venerdì 11 aprile 2008

Repubblica 11.4.08
L’idea del male nei rapporti sessuali

Gentile Augias, ho letto su la Repubblica l'articolo «No alla pillola del giorno dopo. Pisa, la Procura apre un'inchiesta» e sono riuscita a dare voce a un interrogativo che mi girava nella mente da tempo. Se le leggi servono a regolare i rapporti fra gli individui in modo che non prevalga il diritto dell'uno su quello dell'altro (ovvero, il sopruso), com'è possibile che esista, soprattutto nel caso della pillola del giorno dopo, la possibilità dell'obiezione di coscienza? Come si può opporre la propria coscienza a una scelta che riguarda un'altra persona ed è tutelata da una legge dello Stato? La Procura infatti ha aperto un'inchiesta ma anche il ministro della salute Livia Turco non è stata chiara. Ribadisce, sì, che la pillola del giorno dopo non è una pillola abortiva, però non afferma che allora non esiste diritto all'obiezione di coscienza; dice solo che dovrebbe essere garantita la presenza di personale e medici non obiettori nei pronto soccorso e nelle guardie mediche. Il ragionamento dovrebbe comunque estendersi anche al diritto all'aborto, perché il riconoscimento dell'obiezione di coscienza nelle strutture pubbliche va sempre a detrimento del singolo che si vede negato un diritto tutelato dalla legge. Come mai è così esteso il diritto di obiezione solo nel caso di leggi che riguardano una scelta delle donne?
Susanna Sinigaglia susanna.sinigaglia@inwind.it

Ogni giorno ricevo lettere di donne costrette all'umiliante serie dei rifiuti, di medico in medico, di ospedale in ospedale, per ottenere la prescrizione ad un medicinale che in Europa, ricordo, viene spesso distribuito nei dispensari delle scuole. La pillola del giorno dopo è un contraccettivo non un abortivo, tecnicamente non è diverso dalla pillola presa ogni giorno che impedisce l'ovulazione o da un qualsiasi contraccettivo meccanico maschile o femminile che blocca il cammino dello spermatozoo verso l'ovulo. A questo dunque si oppongono gli obiettori: la scelta consapevole di una donna che non desidera trasformare un rapporto in gravidanza.
Una materia nella quale nessuno ha diritto di interferire. A meno di non voler tirare in ballo la dottrina che vieta i rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione. Ma questa (ammesso che sia ancora in vigore) è materia di fede. Era il motto ricamato sulle camice da notte delle bisnonne che recitava «Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio». Uno degli aspetti vergognosi di questa trafila è la sua ipocrisia. Non si ha coraggio di affrontare frontalmente il problema perché tutti sanno che uno scontro diretto sarebbe respinto dalla maggioranza degli italiani. Allora si lavora sui fianchi, si cerca il logoramento lento, la malizia trasversale, il diniego motivato dalle ragioni più varie non escluse quelle della convenienza spicciola, oppure della battaglia ideologica. Dimentichi che è in ballo l'applicazione di una legge la quale solo nei paesi islamici non ha la precedenza sulla valutazione del possibile `peccato'.

Repubblica 11.4.08
L'opera narrativa di Suhrawardi
di Pietro Citati


Compose anche alcuni bellissimi e singolarissimi testi brevi che sono insieme apologhi e trattati: sarebbero piaciuti a Franz Kafka
Una notte si sentì avvolto da una nuvola di letizia e gli apparve Aristotele: lo incitava a non contentarsi della conoscenza ordinaria
Il capolavoro filosofico si intitola "La sapienza dell´illuminazione" dettata dallo Spirito Santo in una meravigliosa giornata
Il filosofo nacque nel 1155 in Iran e compì i suoi studi a Isfahan dove era ancora vivo l’insegnamento di Avicenna. Poi vagabondò senza fine e morì o forse fu ucciso a trentasei anni

Shihab al-din Yahya Suhrawardi nacque, nel 1155, a Suhraward, nella parte settentrionale dell´Iran, dove esistevano ancora gruppi di Zoroastriani, fedeli all´antica religione della Persia. Studiò logica, filosofia e giurisprudenza a Maragha: poi compì gli studi a Isfahan, dove era vivo l´insegnamento di Avicenna, il più famoso filosofo persiano. Uno dei suoi amici disse di lui: «Di quale fuoco, di quale splendore d´aurora brilla il giovane Suhrawardi! Non ho mai incontrato nella mia vita qualcuno che gli assomigli. Ma temo per l´eccesso della sua foga, e per la sua imprudenza. Temo che questo diventi la causa della sua perdita». L´amico non aveva torto.
Anche nelle opere filosofiche di Suhrawardi avvertiamo un´esaltazione, uno slancio lirico, un desiderio di venire consumato dal fuoco della luce suprema.
Poi Suhrawardi lasciò gli studi, e cominciò a vagabondare per le strade della Siria e dell´Anatolia, indossando le vesti bianche e nere dei Sufi: vagabondare senza fine per il mondo, restare in un luogo qualche giorno o qualche mese e poi riprendere il cammino, gli sembrava l´unico modo per imitare il passo degli Angeli. Rimase qualche tempo presso due corti anatoliche. Agli inizi del 1190 raggiunse Aleppo, dove il giovane principe al-Malik al-Zahir, figlio del sultano Salah al-din, il Saladino dei Crociati, ebbe una profonda amicizia per lui. Ogni mattina, all´alba, Suhrawardi lasciava la propria stanza per contemplare il sole che sorge: così conosceva indirettamente Dio, perché il sole rappresenta, in terra, l´eco della Luce delle luci.
Alla corte di Aleppo, i dottori della legge l´accusarono di sostenere che l´epoca della profezia non si era conclusa con Maometto, il «Sigillo dei profeti»: mentre Suhrawardi diceva che la «linfa» divina fa riapparire sempre di nuovo tra i fedeli, anche quando il tempo dei profeti è finito, il fiore dell´Ispirazione segreta. I dottori della Legge accusarono Suhrawardi presso il Saladino: «Se lo lasci vivere, corromperà la fede di tuo figlio». In quest´occasione il Saladino non mostrò il volto mite e cavalleresco, che gli attribuirono i crociati cristiani. Ordinò al figlio di far uccidere Suhrawardi. Il figlio si rifiutò per due volte, e cercò disperatamente di difendere l´amico. Infine cedette. Il 29 luglio 1191, a trentasei anni, Suhrawardi morì: non sappiamo come. Qualcuno disse che venne strangolato: altri che venne decapitato o arso vivo o ucciso per fame; altri ancora che egli stesso si lasciò morire d´inedia. Così ripeté il destino di al-Hallaj, il suo vero maestro, decapitato ed arso a Baghdad, quasi tre secoli prima, per incitamento di altri maestri della legge.
Suhrawardi aveva composto quattro anni prima il suo capolavoro filosofico, La sapienza dell´illuminazione (tradotto in francese da Henry Corbin, sotto il titolo Le livre de la sagesse orientale, Verdier). Come egli raccontò, lo Spirito Santo ispirò il suo cuore in una giornata di meravigliosa bellezza. I viaggi lo costrinsero a stendere il libro in molti mesi; e lo terminò una sera del mese di Giomada II, nell´anno 582 dell´Egira (1187), quando i sette pianeti si trovavano congiunti nel segno della Bilancia. Era certo - diceva orgogliosamente - che Dio aveva divulgato, attraverso di lui, qualcosa che né gli antichi né i moderni avevano compreso. Suhrawardi cercava di far riapparire «La Saggezza dell´antica Persia»: ricordava la sapienza di Ermete Trismegisto, gli antichi filosofi greci, il «nostro maestro Platone», i pensatori neoplatonici, la Gnosi; e naturalmente il Corano, e la filosofia di Avicenna, dalla quale cercava tuttavia di distaccarsi. Aveva il sentimento di appartenere a una famiglia spirituale dispersa attraverso i tempi e gli spazi, ma che un legame invisibile rendeva solida come i rami di un grande albero. Secondo un discepolo, egli rinnovava ciò che i cicli del tempo avevano corrotto, faceva riapparire ciò che le età avevano cancellato, e risuscitava ciò che era morto e abolito.
Una notte, Suhrawardi si sentì avvolto da una nuvola di letizia, mentre una figura umana si disegnava chiaramente davanti a lui. Era il primus Magister, Aristotele, in una forma meravigliosamente bella. Gli diceva, parlando un linguaggio platonico: «Non accontentarti della conoscenza ordinaria. Devi superarla, raggiungendo la conoscenza unitiva».
Suhrawardi comprese che i suoi libri dovevano fondere filosofia e mistica. Coltivava le sottigliezze, le raffinatezze e le astuzie, che Platone, i neoplatonici e Avicenna gli avevano appreso: ma questa cultura era morta, se non si concludeva in un´esperienza mistica. Nel cuore della civiltà islamica, Suhrawardi voleva creare la filosofia della luce. Lassù, sul gradino più alto, sta La Luce delle Luci: la luce necessaria e assolutamente pura. Essa emana «la luce più prossima», l´Intelletto universale, identificato con l´antico arcangelo iranico Bahman: dalla quale derivano, con uno slancio che non conosce interruzioni, tutte le luci angeliche e spirituali, via via meno pure, fino a scendere al livello oscuro della materia.
Con quale ardore, Suhrawardi rappresenta questa incessante emanazione di luce, che attraversa lo spirito degli eletti. Quando Dio purifica il loro cuore, essi conoscono i primi lampi, che appaiono all´improvviso, accecano come spade, dividono in due il cuore ed il corpo, e scompaiono. Poi i lampi aumentano, si sovrappongono, producono forti tremiti nelle membra, toccano il cervello, il dorso e le spalle, mentre il sangue batte più intensamente.
Nella stazione successiva subentra, nell´eletto, la presenza pacificante. Ecco - dice Suhrawardi - «una luce estremamente dolce, senza somiglianze col lampo, accompagnata da una condizione di allegria sottile e tenera». Allora il filosofo-mistico legge nella mente altrui: avverte le cose nascoste, scorge forme tenui e leggerissime, osserva luci mai viste, ascolta i richiami della Luce delle Luci. Qualche volta, per l´eccesso della gioia spirituale, viene meno. Infine, nell´ultima stazione, ha luogo la grande estinzione. L´animo dimentica sé stesso, perde ogni conoscenza di sé, dimentica la propria dimenticanza, e si scioglie nello splendore divino.
***
Insieme agli scritti filosofici, Suhrawardi compose alcuni bellissimi e singolarissimi testi brevi, che sono insieme apologhi, trattati, emblemi, racconti.
Sarebbero piaciuti a Kafka, specie nel periodo del Messaggio dell´imperatore e in quello degli Aforismi di Zurau. Si tratta di undici testi, pubblicati sotto il titolo Il fruscio delle ali di Gabriele. Racconti esoterici (a cura di Nasrollah Pourjavady, traduzione di Sergio Foti, Mondadori, Islamica, pagg. XXII-230, euro 16). In questi racconti scorgiamo con occhi lucidissimi la luminosa e trasparente «città di non-dove», nella quale non incontriamo nessuna traccia di spazio e di tempo. Il fuoco dell´immaginazione visionaria - nutrita dall´antica tradizione persiana - supera ogni limite, mentre l´intelligenza filosofica osa proporre ipotesi sempre più ardite e sconvolgenti, e gioca liberamente con l´assoluto.
Un sovrano possedeva un giardino che in nessuna stagione mancava di piante profumate, di vegetazione e di acque correnti: alberi alti e snelli levavano le cime verso il cielo; e ogni specie di uccelli facevano intendere le loro modulazioni dall´estremità dei rami. Tutte le gioie che possono occupare il pensiero, e le gioie che possono offrirsi all´immaginazione, vi erano raccolte. Un giorno, il sovrano plasmò degli esseri umani, prima della loro nascita, nelle forme di pavoni dalle penne foltissime e dai colori variegati e sontuosi. Li dispose nel giardino. Lì essi ascoltavano i discorsi degli altri uccelli. Nessuna sillaba sfuggiva alla loro comprensione, nessun canto celava i propri segreti. Conoscendo la lingua degli uccelli, essi conoscevano la lingua dei misteri: intendevano i disegni di Dio, il futuro del mondo, la voce simbolica dei colori e dei suoni.
Poi venne la caduta, che Suhrawardi racconta in modi diversi. Fu una decisione del Sovrano? Oppure una trappola posta dal Destino? Un giorno i pavoni penetrarono in un bosco, dove dei cacciatori avevano teso le reti. Quando i cacciatori li scorsero, li chiamarono con un fischio sottile, penetrante e lusinghiero. Gli uccelli non avevano mai inteso una voce umana, e furono attratti da quel suono sconosciuto, che sembrava offrire nuovi piaceri all´immaginazione. Senza provare alcuna inquietudine, caddero nelle trappole. Gli anelli si chiusero strettamente sui loro colli, le reti impacciarono le loro ali, le corde si aggrovigliarono attorno alle loro zampe. Cercarono di liberarsi: gridarono implorando aiuto; ma nessuno corse in soccorso. I cacciatori li portarono in un paese straniero, dove li cucirono in rozze peli di cuoio, in modo che dimenticassero i colori delle proprie penne e la visione della propria bellezza. Poi chiusero ognuno di essi in una cesta. Il cielo scomparve, la luce fu ottenebrata. Da una fessura strettissima, una mano gettava ogni giorno un poco di miglio.
Molto tempo passò. Chiusi nella stretta cesta, avvolti nel cuoio grossolano, i pavoni persero il ricordo del giardino dove avevano trascorso la giovinezza. Quando si guardavano intorno, non vedevano che oscurità, appena interrotta da qualche bagliore, e ripugnanti pelli di cuoio. Finirono per convincersi che non esistevano luoghi più grandi del fondo del cesto; e se qualcuno avesse parlato loro del colore degli alberi, o delle loro penne verdi ed azzurre, avrebbero risposto che erano soltanto favole o menzogne. Eppure, talvolta avevano dubbi. Quando un soffio di vento portava l´odore lontano degli alberi, il profumo delle rose, delle viole e dei gelsomini, i pavoni avvertivano una dolcezza misteriosa. Quando sentivano le remote modulazioni degli altri uccelli, rinasceva la medesima nostalgia.
Una specie di ansia e di commozione si impadronì di loro. Non sapevano cosa fossero quei profumi né cosa significassero quelle voci, smarrite nei recessi della memoria. Erano turbati, e desideravano volare in un luogo lontano. Passò altro tempo. Un giorno qualcuno allargò le fessure del cesto, e i pavoni videro di nuovo sé stessi, osservarono i propri colori, il giardino e gli alberi, riconobbero i canti, le voci, lo spazio dove volare e viaggiare. Riacquistarono la memoria del loro passato, e sentirono la miseria della condizione presente. Quella notte, la mano sconosciuta liberò i pavoni anche dalla prigione di cuoio. Mossero timidamente le ali. Avevano nostalgia del cielo, e lo guardarono fissamente.
Quando videro ruotare le due Orse e contemplarono la spiga luminosa della Vergine e la fiamma tremula del Leone, pensarono di aver ritrovato la patria dimenticata. All´alba, i pavoni si trovarono sul margine del deserto, dove cominciava il «paese di non-dove». In quel momento scorsero una persona venire verso di loro, col passo del viandante esercitato alle lunghe fatiche. Era un giovane dal volto luminoso, con le guance appena tinte di porpora, i capelli di neve che scendevano in lunghe pieghe sulle spalle, e due grandi ali. «O giovane - gli chiese uno dei pavoni - , dove vai?». «Giovane? - rispose il viandante - ti sbagli se mi chiami così. Io sono uno dei più antichi figli della creazione, e da migliaia di anni percorro le valli e i deserti. Il mio nome è Gabriele». Gli uccelli ricordarono cosa avevano appreso prima di esistere. L´angelo Gabriele era il decimo Intelletto emanato dalla Luce delle Luci.
Governava il mondo degli elementi e delle anime umane, e faceva parte di questo mondo. Qualcuno tra gli uccelli sapeva che era l´angelo custode di ciascuno di loro. Mentre i raggi del sole illuminavano la terra, i pavoni si accorsero che le ali del viandante erano diverse. L´ala destra era bianchissima. Sopra quella sinistra, si stendeva una macchia rossastra, simile alla macchia di porpora tenebrosa, che copre una parte della luna. «La mia ala destra - disse Gabriele - è sempre rivolta verso la luce del cielo. Quando la muovo, nascono tra gli uccelli le anime luminose, i profeti, le pure visioni spirituali, i sogni rivelatori. L´ala sinistra dimostra che anch´io, come voi, sono stato gettato nel pozzo oscuro del destino. Appena un leggerissimo fruscio della mia ala scende nel vostro mondo, accadono gli eventi, i fenomeni, i miraggi, le illusioni, i casi, i gridi di sventura. Essa è rossastra perché la porpora è un colore intermedio. Osservate il tramonto e l´alba. Entrambi sono rivolti sia verso la luce del giorno sia verso la notte; e tanto il crepuscolo del mattino quanto quello della sera ci paiono irraggiati di porpora. Anche voi, divisi tra la luce e la tenebra, irraggiate ai miei occhi un riflesso di porpora».
Gabriele scomparve. La ricerca felice e disperata dei pavoni continuò. Essi intesero la musica delle stelle: un suono che giungeva all´udito come il pauroso fragore di una catena di metallo trascinata sopra una massiccia scogliera. I muscoli del corpo sembrarono lacerarsi, e le loro giunture sciogliersi per la terribile estasi. Poi i pavoni si purificarono nell´acqua della sorgente della vita. Col becco si liberarono dalle penne, e presero il volo, come se soltanto rinunciando allo splendore sontuoso del piumaggio, alla bellezza che avevano tanto amato, potessero raggiungere la meta dei loro desideri.
Le ali dei pavoni batterono sempre più stancamente nello spazio, finché toccarono la montagna di Qaf, la quale simboleggiava, per i persiani, la nona sfera celeste. Avevano ritrovato la patria: potevano vedere in basso, come zaffiri e smeraldi e ametiste e topazi incastonati nel cielo, le stelle e le costellazioni: le due Orse e Sirio, il Dragone, lo Scorpione, Arturo, Boote, la Vergine, Andromeda, Ariete ed i Pesci. Rimasero sotto l´ombra della montagna di Qaf mille anni - mille anni che, per La Luce delle Luci, non sono più lunghi di un mattino.
Infine conobbero il Simorgh: un immenso uccello dalle ali sfolgoranti e dalla lunghissima coda variopinta, che riuniva in sé le proprietà di ogni animale conosciuto - grifone ed usignolo, aquila e leone, dragone, tigre ed antilope - e fondeva nel suo sguardo la dolcezza e il rigore, la crudeltà e la benevolenza. Portava molti nomi: «la grande luce», «la più prossima delle luci», l´arcangelo zoroastriano Bahman, l´Intelletto universale. Era la prima emanazione luminosa che Dio aveva gettato fuori di sé. I pavoni lo osservarono attentamente; e di colpo si identificarono con lui. Il lungo viaggio spirituale era terminato. I pavoni non esistevano più. Un nuovo Simorgh volava nel cielo.
Nessun mistico aveva forse proposto un´immagine così ardita come quella di Suhrawardi. Al-Hallaj aveva proclamato: «io sono Dio»: ma voleva dire che il suo io era stato cancellato, di lui non restava nemmeno un´ombra, e in quello spazio vuoto abitava Dio. Suhrawardi osò immaginare che i pavoni (o gli uomini), esseri così miseri, che avevano vissuto prigionieri nell´oscuro carcere di cuoio, senza vedere nient´altro che una cesta, si identificavano con la prima emanazione luminosa di Dio. La loro ombra sfiorava La Luce delle luci.

Corriere della Sera 11.4.08
Contraccezione. L'assessore Montaldo (Pd): un ginecologo non obiettore sempre in servizio
L'ordine all'ospedale del cardinale: prescriva la pillola del giorno dopo
La Regione Liguria scrive al Galliera, presieduto da Bagnasco
Il caso dopo la denuncia di alcune donne sull'impossibilità di ottenere il farmaco. L'ospedale: verificheremo
di Erika Dellacasa


GENOVA — «L'ospedale Galliera deve assicurare la prescrizione della pillola del giorno dopo, come tutte le Asl liguri, non ci sono eccezioni », l'assessore alla sanità della Regione Liguria, Claudio Montaldo (Pd), sta scrivendo un nuovo capitolo dei rapporti tra la Regione e l'ospedale presieduto dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. E' successo che alcune donne abbiano segnalato la difficoltà di ottenere la prescrizione presso il Galliera. L'assessore ha chiesto spiegazioni e ha avuto dal direttore sanitario del nosocomio una risposta che, spiega Montaldo, «in sostanza attribuisce la responsabilità a un infermiere che a chi chiedeva di vedere il medico ha risposto di rivolgersi altrove. E questo perché il medico di turno era obiettore di coscienza e avrebbe rifiutato la pillola». In fondo l'infermiere cercava solo di evitare alla donna una perdita di tempo.
Nella schermaglia con l'assessorato, il Galliera ha inviato ieri mattina una lettera in cui spiega di aver aperto «una verifica interna» sull'episodio e di aver rinnovato le disposizioni affinché le donne vengano in ogni caso indirizzate dal medico che «farà le valutazioni necessarie ». In questo gioco di fioretto, però, l'assessore non ci sta a passare da ingenuo: «Ho mandato una lettera al Galliera con cui in sintesi dico che devono garantire la presenza di un medico non obiettore di coscienza in ogni turno. Nella lettera chiedo che il Galliera mi informi su come intende attuare questa direttiva regionale che è valida per tutte le Asl».
Al di fuori del linguaggio burocratico con cui sono stilate tutte le comunicazioni fra assessorato e ospedale, il succo è che il Galliera deve organizzarsi per dotare il pronto soccorso di un ginecologo non obiettore che possa prescrivere — sempre salve le valutazioni sanitarie — la pillola del giorno dopo. L'assessore non aspetta un sì o un no, la direttiva impegna il Galliera a dare seguito alle disposizioni della Regione, l'ospedale deve ora informare l'assessorato su «come » intende attuarle.
Fino a pochissimo tempo fa il Galliera non aveva ginecologi non obiettori di coscienza, solo ultimamente sono stati assunti due medici non obiettori ma la politica dell'ospedale, il cui consiglio di amministrazione è presieduto dal cardinale Bagnasco e che ha avuto come ex presidenti Tettamanzi e Bertone, è contraria all'interruzione di gravidanza. Non è la prima volta che le linee guida della Curia si scontrano con la politica sanitaria regionale in tema di applicazione della 194 e di fecondazione assistita. La soluzione attuale, per le interruzioni di gravidanza, è di praticarle altrove e con personale di un altro ospedale, l'Evangelico. «Ma il Galliera — dice l'assessore— è convenzionato con il servizio sanitario pubblico e non può di fatto negare la possibilità di prescrizione della pillola del giorno dopo».

Corriere della Sera 11.4.08
Prima pronuncia Chiesta l'archiviazione di una denuncia per omissione di atti d'ufficio a Roma. Deciderà il gip
Ma il pm: simile all'aborto, si può rifiutare
di Laura Martellini


ROMA — Per la prima volta, tocca a un magistrato pronunciarsi sul tema della pillola del giorno dopo: il 5 giugno il gip del Tribunale di Roma, Claudio Mattioli, dovrà decidere se archiviare o meno l'inchiesta per omissione di atti di ufficio nata due anni fa, quando una donna presentò denuncia contro ignoti per essere stata respinta da due ospedali dove aveva chiesto le venisse prescritta la pillola del giorno dopo. Il pm Angelantonio Racanelli nel luglio 2006 ha sollecitato l'archiviazione del procedimento, perché «non può escludersi alla luce degli accertamenti svolti la sussistenza della causa di giustificazione (l'obiezione di coscienza alla somministrazione della pillola del giorno dopo) quanto meno sotto il profilo putativo». Anche perché il pm non escluderebbe «la possibilità che tale tipo di pillola possa essere una pratica abortiva ». Infine, «non vi è alcun elemento certo — dice il pm — per ritenere che il personale medico in servizio sia stato reso edotto della richiesta della donna». E nella premessa, il pm ritiene necessario un «intervento legislativo » in materie. Come accadde per il caso Welby. Replica Amedeo Bianco, presidente degli Ordini dei medici (Fnomceo): «Deve prevalere il giudizio del medico, non servono altre leggi».
Alla richiesta del pm si è opposto l'avvocato della donna, Alessandro Gerardi, affiancato dai Radicali romani e dall'associazione Luca Coscioni che giudicano il caso esemplare di un'«arretratezza normativa rispetto agli altri Paesi europei, dove la pillola del giorno dopo viene data senza ricetta ». Per Gerardi «non ha senso parlare di obiezione di coscienza di fronte ad un farmaco sul mercato da 8 anni, contraccettivo e non abortivo». L'udienza, fissata per oggi, è stata rimandata al 5 giugno per un difetto di notifica. Non ne era stata data notizia alla persona offesa: una biologa di Roma Nord, Francesca Capone, all'epoca 35enne, che di quella vicenda dice di conservare un solo, forte ricordo: «La sensazione di rabbia». Al «no» del pronto soccorso ginecologico del Policlinico Umberto I, era seguito quello del San Giovanni, dove la donna si era recata di sabato: chiusi i consultori, difficilmente rintracciabili i medici di base, un'impresa procurarsi la ricetta. «Alcuni infermieri fecero da filtro — ricorda — spiegandoci che in quel momento non c'era nessuno disposto a prescriverci il farmaco: "Meglio andare di lunedì al consultorio". Ma come è noto la pillola ha efficacia entro 72 ore dal rapporto». Ricorda ancora, Francesca, le parole sarcastiche di un ausiliario: «Speriamo che il tuo ragazzo abbia gli spermatozoi non fertili, così non resti incinta». E l'indignazione crescente. «Solo al San Camillo — conclude — ho ottenuto la ricetta.
Il ministro della Salute Livia Turco ha commentato: «La legge è molto chiara. L'obiezione di coscienza è garantita dalla 194. Ma la pillola del giorno dopo è un anticoncezionale d'emergenza, non un farmaco abortivo ». Mentre Eugenia Roccella, candidata del Pdl e portavoce del Family day: «Spero si arrivi all'archiviazione. Mi sembra eccessivo che un medico finisca in tribunale perché si è sottratto a una prestazione estranea alla sua morale».

Corriere della Sera 11.4.08
Dibattito Il Vaticano prepara un convegno. Mentre si discute di selezione sociale e di totalitarismo
Charles Darwin, ultimo processo
Ravasi: sintesi tra evoluzione e disegno intelligente. Boncinelli: un naufragio
di Dario Fertilio


Santo o dannato, questo Darwin? Santo, risponde la «Preghiera darwiniana» di Michele Luzzatto, fresca di stampa da Cortina, dove il naturalista inglese viene accostato a Giacobbe e Giobbe. Dannato, suggeriscono invece alcune pagine sulfuree che gli dedica Hannah Arendt nel suo celebre saggio sulle «Origini del totalitarismo», da poco ristampato per Einaudi. Parole come piombo fuso, gli rovescia addosso la filosofa allieva di Heidegger: secondo lei l'evoluzionismo di Darwin, con la sua spietata «legge del movimento», sarebbe insieme a quella marxista una matrice non solo del razzismo, ma anche del totalitarismo e del terrore rivoluzionario. Giacché «è il movimento stesso che individua i nemici dell'umanità contro cui scatenare il terrore».
Con l'avvicinarsi delle celebrazioni per i 200 anni dalla nascita — cadranno nel febbraio del prossimo anno — si cerca una via di mezzo fra salvezza e dannazione per il vecchio Sir Charles. Fu buono o cattivo maestro? La domanda, al di là del suo rapporto con il totalitarismo, tocca la posizione della Chiesa, la conciliabilità fra evoluzione e ruolo di Dio. In questa luce bisogna vedere l'annuncio di monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio pontificio per la cultura: si svolgerà in Vaticano un convegno internazionale sull'evoluzionismo e le sue teorie, come parte di un «piano più generale di dialogo tra scienza e teologia ». Si tratterà di un evento di portata mondiale, «preparato da workshop sia a Roma che negli Stati Uniti», con lo scopo di ricucire i rapporti tra Chiesa e mondo scientifico, turbati da certi atteggiamenti critici del Papa nei confronti delle teorie di Darwin (giudicate «non completamente dimostrabili »). Più in generale, lo scopo dell'iniziativa di Ravasi sembra essere quella di ridare dignità culturale alla teoria del «disegno intelligente» posto alla base della vita, con l'intervento decisivo di Dio.
Certo il dibattito su Darwin non si limita a questo. Si discute, ad esempio, su quel «darwinismo sociale» che ispirò filosofi come Herbert Spencer; su quelle teorie della selezione naturale e della «sopravvivenza del più adatto» che oggi suonano vagamente sinistre, ma al tempo in cui vennero formulate si proponevano come ferree leggi di natura. Ispirando memorabili tirate letterarie, come quella del «Martin Eden» di Jack London: «L'antica legge dell'evoluzione domina ancora. Nella lotta per l'esistenza, il forte e la progenie del forte tendono a vivere, mentre il debole e la progenie del debole sono schiacciati e tendono a perire. Questa è l'evoluzione. Ma voi, schiavi, sognate di una società dove la legge dello sviluppo sarà annullata...».
Appunto l'applicazione del darwinismo alle scienze sociali è criticata oggi da Alberto Martinelli, per lo meno nella sua variante americana del primo novecento, individualista e liberista: «È l'idea di una lotta senza esclusione di colpi, attuata da robber barons, basata sull'idea che il più adatto a sopravvivere sia colui che riesce ad accumulare maggiori ricchezze». Bastano simili idee per sospingere Darwin fra i cattivi maestri? Secondo Martinelli «l'applicazione delle sue teorie ai fenomeni umani si era rivelata adatta allo spirito di frontiera, tipico di un Theodore Roosevelt. Ma ancor oggi — ricorda — nella cultura degli Stati Uniti la definizione di loser, di perdente, equivale a una sanzione sociale durissima». Né le cose sono andate meglio con il darwinismo sociale europeo, quello di un Ludwig Gumplowicz «che interpretò la lotta di razza come essenza del processo storico e fornì armi al nazismo, al colonialismo, all'imperialismo ». Eppure, nonostante tutto, «buon maestro e grande scienziato» secondo Martinelli resta Darwin. Lo difende anche sul versante del totalitarismo: «Le affermazioni della Arendt a suo carico sono eccessive e schematiche, i veri modelli di quei regimi erano Gobineau, Chamberlain, Gumplowicz». Non la pensa proprio così invece la filosofa Simona Forti, studiosa della Arendt. «Il problema non è il contenuto di verità del darwinismo, ma il modo in cui è stato utilizzato all'interno della pratica del potere». Ora, «il totalitarismo usa il sapere biologico, benché non si possa stabilire una filiazione diretta con Darwin». Resta il fatto, aggiunge la Forti, che «la biopolitica è l'orizzonte del darwinismo sociale, dove la vita intesa come totalità biologica entra nel campo della politica». C'è un punto oltre il quale il pensiero di Darwin genera mostri? «Concordo su questo» risponde: «Guardare con occhi critici al darwinismo sociale equivale a criticare qualsiasi tentativo di tradurre un sapere scientifico in una teoria politica sull'uomo».
E poi c'è il punto più delicato del darwinismo, quella teoria dell'evoluzione naturale che sembrerebbe escludere l'intervento di Dio. Riuscirà il pensiero religioso, e magari anche il convegno progettato dall'arcivescovo Ravasi, a placare i contrasti? È profondamente scettico Edoardo Boncinelli: «Qui si parla di due realtà completamente diverse. Il neodarwinismo è una teoria scientifica che vuole analizzare i fenomeni naturali in termini di meccanismi precisi e riproducibili, cioè scientifici. L'idea di un disegno intelligente divino, invece, è metafisica della specie più brutta». In che senso? «Si antepongono i propri desideri e idiosincrasie alla realtà. Ma non c'è nessuna base per crederci, se non il fatto che a tutti noi fa piacere pensare che sia così». È drastico, Boncinelli, sulla progettata iniziativa vaticana: «Un tentativo destinato al naufragio o, peggio ancora, alla menzogna ». Esattamente il contrario di quanto crede Paolo De Benedetti, docente di giudaismo alla facoltà teologica di Milano: «Non c'è nessun conflitto fra scienza e sistemi attuali di lettura della Bibbia, attuati con metodo storico-critico. Del resto il racconto biblico attinge a sua volta alla mitologia mesopotamica: l'importante non è dire che le cose siano andate così o all'opposto, dal momento che le stesse parabole di Gesù non vanno prese in senso storico-letterario ». Dunque, il tentativo di conciliazione fra Darwin e la Bibbia può riuscire? «Certo, è conciliabile l'incontro fra una concezione mitica — nel senso di un racconto fondato sulle categorie culturali dell'epoca — e una scientifica, che come tale poggia sempre su ipotesi e non su certezze definitive».
Già, ma proprio qui non rischia di cascare l'asino? Come valutare l'allarme lanciato da un pensatore liberale, come François Fejtö: «La difesa di una verità scientifica suscita a volte la medesima passione di un articolo di fede, come testimoniano la storia del darwinismo, della psicoanalisi e della teoria della relatività»? Vero, riconosce Paolo De Benedetti, «ma il rischio di un dogmatismo fideistico è più presente nei divulgatori che negli scienziati». Vero anche per Edoardo Boncinelli, con una precisazione: «Il rischio di dogmatismo c'è sempre, l'uomo ha bisogno di odiare».

Libero news magazine 11.4.08
Valentina, l'amante perfetta
di Sara Gambèro


La Lodovini, da La Giusta Distanza, per cui ha ottenuto la nomination al David di Donatello al film indipendente Riprendimi, in cui interpreta lo scomodo ruolo dell'altra.

A Valentina Lodovini, attrice toscana (di San Sepolcro, provincia di Arezzo) in ascesa piacciono tanto tre cose: il rossetto e i tacchi alti, con cui si sente super femminile, e "stupire". Motivo per cui ama cambiare continuamente genere e registro nel suo lavoro: dai ruoli comici a quelli drammatici, dai film d’autore (Mazzacurati, Sorrentino, Comencini) a quelli indipendenti a basso costo. Come Riprendimi, dove interpreta Michela, l'amante del protagonista. «Ho accettato questo ruolo per l’urgenza del racconto, per le idee nuove contenute nel film e per il fatto che ci fosse una produttrice (Francesca Neri, ndr) che finalmente rischiava. Cosa di cui abbiamo un gran bisogno, in Italia».

Quanto ti somiglia Michela, il tuo personaggio in Riprendimi?
Non mi assomiglia per niente, però l’ho amata tanto, perché pur sembrando apparentemente molto dura e poco simpatica - è pur sempre l'"altra", quella che porta via il marito o fidanzato -, in realtà ha solo paura a ricominciare. Anche lei è stata abbandonata, ha sofferto e ha questa resistenza a lasciarsi andare che trovo molto tenera e in qualche modo riconosco. D'altronde quando uno si scotta e viene ferito, poi ha molta paura a riaprirsi e lasciarsi andare.

Tu potresti mai innamorarti di uno come Giovanni, che abbandona moglie e figlio per mettersi con Michela con estrema facilità?
Credo che sarebbe difficile. Anche perché Giovanni è uno che non sa bene cosa vuole dalla vita e io, Valentina, mi sentirei completamente persa con uno così. Sarebbe il delirio, ho bisogno di uno che mi faccia sentire più sicura.

Perché hai scelto di partecipare a un film come questo, indipendente e rischioso?
Per tre motivi essenzialmente: per l’urgenza del racconto, che quando l’ho letto ho sentito che non era scritto ma vissuto, per le idee nuove contenute nel film e per il fatto che ci fosse una produttrice che rischiava finalmente, cosa di cui abbiamo tanto bisogno in Italia. Poi mi piaceva che Anna (Negri, la regista, ndr) fosse stata la prima a propormi il ruolo dell’altra. Che probabilmente non starà molto simpatico a tante donne, ma mi sembrava giusto fare.

È vero che sul set c’era un’atmosfera di grande libertà e coinvolgimento tra di voi?
Guarda, mai come questa volta ho vissuto il cinema come gruppo ed è stato molto bello. Un gruppo di persone che lavoravano insieme per raccontare una storia, con pochi mezzi e grosse difficoltà. Anche attoriali, perché io dovevo fingere di essere una persona comune ripresa da una telecamera. Però è stato bello, intenso, frenetico e per niente ovvio. E comunque, ripeto, io credo molto all’idea di cinema come gruppo e in questo lavoro è stato molto tangibile questo aspetto.

Hai fatto un grande lavoro di preparazione prima per arrivare all’alto grado di spontaneità che si vede nel film?
Sì, ho provato molto prima per rendere questa naturalezza.

Parlaci della tua candidatura al David di Donatello per il personaggio della Giusta distanza di Mazzacurati
Sono lusingata, incredula, stordita. È una emozione indefinibile. Non me ne rendo ancora conto, però sono così felice e orgogliosa di averla ricevuta per La giusta distanza che è un film che ho amato tanto. Non credevo fosse un capitolo completamente chiuso, ma di certo non mi aspettavo mi portasse fino ai David!

Hai già in progetto qualcosa di nuovo?
A giugno comincerò il film di Marco Risi su Giancarlo Siani.

Ci puoi anticipare qualcosa del tuo personaggio?
Non dico nulla, se non che è un prodotto molto interessante, commovente. Poi è una storia vera.

Ma tu chi sarai?
La protagonista femminile.

E chi farà Giancarlo Siani?
Credo Libero de Rienzo, anche se non so se è confermato. Diciamo che dovrebbe essere lui…

La giusta distanza, Riprendimi, il film su Siani. Ruoli leggeri, più comici, mai?
In realtà sono stata protagonista di Pornorama, il film di Marc Rothemund, regista della Rosa Bianca. L’ho girato tra Berlino e Monaco ma per ora è andato solo in Europa, non so se arriverà in Italia.

Di cosa parla?
È una commedia brillante e divertentissima e io lì sono proprio comica! Poi anche il prossimo film dopo quello di Marco Risi sarà una commedia. Voglio sfuggire da qualunque etichetta, ragione per cui ho accettato anche questo film, Riprendimi.

In che senso?
Perché il ruolo dell’altra non me lo aveva mai offerto nessuno, e volevo rischiare, fare una cosa nuova.

Una domanda indiscreta: sei mai stata l’altra nella tua vita?
No, mai.

Indossi sempre delle scarpe stratosferiche, ci ho fatto caso già al Festival del cinema di Roma (indossa un paio di décolleté dal tacco altissimo, nere e verdi, ndr). È una tua passione?
No, macchè (ride, ndr), in realtà non guardo per nulla queste cose. La moda mi piace nella misura in cui mi diverto a stupire gli altri. Infatti chi lavora con me non mi riconosce mai: un giorno arrivo in tuta, l’altro con i tacchi altissimi. Mi diverte stupire e sono fortunata perché ho un'ampia scelta di abiti e accessori.

Ma i tacchi ti piacciono?
Moltissimo, mi fanno sentire donna. Un donna sicura, con rossetto rosso e tacco alto!

Che rapporto hai con la rete?
Non sono molto tecnologica, pensa che amo ancora scrivere le lettere vecchia maniera. E ho una macchina fotografica con rullino. Però capisco che per il mio lavoro la rete sia un mezzo molto utile. Al tempo stesso però ritengo possa diventare anche molto pericoloso e un po’ mi spaventa, perché attraverso internet si può sapere tutto di tutto, scoprire anche cose non belle. Diciamo che lo uso soprattutto per lavoro, per documentarmi.

Hai un tuo sito, dove curi il rapporto con i fan?
No, anche perché mi sento molto più spettatrice o studente che attrice. Mi devo ancora abituare all’idea che si sta realizzando il mio sogno.

giovedì 10 aprile 2008

Corriere della Sera 10.4.08
Bertinotti: la politica di Prodi non è diversa da quella di Silvio
«L'abbiamo sostenuto, anche ingoiando dei bocconi amari»
di Giuliano Gallo


Il Mezzogiorno è una miniera a cielo aperto e deve essere rivalutato, a patto che il Sud non venga più considerato la pattumiera del Nord

ROMA — Due piazze diverse, stessa città, Napoli. E da una piazza all'altra Walter Veltroni e Fausto Bertinotti polemizzano quasi in diretta. Il leader della Sinistra Arcobaleno ieri mattina era tornato ad esprimere la sua delusione sul governo Prodi: «Ha fatto anche delle cose buone, politica internazionale buona, alcune leggi come quella sugli infortuni sul lavoro, ma ha mancato l'essenziale, cioè fare una politica realmente diversa da quella di Berlusconi». Passa qualche ora, e il leader del Partito democratico gli risponde piccato. «Prodi ha risanato i conti del Paese», scandisce da piazza Municipio. «Prodi ha risanato i conti ma non i bilanci delle famiglie e dei lavoratori», gli risponde l'altro da piazza Dante, pochi chilometri più in là. Dal governo Prodi insomma «non è venuto un netto miglioramento della condizione delle lavoratrici e dei lavoratori italiani». Noi, dice, «ci siamo battuti sistematicamente in questi due anni perché avvenisse questo. Nella Finanziaria, dopo la Finanziaria. L'abbiamo sostenuto anche quando non eravamo d'accordo, abbiamo anche ingoiato bocconi amari...».
È una battaglia tutta in salita, quella della Sinistra Arcobaleno, e il presidente della Camera lo sa bene: il fantasma contro cui si deve battere è l'ormai celebre «voto utile» evocato da Berlusconi e Veltroni praticamente all'unisono. Contro la polarizzazione del voto, non gli resta dunque che volare alto: «Se il voto si riduce solo a Berlusconi e Veltroni, è effimero. Mentre votare Sinistra Arcobaleno è fare una scelta di vita, è rispondere ad una domanda drammatica, e cioè se serve o no in Italia una sinistra ».
In una campagna elettorale fattasi ormai rude come un incontro di pugilato, Bertinotti continua tenacemente a battere sui tasti che gli appartengono: il lavoro, la precarietà, l'emarginazione. Ieri era Giugliano, grosso paese dell'hinterland napoletano che è anche l'unico in Campania dove si vota per il consiglio comunale. E alla gente ha parlato della camorra, «che strangola il territorio » anche grazie alla «complicità fra politica ed economia». Poi a Caserta, dove la platea era fatta quasi per intero di immigrati, di extracomunitari. Gente che conosce la precarietà sulla propria pelle. E infine a Napoli, dove dalla piazza saliva un solo grido: «lavoro, lavoro ». Dovunque nel Sud, in Sicilia, in Puglia, in Calabria, Bertinotti ha continuato a ripetere la sua idea di fondo: «È il modello economico che va cambiato: il Mezzogiorno è una miniera a cielo aperto e deve essere rivalutato, a patto che il Sud non venga più considerato la pattumiera del Nord». Invece il Partito democratico questo non riesce a capirlo, ribadisce. «Il Pd ha molto appeal su un certo piano, quello dell'immagine, ma non riesce ad andare più in profondità, dove ci sono le aree più sofferenti».
Lo spazio per la polemica pura è invece volutamente ridotto. Così se Berlusconi parla di concedere una Camera all'opposizione solo a patto che il presidente della Repubblica si dimetta, lui taglia corto: «Le dichiarazioni di Berlusconi escono dalla politica, sono fuori dalla politica».

Repubblica 10.4.08
Il Sessantotto. Amore e dolore
Un saggio della storica Anna Bravo
di Guido Crainz


Il tema della violenza, i nessi tra ragione e passione, tra responsabilità individuale e vicenda collettiva. Un banco di prova per due generazioni
Sbagliato instaurare una continuità col terrorismo, ma non fu un´età dell´innocenza
Nei capitoli sulle donne la disumana realtà dell´aborto clandestino e il dolore del feto

A colpi di cuore. Storie del sessantotto (pagg. 322, euro 15) di Anna Bravo, ora in libreria per la casa editrice Laterza, è un libro complesso. Difficile da discutere, perché toglie vie di scampo alle semplificazioni di diverso e opposto segno. Fortemente segnato ma non imprigionato dal vissuto generazionale. Intriso di soggettività, e di riflessioni su di essa, ma al tempo stesso attento a indicare le tracce profonde di un "contesto" che nulla giustifica ma aiuta a capire. Incentrato sugli "anni ´68", cioè sugli anni sessanta e settanta, con un´attenzione privilegiata ai percorsi di formazione di giovani e donne, movimenti studenteschi e femminismo.
Lo sguardo si allarga dalla generazione del dopoguerra, cresciuta all´ombra della paura atomica, sino agli anni di piombo e si misura al tempo stesso con la dimensione internazionale dei processi. Sceglie di farlo ripercorrendo culture ed esperienze, in modo trasversale e non sistematico: un terreno che può essere infido, una sfida rischiosa che appare per più versi però una sfida vinta. In larga misura, dunque, un libro di storia culturale e al tempo stesso di riflessione etica che si muove fra Italia e Stati Uniti, Europa dell´Ovest e dell´Est, e che mette al centro i banchi di prova più impegnativi: il tema della violenza, il rapporto fra responsabilità individuale e vicenda collettiva e, in varie forme, i nessi fra passione e ragione (non solo nei capitoli che a questo esplicitamente rinviano, dedicati a Dolore e Amore) .
Al tempo stesso, una ricerca sul rapporto fra generazioni, generi e modernità: con una attenzione specifica alla vicenda italiana che inizia con le trasformazioni degli anni cinquanta e conosce poi una cesura alla fine degli anni settanta. In questo quadro l´analisi si muove fra due poli in qualche modo estremi, interrogati entrambi in modo problematico.
Da un lato si sottolinea la rottura salutare indotta dai movimenti giovanili, sin da quelli dei beat e degli hippie, capaci di avviare o perlomeno accelerare processi più ampi. Ciò vale in modo particolare per un paese come il nostro, segnato da un´arretratezza delle istituzioni e da condizionamenti sociali e familiari oggi inimmaginabili, ma anche da contraddizioni e storture della incipiente modernità. Da arcaismi ma al tempo stesso, precocemente, da modelli di successo e di ascesa individuale sprezzanti di regole e vincoli collettivi. La presa di parola degli "anni ´68" aprì indubbiamente la via a una concezione più ampia dei diritti e moltiplicò i soggetti in grado di rivendicarli. Hannah Arendt vi vide il riproporsi della "felicità pubblica", il coincidere della liberazione individuale e di quella collettiva, e l´immagine ha segnato l´autoraccontarsi (talora consolatorio) di una generazione. «È vero (o quasi) per una scheggia di tempo», osserva la Bravo, e aggiunge: «Per chi e per quanti?». Con altrettanto rigore sono considerati quei terreni su cui, a giudizio quasi unanime, i movimenti avrebbero vinto: la cultura, il costume, le sensibilità. Certo, si annota, è forte la memoria di una trasformazione ma in quella memoria rimane «una cicatrice: il dubbio di aver vinto male». Non può esser rimosso, in altri termini, l´interrogarsi sulla qualità dei processi che si sono poi affermati. E anche quel "partire da sé" che sembrò - e forse poteva essere - la via per rifondare la politica è sottoposto ad un vaglio critico serrato.
La sottolineatura di una straordinaria effervescenza («del ´68 tutto si può dire tranne che non fosse desiderabile esserci») non impedisce insomma di indagare a fondo la natura di essa: feconda ma al tempo stesso inadeguata a misurarsi con contraddizioni profonde. Ed esposta anche a deformazioni che ne avrebbero limitato le potenzialità e contribuito a derive negative.
All´altro estremo, all´altro polo della riflessione vi è infatti non solo e non tanto la barbarie del terrorismo quanto il nodo in sé della violenza. Non è un tema che possa essere affrontato come gli altri, sottolinea la Bravo, e riprendendo parole di Andrea Casalegno aggiunge: «si può cambiare, e molti lo hanno fatto senza sbandierarlo; ma non si può diventare ex assassini, per l´identico motivo per cui non si diventa mai ex madri». Oggetto privilegiato di indagine è la violenza di chi «è rimasto al di qua dello spartiacque rappresentato dall´aver versato il sangue degli altri», e in generale il nodo della responsabilità individuale: pratiche violente e pratiche armate non sono direttamente assimilabili ma al tempo stesso non sono prive di legami, di zone di confine. Anche in questo caso l´ambito della riflessione è indicato con nettezza. Instaurare una continuità fra ´68 e terrorismo «è un´operazione storiograficamente debole e ideologicamente fortissima, serve poco a capire quegli anni», ma è altrettanto debole l´idea del ´68 come "età dell´innocenza totale" («i riferimenti teorici prevedevano la violenza, i simboli e i popoli più amati erano uomini e popoli in guerra»). In Italia come in America e altrove, si osserva, nel loro sorgere i movimenti adottano forme di lotta pacifiche, la violenza è un´eccezione. Di lì a poco però sarà vero il contrario, e il peso di contesti internazionali e nazionali tesissimi non esime dall´interrogarsi sulle scelte soggettive, sulle motivazioni che portano all´adozione di alcuni modelli e ll´appannamento di altri: con il privilegiamento, appunto, di quelli armati, ed il quasi totale disinteresse per le suggestioni che potevano venire dai grandi esempi del pacifismo internazionale. O dai percorsi stessi del dissenso nell´Europa centro-orientale, che costringe a misurarsi con un altro banco di prova impietoso.
Negli "anni ´68", sottolinea la Bravo, è forte la sensibilità nei confronti del dolore degli oppressi ma «non tutti gli oppressi hanno diritto al compianto (e neppure ai diritti democratici)».
Dopo il ´56 ungherese, Solzenicyn, Praga, la realtà dell´est europeo non può essere ignorata eppure «quell´enorme giacimento di sofferenza è il meno sentito dei mali del secolo». Vi è qui un nodo irto, al quale è impossibile sfuggire: il paradosso di un movimento che nasce sinceramente libertario e portatore di vere ansie di democratizzazione, ma al tempo stesso carente di una reale cultura democratica e per questo esposto all´insidia delle ideologie.
È una questione che ritorna in più forme e sin nelle pagine che si interrogano sul rapporto fra ´68 e femminismo, sulle contraddizioni più che sulla parentela fra essi: anche a voler ammettere che il femminismo degli anni settanta nasca dal ´68, annota la Bravo, ne è semmai figlio non previsto, non voluto, in molti casi avversato. Già nel 1964 del resto le attiviste nere dello Student Non-violent Coordinating Committee (il più importante movimento per i diritti civili degli afro-americani) denunciavano le discriminazioni nei confronti delle donne all´interno dell´organizzazione. E «il sé da cui si parte nel ´68 è filtrato dal maschile», altra spia di un universalismo solo apparente.
È qui impossibile seguire più da presso il libro nel suo ripercorrere fasi e problemi del femminismo, origini di lungo periodo e tumultuosi sviluppi, rovelli e talora rimozioni. Nel suo considerare la più generale storia delle donne, disseminata di "eredità senza testamento", cioè senza destinatari né canali ufficiali, ma anche di "testamenti senza eredi", di patrimoni culturali che rischiano di andare dispersi. Almeno un aspetto va però segnalato, il rigore con cui vengono posti i problemi connessi alle discussioni degli anni settanta e ottanta sull´aborto («un´esperienza che oscilla fra la categoria della violenza e quella del dolore»). È richiamato anche qui il contesto, la disumana realtà dell´aborto clandestino e le ragioni dell´impegno per introdurre tutele e norme di legge, ma sono indagati al tempo stesso gli elementi di insensibilità che in quell´impegno talora affiorano. È la "cognizione del dolore" (e del "dolore del feto") ad essere interrogata, così come la rimozione di quell´angoscia. Dietro il silenzio, osserva Anna Bravo, vi era il peso di vecchie forme mentali: «il primato di quel che è compiuto e completo su quel che è parziale e liminale, la cecità verso il dolore non detto, non dicibile, non accertabile completamente». E conclude: non eravamo sole in questa difficoltà a cogliere la vicinanza fra l´umano e il non ancora o imperfettamente umano.
Sono solo alcuni esempi, alcuni squarci di un denso e complesso libro che si legge d´un fiato e che sarà difficile metter da parte.

Repubblica 10.4.08
Si è aperto a Perugia il Festival internazionale del Giornalismo
Scalfari: il nostro crudele mestiere
di Susanna Nirenstein


Nella lectio magistralis il fondatore di "Repubblica" ha annunciato la prossima uscita del suo nuovo libro: "L´uomo che non credeva in Dio"

Perugia. Se l´informazione è, come è, alla base della democrazia, benvenute le cinque giornate del Festival internazionale del Giornalismo che si sono aperte ieri a . Cinquanta eventi con centocinquanta ospiti in arrivo da Roma, Milano, Londra e New York come da New Dheli e il Medio Oriente, per mettere a confronto i parametri dell´investigazione e della cronaca, il rapporto dei media con le nuove tecnologie e la professione, quello con le guerre, il potere, i delitti, l´universo giudiziario, la storia, l´inquinamento o la scienza piuttosto che la cucina. Ad aprire l´appuntamento, la lectio magistralis di Eugenio Scalfari davanti a un pubblico di seicento persone, in gran parte studenti dell´Università o della Scuola di giornalismo di Perugia.
Prende spunto dal suo nuovo libro in uscita tra un mese il fondatore di Repubblica, L´uomo che non credeva in Dio (Einaudi): una ricerca che intende mostrare «come certi momenti di vita vissuta abbiano influito nella formazione dei miei pensieri e, viceversa, come le convinzioni raggiunte abbiano imposto alcune svolte fattuali».
Tra i capitoli, racconta Scalfari, quello dedicato al giornalismo intitolato «Un mestiere crudele». Una definizione che comporta delle spiegazioni naturalmente, innanzitutto un chiarimento su cosa si intende per giornalista, su quali siano i prerequisiti necessari: «curiosità infinita, assillante, per le grandi come per le piccole cose, accanto alla disponibilità a vincere la timidezza e ad uscire da sé». Non solo, la capacità di accompagnare il viaggio nel mondo esterno, con un viaggio nell´universo interno, «perché è impossibile voler sapere degli altri se non sappiamo chi siamo, se non calibriamo il metro di conoscenza del fuori sulla nostra consapevolezza».
E il termine "crudele" che Scalfari attribuisce al reporter? «La curiosità comporta che denudiamo il mondo dei fatti, delle persone, dei paesaggi non accontentandoci delle apparenze, ma cercando la sostanza. E denudare significa invadere. Il giornalista, senza spogliarsi del proprio io, invade, passa limiti che altre persone, non altrettanto curiose, non varcherebbero. Il giornalista è spietato».
Di qui la delicata questione della verità, visto che quella assoluta, a meno che non si sia legati a una fede o a un´ideologia (e in quel caso si fa un cattivo giornalismo), non esiste. «Chi sostiene che si può distinguere tra fatti (oggettivi) e opinioni (soggettive) si nasconde dietro un dito: anche il racconto dei fatti appartiene al giornalista, e lui scrive dal suo punto di vista, così come il direttore e il caporedattore, dai loro punti di vista, sceglieranno la posizione in pagina, l´ampiezza del servizio, il titolo». Ed ecco che il cerchio si chiude, la posizione più onesta, conclude il fondatore di Repubblica, è essere consapevoli di sé e dichiarare il proprio punto di vista, «se vi dico prima le mie faziosità, potrete decrittare quello che scrivo», una manifestazione di convinzioni che sta alla base di Repubblica com´era e com´è.
La lezione prosegue e, cavalcando attraverso la storia del Novecento italiano, affronta il ruolo dell´editore, della direzione, delle scelte politiche di un giornale: i ragazzi ascoltano attenti, per loro sarà il punto di partenza per seguire nelle ore e nei giorni successivi i molteplici tavoli di confronto che da ieri si sono aperti nelle varie sedi del Festival. Tra i tanti appuntamenti, quello del tardo pomeriggio di ieri con Edmondo Berselli e Maria Latella sul Sessantotto, e quello di oggi alle 14,30 su Media e potere con, tra gli altri, Carl Bernstein - il mitico giornalista che con Woodward svelò il caso Watergate - e Alastair Campbell, spin doctor di Tony Blair dal 1997 al 2003. Da segnalare, sempre negli incontri di oggi, alle 18, Giornalisti e politici. Chi condiziona chi? con Ezio Mauro e Angelo Agostini; Economia e giornalismo dove sarà presente anche Gad Lerner, e, alle 19,30, il confronto tra Mario Calabresi, Filippo Ceccarelli, Giovanni Bianconi e Marco Damilano sul terrorismo in Italia.

Corriere della Sera 10.4.08
Dopo 50 anni Ricostruita la vicenda di Robert Bialek
«Non perdonate i nazisti» E la Stasi lo eliminò
Così sparì l'ex capo della polizia a Berlino Est
di Danilo Taino


Antifascista, a 40 anni fu portato nel carcere di Hohenschönhausen: di lui furono cancellate tutte le tracce

La Stasi era la polizia segreta dell'ex Repubblica democratica tedesca. Aveva 91 mila dipendenti e ufficialmente 300mila informatori: secondo dati recenti, uno ogni 7 abitanti della Ddr era, a un certo punto della sua vita, un informatore della Stasi

BERLINO — Il compagno Robert Bialek era apprezzato da parecchi nella Sed, il partito che regolava la vita, ma anche la morte, nella Germania dell'Est. Antifascista specchiato, cinque anni nelle galere naziste, studente diligente del marxismo, militante puntuale. Erano però gli anni più cupi della Guerra Fredda, i primi Cinquanta, e a un alto funzionario di partito, a Berlino, servivano almeno due cose: assenza totale di senso critico e amici al posto giusto. A Bialek mancarono entrambe e ora, 52 anni dopo, si capisce cosa probabilmente ciò ha significato: rapimento su ordine della Stasi — il ministero della polizia —, corsa in auto alla Hohenschönhausen — il terribile carcere per dissidenti della città —, torture, morte e totale cancellazione delle prove.
La vicenda di quest'uomo di indiscutibile coraggio era conosciuta, ma le circostanze della sua morte erano misteriose. Ieri, uno storico che lavora alla Hohenschönhausen (adesso è un museo), Peter Erler, ha rintracciato un documento che dovrebbe mettere una parola definitiva alla ricostruzione della sua vicenda: la registrazione di un ingresso nella prigione, alle 23 del 4 febbraio 1956, di un individuo non identificato e del quale non appare poi più traccia, nel senso che dal carcere ufficialmente non uscì mai. Quella stessa notte, alle dieci meno venti, Bialek era stato prelevato dalla sua casa a Berlino Ovest, dove si era trasferito tre anni prima, in rotta con il partito. Erler e Hubertus Knabe, il direttore del museo- prigione, dicono di non avere dubbi: l'ex militante comunista fu ammazzato, a 40 anni, nella galera della Stasi.
Giovanissimo, Bialek si iscrisse ai sindacati giovanili e poi, nel 1933, l'anno della salita al potere di Hitler, al partito comunista. Divenne amico di Erich Honecker, che poi guiderà partito e Stato. Entrò in clandestinità fino a quando, nel 1935, fu arrestato e condannato a 5 anni di carcere. Rientrò nella clandestinità e, a nazismo crollato, iniziò la carriera politica nella Ddr. Fino a diventare in breve tempo il capo della Volkspolizei, la polizia popolare. A quel punto, iniziarono i guai. Di base, non era simpatico a Walter Ulbricht, il potente capo del partito, di cui non condivideva scelte e metodi. E se il numero uno della polizia non era in buoni rapporti con il dittatore, c'era un problema: in fondo erano anni di stalinismo vigente, tanto che Honecker dimenticò l'amicizia giovanile. In più, Bialek era critico della politica di reclutamento dei funzionari, anche della polizia, che stava riabilitando molti ex funzionari nazisti.
Fu degradato e, quando il 17 giugno 1953 la polizia della cosiddetta Repubblica democratica tedesca sparò sulla folla che protestava, ruppe gli indugi e si trasferì con la famiglia a Berlino Ovest: non c'era ancora il Muro, in quegli anni, ma la scelta di campo (passare nella zona controllata dagli anglo-americani e non dai russi) fu giudicata un tradimento. Era diventato un nemico dello Stato socialista. Non solo. Bialek iniziò a lavorare per il partito socialdemocratico dell'Ovest e per la Bbc, per la quale raccolse testimonianze sulla vita nella Ddr e sulla politica del pugno di ferro di Ulbricht. Il peggio, dal punto di vista della Stasi.
Il 4 febbraio 1956, dunque, qualcuno decise che il suo passaggio in questa vita avrebbe dovuto concludersi, probabilmente per il bene del proletariato. I compagni della Stasi lo prelevarono in piena Berlino Ovest, lo portarono facilmente a Est e lo registrarono come numero 2357 nel carcere di Hohenschönhausen. Ultimo grazie a un antifascista come pochi.

Corriere della Sera 10.4.08
Libro sull'epoca di Hitler
Seimila i lavoratori coatti sfruttati dalla Chiesa


BERLINO — La Chiesa cattolica tedesca fa luce sul suo passato durante il nazismo e con il libro «Lavoro coatto e Chiesa cattolica 1939-1945», presentato a Magonza, in Germania occidentale, documenta lo sfruttamento da parte di istituzioni religiose cattoliche di circa seimila tra lavoratori coatti civili e prigionieri di guerra stranieri. La Chiesa cattolica nel 2000 ha riconosciuto di essersi servita di lavoro coatto ai tempi di Adolf Hitler. «Un episodio che resta un peso storico e una sfida per la nostra Chiesa anche nel futuro» ha detto il cardinale Karl Lehmann, ex presidente della Conferenza episcopale tedesca.

Corriere della Sera 10.4.08
Il celebre pittore inglese parla del ruolo «politico» esercitato da arte e pittura
La rivoluzione è nelle immagini
Il declino della Chiesa inizia con le macchine fotografiche
di David Hockney


Michael Curtis, uno dei fondatori di Hollywood, regista di Casablanca e di molti dei film avventurosi di Errol Flynn, racconta di aver avuto il suo primo assaggio di cinema verso il 1908, al Cafe New York di Budapest. Quel che l'aveva affascinato, ricorda, non era stato tanto il film, quanto il fatto che tutti stessero a guardarlo. Aveva capito che mentre a teatro o all'opera non vanno in molti, il cinema avrebbe avuto un richiamo di massa. Nel 1920 era a Hollywood, che allora rispetto a Budapest era un villaggio, ma in California c'erano i soldi, la luce e la tecnologia. Aveva visto giusto.
Andiamo indietro di 350 anni, ai tempi dello studioso napoletano Giambattista Della Porta, che pubblicò un libro, Magia naturalis, sulle proiezioni ottiche di oggetti naturali. Era un uomo del Rinascimento: scienziato e commediografo. Allestì spettacoli che impiegavano delle semplici proiezioni e la Chiesa lo portò dinanzi al tribunale dell'Inquisizione.
A quei tempi la Chiesa era l'unica a produrre immagini. Conosceva il loro potere e Della Porta doveva essersi reso conto, come Michael Curtis, di quanto fossero attraenti le proiezioni ottiche. Lo sono tuttora. La Chiesa controllava la società. Chi aveva il controllo delle immagini aveva potere. È ancora così. Il controllo sociale è stato legato alla lente e allo specchio per gran parte del Ventesimo secolo. Ora il controllo sociale è esercitato dai cosiddetti mass media, non più dalla Chiesa, ma stiamo entrando in una nuova era, poiché la produzione e la distribuzione delle immagini sta cambiando. Tutti possono produrre e distribuire immagini con un telefono cellulare. Gli strumenti per farlo sono ovunque.
Non vi sono molte discussioni sulle immagini. Il loro ambito è separato da quello dell'arte, ma il potere sta nelle immagini, non nell'arte. Sorge un problema ovvio. Il mondo delle immagini pretende di essere in relazione con la realtà visibile (vedi il caso della televisione e del cinema), ma questa pretesa non è più sostenibile. Se non rifletteremo su questo punto saremo sempre più confusi.
Facciamo un esempio: il National Health Service britannico aveva pubblicato l'immagine di un ragazzo (o forse una ragazza) con un amo in bocca. Si trattava di una campagna contro il fumo e una scritta diceva, «Non abboccare». Ci furono proteste perché l'immagine, che veniva mostrata in televisione e alle fermate degli autobus, era scioccante. Dovettero toglierla. L'immagine sembrava una fotografia, e con questo intendo riferirmi a un evento verificatosi di fronte a una macchina fotografica in un dato momento e in un dato luogo. Se fosse stato davvero così, il fotografo avrebbe dovuto essere perseguito dalla legge — in Gran Bretagna mostrare un atto di crudeltà verso un essere umano è vietato, ma naturalmente si distingue tra pittura e fotografia: i quadri della crocifissione, infatti, sono «permessi».
Nessuno è stato denunciato. Perché? Perché nessuno ha creduto che il fatto fosse realmente accaduto. Era stato costruito al computer con un programma come Photoshop. Ci sono oggi persone perseguite per possesso di immagini. Ma come si fa a sapere se queste immagini hanno effettivamente a che fare con la realtà?
Il Parlamento discuterà della produzione di immagini, ma non di arte. Siamo in un periodo di confusione. Il declino della religione in Europa è considerato anche un riflesso della rivoluzione «scientifica». Ma io dubito sia così: penso piuttosto che abbia a che fare con le immagini. Il declino della Chiesa va di pari passo con la produzione di massa di macchine fotografiche. I due fenomeni sono profondamente collegati. In un recente viaggio in Italia ho notato che pochi italiani andavano nelle chiese per vedere immagini. Le vedono a casa, non fatte da Botticelli, ma da Berlusconi. Pensateci.
© Guardian News and Media (Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 10.4.08
Memoria È nato ieri il Centro Primo Levi. Amos Luzzatto nominato presidente
«Un baluardo contro revisionismi e razzismi»
di Vera Schiavazzi


TORINO — Ci sono voluti ventuno anni (l'anniversario della morte ricorre domani) ma alla fine Torino è riuscita a onorare degnamente il suo scrittore forse più famoso, certamente più letto e tradotto nel mondo: Primo Levi. Il Centro internazionale di studi che porta il suo nome è nato ufficialmente ieri, per volontà di un primo gruppo di fondatori che raccoglie Comune, Provincia, Comunità ebraica, Fondazione per il libro, e i figli Lisa e Renzo Levi. Amos Luzzatto, medico e saggista, a lungo alla guida dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, è stato scelto come presidente, incarico che in veste onoraria è stato conferito anche a Bianca Guidetti Serra.
E proprio Luzzatto, ieri pomeriggio, ha sottolineato l'importanza simbolica, culturale e politica di un atto che arriva «proprio mentre i segnali di revisionismo, negazionismo e razzismo si moltiplicano. Vogliamo che in questo centro arrivino non solo gli studiosi e i conoscitori appassionati di Primo Levi, ma i giovani delle università e dei licei che possono far vivere i suoi insegnamenti. Levi non ha fatto soltanto memorialistica sui lager, al contrario ci ha lasciato molte e diverse eredità, dalla cultura scientifica alla tradizione ebraica». Luzzatto ha anche annunciato che sarà presente alla Fiera del libro con un saggio-intervista sui temi della laicità da poco realizzato con Francesca Nadari: «Ci tengo a esserci — spiega — proprio per l'assurdità delle tesi espresse in favore del boicottaggio. Chi le sostiene forse non sa che in questo modo si danneggiano i fautori della pace tra Israele e Palestina e si sostiene nei fatti una guerra all'ultimo sangue».
Direttore del centro sarà lo storico torinese Fabio Levi, mentre vicepresidente è Ernesto Ferrero, direttore della Fiera del libro, e del consiglio di amministrazione fanno parte Fiorenzo Alfieri, Dario Disegni, Valter Giuliano e il presidente della Comunità ebraica di Torino Tullio Levi. Il Centro vuole raccogliere nel tempo tutta la documentazione esistente sullo scrittore, realizzando un censimento completo e la raccolta di studi, tesi di laurea e testimonianze sull'autore di Se questo è un uomo,
in un quadro di collaborazione internazionale. La sede sarà quella del grande complesso juvarriano dei Quartieri militari, che già ospita l'Istituto storico della resistenza e il Museo della deportazione e che nel prossimo futuro accoglierà anche l'Istituto per la memoria e la cultura del lavoro, dell'impresa e dei diritti. La Compagnia di San Paolo ha sostenuto l'iniziativa con 250 mila euro.

l’Unità 10.4.08
Galileo e Leopardi? Mai stati così vicini
di Pietro Greco


Oggi alle ore 18.30
SCIENZA E LETTERATURA L’influenza del grande scienziato sul pensiero del poeta recanatese fu decisiva. Gaspare Polizzi, storico e docente universitario, ci spiega in un libro come e perché

C’è un filo rosso che lega la storia della grande letteratura italiana, da Dante a Galileo fino a Giacomo Leopardi. Questo filo rosso - anzi questa «vocazione profonda» - diceva Italo Calvino, è la filosofia naturale. Qui tre grandi - e poi lo stesso Calvino - hanno considerato «l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile».
Cosicché tra la grande letteratura e la scienza, in Italia, non c’è mai stata quella separazione denunciata cinquant’anni fa da Charles Percy Snow nel suo famoso libro sulle «due culture». Ma c’è stata una reciproca influenza? Quanto la figura di Dante ha contato per Galileo? E quanto Galileo ha pesato su Leopardi?
Alla prima domanda si può rispondere di sì: chi è venuto dopo si è lasciato influenzare dal grande che lo ha preceduto. Basti ricordare, per quanto riguarda Galileo, che la sua carriera accademica è iniziata virtualmente nel 1588, con le «Due lezioni all’Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante», il ventiquattrenne figlio del musicista Vincenzio dimostra di essere sia un valente matematico che un profondo conoscitore del Sommo Poeta.
Per quanto riguarda l’influenza che lo stesso Galileo avrà su Leopardi abbiamo prove meno evidenti. Nelle sue opere il poeta nato a Recanati non cita spesso lo scienziato nato a Pisa. Eppure è possibile dimostrare che «la figura e l’opera di Galileo (hanno un ruolo decisivo) sulla filosofia di Leopardi e sul suo stile». L’affermazione è di Gaspare Polizzi. E gli argomenti, solidi e documentati, a favore della sua impegnativa tesi sono contenuti nel libro, Galileo in Leopardi (pagine 220, euro 22,00) che lo storico della scienza in forze all’università di Firenze ha da poco pubblicato presso la casa editrice Le Lettere.
Gaspare Polizzi ha passato in rassegna con grande rigore tutta l’opera di Leopardi alla ricerca di tracce, dirette o indirette, che riconducono a Galileo. Giungendo,* a nostro avviso, a tre conclusioni di grande rilievo e a una considerazione che riteniamo di stringente attualità.
La prima conclusione finora niente affatto scontata è che, malgrado il nome dell’«Artista Toscano» (le definizione è del poeta John Milton) ricorra relativamente poco negli scritti di Leopardi - tranne in quelli resi pubblici della Crestomazia della Prosa e in quelli inediti dello Zibaldone - la presenza di Galileo nel pensiero e persino nello stile del poeta di Recanati non solo c’è, ma è addirittura decisiva.
Leopardi, infatti, non solo ha letto Galileo e le opere su Galileo. Ma lo considera: il più grande fisico di tutti i tempi; un filosofo di primaria importanza nella storia del pensiero umano; e, insieme a Dante, appunto, il più grande rappresentante della letteratura italiana. Galileo è «per la sua magnanimità nel pensare e nello scrivere» un (forse «il») modello per Leopardi.
La seconda conclusione documentata da Gaspare Polizzi è che Giacomo Leopardi, pur conservando, questa sintonia di fondo con Galileo, modifica e aggiorna e affina nel tempo i suoi giudizi sullo scienziato toscano. Gaspare Polizzi è così abile da mostrarci come Leopardi scopre nel tempo Galileo. Quali opere legge. E da quali è particolarmente colpito.
La terza conclusione è che, per quanto grande e addirittura decisiva sia l’influenza che Galileo esercita su Leopardi, l’epistemologia del poeta di Recanati non si esaurisce totalmente in quella dello scienziato pisano. Anzi, vi sono talvolta delle differenze. Entrambi, certo, considerano lo studio della natura, attraverso certe dimostrazioni e sensate esperienze, il nuovo modo, superiore, di filosofare intorno ai fatti del mondo fisico. Ed entrambi credono nella «potenza della ragione», capace di leggere il libro della natura e superare le false credenze degli antichi. Tuttavia Leopardi insiste molto più di Galileo sui limiti della conoscenza umana anche sui fatti della natura e, dunque, sulla relatività delle verità scientifiche. Ha un’attenzione per la matematica e per il suo valore epistemologico molto meno marcata dello scienziato toscano. E, più di Galileo, focalizza la sua attenzione sulla complessità del mondo. Anzi, per dare risalto a questa sua visione molto articolata del mondo fisico - dove piccole cause all’apparenza insignificanti possono produrre grandi effetti - Leopardi non esita a "tirare" fino a distorcere il pensiero di Galileo.
Galileo, dunque, ha una grande influenza su Leopardi. Ma, come sempre accade con i giganti che salgono sulle spalle di giganti, Leopardi ha una lettura critica e personale di Galileo.
C’è, infine, una ultima considerazione che ci propone il libro di Gaspare Polizzi e che ha un qualche riverbero nell’attualità. Nei suoi scritti Leopardi mostra una certa riluttanza a parlare della teoria copernicana e opera delle censure abbastanza sistematiche sul «processo a Galileo». Uno dei motivi, scrive Polizzi, è da attribuire al conflitto a distanza con il padre intorno alla legittimità della proposta galileiana. Ma, probabilmente, c’è anche una certa ritrosia - forse un vero e proprio timore - del giovane di Recanati ad assumere posizioni non conformi alla lettura che la Chiesa cattolica a due secoli di distanza fa del «processo a Galileo».
Paolo Casini e Antonio Di Meo presenteranno il libro di Gaspare Polizzi Galileo in Leopardi (Le Lettere) alla Libreria della Fronda di Roma (Via Enrico Stevenson, 28/30)

l’Unità 10.4.08
Matteo Merzagora e Paola Rodari analizzano il rapporto tra le istituzioni museali scientifiche e la comunicazione oggi, un dibattito che può aiutare l’Italia ad uscire dal declino
La prossima sfida: ricostruire la «società della conoscenza»
di Luigi Amodio


Tra i tanti temi posti all’ordine del giorno dal bel libro di Matteo Merzagora e Paola Rodari su musei, science centre e comunicazione, La scienza in mostra (Bruno Mondadori), ne coglierei qui uno che, in particolare, ritengo vada ripreso nel dibattito sul ruolo delle istituzioni museali scientifiche e la comunicazione della scienza oggi. E, precisamente, il tema della transizione - ormai compiuta - dalla dimensione accademica della scienza a quella condizione che molti definiscono oggi «post-accademica».
Molto in sintesi, la scienza accademica è ciò a cui, usualmente, pensiamo quando utilizziamo il termine «scienza pura» o «scienza in generale», quella che emerge nel corso della rivoluzione scientifica del XVII secolo e le cui norme - formalizzate da Robert Merton - sono ben note: comunitarsmo, universalismo, disinteresse e umiltà, originalità, scetticismo. L’avvento della scienza post-accademica - che emerge nel secondo dopoguerra e diviene evidente in tempi sostanzialmente recenti - dipende sia da fattori esterni alla scienza così come da ragioni interne e cioè da un progresso scientifico e tecnologico sempre più rapido e dalla sempre maggiore interdipendenza tra scienza e tecnologia. Come dice il fisico John Ziman, le caratteristiche di questa nuova condizione della scienza sono: collettivizzazione, limiti allo sviluppo della scienza, sfruttamento della conoscenza, politicizzazione della scienza, industrializzazione, burocratizzazione.
Ma ciò che ci interessa maggiormente, in questo contesto, è che la pluralità di attori partecipanti al lavoro scientifico, nella dimensione post-accademica è sempre più vasta, sino a poter dire che le relazioni tra scienza, politica, industria, pubblico, divengono del tutto interne al «farsi» della scienza stessa; sono, insomma, attività rilevanti per il suo stesso sviluppo.
Se tutto ciò è vero, come molti ritengono, e se è altrettanto vero che la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione garantisce una circolazione del sapere impensabile fino a pochi anni addietro, è possibile allora immaginare che la cultura scientifica venga messa a sistema in una prospettiva che, di queste trasformazioni radicali, tenga sempre più conto.
Ragionare su questi temi oggi non solo è possibile, come dimostra la massa critica di esperienze, studi, buone pratiche documentate da Merzagora e Rodari; ma è certamente necessario, proprio perché la reazione al declino italiano (documentato nel bel volume di Pietro Greco e Settimo Termini, Contro il declino, Codice Edizioni) parte proprio da qui: dalla ricostruzione, cioè, di una cittadinanza all’altezza della «società della conoscenza».
In tal senso, l’azione di identificare e promuovere strumenti - come appunto i musei e i science centre - che rafforzino il legame tra scienza e società; di costruire nuove agorà per favorire questo legame; di reindirizzare l’attuale crisi delle carriere scientifiche, rafforzando l’educazione scientifica e garantendo la competitività futura del paese puntando su ricerca e sviluppo, si fondono un unico obiettivo da perseguire. E c’è da scommettere che molti - rappresentanti del mondo imprenditoriale, ricercatori, professionisti della comunicazione scientifica e dell’educazione - sono pronti a impegnarsi e a raccogliere la sfida.
*Direttore della Fondazione IDIS-Città della Scienza, Napoli, Direttore del Science Centre di Città della Scienza, Napoli, Docente di Comunicazione museale all’Università Federico II di Napoli

l’Unità 10.4.08
Due importanti volumi, uno di Angelo R. Pupino e l’altro di Andrea Bisicchia, dedicati alla narrativa e alla drammaturgia di Pirandello
L’umorismo, ecco cosa muove vorticosamente tutto l’universo pirandelliano
di Roberto Carnero


L’opera di Luigi Pirandello (1867-1936) è un autentico e vastissimo «continente letterario», sia per la sua ampiezza quantitativa sia, soprattutto, per la versatilità di questo autore, che si è cimentato con diversi generi, conseguendo sempre risultati di altissimo livello estetico e di notevole spessore filosofico: dalle novelle ai romanzi, dalle poesie alle pièces teatrali, dai saggi critici agli scritti teorici. Dunque potrebbe apparire discutibile l’idea di studiarne separatamente i diversi ambiti creativi, tanto più che notevoli sono i punti di contatto tra i vari momenti della sua produzione, quella che potremmo chiamare l’«intertestualità interna». Tuttavia forse, proprio per la mole critica - di libri, saggi, interventi - che nel tempo si è depositata sul lavoro dello scrittore siciliano, sondare separatamente aspetti particolari del suo universo poetico può apparire non solo legittimo, ma doveroso. Anche a giudicare dai risultati di tali indagini «parziali», quando siano condotte con attenzione alla totalità del quadro.
Sono usciti di recente due importanti volumi, ricchi di novità interpretative, dedicati rispettivamente alla narrativa e al teatro pirandelliano. Il primo - incentrato su una puntuale analisi dei romanzi - è a firma di Angelo R. Pupino, professore di Letteratura italiana contemporanea all’«Orientale» di Napoli. Il titolo, Pirandello o l’arte della dissonanza. Saggio sui romanzi, rimanda a un concetto chiave contenuto nel testo più noto del Pirandello teorico: il celebre saggio sull’umorismo, che, scritto per un concorso universitario al quale lo scrittore si voleva presentare, rappresenta anche un’utilissima chiave interpretativa dell’opera creativa dello stesso autore. Lì si parla dell’umorismo come strettamente legato all’avvertimento del «sentimento del contrario».
Un’idea che Pupino vede realizzarsi compiutamente non solo in opere come Il fu Mattia Pascal, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Uno, nessuno e centomila, ma anche nel precedente L’esclusa, in cui la negazione dell’ideale armonico, e dunque l’affermazione della dissonanza, era già ampiamente presente. Si tratta di una «destrutturazione» sia del mondo psichico dei personaggi, sia, sul piano costruttivo, degli stessi schemi narrativi. E persino in un’opera come I vecchi e i giovani, riportata dalla critica all’ambito di un’influenza tardo-verista, Pupino rintraccia questa che ormai ci appare come una costante di tutta l’opera pirandelliana sul piano delle digressioni che interrompono l’andamento narrativo principale e insieme su quello del linguaggio in cui si esprimono i personaggi, in alternanza tra un tono grave e magniloquente e un altro basso ed elementare. Diventa così chiaro come «fin dal principio Pirandello sembra mosso, pur senza linearità alcuna, da una spinta endogena verso quel suo epicentro, L’umorismo appunto».
Al lavoro teatrale è invece dedicato il saggio Pirandello in scena. Il linguaggio della rappresentazione di Andrea Bisicchia, docente di Metodologia e critica dello spettacolo all’Università di Parma. Uno studio basato su un approccio particolarmente innovativo: l’analisi non tanto dei testi dei drammi pirandelliani, quanto delle loro messe in scena. Basandosi sulla sua memoria e sulla sua esperienza di spettatore (prima ancora che di critico), ma anche su materiali d’archivio (come le recensioni agli spettacoli o le note di scena dei grandi registi: da Orazio Costa a Luigi Squarzina, da Mario Missiroli a Luca Ronconi), Bisicchia analizza i modi in cui la concretezza delle rappresentazioni teatrali è stata ed è in grado di dire qualcosa di nuovo su Pirandello e sulla sua opera, mostrandone lati rimasti in ombra e giungendo a interpretarli in maniera inedita.
Così Carlo Cecchi ha fatto emergere il lato comico, e non solo quello esistenziale, dei Sei personaggi in cerca d’autore, mentre Giorgio Strehler, con il suo uso delle luci, ha ottenuto ai Giganti della montagna effetti magrittiani, surrealisti, quasi onirici. Bisicchia spiega come il lavoro filologico sui testi possa e debba accompagnarsi proficuamente allo studio di quei grandi saggi critici scritti dai registi non su pagine di carta ma direttamente sui palcoscenici.

Pirandello o l’arte della dissonanza, Angelo R. Pupino, Salerno Editrice, pp. 360, euro 28,00

Pirandello in scena, Andrea Bisicchia, Utet Università, pp. 232, euro 16,00.

il Riformista 10.4.08
Il messaggio era tra le righe della lettera al «governo che verrà»
Bellocchio e Montaldo, la realpolitik dei Centoautori
di Luca Mastrantonio


Dopo Placido e Maselli cresce l'attenzione al disegno di legge della deputata forzista. Bisogna depoliticizzare le battaglie dei cineasti e guardare di più ai risultati concreti. Una nuova fase dell'impegno culturale o il risultato della lettura dei sondaggi?

Forse è scritto tra le righe, come suggeriscono dal coordinamento dei Centoautori, nell'ultima lettera al governo che verrà. Dove si chiedeva maggiore attenzione, a tutte le parti politiche, e ai vincitori, nei confronti del cinema. Un'industria che ha bisogno di un rilancio concreto, economico e imprenditoriale, comunicazionale, senza pregiudizi ideologici. Ma l'outing di Michele Placido, che al convegno di Barbareschi - come ha riportato il Corriere della sera - ha elogiato il disegno di legge dell'onorevole Carlucci, seguito da Citto Maselli, sembra indicare che l'aria è cambiata.
Per Marco Bellocchio, tra i firmatari della lettera, è ora che la politica dei Centoautori si caratterizzi per una maggiore realpolitik. «Prima ci si è relazionati soprattutto con Rutelli, le cui intenzioni erano molto buone, oggettivamente positive, senza colore politico. Questo deve valere anche nell'altro senso, politico, con la Carlucci o chi per lei. Sarebbe masochistico non appoggiare un progetto che vuole aiutare il cinema, perché magari viene da qualcuno a destra. L'ha capito anche uno come Citto Maselli, che io metto, scherzando, all'estrema sinistra del cinema italiano. Bisogna rendere attrattivo il disegno di legge sul cinema».
Ci vuole concretezza, anche perché «di tax shelter sento parlare da quando faccio cinema. Almeno quarant'anni, mi sembra una leggenda, un fumetto o qualcosa di comico», scherza Bellocchio. Convinto che «si debba recuperare concretezza nelle battaglie degli autori, rinunciare alle sigle come Api e Anac, alle divisioni, e puntare a conquiste di posizioni e incarichi, per non dover essere costretti a strisciare ai piedi del potere solamente politico di turno, per ottenere qualcosa. Ognuno, poi, singolarmente, può essere un sostenitore di Turigliatto o… della Santanché?... sì, anche se mi riesce più difficile immaginarlo. Comunque bisogna trovare una base comune, una piattaforma, e buttarla meno in politica, altrimenti siamo divisi».
Per questo bisogna sostenere chiunque voglia aiutare il cinema, conclude Bellocchio, senza guardare al colore politico. «Bisogna essere meno ideologici e più disponibili, l'artista è di per sé un idealista, ma non su tutto, su altre cose deve essere realista, concreto. Discriminare politicamente qualcuno, da parte della sinistra, è quasi ridicolo, qualcosa che è fuori tempo, ripeto, masochistico».
Quando gli chiediamo se per caso in questo cambio di clima, più dialogante, ci sia la consapevolezza che per i prossimi anni l'interlocutore sarà la destra, Bellocchio abbozza: «Non diamoci per sconfitti, tra qualche giorno lo scopriremo, ma non è detto». Però poi ci ricorda che lui, «a differenza di molti dei Centoautori, che sostengono o militano nel Pd», sta con la Sinistra arcobaleno. Dai pugni in tasca ai soldi in tasca? Niente facili battute, ma la sensazione è che anche per il cinema di sinistra valga uno dei titoli che è valso a Bob Dylan il Booker prize: The times they are a-changing .
Anche Giuliano Montaldo, che sabato riceverà il premio Grinzane cinema, a Stresa, non si preoccupa di vedere realizzati antichi progetti da attori politici di colore diverso dal suo. «Non conosco la Carlucci, ma certo se fosse grazie a lei che si realizzeranno finalmente quegli incentivi a produrre cultura e lavoro nel cinema, sarei ben lieto di stringerle la mano. Ho delle idee politiche diverse, ma non ci devono essere tessere quando si parla di cultura. Da presidente di Rai Cinema ho visto il problema della filiera che riguarda il cinema e ho sviluppato la convinzione che bisogna puntare sul privato, sull'agevolare finanziamenti privati, anche piccoli, più che rimpiangere quelli statali». Insomma, anche nel cinema si respira aria di larghe intese.

mercoledì 9 aprile 2008

Repubblica 9.4.08
Dopo le sentenze contro la legge 40 molte coppie fanno causa
Fecondazione artificiale in arrivo pioggia di ricorsi
di Caterina Paolini


Nel mirino la costituzionalità delle norme sulla procreazione assistita
I viaggi della speranza delle donne italiane: "Siamo tutte fuorilegge"

Sandra, Grazia, Miriam. A decine hanno deciso di dare battaglia in tribunale, tutte assieme. Di raccontare le loro storie di aspiranti madri «tradite dalla legge», di usare il loro dolore e unire le forze perché venga cambiata la norma sulla fecondazione assistita. Una sorta di class action al femminile per convincere chi vive e decide nei palazzi del potere «a non trattarci come cittadini di serie B».
«cioè come cittadini che hanno diritto ad avere figli ma solo malati. Oppure costretti ad emigrare».
Chiedono speranza e giustizia, rispetto della salute e rimborsi per i viaggi all´estero, visto che ogni anno sono più di cinquemila le coppie espatriate nelle capitali europee a fare quello che i medici italiani sanno benissimo fare, ma non possono in base alle linee guida della legge 40. Bocciate dal Tar del Lazio a febbraio, ma mai corrette.
Le singole vittorie ottenute nei mesi scorsi con le sentenze di Cagliari, con il via libera alla diagnosi pre-impianto per una donna talassemica o quella del Lazio che ha bocciato le linee guida della legge, non bastano più. È in arrivo una pioggia di ricorsi: in 50 con i loro compagni presenteranno infatti decine di citazioni nei prossimi giorni. «Il tentativo», spiega l´avvocato Maria Paola Costantini che segue una ventina di casi, «è da una parte quello di farsi autorizzare dal giudice l´accesso alla diagnosi pre-impianto dall´altra quello di sollevare eccezione di incostituzionalità». Arrivando così a cambiare la norma.
Sono donne con la valigia piena di sogni e volontà, emigranti per amore e divieti ad avere deciso di rivolgersi ai tribunali. Per loro, per quelle che verranno. Determinate, nonostante la malattia e i tentativi falliti, a cambiare una legge che, raccontano, le tratta come numeri, ignorando la loro storia, età e salute. Che costringe il loro corpo a bombardamenti ormonali ripetuti «perché non ti consente di produrre più di tre embrioni alla volta e ti impedisce di congelarli, usandoli così in futuro». Decise a cambiare norme che escludono dalle tecniche di riproduzione compagne di strada il cui unico desiderio è che il loro bambino non abbia le malattie di cui sono portatrici sane: talassemia, mutazioni cromosomiche. Che non muoia di fibrosi cistica.
Sandra Sgroi, 34 anni, portatrice sana di talassemia come il marito, è una di loro. In Italia non avrebbe nemmeno potuto sottoporsi alla fecondazione assistita. «È prevista dalla legge solo per le persone sterili mentre io come chi ha altre malattie rare o genetiche, posso avere figli. Sono quindi una cittadina di serie B: autorizzata a partorire bambini con un´altissima probabilità di vederli nascere malati, costretti a trasfusioni due volte al mese dalla culla e un´aspettativa di vita ridotta. Quale genitore vorrebbe un simile strazio per il figlio?», mormora lei che se n´è andata ad Istanbul, spendendo 18 mila euro a furia di tentativi falliti, tra esami, soggiorno e diagnosi pre-impianto, prima di ritrovarsi a contare i giorni che ora la separarono dal parto.
Donne che vogliono giustizia e speranza nei ricorsi presentati da Milano a Roma, da Napoli a Firenze, appoggiandosi ad associazioni come Hera, Madre Cicogna, Lega Italia contro la Fibrosi Cistica, Sos infertilità, che hanno istituito un numero verde (800097999) e che continuano a ricevere chiamate, segnalazioni facendo prevedere una valanga di ricorsi per l´estate. Chiedono in alcuni casi anche il rimborso dei danni psicologici e dei costi materiali per quelle trasferte organizzate per ottenere la diagnosi di pre-impianto, ora legale in Italia da febbraio. «Ma nel nostro Paese purtroppo inutile da fare visto che statisticamente la diagnosi su tre embrioni, numero massimo consentito per legge, non è significativa», spiega il professor Guglielmino tra i massimi esperti e che da anni a Catania si occupa di fertilità e tecniche di riproduzione assistita all´associazione onlus Hera.
Donne che non vogliono sentire parlare di eugenetica, di ricerca della perfezione. «Io non voglio un figlio bello o con gli occhi blu. E nel mio caso non è nemmeno questione di volerlo più o meno sano, ma di vederlo nascere», racconta Grazia, siracusana trentenne, tra quelle che hanno presentato una citazione. «Ho la traslocazione robertsoniana, un´anomalia cromosomica per cui al 75% è destino: non supero il terzo mese di gravidanza. Ogni volta abortisco naturalmente. Sono rimasta incinta quattro volte, quattro volte la speranza di un figlio si è interrotta prima della 12 settimana. Senza la fecondazione artificiale, senza la diagnosi pre-impianto non ho speranza. E tre embrioni, come prescrive la legge non bastano alla diagnosi: la statistiche dicono che c´è n´è uno sano ogni 6. Senza contare che per legge mi impianterebbero anche quello malato, lasciandomi poi la scelta di abortire, dopo. Ma chi ha scritto quelle norme sa cosa significa?». Lei come le altre ha già un biglietto in tasca per l´estero se la legge non cambierà. Ma non rinuncia a lottare in tribunale.

Corriere della Sera 9.4.08
Bertinotti: il comunismo? Solo «tendenza culturale»
di R. Zuc.


E a Prodi: non ha capito le ragioni della caduta
Replica al premier dopo le accuse (smentite) sul «fuoco amico»: ha preferito il risanamento alla giustizia sociale

ROMA — Dopo Walter Veltroni, Romano Prodi. Al traguardo della campagna elettorale Fausto Bertinotti è sotto il tiro incrociato dell'ex «fuoco amico », che lo incolpa di avere lavorato per far cadere il governo dell'Unione. Ultima uscita, appunto, quella del presidente del Consiglio, che sulla Stampa
rimprovera la sua Rifondazione di «avere minato continuamente » l'azione dell'esecutivo. A tarda sera Prodi sostiene che quell'articolo «non esiste», ma ormai è già partita la controffensiva bertinottiana. Al veleno la battuta pronunciata dal leader della Sinistra l'Arcobaleno in visita al quartiere di Testaccio: «È peggio non aver capito le ragioni della sconfitta del suo governo che aver subito la sconfitta». Perché, per il presidente della Camera, la caduta del governo è invece tutta colpa del centro moderato dell'ex coalizione. Che oggi si ritrova divisa di fronte alle urne e, negli ultimi giorni prima del voto, sceglie lo scontro totale.
Già in mattinata l'articolo della Stampa aveva suscitato una mezza rivolta nelle varie componenti della Sinistra unita. Il segretario del Prc, Franco Giordano, parlava di «parole sgradevoli e fuorvianti» e accusava «i moderati del Pd». Mentre Fabio Mussi definiva le accuse prodiane «una colossale balla ». Perché, «a far cadere il governo sono stati Mastella e Dini ».
Poi è toccato rispondere allo stesso Bertinotti: «È caduto perché sono venute a mancare le basi del consenso di massa ed era finito nella trappola della politica in due tempi: prima il risanamento, poi la giustizia sociale. Che non viene mai». In altre parole: «L'Unione ha subìto un logoramento con la sua base elettorale, dovuto al condizionamento delle forze moderate e dei poteri forti». E di questo «il presidente del Consiglio porta una responsabilità». Insomma, ormai il dado è tratto, «la sinistra è diversa dai moderati del Pd» e «se Veltroni ci chiamasse dopo le elezioni sarebbe un truffatore perché ha dichiarato più volte di non volere accordi con noi». Diverso è il discorso che riguarda la conquista del Comune di Roma, là dove Bertinotti assicura «massima lealtà» alla campagna di Francesco Rutelli: «Puntiamo a vincere al primo turno».
E il futuro della Cosa nata a sinistra? È evidente che molto dipenderà dal risultato elettorale, ma il presidente della Camera lo vede comunque unitario: «Un soggetto unico, democratico e partecipato». Dentro il quale il comunismo sarà una «tendenza culturale». Al pari di quella «ecologista e femminista». E non conoscerà più verticismi, ma sarà condotta da una «leadership collegiale».

Corriere della Sera 9.4.08
Dialogo Il grande intellettuale bulgaro spiega il suo distacco dallo strutturalismo. E risponde alle obiezioni di Cesare Segre sulla funzione della critica
«La vera eredità europea non è cristiana»
Tzvetan Todorov: le nostre radici sono nell'Illuminismo, che significa pluralità di culture
di Paolo Di Stefano


PARIGI — Dalla critica letteraria alla storia della cultura. Dalla letteratura alla filosofia morale, al pensiero politico. E ritorno. L'itinerario di Tzvetan Todorov è solo in apparenza imprevedibile, e chi ha visto nell'ultimo libro dello studioso bulgaro il risultato di una «conversione» semplifica le cose. È vero, è stato uno dei pionieri dello strutturalismo e ora, con La letteratura in pericolo (Garzanti), mette in guardia dall'abuso degli strumenti critici. Ma quarant'anni dopo, Todorov è diventato uno degli intellettuali europei più autorevoli grazie alle sue riflessioni sulla memoria, sui regimi totalitari, sulle ideologie, sull'identità. Un cammino molto lungo da quando, ventiquattrenne, nel '63 lasciò Sofia per stabilirsi a Parigi, accanto ai mostri sacri Barthes e Genette. C'è anche una questione autobiografica dietro la svolta di oggi.
È di questo che Todorov parla, tranquillamente seduto a un tavolino del Café de la Contrescarpe, che guarda su una piazzetta a due passi dal Panthéon: «In Bulgaria era una necessità affrontare gli elementi che sfuggivano all'ideologia: stile, forma narrativa, tecnica compositiva. Ma stando in Francia, è venuto meno il tabù che pesava sulle idee, sulle relazioni tra letteratura e mondo. Dunque a poco a poco ho maturato una coscienza nuova: mi sono reso conto che per avanzare in una migliore comprensione dell'essere umano, che è l'obiettivo delle scienze umane, è necessario mettere in gioco la propria stessa esistenza». Così le pretese scientiste del formalismo, nell'approccio alla letteratura, venivano messe in crisi: «Capii che non potevo più esercitare la mia intelligenza su un oggetto come se mi fosse estraneo: è stata la mia biografia a portarmi verso argomenti come l'altro, l'incontro di culture, le scelte morali imposte all'individuo dal totalitarismo».
Dopo studi memorabili quali I formalisti russi
e La letteratura fantastica, nei primi anni '80 si arriverà a La conquista dell'America. Fino agli studi sull'Illuminismo («il pensiero di un'epoca non abita solo nei libri di filosofia, ma anche nelle opere d'arte: il mio sogno è scrivere una storia dell'Illuminismo attraverso la pittura») e al pamphlet
sull'Europa: «Si parla tanto di eredità cristiana, ma l'Europa ha anche una tradizione greca, romana, ebraica, musulmana, del libero pensiero. Il suo statuto è la pluralità. Il richiamo ai Lumi, che per la prima volta hanno percepito il pluralismo come virtù, mi sembrerebbe più attuale e indispensabile che il richiamo alle origini cristiane: la decisione di accogliere le diversità è un'invenzione esclusiva dei Lumi e certamente non appartiene a nessuna tradizione religiosa. Lungi da me ogni velleità di ignorare la funzione del Cristianesimo nella nostra cultura, ma sul piano politico, come cittadini dobbiamo riconoscere che sono stati i Lumi a svolgere il ruolo decisivo».
Torniamo al problema dell'altro: «Ho vissuto ormai in Francia il doppio del tempo che ho vissuto al mio Paese, ma sono sempre uno straniero. È una condizione che fa parte di me. Alla fine degli Anni 70 andai in Messico, lessi le cronache di viaggio e le relazioni dei conquistadores,
e ne rimasi abbagliato, come se quella gente del XVI secolo mi rivelasse la mia identità di uomo del Novecento ». Una conversione già allora?
Non proprio: «Per interpretare quei documenti provai a servirmi di tutto ciò che avevo imparato nelle analisi letterarie: ne venne fuori una specie di semiotica del comportamento dei conquistatori da una parte e degli indiani dall'altra. Il mio bagaglio strutturalista mi serviva per capire una realtà storica. Ancora oggi cerco di convocare tutti i metodi utili e i tipi di sapere: lo studio delle strutture e dello stile, la storia, l'approccio sociologico, marxista o psicoanalitico. Per questo non penso proprio di aver compiuto una svolta di 180 gradi».
Niente conversione, dunque. Todorov parla di «glissement»: «Nel mio caso si è prodotto uno slittamento durato trent'anni: il metodo è solo uno strumento di conoscenza e non bisogna confonderlo con l'oggetto della conoscenza, che è il senso di un'opera letteraria, e cioè un insieme che risponde a una preoccupazione esistenziale e comprende le forme, gli eventi narrati, le idee, i significati, la morale, la politica, la storia. È questo che deve trasmettere l'insegnamento scolastico». Si tratta di orientarsi più sui contenuti, sul messaggio? «Non parlerei semplicemente di contenuti. A scuola bisogna capire che cos'è la letteratura e che cosa trasmette sul piano esistenziale. Oggi si parla di antropologia, sociologia, psicologia, ma per molto tempo queste scienze non esistevano e il sapere sull'essere umano e sulla società lo si trovava solo nella letteratura. Sarebbe criminale dimenticare tutto questo.
Se Freud aveva l'umiltà di sostenere che i romanzieri erano i suoi maestri, tanto più noi tutti dovremmo riconoscerlo».
E a chi rimprovera a Todorov e ai suoi vecchi compagni di viaggio di essere stati fondamentalisti del metodo, come risponde? «Era il fondamentalismo dei neofiti, l'eccitazione della scoperta, l'entusiasmo nel riproporre vecchi testi dei formalisti Anni Venti. C'era un'effervescenza internazionale che coinvolgeva anche studiosi italiani come Segre, Maria Corti, Eco, Aldo Rossi. Ma certo, alla lunga si continuava a concentrarsi sugli strumenti e sulle forme, e le forme sono solo un modo per far vivere il senso di un'opera ». Come ha scritto Alessandro Piperno sul Corriere, oggi certe formule, come «la morte dell'autore» inventata da Roland Barthes, fanno un po' sorridere. Si può ancora essere d'accordo? «Barthes aveva una personalità che non si riduceva a nessuna delle formule che era capace di inventare. Maneggiava la lingua con straordinaria facilità e prestava la sua eloquenza a ogni tipo di idee. Direi che il vero Barthes non era in questa o in quella formula. Un giorno scriveva La morte dell'autore e il giorno dopo poteva scrivere un libro intitolato Roland Barthes visto da Roland Barthes, da cui si deduceva che l'autore non era affatto morto».
Dimenticato Barthes, quali sono i critici del nostro tempo che puntano diritti verso il senso della letteratura? Todorov si accarezza la nuvola di capelli bianchi e fa non più di due o tre nomi: l'americano Joseph Frank («che studiando Dostoevskij come nessuno aveva fatto prima, unisce diversi ingredienti: contesto sociologico e ideologico, analisi strutturale, biografia»), il francese Paul Bénichou («che si occupava di letteratura da storico delle idee»), lo svizzero Jean Starobinski («un grande commentatore più che un teorico»).
Quella che proprio Todorov non sopporta è la critica che asseconda la voga letteraria, particolarmente francese, del nichilismo: «La critica giornalistica spesso considera la letteratura come un'entità separata dal mondo esterno e la tratta come una pura forma attraverso cui si affermano il nulla, la catastrofe, la fine. Io credo che nessuno possa vivere e scrivere con una visione totalmente nera della vita. Leggo certe critiche in cui si dice: questo autore rivela l'inesistenza assoluta di ogni sentimento umano, la distruzione di tutti i valori... Uno scrittore o un critico finiscono di scrivere queste cose e poi necessariamente tornano alla vita di tutti i giorni: abbracciano il loro amore, si preoccupano dei figli, preparano da mangiare, partono in vacanza, vanno al cinema, eccetera. Insomma, continuano a fare tante cose normali e positive al di là delle loro dichiarazioni di disperazione infinita. Tutto ciò rivela una rottura tra letteratura e mondo. Ora, secondo me si può dire tutto in un romanzo, ma ci si dimentica spesso che c'è una continuità tra letteratura e vita».
Qualche nome. Houellebecq? «È uno dei grandi rappresentanti del nichilismo contemporaneo ». Altri? «Elfriede Jelinek e il classico del genere: Bernhard. Non ha importanza che non mi piacciano. Ricordo solo che anche i testi più disperati di Beckett, attraverso la loro bellezza, la perfezione, la capacità di far ridere, comunicavano comunque una speranza».
Secondo punto dolente della narrativa d'oggi, quella che Todorov chiama «egoletteratura»: «Non so in Italia, ma in Francia ci sono scrittori che per 250 pagine raccontano in ogni dettaglio i propri amori, gli incontri quotidiani, il sesso, le rabbie, i litigi, le separazioni e poi i divorzi. È la cosiddetta autofinzione, una formula lanciata qualche anno fa per dire che si può fare letteratura partendo da fatti strettamente riservati: uno statuto intermedio tra l'autobiografia e la finzione, che produce libri secondo me molto poveri, romanzi che raccontano un mondo a parte, confinato, personale, senza conflitti, senza banlieue, senza immigrati, senza le trasformazioni della mondializzazione. Ma detto questo, io mi astengo dal dare consigli agli scrittori. La letteratura è una cosa troppo seria...».
Un autore che va in un'altra direzione? «Il romanzo americano ha la forte tradizione di parlare del presente, e a me piacciono i romanzi che ti interpellano sui grandi temi che viviamo. Ma se devo fare un nome, mah, penso a un autore spagnolo: Antonio Muñoz Molina. I suoi romanzi in genere fanno riflettere sul nostro tempo, sul mondo, sulla società, sulla violenza, sulle guerre civili. E sono fuochi d'artificio di complessità, di pluralità, di voci, di tempi narrativi e di punti di vista. Sono aperti al mondo e appassionati alla forma ». Piacerebbero anche agli ultimi strutturalisti.

il Riformista 9.4.08
Anche in Rai c’è la casta
di Alessandro Curzi


Quale rapporto, quali analogie e quanta sovrapponibilità esistono fra l'Italia che non ne può più dell'autoreferenzialità e della separatezza della politica (ed è tentata di fuggire dalle urne), e l'Italia che non ne può più dell'autoreferenzialità ripetitiva e della separatezza della tv generalista dai linguaggi, dalle aspettative e dalla vita della gente comune (ed è tentata di passare ad altre scelte di comunicazione e di intrattenimento)? Me lo sto chiedendo spesso in questi giorni di campagna elettorale - ottimamente sintetizzata dal titolo di ieri de Le Monde : «Quand l'Italie s'ennuie» - e di non casuali interventi critici (credo anche con qualche punta di consapevolezza autocritica) di tre fra i migliori quadri dirigenti che abbia avuto recentemente la Rai. Mi riferisco agli articoli di Giovanni Minoli («Il duello in tv? L'ha già vinto Fabrizio Corona») e Stefano Munafò («Rai in crisi non solo per le elezioni») sul Riformista di ieri e di Carlo Freccero («E la tv non sa più a che santo votarsi») sul Manifesto di lunedì.
Anche i sassi sanno quanto sia lontana da me, dalla mia vita, dalla mia antica militanza e anche dalle mie più recenti acquisizioni di pezzi di cultura moderna, la cosiddetta anti-politica. Ma debbo ricorrere alla categoria della «casta» per individuare ciò che accomuna i contenuti e le forme prevalenti in politica con i contenuti e le forme prevalenti ormai nella tv generalista. Insomma, un inamovibile ceto di potere e di privilegiati si è effettivamente, stabilmente insediato - per una serie di ragioni, tutte inscrivibili nel processo di formazione del ceto dirigente e mediatico prevalso con l'esplosione del mercato della comunicazione - attorno alle anomale caratteristiche assunte in Italia dalla democrazia di massa, alle anomale peculiarità assunte in Italia dai consumi televisivi, dal mercato pubblicitario e dall'informazione e ai conseguenti, anomali intrecci fra politica, mass media e affari.

il Riformista 9.4.08
Sindaco. Patto di sostegno, ma la base rifondarola soffre
Fausto fa il soccorso rosso a Rutelli
A Roma va in scena il Pd de' sinistra
Al Loft non far sapere quel che succede al Campidoglio
di Stefano Cappellini


Sono le quasi le sei del pomeriggio quando Francesco Rutelli fa il suo ingresso a sorpresa nella Casa della Sinistra a Testaccio, la prima sezione unitaria dell'Arcobaleno a Roma inaugurata ieri da Fausto Bertinotti. E sfortuna vuole che lo faccia nel momento meno adatto. Il presidente della Camera ha appena concluso una sfuriata a tutto fiato contro il Pd: «C'è chi vuole cancellare la sinistra in Italia, chi, con l'inganno del voto utile, ci chiede di assistere dagli spalti a una partita dove in campo non c'è la nostra squadra. Noi dobbiamo impedirlo». Ovvio che quando la platea di militanti della storica sezione testaccina - già del Pci e strappata da Fabio Mussi al Pd - si vede comparire in sala Rutelli l'accoglienza è un gelido silenzio. È come se si materializzasse il nemico appena evocato. A rompere l'imbarazzo è Bertinotti, tra i pochi in sala a non essere rimasto sorpreso della visita. L'ha concordata lui stesso, la sera prima. «Salutiamo il nostro candidato sindaco», dice il presidente della Camera. Parte un tiepido applauso. Rutelli partecipa al brindisi, resta pochi minuti e fugge verso altre iniziative. Ma il fugace appuntamento è la fotografia migliore della campagna romana del centrosinistra, dove una coalizione sconfessata a livello nazionale si trova a combattere insieme una battaglia non facile per tenere a sinistra la capitale.
Per Rutelli, poi, il problema è duplice, perché sull'ex leader della Margherita grava la diffidenza di una parte del popolo rifondarolo, consolidata ai tempi del referendum della fecondazione assistita e quando il candidato sindaco era sospettato di volersi traghettare armi e bagagli in un centro montezemoliano e ruiniano. Rutelli e Bertinotti hanno ben chiaro il problema e stanno correndo ai ripari. Anche perché a Roma la corsa del vicepremier per evitare il ballottaggio si gioca sul filo di pochi voti e, in pratica, tutta a sinistra. Ecco perché la prima intervista ufficiale della campagna rutelliana è stata concessa al manifesto . La seconda intervista? A radio Popolare. La conversazione con Liberazione è già in agenda. E se ieri l'ex sindaco era a Testaccio con Bertinotti, il giorno prima era a poche decine di metri, a deporre un mazzo di fiori sulla lapide che al Ponte di Ferro ricorda l'eccidio di dieci donne per mano dei nazisti il 7 aprile del 1944.
L'incubo di Rutelli (e di Bertinotti) ha un nome: si chiama voto disgiunto. Il sasso l'ha lanciato per primo Vladimir Luxuria: «Voto Arcobaleno, ma Grillini sindaco», ha dichiarato il deputato Prc. Quella che sembrava un'uscita estemporanea e solitaria si è tramutata in un tam tam nella base del partito (e ha trovato spazio pure nel Pd, dove il candidato Andrea Benedino, esponente della comunità gay, ha rilanciato l'appello di Luxuria). I vertici del Prc hanno dovuto affrontare di petto la questione. «Il voto disgiunto, un pensiero in apparenza leggero e creativo, rischia di consegnare Rutelli all'alleanza coi centristi e mettere noi in un imbuto», ha detto il deputato e segretario romano Massimiliano Smeriglio. L'altroieri il segretario Franco Girodano ha dovuto convocare una conferenza stampa ad hoc per fugare ogni sospetto sulla posizione del partito: «Il voto disgiunto è una bizzarria e non va contro Rutelli, ma contro noi stessi. Se andremo al secondo turno, infatti, saremo costretti a ricontrattare quella parte di programma che abbiamo strappato con le unghie e con i denti». E Giordano è andato oltre, definendo Rutelli «un sindaco migliore di Veltroni».
Ma dietro il voto disgiunto, che non ha mai assunto proporzioni di massa, c'è soprattutto lo spettro dell'astensionismo a sinistra. E Rifondazione ha un interesse vitale a contrastare il fenomeno e, al tempo stesso, a conservare a Roma un laboratorio unitario del centrosinistra. Operazione complicata da spiegare al proprio elettorato mentre dal Loft piovono pietre sulla ex ala rosso-verde dell'Unione e lo stesso Romano Prodi accusa Bertinotti (poi in parte smentendo) di aver destabilizzato il suo esecutivo. Ieri Rina Gagliardi su Liberazione ha commentato con sarcasmo l'intervista a Repubblica in cui Dario Franceschini (ribattezzato per l'occasione «Dariuccio il bipolarista») chiude la porta a future alleanze del Pd con la Sinistra. Il minimo che possa uscire da questo quadro è una campagna schizofrenica: Rutelli, l'inventore delle «alleanze di nuovo conio», ora si trova a dover corteggiare serratamente le vittime designate di quell'invenzione. Veltroni professa la tolleranza zero sui nomadi e l'ex leader margheritino dice al manifesto : «Sarò il sindaco anche dei rom». Bertinotti deve attaccare il Pd nazionale ma salvare quello romano; ribattere a Prodi e Veltroni e intanto aiutare senza se e senza ma Rutelli. A Roma il Pd ha un bisogno disperato della sinistra radicale, e viceversa. Dice Smeriglio: «Veltroni e Franceschini non ci aiutano a saldare, come noi vogliamo, l'alleanza di governo che abbiamo fatto su Roma. È un'alleanza che noi difendiamo. Rutelli se ne faccia garante». Il candidato al Campidoglio e Patrizia Sentinelli, coordinatrice della campagna arcobaleno e vicesindaco in pectore, hanno affrontato in piena sintonia persino la vicenda delle occupazioni di casa alla Bufalotta, rapidamente rientrata dopo la condanna anche da parte di Rifondazione. Il Campidoglio dista poche centinaia di metri dal Loft di piazza Sant'Anastasia. Eppure sembra tutta un'altra città, tutta un'altra storia.

il manifesto 8.4.08
La crocetta del cittadino
di Marco d'Eramo


Cittadina/o: incarnazione dell'essere umano che si manifesta in un solo irripetibile gesto, ogni due, tre o quattro anni. Cittadina/o è colei/ui che fa una croce su un foglio di carta in un separé ligneo la cui forma accosta il rito del voto alla memoria dei vespasiani. Uscito dal bugigattolo elettorale, il bipede umano smette la sua veste di cittadina/o che riporrà nel guardaroba, con adeguata naftalina antitarme, per riesumarla e indossarla alla prossima scadenza.
O per lo meno è così che ci vorrebbe chi ci governa, ma non riesce a dominarci (non del tutto, almeno). Però troppo spesso è così che finiamo per vederci noi stessi che insieme sopravvalutiamo e snobbiamo questa croce (un «per»? un «più»? un simbolo religioso? un'ammissione di analfabetismo?), come se il nostro destino fosse tutto appeso a questa statistica di milioni di crocette individuali, o come se esse fossero del tutto irrilevanti.
In questo stanco quarantennale di '68, la celebre categoria di «unideminsionalità antropologica» allora formulata da Herbert Marcuse, può essere applicata all'uomo in quanto animale politico: lo si vuole ridurre sì a una e una sola dimensione, ma è quella elettorale. Fa quasi tenerezza vedere il «fantasma del comunismo» aggirarsi non per l'Europa ma nei sondaggi della Doxa, e i soi-disant eredi della «rivoluzione proletaria» sfiancarsi in dotte disquisizioni su dove (Lazio? Toscana?) puntare per superare l'8% al senato.
In realtà il nostro vivere politico è multidimensionale: una dimensione - non la più importante - parlamentare, che si esprime nella fatidica crocetta; una sociale: quella dei conflitti, degli scioperi, dei movimenti, delle manifestazioni no-global; una culturale che si batte contro i pilastri dell'ideologia conservatrice, contro la «società dei proprietari» e per non solo la libertà religiosa, ma anche la libertà dalla religione; una comportamentale, dei gesti spiccioli, in cui ognuno di noi fa politica con l'ospitalità verso gli immigrati o la carta e i vetri nella raccolta differenziata.
Da questi ultimi tre punti di vista, quasi nulla ci offre la dimensione puramente elettorale. Anzi, forse ci toglie qualcosa il Pd di Walter Veltroni, dei generali anti-culattoni, delle signorine capolista «non capisco di politica niente e me ne vanto», degli imprenditori rigidissimi sulla flessibilità (altrui). Come si fa a invocare un voto utile per l'ineffabile Paola Binetti? (Ci sarebbe per altro da interrogarsi sull'utilità elettorale dei teodem: quanti voti portano davvero, ma quanti ne tolgono?) Di nuovo vediamo l'insopprimibile vizio di partiti che invece di rappresentare le classi subalterne contro gli interessi dominanti, rappresentano la subalternità alle classi dominanti e si fanno in quattro per essere ammessi (nei salotti), per essere accreditati (presso il Vaticano, la grande finanza..): per due anni il governo Prodi ha avuto l'unico obiettivo non di riequilibrare la selvaggia redistribuzione dei redditi che ha devastato la società italiana, ma di farsi mettere un buon voto dai banchieri di Francoforte («diligenti, ma potrebbero fare di più», c'è scritto in pagella). Né offre molto la Sinistra arcobaleno che sembra evitare in tutti i modi di attaccare la destra e Silvio Berlusconi: nessuno che lo sfotta per le sue mirabolanti promesse del 2001. Nessuno attacca il clericalismo. Che sinistra è una che non attacca la destra?
Abbiamo un candidato premier (Fausto Bertinotti) che nel suo ultimo appello sul manifesto si butta sul registro poetico: il lirismo è l'ultimo ricorso dei politici a corto di argomenti, un po' come «il patriottismo è l'ultimo rifugio dei furfanti» (dottor Johnson). Se il Pd ha la sua Binetti, la Sinistra arcobaleno si ritrova per ideologo un guru come Massimo Fagioli. Questa Sinistra arcobaleno non ha il coraggio né della laicità né dell'ambientalismo. Da ministro dell'università, Fabio Mussi non ha avuto l'ardire di schierarsi con quel gruppo di professori (molti dei quali l'avevano in precedenza sostenuto) che difendeva la laicità dell'università di Roma contro il tentativo d'imporre una pontificia lectio magistralis. E i verdi? In una delle più drammatiche emergenze ambientali dell'Italia repubblicana, è assordante il loro silenzio sull'ambiente.
Più in generale, quali sono le parole d'ordine che dovrebbero mobilitare i giovani? Veltroni si richiama a Obama, ma dove sono i liceali che vanno a fare attivismo tra i leghisti della Valtellina o i mastelliani di Ceppaloni? I ventenni di oggi non hanno nessun ricordo personale del Pci. Perché dovrebbero votare per partiti che ancora dopo 18 anni non sono riusciti a elaborare quel lutto? Sembra che Pd e Sinistra arcobaleno stiano facendo di tutto per far vincere Berlusconi.
Astenersi allora? No. Allora votare per quel che passa il convento, visto che al gioco elettorale bisogna partecipare secondo le regole e i limiti elettorali. Perché non votare è già un voto, proprio come non decidere è una decisione. Voterò quindi Sinistra arcobaleno, sapendo però che il centro dello scontro politico oggi si situa altrove, e ricordando che mai un parlamento eletto ha approvato «buone leggi» senza una forte pressione dall'esterno. Tutte le riforme degne di questo nome, dal voto alle donne conquistato dalle suffragette, alle ferie pagate del fronte Popolare, allo statuto dei lavoratori dell'autunno caldo, al divorzio e all'aborto, tutto è avvenuto solo su pressione esterna da parte di movimenti di piazza, violenti e non violenti.
Il voto non cambierà molto (anche se un esito diverso negli Usa avrebbe forse risparmiato al mondo una guerra in Iraq). Però con le elezioni avviene quel che capita con le «libertà formali» che non rendono davvero liberi, ma la cui assenza rende davvero schiavi. Così il voto ha scarsa influenza, ma le società che non votano stanno parecchio peggio. Accettiamo quindi di (ap)portare la nostra croce.