L’idea del male nei rapporti sessuali
Gentile Augias, ho letto su la Repubblica l'articolo «No alla pillola del giorno dopo. Pisa, la Procura apre un'inchiesta» e sono riuscita a dare voce a un interrogativo che mi girava nella mente da tempo. Se le leggi servono a regolare i rapporti fra gli individui in modo che non prevalga il diritto dell'uno su quello dell'altro (ovvero, il sopruso), com'è possibile che esista, soprattutto nel caso della pillola del giorno dopo, la possibilità dell'obiezione di coscienza? Come si può opporre la propria coscienza a una scelta che riguarda un'altra persona ed è tutelata da una legge dello Stato? La Procura infatti ha aperto un'inchiesta ma anche il ministro della salute Livia Turco non è stata chiara. Ribadisce, sì, che la pillola del giorno dopo non è una pillola abortiva, però non afferma che allora non esiste diritto all'obiezione di coscienza; dice solo che dovrebbe essere garantita la presenza di personale e medici non obiettori nei pronto soccorso e nelle guardie mediche. Il ragionamento dovrebbe comunque estendersi anche al diritto all'aborto, perché il riconoscimento dell'obiezione di coscienza nelle strutture pubbliche va sempre a detrimento del singolo che si vede negato un diritto tutelato dalla legge. Come mai è così esteso il diritto di obiezione solo nel caso di leggi che riguardano una scelta delle donne?
Susanna Sinigaglia susanna.sinigaglia@inwind.it
Ogni giorno ricevo lettere di donne costrette all'umiliante serie dei rifiuti, di medico in medico, di ospedale in ospedale, per ottenere la prescrizione ad un medicinale che in Europa, ricordo, viene spesso distribuito nei dispensari delle scuole. La pillola del giorno dopo è un contraccettivo non un abortivo, tecnicamente non è diverso dalla pillola presa ogni giorno che impedisce l'ovulazione o da un qualsiasi contraccettivo meccanico maschile o femminile che blocca il cammino dello spermatozoo verso l'ovulo. A questo dunque si oppongono gli obiettori: la scelta consapevole di una donna che non desidera trasformare un rapporto in gravidanza.
Una materia nella quale nessuno ha diritto di interferire. A meno di non voler tirare in ballo la dottrina che vieta i rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione. Ma questa (ammesso che sia ancora in vigore) è materia di fede. Era il motto ricamato sulle camice da notte delle bisnonne che recitava «Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio». Uno degli aspetti vergognosi di questa trafila è la sua ipocrisia. Non si ha coraggio di affrontare frontalmente il problema perché tutti sanno che uno scontro diretto sarebbe respinto dalla maggioranza degli italiani. Allora si lavora sui fianchi, si cerca il logoramento lento, la malizia trasversale, il diniego motivato dalle ragioni più varie non escluse quelle della convenienza spicciola, oppure della battaglia ideologica. Dimentichi che è in ballo l'applicazione di una legge la quale solo nei paesi islamici non ha la precedenza sulla valutazione del possibile `peccato'.
Repubblica 11.4.08
L'opera narrativa di Suhrawardi
di Pietro Citati
Compose anche alcuni bellissimi e singolarissimi testi brevi che sono insieme apologhi e trattati: sarebbero piaciuti a Franz Kafka
Una notte si sentì avvolto da una nuvola di letizia e gli apparve Aristotele: lo incitava a non contentarsi della conoscenza ordinaria
Il capolavoro filosofico si intitola "La sapienza dell´illuminazione" dettata dallo Spirito Santo in una meravigliosa giornata
Il filosofo nacque nel 1155 in Iran e compì i suoi studi a Isfahan dove era ancora vivo l’insegnamento di Avicenna. Poi vagabondò senza fine e morì o forse fu ucciso a trentasei anni
Shihab al-din Yahya Suhrawardi nacque, nel 1155, a Suhraward, nella parte settentrionale dell´Iran, dove esistevano ancora gruppi di Zoroastriani, fedeli all´antica religione della Persia. Studiò logica, filosofia e giurisprudenza a Maragha: poi compì gli studi a Isfahan, dove era vivo l´insegnamento di Avicenna, il più famoso filosofo persiano. Uno dei suoi amici disse di lui: «Di quale fuoco, di quale splendore d´aurora brilla il giovane Suhrawardi! Non ho mai incontrato nella mia vita qualcuno che gli assomigli. Ma temo per l´eccesso della sua foga, e per la sua imprudenza. Temo che questo diventi la causa della sua perdita». L´amico non aveva torto.
Anche nelle opere filosofiche di Suhrawardi avvertiamo un´esaltazione, uno slancio lirico, un desiderio di venire consumato dal fuoco della luce suprema.
Poi Suhrawardi lasciò gli studi, e cominciò a vagabondare per le strade della Siria e dell´Anatolia, indossando le vesti bianche e nere dei Sufi: vagabondare senza fine per il mondo, restare in un luogo qualche giorno o qualche mese e poi riprendere il cammino, gli sembrava l´unico modo per imitare il passo degli Angeli. Rimase qualche tempo presso due corti anatoliche. Agli inizi del 1190 raggiunse Aleppo, dove il giovane principe al-Malik al-Zahir, figlio del sultano Salah al-din, il Saladino dei Crociati, ebbe una profonda amicizia per lui. Ogni mattina, all´alba, Suhrawardi lasciava la propria stanza per contemplare il sole che sorge: così conosceva indirettamente Dio, perché il sole rappresenta, in terra, l´eco della Luce delle luci.
Alla corte di Aleppo, i dottori della legge l´accusarono di sostenere che l´epoca della profezia non si era conclusa con Maometto, il «Sigillo dei profeti»: mentre Suhrawardi diceva che la «linfa» divina fa riapparire sempre di nuovo tra i fedeli, anche quando il tempo dei profeti è finito, il fiore dell´Ispirazione segreta. I dottori della Legge accusarono Suhrawardi presso il Saladino: «Se lo lasci vivere, corromperà la fede di tuo figlio». In quest´occasione il Saladino non mostrò il volto mite e cavalleresco, che gli attribuirono i crociati cristiani. Ordinò al figlio di far uccidere Suhrawardi. Il figlio si rifiutò per due volte, e cercò disperatamente di difendere l´amico. Infine cedette. Il 29 luglio 1191, a trentasei anni, Suhrawardi morì: non sappiamo come. Qualcuno disse che venne strangolato: altri che venne decapitato o arso vivo o ucciso per fame; altri ancora che egli stesso si lasciò morire d´inedia. Così ripeté il destino di al-Hallaj, il suo vero maestro, decapitato ed arso a Baghdad, quasi tre secoli prima, per incitamento di altri maestri della legge.
Suhrawardi aveva composto quattro anni prima il suo capolavoro filosofico, La sapienza dell´illuminazione (tradotto in francese da Henry Corbin, sotto il titolo Le livre de la sagesse orientale, Verdier). Come egli raccontò, lo Spirito Santo ispirò il suo cuore in una giornata di meravigliosa bellezza. I viaggi lo costrinsero a stendere il libro in molti mesi; e lo terminò una sera del mese di Giomada II, nell´anno 582 dell´Egira (1187), quando i sette pianeti si trovavano congiunti nel segno della Bilancia. Era certo - diceva orgogliosamente - che Dio aveva divulgato, attraverso di lui, qualcosa che né gli antichi né i moderni avevano compreso. Suhrawardi cercava di far riapparire «La Saggezza dell´antica Persia»: ricordava la sapienza di Ermete Trismegisto, gli antichi filosofi greci, il «nostro maestro Platone», i pensatori neoplatonici, la Gnosi; e naturalmente il Corano, e la filosofia di Avicenna, dalla quale cercava tuttavia di distaccarsi. Aveva il sentimento di appartenere a una famiglia spirituale dispersa attraverso i tempi e gli spazi, ma che un legame invisibile rendeva solida come i rami di un grande albero. Secondo un discepolo, egli rinnovava ciò che i cicli del tempo avevano corrotto, faceva riapparire ciò che le età avevano cancellato, e risuscitava ciò che era morto e abolito.
Una notte, Suhrawardi si sentì avvolto da una nuvola di letizia, mentre una figura umana si disegnava chiaramente davanti a lui. Era il primus Magister, Aristotele, in una forma meravigliosamente bella. Gli diceva, parlando un linguaggio platonico: «Non accontentarti della conoscenza ordinaria. Devi superarla, raggiungendo la conoscenza unitiva».
Suhrawardi comprese che i suoi libri dovevano fondere filosofia e mistica. Coltivava le sottigliezze, le raffinatezze e le astuzie, che Platone, i neoplatonici e Avicenna gli avevano appreso: ma questa cultura era morta, se non si concludeva in un´esperienza mistica. Nel cuore della civiltà islamica, Suhrawardi voleva creare la filosofia della luce. Lassù, sul gradino più alto, sta La Luce delle Luci: la luce necessaria e assolutamente pura. Essa emana «la luce più prossima», l´Intelletto universale, identificato con l´antico arcangelo iranico Bahman: dalla quale derivano, con uno slancio che non conosce interruzioni, tutte le luci angeliche e spirituali, via via meno pure, fino a scendere al livello oscuro della materia.
Con quale ardore, Suhrawardi rappresenta questa incessante emanazione di luce, che attraversa lo spirito degli eletti. Quando Dio purifica il loro cuore, essi conoscono i primi lampi, che appaiono all´improvviso, accecano come spade, dividono in due il cuore ed il corpo, e scompaiono. Poi i lampi aumentano, si sovrappongono, producono forti tremiti nelle membra, toccano il cervello, il dorso e le spalle, mentre il sangue batte più intensamente.
Nella stazione successiva subentra, nell´eletto, la presenza pacificante. Ecco - dice Suhrawardi - «una luce estremamente dolce, senza somiglianze col lampo, accompagnata da una condizione di allegria sottile e tenera». Allora il filosofo-mistico legge nella mente altrui: avverte le cose nascoste, scorge forme tenui e leggerissime, osserva luci mai viste, ascolta i richiami della Luce delle Luci. Qualche volta, per l´eccesso della gioia spirituale, viene meno. Infine, nell´ultima stazione, ha luogo la grande estinzione. L´animo dimentica sé stesso, perde ogni conoscenza di sé, dimentica la propria dimenticanza, e si scioglie nello splendore divino.
***
Insieme agli scritti filosofici, Suhrawardi compose alcuni bellissimi e singolarissimi testi brevi, che sono insieme apologhi, trattati, emblemi, racconti.Sarebbero piaciuti a Kafka, specie nel periodo del Messaggio dell´imperatore e in quello degli Aforismi di Zurau. Si tratta di undici testi, pubblicati sotto il titolo Il fruscio delle ali di Gabriele. Racconti esoterici (a cura di Nasrollah Pourjavady, traduzione di Sergio Foti, Mondadori, Islamica, pagg. XXII-230, euro 16). In questi racconti scorgiamo con occhi lucidissimi la luminosa e trasparente «città di non-dove», nella quale non incontriamo nessuna traccia di spazio e di tempo. Il fuoco dell´immaginazione visionaria - nutrita dall´antica tradizione persiana - supera ogni limite, mentre l´intelligenza filosofica osa proporre ipotesi sempre più ardite e sconvolgenti, e gioca liberamente con l´assoluto.
Un sovrano possedeva un giardino che in nessuna stagione mancava di piante profumate, di vegetazione e di acque correnti: alberi alti e snelli levavano le cime verso il cielo; e ogni specie di uccelli facevano intendere le loro modulazioni dall´estremità dei rami. Tutte le gioie che possono occupare il pensiero, e le gioie che possono offrirsi all´immaginazione, vi erano raccolte. Un giorno, il sovrano plasmò degli esseri umani, prima della loro nascita, nelle forme di pavoni dalle penne foltissime e dai colori variegati e sontuosi. Li dispose nel giardino. Lì essi ascoltavano i discorsi degli altri uccelli. Nessuna sillaba sfuggiva alla loro comprensione, nessun canto celava i propri segreti. Conoscendo la lingua degli uccelli, essi conoscevano la lingua dei misteri: intendevano i disegni di Dio, il futuro del mondo, la voce simbolica dei colori e dei suoni.
Poi venne la caduta, che Suhrawardi racconta in modi diversi. Fu una decisione del Sovrano? Oppure una trappola posta dal Destino? Un giorno i pavoni penetrarono in un bosco, dove dei cacciatori avevano teso le reti. Quando i cacciatori li scorsero, li chiamarono con un fischio sottile, penetrante e lusinghiero. Gli uccelli non avevano mai inteso una voce umana, e furono attratti da quel suono sconosciuto, che sembrava offrire nuovi piaceri all´immaginazione. Senza provare alcuna inquietudine, caddero nelle trappole. Gli anelli si chiusero strettamente sui loro colli, le reti impacciarono le loro ali, le corde si aggrovigliarono attorno alle loro zampe. Cercarono di liberarsi: gridarono implorando aiuto; ma nessuno corse in soccorso. I cacciatori li portarono in un paese straniero, dove li cucirono in rozze peli di cuoio, in modo che dimenticassero i colori delle proprie penne e la visione della propria bellezza. Poi chiusero ognuno di essi in una cesta. Il cielo scomparve, la luce fu ottenebrata. Da una fessura strettissima, una mano gettava ogni giorno un poco di miglio.
Molto tempo passò. Chiusi nella stretta cesta, avvolti nel cuoio grossolano, i pavoni persero il ricordo del giardino dove avevano trascorso la giovinezza. Quando si guardavano intorno, non vedevano che oscurità, appena interrotta da qualche bagliore, e ripugnanti pelli di cuoio. Finirono per convincersi che non esistevano luoghi più grandi del fondo del cesto; e se qualcuno avesse parlato loro del colore degli alberi, o delle loro penne verdi ed azzurre, avrebbero risposto che erano soltanto favole o menzogne. Eppure, talvolta avevano dubbi. Quando un soffio di vento portava l´odore lontano degli alberi, il profumo delle rose, delle viole e dei gelsomini, i pavoni avvertivano una dolcezza misteriosa. Quando sentivano le remote modulazioni degli altri uccelli, rinasceva la medesima nostalgia.
Una specie di ansia e di commozione si impadronì di loro. Non sapevano cosa fossero quei profumi né cosa significassero quelle voci, smarrite nei recessi della memoria. Erano turbati, e desideravano volare in un luogo lontano. Passò altro tempo. Un giorno qualcuno allargò le fessure del cesto, e i pavoni videro di nuovo sé stessi, osservarono i propri colori, il giardino e gli alberi, riconobbero i canti, le voci, lo spazio dove volare e viaggiare. Riacquistarono la memoria del loro passato, e sentirono la miseria della condizione presente. Quella notte, la mano sconosciuta liberò i pavoni anche dalla prigione di cuoio. Mossero timidamente le ali. Avevano nostalgia del cielo, e lo guardarono fissamente.
Quando videro ruotare le due Orse e contemplarono la spiga luminosa della Vergine e la fiamma tremula del Leone, pensarono di aver ritrovato la patria dimenticata. All´alba, i pavoni si trovarono sul margine del deserto, dove cominciava il «paese di non-dove». In quel momento scorsero una persona venire verso di loro, col passo del viandante esercitato alle lunghe fatiche. Era un giovane dal volto luminoso, con le guance appena tinte di porpora, i capelli di neve che scendevano in lunghe pieghe sulle spalle, e due grandi ali. «O giovane - gli chiese uno dei pavoni - , dove vai?». «Giovane? - rispose il viandante - ti sbagli se mi chiami così. Io sono uno dei più antichi figli della creazione, e da migliaia di anni percorro le valli e i deserti. Il mio nome è Gabriele». Gli uccelli ricordarono cosa avevano appreso prima di esistere. L´angelo Gabriele era il decimo Intelletto emanato dalla Luce delle Luci.
Governava il mondo degli elementi e delle anime umane, e faceva parte di questo mondo. Qualcuno tra gli uccelli sapeva che era l´angelo custode di ciascuno di loro. Mentre i raggi del sole illuminavano la terra, i pavoni si accorsero che le ali del viandante erano diverse. L´ala destra era bianchissima. Sopra quella sinistra, si stendeva una macchia rossastra, simile alla macchia di porpora tenebrosa, che copre una parte della luna. «La mia ala destra - disse Gabriele - è sempre rivolta verso la luce del cielo. Quando la muovo, nascono tra gli uccelli le anime luminose, i profeti, le pure visioni spirituali, i sogni rivelatori. L´ala sinistra dimostra che anch´io, come voi, sono stato gettato nel pozzo oscuro del destino. Appena un leggerissimo fruscio della mia ala scende nel vostro mondo, accadono gli eventi, i fenomeni, i miraggi, le illusioni, i casi, i gridi di sventura. Essa è rossastra perché la porpora è un colore intermedio. Osservate il tramonto e l´alba. Entrambi sono rivolti sia verso la luce del giorno sia verso la notte; e tanto il crepuscolo del mattino quanto quello della sera ci paiono irraggiati di porpora. Anche voi, divisi tra la luce e la tenebra, irraggiate ai miei occhi un riflesso di porpora».
Gabriele scomparve. La ricerca felice e disperata dei pavoni continuò. Essi intesero la musica delle stelle: un suono che giungeva all´udito come il pauroso fragore di una catena di metallo trascinata sopra una massiccia scogliera. I muscoli del corpo sembrarono lacerarsi, e le loro giunture sciogliersi per la terribile estasi. Poi i pavoni si purificarono nell´acqua della sorgente della vita. Col becco si liberarono dalle penne, e presero il volo, come se soltanto rinunciando allo splendore sontuoso del piumaggio, alla bellezza che avevano tanto amato, potessero raggiungere la meta dei loro desideri.
Le ali dei pavoni batterono sempre più stancamente nello spazio, finché toccarono la montagna di Qaf, la quale simboleggiava, per i persiani, la nona sfera celeste. Avevano ritrovato la patria: potevano vedere in basso, come zaffiri e smeraldi e ametiste e topazi incastonati nel cielo, le stelle e le costellazioni: le due Orse e Sirio, il Dragone, lo Scorpione, Arturo, Boote, la Vergine, Andromeda, Ariete ed i Pesci. Rimasero sotto l´ombra della montagna di Qaf mille anni - mille anni che, per La Luce delle Luci, non sono più lunghi di un mattino.
Infine conobbero il Simorgh: un immenso uccello dalle ali sfolgoranti e dalla lunghissima coda variopinta, che riuniva in sé le proprietà di ogni animale conosciuto - grifone ed usignolo, aquila e leone, dragone, tigre ed antilope - e fondeva nel suo sguardo la dolcezza e il rigore, la crudeltà e la benevolenza. Portava molti nomi: «la grande luce», «la più prossima delle luci», l´arcangelo zoroastriano Bahman, l´Intelletto universale. Era la prima emanazione luminosa che Dio aveva gettato fuori di sé. I pavoni lo osservarono attentamente; e di colpo si identificarono con lui. Il lungo viaggio spirituale era terminato. I pavoni non esistevano più. Un nuovo Simorgh volava nel cielo.
Nessun mistico aveva forse proposto un´immagine così ardita come quella di Suhrawardi. Al-Hallaj aveva proclamato: «io sono Dio»: ma voleva dire che il suo io era stato cancellato, di lui non restava nemmeno un´ombra, e in quello spazio vuoto abitava Dio. Suhrawardi osò immaginare che i pavoni (o gli uomini), esseri così miseri, che avevano vissuto prigionieri nell´oscuro carcere di cuoio, senza vedere nient´altro che una cesta, si identificavano con la prima emanazione luminosa di Dio. La loro ombra sfiorava La Luce delle luci.
Corriere della Sera 11.4.08
Contraccezione. L'assessore Montaldo (Pd): un ginecologo non obiettore sempre in servizio
L'ordine all'ospedale del cardinale: prescriva la pillola del giorno dopo
La Regione Liguria scrive al Galliera, presieduto da Bagnasco
Il caso dopo la denuncia di alcune donne sull'impossibilità di ottenere il farmaco. L'ospedale: verificheremo
di Erika Dellacasa
GENOVA — «L'ospedale Galliera deve assicurare la prescrizione della pillola del giorno dopo, come tutte le Asl liguri, non ci sono eccezioni », l'assessore alla sanità della Regione Liguria, Claudio Montaldo (Pd), sta scrivendo un nuovo capitolo dei rapporti tra la Regione e l'ospedale presieduto dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. E' successo che alcune donne abbiano segnalato la difficoltà di ottenere la prescrizione presso il Galliera. L'assessore ha chiesto spiegazioni e ha avuto dal direttore sanitario del nosocomio una risposta che, spiega Montaldo, «in sostanza attribuisce la responsabilità a un infermiere che a chi chiedeva di vedere il medico ha risposto di rivolgersi altrove. E questo perché il medico di turno era obiettore di coscienza e avrebbe rifiutato la pillola». In fondo l'infermiere cercava solo di evitare alla donna una perdita di tempo.
Nella schermaglia con l'assessorato, il Galliera ha inviato ieri mattina una lettera in cui spiega di aver aperto «una verifica interna» sull'episodio e di aver rinnovato le disposizioni affinché le donne vengano in ogni caso indirizzate dal medico che «farà le valutazioni necessarie ». In questo gioco di fioretto, però, l'assessore non ci sta a passare da ingenuo: «Ho mandato una lettera al Galliera con cui in sintesi dico che devono garantire la presenza di un medico non obiettore di coscienza in ogni turno. Nella lettera chiedo che il Galliera mi informi su come intende attuare questa direttiva regionale che è valida per tutte le Asl».
Al di fuori del linguaggio burocratico con cui sono stilate tutte le comunicazioni fra assessorato e ospedale, il succo è che il Galliera deve organizzarsi per dotare il pronto soccorso di un ginecologo non obiettore che possa prescrivere — sempre salve le valutazioni sanitarie — la pillola del giorno dopo. L'assessore non aspetta un sì o un no, la direttiva impegna il Galliera a dare seguito alle disposizioni della Regione, l'ospedale deve ora informare l'assessorato su «come » intende attuarle.
Fino a pochissimo tempo fa il Galliera non aveva ginecologi non obiettori di coscienza, solo ultimamente sono stati assunti due medici non obiettori ma la politica dell'ospedale, il cui consiglio di amministrazione è presieduto dal cardinale Bagnasco e che ha avuto come ex presidenti Tettamanzi e Bertone, è contraria all'interruzione di gravidanza. Non è la prima volta che le linee guida della Curia si scontrano con la politica sanitaria regionale in tema di applicazione della 194 e di fecondazione assistita. La soluzione attuale, per le interruzioni di gravidanza, è di praticarle altrove e con personale di un altro ospedale, l'Evangelico. «Ma il Galliera — dice l'assessore— è convenzionato con il servizio sanitario pubblico e non può di fatto negare la possibilità di prescrizione della pillola del giorno dopo».
Corriere della Sera 11.4.08
Prima pronuncia Chiesta l'archiviazione di una denuncia per omissione di atti d'ufficio a Roma. Deciderà il gip
Ma il pm: simile all'aborto, si può rifiutare
di Laura Martellini
ROMA — Per la prima volta, tocca a un magistrato pronunciarsi sul tema della pillola del giorno dopo: il 5 giugno il gip del Tribunale di Roma, Claudio Mattioli, dovrà decidere se archiviare o meno l'inchiesta per omissione di atti di ufficio nata due anni fa, quando una donna presentò denuncia contro ignoti per essere stata respinta da due ospedali dove aveva chiesto le venisse prescritta la pillola del giorno dopo. Il pm Angelantonio Racanelli nel luglio 2006 ha sollecitato l'archiviazione del procedimento, perché «non può escludersi alla luce degli accertamenti svolti la sussistenza della causa di giustificazione (l'obiezione di coscienza alla somministrazione della pillola del giorno dopo) quanto meno sotto il profilo putativo». Anche perché il pm non escluderebbe «la possibilità che tale tipo di pillola possa essere una pratica abortiva ». Infine, «non vi è alcun elemento certo — dice il pm — per ritenere che il personale medico in servizio sia stato reso edotto della richiesta della donna». E nella premessa, il pm ritiene necessario un «intervento legislativo » in materie. Come accadde per il caso Welby. Replica Amedeo Bianco, presidente degli Ordini dei medici (Fnomceo): «Deve prevalere il giudizio del medico, non servono altre leggi».
Alla richiesta del pm si è opposto l'avvocato della donna, Alessandro Gerardi, affiancato dai Radicali romani e dall'associazione Luca Coscioni che giudicano il caso esemplare di un'«arretratezza normativa rispetto agli altri Paesi europei, dove la pillola del giorno dopo viene data senza ricetta ». Per Gerardi «non ha senso parlare di obiezione di coscienza di fronte ad un farmaco sul mercato da 8 anni, contraccettivo e non abortivo». L'udienza, fissata per oggi, è stata rimandata al 5 giugno per un difetto di notifica. Non ne era stata data notizia alla persona offesa: una biologa di Roma Nord, Francesca Capone, all'epoca 35enne, che di quella vicenda dice di conservare un solo, forte ricordo: «La sensazione di rabbia». Al «no» del pronto soccorso ginecologico del Policlinico Umberto I, era seguito quello del San Giovanni, dove la donna si era recata di sabato: chiusi i consultori, difficilmente rintracciabili i medici di base, un'impresa procurarsi la ricetta. «Alcuni infermieri fecero da filtro — ricorda — spiegandoci che in quel momento non c'era nessuno disposto a prescriverci il farmaco: "Meglio andare di lunedì al consultorio". Ma come è noto la pillola ha efficacia entro 72 ore dal rapporto». Ricorda ancora, Francesca, le parole sarcastiche di un ausiliario: «Speriamo che il tuo ragazzo abbia gli spermatozoi non fertili, così non resti incinta». E l'indignazione crescente. «Solo al San Camillo — conclude — ho ottenuto la ricetta.
Il ministro della Salute Livia Turco ha commentato: «La legge è molto chiara. L'obiezione di coscienza è garantita dalla 194. Ma la pillola del giorno dopo è un anticoncezionale d'emergenza, non un farmaco abortivo ». Mentre Eugenia Roccella, candidata del Pdl e portavoce del Family day: «Spero si arrivi all'archiviazione. Mi sembra eccessivo che un medico finisca in tribunale perché si è sottratto a una prestazione estranea alla sua morale».
Corriere della Sera 11.4.08
Dibattito Il Vaticano prepara un convegno. Mentre si discute di selezione sociale e di totalitarismo
Charles Darwin, ultimo processo
Ravasi: sintesi tra evoluzione e disegno intelligente. Boncinelli: un naufragio
di Dario Fertilio
Santo o dannato, questo Darwin? Santo, risponde la «Preghiera darwiniana» di Michele Luzzatto, fresca di stampa da Cortina, dove il naturalista inglese viene accostato a Giacobbe e Giobbe. Dannato, suggeriscono invece alcune pagine sulfuree che gli dedica Hannah Arendt nel suo celebre saggio sulle «Origini del totalitarismo», da poco ristampato per Einaudi. Parole come piombo fuso, gli rovescia addosso la filosofa allieva di Heidegger: secondo lei l'evoluzionismo di Darwin, con la sua spietata «legge del movimento», sarebbe insieme a quella marxista una matrice non solo del razzismo, ma anche del totalitarismo e del terrore rivoluzionario. Giacché «è il movimento stesso che individua i nemici dell'umanità contro cui scatenare il terrore».
Con l'avvicinarsi delle celebrazioni per i 200 anni dalla nascita — cadranno nel febbraio del prossimo anno — si cerca una via di mezzo fra salvezza e dannazione per il vecchio Sir Charles. Fu buono o cattivo maestro? La domanda, al di là del suo rapporto con il totalitarismo, tocca la posizione della Chiesa, la conciliabilità fra evoluzione e ruolo di Dio. In questa luce bisogna vedere l'annuncio di monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio pontificio per la cultura: si svolgerà in Vaticano un convegno internazionale sull'evoluzionismo e le sue teorie, come parte di un «piano più generale di dialogo tra scienza e teologia ». Si tratterà di un evento di portata mondiale, «preparato da workshop sia a Roma che negli Stati Uniti», con lo scopo di ricucire i rapporti tra Chiesa e mondo scientifico, turbati da certi atteggiamenti critici del Papa nei confronti delle teorie di Darwin (giudicate «non completamente dimostrabili »). Più in generale, lo scopo dell'iniziativa di Ravasi sembra essere quella di ridare dignità culturale alla teoria del «disegno intelligente» posto alla base della vita, con l'intervento decisivo di Dio.
Certo il dibattito su Darwin non si limita a questo. Si discute, ad esempio, su quel «darwinismo sociale» che ispirò filosofi come Herbert Spencer; su quelle teorie della selezione naturale e della «sopravvivenza del più adatto» che oggi suonano vagamente sinistre, ma al tempo in cui vennero formulate si proponevano come ferree leggi di natura. Ispirando memorabili tirate letterarie, come quella del «Martin Eden» di Jack London: «L'antica legge dell'evoluzione domina ancora. Nella lotta per l'esistenza, il forte e la progenie del forte tendono a vivere, mentre il debole e la progenie del debole sono schiacciati e tendono a perire. Questa è l'evoluzione. Ma voi, schiavi, sognate di una società dove la legge dello sviluppo sarà annullata...».
Appunto l'applicazione del darwinismo alle scienze sociali è criticata oggi da Alberto Martinelli, per lo meno nella sua variante americana del primo novecento, individualista e liberista: «È l'idea di una lotta senza esclusione di colpi, attuata da robber barons, basata sull'idea che il più adatto a sopravvivere sia colui che riesce ad accumulare maggiori ricchezze». Bastano simili idee per sospingere Darwin fra i cattivi maestri? Secondo Martinelli «l'applicazione delle sue teorie ai fenomeni umani si era rivelata adatta allo spirito di frontiera, tipico di un Theodore Roosevelt. Ma ancor oggi — ricorda — nella cultura degli Stati Uniti la definizione di loser, di perdente, equivale a una sanzione sociale durissima». Né le cose sono andate meglio con il darwinismo sociale europeo, quello di un Ludwig Gumplowicz «che interpretò la lotta di razza come essenza del processo storico e fornì armi al nazismo, al colonialismo, all'imperialismo ». Eppure, nonostante tutto, «buon maestro e grande scienziato» secondo Martinelli resta Darwin. Lo difende anche sul versante del totalitarismo: «Le affermazioni della Arendt a suo carico sono eccessive e schematiche, i veri modelli di quei regimi erano Gobineau, Chamberlain, Gumplowicz». Non la pensa proprio così invece la filosofa Simona Forti, studiosa della Arendt. «Il problema non è il contenuto di verità del darwinismo, ma il modo in cui è stato utilizzato all'interno della pratica del potere». Ora, «il totalitarismo usa il sapere biologico, benché non si possa stabilire una filiazione diretta con Darwin». Resta il fatto, aggiunge la Forti, che «la biopolitica è l'orizzonte del darwinismo sociale, dove la vita intesa come totalità biologica entra nel campo della politica». C'è un punto oltre il quale il pensiero di Darwin genera mostri? «Concordo su questo» risponde: «Guardare con occhi critici al darwinismo sociale equivale a criticare qualsiasi tentativo di tradurre un sapere scientifico in una teoria politica sull'uomo».
E poi c'è il punto più delicato del darwinismo, quella teoria dell'evoluzione naturale che sembrerebbe escludere l'intervento di Dio. Riuscirà il pensiero religioso, e magari anche il convegno progettato dall'arcivescovo Ravasi, a placare i contrasti? È profondamente scettico Edoardo Boncinelli: «Qui si parla di due realtà completamente diverse. Il neodarwinismo è una teoria scientifica che vuole analizzare i fenomeni naturali in termini di meccanismi precisi e riproducibili, cioè scientifici. L'idea di un disegno intelligente divino, invece, è metafisica della specie più brutta». In che senso? «Si antepongono i propri desideri e idiosincrasie alla realtà. Ma non c'è nessuna base per crederci, se non il fatto che a tutti noi fa piacere pensare che sia così». È drastico, Boncinelli, sulla progettata iniziativa vaticana: «Un tentativo destinato al naufragio o, peggio ancora, alla menzogna ». Esattamente il contrario di quanto crede Paolo De Benedetti, docente di giudaismo alla facoltà teologica di Milano: «Non c'è nessun conflitto fra scienza e sistemi attuali di lettura della Bibbia, attuati con metodo storico-critico. Del resto il racconto biblico attinge a sua volta alla mitologia mesopotamica: l'importante non è dire che le cose siano andate così o all'opposto, dal momento che le stesse parabole di Gesù non vanno prese in senso storico-letterario ». Dunque, il tentativo di conciliazione fra Darwin e la Bibbia può riuscire? «Certo, è conciliabile l'incontro fra una concezione mitica — nel senso di un racconto fondato sulle categorie culturali dell'epoca — e una scientifica, che come tale poggia sempre su ipotesi e non su certezze definitive».
Già, ma proprio qui non rischia di cascare l'asino? Come valutare l'allarme lanciato da un pensatore liberale, come François Fejtö: «La difesa di una verità scientifica suscita a volte la medesima passione di un articolo di fede, come testimoniano la storia del darwinismo, della psicoanalisi e della teoria della relatività»? Vero, riconosce Paolo De Benedetti, «ma il rischio di un dogmatismo fideistico è più presente nei divulgatori che negli scienziati». Vero anche per Edoardo Boncinelli, con una precisazione: «Il rischio di dogmatismo c'è sempre, l'uomo ha bisogno di odiare».
Libero news magazine 11.4.08
Valentina, l'amante perfetta
di Sara Gambèro
La Lodovini, da La Giusta Distanza, per cui ha ottenuto la nomination al David di Donatello al film indipendente Riprendimi, in cui interpreta lo scomodo ruolo dell'altra.
A Valentina Lodovini, attrice toscana (di San Sepolcro, provincia di Arezzo) in ascesa piacciono tanto tre cose: il rossetto e i tacchi alti, con cui si sente super femminile, e "stupire". Motivo per cui ama cambiare continuamente genere e registro nel suo lavoro: dai ruoli comici a quelli drammatici, dai film d’autore (Mazzacurati, Sorrentino, Comencini) a quelli indipendenti a basso costo. Come Riprendimi, dove interpreta Michela, l'amante del protagonista. «Ho accettato questo ruolo per l’urgenza del racconto, per le idee nuove contenute nel film e per il fatto che ci fosse una produttrice (Francesca Neri, ndr) che finalmente rischiava. Cosa di cui abbiamo un gran bisogno, in Italia».
Quanto ti somiglia Michela, il tuo personaggio in Riprendimi?
Non mi assomiglia per niente, però l’ho amata tanto, perché pur sembrando apparentemente molto dura e poco simpatica - è pur sempre l'"altra", quella che porta via il marito o fidanzato -, in realtà ha solo paura a ricominciare. Anche lei è stata abbandonata, ha sofferto e ha questa resistenza a lasciarsi andare che trovo molto tenera e in qualche modo riconosco. D'altronde quando uno si scotta e viene ferito, poi ha molta paura a riaprirsi e lasciarsi andare.
Tu potresti mai innamorarti di uno come Giovanni, che abbandona moglie e figlio per mettersi con Michela con estrema facilità?
Credo che sarebbe difficile. Anche perché Giovanni è uno che non sa bene cosa vuole dalla vita e io, Valentina, mi sentirei completamente persa con uno così. Sarebbe il delirio, ho bisogno di uno che mi faccia sentire più sicura.
Perché hai scelto di partecipare a un film come questo, indipendente e rischioso?
Per tre motivi essenzialmente: per l’urgenza del racconto, che quando l’ho letto ho sentito che non era scritto ma vissuto, per le idee nuove contenute nel film e per il fatto che ci fosse una produttrice che rischiava finalmente, cosa di cui abbiamo tanto bisogno in Italia. Poi mi piaceva che Anna (Negri, la regista, ndr) fosse stata la prima a propormi il ruolo dell’altra. Che probabilmente non starà molto simpatico a tante donne, ma mi sembrava giusto fare.
È vero che sul set c’era un’atmosfera di grande libertà e coinvolgimento tra di voi?
Guarda, mai come questa volta ho vissuto il cinema come gruppo ed è stato molto bello. Un gruppo di persone che lavoravano insieme per raccontare una storia, con pochi mezzi e grosse difficoltà. Anche attoriali, perché io dovevo fingere di essere una persona comune ripresa da una telecamera. Però è stato bello, intenso, frenetico e per niente ovvio. E comunque, ripeto, io credo molto all’idea di cinema come gruppo e in questo lavoro è stato molto tangibile questo aspetto.
Hai fatto un grande lavoro di preparazione prima per arrivare all’alto grado di spontaneità che si vede nel film?
Sì, ho provato molto prima per rendere questa naturalezza.
Parlaci della tua candidatura al David di Donatello per il personaggio della Giusta distanza di Mazzacurati
Sono lusingata, incredula, stordita. È una emozione indefinibile. Non me ne rendo ancora conto, però sono così felice e orgogliosa di averla ricevuta per La giusta distanza che è un film che ho amato tanto. Non credevo fosse un capitolo completamente chiuso, ma di certo non mi aspettavo mi portasse fino ai David!
Hai già in progetto qualcosa di nuovo?
A giugno comincerò il film di Marco Risi su Giancarlo Siani.
Ci puoi anticipare qualcosa del tuo personaggio?
Non dico nulla, se non che è un prodotto molto interessante, commovente. Poi è una storia vera.
Ma tu chi sarai?
La protagonista femminile.
E chi farà Giancarlo Siani?
Credo Libero de Rienzo, anche se non so se è confermato. Diciamo che dovrebbe essere lui…
La giusta distanza, Riprendimi, il film su Siani. Ruoli leggeri, più comici, mai?
In realtà sono stata protagonista di Pornorama, il film di Marc Rothemund, regista della Rosa Bianca. L’ho girato tra Berlino e Monaco ma per ora è andato solo in Europa, non so se arriverà in Italia.
Di cosa parla?
È una commedia brillante e divertentissima e io lì sono proprio comica! Poi anche il prossimo film dopo quello di Marco Risi sarà una commedia. Voglio sfuggire da qualunque etichetta, ragione per cui ho accettato anche questo film, Riprendimi.
In che senso?
Perché il ruolo dell’altra non me lo aveva mai offerto nessuno, e volevo rischiare, fare una cosa nuova.
Una domanda indiscreta: sei mai stata l’altra nella tua vita?
No, mai.
Indossi sempre delle scarpe stratosferiche, ci ho fatto caso già al Festival del cinema di Roma (indossa un paio di décolleté dal tacco altissimo, nere e verdi, ndr). È una tua passione?
No, macchè (ride, ndr), in realtà non guardo per nulla queste cose. La moda mi piace nella misura in cui mi diverto a stupire gli altri. Infatti chi lavora con me non mi riconosce mai: un giorno arrivo in tuta, l’altro con i tacchi altissimi. Mi diverte stupire e sono fortunata perché ho un'ampia scelta di abiti e accessori.
Ma i tacchi ti piacciono?
Moltissimo, mi fanno sentire donna. Un donna sicura, con rossetto rosso e tacco alto!
Che rapporto hai con la rete?
Non sono molto tecnologica, pensa che amo ancora scrivere le lettere vecchia maniera. E ho una macchina fotografica con rullino. Però capisco che per il mio lavoro la rete sia un mezzo molto utile. Al tempo stesso però ritengo possa diventare anche molto pericoloso e un po’ mi spaventa, perché attraverso internet si può sapere tutto di tutto, scoprire anche cose non belle. Diciamo che lo uso soprattutto per lavoro, per documentarmi.
Hai un tuo sito, dove curi il rapporto con i fan?
No, anche perché mi sento molto più spettatrice o studente che attrice. Mi devo ancora abituare all’idea che si sta realizzando il mio sogno.