martedì 15 aprile 2008

Repubblica 15.4.08
Un saggio dello storico Modzelewski
La civiltà dei barbari
di Adriano Prosperi


Un´indagine sui rapporti tra le culture europee nel passaggio dal paganesimo , mai del tutto veramente estinto, all´affermarsi del cristianesimo
È molto fragile il mito di un popolo tedesco fatto per la guerra diffuso dai nazisti
Il dominio dei Longobardi in Italia fu costruito come una monarchia

Barbaro: una parola greca, nata per fare il verso col suo balbettìo inarticolato (bar-bar) a quelli di cui non si capiva la lingua. Al riso dei greci seguì il severo spirito ordinatore e la volontà di conquista dei romani: la parola servì per distinguere la civiltà come patrimonio dei «cives romani» da chi ancora non la possedeva. Certo, poteva già allora accendersi il gioco di specchi che ha reso celebre l´osservazione di Michel de Montaigne davanti ai selvaggi americani: ognuno definisce barbari gli usi diversi dai propri. Quando Ovidio fu esiliato a Soci tra le popolazioni del Mar Nero si rese conto che i ruoli potevano rovesciarsi e che il più raffinato cittadino romano poteva diventare il barbaro di chi non capiva la sua lingua. Col crollo dell´impero romano la storia dei barbari è diventata la storia d´Europa. Ma chi erano coloro che travolsero i confini romani e dilagarono in occidente? Su di loro gli storici dell´800 proiettarono i confini degli stati nazionali: la divisione tra popoli germanici, baltici e slavi apparve allora obbligatoria. Oggi una importante opera dello storico polacco Karol Modzelewski affronta l´impegnativo compito di ridefinire la carta dell´Europa alto-medievale in una fase in cui non c´è solo da cancellare gli anacronismi del nazionalismo (L´Europa dei barbari. Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana, Bollati Boringhieri, pagg.481, euro 40). La discussione sulle radici culturali cristiane dell´Europa che si è accesa intorno al preambolo della costituzione europea impone a chi affronta il tema da storico un compito imponente: quello di fare un bilancio storico - non politico, non religioso - del rapporto tra culture pagane e cristianità romana. Karol Modzelewski non si è sottratto all´impegno. Il suo libro affronta la questione dei rapporti tra le culture europee su di un arco temporale che va dalle invasioni barbariche alle radici sopravviventi di un mondo pagano che «non morì completamente». E´ proprio con questa citazione oraziana che il libro si conclude.
Che cosa non è morto? Per esempio il fondamento religioso germanico della regola dell´unanimità del verdetto dei giurati, oggi indiscusso pilastro del sistema giudiziario statunitense: oppure l´archetipo del legame di sangue tra i membri della tribù che è rimasto nella definizione della guerra civile come «lotta fratricida». Certo, gli antichi dèi furono sconfitti: lo riconobbero gli abitanti di Stettino quando, davanti al ludibrio che i missionari cristiani facevano dei loro idoli, si sentirono non più protetti e si rassegnarono al battesimo con parole non diverse da quelle che secoli dopo furono pronunziate in America dagli aztechi sconfitti da Cortès. Quel mondo pagano crollò come l´albero altissimo che impediva al cielo di cadere sulla testa degli uomini (chi non ricorda Asterix?). I Sassoni adoravano un grande tronco di albero, che chiamavano «colonna universale»: così racconta Rudolf di Fulda. I missionari cristiani tagliarono l´albero, fecero trascinare via gli idoli, frantumarono i recinti sacri delle assemblee. Si ripeteva il trauma della fine del paganesimo antico simboleggiata dalla morte del dio Pan. Ma la morte delle culture non è come quella degli esseri umani: di quella barbarica sopravvissero forme nascoste e profonde, che il volume di Modzelewski decifra seguendo percorsi inconsueti e ricostruendo processi storici complessi su di uno scenario di grande ampiezza spaziale e cronologica e dominando una straordinaria ricchezza di fonti. Lo storico ha dovuto lavorare in condizioni di speciale difficoltà, che è facile immaginare se si pensa che ha avuto a disposizione tracce incerte, nell´assenza spesso quasi completa di documenti scritti, e dovendo per di più fare i conti con rappresentazioni tenaci quanto infondate. Facciamo un solo esempio per intenderci.
Il mito di un popolo tedesco fatto per la guerra e per l´obbedienza ha ricevuto diritto di presenza nel passato quando storici filonazisti elaborarono la costruzione di un ipotetico gruppo sociale - i cosiddetti «liberi del re» soggetti solo al sovrano e dediti esclusivamente alla guerra - che sarebbe stato tipico dei popoli germanici.
Quella costruzione aveva basi fragilissime e oggi appare a pezzi, nota Karol Modzelewski. Ma questo non le ha impedito di resistere a lungo. Prova - se ce ne fosse bisogno - della verità dell´osservazione che su di un piano generale Modzelewski propone al lettore: «Ogni riflessione sul passato si accompagna a un certo modo di valutare e di comprendere il mondo contemporaneo». Alle realtà politiche del mondo contemporaneo Karol Modzelewski ha partecipato personalmente militando nell´opposizione da sinistra al regime filosovietico in Polonia dove è stato tra i fondatori del sindacato Solidarnosc. Ma, a differenza di altri intellettuali polacchi, per lui l´impegno politico non è diventato una professione: ha continuato a fare il mestiere di insegnante e di storico conservando di quella esperienza di impegno politico una vigile attenzione al rapporto tra presente e passato. Oggi, con questo robusto e affascinante volume, offre il suo contributo per rispondere alla domanda se ci siano e quali siano le basi comuni della cultura europea derivate dalla tradizione dei barbari. Questa Europa barbarica venne integrata nell´ambito della cultura dominata dalla Roma pagana e poi cristiana durante una vicenda lunga tredici secoli, dalla guerra gallica di Cesare fino alle campagne dei cavalieri teutonici. Si svolse allora il confronto e il conflitto tra le culture tribali germaniche, slave e baltiche e la cultura romano-cristiana. Questo è il tema del libro. I confini abbracciati dalla ricerca di Modzelewski comprendono territori e popoli oggi divisi da identità nazionali fortemente consapevoli delle proprie diversità e spesso reciprocamente risentite. Per ricostruirne i tratti culturali comuni c´è voluto un esercizio straordinario di microanalisi associata a una capacità di mettere in relazione testimonianze di natura diversa e di epoche lontane fra di loro.
Facciamo anche qui un solo esempio: nel 1030 un missionario cristiano di nome Volfred giunto dall´Inghilterra in Svezia fu messo a morte per aver fatto a pezzi l´idolo del dio Thor. Il suo corpo dilaniato fu gettato nella palude. Così racconta Adamo di Brema. Ora, che il rito dell´esecuzione capitale germanico prevedesse l´affogamento di certi tipi di condannati nel fango delle paludi era stato scritto nella Germania di Tacito, un´opera che riemerse nella cultura dotta solo nel 1455 da un unico manoscritto trovato in monastero tedesco. Forse Adamo di Brema aveva letto l´opera di Tacito o quella di un altro autore che aveva utilizzato Tacito? Questo poteva accadere; in altri casi accadde. La grande affidabilità e acutezza dell´inchiesta antropologica di Tacito trova continue conferme nello studio di Modzelewski che in molti punti si può quasi considerare un omaggio al grande storico romano. Ma nel caso di Adamo di Brema le analogie fra i due testi non si spiegano ricorrendo alla trasmissione di un motivo letterario. Qui Modzelewski apre un ampio spiraglio sulla realtà medievale delle sopravvivenze pagane tra i popoli barbari e ne mostra gli scontri e gli accomodamenti col cristianesimo e con la cultura latina: intanto le leggi consuetudinarie di popoli «barbari» - i Burgundi (inizi del VI secolo), i Frisoni (norma codificata nell´803) - attestano la pena capitale dell´affogamento nel fango. La pena aveva un carattere religioso, di espiazione per offese agli dèi. E che venisse praticata lo dimostra una prova materiale: in Danimarca, Olanda, Irlanda gli scavi archeologici e le estrazioni della torba hanno portato al rinvenimento di alcune centinaia di «cadaveri di palude» alcuni dei quali con gli occhi bendati e con segni di torture (i terreni paludosi hanno notoriamente la caratteristica di conservare perfettamente i resti organici).
Questo è solo un piccolo esempio dell´interesse di questa storia: dall´indagine di Karol Modzelewski vengono illuminate pratiche divinatorie pagane solo superficialmente cristianizzate, come quella in uso per scoprire il colpevole in un processo penale. Sono particolarmente interessanti le sue osservazioni sui caratteri sacrali dell´assemblea pubblica (fu necessario un ordine specifico di Carlo Magno per imporre l´obbligo del culto festivo al Dio cristiano a danno di quelle assemblee). Si tenga conto di quanto il terreno di riti e miti dell´antichità germanica sia stato reso un campo minato dalla propaganda nazista e dagli storici tedeschi del III Reich: per reazione gli studiosi hanno poi ecceduto nel metterne in ombra gli aspetti sacrali e le convinzioni religiose soggiacenti. L´analisi di Modzelewski invece è un restauro paziente e accurato di un mondo che ha lasciato tracce nelle leggi, nelle consuetudini e nel linguaggio in un´area che abbraccia popoli germanici, slavi, ugrofinnici e si estende dalla Svezia all´Irlanda, alla Lettonia e a tanti altri paesi. Anche all´Italia: anzi, specialmente all´Italia perché il dominio del Longobardi su parte della penisola fu costruito come una monarchia di conquistatori, senza il concorso delle élite romane che furono invece determinanti nella storia della vicina Gallia. Perciò le leggi longobarde hanno uno speciale valore di prova in questa inchiesta sulle categorie delle culture barbariche. Si pensi allo speciale diritto del re sulle donne del popolo longobardo, che si spiega solo sulla base di una concezione privatistica del sovrano come un grande parente di ogni famiglia.
«C´è voluto un secolo o più di duro lavoro - ha scritto Zygmunt Bauman - ... per convincere i prussiani, i bavaresi, i renani, i turingi o i sassoni... che sono tutti parenti stretti e discendenti dello stesso ceppo germanico» (Le vespe di Panama, Laterza, p.12). Senza ricorrere alla forza militare, con l´intelligenza e lo sguardo dello storico Karol Modzelewski ha raggiunto un risultato di gran lunga maggiore: dimostrare l´appartenenza dei popoli della Scandinavia, della Russia, della Polonia e naturalmente della Germania - cioè di tutte le popolazioni discendenti dai «barbari» - a una stessa cultura originaria, frammentata in seguito dal diverso livello di integrazione con la cultura dell´impero romano e con la religione cristiana ma non cancellata del tutto. La vittoria del cristianesimo fu non uno smantellamento ma una interazione con l´eredità del mondo dei barbari: e l´Europa di oggi reca nella sua cultura le diverse facce delle reciproche influenze - mondo romano, mondo bizantino e retaggio culturale barbarico.

Corriere della Sera 15.4.08
Inedita alleanza fra insegnanti cristiani e musulmani: da Bruxelles parte un'indagine ministeriale
Bibbia e Corano contro Darwin
In molte scuole del Belgio gli insegnanti boicottano l'evoluzionismo
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Charles Darwin ha un suo angolino nei programmi della scuola pubblica belga come in quelli di altre scuole europee, le sue teorie sull'evoluzione della specie e sull'uomo «parente» dell'orango sono materia di studio per tutti i ragazzi dai sedici anni in su. Ma per alcuni dei loro professori di biologia o scienze naturali sono invece bugie, in contrasto con le loro convinzioni personali, bugie non meritevoli di essere insegnate: credono infatti che non l'orango, ma una divinità onnipotente, sia all'origine dell'avventura umana e di tutta la creazione, e questo insegnano ai loro alunni. Sostengono cioè il creazionismo o al massimo la teoria del «disegno intelligente», in opposizione all'evoluzionismo darwiniano. E alla divinità creatrice danno il nome di Dio, o di Allah: perché sono professori cristiani e professori musulmani, per una volta sostanzialmente d'accordo.
Li accomuna, fra l'altro, anche la reazione delle autorità: dopo le proteste di colleghi e di genitori «laici», che parlano di indebita propaganda clericale, il ministero dell'Istruzione ha deciso di spedire ispettori nelle scuole dove più si discute sulle idee del vecchio Darwin, e sulle pagine della Bibbia o del Corano.
Queste scuole sono almeno una sessantina soltanto nella comunità francofona, e sono le stesse dove ora il ministero ha inviato una delegazione formata da tre ricercatori universitari, per studiare quello che sta accadendo. La stessa comunità francofona — che notoriamente non naviga nel-l'oro, ma è assai meno ricca di quella fiamminga — ha stanziato 138 mila euro per l'indagine, secondo quanto riporta il quotidiano «Le Soir»: un'altra conferma di quanto il problema sia sentito.
A discutere, sono soprattutto giovani insegnanti di biologia, fra i quali alcuni «stagisti» giunti dai paesi del Maghreb nordafricano nel quadro dei programmi di cooperazione internazionale. Sarebbero loro, più di tutti gli altri, che avrebbero sentito come un'imposizione dall'alto il dovere di attenersi ai programmi ufficiali, soprattutto nelle parti che riguardano l'origine del mondo vivente. E per loro, non c'è davvero nulla da fare: per loro ha ragione Adnan Oktar meglio noto come Harun Yahya, Harun il turco, l'autore de «L'Inganno dell'evoluzione », dell'«Atlante della creazione », e di altri duecento libri e libelli che bollano l'evoluzionismo di Darwin come «una filosofia disonesta che ha soggiogato moltitudini di esseri umani».
L'anno scorso, proprio alcuni di questi insegnanti portarono nelle aule l'«Atlante della creazione», come corredo di battaglia contro le contestazioni degli alunni e dei colleghi darwinisti. Ne scaturì un putiferio, che fu poi il prologo di quello attuale: l'allora ministro francofono per il dialogo interculturale, l'oriunda siciliana Marie Arena, diffuse una circolare in cui si ammoniva contro l'uso di quel testo, che non era previsto dai programmi ufficiali. Ma a quanto pare, il verbo di Yahya continua a circolare, adottato in qualche caso anche da professori cristiani. Nato ad Ankara 52 anni fa, fondatore di un'associazione accusata di mescolare «il misticismo con la retorica scientifica», Yahya è un personaggio controverso ma con un certo seguito in vari Paesi. Alla fine degli anni Novanta, distribuì in tutta la Turchia migliaia di volantini e di copie gratuite delle sue opere, incitando a una campagna contro l'evoluzionismo che veniva presentato come una dottrina malvagia, assimilabile al nazismo, al materialismo storico, al comunismo staliniano. Allora come oggi, Yahya trovò ascolto anche in qualche università. Sostiene fra l'altro che «i reperti fossili sono forse la prova più importante per demolire le affermazioni della teoria dell'evoluzione, poiché essi rivelano che le forme di vita sulla Terra non hanno avuto il benché minimo cambiamento e non si sono mai sviluppate l'una dall'altra».
Conclusione: per lo studioso turco c'è un «fatto indiscutibile», ed è quello che «gli esseri viventi non sono venuti alla vita attraverso i processi immaginari dell'evoluzione. Ogni essere vivente mai prima esistito sulla Terra è stato creato da Dio».

Corriere della Sera 15.4.08
Antiseri: «Intesa possibile La scienza non è dogma»
di Dario Fertilio


Darwinismo evoluzionista o disegno intelligente di Dio? Se ne discute anche in Italia, non necessariamente schierandosi su sponde opposte: basti pensare al convegno internazionale «di pacificazione» che su questo tema si terrà presto in Vaticano. Ne è un testimone anche il filosofo Dario Antiseri, cattolico liberale, da tempo favorevole a una conciliazione fra le due impostazioni. Antiseri infatti le considera risposte entrambe legittime, sia pure su piani diversi, alla medesima domanda sul senso ultimo della vita.
Quella di Darwin, naturalmente, è «scientifica», mentre l'altra interpreta la realtà con «l'occhio della fede». Il che non cancella i rischi ideologici del darwinismo: «Quando una teoria viene assunta come verità religiosa si finisce col scendere nel pantano del dogmatismo scientifico».
Che l'evoluzionismo conservi qualche scheletro nell'armadio, del resto, lo si sa fin dall'Ottocento: «Darwin — ricorda Antiseri — si prestò a far da supporto a un'ideologia barbara, il darwinismo appunto, che giustificava come una legge il fatto che il forte dovesse sopraffare il debole». Ma a parte il famigerato darwinismo sociale, resta la constatazione che «la teoria darwiniana serve a spiegare una grande quantità di fatti. Proprio per questo va insegnata come una teoria: però non assoluta, ma tenuta sempre sotto assedio dalla ragione».

Il Mattino 15.4.08
«Ora è urgente costruire la nostra nuova casa»
Intervista con Franco Giordano
di em.imp.


Roma. Dopo questa pesante, e inaspettata per le proporzioni che ha assunto di ora in ora, sconfitta elettorale, il progetto della Sinistra Arcobaleno è destinato a essere messo nel cassetto o va rilanciato con nuova forza e vigore? Lo chiediamo a Franco Giordano, segretario del maggior partito della coalizione, Rifondazione Comunista. «A questo punto il percorso che porta alla nascita del nuovo soggetto della sinistra deve essere approfondito e accelerato». Come spiega, allora, questo dato elettorale così negativo che vi lascia addirittura privi di una rappresentanza parlamentare? «È un dato allarmante che deve far riflettere. Ma a mio avviso devono far riflettere ancora di più i due dati che si profilano e che sono davvero i più significativi. Due dati di protesta: quello di Di Pietro da una parte e quello della Lega dall’altra». Ha ragione, allora, Fausto Bertinotti, bisogna passare subito a una fase costituente della Sinistra in Italia? «Dobbiamo ripartire dalla ricostruzione di una casa per la sinistra, per contrastare questo processo di critica alla politica». Dalle prime prese di posizione sembra, però, di capire che nella coalizione della Sinistra Arcobaleno qualcuno abbia già preso le distanze, come i comunisti italiani di Diliberto. «Il nuovo soggetto si fa con chi ci sta. Non puoi continuare a scontare i ritardi e le inerzie di chi non ci sta». C’è anche chi, come qualche settore dei Verdi, fa intuire che forse la strada migliore sarebbe stata quella di un accordo col Partito Democratico e non esclude di riaprire da subito una interlocuzione con Walter Veltroni. «Un dato è indubitabile: senza voler certo negare che il nostro insuccesso è evidente, se fossimo stati insieme al Partito Democratico avremmo battuto le destre. Ma bisogna riconoscere che, per correre uniti, non c’erano proprio le condizioni». Giordano, non c’è il rischio che una forza politica extraparlamentare, come ormai sta per diventare la Sinistra Arcobaleno in base agli ultimi dati, assuma sempre più i connotati di una forza radicale e antagonista? «No. Ma ciò non è in contraddizione col fatto che un soggetto politico nuovo deve sempre più radicarsi nel territorio, tornando a essere un partito che sta dentro ai conflitti e che non si limita a rappresentare i conflitti».

il Messaggero 15.4.08
Clonazione: «Negli Usa pronti a creare i bambini fotocopia»
Un genetista: perfezionata la tecnica che creò la pecora Dolly
di Deborah Ameri


LONDRA - Una nuova tecnica messa a punto in un laboratorio americano si avvicina di un soffio alla clonazione umana. Anzi, teoricamente, la Advanced Cell Technology del Nevada, potrebbe clonare un bebé anche oggi, annuncia dalla prima pagina del quotidiano inglese Independent, il coordinatore scientifico della società, Robert Lanza.
I genetisti statunitensi hanno scoperto una scorciatoia, un metodo più semplice e meno rischioso rispetto a quello usato nel 1996 da Ian Wilmut per far nascere la pecora Dolly. Nel segreto dei loro laboratori hanno già applicato la tecnologia dimostrando la sua efficacia e clonando un topolino perfettamente sano.
Ma è lo stesso Lanza a lanciare l’allarme. «Il nostro metodo è talmente sicuro ed efficace che potrebbe essere usato per creare bebé su misura, per esempio nei trattamenti di inseminazione artificiale».
Bastano infatti poche cellule della pelle per ottenere un clone puro. Queste cellule, raccolte da un soggetto adulto, vengono sottoposte a un processo definito riprogrammazione genetica che, come una macchina del tempo, le riporta indietro al loro stato embrionale (in questa fase si chiamano iPS). A questo punto gli scienziati scrupolosi si fermano e raccolgono le cellule staminali - loro principale obiettivo - grazie alle quali possono studiare cure per malattie degenerative come il Parkinson e l’Alzheimer.
Ma se chi maneggia i vetrini e le provette non è così scrupoloso potrebbe inserirle in un embrione umano, precedentemente preparato, per esempio attraverso inseminazione artificiale, e poi impiantarlo nell’utero di una donna e far nascere un bambino. Il neonato sarebbe il clone del donatore delle cellule della pelle. «In questo modo chiunque, giovani, anziani, fertili, non fertili, gay, etero, potrebbe passare i propri geni a un bambino. Attraverso la pelle», spiega Lanza. E il nuovo nato, tecnicamente, avrebbe tre genitori: chi ha donato le cellule iniziali e il maschio e la femmina dai quali è stato creato l’embrione. «Facile così ottenere bambini a tavolino – continua Lanza – Biondi, occhi azzurri, intelligenti, atletici, come si desidera. Basta scegliere bene il donatore delle cellule epidermiche».
Gli scienziati della Advanced Cell Technology hanno voluto appositamente portare alle estreme conseguenze la loro tecnica e clonare il topolino per dimostrarne l’efficacia. Ma, giura Lanza, si è trattato di un semplice esperimento per sottolineare la superiorità sul metodo Dolly. La pecora infatti era stata replicata con un processo complesso, rimuovendo il materiale genetico dall’animale e inserendolo in una cellula uovo privata del nucleo che aveva iniziato poi a dividersi secondo il codice genetico trapiantato. L’embrione era stato poi sviluppato in provetta e da lì trasferito nell’utero di una pecora-ospite.
Ieri Wilmut non era disponibile per commentare (sta lavorando in Giappone), ma se la sua Dolly ha suscitato le ire dei gruppi religiosi, Lanza sostiene che la nuova tecnologia va a genio a tutti. «Il metodo di per sé, non la clonazione ovviamente, è stato approvato dalla chiesa cattolica, quando lo avevamo annunciato alcuni mesi fa, e ritenuto moralmente accettabile – spiega - perché per la prima volta siamo in grado di ottenere cellule staminali senza creare embrioni umani, che poi dovremmo distruggere».

il Messaggero 15.4.08
«Non è scienza, ma uno stupro tecnologico»
Adriano Pessina dirige il Centro di bioetica della Cattolica: tecnica irrispettosa della dignità umana
di Carla Massi


ROMA - «Non stiamo parlando di scienza. Questo è stupro tecnologico». Un commento secco quello che Adriano Pessina, direttore del Centro di bioetica della Cattolica, fa sulla nuova tecnica messa a punto nei laboratori del Nevada.
Perché parla di «stupro tecnologico»?
«Perché queste nuove possibilità riproduttive non hanno nulla a che vedere con la riproduzione umana. Si tratta di un traguardo tecnico che stravolge nel profondo il significato della procreazione».
Lei attacca i ricercatori che hanno osato tanto?«Stiamo parlando di una tecnica che non rispetta la dignità umana. I ricercatori devono riuscire a fermarsi. La vera libertà è proprio quella di non fare».
Ma se nei laboratori si lavorasse per aumentare i successi della fecondazione assistita?
«In questo caso parliamo di un procedimento che annulla la relazione tra uomo e donna e, con lei, il progetto di vita di un figlio. Con la fecondazione assistita, invece, si cerca di superare i limiti umani, si lotta per la nascita di un bambino».
Il lavoro dell’équipe di Lanza, invece, per lei è solo sperimentalismo?
«E’ un esercizio assimilabile alla selezione, all’eugenetica. Non possiamo utilizzare le cellule umane come cavie. La possibilità di arrivare a certi successi scientifici non ci deve far mutare il giudizio morale».
Ma se il frutto della ricerca fosse utilizzato per fini terapeutici?
«Giudizio negativo se si dovesse passare attraverso gli embrioni. Non si può generare e considerare quello che abbiamo generato puro materiale biologico».
Qual è il confine di cui parla? Dove devono fermarsi i ricercatori?
«Il confine sta nel rispetto dell’esistenza degli altri. Mai come oggi siamo chiamati a questo esercizio di libertà».
Eppure, chi lavora in questo campo, parla di nuove frontiere nella cura di alcune patologie. Disegna futuri scenari per le malattie neurologiche come il Parkinson o l’Alzheiemer
«E’ vero, chi fa queste ricerche le motiva come amore verso il prossimo. Credo sia comunque basilare non sfruttare gli uomini anche se il fine è il benessere di alcuni adulti. Si possono percorrere altre strade, molto più rispettose».
E se quel progetto ingegneristico salvasse tante vite?
«Ripeto, non esiste progetto ingegneristico valido in grado di far cambiare il giudizio morale su alcune scelte. Come il rispetto, a tutti i costi, della dignità dell’uomo. Della relazione e della nascita».

lunedì 14 aprile 2008



















clicca sull'immagine per ingrandirla
il Riformista 14.4.08
Un milione e mezzo di voti in meno. Di chi sono?
La grande fuga dalle urne agita Pd e Pdl Ma Veltroni trema di più: forte astensione a Roma e nelle regioni rosse
di Stefano Cappellini


Continuando col passo dell’affluenza registrata ieri, alla chiusura delle urne potrebbero mancare oggi all’appello rispetto al 2006 almeno un milione e mezzo di elettori.Le politiche 2008 si avviano ad essere le prime con un’affluenza sotto la soglia storica dell’80 per cento.Una tendenza che ieri sera, già alle 19 con il pesante meno 3,5 per cento, ha messo in allarme tanto il quartier generale del Pd quanto quello del Pdl. Come interpretare infatti la grande fuga dalle urne?
Qui Veltroni. L’ex sindaco di Roma è convinto che la sua performance a Matrix abbia coronato nel migliore dei modi la lunga rimonta su Berlusconi. Il pronostico pende sempre verso il centrodestra, ma Veltroni è fiducioso per più ragioni:è convinto che il suo partito possa giocarsela quasi da pari a pari col Pdl nella competizione - tutt’altro che secondaria - sul partito di maggioranza relativa. E ancora: il leader democrat confida di poter conquistare almeno un paio di regioni decisive per inchiodare il Cavaliere a un sostanziale pareggio al Senato. Insomma, ritiene di poter uscire dalla tornata elettorale nella migliore dell’ipotesi con un clamoroso testa a testa, nella peggiore con una sconfitta molto contenuta nei numeri e dunque più che onorevole. Ma al Loft i dati sull’affluenza hanno in parte affievolito l’ottimismo che si respirava nella serata di sabato e nella prima mattina di ieri. Perché è difficile dire quale impatto produrrà l’ondata di astensioni sugli ultimi ottimistici calcoli della vigilia, ma un dato oggettivo è che l’emorragia di elettori più consistente è quella verificatasi in Toscana e in Emilia, superiore al 4 per cento. Nelle due regioni “rosse”, almeno fino a ieri sera, sono circa 200 mila gli elettori rimasti a casa. E il sospetto naturale è che possa trattarsi in buona parte di elettorato di sinistra “deluso”. Popolo del Pd? Della Sinistra arcobaleno? Si vedrà, ma intanto la tendenza ha già messo in allarme gli strateghi veltroniani. Non meno insidioso è il calo di votanti nella circoscrizione Lazio 1, quella di Roma e provincia: anche in questo un abbondante meno 4 per cento, ancora più significativo se si considera che le contemporanee tornate amministrative avrebbero dovuto incentivare la partecipazione al voto. Il fenomeno, si spiegava ieri sera al Loft, è dovuto anche alle code registrate in molti seggi a causa delle cinque schede affidate a ciascun elettore. Certo è che il dato romano ricade su un altro fondamentale bacino di consensi per Veltroni. Altra ragione di preoccupazione, per lui e per il candidato sindaco Francesco Rutelli che insegue una non scontata elezione al primo turno.
Qui Berlusconi.
Quel tratto di imponderabilità che è l’elemento originale di questa tornata elettorale non risparmia comunque anche il Cavaliere. Pure i feudi elettorali del Pdl sono investiti da un forte astensionismo. In Lombardia e Veneto il calo è sopra il 3 per cento. Più contenuto il deficit in Sicilia (meno 2 per cento), come del resto in tutto il sud. Basti dire che la Campania - regione in cui i sondaggisti hanno censito fin dall’inizio della campagna elettorale il maggior numero di indecisi e su cui gravava quindi il sospetto di un crollo dell’affluenza - presenta invece un dato non lontano da quello di due anni fa. Il dubbio che l’elettorato berlusconiano sia toccato da un fenomeno di demotivazione circola anche in Forza Italia. Eppure Berlusconi, ancora fino al tardo pomeriggio di ieri, non era meno ottimista del suo antagonista nel prefigurare una vittoria senza incertezze, Senato compreso. Sono almeno dieci (eletti all’estero compresi) i senatori di vantaggio che l’ex premier s’attende dalle urne. Un margine che non sarebbe certo privo di rischi, ma più che sufficiente a intraprendere la navigazione di governo. La sicurezza di Berlusconi affonda su una ben precisa previsione: il successo dell’appello al «voto utile». Il che, nel suo caso, significa un Udc quasi ovunque al di sotto del quorum dell’8 per cento per il Senato e una Destra che non sfonda e dunque non drena troppi voti al Pdl.

il manifesto 8.4.08
La crocetta del cittadino
di Marco d'Eramo


Cittadina/o: incarnazione dell'essere umano che si manifesta in un solo irripetibile gesto, ogni due, tre o quattro anni. Cittadina/o è colei/ui che fa una croce su un foglio di carta in un separé ligneo la cui forma accosta il rito del voto alla memoria dei vespasiani. Uscito dal bugigattolo elettorale, il bipede umano smette la sua veste di cittadina/o che riporrà nel guardaroba, con adeguata naftalina antitarme, per riesumarla e indossarla alla prossima scadenza.
O per lo meno è così che ci vorrebbe chi ci governa, ma non riesce a dominarci (non del tutto, almeno). Però troppo spesso è così che finiamo per vederci noi stessi che insieme sopravvalutiamo e snobbiamo questa croce (un «per»? un «più»? un simbolo religioso? un'ammissione di analfabetismo?), come se il nostro destino fosse tutto appeso a questa statistica di milioni di crocette individuali, o come se esse fossero del tutto irrilevanti.
In questo stanco quarantennale di '68, la celebre categoria di «unideminsionalità antropologica» allora formulata da Herbert Marcuse, può essere applicata all'uomo in quanto animale politico: lo si vuole ridurre sì a una e una sola dimensione, ma è quella elettorale. Fa quasi tenerezza vedere il «fantasma del comunismo» aggirarsi non per l'Europa ma nei sondaggi della Doxa, e i soi-disant eredi della «rivoluzione proletaria» sfiancarsi in dotte disquisizioni su dove (Lazio? Toscana?) puntare per superare l'8% al senato.
In realtà il nostro vivere politico è multidimensionale: una dimensione - non la più importante - parlamentare, che si esprime nella fatidica crocetta; una sociale: quella dei conflitti, degli scioperi, dei movimenti, delle manifestazioni no-global; una culturale che si batte contro i pilastri dell'ideologia conservatrice, contro la «società dei proprietari» e per non solo la libertà religiosa, ma anche la libertà dalla religione; una comportamentale, dei gesti spiccioli, in cui ognuno di noi fa politica con l'ospitalità verso gli immigrati o la carta e i vetri nella raccolta differenziata.
Da questi ultimi tre punti di vista, quasi nulla ci offre la dimensione puramente elettorale. Anzi, forse ci toglie qualcosa il Pd di Walter Veltroni, dei generali anti-culattoni, delle signorine capolista «non capisco di politica niente e me ne vanto», degli imprenditori rigidissimi sulla flessibilità (altrui). Come si fa a invocare un voto utile per l'ineffabile Paola Binetti? (Ci sarebbe per altro da interrogarsi sull'utilità elettorale dei teodem: quanti voti portano davvero, ma quanti ne tolgono?) Di nuovo vediamo l'insopprimibile vizio di partiti che invece di rappresentare le classi subalterne contro gli interessi dominanti, rappresentano la subalternità alle classi dominanti e si fanno in quattro per essere ammessi (nei salotti), per essere accreditati (presso il Vaticano, la grande finanza..): per due anni il governo Prodi ha avuto l'unico obiettivo non di riequilibrare la selvaggia redistribuzione dei redditi che ha devastato la società italiana, ma di farsi mettere un buon voto dai banchieri di Francoforte («diligenti, ma potrebbero fare di più», c'è scritto in pagella). Né offre molto la Sinistra arcobaleno che sembra evitare in tutti i modi di attaccare la destra e Silvio Berlusconi: nessuno che lo sfotta per le sue mirabolanti promesse del 2001. Nessuno attacca il clericalismo. Che sinistra è una che non attacca la destra?
Abbiamo un candidato premier (Fausto Bertinotti) che nel suo ultimo appello sul manifesto si butta sul registro poetico: il lirismo è l'ultimo ricorso dei politici a corto di argomenti, un po' come «il patriottismo è l'ultimo rifugio dei furfanti» (dottor Johnson). Se il Pd ha la sua Binetti, la Sinistra arcobaleno si ritrova per ideologo un guru come Massimo Fagioli. Questa Sinistra arcobaleno non ha il coraggio né della laicità né dell'ambientalismo. Da ministro dell'università, Fabio Mussi non ha avuto l'ardire di schierarsi con quel gruppo di professori (molti dei quali l'avevano in precedenza sostenuto) che difendeva la laicità dell'università di Roma contro il tentativo d'imporre una pontificia lectio magistralis. E i verdi? In una delle più drammatiche emergenze ambientali dell'Italia repubblicana, è assordante il loro silenzio sull'ambiente.
Più in generale, quali sono le parole d'ordine che dovrebbero mobilitare i giovani? Veltroni si richiama a Obama, ma dove sono i liceali che vanno a fare attivismo tra i leghisti della Valtellina o i mastelliani di Ceppaloni? I ventenni di oggi non hanno nessun ricordo personale del Pci. Perché dovrebbero votare per partiti che ancora dopo 18 anni non sono riusciti a elaborare quel lutto? Sembra che Pd e Sinistra arcobaleno stiano facendo di tutto per far vincere Berlusconi.
Astenersi allora? No. Allora votare per quel che passa il convento, visto che al gioco elettorale bisogna partecipare secondo le regole e i limiti elettorali. Perché non votare è già un voto, proprio come non decidere è una decisione. Voterò quindi Sinistra arcobaleno, sapendo però che il centro dello scontro politico oggi si situa altrove, e ricordando che mai un parlamento eletto ha approvato «buone leggi» senza una forte pressione dall'esterno. Tutte le riforme degne di questo nome, dal voto alle donne conquistato dalle suffragette, alle ferie pagate del fronte Popolare, allo statuto dei lavoratori dell'autunno caldo, al divorzio e all'aborto, tutto è avvenuto solo su pressione esterna da parte di movimenti di piazza, violenti e non violenti.
Il voto non cambierà molto (anche se un esito diverso negli Usa avrebbe forse risparmiato al mondo una guerra in Iraq). Però con le elezioni avviene quel che capita con le «libertà formali» che non rendono davvero liberi, ma la cui assenza rende davvero schiavi. Così il voto ha scarsa influenza, ma le società che non votano stanno parecchio peggio. Accettiamo quindi di (ap)portare la nostra croce.

l'Unità 14.4.08
Uno studio italiano sui traduttori simultanei
La lingua madre non si scorda mai
di Nicoletta Manuzzato


Quando un bambino impara a parlare, non apprende solo ad associare un oggetto a un determinato suono, ma collega a questa forma sonora tutto un complesso di informazioni: le sensazioni che l'oggetto gli procura alla vista o al tatto, le emozioni che gli suscita (piacere, paura, repulsione), una serie di contenuti normativi (le proibizioni o le raccomandazioni degli adulti). Il cervello costruisce così le sue conoscenze del mondo, e queste resteranno per sempre legate alla lingua dell'infanzia. Crescendo, il bambino imparerà altre lingue, altri nomi con cui indicare lo stesso oggetto: ma si tratterà di un apprendimento puramente fonetico e ortografico. E per quanto possa approfondire lo studio di un idioma straniero, fino a confondersi con i nativi, il suo cervello sarà sempre pronto a tradire la sua vera origine.
Lo rivela una ricerca coordinata dalla professoressa Alice Mado Proverbio, docente di Elettrofisiologia cognitiva presso l'Università di Milano Bicocca, in collaborazione con il Cnr. Lo studio, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Biological Psychology, è stato condotto su quindici traduttori simultanei italiani, con una perfetta padronanza dell'inglese e una buona conoscenza del tedesco. A queste "cavie" è stata applicata una cuffia dotata di sensori, con lo scopo di registrare l'attività elettrica che avveniva nel loro cervello mentre leggevano una successione di parole nelle tre lingue. Gli sperimentatori hanno così potuto constatare che le cellule nervose preposte alla comprensione del linguaggio riconoscono ed elaborano in maniera differente le parole della lingua madre e quelle di lingue apprese dal soggetto dopo i cinque anni d'età. In particolare la prima onda d'attività, che appare sulla regione visiva sinistra del cervello dopo 150-200 millisecondi dalla presentazione di una parola, è di grandezza diversa a seconda dell'appartenenza o meno della parola stessa all'idioma nativo.
Al di là delle nuove acquisizioni sul funzionamento cerebrale, la ricerca si presta a interessanti applicazioni. Può fornire ad esempio un valido aiuto a persone in stato confusionale o colpite da amnesia e incapaci di ricordare la propria identità, dando indicazioni sulla loro lingua materna e dunque sulla cultura di provenienza.

l'Unità 14.4.08
Da «Nature» Un’inchiesta on line
Scoperta: gli scienziati si «dopano»


La pratica di assumere sostanze che «dopano» il cervello sembra essere più diffusa di quanto si pensa. Lo afferma uno studio compiuto dalla rivista Nature sui suoi lettori, da cui emerge che almeno il 20% di quelli che hanno risposto ai questionari fa uso di farmaci come il Ritalin. Le prime a far emergere il problema erano state due neuroscienziate dell’università di Cambridge qualche mese fa, con un articolo sempre su Nature. La rivista ha deciso di lanciare un questionario on-line sull’argomento raccogliendo 1400 risposte da 60 paesi. Uno su cinque di quelli che hanno risposto ha dichiarato di fare uso di farmaci che potenziano l’attenzione e miglioranole prestazioni intellettuali: metà di questi lo fa almeno una volta al mese, mentre l’altra metà una volta l’anno. Il Ritalin viene preso dal 62% del campione, e non ci sono sorprendentemente grosse variazioni nelle percentuali al variare dell’età. Il 34% degli intervistati compre il farmaco su Internet.

Repubblica 14.4.08
L'arcobaleno è un simbolo: via il disegno di uno scolaro


AREZZO - L´arcobaleno tracciato su un disegno dalla mano ingenua di un bambino, e rimasto affisso in un´aula adibita a seggio, richiama il simbolo di un partito e per questo deve essere rimosso. Lo ha preteso un rappresentante di lista del Pdl. L´episodio è avvenuto a San Giuliano, frazione del comune di Arezzo. Il rappresentante di lista ha fatto notare il disegno al presidente di seggio che lo ha fatto togliere.

Repubblica 14.4.08
Giacomo Balla
Portò l'Italia nell'arte contemporanea


Con Depero sviluppa i temi del movimento e del dinamismo delle forme
L´esposizione è scandita in cinque momenti che giungono agli anni Trenta
Senza di lui e Boccioni saremmo ancora ai laghettisti e ai montagnisti
Al Palazzo Reale di Milano, i suoi esordi divisionisti la fotografia il futurismo l´esplosione della luce e del colore

MILANO. In attesa che si celebri il secolo della nascita del Futurismo alle Scuderie del Quirinale, si odono già i primi rulli di tamburo. Filippo Tommaso Marinetti fu il vate del movimento, ma ebbe come dioscuri Umberto Boccioni e Giacomo Balla: una trinità che con forza immise, con un colpo d´ala, l´arte italiana tra le grandi protagoniste della modernità. Senza Boccioni e senza Balla, staremmo ancora a gingillarci con laghettisti e montagnisti come sarcasticamente scrisse il fondatore. Ma Boccioni era nato nel 1881 e morì assai giovane nel 1916, mentre Balla nato dieci anni prima ebbe una vita assai più lunga e morì nel 1958. Proprio attorno a quegli anni, dopo il "la" di Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, con Le due avanguardie, cominciò ad arare con coraggio e solerzia questa stagione e i suoi maggiori campioni: tutti gli dobbiamo gratitudine: nel tempo ebbe comprimari fino al ‘71 quando si tenne alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna, la prima grande monografica a cura di Giorgio De Marchis.
Ora Balla, sia per la maggiore età d´esordio rispetto al reggino sia per la longevità, è a tutti gli effetti con la sua opera, un eccezionale spaccato nell´arte del primo Novecento. I suoi esordi a Torino, all´Accademia Albertina, sono per intero collocabili nell´ambito divisionista anche se Balla condì subito questa poetica con un´attenzione particolare alla fotografia: suo padre era fotografo e l´arte nova per eccellenza appassionò e sedusse Giacomo, come si può ben vedere nel modo in cui scandì la sua tavolozza inclinando a toni monocromi e attingendo persino a quel pulviscolo che si scorge nelle cromolitografie e nelle foto dell´epoca. In Ritratto della moglie Elisa (1904) e nel coevo trittico Lavorano, mangiano, ritornano possiamo vedere a confronto questi due modi diversi di vivere la pittura: se la prima è debitrice della fotografia, la seconda è pregna della lezione postimpressionista e divisionista. La gaiezza della sua tavolozza s´evince in quel pannello con un cantiere che anticipa il Boccioni di Porta romana, della Città che sale e dell´Autoritratto: d´altronde Boccioni fu suo diretto allievo. Prima di trasferirsi a Roma Balla andò a Parigi dove dipinse tele ammiccanti e piene di verve: a Roma dopo il 1901 fu il suo studio ad accogliere Boccioni che lì familiarizzò con Severini, Sironi e Cambellotti.
La prima sala della mostra a Palazzo Reale (fino al 2 giugno), scandita in cinque momenti che giungono alla soglia degli anni Trenta, a cura di Giovanni Lista, a cui si deve denso contributo in catalogo (Skira), con Paolo Baldacci e Livia Velani ci dice con chiarezza, come (vedi quel memorabile Affetti) fosse ancora gozzaniana la vena di Balla torinese, prima dell´incontro con la luce di Roma che aveva incantato Claude Lorrain.
Il 20 febbraio del 1909 Marinetti pubblica il Manifesto futurista su Le Figaro. Balla vi aderirà l´anno successivo, ma con tanta convinzione ed energia da divenirne leader assieme al suo più giovane collega e con Severini, che, chissà perché, rimane sempre un po´ sacrificato. Sono infatti contemporanee le ricerche sulla scansione del movimento che attingono dalle precedenti o coeve immagini fotografiche - belle le pagine di Lista - per fissare il moto che in quegli anni si compiono in area inglese, francese e austro-tedesca. Compie due viaggi in Germania e l´esperienza non è senza esiti. Già dal 1912 e poi negli anni successivi Balla con il primo di questi dipinti Bambina x balcone prova a scandire le immagini, ancor più convincenti gli studi sul volo delle rondini così apparentato alle conofotografie di Marey: ma qui il soggetto realistico è ancora ben presente. In questi anni si nota con evidenza che Balla è un po´ fermo, produce assai poco, evidentemente è alla ricerca di una sua via. Il passo successivo e decisivo è l´annullamento del soggetto, lo spingersi cioè su una frontiera che è lui a perlustrare in isolamento anche rispetto ai suoi più giovani amici. Tutto si muove e Velocità d´automobile ne è segno evidente: la serie delle Velocità viene cronologicamente risistemata. Va lentamente così elaborando un suo linguaggio, sempre più pervaso di colore, ma scandito secondo un sistema geometrico che con le compenetrazioni iridescenti costituiscono uno stacco netto da qualunque influenza contemporanea. Sono ventagli, esplosioni di luce, vibrazioni prismatiche che ci fanno capire come Balla abbia familiarità con la grafica espressionista, ma l´abbia elaborate con colori sfacciati nella loro eloquenza luminosa. Con il Manifesto della ricostruzione futurista dell´Universo (1915) assieme a Depero - importante la mostra di Enrico Crispolti a Torino del 1980 - sviluppa i temi marinettiani del movimento e del dinamismo delle forme che deve avvolgere e coinvolgere tutto l´habitat: è l´inizio che lo porterà a elaborare Casa Balla. Il Pugno di Boccioni, poi nel tempo variamente elaborato, è un momento importante della sua concezione sintetica e dinamica: le ricerche sulle parole in libertà, la sua propensione alla musica, in sintonia con Russolo, per Giovanni Paisiello e l´amico Francesco Cangiullo, a cui dedica delle opere, l´accostano al teatro e alla scenografia.
S´intrecciano a questo punto le ricerche teosofiche e sullo spiritismo che Fabio Benzi in Balla. Genio futurista (Electa) con originali tratti mette a fuoco. Questo universo sensitivo, che pure affiora già nel manifesto di fondazione del movimento, viene ulteriormente indagato e ha conseguenze non irrilevanti nella pratica artistica. Sembra quasi che Balla, mai scalfito dall´alone cubista - a differenza di Boccioni, Carrà e Severini - vada alla ricerca di un al di là della forma. Indagine, che è anche propensione piena di passione per l´intervento nella grande guerra: evento a cui dedica numerose tele nelle quali i colori della bandiera italiana sono mescolati vorticosamente: la Manifestazione patriottica (1914) è forse la più intensa tra queste tele. Col tempo i colori non hanno più sbavature, sono campi netti, sono eliche nello spazio e nella luce: si dà il caso che le sue figlie si chiamino Elica e Luce e a loro si deve una ricca donazione alla Gnam. Nel corso degli anni Venti l´elaborazione originale di forme e colori subisce come un´accelerazione, invadendo non solo le cornici dei dipinti ma il suo studio e la sua casa. Dal primo Fiore futurista (circa 1920), scultura policromatica, si passa agli arredi della casa e dell´atelier in cui lavora e come un artigiano sapiente Balla costruisce con le sue mani. Una passione che l´accompagnerà per tutto il resto di una lunga e operosissima vita.

Repubblica 14.4.08
Goya e gli anni della guerra
Museo Nacional del Prado. Dal 15 aprile.


Madrid. Nel duecentesimo anniversario dell'inizio della Guerra di Indipendenza, il museo propone una grande esposizione dedicata al maestro spagnolo, che ruota attorno alle tele da lui eseguite il 2 e il 3 maggio del 1808, recentemente restaurate. La prima raffigura i cittadini che insorgono contro gli invasori francesi. La seconda, che rappresenta l'esecuzione dei patrioti, non è soltanto un quadro commemorativo di un drammatico episodio che aveva insanguinato la Spagna, ma è anche un documento che riassume la posizione del pittore e gli aneliti di una età di transizione. Con l'invasione delle truppe napoleoniche ha infatti inizio il periodo più travagliato della vita di Goya: in contatto con i circoli liberali favorevoli ai francesi, l'artista era nello stesso tempo testimone angosciato delle violenze e della brutalità del conflitto, delle sanguinose repressioni e del martirio del popolo, vicende che fissò in immagini crudeli e disperate nelle incisioni dei "Disastri della guerra" del 1810. Il percorso espositivo, che raccoglie duecento opere, tra dipinti, disegni e incisioni, prende avvio dagli ultimi anni del XVIII secolo e si conclude con il 1819, anno in cui l'artista dipinse la sua ultima opera pubblica.

Corriere della Sera 14.4.08
Almudena Grandes. Da Lulù al dopo Franco
«Indifferente e ricca: ecco la nuova Spagna»
di Elisabetta Rosaspina


Elisabetta Rosaspina Scrittrice Almudena Grandes, 47 anni, spagnola, resa celebre dal romanzo erotico «Le età di Lulù», scritto nel 1989

Se esistesse davvero, il mio personaggio lussurioso oggi sarebbe una quarantenne impegnata a ristrutturare la cucina di casa

Sondare il cuore gelato della Spagna l'ha lasciata più esausta delle prodezze erotiche della sua indimenticata Lulù. Vent'anni dopo aver scandalizzato (un po') il mondo, Almudena Grandes si misura con il tabù più coriaceo del suo Paese.

L'intervista «Io sto più a sinistra. Ma il governo ha fatto una buona cosa con la Legge sulla memoria della guerra civile»
«In questa Spagna di nuovi ricchi non c'è più spazio per l'erotica Lulù»
Almudena Grandes: «I socialisti? Poco solidali con gli immigrati»

La memoria del passato prossimo, la guerra civile, il franchismo, la transizione dalla dittatura alla democrazia e a una società che lei non trova esente da una punta di volgarità. Quella degli «arricchiti» troppo in fretta. «Ora sono una scrittrice generazionale », rivendica la sua nuova etichetta.
E Lulù? Che fine ha fatto Lulù?
«Si è imborghesita. Gli anni sono passati anche per lei, e il decennio degli '80 è finito da un pezzo, con le sue trasgressioni. Ora è una donna matura come tante. Lei non è più lei, io non sono più io e la Spagna non è più la Spagna». Pausa. Poi la mazzata finale alla sua fantasiosa e impudica lolita: «Oggi, se esistesse davvero, Lulù sarebbe una quarantenne occupata a rinnovare la cucina di casa». È la risposta standard con cui Almudena ama cementare, sorridendo, la tomba del suo erotismo letterario.
Dunque non riscriverebbe più «Le età di Lulù», il lussurioso romanzo che le ha aperto il mercato mondiale e l'ha rinchiusa negli asfittici scaffali della narrativa hard?
«Non lo riscriverei adesso. Ma è la storia migliore che potessi scrivere a 28 anni. Non mi sento prigioniera di Lulù. Già sei anni dopo, con Malena è un nome di tango, avevo svoltato da scrittrice erotica a femminista. Almeno qui in Spagna».
All'Hayfestival Alhambra di Granada, con il suo ultimo libro El corazón helado, il cuore gelato, 900 pagine di complessi intrecci tra il passato famigliare di Alvaro e quello di Raquel, costretti a fare i conti con i misteri e le opposte scelte politiche dei rispettivi nonni durante il franchismo, Almudena Grandes si è presentata come una «pre-historiadora», una pre-storica: «A volte — dice — penso di essere diventata una scrittrice perché mi sono sbagliata di professione. Avrei voluto studiare latino e mia madre mi suggerì: perché non fai la storica, che è un lavoro da ragazza? Ma io non ci pensavo nemmeno, a fare un lavoro da ragazza. A 12 anni, nel 1972, seppi che mia nonna aveva visto ballare Josephine Baker, con il suo gonnellino di banane, a Madrid. E cominciai a intuire che la mia vita sarebbe stata molto più simile a quella di mia nonna che di mia madre. Il franchismo ha l'enorme responsabilità di aver tagliato i ponti tra nonni e nipoti».
«Manuel Grandes, mio nonno, è stato il primo uomo della mia vita, il più importante. Il tema della memoria è sempre stato presente nei miei scritti, fin dall'inizio: Pablo e Lulù vanno a letto e poi parlano di Spagna, di dittatura e comunismo. El corazón helado non è un romanzo sulla guerra, è una storia mia, i personaggi sono miei, ma il tema no, mi appartiene solo in parte. È il grande nodo della mia generazione: la memoria ».
Lulù sta ristrutturando la cucina, Almudena Grandes racconta storie di Storia. E la Spagna che cosa è diventata?
«Una potenza economica. È stato un cambio così profondo da non essere sociologico, ma antropologico. La Spagna attuale si riflette in questo balzo. Ha perso i suoi complessi di inferiorità. Ma ha smesso di essere povera troppo in fretta. E ha tutti i difetti dei nuovi ricchi. A cominciare dal disprezzo e l'intolleranza per quelli che sono arrivati dopo».
Gli immigrati?
«Abbiamo cominciato a importare lavoratori molto in fretta. Da bambina, io non vedevo un solo nero in giro. Il cambiamento è stato improvviso e violento. Ma ignoriamo le nostre origini e siamo ingiusti con i nuovi arrivati, perché troppo compiaciuti di ciò che abbiamo raggiunto».
Comunque anche l'economia spagnola perde colpi...
«Era prevedibile. Colpa della crisi del mercato immobiliare. Tutti sapevano che il boom edilizio non era normale. Non c'era abbastanza gente per comprare tutte quelle case. Ma il peggioramento economico non cambia la dinamica sociale. Avrei preferito che l'ondata di benessere non fosse accompagnata da una così evidente mancanza di solidarietà».
Sostenitrice di Izquierda Unida, la formazione di origine comunista che alle ultime elezioni ha perso cinque seggi alla Camera su otto, Almudena Grandes è disposta a riconoscere tra i meriti del governo socialista, la legge della Memoria Storica: «L' importante è che esista, anche se dovrebbe essere migliorata. La Spagna è un Paese strano, anormale. Ha avuto una traiettoria diversa, antagonista rispetto agli altri Paesi europei del ventesimo secolo: qui c'era la guerra e in Europa non ancora. Qui vinsero quelli che avrebbero perso in Europa».
«La transizione è stata un grande successo istituzionale, ma un fiasco morale. Un successo, perché le istituzioni democratiche sono oggi più solide che mai. Ma, sul piano morale, ha rappresentato un tentativo brusco e senza argomenti di chiudere la storia con un patto del silenzio. Fallito. La mia generazione è arrivata alla maturità scontrandosi con questo silenzio. Tacevano i nonni che avevano combattuto per la Repubblica, perché era dura ricordare la disfatta. Tacevano i nonni che appoggiarono il colpo di Stato credendolo un richiamo all'ordine e non l'avvio di 40 anni di dittatura e isolamento. I padri sono stati educati nel silenzio e nel segreto. La transizione è stata come la riga tracciata per terra da Mary Poppins; e tutti siamo saltati dall'altra parte».
Non per tutti, in Spagna, il franchismo è stato un regime...
«La destra ancora non si decide a condannarlo. Perché la Spagna è l'unico Paese dell'Unione Europea in cui destra ed estrema destra sono assimilate. Se nei libri di testo, dopo 30 anni di democrazia, ancora si presenta la Repubblica come la causa della guerra civile e non la vittima, la destra è legittimata a non votare la condanna del franchismo in Parlamento. Ma tutto questo cambierà».
Izquierda Unida è ai minimi termini: non ha pensato di integrarsi nel partito socialista?
«No. Preferisco armarmi di pazienza. Sarà un lungo cammino, ci sarà da rifondare la coalizione, come ha fatto Oskar Lafontaine in Germania, partendo da un partito piccolo. Ma un programma che difenda gli spazi pubblici e l'integrazione degli immigrati è possibile e praticabile».
E chissà, magari la figlia di Lulù ha voglia di darsi alla politica. In Spagna, è il momento delle donne.

Corriere della Sera 14.4.08
Dialoghi Lo scienziato italiano e il fondatore della «grammatica generativa» esaminano i nuovi sviluppi delle discipline cognitive
Il cervello non è relativista
Pensiero e genetica, incontro tra Piattelli Palmarini e Noam Chomsky «Esistono componenti biologiche innate nella mente e nel linguaggio»
di Massimo Piattelli Palmarini


Piattelli Palmarini insegna Scienze cognitive all'Università dell'Arizona Nato nel 1928, Noam Chomsky è professore emerito di Linguistica al Mit
A livello profondo le strutture logiche mostrano una fondamentale semplicità

Sono appena usciti, negli Stati Uniti, due eccellenti dvd destinati ai corsi universitari, a cura del noto psicologo della Harvard University Howard Gardner. Uno è intitolato La mente di Noam Chomsky, l'altro Noam Chomsky: linguaggio e pensiero (www.classroommedia.
com). Osannato da alcuni come il Galileo delle scienze cognitive e il Copernico della linguistica, detestato da altri come un arido riduzionista delle squisite sottigliezze del linguaggio e della mente, una recente ricerca statistica ha rivelato che Chomsky, oggi ottantenne e sempre attivissimo, è l'intellettuale vivente più citato al mondo. Inoltre è stato il più noto e uno dei più inflessibili avversari della guerra in Vietnam, militanza che gli ha anche procurato brevi detenzioni nelle patrie galere. Le sue posizioni politiche di matrice anarchica sono ben note e non mi ci soffermerò qui. La lista di autori, di articoli e di libri anti chomskiani sarebbe molto lunga, ma bastino due recenti esempi: nel 2006, la psicologa inglese Margaret Boden pretendeva di smascherare «dieci miti su Chomsky». Dello stesso tenore, e con simili fraintendimenti ed errori, è un articolo appena pubblicato su Libero (martedì 1 aprile) a firma Lucio d'Arcangelo, intitolato «Vacilla il mito del linguista più scientifico del mondo».
Chomsky ha pazientemente e molto dettagliatamente, nel corso di decenni, ribattuto alle critiche e messo in evidenza gli errori e i fraintendimenti. Prima di dargli la parola in un'intervista in esclusiva sulle scienze cognitive, vorrei citare solo alcuni dati di fatto. Da molti anni leggo i lavori di grammatica generativa (così si chiama esattamente il filone di linguistica inaugurato da Chomsky intorno alla metà degli Anni Cinquanta), ho a suo tempo seguito dieci interi corsi semestrali di Chomsky al Mit e circa altri dieci di linguisti suoi colleghi e collaboratori. Ciò nonostante, non ho problemi ad ammettere che molti dettagli tecnici ancora mi sfuggono.
Il messaggio, qui, è che si tratta di una scienza immensamente complessa e profonda e che ogni ritocco a un'ipotesi, a una teoria, riverbera con inevitabili ritocchi su molte altre ipotesi e teorie e su dati già noti per varie lingue. Sbalordisco quando vedo criticata con sicumera la grammatica generativa da chi, con ogni evidenza, ne sa poco o niente. Un altro dato, diciamo, demografico: hanno contribuito a questa scienza, nel corso di mezzo secolo, circa duemila studiosi, in vari Paesi. Importanti ricadute della teoria e notevoli conferme sono venute anche da altri campi come la genetica, le neuroscienze, le simulazioni su calcolatori, le patologie del linguaggio, la psicologia animale. Formidabile è stato il potere di attrattiva di questa scienza su menti di straordinario calibro, su studiosi di matematica, fisica, ingegneria, scienze di calcolo e biologia. Questa comunità ha offerto, offre e continuerà a offrire una grande diversità di teorie, di ipotesi e di indirizzi, non di rado in aspra polemica, anche con lo stesso Chomsky, come è naturale che sia in una scienza viva e in incessante progresso. Vengo ora alla mia intervista.
Piattelli Palmarini — Se dovesse scegliere un'idea, un evento, un'ipotesi o un campo di ricerca che ritiene essere il più importante per la nascita delle scienze cognitive, quale sarebbe?
Chomsky — Penso che l'evento centrale sia stato riconoscere come i fenomeni mentali possano e debbano essere studiati come gli altri fenomeni naturali, non attraverso metodi per manipolare il comportamento, né osservandoli superficialmente, ma indagandone i meccanismi interni, quelli che sono alla base dei comportamenti e spiegano i dati osservabili.
Piattelli Palmarini — Ritiene giustificata l'espressione «rivoluzione cognitiva»?
Chomsky — C'è stato un cambiamento importante di prospettiva a partire dagli Anni Cinquanta. Sostanzialmente si è trattato di un recupero di intuizioni e riflessioni che risalivano al XVII e al XVIII secolo, ma che furono spinte in direzioni nuove. Non amo troppo il termine «rivoluzione», e ho sempre ritenuto che, se proprio lo si vuole adottare, quello che è successo negli Anni Cinquanta sia una seconda rivoluzione cognitiva.
Piattelli Palmarini — È d'accordo con me che due componenti sono state centrali: l'importanza e la complessità dei processi detti
bottom-up (cioè che procedono dal basso in alto, dai dati dei sensi al pensiero) e la modularità della mente, cioè la suddivisione della mente e del cervello in molte unità relativamente autonome?
Chomsky — Sì, ma mi chiedo se non siano conseguenze dell'aver adottato con successo un approccio biologico alla cognizione. Speculando un po', ho il sospetto che tra un secolo, guardando indietro verso il presente, si concluderà che la componente veramente centrale è stata la scoperta di un livello profondo. I processi mentali superiori mostrano, a questo livello, una fondamentale semplicità, forse il risultato di un'evoluzione biologica relativamente improvvisa e recente.
Piattelli Palmarini — Il titolo del mio libro usa l'aggettivo «classiche» per distinguere le scienze cognitive dal ritorno odierno di tendenze del passato, cioè modelli che vogliono ritornare a un'analisi generica, superficiale, statistica. Che ne pensa?
Chomsky — È certo che c'è, oggi, una pressione possente verso un ritorno allo studio dei fenomeni mentali in superficie, enfatizzando le differenze culturali, le stranezze, le frequenze statistiche. Perfino la fisica, fino a circa un secolo fa, era soprattutto basata su misure di fenomeni osservabili. Uno scienziato del calibro di Henri Poincaré riteneva che avessimo adottato l'ipotesi della natura molecolare dei gas solo perché ci sono familiari i rimpalli delle biglie, delle bocce e delle palle da biliardo. I principi della chimica erano ritenuti dai massimi studiosi essere solo utili semplificazioni di calcolo, senza una vera realtà fisica. C'è, quindi, una certa somiglianza con l'assurdo dogma che i processi mentali, se reali, debbano essere accessibili alla nostra coscienza (Chomsky ha polemizzato su questo per anni con il famoso filosofo americano John Searle, nda). Cercare, per i processi mentali superiori, teorie che siano genuinamente esplicative e non solo superficialmente descrittive rappresenta, con ogni evidenza, uno sforzo psicologico. Ci è difficile ammettere che ciò che sentiamo e pensiamo è il prodotto di meccanismi invisibili e di principi astratti, inaccessibili, se ci limitiamo a semplici induzioni e a piatte generalizzazioni.
Piattelli Palmarini — Le critiche anti chomskiane di Margaret Boden e del giornalista di Libero, tra gli altri, rivelano una forte resistenza ad ammettere che esiste una grammatica universale e delle forti componenti biologiche nel linguaggio e nel pensiero. Come mai le tendenze al relativismo e al generalismo cognitivo sono così diffuse e possenti?
Chomsky — Ho risposto recentemente in dettaglio a Margaret Boden e nel corso degli anni a tanti altri critici. Esiste, purtroppo, una forte tentazione a essere dualisti, cioè a ritenere che il mondo dei fenomeni naturali e il mondo della mente siano due settori distinti e separati. Anche coloro che non lo ammettono fino in fondo, cioè anche quando non sono dualisti in senso metafisico, lo sono in senso metodologico. Cioè non ammettono che gli stessi standard razionali di indagine delle normali scienze e gli stessi metodi di ricerca delle scienze possano essere applicati anche allo studio della mente. Sarebbe interessante capire perché il dualismo sia ancora oggi tanto diffuso. C'è un'assurdità nel rifiutare la grammatica universale, cioè nel rifiutarsi di ammettere che esiste una componente genetica della facoltà di linguaggio. Come ho cercato di mostrare in dettaglio per molti anni, se così fosse davvero, cioè se non esistesse questa componente innata, l'acquisizione del linguaggio nel bambino diventerebbe un miracolo.

Baldini Castoldi Dalai ha appena pubblicato il libro di Chomsky «Regole e rappresentazioni. Sei lezioni sul linguaggio» (pp. 542, e 18,50)
«Le scienze cognitive classiche: un panorama» è il titolo del saggio più recente di Piattelli Palmarini, uscito da Einaudi (pagine 534, e 23,50), a cura di Nicola Canessa e Alessandra Gorini

domenica 13 aprile 2008

Repubblica 13.4.08
Il no di Bertinotti alle missioni militari all’estero
Stop al precariato, sì alle unioni civili
Le aziende idriche in mano pubblica. No all'atomo


ROMA - Diritto a un lavoro dignitoso e lotta alla precarietà, in testa all´agenda della Sinistra arcobaleno. Ma il nuovo soggetto guidato da Fausto Bertinotti fa della laicità e dell´ambientalismo le proprie bandiere, proponendo tra l´altro le unioni civili.
Dignità e diritti nel lavoro: la sicurezza. Una legge che fissi la durata massima del lavoro giornaliero in 8 ore e in 2 ore la durata massima degli straordinari. Più controlli e più certezza e severità delle pene per le imprese che trasgrediscono le norme sulla sicurezza. Lotta alla precarietà. Sono più di 4 milioni i precari in Italia. La Sinistra arcobaleno propone di superare la legge 30 e di affermare il contratto a tempo pieno e indeterminato come forma ordinaria del rapporto di lavoro, di rafforzare la tutela dell´articolo 18 contro i licenziamenti ingiustificati, di cancellare dall´ordinamento le forme di lavoro co.co.co, co.co.pro e le false partite iva. Laicità e unioni civili. Affermare l´uguaglianza sostanziale dei diritti delle persone omosessuali e il riconoscimento pubblico delle unioni civili. La Sinistra arcobaleno ritiene che ognuna e ognuno abbia il diritto di decidere del proprio corpo e propone una legge sul testamento biologico. Energia. No al nucleare. Entro il 2020 superamento del 20% dell´energia prodotta attraverso fonti rinnovabili anche con un grande investimento pubblico in pannelli solari. Ripubblicizzazione dei servizi idrici. Pace. No alle missioni al di fuori del comando politico e militare Onu. Taglio drastico delle spese per gli armamenti.

il manifesto 13.4.08
A Firenze, cinque giorni dopo il voto, ci sarà il meeting per il soggetto unitario. Il laboratorio toscano, foto quasi perfetta della sinistra futura prossima
Dopodomani l'arcobaleno
di Riccardo Chiari
(domani qui)

Repubblica 13.4.08
Dopo 30 anni via il segreto di Stato
Decisione del governo: da maggio niente più omissis sul caso Moro e i misteri d’Italia
Subito accessibili anche i faldoni che riguardano le stragi di piazza Fontana e Italicus
di Liana Milella


ROMA - Il governo Prodi lo annuncia con un taglio decisamente low profile. Ma dopo anni di battaglie durissime e di scontri tra i magistrati, gli 007 e la politica, finalmente è caduto il muro del segreto di Stato. Non sarà più eterno, com´è stato finora. Durerà al massimo 15 anni rinnovabili con altri 15 con un decreto del presidente del Consiglio. Trenta in tutto, non uno di più.
In un´intervista radiofonica, al Gr1 di Radio Rai, il prodiano Enrico Micheli, sottosegretario alla presidenza con delega ai servizi segreti, rivela che il regolamento sul segreto di Stato, previsto dalla legge di riforma dell´intelligence, ha avuto il via libera. E poiché tutti, andando indietro di trent´anni, pensano subito al sequestro Moro, lui puntualizza: «Il decreto non riguarda esplicitamente quel caso, ma tutti i segreti di Stato che abbiano superato i trent´anni». Aggiunge che, di persona, ha pregato «tutti», i servizi Dis (ex Cesis), Aise (ex Sismi) e Aisi (ex Sisde) e le forze di polizia, «di organizzare le consultazioni per quanti lo richiedano». Anche se Micheli non lo dice ufficialmente, si sa che la sua raccomandazione più calda ha riguardato in special modo tutte le carte del caso Moro che, giusto nel trentennale dell´assassinio dello statista, saranno sicuramente le più richieste. Fatti due conti, e visto che il decreto dovrebbe essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale entro il 20 aprile, immediatamente le carte contenute nelle casseforti degli 007 e che riguardano i fatidici 55 giorni del sequestro potranno essere liberamente consultate da chi, i familiari delle vittime, storici, giornalisti, uomini politici, avrà interesse a farlo.
Un fatto è certo. Fatti gravissimi accaduti nello scorso secolo, dalla strage di piazza Fontana a quelle di Brescia e dell´Italicus, con il ruolo oscuro e depistatorio svolto dai servizi, potranno essere riletti. E stavolta non potrà accadere quello che racconta l´ex capo della procura di Milano Gerardo D´Ambrosio, uno dei magistrati che indagò proprio su piazza Fontana: «Andreotti rilasciò un´intervista in cui annunciava che avrebbe aperto i cassetti dei servizi. Noi ci precipitammo a Roma e lui ci disse di andare dal capo del Sid Vito Miceli che ci ricevette subito con un "che vi serve?". "Entrare negli archivi" rispondemmo noi. E lui "Eh no, impossibile. Ditemi che vi serve, noi lo cerchiamo e ve lo diamo"». D´Ambrosio è soddisfatto della legge, ma scettico sui risultati: «Era ora che anche in Italia si approvasse una norma come questa, ma bisogna vedere che cosa ci fanno trovare. Gli 007 sono talmente burocratici che incartano tutto, ma le carte scottanti forse non ci sono più».
È la stessa previsione dell´ex pm Felice Casson, protagonista di duri contrasti con i servizi: «La riforma è epocale, soprattutto perché avrà un effetto positivo per il futuro. Se già adesso si sa che le carte dovranno essere pubbliche, non si verificheranno più depistaggi. Quanto al passato invece credo che negli archivi degli 007 ormai ci sia ben poco. Su stragi come piazza Fontana, Brescia e Bologna dai cassetti dei servizi non verranno scoperte che potranno mutare gli accertamenti fatti nel corso dei processi».
Le voci critiche e i dubbi sulla riforma non mancano. L´ex pm Antonio Di Pietro avrebbe voluto un termini più stretto: «Per me 30 anni sono decisamente troppi, è solo un modo per non svelare nulla. Il segreto è comprensibile nell´immediatezza dei fatti per tutelare l´interesse pubblico, ma subito dopo ci vuole il controllo democratico. I depistaggi e l´uso strumentale dei servizi avrebbe consigliato un sistema diverso, per esempio affidare al Copaco la possibilità di far cessare il segreto anche dopo tre mesi». L´ex presidente della commissione Stragi Giovanni Pellegrino, che ancora aspetta di veder resi pubblici i documenti sul caso Moro che pure nel 2001 aveva desecretato, è preoccupato dall´applicazione concreta del regolamento: «Temo che qualcuno, in modo restrittivo, possa dire che un documento trovato oggi, ma rispetto alla stesura del quale sono già passati 30 anni, possa essere invece oggetto di un nuovo sigillo di segretezza». Un dubbio che appare smentito dalla stessa formulazione del decreto che "libera" i documenti 30 anni dopo il vincolo di segretezza apposto dagli 007 oppure opposto dai magistrati dal presidente del Consiglio.

Repubblica 13.4.08
Lager d’Italia. I volenterosi carnefici del Duce
di Paolo Rumiz


Non c´erano camere a gas e nemmeno lavori forzati, ma si moriva lo stesso. Semplicemente di fame e di malattie Toccò a decine di migliaia di internati sloveni e croati Perché i campi fascisti ubbidivano agli stessi imperativi di quelli hitleriani: terra bruciata, pulizia etnica, spazio vitale alla razza vincitrice Nuovi documenti e un libro abbattono per sempre il mito della "brava gente"
Un generale annota a mano: "Individuo malato = individuo che sta tranquillo"

Stessi corpi nudi, stessi occhi vuoti, scheletri senza natiche e pance gonfie come tamburi. Certo, non era Auschwitz, non c´erano camere a gas, e nemmeno lavori forzati. Ma si crepava egualmente, come mosche. A fare il lavoro bastava la fame, il freddo, la malaria, le cimici, la scabbia, la dissenteria, il tifo petecchiale. Bastavano le punizioni, le adunate, la paura di essere prelevati come ostaggi per le fucilazioni di rappresaglia. Dentro il filo spinato non c´erano ebrei, polacchi, ucraini. C´erano sloveni e croati, ma la sporcizia e il tanfo erano gli stessi. Sulle torrette di guardia stavamo noi, «italiani-brava-gente», non i tedeschi, ma l´imperativo categorico era identico. Fare terra bruciata, annientare quegli uomini-pidocchi, bonificare le terre del nemico, pulirle etnicamente, offrire spazio vitale alla razza egemone.
Non ci furono solo i campi di Hitler. Anche l´Italia ha avuto i suoi. Nel territorio nazionale, incluse le aree jugoslave annesse nella primavera del 1941, i lager furono ben centosedici, e i più malfamati vennero destinati alla «razza slava». Fino all´8 settembre del ‘43 inghiottirono decine di migliaia di persone, in gran parte vecchi, donne e bambini, talvolta neonati, dei quali morirono di stenti quasi uno su tre. Dei croati - i più numerosi - abbiamo dati approssimativi, ma sappiamo che i soli sloveni furono ventiquattromila, dei quali settemila non tornarono. Tanti, per una popolo di un milione e mezzo di abitanti. Centosedici furono i campi del Duce, ma solo quattro monumenti fuori-circuito ricordano la sofferenza dei deportati: a Roma, San Sepolcro, Barletta e Gonars in Friuli. Per loro, nessun giorno della memoria. Nessun accenno sui libri di scuola.
Un tema tabù, dove s´è cercato per anni, con pochi mezzi e scarsa pubblicità. Le testimonianze, terribili, ci sono: le hanno raccolte studiosi come Costantino Di Sante, Spartaco Capogreco, Tone Ferenc, Eric Gobetti, ma sono sempre rimaste una cosa di nicchia, non sono mai entrate nella coscienza nazionale. Ora altre voci bucano la cortina del silenzio. Lettere di donne recluse, ritrovate negli archivi della prefettura di Udine, dove ha funzionato l´ufficio-censura dell´esercito di Mussolini. Lettere mai inoltrate al destinatario; invocazioni disperate di nonne, ragazze, madri, che spesso non hanno commesso nulla e non sanno perché sono state internate. E poi i racconti delle ultime sopravvissute, che a distanza di sessantacinque anni hanno scelto di rompere la diga del dolore. Un materiale terribile, raccolto da Alessandra Kersevan nel libro Lager Italiani, ora in pubblicazione per conto della casa editrice Nutrimenti. Un testo da leggere, se vogliamo fare i conti con noi stessi.
Marija Poje è di Stari Kot, paese completamente distrutto dai nostri dopo la deportazione degli abitanti. Nel febbraio del ‘42 viene internata sull´isola di Arbe (Rab) dove funziona il campo più grande della Dalmazia. Il motivo ufficiale è: protezione dalle incursioni partigiane. In realtà è una forma di brutale occupazione. Marija ha un bimbo di tredici mesi ed è anche incinta. Al campo, racconta, «non avevamo niente da mangiare e i bambini piangevano terribilmente… ci hanno messo sotto tende militari… e anche lì era solo pianto e gemito di bambini». Poi il trasferimento a Gonars, dove la fame comincia a uccidere. Inedia, freddo, assenza di medicine. Come cibo solo brodaglia e un pezzo di pane grande «come un´ostia».
Racconta Marija, oggi ottantenne: «A me poi è morto questo bambino appena nato, mi è morto questo figlio della fame e del freddo… Era magro, solo ossicini, era come un coniglietto. Due giorni di agonia prima di chiudere gli occhi. E proprio quel giorno per la prima volta gli avevano dato… un po´ di latte freddo. Ha avuto il latte la prima volta quando è morto. Poi l´hanno portato via ed ero così malridotta che non ho potuto accompagnarlo nemmeno sulla porta della baracca. Sono rimasta là. E ancora adesso ho questo desiderio spaventoso, il desiderio di quella volta. Il ricordo dei giorni terribili in cui ho desiderato che morisse prima di me… io non ho potuto andare là, non sapevo neanche dove fosse sepolto».
Stanka è una slovena di origine rom che oggi vive in Friuli. I suoi genitori con otto figli vennero internati ad Arbe e poi a Gonars. La testimonianza è raccolta da Andrea Giuseppini, autore di un documentario sulla deportazione degli zingari nei campi fascisti. «Ci hanno portato in carcere a Lubiana, poi ci hanno portato in questa isola… Rab, in Dalmazia sarebbe… Tanta di quella fame… Non ierano baracche, nelle tende e dentro buttata paglia e lì si dormiva come le bestie. Ieramo in tanti, cinquemila, forse anche di più. I bambini morivano di fame. I piccoli neonati li nascondevamo sotto la paglia perché prendevamo il rancio su di loro… Nascondevano i bambini morti per prendere il mangiare che dopo mangiavano quegli altri».
Bambini nudi e scalzi anche d´inverno che rovistano tra i rifiuti di cucina, mortalità spaventosa, tisici, gente senza mani, senza gambe, quasi ciechi. I medici del campo protestano, chiedono più cibo e medicine, ma l´ordine dall´alto è «affamare». Il 17 dicembre 1942, il generale Gastone Gambara, comandante del XI Corpo d´armata, annota a mano su un foglio che ci è giunto intatto: «Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo». Anche le medicine non servono, fa notare il capo del campo di Gonars, colonnello Vicedomini. Bastano «fasce addominali di flanella», consiglia agli infermieri, che vengono accusati di favoreggiamento al nemico. Crudeltà gratuite, per le quali nessuno ha pagato, alla fine della guerra.
Francesca Turk, un´altra detenuta la cui lettera è stata bloccata dalla censura: «Caro fratello, non so se ci rivedremo oppure se moriremo prima… periremo di freddo e di fame… viviamo nei patimenti e nella paura. Ti scongiuro di mandarmi un po´ di pane secco, perché temo per la mia vita e quella dei miei bambini… Ogni giorno muoiono da cinque a sei persone; periscono anche i giovani, come le pannocchie. Fa freddo intenso, non abbiamo la stufa, non spero più di rivedere il mio paese». Paola Rausel: «Se avessi saputo ciò che mi attendeva, avrei ucciso prima i bambini e poi me stessa, perché non è possibile sopportare ciò che sopportiamo ora. Muoiono specialmente gli uomini e i bambini… gli uomini cominciano a gonfiarsi e a perdere la vista, poi muoiono. Per fortuna che la mamma è morta».
Prima delle deportazioni c´erano i rastrellamenti, i villaggi distrutti. Racconta Slavko Malnar, deportato nel 1942 all´età di cinque anni dal suo villaggio del Gorski Kotar, massiccio montuoso sopra Fiume: «Il 27 luglio l´esercito fascista incendiò tutto il nostro paese… Ci dissero che ci avrebbero protetti dai banditi comunisti partigiani. Figuratevi quale protezione… hanno rubato il bestiame e tutti i beni mobili, e ci hanno cacciati in un campo dove in pochi mesi sono morte trentacinque persone solo del mio paese. Lo stesso è successo per gli altri villaggi». Nel gennaio del ‘43 la Croce Rossa segnala al ministero degli Esteri che nel campo di Renicci (Arezzo) i reclusi ex jugoslavi versano «in condizioni miserevoli» e molti di loro «si sono ridotti a nutrirsi di ghiande». Talvolta - i partigiani italiani lo sanno - i fascisti erano peggio dei tedeschi.
Non era programmata solo la fame, ma anche le umiliazioni. Battista Benedetti, radiotelegrafista nel campo nell´isola di Zlarin in Dalmazia, racconta che per aspettare il rancio queste larve umane erano obbligate a stare in piedi in fila per delle ore e, quando arrivava «la brodaglia», la colonna «cominciava ad agitarsi» e allora piovevano bastonate dei sorveglianti. «Ma la cosa più terrificante era quando alcuni di questi malcapitati, accecati dalla paura di restare senza rancio… uscivano dalla fila e correvano verso il cibo, e allora le bastonate non si contavano più e i poveretti, non riuscendo più ad alzarsi, venivano portati via».
I malati di dissenteria portavano addosso gli stessi vestiti del momento della cattura, intrisi di feci, fino alla fine. Giacevano in un tanfo orrendo in barelle fuori dalle infermerie, all´aperto in pieno inverno, e - racconta un testimone - i loro «occhi vitrei… sporgevano dalle orbite». Per seppellire i corpi, in alcuni campi in Dalmazia, noi italiani usavamo le grotte. Sì, proprio le foibe, dove a fine guerra sarebbero stati uccisi per rappresaglia migliaia dei nostri, ma anche tanti croati, bosniaci e sloveni. «La foiba - racconta Battista Benedetti nel suo libro di memorie - ingoiava i miseri resti di questi malcapitati che, fatti scivolare, di solito dalla parte dei piedi, nel baratro, scomparivano; la cassa vuota veniva riportata dal gruppo degli accompagnatori, per essere utilizzata con altre vittime».
La gente che arrivava nei campi erano già «relitti umani», denuncia il console italiano a Mostar Renato Giardini nell´aprile del ‘42. Sono i mesi in cui i tedeschi pare sfondino in Russia e raggiungano i giacimenti del Caspio, e questa speranza moltiplica lo sforzo bellico nei Balcani, si trasforma in bestiali rastrellamenti. Giardini vede «mandrie di vecchi, donne e bambini, laceri, scalzi e affamati… erranti da una contrada all´altra…». Vede «bambini morti lungo la strada… e i loro corpi gettati dai genitori stessi nei burroni. I poveri contadini da una parte sono vessati dai partigiani… dall´altra gli italiani gli incendiano i villaggi, distruggono le case, gli razziano il bestiame, credendoli partigiani». E poi «intere zone distrutte… la gente anche non combattente ammazzata senza pietà… a volte anche le donne seguono la stessa sorte… i campi resi deserti e squallidi… e tutto ciò serve solo a ingrossare le file del nemico».
«Furia sanguinaria», «disumana ferocia», «barbarie»: così - ricorda lo studioso Livio Sirovich - il capo dello Stato ha definito il 10 febbraio il comportamento dei nostri vicini a proposito delle foibe. Nello stesso discorso, i comportamenti anti-slavi degli italiani, messi in atto fin dal 1920, sono descritti come «guerra fascista». Perché? Per l´enormità imparagonabile di Auschwitz? Per la nostra mancata Norimberga? Per il mito del «bono italiano» che non muore? Per i depistaggi dei servizi segreti dopo il ‘45? Per Spartaco Capogreco la colpa principale è della politica della memoria iniziata dieci anni fa: «Una politica del ricordo per decreto, dove non c´è mai la parola fascismo». Una strategia che alimenta certe memorie con leggi, fondi, ricerche, e ne dimentica altre. «E questo è solo l´inizio. Nelle scuole nessuno più sa cos´è il 25 aprile. Ora aspettiamo solo un decreto ministeriale che lo abolisca».

Repubblica 13.4.08
Il coraggio che non abbiamo
di Moni Ovadia


Falsa coscienza, revisionismo e furbizia inquinano la nostra memoria nazionale e ipotecano il nostro futuro. Da qualche anno è stato istituito il giorno del ricordo che celebra la tragedia delle foibe e dell´esodo dei profughi istriani. I dolori di quella povera gente vanno commemorati ed è doveroso chiedere verità e giustizia per le loro sofferenze. Ma una destra intrisa di umori e nostalgie fasciste - e non solo essa - strumentalizza quei dolori e quelle tragiche morti. Si assiste alla progressiva rimozione dei crimini commessi dai fascisti italiani contro sloveni, croati, montenegrini, serbi, per non parlare di quelli perpetrati contro le popolazioni libiche, etiopi, eritree, albanesi e greche.
Questa rimozione ha uno scopo evidente: assolvere il fascismo, costruire un patriottismo di maniera, pervertire il rapporto fra carnefice e vittima. Non solo l´antisemitismo, le leggi razziali, le uccisioni degli antifascisti, ma anche le torture, gli stupri i saccheggi operati dai fascisti italiani con efferatezza talvolta simile a quella nazista sono documentatissimi. La Bbc nel suo documentario The Fascist Legacy (l´eredità fascista) ne parla e li mostra diffusamente. La Rai ne ha fatto curare l´edizione italiana dal regista Massimo Sani solo per tenerla "insabbiata" da anni nei suoi cassetti. I paesi che hanno sofferto a causa dei crimini fascisti hanno chiesto l´estradizione di centinaia di criminali di guerra italiani, i più tristemente noti dei quali si chiamano Roatta, Graziani, Badoglio, ma non uno di questi carnefici è stato consegnato alla giustizia.
Non si possono onorare le proprie vittime con dignità e onestà rimuovendo la proprie responsabilità e criminalizzando la Resistenza che ha riportato l´Italia alla libertà e alla democrazia. Furbizia e ipocrisia sono un micidiale cocktail che occlude gli orizzonti della credibilità, quindi quelli della prosperità nazionale, e di tutte le relazioni internazionali più fertili. L´Italia abbia il coraggio di prendere esempio dalla Germania che grazie al riconoscimento ininterrotto delle proprie enormi colpe è oggi una delle democrazie più prospere ed affidabili del mondo.

l’Unità 13.4.08
Rivoluzione Zapatero
In Spagna nasce il governo delle donne
di Toni Fontana


Zapatero ha presentato ieri il suo governo nel quale le donne saranno in maggioranza (9 su 17). La catalana Carme Chacon, che tra due mesi diverrà mamma, assume la carica di ministro della Difesa. Zapatero istituisce anche due nuovi dicasteri. Quello per l’Eguaglianza viene affidato a Bibiana Aido, 31 anni, la più giovane ministra nella storia della Spagna. La basca Cristina Garmendia a capo del dicastero dell’Innovazione e della Tecnologia

Zapatero due, una squadra sempre più rosa
Nel nuovo governo spagnolo più donne che uomini, nove a otto. Una «colomba» alla Difesa
La ministra più giovane ha 31 anni. In mani femminili anche il dicastero della Scienza e innovazione

ANCHE LA REGINA Sofia appariva soddisfatta quando, accanto a Re Juan Carlos, ha assistito al giuramento di Zapatero. Anche gli avversari più agguerriti, del resto, sono rimasti ieri a corto di argomenti. Zapatero ha presentato la sua squadra e, ancora
una volta, ha stupito tutti, anche i direttori dei giornali che avevano azzeccato buona parte dei nomi. Il nuovo governo della Spagna è il più rosa del mondo (9 donne, 8 uomini), comprende la ministra più giovane d’Europa, l’andalusa Bibiana Aido, 31 anni, titolare del nuovo dicastero della «igualdadad» (pari opportunità), per la prima volta schiera una donna alla Difesa, la catalana Carme Chacon, incinta al settimo mese, 37 anni, considerata «una colomba». Confermato il «nucleo duro» della squadra che ha governato la Spagna dal 2004 al 2008. Restano al loro posto la vice presidente Maria Teresa Fernandez de la Vega, che svolge anche il ruolo di portavoce, il capo della diplomazia Miguel Angel Moratinos, europeista convinto incaricato di preparare il semestre di presidenza spagnola della Ue (2010), il nemico numero 1 dell’Eta, il titolare dell’Interno, Perez Rubalcaba e l’altro vice presidente, l’economista ed ex commissario a Bruxelles, Pedro Solbes. Cinque i volti nuovi, quattro le uscite. Tra questi uno dei più stretti collaboratori del leader, Jesus Caldera che abbandona il dicastero del Lavoro e degli affari sociali. Dirigerà una fondazione che Zapatero intende promuovere per trasformare il Psoe in una «fabbrica permanente di idee».
Ma più che la composizione della squadra, appare innovativa la filosofia che Zapatero ha seguito per metterla assieme che si riassume nella parola «modernisacion».
Zapatero ha incontrato la stampa per spiegare le sue scelte. Tre i pilastri dell’azione di governo. 1) Rilanciare la crescita economica (che sta subendo una “desaceleration”, un rallentamento) puntando su uno strettissimo rapporto con l’innovazione e la ricerca. Così si spiega l’istituzione di un nuovo dicastero, quello dell’Innovazione e della tecnologia, affidato a Cristina Garmendia, basca, esperta di biomedicina. Con questa nomina Zapatero manda anche un segnale ai baschi moderati con i quali intende avviare un negoziato politico al fine di scongiurare il referendum convocato per l’autunno. 2) Lotta ai mutamenti climatici, difesa dell’ambiente. Zapatero ha unificato agricoltura e ambiente nelle mani di Elena Espinosa che dovrà concordare con il premier la strategia da adottare per affrontare l’emergenza idrica che si sta drammaticamente affacciando in Catalogna. 3) Eguaglianza tra uomo e donna. Zapatero ha allontanato i sospetti che, viste le difficoltà economiche, il governo intenda rallentare sul fronte dei diritti. Anzi - ha detto il presidente del governo - la Spagna sarà «il paese più avanzato del mondo». Zapatero mette in campo la giovanissima Bibiana Aido, 31 anni di Cadiz, istituisce il nuovo dicastero della «igualdad» e indica due obiettivi da perseguire: far avanzare i processi innescati dalla legge approvata nella precedente legislatura che prevede la presenza di donne (almeno il 40%) nei consigli di amministrazione, nelle assemblee elettive ed in tutti i luoghi di lavoro. L’altro compito della ministra, che disporrà di competenze proprie e «trasversali», sarà quello - ha detto Zapatero - di combattere «il machismo criminale». «I quattro anni che abbiamo davanti - ha aggiunto il premier - dovranno segnare la fine di questo fenomeno».
Inserendo Celestino Corbacho, amministratore a Barcellona, e nuovo ministro del Lavoro e dell’Immigrazione, Zapatero completa la componente calatana (anche la Chacon viene da li, ma era già ministra) con il proposito di premiere i socialisti del Psc che hanno assicurato la vittoria e tentare un negoziato anche con i nazionalisti di Ciu (10 seggi) che gli servono per ottenere la maggioranza assoluta. La mancata riconferma di Jesus Caldera, già ministro del Lavoro, ha incuriosito i giornalisti presenti ieri alla Moncloa. Zapatero ha definito «brillante» la prova di Caldera in qualità di ministro ed ha spiegato che il Psoe intende creare una fondazione per «essere all’avanguardia nelle idee e nei grandi progetti». Caldera si appresta dunque a diventare il coordinatore del «laboratorio» socialista che, nei piani del leader, dovrà essere «il miglior centro di elaborazione del paese». Con questa iniziativa i socialista spagnoli intendono dare battaglia anche sul piano delle idee alla destra che ruota attorno al Faes (fundacion de analisis y estudios sociales) al cui vertice c’è Josè Maria Aznar. Zapatero e la sua squadra stanno facendo il possibile per convincere gli avversari a discutere su temi come la lotta all’Eta, la presidenza Ue ed il rinnovo dei più importanti organismi della Giustizia. Ma nel Pp volano coltellate, Rajoy sta cercando di arginare l’assalto di Esperanza Aguirre, presidente della regione di Madrid, ancor più oltranzista di lui e decisa a condurre contro Zapatero una «battaglia ideologica». La guerra intestina paralizza il Partito Popolare e Zapatero, deluso dai litigi interni tra gli avversari, punta ad accordi temporanei e su temi specifici con i «piccoli». Mentre Zapatero stava parlando alla stampa l’Eta ha compiuto un attentato «dimostrativo» in Navarra. Soli lievi danni.

l’Unità 13.4.08
Torture, Bush ammette: ero d’accordo
Non ci trova nulla di «sbalorditivo»
di Marina Mastroluca


Il presidente Bush ammette in un’intervista alla Abc di aver sempre saputo: le riunioni per decidere sull’uso di interrogatori «ruvidi» per far confessare i detenuti si sono tenute alla Casa Bianca. Lui non partecipava, ma le aveva autorizzate. Dei dettagli - quali pratiche, quante volte applicarle, implicazioni legali - se ne è occupato il suo stato maggiore: il vicepresidente Cheney, l’allora segretario di Stato Colin Powell, il ministro della giustizia Ashcroft e Condoleezza Rice, ancora consigliera alla sicurezza nazionale. Approvato anche il waterboarding, l’annegamento simulato. Bush: «Ma non è illegale».

Tortura sui detenuti, Bush: «L’ho autorizzata io, ma non è illegale»
Deciso in incontri alla Casa Bianca il ricorso a waterboarding e altre «tecniche d’interrogatorio». Il presidente alla Abc: «Avevamo pareri legali favorevoli»

Sulle foto di Abu Ghraib lui non c’era. C’era una ragazzina in divisa che teneva al guinzaglio uomini nudi e che per questo è stata condannata. C’erano altri come lei, qualcuno è finito a processo, qualcuno ha perso i gradi. Mele marce, si disse allora, mentre l’inchiesta inesorabilmente mostrava che c’era un filo conduttore nella catena di comando che portava molto più in alto dei militari di leva. Dopo lo scandalo, i metodi della Cia erano stati discussi e approvati anche nelle alte sfere dell’amministrazione Bush. E il presidente sapeva, ha sempre saputo: gli incontri per discutere nel dettaglio le tecniche di pressione negli interrogatori - incluso l’annegamento simulato, il waterboarding - si svolgevano nella Situation room della Casa Bianca. Bush sapeva e aveva dato la sua benedizione, è stato lui stesso a dirlo in un’intervista alla AbcNews.
«Cominciammo a studiare che cosa fare per proteggere il popolo americano - ha detto il presidente Usa -. Sapevo che il Consiglio di sicurezza si era incontrato e avevo approvato».
Gli incontri, secondo l’emittente tv, sono andati avanti per mesi. Il presidente non partecipò mai in prima persona, ma era informato di tutto. Bush non c’era, come non era ad Abu Ghraib, né a Guantanamo, né nelle carceri segrete della Cia. Ma approvava il modo di fare, gli abusi, le torture asetticamente classificate sotto la voce «tecniche avanzate di interrogatorio» e dettagliatamente esaminate alla Casa Bianca.
Alle riunioni erano presenti il vice-presidente Dick Cheney, il segretario di Stato Colin Powell, il capo del Pentagono Donald Rumsfeld, il ministro della giustizia John Ashcroft, il capo della Cia George Tenet e l’allora consigliera alla sicurezza nazionale, Condoleezza Rice: la spina dorsale dell’amministrazione Bush. Gli incontri servirono a mettere a punto una procedura degli interrogatori, dettagliando le pratiche ammesse, il numero di volte che potevano essere usate con un singolo detenuto, il ricorso a tattiche combinate - diversi sistemi di tortura - per piegare i più duri. Si parlò di schiaffi, privazione del sonno e waterboarding, ci furono anche simulazioni «coreografate» per far comprendere di che si trattasse. C’erano posizioni contrastanti, in particolare Colin Powell e Ashcroft non erano d’accordo, il segretario alla Giustizia sembrava a disagio persino a discutere dell’argomento alla Casa Bianca. «La storia non lo giudicherà con favore», aveva detto in uno degli incontri. Ma l’opposizione non è mai sfociata in un no aperto, alla fine il via libera alla tortura - mai nominata come tale - è stato approvato.
Vennero chiesti pareri legali, in particolare sul waterboarding, una pratica per la quale il Congresso Usa ha recentemente chiesto la messa al bando, scontrandosi con il veto della Casa Bianca. «Avevamo pareri legali che ci autorizzavano a usarlo - ha spiegato Bush alla Abc -. E no, non avevo alcun problema nel cercare di capire cosa sapeva Khalid Sheikh Mohammed. È importante che gli americani sappiano chi è. È la persona che ha ordinato le stragi dell’11 settembre».
Contattati dalla Abc i portavoce di Tenet e Rumsfeld non hanno voluto rispondere. Altrettanto ha fatto la Casa Bianca per conto di Cheney e di Condoleezza Rice, mentre Ashcroft non è stato raggiunto. Colin Powell ha replicato di «non avere abbastanza memoria per ricordare», precisando che «nulla di quello che è stato discusso in quegli incontri era illegale». Bush invece ha confermato. Ma, ha detto alla Abc, non gli sembrava che la notizia fosse poi così «sbalorditiva».

l’Unità 13.4.08
«I teenager? Belli, dannati e maledettamente soli»
di Roberto Carnero


INTERVISTA A BLAKE NELSON, autore del romanzo portato sul grande schermo da Gus Van Sant: Paranoid Park. Lo scrittore americano è in Italia per il Grinzane Cinema e dice: «Mi ispiro a Dostoevskij e a Camus»

Adolescenti «belli e dannati», ragazzi «maledetti» da un destino difficile, giovani problematici e disadattati: questi i protagonisti della maggior parte dei libri dell’americano Blake Nelson (premiato ieri a Stresa con il Grinzane Cinema nella sezione letteraria), a partire dal suo romanzo d’esordio, Girl (1994), fino alle vicende di «sesso e droga» di User (2001) e a The New Rules of High School (2003), da lui definito uno young adult novel.
Dal suo primo libro tradotto in italiano (lo scorso anno per i tipi di Rizzoli), Paranoid Park, è stato tratto l’ultimo film del regista Gus Van Sant. Il romanzo racconta di un adolescente, Alex, che porta denhtro di sé un terribile segreto: è stato indirettamente responsabile della morte, a Paranoid Park, il paradiso proibito degli skater, di una guardia notturna che, inseguendolo, viene travolta da un treno merci dopo la sua caduta sui binari. Il peso del segreto e il senso di colpa Alex se li vive tutti da solo, finché decide di scrivere una lettera a Macy (e questa lettera dà la struttura stessa al romanzo), in cui le racconta tutto. Sullo sfondo, la vita piatta del ragazzo, con un padre che se ne è andato di casa, una madre preda degli psicofarmaci e una ragazza che sta con lui con una certa indifferenza.
Blake Nelson, come è nata in lei l’idea della trama di «Paranoid Park»?
«Penso che la caratteristica precipua dell’adolescenza sia un senso di separatezza dal mondo. Questa cosa l’hanno ben raccontata i grandi scrittori che hanno narrato gli adolescenti, da Dostoevskij a Camus. Ecco, un terribile segreto, come quello di Alex, era un artificio narrativo per enfatizzare tale condizione di isolamento dagli altri».
Alex appare isolato, per certi versi, anche dal cosiddetto «gruppo dei pari». Secondo lei, quanto è importante per i ragazzi l’appartenenza a un gruppo?
«Il gruppo può rappresentare una sorta di test per gli adolescenti: se ne puoi fare a meno, vuol dire che hai un carattere forte. Perché la tentazione del conformismo è sempre molto alta in questa fascia d’età. Nonostante le apparenze, Alex ha un carattere forte, perché pensa di poter tenere dentro di sé il proprio segreto. Almeno fino a un certo punto».
Come mai nella sua carriera di scrittore è sempre stato attento al mondo dell’adolescenza?
«Non saprei rispondere con certezza. Ho iniziato ad affrontare questo argomento e alla fine è come se esso mi avesse preso la mano. Di certo ne sono molto attratto perché l’adolescenza è un’età dotata di grande fascinazione per un narratore: è lì che si compiono per la prima volta le esperienze più significative, c’è un entusiasmo, una verginità di sguardo sul mondo che poi non si recupererà più. È nell’adolescenza che si fanno le scelte decisive per la propria vita e per la propria identità».
Gli adolescenti rappresentano anche il suo pubblico di riferimento?
«Scrivo per loro, ma, se devo essere sincero, ciò è determinato da motivi puramente commerciali, perché negli Stati Uniti c’è una forte “targettizzazione” dei prodotti letterari. Detto questo, però, ho l’ambizione di essere letto da tutti, senza distinzioni in fasce d’età».
La sua rappresentazione dei giovani si basa su esperienze dirette?
«I miei libri non sono autobiografici in senso stretto, ma, come diceva Kerouac, la scrittura è sempre un esercizio di memoria. Ho un certo numero di ricordi della mia adolescenza, legati, più che a fatti specifici, a emozioni, a sensazioni, a stati d’animo. Ecco, cerco di trasfondere queste cose nelle storie che racconto. Per esempio il coraggio con cui affrontavo la vita, un coraggio che poi un po’ ho perso per strada: andare da una ragazza dicendole che mi piaceva, fare domanda per un college molto duro, ecc.».
Quali sono le caratteristiche che ha voluto sottolineare nei suoi personaggi?
«L’idea che sono persone complete, con una loro autonomia e una loro personalità. Negli Stati Uniti oggi lei può sentire dei genitori che si riferiscono ai loro figli di 16 o 17 anni con l’espressione “i nostri bambini”. Si crede che i teen-ager sperimentino il sesso con indifferenza, invece non è così: spesso vivono i sentimenti e le relazioni con una profondità e una carica emozionale molto superiori a quelle degli adulti. Sono, cioè, qualcosa di molto complesso».
Perché allora spesso vengono considerati immaturi?
«Perché in parte lo sono davvero, in quanto manca loro l’esperienza, ma non c’è solo questa immaturità, c’è anche molto altro».
Alex è punito dal senso di colpa di un’azione di cui in realtà è responsabile solo in parte. Come lo fa cambiare questa situazione?
«Alex si trova a diventare uomo. Si trova, cioè, a sperimentare il ruolo maschile, quella componente che è un retaggio della storia: gli uomini hanno avuto la responsabilità della guerra, di uccidere il nemico e di convivere con la consapevolezza di essersi macchiati di sangue. In tal modo Alex comprende la propria autonomia, capisce che cosa significa assumersi la responsabilità di un’azione».
Com’era Blake Nelson da adolescente?
«Ero un ragazzo inquieto, finivo spesso nei guai, ma per fortuna ho avuto dei genitori saggi, che sono stati in grado di arginare i danni».
L’adolescenza è un’età critica e problematica non solo negli Stati Uniti, ma lì capita più spesso che altrove di assistere a gesti estremi, come ad esempio le stragi ad opera di teenager armati, a scuola o nei campus universitari. Come spiega questi fatti?
«Penso che un certo grado di follia sia insito nel carattere del popolo americano, almeno a livello latente e potenziale. C’è poi, forse, una componente esibizionistica legata alla frustrazione dell’impossibilità di affermarsi in modi, diciamo, più normali. Ciò riguarda anche i casi di criminalità di livello più basso, che spesso diventa, soprattutto in certe situazioni sociali particolarmente precarie, un modo per esprimere le proprie ambizioni».
Come vede gli adolescenti americani di oggi?
«Qualcuno dice che la categoria “adolescenti” è stata inventata negli anni ’50, in concomitanza con il boom economico. Prima, invece, c’erano solo i bambini e gli adulti, cioè non c’era attenzione a questa età di mezzo. Oggi gli adolescenti sono molto meno ribelli di quanto eravamo noi una trentina d’anni fa. Sembrano più conformisti, più vicini ai genitori, meno in contrasto con la generazione precedente. Non danno più l’impressione di voler distruggere e rifare tutto da capo».
Cosa cambierà per i giovani del suo Paese se vincesse le elezioni Obama?
«Obama è decisamente più progressista di quanto lo siano molti giovani di oggi. Ha un’energia unica, che i ragazzi potranno sfruttare. Credo che per loro sarebbe una gran bella occasione».

l’Unità Firenze 13.4.08
Chigiana, Settimana mozzafiato
A luglio a Siena trionfa la musica, dalla prima di Bacalov al viaggio lusitano di Teresa Salgueiro
di Elisabetta Torselli


CLASSICA La 65.ma Settimana Musicale Senese dell’Accademia Chigiana (7-19 luglio 2008), da poco presentata a Roma dal direttore artistico Aldo Bennici, inizia il 7 in piazza Jacopo Della Quercia con il grande Yuri Temirkanov alla testa dell’orchestra del Bol-
scioj di Mosca in un programma ad alta godibilità (Puccini, Borodin, Cajkovskij). L’evento di spicco è Y Borges cuenta que (8 e 9 luglio al Teatro dei Rozzi), novità assoluta commissionata a Luis Bacalov, il celebre compositore argentino premio Oscar per Il postino; nel testo scritto da Carlos Sessano, Alberto Munos e dallo stesso Luis Bacalov l’onirico-metafisico grande scrittore entra in scena non solo come autore dei due racconti a cui Y Buerges cuenta que si rifà, ma addirittura come personaggio. Regìa importante (Giorgio Barberio Corsetti), un bel po’ di tango, insomma un’opera-balletto con cantanti (Paolo Coni, Roberto Abbondanza, Gabriella Sbolci), tangueros, un attore (Carlos Belloso) e naturalmente un bandoneon (Juanio Mosalini). C’è l’omaggio del Divertimento Ensemble di Sandro Gorli ad un grande compositore contemporaneo, l’inglese Peter Maxwell Davies (10 luglio a Palazzo Chigi Saracini); si torna ai Rozzi il 12 e 13 per riscoprire un Kurt Weill d’annata, Die Zaubernacht (La notte magica, 1922) con l’Ensemble Contrasts di Colonia diretto da Celso Antunes; l’illustre Sir Neville Marriner, il fondatore dell’Academy of St. Martin in the Fields, è sul podio dell’Orchestra della Toscana il 15 (in Sant’Agostino) per Mozart, Schubert, Haydn.
Seguono due fra i più apprezzati complessi filologici italiani, l’Orchestra da Camera di Mantova e l’Europa Galante di Fabio Biondi; i mantovani (il 16 in Sant’Agostino) in compagnia di due giovani strumentisti fiori all’occhiello dei corsi chigiani, la violinista Anna Tifu (che ha vinto l’edizione 2007 del prestigioso concorso Enescu) e il clavicembalista Francesco Corti, mentre Biondi e C. (17 e 18 ai Rozzi) propongono in prima esecuzione italiana un’opera per marionette di Franz Joseph Haydn, Filemone e Bauci (1773), con le famose marionette dei Fratelli Colla. Si torna in piazza Jacopo della Quercia per l’evento finale del 19, affidato alla voce struggente e inconfondibile di Teresa Salgueiro, stavolta non con i suoi Madredeus ma con il Lusitania Ensemble per La Serena, viaggio fatto di canzoni fra Portogallo, Italia, Francia, Messico, Brasile, Africa. E questa è la Settimana, ma va anche ricordata la prima edizione, quasi un’edizione sperimentale, di un festival intitolato «Alla ricerca del divino» (23-28 giugno) in cui segnaliamo il concerto del 24 giugno (in Sant’Agostino) dedicato alle musiche della tradizione sefardita; e poi tutti i concerti della lunga e sempre bella estate chigiana, con maestri e allievi spesso insieme e l’oramai abituale apppuntamento agostano ai Rozzi (l’11) con Maurizio Pollini.

Liberazione 13.4.08
Filosofia, matematica, medicina, astronomia... mentre l'Europa si dibatteva nell'oscurantismo la cultura araba fioriva in libertà
La civiltà occidentale?
Non sarebbe esistita senza l'Islam
di Sabina Morandi
(su liberazione.it p 14)

Liberazione 13.4.08
Viaggio in Iran alla scoperta degli antichi sistemi di climatizzazione e ventilazione ecocompatibili
Bioarchitettura, impariamo dai persiani del X secolo
di Stefano Russo e Daniela Bianchi
(su liberazione.it p 16)

Corriere della Sera 13.4.08
Idee. La sfida degli astronomi nel 1500. E la scoperta che l'edizione tedesca di Keplero, piena di svarioni, confonde Aristotele con Archimede
Liti, invidie, insulti: duello su Copernico
Così Brahe liquidò il rivale Ursus: una canaglia
di Armando Torno


All'inizio del Seicento in Europa vi sono cinque o sei astronomi che credono nel sistema di Copernico, e nessuno di loro occupa una posizione autorevole. Galileo, che dal 1592 insegna a Padova, per gli studenti scrive nel 1597 una limpida esposizione del sistema tolemaico, il Trattato della sfera o Cosmografia. Certo, professa altro: in quello stesso anno in una lettera a Keplero ammette di essere giunto da tempo alle dottrine copernicane. Intanto tiene lezioni con l'Almagesto di Tolomeo e gli Elementi di Euclide, scrive sulle fortezze e medita sull'architettura militare.
Oltralpe invece si sta scatenando una vera e propria guerra tra gli astronomi, alla quale Galileo è estraneo.
Protagonisti sono Tycho Brahe (1546-1601), Raymar Ursus (1551-1600), Johannes Kepler (1571-1630), Christoph Rothmann (1550- ca.1600), Helisaeus Röslin (1545-1616). Motivo del contenzioso: conciliare Copernico con le idee tradizionali di Tolomeo e con la fede. Ne abbiamo parlato con Alain-Philippe Segonds (Cnrs di Parigi) che con Nicholas Jardine (Università di Cambridge) pubblica i primi due volumi (in tre parti) di un'opera monumentale: La guerre des astronomes ( Belles Lettres, pp. 1056, e 125). Contengono l'introduzione generale alla querelle e i testi del contrasto tra Ursus e Keplero. In Italia uscì il bel saggio di Massimo Bucciantini, Galileo e Keplero. Filosofia, cosmologia e teologia nell'Età della Controriforma (Einaudi 2003) che completa questo progetto e sta per essere tradotto dalla casa editrice Les Belles Lettres.
Segonds e Jardine si sono proposti di ricostruire, rivedendo criticamente le carte, la storia del diritto di proprietà intellettuale sul sistema geoeliocentrico del mondo che, secondo Tycho, poteva risolvere definitivamente la controversia fra la proposta copernicana (eliocentrica) e quella tolemaica (geocentrica) combinando i reciproci vantaggi. Concorda con la Bibbia e Aristotele, che situano il centro del cosmo sulla Terra, ma anche con l'intuizione di Copernico, che lo sposta sul sole. «Tutto cominciò — dice Segonds — sull'isola di Hven, a Uranienborg, di fronte a Copenaghen dove, nel settembre 1584, Tycho riceve Erik Lange, accompagnato da Ursus. Quest'ultimo — un autodidatta che nella sua giovinezza aveva anche fatto il guardiano di porci — è sospettato di frugare tra le carte del maestro e di aver sottratto le conclusioni a cui è giunto». Per tal motivo è cacciato e ripara in Germania: Francoforte, Kassel, altre città alla ricerca di lavoro. Nel 1588 è a Strasburgo, dove esce Fundamentum astronomicum che contiene la sua visione geoeliocentrica. «L'opera — prosegue Segonds — attira l'attenzione di Tycho che pensa allora di pubblicare in fretta un primo abbozzo del proprio sistema, poi fa sapere del comportamento di Ursus in una serie di lettere, nelle quali lo definisce "sporca canaglia"». Ma la «canaglia » entra in contatto con la corte di Praga e nel 1591 diventa mathematicus caesareus. Tycho nel 1596, senza precauzione, dà alle stampe le ricordate lettere piene di insulti e il fatto «spinge Ursus a rispondere ingiuriosamente nel 1597 con un opuscolo dal titolo De astronomicis hypothesibus ». Keplero, figlio di un soldato di ventura e di una madre che sarà accusata di stregoneria, in quegli anni lascia Tubinga dove non ha ottenuto il posto di pastore; è nominato mathematicus a Graz, vi soggiorna dal 1594 al 1598, prima di essere espulso come luterano. Nel 1597 pubblica il suo Mysterium cosmographicum, nel quale cerca di dimostrare, con l'aiuto dei cinque poliedri regolari, che solo il sistema di Copernico corrisponde al disegno di Dio nella creazione del mondo. «Desiderando scambi intellettuali — sottolinea Segonds — nel 1595 scrive a Ursus e si lascia sfuggire una frase di ammirazione; poi, all'oscuro del cattivo rapporto tra i due, invia il Mysterium a Tycho per riceverne un'impressione ». Il danese comprende le qualità di Keplero, anche se si rammarica che le abbia messe al servizio di Copernico. Intanto legge il ricordato opuscolo di Ursus e scopre la terribile frase: «hypotheses tuas amo». Furioso, Tycho chiede una spiegazione.
Ma con la morte di Cristiano II, Tycho perde i privilegi e diventa bersaglio dell'aristocrazia: ha uno scatto di orgoglio e lascia la Danimarca, portando con sé strumenti e tipografia. Cerca un nuovo mecenate e lo trova in Rodolfo II, a Praga. Vi giunge nel 1598, seguito dall'espulso Keplero nel 1599, mentre Ursus è lì. L'epilogo della vicenda sarà diverso dalle speranze dei suoi protagonisti. Confida Segonds: «Keplero deve servire Tycho nei suoi lavori con un accesso alle osservazioni rigorosamente sorvegliato ed è costretto a comporre un libro per rispondere alle calunnie: è quello che ora pubblico con Jardine dal titolo Contra Ursum. Ursus, dal canto suo, non gode più della protezione imperiale e deve fuggire; Tycho — mentre cerca di far processare il rivale — fatica a istallare i propri strumenti e il laboratorio di alchimia a causa della perenne mancanza di denaro di Rodolfo II. Nell'estate del 1600 Ursus torna a Praga e muore il 15 agosto; Tycho si spegnerà il 24 ottobre 1601. Keplero, che gli succede, ormai non ha più interesse a portare a termine l'opera contro Ursus e si limita a conservarla tra le sue carte. Pubblicheremo anche alcune note preliminari dove è molto libero nei giudizi».
Nel Contra Ursum Keplero cerca di determinare il vero sistema del mondo, la sua organizzazione, sconvolta nel 1543 dall'apparizione del libro di Copernico. Il dibattito che affronta investe la teologia e la filosofia oltre la scienza; né va dimenticato che quasi tutti gli astronomi del tempo erano anche astrologi e vivevano di oroscopi (nessuno, comunque, riuscirà a predire né la Rivoluzione francese né la Prima guerra mondiale). La vera novità dell'edizione Belles Lettres è una corretta ricostruzione del testo e delle ghiotte vicende della guerra tra gli astronomi. Rivela Segonds: «A San Pietroburgo, dove è custodito, abbiamo riesaminato il manoscritto del Contra Ursum. Keplero fece quattro interventi di scrittura e non è stato un lavoro facile. Abbiamo trovato non pochi errori nella grande edizione tedesca delle opere, che fu avviata con gli auspici del nazismo e voleva trasformare l'astronomo in un esemplare genio ariano. Per esempio, Aristotele confuso con Archimede, "sapientiam" letto "sententiam","gratiam initurum" trascritto "gratificaturum". C'è stata anche confusione con nomi propri, per cui "Euctemon" è diventato un "Eudemo", senza contare che alcuni marginalia non sono stati nemmeno letti e riportati». Che dire? La guerra durerà ancora 5 o 6 tomi e chissà quanti errori, oltre quelli astronomici, verranno alla luce. Si capirà meglio la lunga lotta che ha consentito all'umanità di guardare con occhi nuovi l'universo. E di stabilire quando nacque e da quali idee lo spirito laico odierno, del quale si parla ormai in ogni occasione.

Corriere della Sera 13.4.08
A Roma il capolavoro di Puccini
Il Maestro e la fanciulla
di Paolo Isotta


Nel 1907 Puccini soggiornò per cinque settimane a Nuova York: il Metropolitan gli aveva organizzato un Festival. Godeva laggiù di amplissima popolarità un drammaturgo dal carattere strettamente americano, David Belasco, che nella città aveva addirittura costruito un teatro da dedicarsi esclusivamente alla sua produzione, il «Belasco Theatre ». Sempre alla ricerca di un libretto, resa ogni volta un affare di Stato per via della sua incontentabilità, Puccini si recò tre volte in quel teatro, mentre in Italia il povero Illica continuava a lavorare su di una Maria Antonietta alla quale Puccini non volle mai far vedere la luce. Assistette dunque una sera a The Girl of the Golden West, arricchita di canzoni ed effetti sonori che richiedevano un'orchestra di una ventina di strumenti caratteristici e una macchina del vento. Non è vero che ne venisse subito conquistato: si fece venire il dramma in Italia, se lo fece tradurre e di lì incominciò il faticosissimo parto del libretto affidato a Carlo Zangarini: la scontentezza di Puccini verso quest'ultimo ne provocò, per così dire, il commissariamento a opera di Guelfo Civinini, che riscosse pari favore del Maestro. Ben si può dir vera la dichiarazione di Zangarini, esser Puccini il solo autore della Fanciulla del West. La quale andò in scena il 10 dicembre del 1910, protagonista Enrico Caruso, direttore Arturo Toscanini.
Fu il maggior successo conseguito in vita dal Maestro e anche, secondo lui, la sua Opera migliore. Giudizio condiviso da un club di squisiti ma non dai teatri o dal pubblico, il che rende La Fanciulla la meno eseguita tra le «grandi» Opere di Puccini. Le considerazioni seguenti sono basate sull'ultimo allestimento del difficillimo dramma musicale al Teatro dell'Opera di Roma, magistralmente diretto da Gianluigi Gelmetti con regia, scene e costumi, assai appropriati, di Giancarlo del Monaco.
La Fanciulla vorrebbe essere Opera di colore locale, ma in realtà il localismo, a differenza che nel I atto della Turandot, ridonda ampiamente in demagogia e inverisimiglianza. La protagonista femminile, Minnie, è una ragazza proprietaria d'un saloon nella California all'epoca dei cercatori d'oro (1850): ebbene, costei monta a cavallo, spara come un consumato bandito, mantiene l'ordine in mezzo alla masnada della clientela, eppure all'alzar del sipario è ancora una dolce verginella la quale, per lei dunque incognito l'uomo, ha la forza di costringere i cercatori, dopo che si sono abbrutiti di alcool e di giuoco, a seguire le sue lezioni di catechismo. Di qui la storia d'amore fra lei e un bandito: e si passa fra vicende altamente drammatiche e realistiche alla fine delle quali il bandito trova la redenzione, Minnie diviene donna.
La demagogia del saloon e del resto è in Puccini lagrimevole e gli «Hello» dei cercatori al bancone ti farebbero passare la voglia di ascoltare l'Opera; all'inizio del II atto i bamboleggiamenti di una coppia d'indiani che parla coi verbi all'infinito ti fanno pentire d'esser rimasto. Ma...Si dice che La Fanciulla
possegga un taglio teatrale infallibile: sarà così, ma anche questo passa in secondo piano. La più profonda verità la dice il Puccini musicista che, dopo aver tanto dato alle astuzie di botteghino, plasma una partitura impressionante. Il linguaggio armonico è affatto diverso da quello della Bohème e della Tosca, tutto percorso com'è da un'inquietudine esplosiva che finisce col privilegiare la dissonanza alla consonanza: l'uso della scala per toni interi si radica nelle armonie, donde la presenza continua di triadi aumentate le quali, lungi dall'esser interpretate dall'orecchio siccome «emancipate », producono un'impressione sfuggente e angosciosa. L'orchestrazione è da manua-le, per originalità, tinte or corrusche ora di pece, l'espressionismo del poker fra Minnie e lo sceriffo. Dal Puccini musicista ci viene una partitura non fortemente drammatica, ma di alta statura tragica che sarebbe degna di dar voce a vicende di Atridi: sì ch'egli si pone di là dalla stessa vicenda drammatica che narra. In questa non voluta esplosione di forze terribili da parte di Puccini sta l'incongruenza della Fanciulla: incongruenza redentrice che ne fa il suo capolavoro.
Gl'interpreti principali dell'allestimento romano sono il soprano Daniela Dessì, il tenore Fabio Armiliato, il baritono Silvano Carroli.

Corriere della Sera 13.4.08
La cura del centauro
di Nuccio Ordine


Perché tanti medici (Sicilia docet!) fanno politica? Alcuni maligni hanno pensato al ricco bilancio della sanità che copre da solo gran parte della spesa pubblica. Ma il Principe potrebbe fornirci un'altra risposta. Machiavelli, infatti, considera il mitico Chirone (mezzo uomo e mezzo bestia) l'istitutore dei principi per eccellenza: chi vuole governare deve saper usare, con equilibrio, feritas e humanitas e deve essere sempre in grado di trovare un «rimedio» per curare le malattie che colpiscono il corpo politico. Non a caso tra i discepoli del saggio centauro figurano il valoroso Achille (re dei Mirmidoni) e l'infallibile Asclepio (dio della medicina). Che poi il «rimedio» anziché «guarire» i mali dello Stato possa provocarne talvolta la morte è tutt'altra cosa. Ciò però non dipende dall'arte, ma da chi la esercita usando, purtroppo, solo la feritas e dimenticando l'humanitas.

Corriere della Sera Salute 13.4.08
Neuroscienze Il parere di Peter Reiner, uno dai massimi esperti
Il boom annunciato dei Viagra del cervello
Il fascino e i rischi dei nuovi «farmaci per sani»
di Luca Carra


Più intelligenza e più memoria : i «miglioratori cognitivi» promettono meraviglie. Ma gli esperti sottolineano i pericoli

Imitazione. La gente potrebbe sentirsi «obbligata» ad assumere questi farmaci vedendone gli effetti su colleghi e amici I «miglioratori» Agiscono modificando l'azione dei neurotrasmettitori

Il più grande successo commerciale in campo farmaceutico dei prossimi dieci anni arriverà dalla «droghe del cervello», farmaci d in grado di arrestare il declino cognitivo, di dare sprint ai neuroni e una spintarella a memoria e a concentrazione. Ne è convinto Peter Reiner, neurologo e neuroeticista dell'Università della British Columbia, a Vancouver, che giovedì 17 aprile parlerà di questo tema, a Trieste nell'ambito del festival dell'editoria scientifica Fest. «Sono decine le molecole già in sperimentazione — spiega il neuroscienziato — e, al massimo fra cinque anni, invaderanno il mercato. Le agenzie regolatorie, come la Food and Drug Administration, non possono vietare questi studi, ma suggeriscono grande cautela nella futura commercializzazione dei prodotti».
Ha però senso pensare che sarà un boom commerciale che potrebbe rianimare l'industria farmaceutica, in crisi di idee da anni. «Sono farmaci per i sani e non per i malati. Non curano l'Alzheimer e il Parkinson, ma a un professore universitario di 53 anni come me potrebbero garantire il ritorno della memoria di quando avevo trent'anni e maggiore acuità di ragionamento» spiega Reiner.
Come funzionano? «I meccanismi sono i più diversi: dall'azione sui recettori ai neurotrasmettitori. In questi ultimi dieci anni la nostra conoscenza dei meccanismi fini del cervello è talmente cresciuta da consentire, per la prima volta nella storia, la concreta possibilità di migliorare le nostre facoltà intellettuali, frenando il normale declino cognitivo legato all'età».
Già oggi schiere di giovani studenti, in particolare nella fascia privilegiata della Ivy League, che riunisce le otto più prestigiose università americane, si arrangiano assumendo prima degli esami sostanze già in commercio come alcuni antidepressivi e i farmaci prescritti per il disturbo da deficit di attenzione e l'iperattività, come l'Adderall e il Ritalin, o il Provigil, consigliato per la narcolessia. Un giro in Internet, digitando su Google i nomi di questi farmaci, o della parole magica «cognitive enhancers», miglioratori cognitivi, apre al profano un mondo popolato da siti e liste di discussione prodighe di dettagli sull'argomento.
«Tuttavia questi farmaci espongono i ragazzi a rischi di abuso non indifferenti, senza dare effetti realmente significativi — continua Reiner. — «Le molecole ancora in fase di studio promettono invece effetti molto più potenti e mirati, con effetti sociali ed etici che dovremo però attentamente seguire».
Il timore di Reiner è che, in virtù dell'efficacia di queste pillole, la moda diventi incontenibile. «Già oggi i sondaggi statunitensi dicono che l'80% della popolazione sarebbe d'accordo nell'assumere farmaci di questo tipo». Una sorta di Viagra del cervello che ridà brillantezza a persone sulla via del tramonto, o quell'extra di sprint in più al professionista, allo studente e anche al professore. Una recente ricerca pubblicata su Nature ha infatti rivelato che negli Usa un docente su 5 dichiara di utilizzarli. «Questi farmaci arriveranno. Tanto vale prepararsi — conclude Reiner — per cercare di evitare alcuni rischi. Il primo è costituito da effetti psicologicamente negativi che potrebbero indurre gente dopata a cambiare continuamente lavoro e a perdere il controllo delle proprie relazioni. Vi sono poi due rischi sociali: che queste diventino le medicine dei ricchi, ampliando ancora di più il divario di prestazioni intellettuali fra ceti diversi. E che la gente si senta obbligata ad assumere queste sostanze, vedendone gli effetti su amici e colleghi».
Ci aspetta un mondo più brillante. E squilibrato.

Corriere della Sera Roma 13.4.08
La mostra Esposte alla Reale Accademia di Spagna ventisei acqueforti e acquetinte
Mirò, colori a occhi chiusi
Le creature misteriose della «Galleria degli antiritratti»
di Maria Egizia Fiaschetti


Colori in libertà: basta chiudere gli occhi e ascoltare l'anima. Ed ecco che le immagini, dall'inconscio, salgono in superficie. Sogni o incubi, Joan Miró li racconta con la leggerezza di una fiaba. Creature misteriose, che animano la sua «Galleria degli antiritratti», allestita fino al 25 maggio alla Reale Accademia di Spagna (piazza San Pietro in Montorio 3, info 065812806). Le opere, provenienti dalla Fondazione Joan Miró di Barcellona, documentano il suo interesse per l'incisione: ventisei acqueforti e acquetinte, realizzate tra il 1969 e il 1978, cui si aggiungono quattro sculture in bronzo degli anni '70. Fuori dagli schemi, disegno e pittura si confondono. Su grandi fogli di carta ruvida, la linea diventa macchia. Il segreto è nella tecnica del «carborundo »: vernice sintetica o granuli di silicio fissati su lastra metallica e resistenti alla pressione. In positivo, la stampa rivela la fisicità dei materiali, oltre i confini della grafica. Solidificato, il nero s'increspa come un'onda in cui viene voglia di tuffarsi. Nel suo mondo alla rovescia, Miró sovverte le regole del ritratto: più della fisionomia, vuole cogliere il personaggio con le sue ambiguità.
Riconoscibile dall'elmetto, «Soldato in licenza » somiglia a una colomba, simbolo di pace. L'associazione, di stampo surrealista, smaschera i paradossi della modernità. Stelle, frecce, antenne avvolgono la testa del militare come un'aureola. Tese verso l'alto, indicano la via di fuga. L'impronta di una mano zuppa di vernice è un appello contro la guerra. Con l'ingenuità di un bambino, Miró illumina le zone grigie dell'animo umano. La sua torcia è la fantasia, più attendibile della logica. Gli scarabocchi de «La manicure frastornata » sono un inno al caos, per liberarsi dall'ansia di apparire perfetti. Disegno infantile o graffito rupestre, la regola è la stessa: mollare il freno e lasciarsi guidare dall'immaginazione. «L'equilibrata» ricorda quanto sia difficile conciliare ragione e sentimento, a differenza de «La fuggitiva» che si defila con nonchalance. Istinto allo stato puro, gli animali appassionano l'artista catalano. «Topo nero con mantilla», quasi la versione spagnola di Mickey Mouse, ritrae il roditore impettito come un hidalgo. All'opposto, «La talpa ilare» fa di tutto per non farsi notare. Icona della mostra, «Il topo della sabbia» è un capolavoro di sintesi: basta l'occhio spiritato a esprimere la sua vivacità. La magia del circo rivive in «Buffone rosa» e «La donna trottola », saltimbanchi venati di malinconia. «L'egiziana», «Il bramino», «Ballerina creola » evocano il fascino esotico di terre lontane. Con un effetto simile al collage, le campiture colorate de «Il Matador» infilzano lo sguardo. La tecnica esalta la fierezza del personaggio, pronto a sfidare il suo avversario.