domenica 13 aprile 2008

Repubblica 13.4.08
Il no di Bertinotti alle missioni militari all’estero
Stop al precariato, sì alle unioni civili
Le aziende idriche in mano pubblica. No all'atomo


ROMA - Diritto a un lavoro dignitoso e lotta alla precarietà, in testa all´agenda della Sinistra arcobaleno. Ma il nuovo soggetto guidato da Fausto Bertinotti fa della laicità e dell´ambientalismo le proprie bandiere, proponendo tra l´altro le unioni civili.
Dignità e diritti nel lavoro: la sicurezza. Una legge che fissi la durata massima del lavoro giornaliero in 8 ore e in 2 ore la durata massima degli straordinari. Più controlli e più certezza e severità delle pene per le imprese che trasgrediscono le norme sulla sicurezza. Lotta alla precarietà. Sono più di 4 milioni i precari in Italia. La Sinistra arcobaleno propone di superare la legge 30 e di affermare il contratto a tempo pieno e indeterminato come forma ordinaria del rapporto di lavoro, di rafforzare la tutela dell´articolo 18 contro i licenziamenti ingiustificati, di cancellare dall´ordinamento le forme di lavoro co.co.co, co.co.pro e le false partite iva. Laicità e unioni civili. Affermare l´uguaglianza sostanziale dei diritti delle persone omosessuali e il riconoscimento pubblico delle unioni civili. La Sinistra arcobaleno ritiene che ognuna e ognuno abbia il diritto di decidere del proprio corpo e propone una legge sul testamento biologico. Energia. No al nucleare. Entro il 2020 superamento del 20% dell´energia prodotta attraverso fonti rinnovabili anche con un grande investimento pubblico in pannelli solari. Ripubblicizzazione dei servizi idrici. Pace. No alle missioni al di fuori del comando politico e militare Onu. Taglio drastico delle spese per gli armamenti.

il manifesto 13.4.08
A Firenze, cinque giorni dopo il voto, ci sarà il meeting per il soggetto unitario. Il laboratorio toscano, foto quasi perfetta della sinistra futura prossima
Dopodomani l'arcobaleno
di Riccardo Chiari
(domani qui)

Repubblica 13.4.08
Dopo 30 anni via il segreto di Stato
Decisione del governo: da maggio niente più omissis sul caso Moro e i misteri d’Italia
Subito accessibili anche i faldoni che riguardano le stragi di piazza Fontana e Italicus
di Liana Milella


ROMA - Il governo Prodi lo annuncia con un taglio decisamente low profile. Ma dopo anni di battaglie durissime e di scontri tra i magistrati, gli 007 e la politica, finalmente è caduto il muro del segreto di Stato. Non sarà più eterno, com´è stato finora. Durerà al massimo 15 anni rinnovabili con altri 15 con un decreto del presidente del Consiglio. Trenta in tutto, non uno di più.
In un´intervista radiofonica, al Gr1 di Radio Rai, il prodiano Enrico Micheli, sottosegretario alla presidenza con delega ai servizi segreti, rivela che il regolamento sul segreto di Stato, previsto dalla legge di riforma dell´intelligence, ha avuto il via libera. E poiché tutti, andando indietro di trent´anni, pensano subito al sequestro Moro, lui puntualizza: «Il decreto non riguarda esplicitamente quel caso, ma tutti i segreti di Stato che abbiano superato i trent´anni». Aggiunge che, di persona, ha pregato «tutti», i servizi Dis (ex Cesis), Aise (ex Sismi) e Aisi (ex Sisde) e le forze di polizia, «di organizzare le consultazioni per quanti lo richiedano». Anche se Micheli non lo dice ufficialmente, si sa che la sua raccomandazione più calda ha riguardato in special modo tutte le carte del caso Moro che, giusto nel trentennale dell´assassinio dello statista, saranno sicuramente le più richieste. Fatti due conti, e visto che il decreto dovrebbe essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale entro il 20 aprile, immediatamente le carte contenute nelle casseforti degli 007 e che riguardano i fatidici 55 giorni del sequestro potranno essere liberamente consultate da chi, i familiari delle vittime, storici, giornalisti, uomini politici, avrà interesse a farlo.
Un fatto è certo. Fatti gravissimi accaduti nello scorso secolo, dalla strage di piazza Fontana a quelle di Brescia e dell´Italicus, con il ruolo oscuro e depistatorio svolto dai servizi, potranno essere riletti. E stavolta non potrà accadere quello che racconta l´ex capo della procura di Milano Gerardo D´Ambrosio, uno dei magistrati che indagò proprio su piazza Fontana: «Andreotti rilasciò un´intervista in cui annunciava che avrebbe aperto i cassetti dei servizi. Noi ci precipitammo a Roma e lui ci disse di andare dal capo del Sid Vito Miceli che ci ricevette subito con un "che vi serve?". "Entrare negli archivi" rispondemmo noi. E lui "Eh no, impossibile. Ditemi che vi serve, noi lo cerchiamo e ve lo diamo"». D´Ambrosio è soddisfatto della legge, ma scettico sui risultati: «Era ora che anche in Italia si approvasse una norma come questa, ma bisogna vedere che cosa ci fanno trovare. Gli 007 sono talmente burocratici che incartano tutto, ma le carte scottanti forse non ci sono più».
È la stessa previsione dell´ex pm Felice Casson, protagonista di duri contrasti con i servizi: «La riforma è epocale, soprattutto perché avrà un effetto positivo per il futuro. Se già adesso si sa che le carte dovranno essere pubbliche, non si verificheranno più depistaggi. Quanto al passato invece credo che negli archivi degli 007 ormai ci sia ben poco. Su stragi come piazza Fontana, Brescia e Bologna dai cassetti dei servizi non verranno scoperte che potranno mutare gli accertamenti fatti nel corso dei processi».
Le voci critiche e i dubbi sulla riforma non mancano. L´ex pm Antonio Di Pietro avrebbe voluto un termini più stretto: «Per me 30 anni sono decisamente troppi, è solo un modo per non svelare nulla. Il segreto è comprensibile nell´immediatezza dei fatti per tutelare l´interesse pubblico, ma subito dopo ci vuole il controllo democratico. I depistaggi e l´uso strumentale dei servizi avrebbe consigliato un sistema diverso, per esempio affidare al Copaco la possibilità di far cessare il segreto anche dopo tre mesi». L´ex presidente della commissione Stragi Giovanni Pellegrino, che ancora aspetta di veder resi pubblici i documenti sul caso Moro che pure nel 2001 aveva desecretato, è preoccupato dall´applicazione concreta del regolamento: «Temo che qualcuno, in modo restrittivo, possa dire che un documento trovato oggi, ma rispetto alla stesura del quale sono già passati 30 anni, possa essere invece oggetto di un nuovo sigillo di segretezza». Un dubbio che appare smentito dalla stessa formulazione del decreto che "libera" i documenti 30 anni dopo il vincolo di segretezza apposto dagli 007 oppure opposto dai magistrati dal presidente del Consiglio.

Repubblica 13.4.08
Lager d’Italia. I volenterosi carnefici del Duce
di Paolo Rumiz


Non c´erano camere a gas e nemmeno lavori forzati, ma si moriva lo stesso. Semplicemente di fame e di malattie Toccò a decine di migliaia di internati sloveni e croati Perché i campi fascisti ubbidivano agli stessi imperativi di quelli hitleriani: terra bruciata, pulizia etnica, spazio vitale alla razza vincitrice Nuovi documenti e un libro abbattono per sempre il mito della "brava gente"
Un generale annota a mano: "Individuo malato = individuo che sta tranquillo"

Stessi corpi nudi, stessi occhi vuoti, scheletri senza natiche e pance gonfie come tamburi. Certo, non era Auschwitz, non c´erano camere a gas, e nemmeno lavori forzati. Ma si crepava egualmente, come mosche. A fare il lavoro bastava la fame, il freddo, la malaria, le cimici, la scabbia, la dissenteria, il tifo petecchiale. Bastavano le punizioni, le adunate, la paura di essere prelevati come ostaggi per le fucilazioni di rappresaglia. Dentro il filo spinato non c´erano ebrei, polacchi, ucraini. C´erano sloveni e croati, ma la sporcizia e il tanfo erano gli stessi. Sulle torrette di guardia stavamo noi, «italiani-brava-gente», non i tedeschi, ma l´imperativo categorico era identico. Fare terra bruciata, annientare quegli uomini-pidocchi, bonificare le terre del nemico, pulirle etnicamente, offrire spazio vitale alla razza egemone.
Non ci furono solo i campi di Hitler. Anche l´Italia ha avuto i suoi. Nel territorio nazionale, incluse le aree jugoslave annesse nella primavera del 1941, i lager furono ben centosedici, e i più malfamati vennero destinati alla «razza slava». Fino all´8 settembre del ‘43 inghiottirono decine di migliaia di persone, in gran parte vecchi, donne e bambini, talvolta neonati, dei quali morirono di stenti quasi uno su tre. Dei croati - i più numerosi - abbiamo dati approssimativi, ma sappiamo che i soli sloveni furono ventiquattromila, dei quali settemila non tornarono. Tanti, per una popolo di un milione e mezzo di abitanti. Centosedici furono i campi del Duce, ma solo quattro monumenti fuori-circuito ricordano la sofferenza dei deportati: a Roma, San Sepolcro, Barletta e Gonars in Friuli. Per loro, nessun giorno della memoria. Nessun accenno sui libri di scuola.
Un tema tabù, dove s´è cercato per anni, con pochi mezzi e scarsa pubblicità. Le testimonianze, terribili, ci sono: le hanno raccolte studiosi come Costantino Di Sante, Spartaco Capogreco, Tone Ferenc, Eric Gobetti, ma sono sempre rimaste una cosa di nicchia, non sono mai entrate nella coscienza nazionale. Ora altre voci bucano la cortina del silenzio. Lettere di donne recluse, ritrovate negli archivi della prefettura di Udine, dove ha funzionato l´ufficio-censura dell´esercito di Mussolini. Lettere mai inoltrate al destinatario; invocazioni disperate di nonne, ragazze, madri, che spesso non hanno commesso nulla e non sanno perché sono state internate. E poi i racconti delle ultime sopravvissute, che a distanza di sessantacinque anni hanno scelto di rompere la diga del dolore. Un materiale terribile, raccolto da Alessandra Kersevan nel libro Lager Italiani, ora in pubblicazione per conto della casa editrice Nutrimenti. Un testo da leggere, se vogliamo fare i conti con noi stessi.
Marija Poje è di Stari Kot, paese completamente distrutto dai nostri dopo la deportazione degli abitanti. Nel febbraio del ‘42 viene internata sull´isola di Arbe (Rab) dove funziona il campo più grande della Dalmazia. Il motivo ufficiale è: protezione dalle incursioni partigiane. In realtà è una forma di brutale occupazione. Marija ha un bimbo di tredici mesi ed è anche incinta. Al campo, racconta, «non avevamo niente da mangiare e i bambini piangevano terribilmente… ci hanno messo sotto tende militari… e anche lì era solo pianto e gemito di bambini». Poi il trasferimento a Gonars, dove la fame comincia a uccidere. Inedia, freddo, assenza di medicine. Come cibo solo brodaglia e un pezzo di pane grande «come un´ostia».
Racconta Marija, oggi ottantenne: «A me poi è morto questo bambino appena nato, mi è morto questo figlio della fame e del freddo… Era magro, solo ossicini, era come un coniglietto. Due giorni di agonia prima di chiudere gli occhi. E proprio quel giorno per la prima volta gli avevano dato… un po´ di latte freddo. Ha avuto il latte la prima volta quando è morto. Poi l´hanno portato via ed ero così malridotta che non ho potuto accompagnarlo nemmeno sulla porta della baracca. Sono rimasta là. E ancora adesso ho questo desiderio spaventoso, il desiderio di quella volta. Il ricordo dei giorni terribili in cui ho desiderato che morisse prima di me… io non ho potuto andare là, non sapevo neanche dove fosse sepolto».
Stanka è una slovena di origine rom che oggi vive in Friuli. I suoi genitori con otto figli vennero internati ad Arbe e poi a Gonars. La testimonianza è raccolta da Andrea Giuseppini, autore di un documentario sulla deportazione degli zingari nei campi fascisti. «Ci hanno portato in carcere a Lubiana, poi ci hanno portato in questa isola… Rab, in Dalmazia sarebbe… Tanta di quella fame… Non ierano baracche, nelle tende e dentro buttata paglia e lì si dormiva come le bestie. Ieramo in tanti, cinquemila, forse anche di più. I bambini morivano di fame. I piccoli neonati li nascondevamo sotto la paglia perché prendevamo il rancio su di loro… Nascondevano i bambini morti per prendere il mangiare che dopo mangiavano quegli altri».
Bambini nudi e scalzi anche d´inverno che rovistano tra i rifiuti di cucina, mortalità spaventosa, tisici, gente senza mani, senza gambe, quasi ciechi. I medici del campo protestano, chiedono più cibo e medicine, ma l´ordine dall´alto è «affamare». Il 17 dicembre 1942, il generale Gastone Gambara, comandante del XI Corpo d´armata, annota a mano su un foglio che ci è giunto intatto: «Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo». Anche le medicine non servono, fa notare il capo del campo di Gonars, colonnello Vicedomini. Bastano «fasce addominali di flanella», consiglia agli infermieri, che vengono accusati di favoreggiamento al nemico. Crudeltà gratuite, per le quali nessuno ha pagato, alla fine della guerra.
Francesca Turk, un´altra detenuta la cui lettera è stata bloccata dalla censura: «Caro fratello, non so se ci rivedremo oppure se moriremo prima… periremo di freddo e di fame… viviamo nei patimenti e nella paura. Ti scongiuro di mandarmi un po´ di pane secco, perché temo per la mia vita e quella dei miei bambini… Ogni giorno muoiono da cinque a sei persone; periscono anche i giovani, come le pannocchie. Fa freddo intenso, non abbiamo la stufa, non spero più di rivedere il mio paese». Paola Rausel: «Se avessi saputo ciò che mi attendeva, avrei ucciso prima i bambini e poi me stessa, perché non è possibile sopportare ciò che sopportiamo ora. Muoiono specialmente gli uomini e i bambini… gli uomini cominciano a gonfiarsi e a perdere la vista, poi muoiono. Per fortuna che la mamma è morta».
Prima delle deportazioni c´erano i rastrellamenti, i villaggi distrutti. Racconta Slavko Malnar, deportato nel 1942 all´età di cinque anni dal suo villaggio del Gorski Kotar, massiccio montuoso sopra Fiume: «Il 27 luglio l´esercito fascista incendiò tutto il nostro paese… Ci dissero che ci avrebbero protetti dai banditi comunisti partigiani. Figuratevi quale protezione… hanno rubato il bestiame e tutti i beni mobili, e ci hanno cacciati in un campo dove in pochi mesi sono morte trentacinque persone solo del mio paese. Lo stesso è successo per gli altri villaggi». Nel gennaio del ‘43 la Croce Rossa segnala al ministero degli Esteri che nel campo di Renicci (Arezzo) i reclusi ex jugoslavi versano «in condizioni miserevoli» e molti di loro «si sono ridotti a nutrirsi di ghiande». Talvolta - i partigiani italiani lo sanno - i fascisti erano peggio dei tedeschi.
Non era programmata solo la fame, ma anche le umiliazioni. Battista Benedetti, radiotelegrafista nel campo nell´isola di Zlarin in Dalmazia, racconta che per aspettare il rancio queste larve umane erano obbligate a stare in piedi in fila per delle ore e, quando arrivava «la brodaglia», la colonna «cominciava ad agitarsi» e allora piovevano bastonate dei sorveglianti. «Ma la cosa più terrificante era quando alcuni di questi malcapitati, accecati dalla paura di restare senza rancio… uscivano dalla fila e correvano verso il cibo, e allora le bastonate non si contavano più e i poveretti, non riuscendo più ad alzarsi, venivano portati via».
I malati di dissenteria portavano addosso gli stessi vestiti del momento della cattura, intrisi di feci, fino alla fine. Giacevano in un tanfo orrendo in barelle fuori dalle infermerie, all´aperto in pieno inverno, e - racconta un testimone - i loro «occhi vitrei… sporgevano dalle orbite». Per seppellire i corpi, in alcuni campi in Dalmazia, noi italiani usavamo le grotte. Sì, proprio le foibe, dove a fine guerra sarebbero stati uccisi per rappresaglia migliaia dei nostri, ma anche tanti croati, bosniaci e sloveni. «La foiba - racconta Battista Benedetti nel suo libro di memorie - ingoiava i miseri resti di questi malcapitati che, fatti scivolare, di solito dalla parte dei piedi, nel baratro, scomparivano; la cassa vuota veniva riportata dal gruppo degli accompagnatori, per essere utilizzata con altre vittime».
La gente che arrivava nei campi erano già «relitti umani», denuncia il console italiano a Mostar Renato Giardini nell´aprile del ‘42. Sono i mesi in cui i tedeschi pare sfondino in Russia e raggiungano i giacimenti del Caspio, e questa speranza moltiplica lo sforzo bellico nei Balcani, si trasforma in bestiali rastrellamenti. Giardini vede «mandrie di vecchi, donne e bambini, laceri, scalzi e affamati… erranti da una contrada all´altra…». Vede «bambini morti lungo la strada… e i loro corpi gettati dai genitori stessi nei burroni. I poveri contadini da una parte sono vessati dai partigiani… dall´altra gli italiani gli incendiano i villaggi, distruggono le case, gli razziano il bestiame, credendoli partigiani». E poi «intere zone distrutte… la gente anche non combattente ammazzata senza pietà… a volte anche le donne seguono la stessa sorte… i campi resi deserti e squallidi… e tutto ciò serve solo a ingrossare le file del nemico».
«Furia sanguinaria», «disumana ferocia», «barbarie»: così - ricorda lo studioso Livio Sirovich - il capo dello Stato ha definito il 10 febbraio il comportamento dei nostri vicini a proposito delle foibe. Nello stesso discorso, i comportamenti anti-slavi degli italiani, messi in atto fin dal 1920, sono descritti come «guerra fascista». Perché? Per l´enormità imparagonabile di Auschwitz? Per la nostra mancata Norimberga? Per il mito del «bono italiano» che non muore? Per i depistaggi dei servizi segreti dopo il ‘45? Per Spartaco Capogreco la colpa principale è della politica della memoria iniziata dieci anni fa: «Una politica del ricordo per decreto, dove non c´è mai la parola fascismo». Una strategia che alimenta certe memorie con leggi, fondi, ricerche, e ne dimentica altre. «E questo è solo l´inizio. Nelle scuole nessuno più sa cos´è il 25 aprile. Ora aspettiamo solo un decreto ministeriale che lo abolisca».

Repubblica 13.4.08
Il coraggio che non abbiamo
di Moni Ovadia


Falsa coscienza, revisionismo e furbizia inquinano la nostra memoria nazionale e ipotecano il nostro futuro. Da qualche anno è stato istituito il giorno del ricordo che celebra la tragedia delle foibe e dell´esodo dei profughi istriani. I dolori di quella povera gente vanno commemorati ed è doveroso chiedere verità e giustizia per le loro sofferenze. Ma una destra intrisa di umori e nostalgie fasciste - e non solo essa - strumentalizza quei dolori e quelle tragiche morti. Si assiste alla progressiva rimozione dei crimini commessi dai fascisti italiani contro sloveni, croati, montenegrini, serbi, per non parlare di quelli perpetrati contro le popolazioni libiche, etiopi, eritree, albanesi e greche.
Questa rimozione ha uno scopo evidente: assolvere il fascismo, costruire un patriottismo di maniera, pervertire il rapporto fra carnefice e vittima. Non solo l´antisemitismo, le leggi razziali, le uccisioni degli antifascisti, ma anche le torture, gli stupri i saccheggi operati dai fascisti italiani con efferatezza talvolta simile a quella nazista sono documentatissimi. La Bbc nel suo documentario The Fascist Legacy (l´eredità fascista) ne parla e li mostra diffusamente. La Rai ne ha fatto curare l´edizione italiana dal regista Massimo Sani solo per tenerla "insabbiata" da anni nei suoi cassetti. I paesi che hanno sofferto a causa dei crimini fascisti hanno chiesto l´estradizione di centinaia di criminali di guerra italiani, i più tristemente noti dei quali si chiamano Roatta, Graziani, Badoglio, ma non uno di questi carnefici è stato consegnato alla giustizia.
Non si possono onorare le proprie vittime con dignità e onestà rimuovendo la proprie responsabilità e criminalizzando la Resistenza che ha riportato l´Italia alla libertà e alla democrazia. Furbizia e ipocrisia sono un micidiale cocktail che occlude gli orizzonti della credibilità, quindi quelli della prosperità nazionale, e di tutte le relazioni internazionali più fertili. L´Italia abbia il coraggio di prendere esempio dalla Germania che grazie al riconoscimento ininterrotto delle proprie enormi colpe è oggi una delle democrazie più prospere ed affidabili del mondo.

l’Unità 13.4.08
Rivoluzione Zapatero
In Spagna nasce il governo delle donne
di Toni Fontana


Zapatero ha presentato ieri il suo governo nel quale le donne saranno in maggioranza (9 su 17). La catalana Carme Chacon, che tra due mesi diverrà mamma, assume la carica di ministro della Difesa. Zapatero istituisce anche due nuovi dicasteri. Quello per l’Eguaglianza viene affidato a Bibiana Aido, 31 anni, la più giovane ministra nella storia della Spagna. La basca Cristina Garmendia a capo del dicastero dell’Innovazione e della Tecnologia

Zapatero due, una squadra sempre più rosa
Nel nuovo governo spagnolo più donne che uomini, nove a otto. Una «colomba» alla Difesa
La ministra più giovane ha 31 anni. In mani femminili anche il dicastero della Scienza e innovazione

ANCHE LA REGINA Sofia appariva soddisfatta quando, accanto a Re Juan Carlos, ha assistito al giuramento di Zapatero. Anche gli avversari più agguerriti, del resto, sono rimasti ieri a corto di argomenti. Zapatero ha presentato la sua squadra e, ancora
una volta, ha stupito tutti, anche i direttori dei giornali che avevano azzeccato buona parte dei nomi. Il nuovo governo della Spagna è il più rosa del mondo (9 donne, 8 uomini), comprende la ministra più giovane d’Europa, l’andalusa Bibiana Aido, 31 anni, titolare del nuovo dicastero della «igualdadad» (pari opportunità), per la prima volta schiera una donna alla Difesa, la catalana Carme Chacon, incinta al settimo mese, 37 anni, considerata «una colomba». Confermato il «nucleo duro» della squadra che ha governato la Spagna dal 2004 al 2008. Restano al loro posto la vice presidente Maria Teresa Fernandez de la Vega, che svolge anche il ruolo di portavoce, il capo della diplomazia Miguel Angel Moratinos, europeista convinto incaricato di preparare il semestre di presidenza spagnola della Ue (2010), il nemico numero 1 dell’Eta, il titolare dell’Interno, Perez Rubalcaba e l’altro vice presidente, l’economista ed ex commissario a Bruxelles, Pedro Solbes. Cinque i volti nuovi, quattro le uscite. Tra questi uno dei più stretti collaboratori del leader, Jesus Caldera che abbandona il dicastero del Lavoro e degli affari sociali. Dirigerà una fondazione che Zapatero intende promuovere per trasformare il Psoe in una «fabbrica permanente di idee».
Ma più che la composizione della squadra, appare innovativa la filosofia che Zapatero ha seguito per metterla assieme che si riassume nella parola «modernisacion».
Zapatero ha incontrato la stampa per spiegare le sue scelte. Tre i pilastri dell’azione di governo. 1) Rilanciare la crescita economica (che sta subendo una “desaceleration”, un rallentamento) puntando su uno strettissimo rapporto con l’innovazione e la ricerca. Così si spiega l’istituzione di un nuovo dicastero, quello dell’Innovazione e della tecnologia, affidato a Cristina Garmendia, basca, esperta di biomedicina. Con questa nomina Zapatero manda anche un segnale ai baschi moderati con i quali intende avviare un negoziato politico al fine di scongiurare il referendum convocato per l’autunno. 2) Lotta ai mutamenti climatici, difesa dell’ambiente. Zapatero ha unificato agricoltura e ambiente nelle mani di Elena Espinosa che dovrà concordare con il premier la strategia da adottare per affrontare l’emergenza idrica che si sta drammaticamente affacciando in Catalogna. 3) Eguaglianza tra uomo e donna. Zapatero ha allontanato i sospetti che, viste le difficoltà economiche, il governo intenda rallentare sul fronte dei diritti. Anzi - ha detto il presidente del governo - la Spagna sarà «il paese più avanzato del mondo». Zapatero mette in campo la giovanissima Bibiana Aido, 31 anni di Cadiz, istituisce il nuovo dicastero della «igualdad» e indica due obiettivi da perseguire: far avanzare i processi innescati dalla legge approvata nella precedente legislatura che prevede la presenza di donne (almeno il 40%) nei consigli di amministrazione, nelle assemblee elettive ed in tutti i luoghi di lavoro. L’altro compito della ministra, che disporrà di competenze proprie e «trasversali», sarà quello - ha detto Zapatero - di combattere «il machismo criminale». «I quattro anni che abbiamo davanti - ha aggiunto il premier - dovranno segnare la fine di questo fenomeno».
Inserendo Celestino Corbacho, amministratore a Barcellona, e nuovo ministro del Lavoro e dell’Immigrazione, Zapatero completa la componente calatana (anche la Chacon viene da li, ma era già ministra) con il proposito di premiere i socialisti del Psc che hanno assicurato la vittoria e tentare un negoziato anche con i nazionalisti di Ciu (10 seggi) che gli servono per ottenere la maggioranza assoluta. La mancata riconferma di Jesus Caldera, già ministro del Lavoro, ha incuriosito i giornalisti presenti ieri alla Moncloa. Zapatero ha definito «brillante» la prova di Caldera in qualità di ministro ed ha spiegato che il Psoe intende creare una fondazione per «essere all’avanguardia nelle idee e nei grandi progetti». Caldera si appresta dunque a diventare il coordinatore del «laboratorio» socialista che, nei piani del leader, dovrà essere «il miglior centro di elaborazione del paese». Con questa iniziativa i socialista spagnoli intendono dare battaglia anche sul piano delle idee alla destra che ruota attorno al Faes (fundacion de analisis y estudios sociales) al cui vertice c’è Josè Maria Aznar. Zapatero e la sua squadra stanno facendo il possibile per convincere gli avversari a discutere su temi come la lotta all’Eta, la presidenza Ue ed il rinnovo dei più importanti organismi della Giustizia. Ma nel Pp volano coltellate, Rajoy sta cercando di arginare l’assalto di Esperanza Aguirre, presidente della regione di Madrid, ancor più oltranzista di lui e decisa a condurre contro Zapatero una «battaglia ideologica». La guerra intestina paralizza il Partito Popolare e Zapatero, deluso dai litigi interni tra gli avversari, punta ad accordi temporanei e su temi specifici con i «piccoli». Mentre Zapatero stava parlando alla stampa l’Eta ha compiuto un attentato «dimostrativo» in Navarra. Soli lievi danni.

l’Unità 13.4.08
Torture, Bush ammette: ero d’accordo
Non ci trova nulla di «sbalorditivo»
di Marina Mastroluca


Il presidente Bush ammette in un’intervista alla Abc di aver sempre saputo: le riunioni per decidere sull’uso di interrogatori «ruvidi» per far confessare i detenuti si sono tenute alla Casa Bianca. Lui non partecipava, ma le aveva autorizzate. Dei dettagli - quali pratiche, quante volte applicarle, implicazioni legali - se ne è occupato il suo stato maggiore: il vicepresidente Cheney, l’allora segretario di Stato Colin Powell, il ministro della giustizia Ashcroft e Condoleezza Rice, ancora consigliera alla sicurezza nazionale. Approvato anche il waterboarding, l’annegamento simulato. Bush: «Ma non è illegale».

Tortura sui detenuti, Bush: «L’ho autorizzata io, ma non è illegale»
Deciso in incontri alla Casa Bianca il ricorso a waterboarding e altre «tecniche d’interrogatorio». Il presidente alla Abc: «Avevamo pareri legali favorevoli»

Sulle foto di Abu Ghraib lui non c’era. C’era una ragazzina in divisa che teneva al guinzaglio uomini nudi e che per questo è stata condannata. C’erano altri come lei, qualcuno è finito a processo, qualcuno ha perso i gradi. Mele marce, si disse allora, mentre l’inchiesta inesorabilmente mostrava che c’era un filo conduttore nella catena di comando che portava molto più in alto dei militari di leva. Dopo lo scandalo, i metodi della Cia erano stati discussi e approvati anche nelle alte sfere dell’amministrazione Bush. E il presidente sapeva, ha sempre saputo: gli incontri per discutere nel dettaglio le tecniche di pressione negli interrogatori - incluso l’annegamento simulato, il waterboarding - si svolgevano nella Situation room della Casa Bianca. Bush sapeva e aveva dato la sua benedizione, è stato lui stesso a dirlo in un’intervista alla AbcNews.
«Cominciammo a studiare che cosa fare per proteggere il popolo americano - ha detto il presidente Usa -. Sapevo che il Consiglio di sicurezza si era incontrato e avevo approvato».
Gli incontri, secondo l’emittente tv, sono andati avanti per mesi. Il presidente non partecipò mai in prima persona, ma era informato di tutto. Bush non c’era, come non era ad Abu Ghraib, né a Guantanamo, né nelle carceri segrete della Cia. Ma approvava il modo di fare, gli abusi, le torture asetticamente classificate sotto la voce «tecniche avanzate di interrogatorio» e dettagliatamente esaminate alla Casa Bianca.
Alle riunioni erano presenti il vice-presidente Dick Cheney, il segretario di Stato Colin Powell, il capo del Pentagono Donald Rumsfeld, il ministro della giustizia John Ashcroft, il capo della Cia George Tenet e l’allora consigliera alla sicurezza nazionale, Condoleezza Rice: la spina dorsale dell’amministrazione Bush. Gli incontri servirono a mettere a punto una procedura degli interrogatori, dettagliando le pratiche ammesse, il numero di volte che potevano essere usate con un singolo detenuto, il ricorso a tattiche combinate - diversi sistemi di tortura - per piegare i più duri. Si parlò di schiaffi, privazione del sonno e waterboarding, ci furono anche simulazioni «coreografate» per far comprendere di che si trattasse. C’erano posizioni contrastanti, in particolare Colin Powell e Ashcroft non erano d’accordo, il segretario alla Giustizia sembrava a disagio persino a discutere dell’argomento alla Casa Bianca. «La storia non lo giudicherà con favore», aveva detto in uno degli incontri. Ma l’opposizione non è mai sfociata in un no aperto, alla fine il via libera alla tortura - mai nominata come tale - è stato approvato.
Vennero chiesti pareri legali, in particolare sul waterboarding, una pratica per la quale il Congresso Usa ha recentemente chiesto la messa al bando, scontrandosi con il veto della Casa Bianca. «Avevamo pareri legali che ci autorizzavano a usarlo - ha spiegato Bush alla Abc -. E no, non avevo alcun problema nel cercare di capire cosa sapeva Khalid Sheikh Mohammed. È importante che gli americani sappiano chi è. È la persona che ha ordinato le stragi dell’11 settembre».
Contattati dalla Abc i portavoce di Tenet e Rumsfeld non hanno voluto rispondere. Altrettanto ha fatto la Casa Bianca per conto di Cheney e di Condoleezza Rice, mentre Ashcroft non è stato raggiunto. Colin Powell ha replicato di «non avere abbastanza memoria per ricordare», precisando che «nulla di quello che è stato discusso in quegli incontri era illegale». Bush invece ha confermato. Ma, ha detto alla Abc, non gli sembrava che la notizia fosse poi così «sbalorditiva».

l’Unità 13.4.08
«I teenager? Belli, dannati e maledettamente soli»
di Roberto Carnero


INTERVISTA A BLAKE NELSON, autore del romanzo portato sul grande schermo da Gus Van Sant: Paranoid Park. Lo scrittore americano è in Italia per il Grinzane Cinema e dice: «Mi ispiro a Dostoevskij e a Camus»

Adolescenti «belli e dannati», ragazzi «maledetti» da un destino difficile, giovani problematici e disadattati: questi i protagonisti della maggior parte dei libri dell’americano Blake Nelson (premiato ieri a Stresa con il Grinzane Cinema nella sezione letteraria), a partire dal suo romanzo d’esordio, Girl (1994), fino alle vicende di «sesso e droga» di User (2001) e a The New Rules of High School (2003), da lui definito uno young adult novel.
Dal suo primo libro tradotto in italiano (lo scorso anno per i tipi di Rizzoli), Paranoid Park, è stato tratto l’ultimo film del regista Gus Van Sant. Il romanzo racconta di un adolescente, Alex, che porta denhtro di sé un terribile segreto: è stato indirettamente responsabile della morte, a Paranoid Park, il paradiso proibito degli skater, di una guardia notturna che, inseguendolo, viene travolta da un treno merci dopo la sua caduta sui binari. Il peso del segreto e il senso di colpa Alex se li vive tutti da solo, finché decide di scrivere una lettera a Macy (e questa lettera dà la struttura stessa al romanzo), in cui le racconta tutto. Sullo sfondo, la vita piatta del ragazzo, con un padre che se ne è andato di casa, una madre preda degli psicofarmaci e una ragazza che sta con lui con una certa indifferenza.
Blake Nelson, come è nata in lei l’idea della trama di «Paranoid Park»?
«Penso che la caratteristica precipua dell’adolescenza sia un senso di separatezza dal mondo. Questa cosa l’hanno ben raccontata i grandi scrittori che hanno narrato gli adolescenti, da Dostoevskij a Camus. Ecco, un terribile segreto, come quello di Alex, era un artificio narrativo per enfatizzare tale condizione di isolamento dagli altri».
Alex appare isolato, per certi versi, anche dal cosiddetto «gruppo dei pari». Secondo lei, quanto è importante per i ragazzi l’appartenenza a un gruppo?
«Il gruppo può rappresentare una sorta di test per gli adolescenti: se ne puoi fare a meno, vuol dire che hai un carattere forte. Perché la tentazione del conformismo è sempre molto alta in questa fascia d’età. Nonostante le apparenze, Alex ha un carattere forte, perché pensa di poter tenere dentro di sé il proprio segreto. Almeno fino a un certo punto».
Come mai nella sua carriera di scrittore è sempre stato attento al mondo dell’adolescenza?
«Non saprei rispondere con certezza. Ho iniziato ad affrontare questo argomento e alla fine è come se esso mi avesse preso la mano. Di certo ne sono molto attratto perché l’adolescenza è un’età dotata di grande fascinazione per un narratore: è lì che si compiono per la prima volta le esperienze più significative, c’è un entusiasmo, una verginità di sguardo sul mondo che poi non si recupererà più. È nell’adolescenza che si fanno le scelte decisive per la propria vita e per la propria identità».
Gli adolescenti rappresentano anche il suo pubblico di riferimento?
«Scrivo per loro, ma, se devo essere sincero, ciò è determinato da motivi puramente commerciali, perché negli Stati Uniti c’è una forte “targettizzazione” dei prodotti letterari. Detto questo, però, ho l’ambizione di essere letto da tutti, senza distinzioni in fasce d’età».
La sua rappresentazione dei giovani si basa su esperienze dirette?
«I miei libri non sono autobiografici in senso stretto, ma, come diceva Kerouac, la scrittura è sempre un esercizio di memoria. Ho un certo numero di ricordi della mia adolescenza, legati, più che a fatti specifici, a emozioni, a sensazioni, a stati d’animo. Ecco, cerco di trasfondere queste cose nelle storie che racconto. Per esempio il coraggio con cui affrontavo la vita, un coraggio che poi un po’ ho perso per strada: andare da una ragazza dicendole che mi piaceva, fare domanda per un college molto duro, ecc.».
Quali sono le caratteristiche che ha voluto sottolineare nei suoi personaggi?
«L’idea che sono persone complete, con una loro autonomia e una loro personalità. Negli Stati Uniti oggi lei può sentire dei genitori che si riferiscono ai loro figli di 16 o 17 anni con l’espressione “i nostri bambini”. Si crede che i teen-ager sperimentino il sesso con indifferenza, invece non è così: spesso vivono i sentimenti e le relazioni con una profondità e una carica emozionale molto superiori a quelle degli adulti. Sono, cioè, qualcosa di molto complesso».
Perché allora spesso vengono considerati immaturi?
«Perché in parte lo sono davvero, in quanto manca loro l’esperienza, ma non c’è solo questa immaturità, c’è anche molto altro».
Alex è punito dal senso di colpa di un’azione di cui in realtà è responsabile solo in parte. Come lo fa cambiare questa situazione?
«Alex si trova a diventare uomo. Si trova, cioè, a sperimentare il ruolo maschile, quella componente che è un retaggio della storia: gli uomini hanno avuto la responsabilità della guerra, di uccidere il nemico e di convivere con la consapevolezza di essersi macchiati di sangue. In tal modo Alex comprende la propria autonomia, capisce che cosa significa assumersi la responsabilità di un’azione».
Com’era Blake Nelson da adolescente?
«Ero un ragazzo inquieto, finivo spesso nei guai, ma per fortuna ho avuto dei genitori saggi, che sono stati in grado di arginare i danni».
L’adolescenza è un’età critica e problematica non solo negli Stati Uniti, ma lì capita più spesso che altrove di assistere a gesti estremi, come ad esempio le stragi ad opera di teenager armati, a scuola o nei campus universitari. Come spiega questi fatti?
«Penso che un certo grado di follia sia insito nel carattere del popolo americano, almeno a livello latente e potenziale. C’è poi, forse, una componente esibizionistica legata alla frustrazione dell’impossibilità di affermarsi in modi, diciamo, più normali. Ciò riguarda anche i casi di criminalità di livello più basso, che spesso diventa, soprattutto in certe situazioni sociali particolarmente precarie, un modo per esprimere le proprie ambizioni».
Come vede gli adolescenti americani di oggi?
«Qualcuno dice che la categoria “adolescenti” è stata inventata negli anni ’50, in concomitanza con il boom economico. Prima, invece, c’erano solo i bambini e gli adulti, cioè non c’era attenzione a questa età di mezzo. Oggi gli adolescenti sono molto meno ribelli di quanto eravamo noi una trentina d’anni fa. Sembrano più conformisti, più vicini ai genitori, meno in contrasto con la generazione precedente. Non danno più l’impressione di voler distruggere e rifare tutto da capo».
Cosa cambierà per i giovani del suo Paese se vincesse le elezioni Obama?
«Obama è decisamente più progressista di quanto lo siano molti giovani di oggi. Ha un’energia unica, che i ragazzi potranno sfruttare. Credo che per loro sarebbe una gran bella occasione».

l’Unità Firenze 13.4.08
Chigiana, Settimana mozzafiato
A luglio a Siena trionfa la musica, dalla prima di Bacalov al viaggio lusitano di Teresa Salgueiro
di Elisabetta Torselli


CLASSICA La 65.ma Settimana Musicale Senese dell’Accademia Chigiana (7-19 luglio 2008), da poco presentata a Roma dal direttore artistico Aldo Bennici, inizia il 7 in piazza Jacopo Della Quercia con il grande Yuri Temirkanov alla testa dell’orchestra del Bol-
scioj di Mosca in un programma ad alta godibilità (Puccini, Borodin, Cajkovskij). L’evento di spicco è Y Borges cuenta que (8 e 9 luglio al Teatro dei Rozzi), novità assoluta commissionata a Luis Bacalov, il celebre compositore argentino premio Oscar per Il postino; nel testo scritto da Carlos Sessano, Alberto Munos e dallo stesso Luis Bacalov l’onirico-metafisico grande scrittore entra in scena non solo come autore dei due racconti a cui Y Buerges cuenta que si rifà, ma addirittura come personaggio. Regìa importante (Giorgio Barberio Corsetti), un bel po’ di tango, insomma un’opera-balletto con cantanti (Paolo Coni, Roberto Abbondanza, Gabriella Sbolci), tangueros, un attore (Carlos Belloso) e naturalmente un bandoneon (Juanio Mosalini). C’è l’omaggio del Divertimento Ensemble di Sandro Gorli ad un grande compositore contemporaneo, l’inglese Peter Maxwell Davies (10 luglio a Palazzo Chigi Saracini); si torna ai Rozzi il 12 e 13 per riscoprire un Kurt Weill d’annata, Die Zaubernacht (La notte magica, 1922) con l’Ensemble Contrasts di Colonia diretto da Celso Antunes; l’illustre Sir Neville Marriner, il fondatore dell’Academy of St. Martin in the Fields, è sul podio dell’Orchestra della Toscana il 15 (in Sant’Agostino) per Mozart, Schubert, Haydn.
Seguono due fra i più apprezzati complessi filologici italiani, l’Orchestra da Camera di Mantova e l’Europa Galante di Fabio Biondi; i mantovani (il 16 in Sant’Agostino) in compagnia di due giovani strumentisti fiori all’occhiello dei corsi chigiani, la violinista Anna Tifu (che ha vinto l’edizione 2007 del prestigioso concorso Enescu) e il clavicembalista Francesco Corti, mentre Biondi e C. (17 e 18 ai Rozzi) propongono in prima esecuzione italiana un’opera per marionette di Franz Joseph Haydn, Filemone e Bauci (1773), con le famose marionette dei Fratelli Colla. Si torna in piazza Jacopo della Quercia per l’evento finale del 19, affidato alla voce struggente e inconfondibile di Teresa Salgueiro, stavolta non con i suoi Madredeus ma con il Lusitania Ensemble per La Serena, viaggio fatto di canzoni fra Portogallo, Italia, Francia, Messico, Brasile, Africa. E questa è la Settimana, ma va anche ricordata la prima edizione, quasi un’edizione sperimentale, di un festival intitolato «Alla ricerca del divino» (23-28 giugno) in cui segnaliamo il concerto del 24 giugno (in Sant’Agostino) dedicato alle musiche della tradizione sefardita; e poi tutti i concerti della lunga e sempre bella estate chigiana, con maestri e allievi spesso insieme e l’oramai abituale apppuntamento agostano ai Rozzi (l’11) con Maurizio Pollini.

Liberazione 13.4.08
Filosofia, matematica, medicina, astronomia... mentre l'Europa si dibatteva nell'oscurantismo la cultura araba fioriva in libertà
La civiltà occidentale?
Non sarebbe esistita senza l'Islam
di Sabina Morandi
(su liberazione.it p 14)

Liberazione 13.4.08
Viaggio in Iran alla scoperta degli antichi sistemi di climatizzazione e ventilazione ecocompatibili
Bioarchitettura, impariamo dai persiani del X secolo
di Stefano Russo e Daniela Bianchi
(su liberazione.it p 16)

Corriere della Sera 13.4.08
Idee. La sfida degli astronomi nel 1500. E la scoperta che l'edizione tedesca di Keplero, piena di svarioni, confonde Aristotele con Archimede
Liti, invidie, insulti: duello su Copernico
Così Brahe liquidò il rivale Ursus: una canaglia
di Armando Torno


All'inizio del Seicento in Europa vi sono cinque o sei astronomi che credono nel sistema di Copernico, e nessuno di loro occupa una posizione autorevole. Galileo, che dal 1592 insegna a Padova, per gli studenti scrive nel 1597 una limpida esposizione del sistema tolemaico, il Trattato della sfera o Cosmografia. Certo, professa altro: in quello stesso anno in una lettera a Keplero ammette di essere giunto da tempo alle dottrine copernicane. Intanto tiene lezioni con l'Almagesto di Tolomeo e gli Elementi di Euclide, scrive sulle fortezze e medita sull'architettura militare.
Oltralpe invece si sta scatenando una vera e propria guerra tra gli astronomi, alla quale Galileo è estraneo.
Protagonisti sono Tycho Brahe (1546-1601), Raymar Ursus (1551-1600), Johannes Kepler (1571-1630), Christoph Rothmann (1550- ca.1600), Helisaeus Röslin (1545-1616). Motivo del contenzioso: conciliare Copernico con le idee tradizionali di Tolomeo e con la fede. Ne abbiamo parlato con Alain-Philippe Segonds (Cnrs di Parigi) che con Nicholas Jardine (Università di Cambridge) pubblica i primi due volumi (in tre parti) di un'opera monumentale: La guerre des astronomes ( Belles Lettres, pp. 1056, e 125). Contengono l'introduzione generale alla querelle e i testi del contrasto tra Ursus e Keplero. In Italia uscì il bel saggio di Massimo Bucciantini, Galileo e Keplero. Filosofia, cosmologia e teologia nell'Età della Controriforma (Einaudi 2003) che completa questo progetto e sta per essere tradotto dalla casa editrice Les Belles Lettres.
Segonds e Jardine si sono proposti di ricostruire, rivedendo criticamente le carte, la storia del diritto di proprietà intellettuale sul sistema geoeliocentrico del mondo che, secondo Tycho, poteva risolvere definitivamente la controversia fra la proposta copernicana (eliocentrica) e quella tolemaica (geocentrica) combinando i reciproci vantaggi. Concorda con la Bibbia e Aristotele, che situano il centro del cosmo sulla Terra, ma anche con l'intuizione di Copernico, che lo sposta sul sole. «Tutto cominciò — dice Segonds — sull'isola di Hven, a Uranienborg, di fronte a Copenaghen dove, nel settembre 1584, Tycho riceve Erik Lange, accompagnato da Ursus. Quest'ultimo — un autodidatta che nella sua giovinezza aveva anche fatto il guardiano di porci — è sospettato di frugare tra le carte del maestro e di aver sottratto le conclusioni a cui è giunto». Per tal motivo è cacciato e ripara in Germania: Francoforte, Kassel, altre città alla ricerca di lavoro. Nel 1588 è a Strasburgo, dove esce Fundamentum astronomicum che contiene la sua visione geoeliocentrica. «L'opera — prosegue Segonds — attira l'attenzione di Tycho che pensa allora di pubblicare in fretta un primo abbozzo del proprio sistema, poi fa sapere del comportamento di Ursus in una serie di lettere, nelle quali lo definisce "sporca canaglia"». Ma la «canaglia » entra in contatto con la corte di Praga e nel 1591 diventa mathematicus caesareus. Tycho nel 1596, senza precauzione, dà alle stampe le ricordate lettere piene di insulti e il fatto «spinge Ursus a rispondere ingiuriosamente nel 1597 con un opuscolo dal titolo De astronomicis hypothesibus ». Keplero, figlio di un soldato di ventura e di una madre che sarà accusata di stregoneria, in quegli anni lascia Tubinga dove non ha ottenuto il posto di pastore; è nominato mathematicus a Graz, vi soggiorna dal 1594 al 1598, prima di essere espulso come luterano. Nel 1597 pubblica il suo Mysterium cosmographicum, nel quale cerca di dimostrare, con l'aiuto dei cinque poliedri regolari, che solo il sistema di Copernico corrisponde al disegno di Dio nella creazione del mondo. «Desiderando scambi intellettuali — sottolinea Segonds — nel 1595 scrive a Ursus e si lascia sfuggire una frase di ammirazione; poi, all'oscuro del cattivo rapporto tra i due, invia il Mysterium a Tycho per riceverne un'impressione ». Il danese comprende le qualità di Keplero, anche se si rammarica che le abbia messe al servizio di Copernico. Intanto legge il ricordato opuscolo di Ursus e scopre la terribile frase: «hypotheses tuas amo». Furioso, Tycho chiede una spiegazione.
Ma con la morte di Cristiano II, Tycho perde i privilegi e diventa bersaglio dell'aristocrazia: ha uno scatto di orgoglio e lascia la Danimarca, portando con sé strumenti e tipografia. Cerca un nuovo mecenate e lo trova in Rodolfo II, a Praga. Vi giunge nel 1598, seguito dall'espulso Keplero nel 1599, mentre Ursus è lì. L'epilogo della vicenda sarà diverso dalle speranze dei suoi protagonisti. Confida Segonds: «Keplero deve servire Tycho nei suoi lavori con un accesso alle osservazioni rigorosamente sorvegliato ed è costretto a comporre un libro per rispondere alle calunnie: è quello che ora pubblico con Jardine dal titolo Contra Ursum. Ursus, dal canto suo, non gode più della protezione imperiale e deve fuggire; Tycho — mentre cerca di far processare il rivale — fatica a istallare i propri strumenti e il laboratorio di alchimia a causa della perenne mancanza di denaro di Rodolfo II. Nell'estate del 1600 Ursus torna a Praga e muore il 15 agosto; Tycho si spegnerà il 24 ottobre 1601. Keplero, che gli succede, ormai non ha più interesse a portare a termine l'opera contro Ursus e si limita a conservarla tra le sue carte. Pubblicheremo anche alcune note preliminari dove è molto libero nei giudizi».
Nel Contra Ursum Keplero cerca di determinare il vero sistema del mondo, la sua organizzazione, sconvolta nel 1543 dall'apparizione del libro di Copernico. Il dibattito che affronta investe la teologia e la filosofia oltre la scienza; né va dimenticato che quasi tutti gli astronomi del tempo erano anche astrologi e vivevano di oroscopi (nessuno, comunque, riuscirà a predire né la Rivoluzione francese né la Prima guerra mondiale). La vera novità dell'edizione Belles Lettres è una corretta ricostruzione del testo e delle ghiotte vicende della guerra tra gli astronomi. Rivela Segonds: «A San Pietroburgo, dove è custodito, abbiamo riesaminato il manoscritto del Contra Ursum. Keplero fece quattro interventi di scrittura e non è stato un lavoro facile. Abbiamo trovato non pochi errori nella grande edizione tedesca delle opere, che fu avviata con gli auspici del nazismo e voleva trasformare l'astronomo in un esemplare genio ariano. Per esempio, Aristotele confuso con Archimede, "sapientiam" letto "sententiam","gratiam initurum" trascritto "gratificaturum". C'è stata anche confusione con nomi propri, per cui "Euctemon" è diventato un "Eudemo", senza contare che alcuni marginalia non sono stati nemmeno letti e riportati». Che dire? La guerra durerà ancora 5 o 6 tomi e chissà quanti errori, oltre quelli astronomici, verranno alla luce. Si capirà meglio la lunga lotta che ha consentito all'umanità di guardare con occhi nuovi l'universo. E di stabilire quando nacque e da quali idee lo spirito laico odierno, del quale si parla ormai in ogni occasione.

Corriere della Sera 13.4.08
A Roma il capolavoro di Puccini
Il Maestro e la fanciulla
di Paolo Isotta


Nel 1907 Puccini soggiornò per cinque settimane a Nuova York: il Metropolitan gli aveva organizzato un Festival. Godeva laggiù di amplissima popolarità un drammaturgo dal carattere strettamente americano, David Belasco, che nella città aveva addirittura costruito un teatro da dedicarsi esclusivamente alla sua produzione, il «Belasco Theatre ». Sempre alla ricerca di un libretto, resa ogni volta un affare di Stato per via della sua incontentabilità, Puccini si recò tre volte in quel teatro, mentre in Italia il povero Illica continuava a lavorare su di una Maria Antonietta alla quale Puccini non volle mai far vedere la luce. Assistette dunque una sera a The Girl of the Golden West, arricchita di canzoni ed effetti sonori che richiedevano un'orchestra di una ventina di strumenti caratteristici e una macchina del vento. Non è vero che ne venisse subito conquistato: si fece venire il dramma in Italia, se lo fece tradurre e di lì incominciò il faticosissimo parto del libretto affidato a Carlo Zangarini: la scontentezza di Puccini verso quest'ultimo ne provocò, per così dire, il commissariamento a opera di Guelfo Civinini, che riscosse pari favore del Maestro. Ben si può dir vera la dichiarazione di Zangarini, esser Puccini il solo autore della Fanciulla del West. La quale andò in scena il 10 dicembre del 1910, protagonista Enrico Caruso, direttore Arturo Toscanini.
Fu il maggior successo conseguito in vita dal Maestro e anche, secondo lui, la sua Opera migliore. Giudizio condiviso da un club di squisiti ma non dai teatri o dal pubblico, il che rende La Fanciulla la meno eseguita tra le «grandi» Opere di Puccini. Le considerazioni seguenti sono basate sull'ultimo allestimento del difficillimo dramma musicale al Teatro dell'Opera di Roma, magistralmente diretto da Gianluigi Gelmetti con regia, scene e costumi, assai appropriati, di Giancarlo del Monaco.
La Fanciulla vorrebbe essere Opera di colore locale, ma in realtà il localismo, a differenza che nel I atto della Turandot, ridonda ampiamente in demagogia e inverisimiglianza. La protagonista femminile, Minnie, è una ragazza proprietaria d'un saloon nella California all'epoca dei cercatori d'oro (1850): ebbene, costei monta a cavallo, spara come un consumato bandito, mantiene l'ordine in mezzo alla masnada della clientela, eppure all'alzar del sipario è ancora una dolce verginella la quale, per lei dunque incognito l'uomo, ha la forza di costringere i cercatori, dopo che si sono abbrutiti di alcool e di giuoco, a seguire le sue lezioni di catechismo. Di qui la storia d'amore fra lei e un bandito: e si passa fra vicende altamente drammatiche e realistiche alla fine delle quali il bandito trova la redenzione, Minnie diviene donna.
La demagogia del saloon e del resto è in Puccini lagrimevole e gli «Hello» dei cercatori al bancone ti farebbero passare la voglia di ascoltare l'Opera; all'inizio del II atto i bamboleggiamenti di una coppia d'indiani che parla coi verbi all'infinito ti fanno pentire d'esser rimasto. Ma...Si dice che La Fanciulla
possegga un taglio teatrale infallibile: sarà così, ma anche questo passa in secondo piano. La più profonda verità la dice il Puccini musicista che, dopo aver tanto dato alle astuzie di botteghino, plasma una partitura impressionante. Il linguaggio armonico è affatto diverso da quello della Bohème e della Tosca, tutto percorso com'è da un'inquietudine esplosiva che finisce col privilegiare la dissonanza alla consonanza: l'uso della scala per toni interi si radica nelle armonie, donde la presenza continua di triadi aumentate le quali, lungi dall'esser interpretate dall'orecchio siccome «emancipate », producono un'impressione sfuggente e angosciosa. L'orchestrazione è da manua-le, per originalità, tinte or corrusche ora di pece, l'espressionismo del poker fra Minnie e lo sceriffo. Dal Puccini musicista ci viene una partitura non fortemente drammatica, ma di alta statura tragica che sarebbe degna di dar voce a vicende di Atridi: sì ch'egli si pone di là dalla stessa vicenda drammatica che narra. In questa non voluta esplosione di forze terribili da parte di Puccini sta l'incongruenza della Fanciulla: incongruenza redentrice che ne fa il suo capolavoro.
Gl'interpreti principali dell'allestimento romano sono il soprano Daniela Dessì, il tenore Fabio Armiliato, il baritono Silvano Carroli.

Corriere della Sera 13.4.08
La cura del centauro
di Nuccio Ordine


Perché tanti medici (Sicilia docet!) fanno politica? Alcuni maligni hanno pensato al ricco bilancio della sanità che copre da solo gran parte della spesa pubblica. Ma il Principe potrebbe fornirci un'altra risposta. Machiavelli, infatti, considera il mitico Chirone (mezzo uomo e mezzo bestia) l'istitutore dei principi per eccellenza: chi vuole governare deve saper usare, con equilibrio, feritas e humanitas e deve essere sempre in grado di trovare un «rimedio» per curare le malattie che colpiscono il corpo politico. Non a caso tra i discepoli del saggio centauro figurano il valoroso Achille (re dei Mirmidoni) e l'infallibile Asclepio (dio della medicina). Che poi il «rimedio» anziché «guarire» i mali dello Stato possa provocarne talvolta la morte è tutt'altra cosa. Ciò però non dipende dall'arte, ma da chi la esercita usando, purtroppo, solo la feritas e dimenticando l'humanitas.

Corriere della Sera Salute 13.4.08
Neuroscienze Il parere di Peter Reiner, uno dai massimi esperti
Il boom annunciato dei Viagra del cervello
Il fascino e i rischi dei nuovi «farmaci per sani»
di Luca Carra


Più intelligenza e più memoria : i «miglioratori cognitivi» promettono meraviglie. Ma gli esperti sottolineano i pericoli

Imitazione. La gente potrebbe sentirsi «obbligata» ad assumere questi farmaci vedendone gli effetti su colleghi e amici I «miglioratori» Agiscono modificando l'azione dei neurotrasmettitori

Il più grande successo commerciale in campo farmaceutico dei prossimi dieci anni arriverà dalla «droghe del cervello», farmaci d in grado di arrestare il declino cognitivo, di dare sprint ai neuroni e una spintarella a memoria e a concentrazione. Ne è convinto Peter Reiner, neurologo e neuroeticista dell'Università della British Columbia, a Vancouver, che giovedì 17 aprile parlerà di questo tema, a Trieste nell'ambito del festival dell'editoria scientifica Fest. «Sono decine le molecole già in sperimentazione — spiega il neuroscienziato — e, al massimo fra cinque anni, invaderanno il mercato. Le agenzie regolatorie, come la Food and Drug Administration, non possono vietare questi studi, ma suggeriscono grande cautela nella futura commercializzazione dei prodotti».
Ha però senso pensare che sarà un boom commerciale che potrebbe rianimare l'industria farmaceutica, in crisi di idee da anni. «Sono farmaci per i sani e non per i malati. Non curano l'Alzheimer e il Parkinson, ma a un professore universitario di 53 anni come me potrebbero garantire il ritorno della memoria di quando avevo trent'anni e maggiore acuità di ragionamento» spiega Reiner.
Come funzionano? «I meccanismi sono i più diversi: dall'azione sui recettori ai neurotrasmettitori. In questi ultimi dieci anni la nostra conoscenza dei meccanismi fini del cervello è talmente cresciuta da consentire, per la prima volta nella storia, la concreta possibilità di migliorare le nostre facoltà intellettuali, frenando il normale declino cognitivo legato all'età».
Già oggi schiere di giovani studenti, in particolare nella fascia privilegiata della Ivy League, che riunisce le otto più prestigiose università americane, si arrangiano assumendo prima degli esami sostanze già in commercio come alcuni antidepressivi e i farmaci prescritti per il disturbo da deficit di attenzione e l'iperattività, come l'Adderall e il Ritalin, o il Provigil, consigliato per la narcolessia. Un giro in Internet, digitando su Google i nomi di questi farmaci, o della parole magica «cognitive enhancers», miglioratori cognitivi, apre al profano un mondo popolato da siti e liste di discussione prodighe di dettagli sull'argomento.
«Tuttavia questi farmaci espongono i ragazzi a rischi di abuso non indifferenti, senza dare effetti realmente significativi — continua Reiner. — «Le molecole ancora in fase di studio promettono invece effetti molto più potenti e mirati, con effetti sociali ed etici che dovremo però attentamente seguire».
Il timore di Reiner è che, in virtù dell'efficacia di queste pillole, la moda diventi incontenibile. «Già oggi i sondaggi statunitensi dicono che l'80% della popolazione sarebbe d'accordo nell'assumere farmaci di questo tipo». Una sorta di Viagra del cervello che ridà brillantezza a persone sulla via del tramonto, o quell'extra di sprint in più al professionista, allo studente e anche al professore. Una recente ricerca pubblicata su Nature ha infatti rivelato che negli Usa un docente su 5 dichiara di utilizzarli. «Questi farmaci arriveranno. Tanto vale prepararsi — conclude Reiner — per cercare di evitare alcuni rischi. Il primo è costituito da effetti psicologicamente negativi che potrebbero indurre gente dopata a cambiare continuamente lavoro e a perdere il controllo delle proprie relazioni. Vi sono poi due rischi sociali: che queste diventino le medicine dei ricchi, ampliando ancora di più il divario di prestazioni intellettuali fra ceti diversi. E che la gente si senta obbligata ad assumere queste sostanze, vedendone gli effetti su amici e colleghi».
Ci aspetta un mondo più brillante. E squilibrato.

Corriere della Sera Roma 13.4.08
La mostra Esposte alla Reale Accademia di Spagna ventisei acqueforti e acquetinte
Mirò, colori a occhi chiusi
Le creature misteriose della «Galleria degli antiritratti»
di Maria Egizia Fiaschetti


Colori in libertà: basta chiudere gli occhi e ascoltare l'anima. Ed ecco che le immagini, dall'inconscio, salgono in superficie. Sogni o incubi, Joan Miró li racconta con la leggerezza di una fiaba. Creature misteriose, che animano la sua «Galleria degli antiritratti», allestita fino al 25 maggio alla Reale Accademia di Spagna (piazza San Pietro in Montorio 3, info 065812806). Le opere, provenienti dalla Fondazione Joan Miró di Barcellona, documentano il suo interesse per l'incisione: ventisei acqueforti e acquetinte, realizzate tra il 1969 e il 1978, cui si aggiungono quattro sculture in bronzo degli anni '70. Fuori dagli schemi, disegno e pittura si confondono. Su grandi fogli di carta ruvida, la linea diventa macchia. Il segreto è nella tecnica del «carborundo »: vernice sintetica o granuli di silicio fissati su lastra metallica e resistenti alla pressione. In positivo, la stampa rivela la fisicità dei materiali, oltre i confini della grafica. Solidificato, il nero s'increspa come un'onda in cui viene voglia di tuffarsi. Nel suo mondo alla rovescia, Miró sovverte le regole del ritratto: più della fisionomia, vuole cogliere il personaggio con le sue ambiguità.
Riconoscibile dall'elmetto, «Soldato in licenza » somiglia a una colomba, simbolo di pace. L'associazione, di stampo surrealista, smaschera i paradossi della modernità. Stelle, frecce, antenne avvolgono la testa del militare come un'aureola. Tese verso l'alto, indicano la via di fuga. L'impronta di una mano zuppa di vernice è un appello contro la guerra. Con l'ingenuità di un bambino, Miró illumina le zone grigie dell'animo umano. La sua torcia è la fantasia, più attendibile della logica. Gli scarabocchi de «La manicure frastornata » sono un inno al caos, per liberarsi dall'ansia di apparire perfetti. Disegno infantile o graffito rupestre, la regola è la stessa: mollare il freno e lasciarsi guidare dall'immaginazione. «L'equilibrata» ricorda quanto sia difficile conciliare ragione e sentimento, a differenza de «La fuggitiva» che si defila con nonchalance. Istinto allo stato puro, gli animali appassionano l'artista catalano. «Topo nero con mantilla», quasi la versione spagnola di Mickey Mouse, ritrae il roditore impettito come un hidalgo. All'opposto, «La talpa ilare» fa di tutto per non farsi notare. Icona della mostra, «Il topo della sabbia» è un capolavoro di sintesi: basta l'occhio spiritato a esprimere la sua vivacità. La magia del circo rivive in «Buffone rosa» e «La donna trottola », saltimbanchi venati di malinconia. «L'egiziana», «Il bramino», «Ballerina creola » evocano il fascino esotico di terre lontane. Con un effetto simile al collage, le campiture colorate de «Il Matador» infilzano lo sguardo. La tecnica esalta la fierezza del personaggio, pronto a sfidare il suo avversario.

sabato 12 aprile 2008

l’Unità 12.4.08
Bertinotti si candida all’opposizione
«Dobbiamo riprendere la battaglia da lì»
di Simone Collini


«Ci stanno provando e ci proveranno, a cancellare la sinistra. Dobbiamo unirci»

«Ci abbiamo provato a risolvere i problemi del popolo anche sporcandoci le mani sostenendo il governo»

Fausto Bertinotti spezza il pane e incassa, lui come tutti quelli che faranno "una scelta di parte" votando Sinistra arcobaleno, la benedizione di don Andrea Gallo: "Gesù non è mai stato moderato. E’ per la difesa degli ultimi". Si chiude così, a Genova, la campagna elettorale del candidato premier della lista rosso-verde, con un sostegno d’eccezione e il pensiero che per un po’ non va alle difficoltà vissute in queste ultime settimane e a quelle che dovranno essere affrontate nelle prossime.
Don Gallo se ne sta per tutto il tempo seduto dietro il palco, ascolta il comizio di Bertinotti e fuma il suo mezzo Toscano. "Ci abbiamo provato a risolvere i problemi del popolo", sta dicendo il candidato premier della Sinistra arcobaleno, "anche sporcandoci le mani, sostenendo il governo". Davanti al palco un migliaio di persone, che dovevano trovarsi a piazza Matteotti ma che la pioggia scesa su Genova ha costretto al coperto, nel cortile interno di Palazzo Ducale. "Abbiamo ingoiato bocconi amari", riconosce il presidente della Camera, ma quella che definisce "la grande delusione" va lasciata alle spalle: "Diceva Gramsci che compito dei rivoluzionari è provare e riprovare. Dobbiamo riprovarci. Ora dobbiamo riprendere la nostra battaglia dall’opposizione". Militanti e simpatizzanti applaudono forte. Don Gallo si sistema meglio sulla sedia di plastica, stacca via con un dito un pezzo di foglia di tabacco che non si è bruciata insieme al resto del sigaro. "Stiamo seminando per l’oggi e per il domani", è la promessa che fa Bertinotti, "per far nascere una grande sinistra italiana". Sventolano le bandiere della Sinistra arcobaleno. Non ce ne sono altre. Non si vedono né falce e martello né sole che ride. E almeno questo è un buon segno per chi, come Bertinotti, vuole che la lista con cui si sono presentati Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica non sia "soltanto un cartello elettorale che si disperde dopo il voto", ma sia anzi "l’annuncio della nascita di una nuova sinistra".
Il mozzicone è andato, Don Gallo tira fuori dalla tasca un altro Toscano e lo mette tra le labbra. "Questa è stata una campagna elettorale difficile e complicata", sta dicendo ora dal palco il presidente della Camera. "Ci stanno provando e ci proveranno, a cancellare la sinistra". Parole che ripeterà poi in serata, al comizio di chiusura in un’altra città simbolo del movimento operaio, Torino (ma la scelta di Genova è anche "per continuare a tenere viva la richiesta di verità" su quanto avvenuto nei giorni del G8) . Se la prende con la "bestemmia" del voto utile. Don Gallo non si scompone, così come non lascia trasparire nulla quando Bertinotti dice che il governo Prodi non è caduto per colpa della sinistra, come dicono nel Pd, ma "per l’intervento dei poteri forti, per le ingerenze di Confindustria e del Vaticano". Ora bisogna guardare avanti, al risultato che lunedì uscirà dalle urne ma anche oltre. Perché c’è una sciagura che la Sinistra arcobaleno deve far sì che non si realizzi, quella cioè di non avere nella prossima legislatura un numero di senatori sufficienti (10) per costituire un gruppo autonomo a Palazzo Madama. E perché, allargando la prospettiva al di là delle sedi istituzionali, "l’Italia ha bisogno della sinistra - dice Bertinotti - ma forze potentissime, economiche e politiche, lavorano perché non ci sia più". Per combatterle è necessario che "forze fino a ieri divise oggi e domani siano unite". E’ necessario, incita il presidente della Camera, che si aggiungano all’operazione anche associazioni, movimenti, "anche le forze critiche nei confronti di questi partiti" che oggi hanno dato vita alla lista rosso-verde. La gente giù dal palco applaude, ma Bertinotti sa che non tutti sono convinti. E allora assicura: "Se ci sono cose che non vi piacciono le cambieremo. Le cambieremo con la partecipazione". Il comizio finisce, dalla prima fila si alza un braccio che consegna al candidato premier un panino avvolto in un fazzoletto con su scritto "contro il carovita". Bertinotti lo prende, poi vede che Don Gallo gli arriva alle spalle e allora spezza il pane e ne dà metà a lui. Don Gallo lo prende, ma più che altro vuole parlare e si avvicina al microfono. "Siamo in un mare in tempesta, però la bussola ce l’abbiamo. La sinistra non la può cancellare nessuno. E ricordatevi: Gesù non è mai stato un moderato. È per la difesa degli ultimi".

Repubblica 12.4.08
Bertinotti chiude la campagna della Sinistra arcobaleno
"C'è bisogno di sinistra e mi rivolgo ai delusi"


TORINO - «L´Italia ha bisogno di sinistra. Ci sono forze potenti che vogliono cancellarla». E´ l´appello con il quale, a Torino, Fausto Bertinotti ha chiuso ieri sera la campagna elettorale della Sinistra arcobaleno. Ma se c´è chi lavora per far sparire la Cosa rossa, la «necessità» della sinistra «è altrettanto forte per tutti coloro che vivono nella precarietà, nell´incertezza, nella difficoltà di arrivare a fine mese. Chi vive questa realtà sarebbe orfano». Il candidato premier ha perciò lanciato un appello ai delusi e agli indecisi ma con il cuore a sinistra, «avete vissuto altre volte l´alternarsi della vittoria e della sconfitta. Non bisogna arrendersi, bisogna riprendere il cammino». Su tutte, una richiesta: l´aumento dei salari, che è possibile «riducendo rendite e i profitti». Parlando dal palco allestito in piazza San Carlo, davanti a circa 2 mila persone, Bertinotti ha spiegato che «in nessuna altra città come Torino si può cogliere il senso della parola ricominciare».
Nel pomeriggio, il presidente della Camera aveva parlato a Genova. Con un fuori programma: ha spezzato un panino, distribuendolo agli spettatori. Tutto è nato quando, al termine di un comizio sul palco allestito all´interno di Palazzo Ducale, ha raccolto uno "sfilatino" che gli era stato offerto con la scritta "contro il carovita", lo ha spezzato e poi lo ha distribuito tra la gente che lo stava applaudendo. Poco prima all´arrivo a Palazzo Ducale, Bertinotti si era brevemente incontrato con don Gallo, fondatore della Comunità di San Benedetto. A Genova, il candidato premier è tornato sulla vicenda del G8. «E´ giusto che la magistratura faccia il suo corso, ma aver impedito la commissione d´inchiesta sui fatti del G8 di Genova è un punto oscuro nella storia del Paese». E ha ricordato la presenza di Fini nella sala della questura durante gli incidenti. «Noi - ha concluso - siamo qui oggi per tributare un ricordo ai quei fatti del 2001, fatti sul cui silenzio non si può transigere. Siamo qui per continuare a mantenere viva una richiesta di verità».

Corriere della Sera 12.4.08
Bertinotti, ultimo attacco al Pd «Neocentrista, non ci ha voluti»
Il leader Arcobaleno con i camalli: da Fini scampoli di cultura fascista
«La sinistra è necessaria per chi è in condizioni di precarietà e incertezza. Questa realtà senza di noi sarebbe orfana»


ROMA — Ultimo giorno da presidente della Camera lì dove aveva cominciato, il primo maggio del 2006. A Torino, dove aveva vissuto gli anni ruggenti da sindacalista. È un addio alla politica istituzionale, quello di Fausto Bertinotti. Ma non un addio alla politica tout court: prima di andarsene in pensione c'è ancora da tenere a battesimo la nuova sinistra. Non la guiderà lui, su questo è stato chiaro. Ma gli spetta di diritto almeno guidarne la nascita. Per adesso ci sono le prime 20 mila tessere di «Uniti a Sinistra », lo zoccolo duro da cui dovrebbe nascere la nuova formazione. Il più presto possibile. «Se non ci sbrighiamo diventiamo reperti archeologici — diceva ieri in un'intervista al manifesto —. Rispettabili, persino affascinanti. Ma inutili ».
Prima però c'è da chiudere questa campagna elettorale tutta in salita, vissuta con l'incubo di non raggiungere i fatidici quorum. Bertinotti da giorni non guarda più i sondaggi, nemmeno quelli riservati che ogni partito tiene nei cassetti. E ha già ordinato al suo staff di non prendere appuntamenti dopo il 14 aprile: commenterà in televisione i risultati, quali che siano. Poi si farà da parte.
L'ultima giornata di campagna elettorale è cominciata a Genova, assieme ai camalli del porto e al loro inossidabile leader, Paride Batini. Occasione per parlare di morti sul lavoro, ma anche per rispondere con durezza a Gianfranco Fini: «Ha detto che i delinquenti votano per la sinistra? Ci sono momenti in questa campagna in cui riemergono nella destra scampoli di cultura fascista. Vorrei ricordare che Fini stava sulla tolda di comando in quelle terribili giornate del G8...». In piazza poi il leader della Sinistra Arcobaleno torna a picchiare anche sul Partito democratico, escludendo a priori la possibilità di entrare in una coalizione di governo guidata da Veltroni. «Il Pd ha scelto di no, andando da solo alle elezioni, con una piattaforma sostanzialmente neocentrista e con un attacco alla sinistra con cui dice di non volere rapporti». Poche ore dopo, da Roma, Veltroni confermerà e spiegherà per l'ennesima volta la sua scelta, rinfacciandogli con cattiveria la famosa battuta di Bertinotti su Prodi, definito «il più grande poeta morente». Battuta coniata in origine da Ennio Flaiano per il poeta Vincenzo Cardarelli.
Infine Torino, a piazza San Carlo. Dove ancora una volta Bertinotti parla dei precari, il suo cavallo di battaglia di tutta la campagna: «Bisogna far sì che viva nel futuro una sinistra in Italia. La cosa non è scontata perché le forze all'opera per evitare che questo sia lo scenario sono potenti. Però la necessità della sinistra è altrettanto forte per tutti quelli che da questo assetto della società ricavano condizioni di precarietà e di incertezza, di non riconoscimento della loro dignità di persona. Questa realtà senza la sinistra sarebbe orfana».

Repubblica 12.4.08
A Roma il Congresso della Federazione di Sessuologia
Sesso, desiderio in calo e 4 su 10 non lo fanno più
di Alessandra Retico


ROMA - L´amore si fa poco e se proprio si deve, meglio virtuale, strambo, mercenario. C´è poco appetito di sensi, 40 coppie su 100 si astengono e sempre più spesso la causa è lui. Che compensa l´indigenza mettendo in vetrina la propria compagna, nuda, su YouTube. Sindrome di Amsterdam la chiamano: come nella capitale olandese, il gioco è mostrare la partner mentre fa sesso. Vedere e non toccare. Lei, l´indesiderata, prima si sente in colpa, poi tradisce per difesa. In casi, e per niente estremi, cerca una nuova verginità: 4mila euro per ricostruire l´imene in una struttura privata, gratis all´ospedale. Fenomeno boom. È il ritratto, non proprio consolatorio, degli italiani a letto che ieri gli esperti hanno raccontato in occasione del IX Congresso della Federazione europea di Sessuologia che si apre a Roma domani.
Calo del desiderio: triplicato in 10 anni. Poca fame d´amore: «Le coppie italiane alla tavola del sesso sono riconducibili a 4 grandi categorie» spiega Chiara Simonelli, sessuologa della Sapienza di Roma e vicepresidente della Federazione. «Le anoressiche, le bulimiche, le sazie e le inappetenti». Quelle che non lo fanno sono di 40enni, relazioni stabili e prole. È lui che si ritrae, preferisce prostitute o donne virtuali su internet. Eccesso opposto: le bulimiche, 50enni che le provano tutte, 1 su 10 è scambista, pratica sadomaso e altre stranezze. Poi, si annoia. Ma ci sono anche le coppie "sazie", il 30%, hanno 30-35 anni (oppure 60), sono appagati. E un 20% di "inappetenti", 40-50enni stressati, il sesso sporadico, quando capita se capita. Se lui fugge sul web, lei va dal chirurgo: liste d´attesa di 30-35enni negli ospedali per la chirurgia dell´imene (47 interventi nel 2005). Oppure comprano un biglietto per il Sudamerica dove tornare "illibate" costa appena 1350 euro. Eccolo il nuovo turismo della verginità. Più che corpi nuovi, magari relazioni migliori.

Repubblica 12.4.08
Da ballata yiddish a inno partigiano il lungo viaggio di Bella ciao
di Jenner Meletti


Il brano fu portato in America da un musicista tzigano originario di Odessa
Ne esiste anche una versione operaia cantata dalle mondine dopo la guerra

In fin dei conti, svelare un segreto è costato solo due euro. «Nel giugno del 2006 ero al quartiere latino di Parigi, in un negozietto di dischi. Vedo un cd con il titolo: "Klezmer - Yiddish swing music", venti brani di varie orchestre. Lo compro, pagando appunto due euro. Dopo qualche settimana lo ascolto, mentre vado a lavorare in macchina. E all´improvviso, senza accorgermene, mi metto a cantare «Una mattina mi son svegliato / o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao…». Insomma, la musica era proprio quella di Bella ciao, la canzone dei partigiani. Mi fermo, leggo il titolo e l´esecutore del pezzo. C´è scritto: "Koilen (3´.30) - Mishka Ziganoff 1919". E allora ho cominciato il mio viaggio nel mondo yiddish e nella musica klezmer. Volevo sapere come una musica popolare ebraica nata nell´Europa dell´Est e poi emigrata negli Stati Uniti agli inizi del ‘900 fosse diventata la base dell´inno partigiano».
E´ stata scritta tante volte, la «vera storia di Bella ciao». Ma Fausto Giovannardi, ingegnere a Borgo San Lorenzo e turista per caso a Parigi, ha scoperto un tassello importante: già nel 1919 il ritornello della canzone era suonato e inciso a New York. «Come poi sia arrivato in Italia - dice l´ingegnere - non è dato sapere. Forse l´ha portato un emigrante italiano tornato dagli Stati Uniti. Con quel cd in mano, copia dell´incisione del 1919, mi sono dato da fare e ho trovato un aiuto prezioso da parte di tanti docenti inglesi e americani. Martin Schwartz dell´università della California a Berkeley mi ha spiegato che la melodia di Koilen ha un distinto suono russo ed è forse originata da una canzone folk yiddish. Rod Hamilton, della The British Library di Londra sostiene che Mishka Ziganoff era un ebreo originario dell´est Europa, probabilmente russo e la canzone Koilen è una versione della canzone yiddish "Dus Zekele Koilen", una piccola borsa di carbone, di cui esistono almeno due registrazioni, una del 1921 di Abraham Moskowitz e una del 1922 di Morris Goldstein. Da Cornelius Van Sliedregt, musicista dell´olandese KLZMR band, ho la conferma che Koilen (ma anche koilin, koyln o koylyn) è stata registrata da Mishka Ziganoff (ma anche Tziganoff o Tsiganoff) nell´ottobre del 1919 a New York. Dice anche che è un pezzo basato su una canzone yiddish il cui titolo completo è "the little bag of coal", la piccola borsa di carbone».
Più di un anno di lavoro. «La Maxwell Street Klezmer Band di Harvard Terrace, negli Stati Uniti, ha in repertorio "Koylin" e trovare lo spartito diventa semplice. Provo a suonare la melodia… E´ proprio la Koilen di Mishka Tsiganoff. Ma resta un dubbio. Come può uno che si chiama Tsiganoff (tzigano) essere ebreo? La risposta arriva da Ernie Gruner, un australiano capobanda Klezmer: Mishka Tsiganoff era un "Cristian gypsy accordionist", un fisarmonicista zingaro cristiano, nato a Odessa, che aprì un ristorante a New York: parlava correttamente l´yiddish e lavorava come musicista klezmer». Del resto, la storia di Bella ciao è sempre stata travagliata. La canzone diventa inno "ufficiale" della Resistenza solo vent´anni dopo la fine della guerra. «Prima del ‘45 la cantavano - dice Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea all´università di Catania - solo alcuni gruppi di partigiani nel modenese e attorno a Bologna. La canzone più amata dai partigiani era "Fischia il vento". Ma era troppo "comunista". Innanzitutto era innestata sull´aria di una canzonetta sovietica del 1938, dedicata alla bella Katiuscia. E le parole non si prestavano ad equivoci. «Fischia il vento / infuria la bufera /scarpe rotte e pur bisogna andar / a conquistare la rossa primavera / dove sorge il sol dell´avvenir». E così, mentre stanno iniziando i governi di centro sinistra, Bella ciao quasi cancella Fischia il vento. Era politicamente corretta e con il suo riferimento all´"invasor" andava bene non solo al Psi, ma anche alla Dc e persino alle Forze armate. Questa "vittoria" di Bella ciao è stata studiata bene da Cesare Bermani, autore di uno scritto pionieristico sul canto sociale in Italia, che ha parlato di «invenzione di una tradizione». E poi, a consacrare il tutto, è arrivata Giovanna Daffini».
La "voce delle mondine", a Gualtieri di Reggio Emilia nel 1962 davanti al microfono di Gianni Bosio e Roberto Leydi aveva cantato una versione di Bella Ciao nella quale non si parlava di invasori e di partigiani, ma di una giornata di lavoro delle mondine. Aveva detto che l´aveva imparata nelle risaie di Vercelli e Novara, dove era mondariso prima della seconda guerra mondiale. «Alla mattina, appena alzate / o bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / alla mattina, appena alzate / là giù in risaia ci tocca andar». «Ai ricercatori non parve vero - dice il professor Granozzi - di avere trovato l´anello di congiunzione fra un inno di lotta, espressione delle coscienza antifascista, e un precedente canto del lavoro proveniente dal mondo contadino. La consacrazione avviene nel 1964, quando il Nuovo Canzoniere Italiano presenta a Spoleto uno spettacolo dal titolo "Bella ciao", in cui la canzone delle mondine apre il recital e quella dei partigiani lo chiude». I guai arrivano subito dopo. «Nel maggio 1965 - cito sempre il lavoro di Cesare Bermani - in una lettera all´Unità Vasco Scansani, anche lui di Gualtieri, racconta che le parole di Bella ciao delle mondine le ha scritte lui, non prima della guerra, ma nel 1951, in una gara fra cori di mondariso, e che la Daffini gli ha chiesto le parole. I ricercatori tornano al lavoro e dicono che comunque tracce di Bella ciao si trovano anche prima della seconda guerra. Forse la musica era presente in qualche canzone delle mondine, ma non c´erano certo le parole cantate dalla Daffini, scritte quando i tedeschi invasor erano stati cacciati da un bel pezzo dall´Italia». "Una mattina mi sono alzata…". Fino a quando ci sarà ricordo dei "ribelli per amore", si alzeranno le note di Bella Ciao, diventato inno quando già da anni i partigiani avevano consegnato le armi. «Bella Ciao? Forse le cantavano - dice William Michelini, gappista, presidente dell´Anpi di Bologna - quelli che erano in alta montagna. Noi gappisti di città e partigiani di pianura, gomito a gomito con fascisti e nazisti, non potevamo certo metterci a cantare».

Repubblica 12.4.08
Il regista di "Novecento" e "The dreamers" ricorda un'epoca di sogni e ideali forti
Il 68 di Bertolucci
"Erano giorni liberi Oggi siamo tutti anestetizzati"
di Paolo D’Agostini


Il regista di "Novecento" e "The dreamers" ricorda un´epoca di sogni e ideali forti
"Erano giorni liberi Oggi siamo tutti anestetizzati"

Cinque anni fa The dreamers ha anticipato il quarantennale. Bernardo Bertolucci ricorda con quale sentimento concepì il suo film. «Sentivo l´ingiustizia soprattutto di chi aveva partecipato su posizioni radicali e buttava via i sogni, gli ideali e le utopie del ´68. Volevo ritrovare quell´atmosfera dopo l´annientamento. Riempire il vuoto di memoria dei più giovani. Con il desiderio di trasmettere loro le emozioni che non hanno mai vissuto. Tutto questo sparare sul ´68, Sarkozy che gli ha attribuito l´origine di tutti i mali... Invece è stato un privilegio averlo vissuto, perché è stato un momento di grazia».
Di qua il vento di libertà che soffiava dall´America, di là il bagaglio ideologico del comunismo. Liliana Cavani dice che il vero spirito del ´68 è il primo.
«Nel mio Prima della rivoluzione, già nel ´64, mettevo in scena un comunista borghese in polemica con un partito immobile, chiuso al nuovo. Nel ´68 avevo 27 anni e mi sentivo comunista anche se non ancora iscritto al partito. Mi sarei iscritto nel ´69. Mi disturbava vedere amici e colleghi arresi alla mitologia maoista. Questo faceva la mia differenza con Bellocchio, Silvano Agosti, Godard e tanti altri. Ma se stiamo ricostruendo il clima di un´epoca attraverso lo sguardo dei registi è giusto parlare di cinema. Quella rivoluzione che oggi tanti ex sessantottini ritengono non ci sia stata, guardando indietro con sufficienza, è avvenuta pienamente nel cinema. Ci fu un equivoco. Quello dei film "politicamente impegnati" nel cui modello io non mi identificavo. Pensavo che la rivoluzione dovesse avvenire nello stile e nel linguaggio. Ciononostante dico che fummo ingiusti, ad esempio, verso un´opera importante come Zeta di Costa Gavras liquidandola come "convenzionale". Ripenso ad alcuni rifiuti di allora con un certo senso di colpa, oggi».
Insomma che cosa resta?
«Molto. A cominciare dai grandi mutamenti nel modo di vivere. Sulla società. Scomparse d´un colpo le autorità che ci rovinavano la vita: dai professori ai guardiani della morale che se trovavano due ragazzi che si baciavano li portavano al commissariato. L´opposizione venne da un mondo che non accettava di essere messo in discussione, ma non solo. All´indomani di Valle Giulia Pasolini espresse la sua maggior simpatia per i poliziotti, figli del sottoproletariato o di contadini del Sud buttati su quella scalinata di Architettura, piuttosto che per gli studenti dall´imperdonabile origine piccolo borghese. Poi scriverà sul Corriere che quei giovani si erano illusi di aver reso il mondo più libero, mentre quella (falsa) libertà era stata loro concessa, era un calcolo di convenienza dei padroni della società dei consumi. Una merce come un´altra. Ricordo la contestazione a Venezia. Ricordo Pier Paolo a Ca´ Foscari accolto dagli studenti - "Vi odio cari studenti" aveva scritto nella famosa poesia - a fischi e sputi. Riuscì a placarli e in pochi minuti li aveva completamente sedotti».
Si può dire che il "suo" ´68 si compie con Novecento?
«Forse. Novecento viene completato quando muore Pasolini, e la sua morte segna la fine del ´68, come la morte di Moro qualche anno dopo. Il film esce nel ´76, nel momento magico Moro-Berlinguer, del sogno del compromesso storico. È il frutto di quella grande tensione - e il mio omaggio - che porta alle elezioni del quasi-sorpasso. Adesso che siamo vicinissimi a nuove elezioni m´interrogo su che cosa votare, per la prima volta, con imbarazzo: ho sempre saputo come votare. So che nessuno può prescindere dal "ricatto" che se non voti Partito Democratico dai una possibilità in più a Berlusconi. Io non riesco a credere che più di metà degli italiani dopo cinque anni di regime berlusconiano voglia riprovarci. Dopo aver rivisto Novecento di cui si era appena festeggiato il trentennale ho risposto a Veltroni e Bettini che non me la sentivo di essere uno dei "testimonial" della nascita del Partito Democratico. Mi attraeva ma era un po´ come rinnegare Novecento, come Walter e Goffredo hanno rinnegato molto dell´eredità del Pci. Ma non riuscivo a spiegarmi bene questo sentimento. Che cosa rinnegherei? Mi sono chiesto. E mi sono risposto con un´altra domanda: che io sia ancora comunista? Se Saramago e anche Hobsbawm continuano a dirsi comunisti in fondo potrei anche io. Finché esistono grandi disuguaglianze, finché esistono così tante persone che soffrono possiamo continuare a dirci comunisti. So anche che oggi comunista è necessariamente inteso come sinonimo di Stalin e Gulag. Per me invece conserva un´aura. In me quella parola continua a suscitare emozione».
Allora potrebbe votare i partiti che ancora portano quel nome?
«Non è una questione di nome. Sento di non dare un dolore all´amico Veltroni se rivendico la legittimità di votarlo dicendomi ancora comunista».
Lei ha prediletto i perdenti, da Ultimo tango all´Ultimo imperatore. Riprendendo il filo dal ´68: chi ha vinto e chi ha perso?
«Non sono capace di rispondere. È vero che ho raccontato spesso dei loosers. Ma nel caso di queste elezioni la vittoria è molto più importante dei miei umori personali. Ho l´impressione che qui siamo tutti un po´ perdenti. Lo leggo nell´addossare al ´68 le colpe di tutto il peggio che è venuto dopo. Nel rifiuto di quel vento di libertà. Un anno fa ho scritto una lettera a Repubblica dove mi chiedevo perché la parola "cultura" sia così dribblata dalla politica. E perché è così accettata la presenza di Berlusconi, anomala agli occhi di chi ci guarda da fuori: nessuno all´estero capisce come sia ammissibile tanto potere politico nelle mani del più grande padrone di tv e giornali. Ma la cosa che gli è più riuscita è stata l´anestetizzazione delle menti di chi giorno per giorno si mette davanti alla tv. La sistematica non-cultura ha addormentato se non accecato una considerevole parte degli italiani».

Corriere della Sera 12.4.08
Confronti A partire dal 2000 la media dei decessi ogni anno è stata di 1.376 casi accertati
Statistiche Nei dati ufficiali non compaiono le cifre che riguardano i lavoratori pagati in nero
L'Italia e le morti bianche Come un secolo fa
Al primo posto in Europa per incidenti sul lavoro
di Gian Antonio Stella


Il muratore calabrese Nicola Coniglio, morto precipitando giù da un'impalcatura nel pieno centro di Perugia, non aveva forse mai visto le foto che Lewis W. Hine scattò nel 1930 durante la costruzione dell'Empire
State Building. Ma c'è un filo rosso che unisce lui e tanti altri a quegli operai fermati nelle straordinarie immagini del grande fotografo. Appesi come «Icarus» a un cavo nel cielo di New York. Intenti a stringere bulloni a trecento metri da terra, una mano a reggere l'appoggio e l'altra a stringere la chiave inglese. Seduti in fila su una traversina sospesa nel vuoto.
Quasi ottant'anni dopo, non è cambiato quasi niente. E migliaia di manovali vengono ogni giorno mandati su per le impalcature a lavorare così. Senza un casco, senza una imbragatura, senza un minimo di protezione contro gli infortuni. E come allora, quando morirono in cinque (senza contare le decine di feriti) nel cantiere del grande grattacielo newyorkese, continuano a cadere oggi. A grappoli. Basti dire che, di tutte le morti bianche sul lavoro, quelle nell'edilizia sono un quarto.
Marco Rovelli, un giovane insegnante, musicista e scrittore già autore di «Lager italiani » sui centri di permanenza temporanei, ha fatto un lungo viaggio tra i dolori, i lutti, gli scandali dei morti sul lavoro.
Si intitola «Lavorare uccide», è edito dalla Bur (Rizzoli) e arriva in libreria mercoledì prossimo. Ricco di storie, di testimonianze, di numeri: «Nel 42,5% dei casi si muore cadendo dall'alto. Nel 20,8% dei casi si muore travolti da una gru, da un carrello elevatore, da una ruspa. Nel 14,9% dei casi si muore colpiti da materiali da lavoro. Nel 10,6% dei casi si muore coinvolti dal crollo di un ponteggio o di un'altra struttura. Nel 5,5% dei casi si muore folgorati. Insomma si muore come si moriva decenni fa, nonostante, nel frattempo, le tecnologie disponibili siano migliorate di molto». Nel 2007, nei soli cantieri edili, hanno perso la vita in 235. Un po' meno che l'anno prima, ma molti di più che due anni fa, quando erano stati «solo» 191.
Uno su due muore al Nord, almeno uno su sei è un immigrato.
La precisazione «almeno» è obbligata. Come spiega Rovelli, in una realtà in cui il lavoro nero rappresenta una quota altissima, soprattutto nel Mezzogiorno, non è raro che il corpo di qualche poveretto venga rimosso in tutta fretta per simulare un incidente stradale. O più semplicemente venga fatto sparire.
Tanto, chi se ne accorge, degli immigrati? «A fine 2006 la polizia polacca fece circolare un appello: più di cento polacchi erano scomparsi dopo essere partiti per la raccolta dei pomodori. E, nello stesso periodo, la polizia italiana apriva un'indagine su una ventina di polacchi morti bruciati, affogati, strangolati, investiti nella zona del Tavoliere. E ti viene facile pensare che magari alcuni di loro sono stati inghiottiti da quelle morti bianchissime, cancellate, occultate, perché il padrone non può vedersi smascherato... ». Statistiche dell'Inail alla mano, abbiamo avuto a partire dal 2000 una media di 1376 morti l'anno. Troppi. Tolti i casi di chi ha lasciato la pelle negli incidenti stradali mentre andava al lavoro, la cui citazione da parte del vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei ha scatenato l'iradiddio di polemiche, siamo comunque primi nella classifica più terribile con 944 vittime contro le 804 della Germania e le 743 della Francia. Di più, tolta la Spagna, messa perfino peggio di noi, siamo in testa alla tabella degli incidenti mortali in rapporto al Pil: 68 ogni dieci miliardi di euro noi, 45 la Francia, 36 la Germania, solo 12 la Gran Bretagna. Un sesto.
Colpa della superficialità criminale di troppi «caporali» che rastrellano manodopera disperata e la affittano ad imprese clandestine a quaranta euro al giorno dei quali la metà va al lavoratore. Colpa della ignobile catena di subappalti subappaltati a subappaltatori che subappaltano col risultato che quando la magistratura condanna l'impresa a risarcire le vittime salta fuori che spesso i colpevoli risultano nullatenenti. Colpa della mancanza di controlli. Rivelata anche da un dettaglio di cui gli stessi lettori si saranno accorti: ma vi pare possibile che così tanti giovani muoiano il primo giorno di lavoro? Uno su sette, dicono i numeri ufficiali. Dietro, però, è probabile che ci sia dell'altro. Cioè che l'assunzione venga fatta spesso «dopo» l'incidente. Quando proprio non è possibile far sparire tutto.
La legge Bersani dell'agosto 2006, ricorda «Lavorare uccide», ha tentato di «mettere una toppa, imponendo di comunicare al Centro per l'Impiego l'assunzione di un lavoratore almeno un giorno prima della sua effettiva entrata in servizio. Ma la sanzione è talmente bassa — da 100 a 500 euro — che viene da chiedersi quanto sia efficace. Insomma, all'imprenditore può convenire sempre rischiare... ».
C'è di tutto, nel percorso di Rovelli. La storia di Gianfranco Viglizzo, caduto dal tetto di una cartiera in una vasca «piena di pastacarta, un impasto liquido dove si sprofonda come nelle sabbie mobili». E di Bogdan Mihalcea, morto come un topo mentre controllava un tombino, «portato via da un'ondata di melma di fogna ».
E di quelli che muoiono lentamente, come gli operai giuliani che per anni hanno lavorato con le fibre di amianto che «penetrano le fibre della pleura, poi d'un tratto, anche a cinquant'anni di distanza, si risvegliano e ti annegano di liquido in un mese». Nell'area di Monfalcone, «secondo il normale tasso di incidenza, ci sarebbe dovuto essere un caso ogni diciassette anni. Invece negli ultimi vent'anni sono stati duecentoquaranta solo a Monfalcone, e seicento complessivamente nella fascia costiera fino a Trieste. A Monfalcone più o meno tutte le famiglie hanno il proprio morto da amianto».
Andrea Gagliardoni aveva smesso il turno di notte alle dieci di sera, aveva dovuto riprendere alle cinque di mattina, era stanco morto e quando la macchina tampografica che imprimeva inchiostro sui frontalini degli elettrodomestici mostrò di stampare male, fece quello che gli avevano detto di fare: mise la pressa in stand-by e ci si infilò sotto per controllare gli inchiostri. Solo che la macchina, come già era successo, ripartì da sola. Schiaccandolo sotto un peso di otto tonnellate. Una «fatalità» omicida: invece di tre sistemi di sicurezza ne aveva uno, per di più rimosso per accelerare i tempi.
«È stata una morte annunciata», racconta la madre, Graziella, che ogni mese torna all'Asoplast di Ortezzano, in provincia di Ascoli Piceno, a portare un fiore là dove il figlio è morto: «Gli operai li avevano avvertiti, i loro capi. Ma la pressa era rimasta in funzione. Siccome il manutentore specializzato non era disponibile, era stato chiamato un elettricista del posto a metterci le mani. Ma la macchina aveva continuato a funzionare male». Era un martedì, il giorno in cui restò lì sotto. Aveva ventitrè anni.

Corriere della Sera 12.4.08
Rivelazioni. Un ex agente dei servizi: riunioni alla Casa Bianca
Fu la Rice ad autorizzare la tortura per i detenuti
Ora più difficile per Condi un «ticket» con McCain
Il candidato repubblicano alla Casa Bianca, torturato nelle carceri del Vietnam, è da sempre contrario agli interrogatori violenti
di P. Val.


WASHINGTON — I vertici dell'Amministrazione Bush discussero nei dettagli e approvarono l'uso della tortura negli interrogatori dei presunti terroristi di al-Qaeda, in una serie di riunioni presiedute da Condoleezza Rice, allora consigliere per la sicurezza nazionale, nella situation room della Casa Bianca.
Rivelata da Abc News e confermata all'Associated Press da un ex agente dei servizi americani, la notizia scioglie i dubbi e gli equivoci che hanno sempre circondato l'atteggiamento del governo di Washington sull'impiego del waterboarding
(che produce negli interrogati la sensazione di annegare) e di altri metodi come schiaffi e privazione del sonno.
Con la Rice, agli incontri presero parte anche il vice-presidente Cheney, il segretario di Stato Colin Powell, il ministro della Giustizia John Ashcroft e il capo della Cia, George Tenet. Secondo la Abc, i partecipanti ebbero cura di non coinvolgere direttamente il presidente nelle discussioni. Né la Casa Bianca, né alcuno dei protagonisti hanno voluto ieri rilasciare dichiarazioni.
L'ex agente ha spiegato che le discussioni durarono mesi e che Cheney e gli altri parteciparono direttamente alla stesura del programma di interrogatori, dei metodi da usare, chiedendo a più riprese pareri legali al ministero della Giustizia. Non tutti si dissero d'accordo. A sollevare obiezioni furono Powell e perfino l'Attorney General, Ashcroft, che pure era considerato un falco: «Perché discutiamo di questo alla Casa Bianca? La storia non lo giudicherà con favore», avrebbe detto quest'ultimo durante una delle riunioni. Ma nessuno si oppose al via libero finale.
Secondo l'Abc, a svolgere un ruolo decisivo nell'autorizzare l'uso della tortura fu Condoleezza Rice, avvicinata dai vertici della Cia subito dopo lo scoppio dello scandalo di Abu Ghraib, la prigione dove soldati americani torturarono e umiliarono i prigionieri iracheni con il beneplacito del Pentagono. L'attuale segretario di Stato spinse in avanti il programma: «Questa è la vostra creatura, andate avanti», avrebbe detto Rice agli uomini della Cia, che spiegavano e illustravano fin nei dettagli tutte le cosiddette «tecniche avanzate d'interrogazione », gergo per le torture.
La rivelazione potrebbe nuocere a Rice, il cui nome è stato fatto come possibile ipotesi per la vice-presidenza, insieme al candidato repubblicano John McCain. Quest'ultimo, torturato nelle carceri del Vietnam dove fu prigioniero per oltre 5 anni, è da sempre contrario a ogni forma di tortura: «La nostra credibilità morale - ama dire McCain - è la migliore arma nella guerra al terrorismo». Anche se i sondaggi danno il tandem McCain- Rice davanti al cosiddetto «dream-team» democratico, con Obama e Hillary Clinton, sembra improbabile che il senatore repubblicano sacrifichi i principi in nome dell'eleggibilità.

Corriere della Sera 12.4.08
Memoria Iniziativa per rievocare il ruolo della Reichsbahn nella Shoah
Il treno dell'Olocausto boicottato dalle Ferrovie
Negata la stazione di Berlino. Oggi la protesta
Gli organizzatori: «Posizione indegna, incoraggia l'estrema destra e danneggia la Germania»
di Danilo Taino


BERLINO — Furono le ferrovie la chiave logistica che permise lo straordinario «successo organizzativo» dell'Olocausto. E furono le stazioni gli unici luoghi in cui i tedeschi poterono vedere, in presa diretta, come funzionava lo sterminio progettato dai nazisti. La Reichsbahn - le ferrovie del Terzo Reich - ebbe cioè una funzione centrale nel trasporto degli ebrei ai campi di concentramento. Qualcosa che vale la pena ricordare. A quanto pare, però, i dirigenti della Deutsche Bahn - il gestore attuale di binari, treni e stazioni non sopportano di parlare di quegli anni.
Il Comitato Internazionale Auschwitz, un'organizzazione con sede a Berlino, aveva pensato fosse solo logico organizzare un Treno della Memoria che portasse in giro per la Germania una mostra dedicata al ruolo delle ferrovie naziste. Quindi, ha organizzato una locomotiva con quattro vagoni pieni di materiale che testimonia la deportazione di un milione e mezzo di bambini e giovani ebrei e rom che, tra il 1940 e il '44, da tutta Europa, Russia compresa, furono avviati ai campi di sterminio. Le ferrovie e il loro presidente, Hartmut Mehdon, avrebbero però fatto di tutto per boicottare l'iniziativa - accusa il Comitato - , fino a negare al treno- mostra l'ingresso nella stazione centrale di Berlino, domani. Tanto che oggi gli organizzatori della mostra viaggiante terranno una manifestazione davanti alla Porta di Brandeburgo, nella capitale, che poi raggiungerà il quartier generale della Deutsche Bahn.
Il Treno della memoria è partito lo scorso novembre da Francoforte e ha ormai toccato una trentina di stazioni, dove si è fermato ed è stato visitato da migliaia di persone. E' previsto che, dopo tremila chilometri, arrivi in Polonia, ad Auschwitz, l'8 maggio, anniversario della fine della seconda guerra mondiale in Europa. Che ci sarebbero state tensioni si è però capito presto. Mehdon, per dire, pare non abbia fatto alcuno sconto agli organizzatori del viaggio commemorativo: chiede che paghino tra i 70 e i centomila euro per l'utilizzo dei binari e per le soste nelle stazioni. Non solo: il Comitato Auschwitz aveva chiesto di fermarsi anche nella nuova Hauptbahnhof di Berlino che guarda gli edifici del Bundestag e della Cancelleria. Permesso negato per la ragione che la locomotiva avrebbe costretto le ferrovie a disinnescare i sistemi di allarme anti-incendio della stazione. A Berlino, solo in periferia.
Costernazione degli organizzatori. Il presidente del Comitato Auschwitz, Noach Flug, ha accusato Mehdon e le ferrovie di tenere «una posizione indegna », di danneggiare la reputazione della Germania e di «incoraggiare i gruppi di estrema destra in Europa». Parole di fuoco, che Deutsche Bahn ha respinto sostenendo di non avere mai voluto cancellare le tracce della storia, per quanto orribili. Il fatto è che già nell'ottobre 2006 Mehdon era stato al centro di una polemica simile.
Il ministro dei Trasporti, Wolfgang Tiefensee, voleva organizzare una mostra dello stesso genere nelle stazioni tedesche, organizzata in quel caso da Beate Klarsfeld, la famosa casalinga che per anni è stata tra i protagonisti della caccia agli ex nazisti. La mostra - intitolata «Undicimila bambini ebrei: con la Reichsbahn verso la morte» - era già stata vista nelle stazioni francesi con enorme successo, sembrava ovvio fare lo stesso in Germania. Mehdon, però, non diede il permesso, sollevando questioni tecniche e finanziarie. E aggiunse: «Il soggetto è troppo serio perché la gente lo affronti mentre mastica un sandwich o corre per prendere un treno».

Corriere della Sera 12.4.08
Un articolo del Nobel che ha scoperto l'origine delle galassie
Energia oscura, l'enigma dell'universo che accelera
«Einstein l'aveva previsto ma non c'è spiegazione»
di George Smoot, Nobel nel 2006


La scoperta ottenuta dieci anni fa dell'espansione a un ritmo crescente dell'universo risultò sconcertante. Nel 1998, due gruppi che studiavano le supernovae distanti di «tipo Ia» dimostrarono indipendentemente l'aumento di questa velocità di espansione. Sin dalla scoperta di Edwin Hubble nel 1929 della fuga delle galassie, i cosmologi avevano cercato di misurare il rallentamento dei corpi galattici dovuto alla gravità. Quindi la scoperta dell'accelerazione cosmica, che va nella direzione contraria, rappresenta uno dei progressi più importanti della moderna astronomia.
Essa rappresenta l'ultimo importante tassello dell'attuale modello cosmologico, secondo cui l'universo è composto per il 4% da materia ordinaria, per il 20% da materia oscura e per il 76% da energia oscura, così battezzate perchè non se ne conosce la natura. E questo è oggi uno dei misteri più profondi di tutta la scienza. Diverse sono le ipotesi elaborate per spiegare l'enigma. L'accelerazione cosmica potrebbe derivare dalla forza di gravità repulsiva dell'energia oscura e potrebbe smentire la teoria einsteiniana della relatività generale di gravitazione che sarebbe quindi da sostituire o modificare in modo sostanziale.
Una storia intricata collega l'energia oscura alla «costante cosmologica » proposta da Einstein a cui è collegata l'accelerazione in questione. Poiché la gravitazione era stata sempre considerata come forza attrattiva, Einstein aveva bisogno di una forza repulsiva per mantenere un equilibrio atto a produrre l'universo statico considerato all'epoca il modello esatto. Così introdusse la sua costante nelle equazioni di campo della relatività generale del 1917 e delineare un modello cosmologico statico e finito. La scoperta dell'espansione dell'universo di Hubble il fondamento logico della costante cosmologica sembrava, quindi, sfumare. Invece cinquant'anni dopo, Yakov Zeldovich, il padre della bomba all'idrogeno sovietica poi finito agli arresti domiciliari in quanto dissidente, dimostrava che la costante di Einstein sull'accelerazione era matematicamente valida.
Nella teoria quantistica di campo, lo stato di vuoto è riempito da particelle virtuali e i loro effetti venivano misurati negli spostamenti di linee atomiche e in masse di particelle. La densità di energia del vuoto avrebbe esattamente lo stesso effetto della costante cosmologica la quale rappresenta la spiegazione più semplice dell'accelerazione dell'espansione dell'universo. Inoltre essa coincide con le osservazioni compiute in particolare sulle supernovae e sugli agglomerati di galassie e con gli studi sul fondo cosmico a microonde: tutti confermano l'eccezionalità della scoperta.
Tuttavia, l'origine fisica dell'accelerazione cosmica resta un grande mistero. Secondo la relatività generale, se l'universo è riempito di materia ordinaria o di radiazioni, le due componenti conosciute del cosmo, la gravità dovrebbe determinare un rallentamento dell'espansione. Poiché invece essa sta accelerando, ci troviamo di fronte a due possibilità, ciascuna delle quali avrebbe profonde implicazioni nella nostra comprensione dell'universo e per le leggi della fisica.
La prima è che il 75% della densità energetica dell'universo esiste in una nuova forma esercitando una grande pressione negativa, chiamata energia scura. L'energia legata al vuoto avrebbe esattamente questa proprietà. L'altra possibilità è il crollo della teoria della relatività generale su scale cosmologiche che, pertanto, deve essere sostituita con una teoria più completa di gravità.
Ci troviamo allora ad affrontare un altro problema: se la relatività generale è corretta ed esiste un altro componente dell'universo chiamato energia oscura, questa energia è qualcosa di simile all'energia fissa del vuoto o è un nuovo campo che può passare attraverso transizioni di fase, analogamente all'acqua che si trasforma in ghiaccio? Se è un'energia fissa, allora l'universo continuerà a espandersi per sempre. Se invece l'energia oscura può cambiare stato, allora potrebbe modificarsi da quello repulsivo a quello attrattivo e l'universo potrebbe rallentare la sua velocità di espansione ed eventualmente collassare. Il destino finale del cosmo dipende, insomma, dalla capacità di stabilire se l'energia oscura è una nuova teoria gravitazionale, un'energia fissa del vuoto, oppure un nuovo campo energetico. Questa è la risposta che cerchiamo di dare. È molto improbabile che la definizione completa all'importante quesito dipenda da una singola osservazione o da una serie di osservazioni tramite un'unica tecnica, poiché si potrebbe modificare ciascuna di queste alternative per far coincidere i risultati del singolo approccio a causa della nostra limitata prospettiva. Solo diversi approcci e osservazioni precise con verifiche incrociate possono allora consentire una distinzione arrivando all'ambito risultato.

Corriere della Sera 12.4.08
Documenti Recuperate le prime lezioni del filosofo sull'arte
La bellezza è libertà: e Heidegger annunciò la scoperta di Schiller
di Armando Torno


Heidegger riserva continuamente sorprese. Una sua ricerca, un viaggio, un corso suggeriscono sempre idee utili alla cultura contemporanea. Così è di un seminario tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1936-37, dedicato alle Lettere sull'educazione estetica dell'uomo di Schiller, del quale è andato perduto il testo originale e restano soltanto frammentarie annotazioni. Le pagine non figurano nell'edizione tedesca in corso delle opere del filosofo, ma alcuni partecipanti presero appunti. Grazie a uno di essi, il medico attempato Wilhelm Hallwachs (era nato nel 1872 e seguiva il maestro dal 1930), è possibile ricostruire i dodici incontri, tra il 4 novembre 1936 e il 17 febbraio 1937.
Che importanza può avere un seminario su Schiller del pensatore tedesco? Diremo innanzitutto che le pagine, nate in un corso per matricole, affrontano temi di grande portata e riflettono una scelta esistenziale, giacché in quel tempo Heidegger resta appartato. C'è tuttavia qualcosa di più: come ben nota il curatore dell'edizione italiana, Adriano Ardovino, l'Introduzione all'estetica (uscita ora da Carocci) è un documento prezioso in cui si riflette «la definitiva centralità dell'arte all'interno di un pensiero che valorizza sempre più la storicità dell'esistenza umana». La posta in gioco è alta: Heidegger mostra — utilizziamo le conclusioni presenti nell'edizione italiana — come le Lettere di Schiller rappresentino uno dei tentativi più profondi per ritrovare nella riappropriazione estetica della natura sensibile la storia della libertà umana.
Il filosofo si lasciava alle spalle non poche questioni e alla fine del 1935 in una conferenza a Friburgo, ripetuta a Zurigo all'inizio del 1936, esponeva per la prima volta le sue tesi sull'arte, sulle quali si baserà l'opera definitiva L'origine dell'opera d'arte (tradotta dall'editore Marinotti). Quel 1936 fu un anno di studi, di domande, di tristezze. Schiller è anche un rifugio. Cosa racchiudono veramente queste lezioni?
Cominciamo a rispondere, ricordando che nella primavera — sempre del 1936 — il filosofo è invitato a Roma per dieci giorni. È la prima volta che vede il nostro Paese e ne visita la capitale. Il 2 aprile tiene la conferenza Hölderlin e l'essenza della poesia all'Istituto italiano di studi germanici, dove lo accoglie un pubblico entusiasta; l'8 legge alla Biblioteca Hertziana un testo dal titolo L'Europa e la filosofia tedesca. Rivede, tra i molti, il suo allievo Karl Löwith che, fuggito dal Reich, vive a Roma grazie a una borsa di studio ottenuta per interessamento dello stesso Heidegger. Non passerà molto tempo e dovrà riparare in Giappone.
Tornato in patria, ha uno scambio di corrispondenze e di testi con Jaspers. Emergono le difficoltà di entrambi: uno si sente emarginato, l'altro è preoccupato («...mi si blocca la parola! Nell'operosità silenziosa, però, finché è concesso, possiamo trovarci»). Non è difficile, d'altra parte, per Jaspers prevedere tempi difficili: avendo sposato un'ebrea, nel 1937 gli verrà interdetta la possibilità di insegnare e dal 1938 ogni pubblicazione. Anche Heidegger non sa più cosa siano i giorni di gloria: il 14 maggio il partito ordina accertamenti sulla sua attività, il 29 le informazioni raccolte sono inoltrate al Sicherheitsdienst (il servizio di sicurezza del Reich) e viene decisa la sorveglianza del filosofo.
In quei mesi, tuttavia, l'autore di Essere e tempo è come se guardasse altrove; abbandona sempre più quel che gli sembra superfluo e si immerge nelle ricerche, elaborando testi per i corsi. Tiene quello estivo del 1936 sul saggio dedicato da Schelling alla libertà, ed esercitazioni sulla Critica del giudizio di Kant, né dimentica Hölderlin e Nietzsche (pensa in quei giorni alle lezioni su «La volontà di potenza come arte»), mentre medita qualcosa per il Congresso internazionale su Cartesio del 1937 a Parigi, città dove si sarebbe recato nel-l'estate del 1935 per predisporre la strategia dell'evento (non ci andrà, la delegazione tedesca verrà guidata da Hans Heyse). Poi le lezioni su Schiller. Sembrano l'ultima fuga in una dimensione dove abita un'altra luce. Il 20 gennaio 1937 proferisce al seminario la frase: «I popoli si destano al loro inizio con la poesia e con la fuoruscita da essa giungono alla fine»; e sottolinea: «Nel colloquio, noi viviamo nel linguaggio ». Il 10 febbraio, quasi alla conclusione, afferma: «La forma è tutto. L'apparenza è l'essenza dell'arte. La bellezza è libertà del fenomeno. (Lo stato estetico è la prima forma di libertà, ossia ricettività spontanea). Libertà e forma devono essere lo stesso. Che significa libertà? Ciò che si determina da se stesso». Heidegger aveva dunque trovato nella bellezza la libertà, nella poesia il battito del cuore delle civiltà. Per questo poteva ripetere nella lezione del 2 dicembre 1936 con l'amato Schiller: «Le nature volgari pagano con ciò che fanno, quelle nobili con ciò che sono!».

Corriere della Sera 12.4.08
Religioni. Il norvegese Bondevik: spaventosa e banale, scriviamo Geenna
«Via la parola Inferno dalla Bibbia» Il vescovo luterano cambia traduzione
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Uno come Urs von Balthasar, il grande teologo e cardinale, a suo tempo disse che l'inferno esiste, ma è vuoto di anime. Ma c'è anche chi, al luogo fiammeggiante della penitenza eterna, ha deciso senz'altro di cambiar nome: è il caso di Odd Bondevik, vescovo luterano e direttore della Società biblistica norvegese, che nella prossima traduzione della Bibbia abolirà proprio la parola «inferno» per sostituirla con «geenna », dall'ebraico ge-hinnom o «valle di Innom» nei pressi di Gerusalemme, che ha poi lo stesso significato, e con questo significato compare in vari passi del Nuovo e dell'Antico Testamento (ma non così spesso come «inferno»). Motivazione del cambio: «inferno», dicono Bondevik e altri biblisti, «sa di Medioevo» è troppo «spaventoso » e insieme «super-banalizzato», per come è usato in continuazione nel linguaggio quotidiano. Insomma: da un lato, sarebbe un termine che fa venire brividi superati e, dall'altro, si dice ormai «va all'inferno» o «quella serata è stata un inferno», in un tono salottiero che farebbe indignare Dante, e forse delizierebbe Mefistofele, storicamente attento a ogni possibilità di mimetizzazione. «Geenna», valle dove — secondo la tradizione — un tempo si bruciavano cadaveri e rifiuti, avrebbe invece un suono meno sconvolgente, e un senso più preciso.
Molti però, sui giornali e sul Web, contestano la tesi di Bondevik, personaggio di peso anche politicamente (è figlio di un noto deputato e cugino di un ex-primo ministro). La contestano, un po' perché «Gehenna» è già il nome di un complesso musicale «black metal». E un po' perché, anche se i veri praticanti sono molti di meno, l'85% dei norvegesi aderisce alla chiesa luterana ed è sensibile a certi temi, non li percepisce come banali. Secondo un sondaggio fatto pochi mesi fa, il 51,6% della popolazione crede in Dio, e il 40,3% nella resurrezione di Cristo: «ma chi crede in Dio e nel paradiso, crede anche nel diavolo e nell'inferno » sostiene uno dei critici di Bondevik.
La polemica è attizzata anche dal momento politico. Fino a due giorni fa, il luteranesimo era la religione ufficiale di Stato, ma ora i 7 maggiori partiti si sono accordati su una modifica alla Costituzione: parole più vaghe, «i valori di base della nostra nazione risiedono nella nostra tradizione cristiana e umanistica». Anche nella vicina Svezia, Mefistofele fa discutere: il caporedattore di un giornale è stato minacciato di morte per aver pubblicato il manifesto di un concerto punk, dove un diavolo balza fuori dalle fiamme e si beffa con gesti osceni di un uomo crocifisso.