un libro bellissimo, essenziale per chi vuole entrare nel cuore e nella mente del Dragone. E lo ha fatto con una idea semplice ma suggestiva: proprio perché non riusciva più ad avere un quadro d'insieme sicuro della Cina, ha deciso di percorrere il «continente » con l'auto, il taxi, il camion lungo la «Strada Madre», la 312 che parte da Shanghai a est e arriva al confine con il Kazakistan a ovest. Transitando, per oltre quattromila chilometri, dalle bellezze agli orrori, dalla ricchezza alla povertà e alle ingiustizie.
La Cina è imprevedibile ma non misteriosa. Rob Gifford l'ha esplorata, svelata e descritta. Non è un nuovo miracolo e nemmeno un nuovo pericolo per l'umanità. La Cina è la terra di «un popolo con un cuore grande» che ha ripreso a camminare, forse per uscire dalla «casa di ferro». E questo moto non determina certezze, ma speranza. Niente più che speranza — in chi lo compie e in chi lo guarda. Quella speranza che Lu Xun invocava così: «Non si può dire che la speranza non esiste, né si può dire che esiste. Proprio come le strade che solcano la terra. Perché in realtà la terra all'inizio non ha nessuna strada... finché molti non la tracciano, passando, e allora la strada è fatta».

La7
Bertinotti, Fausto, classe 1940. Candidato premier alle elezioni del 2008 per la lista della Sinistra Arcobaleno dopo una vita di lotte spese tra il sindacato e la politica italiana. E’ il 1964 quando Bertinotti entra nella Cgil di cui diventerà segretario regionale del Piemonte dal 1975 al 1985, anno in cui verrà eletto segretario confederale. Sempre nel 1964 milita nel Partito Socialista di Unità Proletaria per poi confluire nel Pci in cui resterà fino allo scioglimento del 1991. Da sindacalista, nel 1980, è testimone delle 35 giornate di Torino. Lascia il PDS nel 1993 e un anno dopo diviene segretario di Rifondazione Comunista, carica che ricopre fino al 2006 quando sale sullo scranno più alto di Montecitorio. In Parlamento c’era entrato per la prima volta nel 1994, lo stesso dell’elezione al Parlamento europeo, dove sarà rieletto nel 1999. A Strasburgo, nel 2004, diventa presidente del Partito della Sinistra europea. Quando, nel 1996, sigla un patto di desistenza con l’Ulivo, permette al centrosinistra di vincere le elezioni. Il rapporto però si interrompe nel 1998, quando ritira l’appoggio al governo Prodi. Subisce una scissione nel partito per l’uscita dei membri contrari allo strappo che si riuniscono nei Comunisti Italiani. Un anno prima, nel 1997, volava in Messico per incontrare, nella Selva Lacandona, il sub comandante Marcos. Negli anni 2000 è l’artefice dell’avvicinamento del partito con i movimenti no-global che lo porteranno, nel 2001, a partecipare alle manifestazioni anti-G8 di Genova. Ricucito il rapporto con i Ds e la Margherita, si presenta alle primarie dell’Unione dove viene battuto da Romano Prodi. E’ il 2005 e un anno dopo lascerà la segreteria di Rifondazione per la presidenza della Camera. Diploma di perito industriale, Bertinotti e sposato dal 1965 con Gabriella Fagno dalla quale ha avuto un figlio. Alle critiche sulle sue frequentazioni nei salotti buoni risponde di aver trascorso più tempo davanti ai cancelli delle fabbriche e, riguardo alla cura nell’abbigliamento, ricorda l’insegnamento del padre, per il quale stare dalla parte dei lavoratori non significa doversi vestire come uno straccione. Da alcuni anni ha stretto un legame intellettuale con lo psichiatra Massimo Fagioli.