mercoledì 16 aprile 2008

l’Unità 16.4.08
Consigli utili
Come sopravvivere allla coppia B&B
di Roberto Cotroneo


In qualche modo bisognerà farcela. Da qualche parte una possibilità c’è. Per tutti quelli che martedì 15 aprile, come in un romanzo di Kafka, si sono svegliati, e si sono accorti, in un momento, che da ieri, l’Italia sarà di nuovo berlusconiana c’è bisogno di una terapia di sostegno, di un appoggio, di una ragione. Molti vagano increduli, altri sfogliano nervosamente vecchi giornali per ricordarsi com’era solo due anni fa, altri ancora credono che con questa maggioranza “stabile” nessuno ce la farà, perché gli anni potrebbero essere cinque, non uno di meno, e si dovrebbe camminare nella valle del regno di Berlusconi fino al 2013.

Fino al 2013 con Bossi e Cicchitto, con Fini e Maroni, con la Carfagna e Bondi, con Borghezio e Calderoli. Fino al 2013 con Gasparri, con Alemanno, con Lombardo. Fino al 2013 tutti là appassionatamente, o magari anche no, magari anche a litigare ogni tre minuti, ma certi che questa volta il potere se lo tengono stretto e si governa fino alla fine. E se qualcosa va fatto, allora non bastano palliativi facili. E ci sono una serie di strategie che si possono adottare da subito.
1. Evitare le trasmissioni televisive politiche. Innanzi tutto «Porta a Porta». Cominciare a pensare con determinazione che la politica non esiste più in quella forma, e che se ne può fare a meno. Rimuovere, se è possibile. Guardare in televisione solo film e naturalmente molto sport. Occuparsi più di calcio mercato che di toto ministri, ostentare un'indifferenza totale verso qualsiasi tipo di nomina pubblica o istituzionale, per chi vive a Roma tenersi lontani da piazza Montecitorio, perché non vengano pensieri angosciosi.
2. Darsi un'anima internazionale. Le prime tre pagine di qualsiasi quotidiano lasciarle direttamente all’edicolante. Se è opportuno munirsi di una piccola taglierina per rendere l'operazione più semplice. Almeno una volta a settimana immergersi nella lettura di Limes e occuparsi di esteri con passione e competenza. Sapere tutto dell'Africa, della Cina, del Sudamerica. Non sapere nulla della politica interna, tanto non c’è che da incavolarsi. E poi l’opposizione in Parlamento e solida e compatta, e ci penseranno loro. Ovvio. Per quanto riguarda i telegiornali, saltando i primi quindici minuti si dovrebbero evitare le cose peggiori. Dunque Tg1 e Tg5 iniziano per definizione alle 20 e 15 e il Tg2 alle 20 e 45. Desintonizzare per principio Rete 4 dal proprio televisore per non incappare neppure casualmente in Emilio Fede. Se usate internet per informarvi, è preferibile togliere dalla home page la pagina del Corriere o di Repubblica on line, e metterci quella del Paìs.
3. Pensare il meno possibile. Non è opportuno andare a riposarsi, o fare immediate vacanze, in eremi umbri e toscani, in luoghi di riflessione, o in regioni, comuni e provincie amministrate dal centro sinistra in modo particolarmente efficace. Provoca stati d’ansia. Provoca stati d’ansia anche finire in luoghi amministrati dal centro destra, perché poi si capisce cosa ci aspetta. Stare a casa propria è molto meglio. E circondarsi di feticci e simboli rilassanti e positivi. Con pochi euro e possibile farsi stampare una gigantografia di Obama da appendere in salotto, ma senza la frase «we can».
4. Molta natura. La natura funziona sempre. E soprattutto non l'ha inventata Berlusconi, fino a prova contraria. Passeggiate, studio degli insetti, della flora e della fauna. Per chi ama il mare sono indicate lunghe passeggiate sulla spiaggia. Basta che non sia la Costa Smeralda.
5. Molta natura, ma evitare accuratamente le passeggiate per la pianura Padana, o lungo gli argini del Po. Si rischia di incontrare gente con l’armatura che riempie ampolle dal fiume. E vengono inquietanti pensieri.
6. Trovarsi un hobby. Può essere uno sport, ma anche no, ovviamente. Indicati sport ossessivi senza attinenza con la cronaca politica. Il calcio ad esempio non è molto indicato. Meglio il golf. E può funzionare anche il Polo. Per chi non riesce a fare a meno di pensarci, a Berlusconi e Bossi al governo, potrebbero andare bene anche gli scacchi, la dama, il backgammon, e in genere i videogiochi. Da evitare assolutamente i giochi da tavolo. Sopra ogni cosa il “Monopoli”.
7. Allontanarsi il più possibile dalla contemporaneità. Non leggere saggi sull'Italia di oggi, darsi alla magia della letteratura. Esotismo, esotismo e ancora esotismo. Imparare a ballare, per chi non sa farlo. Balli di coppia, scegliendo accuratamente partner che non siano di centro sinistra. Perché poi si finisce per parlare solo di Berlusconi. Tutti i balli vanno bene, eccetto quelli da viveur anni Sessanta. Per chi con il ballo ha dei problemi, imparare a suonare uno strumento, o perfezionarlo è un buon modo per dimenticare. Iscriversi a una stagione di concerti, rigorosamente musica classica. Rarefazione e distanza fanno bene, meglio la musica barocca. Il rigore e le geometrie di Bach fanno illudere di vivere in un Paese migliore.
8. Per chi è single, il vecchio metodo di trovarsi subito un fidanzato o fidanzata potrebbe essere di aiuto. Ma attenzione. Meglio uno straniero o una straniera. Per motivi immaginabili, non pensano troppo a Berlusconi, e non sanno quasi chi siano Bossi o Maroni. Se proprio non si può andare oltre Italia, scegliere anime gemelle nell’area dell’astensionismo. Niente politica, per favore.
9. E niente cultura. Leggere libri certo. Ma meglio non frequentare presentazioni di testi impegnati, cineforum, teatro sperimentale, o musicisti contemporanei. Finisce che ti senti di nicchia. E non va bene affatto.
10. Attendere. Con pazienza. Non c’è altra possibilità. Ascoltare la radio di notte. È raro che telefoni Berlusconi a quell’ora durante i programmi. Uscire circospetti, provare a sorridere, nonostante tutto. Convincersi che pioverà per cinque anni, più o meno. Perché è andata così. L’importante, come dice il poeta Paolo Conte, è che piova sugli impermeabili, e non sull’anima.

l’Unità 16.4.08
Cina, a morte 22 condannati ogni giorno


LONDRA La Cina esegue in media 22 condanne a morte al giorno: lo afferma Amnesty International nel suo rapporto sulla pena di morte nel 2007, chiedendo ai partecipanti alle Olimpiadi di Pechino 2008 di far pressione sul regime per l'abolizione della pena capitale. «Primo Paese per le condanne a morte, la Cina ha la medaglia d'oro per le esecuzioni. Secondo stime attendibili, la Cina mette a morte in segreto circa 22 detenuti al giorno. Da qui ai Giochi olimpici, saranno stati 374», ha dichiarato la direttrice dell'organizzazione per i diritti umani in GB, Kate Allen, aggiungendo: «Tutti coloro che saranno coinvolti nei Giochi dovrebbero fare pressione sulla Cina affinchè riveli i numeri dell'uso della pena capitale, perchè riduca il numero di circa 60 reati per cui è prevista, e si diriga verso l'abolizione».
Secondo Amnesty, nel 2007 il regime di Pechino ha messo a morte almeno 470 persone, ma questo secondo gli scarsi dati pubblici: per l'organizzazione sarebbero circa 8.000 le condanne eseguite ogni anno. Il rapporto Death Sentences and Executions in 2007 afferma che nel mondo almeno 1.252 persone sono state giustiziate nel 2007, in 24 paesi (ma si teme siano moltissime di più), mentre le condanne pronunciate sono state 3.347 in 51 paesi. Circa 27.500 persone sono attualmente nel braccio della morte. L'organizzazione esprime grave preoccupazione per l'aumento delle esecuzioni non solo in Cina, ma anche Mongolia, Vietnam, Iran, Arabia Saudita e Pakistan. L'88% di tutte le condanne a morte è stata eseguita in cinque paesi: Cina, Arabia Saudita, Iran, Pakistan e Usa.

Corriere della Sera 16.4.08
La denuncia Il rapporto mondiale di Amnesty International. All'Iran il secondo posto
Pena capitale, primato alla Cina Le esecuzioni sono 22 al giorno
Da qui ai Giochi saranno giustiziate oltre 2 mila persone
Pechino si difende: «Applichiamo la pena estrema soltanto nei confronti di un numero limitato di criminali»
di Paolo Salom


Lo avevano promesso. E la promessa è stata mantenuta. Niente moratoria sulla pena di morte. Così la Cina, riferisce Amnesty International nel suo rapporto Death Sentences and Executions in 2007
(Sentenze capitali e esecuzioni nel 2007), pubblicato ieri, ha nuovamente conquistato il triste primato di Paese con il più alto numero di detenuti giustiziati. E a quanto pare il boia non si fermerà nemmeno durante le Olimpiadi. «Primo Paese per le condanne a morte, la Cina ha la medaglia d'oro per le esecuzioni», ha dichiarato la responsabile di Amnesty in Gran Bretagna Kate Allen. Aggiungendo: «Secondo stime attendibili, la Repubblica popolare uccide in segreto una media di 22 detenuti al giorno». Da qui ai Giochi i giustiziati saranno dunque oltre duemila.
L'organizzazione umanitaria internazionale, compilando la «lista della morte», fornisce solo dati verificati. In base a queste cifre, nel 2007 Pechino ha mandato di fronte al boia 470 persone. Al secondo posto c'è l'Iran, con almeno 317 giustiziati. Quindi l'Arabia Saudita (143), il Pakistan (135), gli Stati Uniti (42) e altri 19 Paesi. Il dato complessivo, si legge nel Rapporto, è di 1.252 giustiziati in 24 differenti nazioni (27.500 persone sono al momento nei bracci della morte di tutto il mondo), ma fa riflettere, in primo luogo, il fatto che l'88 per cento delle condanne sia portato a termine nei primi cinque Paesi della lista. E, in particolare, che queste cifre non forniscano che una pallida idea della realtà. Al di là dei dati «ufficiali », infatti, ci sono quelli ottenuti attraverso canali «confidenziali ». «Secondo l'organizzazione Dui Hua Foundation, con base negli Stati Uniti — spiega ancora il Rapporto di Amnesty International — la Cina l'anno scorso avrebbe messo a morte almeno 6 mila condannati». Una cifra più bassa rispetto all'anno precedente (circa 8 mila) grazie al fatto che dal 1˚ gennaio 2007 è stato nuovamente reso vincolante il parere della Corte suprema del popolo sulle condanne comminate dai tribunali provinciali. Questo provvedimento, che intendeva costituire di fatto una «moratoria », ha allungato i tempi tra una condanna capitale e l'esecuzione (in passato il «reo», il più delle volte, veniva portato direttamente dall'aula del tribunale al boia), abbassando il dato ufficiale (nel 2006 era di 1.010 giustiziati) e quello stimato (ma più vicino alla realtà). Le autorità cinesi ritengano operante «una riduzione del 10 per cento». Dunque anche se la Cina ha diminuito le esecuzioni, la cifra rimane così alta — la Repubblica popolare da sola manda a morte più detenuti di tutti gli altri Paesi del mondo che applicano la pena capitale — da non poter parlare di moratoria, almeno non nel senso in cui l'hanno inteso le Nazioni Unite con il voto dell'Assemblea Generale del 18 dicembre scorso.
Pechino si difende. «Teniamo sotto stretto controllo e adottiamo un atteggiamento prudente, applicando la condanna estrema soltanto nei confronti di un numero limitato di criminali responsabili di reati gravi», ha affermato Jiang Yu, la portavoce del ministero degli Esteri. Che ha subito chiarito come la Repubblica popolare non intenda per il momento abolire la pena di morte perché «le condizioni non sono ancora adatte» e la riforma del codice penale «non sarebbe accettata dal popolo cinese ».
Risponde Amnesty International: «Mentre Pechino si prepara ad ospitare i Giochi Olimpici, sfidiamo il governo cinese a porre fine alla pratica di giustiziare i detenuti segretamente e a fornire informazioni dettagliate sulla pena capitale, in modo da poter finalmente discutere in pubblico l'opportunità di fermare il boia».

l’Unità 16.4.08
Ossessione ’68: quel sogno ci tormenta ancora
di Oskar Negt


QUELL’ANNO è diventato una sorta di schermo che serve ad ognuno per scaricare nello spazio politico le proprie speranze deluse e i propri problemi irrisolti. L’analisi del filosofo tedesco, uno degli ospiti del Festival di Filosofia di Roma

Gli anniversari rappresentano occasioni propizie al fine di por mano a una tematizzazione pubblica di problematiche che non vanno né eluse né affrontate nell’ottica di un consenso generale. Questo nuovo anniversario chiama in causa quarant’anni di rapporti con eventi che vengono puntualmente rievocati ogni decennio, benché la loro influenza sulla nostra società, pur nettamente tangibile, sia difficile da determinare esattamente. È dunque una scadenza che presenta un carattere del tutto diverso dalle celebrazioni che ci siamo appena lasciati alle spalle: Kant, Einstein, Mozart, Adorno ecc. Improvvisamente si forma la percezione che si abbia a che fare con l’elaborazione di una rivoluzione ai suoi tempi legittima, e tuttavia fallita e bruscamente interrotta. Le attribuzioni di colpa assumono in effetti dimensioni tali che qualcuno che dovesse trovarsi tra le mani, poniamo nel 2068, la documentazione prodotta nel corso di questo quarantennio, resterebbe sconvolto dalla percezione delle profonde trasformazioni cui la data-simbolo del Sessantotto rimanda.
Il che è per molti versi anche vero. La nostra società è diventata un’altra. A guardare le reazioni di odio e disprezzo, si potrebbe assolutamente parlare, in termini socialpsicologici, di una paranoia collettiva: di un’ossessione persecutoria alla quale si tende normalmente a rispondere con un ostracismo aggressivo nei confronti di tutto ciò che appare estraneo, ma in cui è però contenuto molto della propria incompiutezza. Per questo motivo il Sessantotto si presta in modo eccellente alla conferma di pregiudizi e alla rimozione dei propri problemi, il cui arsenale è stato assemblato e periodicamente riproposto nel corso di quarant’anni anni da una sfera pubblica perversa.
Non riesco, tuttavia, a liberarmi dal sospetto che un numero crescente di critici, nel frattempo arrivati al punto di mettere in scena la generazione nazista del ’33 come costituita da precursori dei sessantottini, non siano affatto interessati a capire cosa i protagonisti del movimento abbiano davvero fatto, voluto, discusso e provocatoriamente portato sulla scena pubblica. In luogo di un «pathos del rischiaramento» che si rivolge al contesto storico, allo stato della società, agli aspetti internazionali, al conflitto generazionale, abbiamo pertanto la tendenza ad utilizzare il Sessantotto come una sorta di schermo che serve ad ognuno per scaricare nello spazio politico le proprie speranze deluse e i propri irrisolti problemi esistenziali. Ciò è perfettamente funzionale a una politica dell’ordine reazionaria che ha oggi un particolare bisogno di legittimazione. Chi vuole ordine deve prima alimentare la paura del caos.
Il Sessantotto è una grossa spina nel fianco di una società alla spasmodica ricerca di una «nuova trasparenza» e di un «ordine affidabile». Qualcosa viene ancora percepito come provocazione, come sfida ai poteri stabiliti: i quali avvertono come questo movimento contenga anche qualcosa di vero, plausibile e giusto. Ernst Bloch parlerebbe dell’irrisolto, dell’eccedenza utopica che non può essere espunta tramite il semplice riferimento ai fatti. Se non ci fosse questa eccedenza, il sogno ad occhi aperti di una società migliore, ma anche di una vita buona in una comunità giusta, il movimento sarebbe da lunga pezza caduto nella dimenticanza. Problemi centrali della nostra società, come la crisi della società del lavoro, la miseria del sistema scolastico e la polarizzazione di ricchi e poveri, appartengono a regioni di una realtà nascosta. Per questo il Sessantotto si presta in modo eccellente a un dibattito compensativo che si balocca con i simboli della «caduta dei valori» e dei «deficit dell’educazione».
Appare pertanto sensato, in questa sede, richiamare ancora una volta alcuni aspetti determinanti di questo movimento. Tali aspetti non hanno soltanto a che fare con un problema generazionale (che pure innegabilmente sussiste), quanto piuttosto con una comunità che ha il suo nucleo essenziale nella democrazia di base. L’anno 1968 dischiude per alcuni attimi la storia. Si tratta indubbiamente di un anno politicamente scandaloso, che inaugura novità e speranze. Ma di quella stessa memoria collettiva fanno parte anche le sconfitte e le aspettative deluse. E più gli eventi originali si allontanano nel tempo, più la memoria viene selezionata e adattata alla realtà attuale.
Di qui la legittima domanda: che cosa resta? Che cosa occorre fare e che cosa bisogna in ogni caso evitare? Quali impulsi di questo anno «scandaloso» rimangono vitali, quali idee e approcci sono ancora incompiuti? Il movimento per la pace degli anni ottanta, il movimento antinucleare, il movimento ecologico e altri ancora - la maggior parte di queste ampie iniziative dal basso ha tratto origine dai sessantottini e dalla loro coraggiosa ribellione. Siamo soggetti che imparano. E solo in un processo di apprendimento collettivo, ossia di faticosa approssimazione, gli eventi del passato riacquistano vitalità e fruibilità.
Sono problemi internazionali che sono stati posti all’ordine del giorno proprio dal Sessantotto. Nel maggio 1968 un milione di operai, studenti, docenti, ingegneri, uomini e donne praticamente di tutti gli strati sociali, si raduna a Parigi contro l’ordine esistente e per il cambiamento della società. In Cecoslovacchia, come vediamo oggi retrospettivamente, si sviluppa sotto Dubcek, già fuori tempo massimo, una delle ultime possibili iniziative di riforma del socialismo. Alimentata dalla primigenia forza delle utopie socialiste, e tramite un socialismo dal volto umano, tale iniziativa invitava le burocrazie poststaliniste a farsi da parte pacificamente e senza sanguinosi conflitti. Ultima erede di questa linea è, per alcuni intellettuali di sinistra, la strategia di apertura di Gorbaciov. Ci sono voluti più di vent’anni anni perché il disprezzato e calpestato Alexander Dubcek vedesse riconosciute le sue ragioni come presidente del Parlamento. Ma in quel momento Dubcek non rappresentava più il socialismo. La guerra in Vietnam si avvicina al suo culmine. L’offensiva del Tet è il preambolo della catastrofe per la politica interventista americana.
So che ai difensori dell’ordine di tutte le tendenze politiche non piacerà affatto quanto sto per affermare. Penso siano soprattutto due gli ambiti in cui il Sessantotto ha dato origine a nuovi impulsi umani e produttivi: mi riferisco al campo dell’educazione e della formazione e, soprattutto, alla decisiva rivalorizzazione della partecipazione e della democrazia. In entrambi i casi abbiamo a che fare con problemi essenzialmente politici.
È merito del movimento del Sessantotto aver reso pubblicamente visibili le pecche di una democrazia parlamentare e i due elementi fondamentali che appartengono a una democratizzazione di base. Da un lato abbiamo la politicizzazione degli interessi e dei bisogni degli esseri umani, finalmente inclusi nel processo di formazione del giudizio politico nell’ambito di una sfera pubblica critica. Dall’altro lato, quando parliamo di democrazia di base, la democratizzazione della società investe gli ambiti della vita concreta che determinano le esperienze quotidiane degli esseri umani: nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nelle università.
L’idea che non possa darsi una società democratica senza democratici era di certo utopica. Ma resta tuttavia una sfida alla realtà dello stato di cose presente.

l’Unità 16.4.08
Le sette meraviglie del mondo secondo me
di Stefano Miliani


Il giornalista Viviano Domenici non ha visitato quelle canoniche, ma ha scelto sette mete inconsuete, le ha visitate e raccontate in un libro

Tra i luoghi descritti il Sahara libico la Cappadocia i pueblos degli anasazi

Mette in scena rapporti crudeli ma veri. Con la forza d’una teatralità appresa forse dai genitori attori

Viviano Domenici è un giornalista del Corriere della Sera che ha, tra i disbrighi quotidiani, scorrazzato nei luoghi più disparati della terra, attratto dall’umanità nelle sue umane contraddizioni e dall’archeologia nei suoi risvolti meno scontati. Come ultimo atto prima della pensione ha scritto un libro commissionatogli dal giornale e pubblicato or ora da Ponte alle Grazie, Alla ricerca delle sette meraviglie (pagine 182, euro 12). Non ha cercato, com’è ovvio, le sette canoniche meraviglie dallo scomparso faro di Rodi alle piramidi egizie. Il cronista ha invece scelto sette mete e lì è volato. Nell’ordine: il Sahara libico con le pitture rupestri nei massicci dell’Akakus; la città maya di Calakmul nella giungla dello Yucatan messicano; i villaggi dei dogon inerpicati lungo la falesia di Bandiagara nel Mali; le abitazioni nei coni di pietra e le città sotterranee in Cappadocia, in Turchia; le usanze funebri e le case che ricordano barche del popolo dei Toraja in Indonesia; i pueblos, le città costruite nel sud-ovest statunitense dagli Anasazi nel XIII secolo e abbandonate di colpo intorno al 1300; infine le rovine della città-teatro del potere persiano Persepolis e la fortezza di Bam, laddove Zurlini ambientò il film dal Deserto dei tartari dal romanzo di Buzzati, in Iran.
Nei suoi rapidi reportage, umanamente partecipi, Domenici inquadra civiltà remote a portata di turista poco pigro. Ricorda come prima dell’era cristiana il Sahara sia stato verdeggiante per qualche millennio - lo attestano le pitture e i graffiti - per finire poi a secco a causa si ribaltamenti climatici. Un ammonimento? E il cronista toscano informa che vicino a quei capolavori d’arte preistorica nell’Akakus inizieranno presto trivellazioni per il petrolio con l’alta probabilità di devastare un patrimonio affascinante e unico. Ogni civiltà, sembra sottintendere, poggia su equilibri fragili e instabili. Su questo filo di pensiero Domenici ricorda che gli anasazi, fondatori nel XIII secolo delle città di case cubiche nel sud-ovest americano e antenati degli indiani, nel XIV secolo siano stati annientati di colpo da una lunga siccità sommata a fattori politici e ambientali: peccato per il salto di parole tra pagina 135 e 136, ma è un altro avviso alla nostra era scialaquatrice?
Il capitolo più stimolante e ironico è quello sui dogon: sintetizza bene come la caccia dell’esotico possa influenzare, con risvolti ambivalenti, una cultura. Sulla scia del successo del Dio d’acqua, libro su miti e religiosità dei dogon pubblicato nel ’48 dall’etnologo francese Marcel Griaule, è andata a finire che quella popolazione africana ha scoperto di coltivare «misteri» di cui neppure sospettava l’esistenza. I dogon si sono «dogonizzati» interpretando «così bene il ruolo del saggio popolo delle maschere e dei misteri - annota Domenici - che ormai non fanno altro. Il gioco delle parti funziona a meraviglia: il visitatore trova proprio quello che si aspetta e il Dogon offre ciò che il mercato chiede». A beneficio dei turisti gli uomini inscenano rituali propiziatori perfino fuori stagione o invecchiano maschere antropomorfe e zoomorfe e feticci. «Un tacito scambio alla pari che, per quanto ambiguo, ha favorito la sopravvivenza di molti elementi culturali che altrimenti sarebbero svaniti», concede il giornalista. D’altronde converrà rammentare che neppure noi italiani siamo così indenni e «puri»: basti pensare a come si siano modellati a misura di turista i centri storici di città come Firenze o Venezia... I Dogon non sono forse così lontani.

l’Unità 16.4.08
L’Iran e la voce delle donne
di Wendy Kristianasen


Wendy Kristianasen vive a Londra è ed caporedattore della versione inglese di «Le Monde Diplomatique» © 2008, Le Monde Diplomatique Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La chiusura di «Zanan», rivista di donne che parla di donne è l’ultima conferma della repressione in atto in Iran contro chi difende i diritti della popolazione femminile

«Zanan» parlava dei delitti d’onore, del commercio sessuale, delle violenze domestiche, della lapidazione: era la voce di una nuova generazione di donne attiviste

La chiusura, il 28 gennaio, della rivista Zanan (Donne) è un evidente segnale del clima di crescente repressione contro quanti in Iran difendono i diritti delle donne. La rivista è stata chiusa perché «metteva in pericolo la salute spirituale, mentale e intellettuale dei lettori» e diffondeva l’idea di «insicurezza nella società, disturbava i diritti pubblici, indeboliva le istituzioni militari e rivoluzionarie». Zanan pubblicava articoli che «portavano le persone a credere che la Repubblica Islamica non è sicura per le donne».
La chiusura della rivista è stato solo un pretesto in quanto il movimento per i diritti delle donne stava lavorando, tramite la Campagna per l’Uguaglianza (principalmente, ma non solo femminile), per convincere milioni di iraniani a firmare una petizione per chiedere il cambiamento delle leggi discriminatorie nei confronti delle donne. La pacifica raccolta delle firme è in corso dal 2006 come testimoniato da alcuni blog e da video su YouTube.
Shahla Sherkat, 52 anni, divorziata con due figli e una laurea in psicologia presa all’università di Teheran, è una veterana del movimento delle donne. Ha creato Zanan nel 1991 in modo che le donne potessero trovare ciò che per loro contava. Considerato il clima ostile che regna nel giornalismo iraniano, la longevità della rivista - 151 numeri in 17 anni - è un tributo alla sua gestione attenta ed efficace. Shahla Sherkat era solita dire: «non posso scrivere su tutto e quindi ho intenzione di non alterare la verità di quello che posso scrivere». Per questa ragione la rivista Zanan era molto rispettata e, altrettanto importante in Iran, rispettosa.
La sua chiusura è un passo indietro per le autorità e la perdita di una importante voce dei diritti delle donne. Shahla Sherkat si sta battendo per la riapertura della rivista come era logico aspettarsi. Ai tempi della rivoluzione, fece di tutto per trovare un posto in un giornale: lo Zan-e Rouz (La donna di oggi) di proprietà pubblica. Nel 1990, quando in seno al giornale ci fu un giro di vite, decise di fondare Zanan.
Nel 2001 fu condannata a quattro mesi di reclusione sulla base di ambigue disposizioni in materia di sicurezza per aver preso parte ad una conferenza a Berlino dove si parlò delle elezioni parlamentari del febbraio 2000 che videro l’affermazione del riformista Muhammad Khatami. L’avvenimento fu contrastato dagli oppositori di Khatami e dal nuovo governo di Teheran. Shahla Sherkat ha ottenuto diversi riconoscimenti: nel 2005 ha ricevuto il «Louis Lyons Award» della Fondazione Nieman per il giornalismo dell’università di Harvard e il «Courage in Journalism Award» dalla International Women’s Media Foundation.
Diritti che gli altri danno per scontati
La redazione di Zanan ha scelto di parlare dei delitti d’onore, del commercio sessuale, delle violenze sessuali domestiche ecc. Sono usciti articoli come «Porre fine alla lapidazione delle donne» e «Ho difeso il rispetto per me stessa» (su una donna che ha rinunciato al suo diritto di ottenere l’esecuzione di un omicida). La rivista si è occupata del Nobel per la Pace Shirin Ebadi e ha parlato del significato di questo premio per le donne iraniane. Ci sono stati servizi sulle donne parlamentari, sulla violenza contro le donne, sulla condizione delle donne nel sud del Libano. Sull’ultimo numero sono apparsi un articolo su Benazir Bhutto e una intervista con Asma Jahangir, che fa parte dell’equipe per i diritti umani dell’Onu.
Zanan si occupa di diritti che la gente fuori dell’Iran dà per scontati. In Iran è ancora forte la discriminazione contro le donne ai sensi della legislazione vigente e le donne sono escluse da molti settori della vita pubblica, ad esempio non possono fare i giudici in un tribunale penale o rivoluzionario e non possono candidarsi alla presidenza. Non godono di pari diritti nel matrimonio, in caso di divorzio, di affidamento dei figli e di eredità. L’età legale per contrarre matrimonio è di 13 anni, ma i padri possono chiedere l’autorizzazione per far sposare le loro figlie anche prima e con uomini molto più anziani. I reati penali che hanno come vittime le donne sono puniti con minore severità. La testimonianza fornita da una donna in tribunale vale la metà di quella dell’uomo. E poi ogni tanto le autorità attaccano le donne: l’anno scorso il ministro responsabile dei servizi segreti, Gholam Hossein Ejei, ha accusato il movimento per la difesa dei diritti delle donne di fare parte di una «cospirazione nemica volta a sovvertire la Repubblica Islamica».
Zanan è stata uno stimolo e un incoraggiamento per una generazione di giornaliste di attualità politica e sociale e di inchiesta. I servizi sulle preoccupazioni delle donne e sulle soluzioni pratiche generalmente riuscivano a passare la censura e ad evitare misure quali la chiusura e l’incriminazione delle giornaliste.
Una nuova generazione
L’eredità di Shahla Sherkat e di Zanan è visibile in una nuova generazione di donne attiviste. Nel marzo 2007 sono state arrestate 33 donne che, davanti ad un tribunale, protestavano contro l’ingiusto processo contro cinque donne accusate di aver organizzato una manifestazione pacifica nel giugno del 2006 per chiedere la fine della discriminazione contro le donne.
Mahboubeh Abbasgholizadeh, 50 anni, scrittrice e attivista, laureata in scienze islamiche e in comunicazioni, era una delle 33 donne arrestate. Membro attivo della campagna per mettere al bando la lapidazione e per chiedere la moratoria della pena di morte e delle iniziative a favore dell’Uguaglianza, è stata in prigione per un mese. È entrata in carcere come attivista di una Ong e ne è uscita come femminista. L’anno scorso è stata accusata di «adunanza sediziosa, complotto contro la sicurezza nazionale, turbamento dell’ordine pubblico». Il suo caso è tuttora aperto al solo scopo di intimidirla.
Parvin Ardalan, 36 anni, è un’altra attivista che ha preso parte alla manifestazione del giugno 2006 ed è stata condannata a sei mesi di reclusione in applicazione di una serie di disposizioni quanto mai vaghe in materia di sicurezza nazionale (ora è in attesa dell’appello). Nel 2007 ha vinto il premio Olof Palme, ma è stata fatta scendere con la forza dall’aereo che doveva portarla in Svezia per ricevere il riconoscimento. Al suo posto ci è andata la sorella che ha fatto vedere un video nel quale Parvin Ardalan aveva registrato il discorso di accettazione del premio. In una intervista rilasciata al quotidiano madrileno La Razon, Ardalan ha detto: «il governo del presidente Mahmoud Ahmadinejad ha accresciuto la pressione nei confronti delle donne». Ha ammesso di avere una certa paura ma «non abbiamo nulla da nascondere. Sappiamo di poter finire di nuovo in carcere, ma continuiamo ad incontraci perché la paura fa ormai parte della nostra vita».
Shadi Sadr, 34 anni, laureata in legge e specializzata in diritto internazionale all’università di Teheran, ha fondato nel 2004 il primo centro di consulenza legale per le donne. Difende gratuitamente sia le adolescenti che scappano da casa che le donne condannate a morte per lapidazione perché dedite alla prostituzione o per aver assassinato il marito che le violentava e le maltrattava. È una delle principali esponenti della campagna per la messa al bando della lapidazione.
Le donne iraniane debbono il loro ruolo attivo nella vita pubblica a generazioni di attiviste che hanno lottato affinché i loro diritti non fossero dimenticati prima e dopo la guerra con l’Iraq nel 1980-88. Shahla Sherkat faceva parte di questa tradizione.
Ci sono stati anche dei progressi. Le parlamentari donne hanno presentato nella legislatura 2000-2004, 33 disegni di legge, 16 dei quali sono stati approvati. Grazie a queste nuove disposizioni di legge l’età minima per contrarre matrimonio per una bambina è passata da 9 a 13 anni, le donne divorziate hanno potuto avere l’affidamento dei figli fino al compimento del settimo anno di età (prima era fino al compimento di due anni). È stata anche avanzata la proposta per indurre l’Iran a firmare la Convenzione dell’Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw).
Oggi le donne possono essere consulenti giudiziarie, possono presentare domanda di divorzio o possono impedire al marito di prendere una seconda moglie. Possono concorrere per le cariche pubbliche (e stanno cominciando a farlo nei consigli comunali, in particolare a Teheran) e ricoprire ruoli manageriali nelle imprese. Inoltre il, 64% degli studenti universitari iraniani sono di sesso femminile. A dispetto dell’ultimo atto repressivo consistente nella chiusura di Zanan, Parvin Ardalan afferma che «il movimento delle donne in Iran è forte e inarrestabile».

Repubblica 16.4.08
Primo sì del Parlamento: previste multe e prigione
Francia, diventa reato "Istigare all'anoressia"


PARIGI - «Ciao, mi chiamo Ana, con me smetterai di essere una grossa mucca e riuscirai a diventare leggera come una farfalla». In codice, le anoressiche si chiamano "pro-ana", oppure "ana-mia". Parlano con ammirazione di Ana Carolina Reston, la giovane modella brasiliana, arrivata a pesare 40 chili, prima di morire nel 2006. Il passaparola viaggia su Internet, e ormai fa sempre più vittime. L´anoressia, ha avvertito il ministero della Sanità francese, sta diventano un culto, una setta virtuale tra le giovani in crisi. Blog e siti offrono consigli e suggerimenti per praticare diete estreme. Molte adolescenti che rifiutano la propria immagine trovano in questi forum consolazione. «I tuoi amici ti dicono che non sei grassa? Lo dicono per rassicurarti, in fondo anche loro sono disgustati dal tuo fisico», scrive una delle tante "Ana" su un blog che enuncia "dieci comandamenti", tra cui portare sempre con sé sacchetti di plastica nelle borse per vomitare il cibo di nascosto da genitori e amici, oppure non dire mai: «Ho fame».
E´ per combattere questo micidiale proselitismo tra i giovani che il governo di Parigi vuole istituire il reato di istigazione all´anoressia. Ieri, i deputati francesi hanno fatto un primo passo. L´Assemblea nazionale ha approvato una proposta di legge che prevede multe fino a 40 mila euro e 3 anni di reclusione per chi incita persone a non mangiare, a vomitare il cibo o a mortificare il proprio fisico, mettendo a rischio la propria salute. La nuova normativa, che adesso dovrà passare al vaglio del Senato, prevede di reprimere chiunque - persona, società o media - riconosciuto responsabile di provocare disturbi del comportamento alimentare o di apologia di figure anoressiche.
In Francia, ci sarebbero circa 40mila giovani che soffrono di questo disturbo. Una malattia che spesso inizia segretamente, e che nel 10% dei casi porta alla morte. E´ un fenomeno in aumento, riconoscono tutti gli esperti. E forse la legge da sola non basterà.
(a.gi.)

Repubblica 16.4.08
Paolo Miccoli, endocrinologo
"Così si scatena l'aggressività che è propria degli uomini"


«Far dipendere dal testosterone l´andamento della Borsa forse è un po´ eccessivo. Ma si tratta di un ormone che può effettivamente cambiare il comportamento» conferma Paolo Miccoli, che insegna endocrinologia chirurgica all´università di Pisa.
Ma il suo livello può essere influenzato?
«Esistono dei prodotti. Ma non vanno certo consigliati agli operatori di borsa (né a nessun altro). Il rischio per la salute è serio. Il testosterone viene prodotto in maniera naturale dai testicoli. Negli uomini tende a calare con l´età Ma anche nelle donne è presente in piccole dosi. Anche a esso è legato il desiderio sessuale femminile.»
Però su questi ormoni non si può intervenire.
«Quello di Pnas non vuole essere uno studio con ricadute pratiche. Si propone semplicemente di mettere in evidenza un fenomeno: il peso del testosterone si fa sentire nelle decisioni finanziarie. E in effetti non c´è da stupirsi. Anche negli animali questo ormone provoca comportamenti aggressivi e sprezzo del pericolo. Negli uomini è legato a spirito di iniziativa, scelta di comportamenti a rischio, una forte assertività. Elementi positivi, ma che possono essere spinti all´eccesso».
E il cortisolo, il secondo attore della ricerca?
«È un ormone che viene prodotto in condizioni di stress sia fisico che psichico, come ad esempio durante una turbolenza di mercato. È tipico delle situazioni nuove, inaspettate. Detto ciò, sarebbe esagerato attribuire agli ormoni un ruolo troppo grande nelle decisioni di Borsa».
I ricercatori suggeriscono una ricetta per evitare le turbolenze di mercato: affidare l´intermediazione finanziaria alle donne.
«Mi sembra una buona idea. Anche le donne hanno le loro variazioni ormonali. Ma conoscono meglio se stesse e a differenza degli uomini hanno imparato a valutare l´effetto del ciclo su umore e comportamento».
(e.d.)

Repubblica 16.4.08
Un saggio di Guglielmo Gorni, una nuova lettura dell'Alighieri
Il sogno di Dante visionario fallito
di Alberto Asor Rosa


Esce anche in questi giorni un nuovo commento della Commedia di Giorgio Inglese

Dante, e in particolare la Commedia, stanno attraversando un periodo di grande fortuna. Merito principale, senza dubbio, delle letture gravi e profonde di Vittorio Sermonti e di quella appassionante e trascinante di Roberto Benigni (con qualche strafalcione in meno sarebbe ancora meglio).
Però anche gli studi scientifico-accademici danno importanti segnali di risveglio. E´ di questi giorni la comparsa di un Inferno, primo volume, ovviamente, di una terna il cui completamento s´aspetta a breve scadenza, «revisione del testo e commento» di Giorgio Inglese (Carocci, pagg. 416, euro 30): impresa d´impianto filologico classico, direi, ma sapientemente arricchita dell´enorme mole di dati linguistici e testuali accumulata nel corso degli ultimi decenni: con effetti di una chiarezza esemplare e di un´utilità interpretativa senza pari.
Pure di questi giorni è un Dante. Storia di un visionario di Guglielmo Gorni (Laterza, pagg. 346, euro 20). Attiro l´attenzione su quest´ultimo testo per i suoi molteplici pregi.
Gorni è figura di studioso in sé esemplare. Insegna nelle Università una materia d´istituzionalizzazione abbastanza recente, - la filologia italiana, - che ha tuttavia acquisito un ruolo sempre più importante nelle definizioni delle problematiche proprie della storiografia letteraria (quando non sia caduta, come talvolta è accaduto, nelle mani di allegri dilettanti oppure di altezzosi incompetenti provenienti da aree disciplinari circonvicine). Siccome la formazione gorniana nasce dall´intersezione di due delle migliori scuole filologiche italiane, quella pavese (Corti, e anche un po´ di Segre) e quella fiorentina (Domenico De Robertis), i presupposti di un´esemplare correttezza di metodi e di strumenti ci sono stati per lui fin dall´inizio della sua carriera, - e i risultati si sono visti progressivamente in maniera sempre più chiara.
Sono possibili due accezioni di metodo filologico - letterario. Una è quella che attribuisce alla filologia (da parte non di rado degli stessi specialisti del settore) una funzione eminentemente ancillare: in questo ambito essa serve a stabilire il dato certo, su cui altre forme del discorso (la critica, la storiografia letteraria) fonderanno il loro lavoro. L´altra sviluppa direttamente dall´acquisizione del dato filologico un proprio autonomo discorso, che in parte resta nel dominio della disciplina di competenza, in parte, via via crescendo, va a incrociare domini e discorsi delle altre.
Guglielmo Gorni (e, lo dico di sfuggita, anche Giorgio Inglese: basti pensare ai suoi studi machiavelliani) appartiene decisamente a questa seconda variante del sapere filologico. Le sue indagini partono sempre da un´esigenza di ri-definizione circostanziata e certa di una tale questione, letteraria o storico-documentaria, per arrivare poi a una ri-discussione dei termini generali su cui quella cultura, messa in causa dall´incertezza del dato, si fonda.
A questo si deve l´estrema ricchezza che caratterizza la sua produzione: sia che si tratti della poesia del Duecento o della Vita nova, di questioni di metrica o di tradizione poetica, dei problemi numerologici e ordinativi della Commedia oppure di testi umanistici o rinascimentali come quelli di Leon Battista Alberti o del Boiardo.
Il Dante, di cui parliamo, rappresenta il culmine di questa lunga e intelligente ricerca. Naturalmente, di «Danti» ne esiste un´infinità, più o meno autorevoli, più o meno condivisibili. Il fatto che se ne continui a «inventare» ha a che fare, ovviamente, con l´ineguagliabile profondità e ricchezza del Padre di ogni nostra lingua e poesia: il quale, ogniqualvolta entra o rientra in gioco, segnala un accrescimento della nostra consapevolezza critica e, al tempo stesso, un ritorno d´interesse per la nostra identità nazionale (non solo culturale).
Il Dante di Gorni vuol, essere, secondo l´autore, «un ritratto in piedi», che cioè «non si limiti a raccogliere e a ordinare una bibliografia sterminata» (la quale pur tuttavia è presente ad ogni passo del libro, e discussa in tutti suoi punti nodali quando se ne manifesti la necessità), ma «che abbia un´idea forte dell´autore: tendenziosa magari, ma moderna e nuova». Quest´ «idea forte», come si può capire, è quella del «visionario fallito»: tema sul quale tornerò in conclusione.
Colpisce la straordinaria ricchezza del «racconto», e l´abilità, - si potrebbe definire «registica», - con cui è stato «montato» (anche nel senso della perfetta fusione tra i pezzi vecchi e quelli nuovi qui per la prima volta presentati). Gorni, infatti, affianca gli uni agli altri i capitoli più strettamente biografici e quelli di descrizione e interpretazione delle opere, in una sequenza unica e, quel che più importa profondamente unitaria.
Non potendo entrare di più nel merito, mi limiterei ad osservare che riuscirebbe difficile segnalare un solo punto della vita di Dante o della sua produzione letteraria, poetica e trattatistica, che Gorni non abbia affrontato, discusso, descritto (sempre, per giunta, con grande chiarezza e piacevolezza affabulatoria) e reso plasticamente visibile al lettore dei nostri giorni. La filologia serve in questo caso mirabilmente a render perspicuo a chiunque quel che altrimenti avrebbe potuto restare, - e spesso di fatto resta, - celato sotto «il velame de li versi strani». Invece d´esser quel che più solitamente è, - un affare da specialisti, - diventa strumento per una didassi più allargata. Anche a questo si deve, - mi pare, - se il libro si legge con confortevole e gratificante accessibilità (salvo che in qualche punto necessariamente più tecnico).
Ridurrò a due le mie possibili osservazioni critiche.
Per quando riguarda l´attribuzione a Dante della collana anepigrafa di sonetti denominata Il Fiore (e, conseguentemente, dell´altra che va sotto il nome di Detto d´Amore) per la quale Gorni, sia pure molto prudentemente di altri, sembra propendere, desidero dire che, destituito come sono di ogni specifica competenza in materia, condivido pienamente quelle che Gianfranco Contini, altro grande sostenitore dell´attribuzione, definiva un po´ arrogantemente le «obiezioni umorali e reverenziali» dei contrari. E cioè (detto in maniera rozza e sommaria): prima di ammettere che i versi del Fiore siano stati veramente scritti da Dante, sarei disposto a farmi tagliare la mano che scrive queste righe.
Quanto al «visionarismo fallito», non si potrebbe osservare che quanto in Dante è altissima poesia o, anche più semplicemente, nobilissima ispirazione etico-politica, nasce esattamente dalla drammatica sproporzione che l´Autore, - soprattutto da un certo momento in poi della sua vita, - percepisce e coglie fra la sua personale «visione del mondo» e l´abissale, irrimediabile, inadeguatezza e mediocrità dei tempi suoi? Capita a Dante, - anche in questo compiutamente umano, - quel che è capitato a molti; di scoprire che non c´è accordo possibile fra ciò che si desidera e ciò che accade. Il fatto è che Dante, - e in ciò consiste il tratto più inconfondibile della sua fisionomia, - viene, non depresso, ma catapultato verso l´alto dal suo biografico, personale, individuale «fallimento». Del quale, dunque, dovremmo esser grati, visto che ne sono conseguiti effetti così grandiosi.

Corriere della Sera 16.4.08
Niente figli, per scelta. Il movimento, nato dalla provocazione di una scrittrice francese, sta crescendo
di Alessandra Mangiarotti


In Italia Eva Cantarella: «Maternità, basta l'enfasi». La Tamaro: «Sono senza figli e non mi sento un mostro»
La generazione delle «no kid»
Il nostro Paese occupa le ultime posizioni nella classifica europea della natalità: 1,33 figli per donna

MILANO — Nell'Italia dei «mammoni», della Chiesa, dei «pancioni» esibiti sui giornali come trofei di femminilità, l'appello di Corinne Maier ha il dichiarato intento di scioccare. «Choquer!», dice lei. «Donne italiane non imitate le vostre cugine francesi, continuate a non fare figli». Perché «costano ». Perché «non avrete più tempo per voi». Perché sono una palla al piede in fatto di: a. carriera; b. rapporti di coppia; c. rapporti
tout court. Per non parlare dell'assassinio delle responsabilità nei confronti del pianeta: «Si lascia ai figli il compito di lottare per un mondo migliore». Provare per credere.
Lei, che di bambini ne ha due, di ragioni per non moltiplicarsi ne ha trovate quaranta («Parlo perché so»). Le ha elencate in un libro
— No kid. Quaranta ragioni per non avere figli — che ha spaccato la Francia dei deux enfants pour femme a metà. E che oggi, edito da Bompiani, arriva nelle librerie dell'«Italia dell'1,33» (figli per donna, s'intende). Del Belpaese fanalino di coda in fatto di culle dove dietro il non volere bambini c'è sempre più spesso una scelta e non una rinuncia. Childfree e non
childless: libere dai figli per volontà e non senza figli, sottolineano le «no kid» nostrane che sul web dicono: «Non voglio figli, ma perché dovrei sentirmi un mostro?». Nemmeno nell'Italia dove la futura mamma è glamour, dove i nuovi nati sono aumentati di un punto e mezzo in percentuale. E dove le vip che non vogliono bebè lo dicono (se lo dicono) solo dopo il placet del responsabile immagine. L'outing provocatorio della Maier apre il dibattito: «rifiutate di essere ventri ambulati», «la donna non si realizza solo nella maternità », «in Francia, essere "senza figli" è una tara»; «altri paesi sono più intelligenti: l'Italia nel 2050 sarà popolata da 50 milioni di abitanti invece di 58». «Volete l'uguaglianza? Cominciate con lo smettere di avere figli».
Affermazioni forti. Discutibili. Ma lo scopo, le but, è proprio quello: discuterne. La scrittrice Susanna Tamaro, «senza vergogna», lo ha dichiarato di recente: «Non ho mai voluto figli, ricordo quando da ragazzine le mie amiche sognavano la maternità e io restavo freddissima, non me ne importava niente». La grecista Eva Cantarella le va a ruota: «I figli deve farli chi li vuole. Io non ho mai sentito questo desiderio, non mi pento e non mi sento un mostro». Cita Caro Diario e Moretti alle prese con figli unici che monopolizzano il telefono dei genitori. Quindi spiega: «Ho voluto altro. Il lavoro, la carriera. Le donne si possono realizzare in mille modi». E la femminilità? «Non sta in un pancione. Basta tutta questa enfatizzazione della maternità». Parole sante anche per la giornalista e scrittrice Candida Morvillo: «Il mio orologio biologico non è mai scattato. Ho preferito il lavoro, i viaggi, gli amici. E poi ci sono così tante coppie/ scoppiate che ci si può sempre trovare, come me, un fidanzato con figli di cui occuparsi ogni tanto ». La scrittrice Camilla Baresani ricorda: «Mamma e nonna mi dicevano sempre "bambina mia non cascarci, non fare figli. Prima il lavoro, poi il resto". Io finora ho ubbidito. Le loro parole però oggi creano imbarazzo». L'ex campionessa di sci di fondo Manuela Di Centa, per il fatto di non avere avuto figli, ha ottenuto l'annullamento del suo primo matrimonio: «Nessuna vergogna, non li volevo e basta. Oggi per me è diverso».
Natalia Strozzi, attrice, imprenditrice e discendente della Monna Lisa, cita la «settimana di 70 ore» della Maier: «Nella mia vita, ora, non c'è spazio per un terzo lavoro ». E anche per chi di lavoro ne ha uno («ma totalizzante»), come l'avvocato Giulia Bongiorno, a volte la scelta si impone: «Professione o figli. Io ho scelto la prima. Forse con un po' di dispiacere ma vergogna no, non scherziamo». Anche Tiziana Maiolo è stata molte cose ma non mamma: «Insegnante, giornalista. Moglie. Mi sono anche divertita. Un mattino mi sono chiesta: "E i figli"? Il mio inconscio aveva lavorato per me». La sintesi del governatore del Piemonte Mercedes Bresso: «Non ho figli perché non ne ho voluti. Sensi di colpa? Pas du tout. Nella mia vita c'è stato molto altro».

«Sessantotto. Tra pensiero e azione» sarà il tema della terza edizione del Festival della Filosofia, da domani a domenica 20 all’Auditorium Parco della Musica.
Tantissimi i protagonisti di quegli anni come Fernando Savater, Erica Jong, Bernardo Bertolucci, Daniel Cohn-Bendit, Adam Michnik, Furio Colombo, Luis Sepulveda, Oliviero Toscani, Achille Bonito Oliva, Massimiliano Fuksas, Fabio Mauri, Ettore Scola, Slavoj Zizek, Toni Negri, Mario Perniola, Giovanni Jervis, Giacomo Marramao, Paolo Fabbri, Eugenio Scalfari. Tra filosofia, arte, politica e giornalismo.

Il Messaggero 16.4.08
Giorello. La guerra dei saperi
di Massimo Forti


Al Festival della Filosofia, da domani all’Auditorium, protagonista il Sessantotto
E il ruolo della scienza: al servizio della conoscenza e della verità o del potere?
Parla il filosofo milanese

«L’ILLUMINISMO ha perseguito da sempre l’obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura». Fa ancora venire qualche brivido l’incipit di Dialettica dell’illuminismo, testo epocale di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, maestri della scuola di Francoforte e guide teoriche delle rivolte del Sessantotto al quale è dedicato il Festival della Filosofia, in programma da domani a domenica 20 all’Auditorium. Erano gli anni dell’incubo nucleare e della guerra fredda, il caso Oppenheimer aveva scosso la coscienza dell’opinione pubblica mondiale, Stanley Kubrick aveva girato Il dottor Stranamore e la scienza stessa si interrogava con angoscia sul proprio ruolo.
Sostiene Giulio Giorello, titolare della cattedra di Filosofia della scienza alla Statale di Milano, che interverrà al Festival partecipando domenica alle 15 alla tavola rotonda Al servizio della verità o serva del potere? La scienza e il problema dell’oggettività con Edoardo Boncinelli, Marcello Cini e Vito Mancuso: «In quell’atmosfera di ribellioni e di insofferenza, guardavo con un certo sospetto questa idea della scienza come forma di dominio, che era appoggiata con forza anche dal movimento studentesco. Il mio maestro Ludovico Geymonat mi aveva insegnato che era semplicistico considerare la rete concettuale su cui si basa la scienza come una semplice sovrastruttura che coprirebbe i rapporti di puro potere. E, per me, la matematica era “il regno della libertà” come la definiva Georg Cantor, il padre della teoria degli insiemi. Questo non mi impediva di capire le ragioni che spingevano molti giovani ad accogliere con entusiasmo i contributi della Scuola di Francoforte e il pensiero di Herbert Marcuse, soprattutto il suo capolavoro Ragione e rivoluzione, in cui esprimeva l’insofferenza per Auguste Comte, al quale si riferivano molte dottrine tecnocratiche, e il suo positivismo inteso come scientismo. Ma lo scientismo - la visione ideologica della scienza come unica forma di conoscenza - non è la scienza. Fare questa confusione è stato l’errore del ’68 e dei sessantottini».
Gli attacchi, però, non venivano soltanto dai filosofi di Francoforte. Anche grandi scienziati - come fece Norbert Wiener, padre della cibernetica, nel memorabile saggio “Dio & Golem s.p.a.” - esprimevano riserve sul potere raggiunto dalla scienza...
«Questo riferimento a Wiener è molto interessante perchè prova che, all’interno della stessa impresa scientifica, esiste una grande capacità di revisione che spesso ha visto in prima linea alcuni suoi grandi protagonisti, da Einstein a Niels Bohr. Penso anche a logici e storici della scienza che, come Thomas Kuhn con il suo saggio La struttura delle rivoluzioni scientifiche, hanno messo in risalto alcuni aspetti problematici della ricerca scientifica che una visione agiografica della scienza nascondeva o sottovalutava. Questa assunzione di responsabilità è un aspetto positivo. In questo senso, il ’68 ebbe i suoi meriti indicando talvolta non una regressione antiscientifica ma un aumento di consapevolezza sui problemi che esistevano».
La scienza si è trovata e si trova tuttora al centro di una “guerra dei saperi”. I filosofi, come è avvenuto con un recente intervento di Emanuele Severino, non hanno mai smesso di rivendicare il primato della filosofia come forma privilegiata di conoscenza...
«Sì, la guerra dei saperi c’è davvero. Ne discuto spesso proprio con Severino. Ma la ricerca scientifica non deve essere “guidata” dai filosofi, dai politici o dai sacerdoti. Ha tutte le risorse per essere indipendente da influenze esterne. Guai ad abbandonarla».
Abbandonarla? Sarebbe stupido e delittuoso. Ma, di fronte alla sua possibilità di controllare la vita e la morte degli esseri viventi, non è necessaria una riflessione critica? E non si deve ammettere che la stessa scienza ha finora solo conoscenze limitate parziali della realtà?
«E’ vero, abbiamo conoscenze parziali e sbattiamo i denti contro grandi difficoltà in tanti campi fondamentali. Potremmo ripetere con Charlie Brown: “Tutto questo significa qualcosa ma non so che cosa”. Per esempio, in fisica non siamo riusciti a raggiungere la grande unificazione tra fisica quantistica e relatività. Dobbiamo prendere decisioni su problemi fondamentali per il futuro dell’umanità: nucleare sì o no, ogm sì o no e così via... Ma con trovate pseudoidelogiche o con quelle che, dopo il ’68, vennero definite le assemblee cattocomunistre non si risolvono certo questi problemi».
Infine, a sorpresa, un singolare “scatto d’orgoglio” filoscientifico con un ricordo personale: «Che senso ha diffidare della scienza e degli scienziati? Neanche Edward Teller, il padre della bomba H, era così cattivo come lo hanno descritto. L’ho conosciuto personalmente ed era molto piacevole e interessante. Ripeteva con convinzione: “La conoscenza è sempre meglio dell’ignoranza”. Dicevano che fosse stato lui a ispirare il personaggio del dottor Stranamore. Mah... Forse, invece, il vero Stranamore è stato John von Neumann, fondatore della teoria dei giochi, che era affascinante ma poteva anche dimostrare un gelido cinismo». Altro che ’68.

Il Mattino 16.4.08
Erica Jong. Donne, paura di volere
«Nel ’68 c’era ottimismo Oggi il clima è cinico» La scrittrice a Roma al Festival della filosofia
di Maria Tiziana Lemme


Non batte ciglio, Erica Jong, gli occhi spalancati su chi le sta di fronte. Scrittrice-icona della generazione della liberazione sessuale, in grado di trasformare quella rivoluzione in best seller, è a Roma per partecipare, venerdì, alla terza edizione del Festival della filosofia, che quest’anno è incentrato sui quarant’anni del Sessantotto (Jong interverrà a una tavola rotonda sul ’68 e il femminismo «tra pensiero e azione» in politica, nella sessualità e nel costume). Sessant’anni, una figlia, tre nipoti e quattro mariti: l’ultimo dei quali è un avvocato newyorchese, Ken Burrows, col quale stipulò un accordo prematrimoniale per bruciarlo poi dieci anni dopo. Sedici libri pubblicati, l’ultimo tradotto in Italia è Sedurre il demonio (Bompiani), una autobiografia, la sua fama è legata al primo: quel Fear of Flying, Paura di volare, che dal 1973 ha venduto ben diciotto milioni di copie in tutto il mondo e ha consacrato la protagonista Isadora Wing come teorica della ”scopata senza cerniera”. Signora Jong, ha seguito i risultati delle elezioni in Italia? «Certo. Vorrei tanto capire meglio la situazione italiana. Perché, mi chiedo, proprio uno come Berlusconi? Io ero convinta, o ci speravo, che vincesse Veltroni. Mi sembra che Berlusconi sia un tale pagliaccio, che mi riesce difficile credere che agli italiani piaccia, e che lo abbiano voluto per la terza volta al governo. Devo dire che sono abbastanza scioccata. Così come sono sconvolta anche del fatto che Bush sia ancora presidente degli Stati Uniti, visto che si sa per certo che le elezioni sono state truccate, sia quelle del 2000 che del 2004. Eppure sembra che alla gente non gliene importi niente. Ma forse la società tende ad avere paura degli intellettuali, da noi come da voi. Ed entrambi, Berlusconi e Bush, sono infatti uomini ordinari, senza valore intellettuale: non hanno competenze, non sanno niente di politica estera, non capiscono i problemi della gente, non affrontano seriamente la questione della sicurezza. Il fatto è che non sono politici ma personaggi da video, che usano la loro immagine, non la loro testa». Come saprà, in lizza c’era anche un partito, «pro-life», per una moratoria sull’aborto. Com’è a riguardo la situazione negli Stati Uniti? «Dentro la destra c’è una minoranza ma molto forte che non vuole più aborti. Il guaio è che sia appoggiata dal presidente e dal vicepresidente, ai quali però non importa un bel nulla dei bambini che sono già nati, che muoiono di fame o sotto le bombe che gli sganciamo. Come mai a questa gente interessano soltanto i bambini che non sono ancora nati? Non è ipocrita? Mi sembra assurdo e inaccettabile che debbano essere degli uomini a decidere che cosa fa una donna del suo utero. Mi ricordo quando negli anni ’70 gli antifemministi dicevano che con la pillola non ci sarebbe più stato un bambino sulla faccia della terra. È stato dimostrato che non è così. Non posso non chiedermi il perché di questa grande reazione contro il femminismo. È una questione che mi appassiona al punto che intendo scriverci». Sta lavorandoci in questo periodo? «Sì. Sto scrivendo proprio su questa grande reazione contro il femminismo. Questi fenomeni vanno compresi appieno sul piano psicologico. Del resto tutta la storia del femminismo è costellata da balzi in avanti e da colossali passi indietro. L’altra cosa che non abbiamo compreso fino in fondo è che cosa veramente significhi la società di massa e che effetti abbia sulla democrazia. Così come va indagata fino in fondo la violenza maschile sulle donne. Il mio impegno è di cercare di capire meglio». Il ’68 fu un po’ il fratello minore che preparò quegli anni Settanta di cui parlava prima. Che anni furono? «Il ’68 l’ho vissuto come un’epoca di grandi speranze. Ci sentivamo dentro la possibilità di cambiare le cose e di cambiarle in meglio. L’immagine diffusa di un periodo tutto sesso droga e rock’n’roll non corrisponde a ciò che sentivamo. Il punto cruciale del ’68 è che noi ci sentivamo dentro un enorme ottimismo e fiducia di essere in grado di fare la differenza. Non penso che i ragazzi di oggi si sentano dentro una cosa del genere. A me pare che si percepiscano molto cinici e nello stesso momento incastrati, senza speranza e vivacità interiore. Forse il fenomeno pubblico, sociale, per lo meno negli Usa, che si avvicina di più a quel clima è il fenomeno Obama». E ancora una volta non si potrà avere una donna presidente degli Stati Uniti. «Ho appoggiato con donazioni e articoli Hillary Clinton, sono convinta che potrebbe essere un ottimo presidente. Ma non posso non accorgermi della misoginia che la circonda. L’informazione è in mano a grandi gruppi di potere ai cui vertici ci sono soltanto uomini». Dove vive oggi, se vive ancora, Isadora Wing? «Ha sessant’anni, ha perso il padre, è nonna. Sto scrivendo un nuovo romanzo su di lei. Sa che cos’è la cosa grande dell’incalzare dell’età? È che tutto diventa più chiaro. Ma nel contempo è doloroso perché ti rendi conto che le persone non cambiano. Nel 2009 uscirà una raccolta di poesie. E di colpo mi sento molto euforica, sa perché? Dopo tutte queste cose, forse, vorrei scrivere un romanzo ambientato nella Roma imperiale. Ci sono notevoli parallelismi con la nostra società».

martedì 15 aprile 2008

Repubblica 15.4.08
Un saggio dello storico Modzelewski
La civiltà dei barbari
di Adriano Prosperi


Un´indagine sui rapporti tra le culture europee nel passaggio dal paganesimo , mai del tutto veramente estinto, all´affermarsi del cristianesimo
È molto fragile il mito di un popolo tedesco fatto per la guerra diffuso dai nazisti
Il dominio dei Longobardi in Italia fu costruito come una monarchia

Barbaro: una parola greca, nata per fare il verso col suo balbettìo inarticolato (bar-bar) a quelli di cui non si capiva la lingua. Al riso dei greci seguì il severo spirito ordinatore e la volontà di conquista dei romani: la parola servì per distinguere la civiltà come patrimonio dei «cives romani» da chi ancora non la possedeva. Certo, poteva già allora accendersi il gioco di specchi che ha reso celebre l´osservazione di Michel de Montaigne davanti ai selvaggi americani: ognuno definisce barbari gli usi diversi dai propri. Quando Ovidio fu esiliato a Soci tra le popolazioni del Mar Nero si rese conto che i ruoli potevano rovesciarsi e che il più raffinato cittadino romano poteva diventare il barbaro di chi non capiva la sua lingua. Col crollo dell´impero romano la storia dei barbari è diventata la storia d´Europa. Ma chi erano coloro che travolsero i confini romani e dilagarono in occidente? Su di loro gli storici dell´800 proiettarono i confini degli stati nazionali: la divisione tra popoli germanici, baltici e slavi apparve allora obbligatoria. Oggi una importante opera dello storico polacco Karol Modzelewski affronta l´impegnativo compito di ridefinire la carta dell´Europa alto-medievale in una fase in cui non c´è solo da cancellare gli anacronismi del nazionalismo (L´Europa dei barbari. Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana, Bollati Boringhieri, pagg.481, euro 40). La discussione sulle radici culturali cristiane dell´Europa che si è accesa intorno al preambolo della costituzione europea impone a chi affronta il tema da storico un compito imponente: quello di fare un bilancio storico - non politico, non religioso - del rapporto tra culture pagane e cristianità romana. Karol Modzelewski non si è sottratto all´impegno. Il suo libro affronta la questione dei rapporti tra le culture europee su di un arco temporale che va dalle invasioni barbariche alle radici sopravviventi di un mondo pagano che «non morì completamente». E´ proprio con questa citazione oraziana che il libro si conclude.
Che cosa non è morto? Per esempio il fondamento religioso germanico della regola dell´unanimità del verdetto dei giurati, oggi indiscusso pilastro del sistema giudiziario statunitense: oppure l´archetipo del legame di sangue tra i membri della tribù che è rimasto nella definizione della guerra civile come «lotta fratricida». Certo, gli antichi dèi furono sconfitti: lo riconobbero gli abitanti di Stettino quando, davanti al ludibrio che i missionari cristiani facevano dei loro idoli, si sentirono non più protetti e si rassegnarono al battesimo con parole non diverse da quelle che secoli dopo furono pronunziate in America dagli aztechi sconfitti da Cortès. Quel mondo pagano crollò come l´albero altissimo che impediva al cielo di cadere sulla testa degli uomini (chi non ricorda Asterix?). I Sassoni adoravano un grande tronco di albero, che chiamavano «colonna universale»: così racconta Rudolf di Fulda. I missionari cristiani tagliarono l´albero, fecero trascinare via gli idoli, frantumarono i recinti sacri delle assemblee. Si ripeteva il trauma della fine del paganesimo antico simboleggiata dalla morte del dio Pan. Ma la morte delle culture non è come quella degli esseri umani: di quella barbarica sopravvissero forme nascoste e profonde, che il volume di Modzelewski decifra seguendo percorsi inconsueti e ricostruendo processi storici complessi su di uno scenario di grande ampiezza spaziale e cronologica e dominando una straordinaria ricchezza di fonti. Lo storico ha dovuto lavorare in condizioni di speciale difficoltà, che è facile immaginare se si pensa che ha avuto a disposizione tracce incerte, nell´assenza spesso quasi completa di documenti scritti, e dovendo per di più fare i conti con rappresentazioni tenaci quanto infondate. Facciamo un solo esempio per intenderci.
Il mito di un popolo tedesco fatto per la guerra e per l´obbedienza ha ricevuto diritto di presenza nel passato quando storici filonazisti elaborarono la costruzione di un ipotetico gruppo sociale - i cosiddetti «liberi del re» soggetti solo al sovrano e dediti esclusivamente alla guerra - che sarebbe stato tipico dei popoli germanici.
Quella costruzione aveva basi fragilissime e oggi appare a pezzi, nota Karol Modzelewski. Ma questo non le ha impedito di resistere a lungo. Prova - se ce ne fosse bisogno - della verità dell´osservazione che su di un piano generale Modzelewski propone al lettore: «Ogni riflessione sul passato si accompagna a un certo modo di valutare e di comprendere il mondo contemporaneo». Alle realtà politiche del mondo contemporaneo Karol Modzelewski ha partecipato personalmente militando nell´opposizione da sinistra al regime filosovietico in Polonia dove è stato tra i fondatori del sindacato Solidarnosc. Ma, a differenza di altri intellettuali polacchi, per lui l´impegno politico non è diventato una professione: ha continuato a fare il mestiere di insegnante e di storico conservando di quella esperienza di impegno politico una vigile attenzione al rapporto tra presente e passato. Oggi, con questo robusto e affascinante volume, offre il suo contributo per rispondere alla domanda se ci siano e quali siano le basi comuni della cultura europea derivate dalla tradizione dei barbari. Questa Europa barbarica venne integrata nell´ambito della cultura dominata dalla Roma pagana e poi cristiana durante una vicenda lunga tredici secoli, dalla guerra gallica di Cesare fino alle campagne dei cavalieri teutonici. Si svolse allora il confronto e il conflitto tra le culture tribali germaniche, slave e baltiche e la cultura romano-cristiana. Questo è il tema del libro. I confini abbracciati dalla ricerca di Modzelewski comprendono territori e popoli oggi divisi da identità nazionali fortemente consapevoli delle proprie diversità e spesso reciprocamente risentite. Per ricostruirne i tratti culturali comuni c´è voluto un esercizio straordinario di microanalisi associata a una capacità di mettere in relazione testimonianze di natura diversa e di epoche lontane fra di loro.
Facciamo anche qui un solo esempio: nel 1030 un missionario cristiano di nome Volfred giunto dall´Inghilterra in Svezia fu messo a morte per aver fatto a pezzi l´idolo del dio Thor. Il suo corpo dilaniato fu gettato nella palude. Così racconta Adamo di Brema. Ora, che il rito dell´esecuzione capitale germanico prevedesse l´affogamento di certi tipi di condannati nel fango delle paludi era stato scritto nella Germania di Tacito, un´opera che riemerse nella cultura dotta solo nel 1455 da un unico manoscritto trovato in monastero tedesco. Forse Adamo di Brema aveva letto l´opera di Tacito o quella di un altro autore che aveva utilizzato Tacito? Questo poteva accadere; in altri casi accadde. La grande affidabilità e acutezza dell´inchiesta antropologica di Tacito trova continue conferme nello studio di Modzelewski che in molti punti si può quasi considerare un omaggio al grande storico romano. Ma nel caso di Adamo di Brema le analogie fra i due testi non si spiegano ricorrendo alla trasmissione di un motivo letterario. Qui Modzelewski apre un ampio spiraglio sulla realtà medievale delle sopravvivenze pagane tra i popoli barbari e ne mostra gli scontri e gli accomodamenti col cristianesimo e con la cultura latina: intanto le leggi consuetudinarie di popoli «barbari» - i Burgundi (inizi del VI secolo), i Frisoni (norma codificata nell´803) - attestano la pena capitale dell´affogamento nel fango. La pena aveva un carattere religioso, di espiazione per offese agli dèi. E che venisse praticata lo dimostra una prova materiale: in Danimarca, Olanda, Irlanda gli scavi archeologici e le estrazioni della torba hanno portato al rinvenimento di alcune centinaia di «cadaveri di palude» alcuni dei quali con gli occhi bendati e con segni di torture (i terreni paludosi hanno notoriamente la caratteristica di conservare perfettamente i resti organici).
Questo è solo un piccolo esempio dell´interesse di questa storia: dall´indagine di Karol Modzelewski vengono illuminate pratiche divinatorie pagane solo superficialmente cristianizzate, come quella in uso per scoprire il colpevole in un processo penale. Sono particolarmente interessanti le sue osservazioni sui caratteri sacrali dell´assemblea pubblica (fu necessario un ordine specifico di Carlo Magno per imporre l´obbligo del culto festivo al Dio cristiano a danno di quelle assemblee). Si tenga conto di quanto il terreno di riti e miti dell´antichità germanica sia stato reso un campo minato dalla propaganda nazista e dagli storici tedeschi del III Reich: per reazione gli studiosi hanno poi ecceduto nel metterne in ombra gli aspetti sacrali e le convinzioni religiose soggiacenti. L´analisi di Modzelewski invece è un restauro paziente e accurato di un mondo che ha lasciato tracce nelle leggi, nelle consuetudini e nel linguaggio in un´area che abbraccia popoli germanici, slavi, ugrofinnici e si estende dalla Svezia all´Irlanda, alla Lettonia e a tanti altri paesi. Anche all´Italia: anzi, specialmente all´Italia perché il dominio del Longobardi su parte della penisola fu costruito come una monarchia di conquistatori, senza il concorso delle élite romane che furono invece determinanti nella storia della vicina Gallia. Perciò le leggi longobarde hanno uno speciale valore di prova in questa inchiesta sulle categorie delle culture barbariche. Si pensi allo speciale diritto del re sulle donne del popolo longobardo, che si spiega solo sulla base di una concezione privatistica del sovrano come un grande parente di ogni famiglia.
«C´è voluto un secolo o più di duro lavoro - ha scritto Zygmunt Bauman - ... per convincere i prussiani, i bavaresi, i renani, i turingi o i sassoni... che sono tutti parenti stretti e discendenti dello stesso ceppo germanico» (Le vespe di Panama, Laterza, p.12). Senza ricorrere alla forza militare, con l´intelligenza e lo sguardo dello storico Karol Modzelewski ha raggiunto un risultato di gran lunga maggiore: dimostrare l´appartenenza dei popoli della Scandinavia, della Russia, della Polonia e naturalmente della Germania - cioè di tutte le popolazioni discendenti dai «barbari» - a una stessa cultura originaria, frammentata in seguito dal diverso livello di integrazione con la cultura dell´impero romano e con la religione cristiana ma non cancellata del tutto. La vittoria del cristianesimo fu non uno smantellamento ma una interazione con l´eredità del mondo dei barbari: e l´Europa di oggi reca nella sua cultura le diverse facce delle reciproche influenze - mondo romano, mondo bizantino e retaggio culturale barbarico.

Corriere della Sera 15.4.08
Inedita alleanza fra insegnanti cristiani e musulmani: da Bruxelles parte un'indagine ministeriale
Bibbia e Corano contro Darwin
In molte scuole del Belgio gli insegnanti boicottano l'evoluzionismo
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Charles Darwin ha un suo angolino nei programmi della scuola pubblica belga come in quelli di altre scuole europee, le sue teorie sull'evoluzione della specie e sull'uomo «parente» dell'orango sono materia di studio per tutti i ragazzi dai sedici anni in su. Ma per alcuni dei loro professori di biologia o scienze naturali sono invece bugie, in contrasto con le loro convinzioni personali, bugie non meritevoli di essere insegnate: credono infatti che non l'orango, ma una divinità onnipotente, sia all'origine dell'avventura umana e di tutta la creazione, e questo insegnano ai loro alunni. Sostengono cioè il creazionismo o al massimo la teoria del «disegno intelligente», in opposizione all'evoluzionismo darwiniano. E alla divinità creatrice danno il nome di Dio, o di Allah: perché sono professori cristiani e professori musulmani, per una volta sostanzialmente d'accordo.
Li accomuna, fra l'altro, anche la reazione delle autorità: dopo le proteste di colleghi e di genitori «laici», che parlano di indebita propaganda clericale, il ministero dell'Istruzione ha deciso di spedire ispettori nelle scuole dove più si discute sulle idee del vecchio Darwin, e sulle pagine della Bibbia o del Corano.
Queste scuole sono almeno una sessantina soltanto nella comunità francofona, e sono le stesse dove ora il ministero ha inviato una delegazione formata da tre ricercatori universitari, per studiare quello che sta accadendo. La stessa comunità francofona — che notoriamente non naviga nel-l'oro, ma è assai meno ricca di quella fiamminga — ha stanziato 138 mila euro per l'indagine, secondo quanto riporta il quotidiano «Le Soir»: un'altra conferma di quanto il problema sia sentito.
A discutere, sono soprattutto giovani insegnanti di biologia, fra i quali alcuni «stagisti» giunti dai paesi del Maghreb nordafricano nel quadro dei programmi di cooperazione internazionale. Sarebbero loro, più di tutti gli altri, che avrebbero sentito come un'imposizione dall'alto il dovere di attenersi ai programmi ufficiali, soprattutto nelle parti che riguardano l'origine del mondo vivente. E per loro, non c'è davvero nulla da fare: per loro ha ragione Adnan Oktar meglio noto come Harun Yahya, Harun il turco, l'autore de «L'Inganno dell'evoluzione », dell'«Atlante della creazione », e di altri duecento libri e libelli che bollano l'evoluzionismo di Darwin come «una filosofia disonesta che ha soggiogato moltitudini di esseri umani».
L'anno scorso, proprio alcuni di questi insegnanti portarono nelle aule l'«Atlante della creazione», come corredo di battaglia contro le contestazioni degli alunni e dei colleghi darwinisti. Ne scaturì un putiferio, che fu poi il prologo di quello attuale: l'allora ministro francofono per il dialogo interculturale, l'oriunda siciliana Marie Arena, diffuse una circolare in cui si ammoniva contro l'uso di quel testo, che non era previsto dai programmi ufficiali. Ma a quanto pare, il verbo di Yahya continua a circolare, adottato in qualche caso anche da professori cristiani. Nato ad Ankara 52 anni fa, fondatore di un'associazione accusata di mescolare «il misticismo con la retorica scientifica», Yahya è un personaggio controverso ma con un certo seguito in vari Paesi. Alla fine degli anni Novanta, distribuì in tutta la Turchia migliaia di volantini e di copie gratuite delle sue opere, incitando a una campagna contro l'evoluzionismo che veniva presentato come una dottrina malvagia, assimilabile al nazismo, al materialismo storico, al comunismo staliniano. Allora come oggi, Yahya trovò ascolto anche in qualche università. Sostiene fra l'altro che «i reperti fossili sono forse la prova più importante per demolire le affermazioni della teoria dell'evoluzione, poiché essi rivelano che le forme di vita sulla Terra non hanno avuto il benché minimo cambiamento e non si sono mai sviluppate l'una dall'altra».
Conclusione: per lo studioso turco c'è un «fatto indiscutibile», ed è quello che «gli esseri viventi non sono venuti alla vita attraverso i processi immaginari dell'evoluzione. Ogni essere vivente mai prima esistito sulla Terra è stato creato da Dio».

Corriere della Sera 15.4.08
Antiseri: «Intesa possibile La scienza non è dogma»
di Dario Fertilio


Darwinismo evoluzionista o disegno intelligente di Dio? Se ne discute anche in Italia, non necessariamente schierandosi su sponde opposte: basti pensare al convegno internazionale «di pacificazione» che su questo tema si terrà presto in Vaticano. Ne è un testimone anche il filosofo Dario Antiseri, cattolico liberale, da tempo favorevole a una conciliazione fra le due impostazioni. Antiseri infatti le considera risposte entrambe legittime, sia pure su piani diversi, alla medesima domanda sul senso ultimo della vita.
Quella di Darwin, naturalmente, è «scientifica», mentre l'altra interpreta la realtà con «l'occhio della fede». Il che non cancella i rischi ideologici del darwinismo: «Quando una teoria viene assunta come verità religiosa si finisce col scendere nel pantano del dogmatismo scientifico».
Che l'evoluzionismo conservi qualche scheletro nell'armadio, del resto, lo si sa fin dall'Ottocento: «Darwin — ricorda Antiseri — si prestò a far da supporto a un'ideologia barbara, il darwinismo appunto, che giustificava come una legge il fatto che il forte dovesse sopraffare il debole». Ma a parte il famigerato darwinismo sociale, resta la constatazione che «la teoria darwiniana serve a spiegare una grande quantità di fatti. Proprio per questo va insegnata come una teoria: però non assoluta, ma tenuta sempre sotto assedio dalla ragione».

Il Mattino 15.4.08
«Ora è urgente costruire la nostra nuova casa»
Intervista con Franco Giordano
di em.imp.


Roma. Dopo questa pesante, e inaspettata per le proporzioni che ha assunto di ora in ora, sconfitta elettorale, il progetto della Sinistra Arcobaleno è destinato a essere messo nel cassetto o va rilanciato con nuova forza e vigore? Lo chiediamo a Franco Giordano, segretario del maggior partito della coalizione, Rifondazione Comunista. «A questo punto il percorso che porta alla nascita del nuovo soggetto della sinistra deve essere approfondito e accelerato». Come spiega, allora, questo dato elettorale così negativo che vi lascia addirittura privi di una rappresentanza parlamentare? «È un dato allarmante che deve far riflettere. Ma a mio avviso devono far riflettere ancora di più i due dati che si profilano e che sono davvero i più significativi. Due dati di protesta: quello di Di Pietro da una parte e quello della Lega dall’altra». Ha ragione, allora, Fausto Bertinotti, bisogna passare subito a una fase costituente della Sinistra in Italia? «Dobbiamo ripartire dalla ricostruzione di una casa per la sinistra, per contrastare questo processo di critica alla politica». Dalle prime prese di posizione sembra, però, di capire che nella coalizione della Sinistra Arcobaleno qualcuno abbia già preso le distanze, come i comunisti italiani di Diliberto. «Il nuovo soggetto si fa con chi ci sta. Non puoi continuare a scontare i ritardi e le inerzie di chi non ci sta». C’è anche chi, come qualche settore dei Verdi, fa intuire che forse la strada migliore sarebbe stata quella di un accordo col Partito Democratico e non esclude di riaprire da subito una interlocuzione con Walter Veltroni. «Un dato è indubitabile: senza voler certo negare che il nostro insuccesso è evidente, se fossimo stati insieme al Partito Democratico avremmo battuto le destre. Ma bisogna riconoscere che, per correre uniti, non c’erano proprio le condizioni». Giordano, non c’è il rischio che una forza politica extraparlamentare, come ormai sta per diventare la Sinistra Arcobaleno in base agli ultimi dati, assuma sempre più i connotati di una forza radicale e antagonista? «No. Ma ciò non è in contraddizione col fatto che un soggetto politico nuovo deve sempre più radicarsi nel territorio, tornando a essere un partito che sta dentro ai conflitti e che non si limita a rappresentare i conflitti».

il Messaggero 15.4.08
Clonazione: «Negli Usa pronti a creare i bambini fotocopia»
Un genetista: perfezionata la tecnica che creò la pecora Dolly
di Deborah Ameri


LONDRA - Una nuova tecnica messa a punto in un laboratorio americano si avvicina di un soffio alla clonazione umana. Anzi, teoricamente, la Advanced Cell Technology del Nevada, potrebbe clonare un bebé anche oggi, annuncia dalla prima pagina del quotidiano inglese Independent, il coordinatore scientifico della società, Robert Lanza.
I genetisti statunitensi hanno scoperto una scorciatoia, un metodo più semplice e meno rischioso rispetto a quello usato nel 1996 da Ian Wilmut per far nascere la pecora Dolly. Nel segreto dei loro laboratori hanno già applicato la tecnologia dimostrando la sua efficacia e clonando un topolino perfettamente sano.
Ma è lo stesso Lanza a lanciare l’allarme. «Il nostro metodo è talmente sicuro ed efficace che potrebbe essere usato per creare bebé su misura, per esempio nei trattamenti di inseminazione artificiale».
Bastano infatti poche cellule della pelle per ottenere un clone puro. Queste cellule, raccolte da un soggetto adulto, vengono sottoposte a un processo definito riprogrammazione genetica che, come una macchina del tempo, le riporta indietro al loro stato embrionale (in questa fase si chiamano iPS). A questo punto gli scienziati scrupolosi si fermano e raccolgono le cellule staminali - loro principale obiettivo - grazie alle quali possono studiare cure per malattie degenerative come il Parkinson e l’Alzheimer.
Ma se chi maneggia i vetrini e le provette non è così scrupoloso potrebbe inserirle in un embrione umano, precedentemente preparato, per esempio attraverso inseminazione artificiale, e poi impiantarlo nell’utero di una donna e far nascere un bambino. Il neonato sarebbe il clone del donatore delle cellule della pelle. «In questo modo chiunque, giovani, anziani, fertili, non fertili, gay, etero, potrebbe passare i propri geni a un bambino. Attraverso la pelle», spiega Lanza. E il nuovo nato, tecnicamente, avrebbe tre genitori: chi ha donato le cellule iniziali e il maschio e la femmina dai quali è stato creato l’embrione. «Facile così ottenere bambini a tavolino – continua Lanza – Biondi, occhi azzurri, intelligenti, atletici, come si desidera. Basta scegliere bene il donatore delle cellule epidermiche».
Gli scienziati della Advanced Cell Technology hanno voluto appositamente portare alle estreme conseguenze la loro tecnica e clonare il topolino per dimostrarne l’efficacia. Ma, giura Lanza, si è trattato di un semplice esperimento per sottolineare la superiorità sul metodo Dolly. La pecora infatti era stata replicata con un processo complesso, rimuovendo il materiale genetico dall’animale e inserendolo in una cellula uovo privata del nucleo che aveva iniziato poi a dividersi secondo il codice genetico trapiantato. L’embrione era stato poi sviluppato in provetta e da lì trasferito nell’utero di una pecora-ospite.
Ieri Wilmut non era disponibile per commentare (sta lavorando in Giappone), ma se la sua Dolly ha suscitato le ire dei gruppi religiosi, Lanza sostiene che la nuova tecnologia va a genio a tutti. «Il metodo di per sé, non la clonazione ovviamente, è stato approvato dalla chiesa cattolica, quando lo avevamo annunciato alcuni mesi fa, e ritenuto moralmente accettabile – spiega - perché per la prima volta siamo in grado di ottenere cellule staminali senza creare embrioni umani, che poi dovremmo distruggere».

il Messaggero 15.4.08
«Non è scienza, ma uno stupro tecnologico»
Adriano Pessina dirige il Centro di bioetica della Cattolica: tecnica irrispettosa della dignità umana
di Carla Massi


ROMA - «Non stiamo parlando di scienza. Questo è stupro tecnologico». Un commento secco quello che Adriano Pessina, direttore del Centro di bioetica della Cattolica, fa sulla nuova tecnica messa a punto nei laboratori del Nevada.
Perché parla di «stupro tecnologico»?
«Perché queste nuove possibilità riproduttive non hanno nulla a che vedere con la riproduzione umana. Si tratta di un traguardo tecnico che stravolge nel profondo il significato della procreazione».
Lei attacca i ricercatori che hanno osato tanto?«Stiamo parlando di una tecnica che non rispetta la dignità umana. I ricercatori devono riuscire a fermarsi. La vera libertà è proprio quella di non fare».
Ma se nei laboratori si lavorasse per aumentare i successi della fecondazione assistita?
«In questo caso parliamo di un procedimento che annulla la relazione tra uomo e donna e, con lei, il progetto di vita di un figlio. Con la fecondazione assistita, invece, si cerca di superare i limiti umani, si lotta per la nascita di un bambino».
Il lavoro dell’équipe di Lanza, invece, per lei è solo sperimentalismo?
«E’ un esercizio assimilabile alla selezione, all’eugenetica. Non possiamo utilizzare le cellule umane come cavie. La possibilità di arrivare a certi successi scientifici non ci deve far mutare il giudizio morale».
Ma se il frutto della ricerca fosse utilizzato per fini terapeutici?
«Giudizio negativo se si dovesse passare attraverso gli embrioni. Non si può generare e considerare quello che abbiamo generato puro materiale biologico».
Qual è il confine di cui parla? Dove devono fermarsi i ricercatori?
«Il confine sta nel rispetto dell’esistenza degli altri. Mai come oggi siamo chiamati a questo esercizio di libertà».
Eppure, chi lavora in questo campo, parla di nuove frontiere nella cura di alcune patologie. Disegna futuri scenari per le malattie neurologiche come il Parkinson o l’Alzheiemer
«E’ vero, chi fa queste ricerche le motiva come amore verso il prossimo. Credo sia comunque basilare non sfruttare gli uomini anche se il fine è il benessere di alcuni adulti. Si possono percorrere altre strade, molto più rispettose».
E se quel progetto ingegneristico salvasse tante vite?
«Ripeto, non esiste progetto ingegneristico valido in grado di far cambiare il giudizio morale su alcune scelte. Come il rispetto, a tutti i costi, della dignità dell’uomo. Della relazione e della nascita».

lunedì 14 aprile 2008



















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il Riformista 14.4.08
Un milione e mezzo di voti in meno. Di chi sono?
La grande fuga dalle urne agita Pd e Pdl Ma Veltroni trema di più: forte astensione a Roma e nelle regioni rosse
di Stefano Cappellini


Continuando col passo dell’affluenza registrata ieri, alla chiusura delle urne potrebbero mancare oggi all’appello rispetto al 2006 almeno un milione e mezzo di elettori.Le politiche 2008 si avviano ad essere le prime con un’affluenza sotto la soglia storica dell’80 per cento.Una tendenza che ieri sera, già alle 19 con il pesante meno 3,5 per cento, ha messo in allarme tanto il quartier generale del Pd quanto quello del Pdl. Come interpretare infatti la grande fuga dalle urne?
Qui Veltroni. L’ex sindaco di Roma è convinto che la sua performance a Matrix abbia coronato nel migliore dei modi la lunga rimonta su Berlusconi. Il pronostico pende sempre verso il centrodestra, ma Veltroni è fiducioso per più ragioni:è convinto che il suo partito possa giocarsela quasi da pari a pari col Pdl nella competizione - tutt’altro che secondaria - sul partito di maggioranza relativa. E ancora: il leader democrat confida di poter conquistare almeno un paio di regioni decisive per inchiodare il Cavaliere a un sostanziale pareggio al Senato. Insomma, ritiene di poter uscire dalla tornata elettorale nella migliore dell’ipotesi con un clamoroso testa a testa, nella peggiore con una sconfitta molto contenuta nei numeri e dunque più che onorevole. Ma al Loft i dati sull’affluenza hanno in parte affievolito l’ottimismo che si respirava nella serata di sabato e nella prima mattina di ieri. Perché è difficile dire quale impatto produrrà l’ondata di astensioni sugli ultimi ottimistici calcoli della vigilia, ma un dato oggettivo è che l’emorragia di elettori più consistente è quella verificatasi in Toscana e in Emilia, superiore al 4 per cento. Nelle due regioni “rosse”, almeno fino a ieri sera, sono circa 200 mila gli elettori rimasti a casa. E il sospetto naturale è che possa trattarsi in buona parte di elettorato di sinistra “deluso”. Popolo del Pd? Della Sinistra arcobaleno? Si vedrà, ma intanto la tendenza ha già messo in allarme gli strateghi veltroniani. Non meno insidioso è il calo di votanti nella circoscrizione Lazio 1, quella di Roma e provincia: anche in questo un abbondante meno 4 per cento, ancora più significativo se si considera che le contemporanee tornate amministrative avrebbero dovuto incentivare la partecipazione al voto. Il fenomeno, si spiegava ieri sera al Loft, è dovuto anche alle code registrate in molti seggi a causa delle cinque schede affidate a ciascun elettore. Certo è che il dato romano ricade su un altro fondamentale bacino di consensi per Veltroni. Altra ragione di preoccupazione, per lui e per il candidato sindaco Francesco Rutelli che insegue una non scontata elezione al primo turno.
Qui Berlusconi.
Quel tratto di imponderabilità che è l’elemento originale di questa tornata elettorale non risparmia comunque anche il Cavaliere. Pure i feudi elettorali del Pdl sono investiti da un forte astensionismo. In Lombardia e Veneto il calo è sopra il 3 per cento. Più contenuto il deficit in Sicilia (meno 2 per cento), come del resto in tutto il sud. Basti dire che la Campania - regione in cui i sondaggisti hanno censito fin dall’inizio della campagna elettorale il maggior numero di indecisi e su cui gravava quindi il sospetto di un crollo dell’affluenza - presenta invece un dato non lontano da quello di due anni fa. Il dubbio che l’elettorato berlusconiano sia toccato da un fenomeno di demotivazione circola anche in Forza Italia. Eppure Berlusconi, ancora fino al tardo pomeriggio di ieri, non era meno ottimista del suo antagonista nel prefigurare una vittoria senza incertezze, Senato compreso. Sono almeno dieci (eletti all’estero compresi) i senatori di vantaggio che l’ex premier s’attende dalle urne. Un margine che non sarebbe certo privo di rischi, ma più che sufficiente a intraprendere la navigazione di governo. La sicurezza di Berlusconi affonda su una ben precisa previsione: il successo dell’appello al «voto utile». Il che, nel suo caso, significa un Udc quasi ovunque al di sotto del quorum dell’8 per cento per il Senato e una Destra che non sfonda e dunque non drena troppi voti al Pdl.

il manifesto 8.4.08
La crocetta del cittadino
di Marco d'Eramo


Cittadina/o: incarnazione dell'essere umano che si manifesta in un solo irripetibile gesto, ogni due, tre o quattro anni. Cittadina/o è colei/ui che fa una croce su un foglio di carta in un separé ligneo la cui forma accosta il rito del voto alla memoria dei vespasiani. Uscito dal bugigattolo elettorale, il bipede umano smette la sua veste di cittadina/o che riporrà nel guardaroba, con adeguata naftalina antitarme, per riesumarla e indossarla alla prossima scadenza.
O per lo meno è così che ci vorrebbe chi ci governa, ma non riesce a dominarci (non del tutto, almeno). Però troppo spesso è così che finiamo per vederci noi stessi che insieme sopravvalutiamo e snobbiamo questa croce (un «per»? un «più»? un simbolo religioso? un'ammissione di analfabetismo?), come se il nostro destino fosse tutto appeso a questa statistica di milioni di crocette individuali, o come se esse fossero del tutto irrilevanti.
In questo stanco quarantennale di '68, la celebre categoria di «unideminsionalità antropologica» allora formulata da Herbert Marcuse, può essere applicata all'uomo in quanto animale politico: lo si vuole ridurre sì a una e una sola dimensione, ma è quella elettorale. Fa quasi tenerezza vedere il «fantasma del comunismo» aggirarsi non per l'Europa ma nei sondaggi della Doxa, e i soi-disant eredi della «rivoluzione proletaria» sfiancarsi in dotte disquisizioni su dove (Lazio? Toscana?) puntare per superare l'8% al senato.
In realtà il nostro vivere politico è multidimensionale: una dimensione - non la più importante - parlamentare, che si esprime nella fatidica crocetta; una sociale: quella dei conflitti, degli scioperi, dei movimenti, delle manifestazioni no-global; una culturale che si batte contro i pilastri dell'ideologia conservatrice, contro la «società dei proprietari» e per non solo la libertà religiosa, ma anche la libertà dalla religione; una comportamentale, dei gesti spiccioli, in cui ognuno di noi fa politica con l'ospitalità verso gli immigrati o la carta e i vetri nella raccolta differenziata.
Da questi ultimi tre punti di vista, quasi nulla ci offre la dimensione puramente elettorale. Anzi, forse ci toglie qualcosa il Pd di Walter Veltroni, dei generali anti-culattoni, delle signorine capolista «non capisco di politica niente e me ne vanto», degli imprenditori rigidissimi sulla flessibilità (altrui). Come si fa a invocare un voto utile per l'ineffabile Paola Binetti? (Ci sarebbe per altro da interrogarsi sull'utilità elettorale dei teodem: quanti voti portano davvero, ma quanti ne tolgono?) Di nuovo vediamo l'insopprimibile vizio di partiti che invece di rappresentare le classi subalterne contro gli interessi dominanti, rappresentano la subalternità alle classi dominanti e si fanno in quattro per essere ammessi (nei salotti), per essere accreditati (presso il Vaticano, la grande finanza..): per due anni il governo Prodi ha avuto l'unico obiettivo non di riequilibrare la selvaggia redistribuzione dei redditi che ha devastato la società italiana, ma di farsi mettere un buon voto dai banchieri di Francoforte («diligenti, ma potrebbero fare di più», c'è scritto in pagella). Né offre molto la Sinistra arcobaleno che sembra evitare in tutti i modi di attaccare la destra e Silvio Berlusconi: nessuno che lo sfotta per le sue mirabolanti promesse del 2001. Nessuno attacca il clericalismo. Che sinistra è una che non attacca la destra?
Abbiamo un candidato premier (Fausto Bertinotti) che nel suo ultimo appello sul manifesto si butta sul registro poetico: il lirismo è l'ultimo ricorso dei politici a corto di argomenti, un po' come «il patriottismo è l'ultimo rifugio dei furfanti» (dottor Johnson). Se il Pd ha la sua Binetti, la Sinistra arcobaleno si ritrova per ideologo un guru come Massimo Fagioli. Questa Sinistra arcobaleno non ha il coraggio né della laicità né dell'ambientalismo. Da ministro dell'università, Fabio Mussi non ha avuto l'ardire di schierarsi con quel gruppo di professori (molti dei quali l'avevano in precedenza sostenuto) che difendeva la laicità dell'università di Roma contro il tentativo d'imporre una pontificia lectio magistralis. E i verdi? In una delle più drammatiche emergenze ambientali dell'Italia repubblicana, è assordante il loro silenzio sull'ambiente.
Più in generale, quali sono le parole d'ordine che dovrebbero mobilitare i giovani? Veltroni si richiama a Obama, ma dove sono i liceali che vanno a fare attivismo tra i leghisti della Valtellina o i mastelliani di Ceppaloni? I ventenni di oggi non hanno nessun ricordo personale del Pci. Perché dovrebbero votare per partiti che ancora dopo 18 anni non sono riusciti a elaborare quel lutto? Sembra che Pd e Sinistra arcobaleno stiano facendo di tutto per far vincere Berlusconi.
Astenersi allora? No. Allora votare per quel che passa il convento, visto che al gioco elettorale bisogna partecipare secondo le regole e i limiti elettorali. Perché non votare è già un voto, proprio come non decidere è una decisione. Voterò quindi Sinistra arcobaleno, sapendo però che il centro dello scontro politico oggi si situa altrove, e ricordando che mai un parlamento eletto ha approvato «buone leggi» senza una forte pressione dall'esterno. Tutte le riforme degne di questo nome, dal voto alle donne conquistato dalle suffragette, alle ferie pagate del fronte Popolare, allo statuto dei lavoratori dell'autunno caldo, al divorzio e all'aborto, tutto è avvenuto solo su pressione esterna da parte di movimenti di piazza, violenti e non violenti.
Il voto non cambierà molto (anche se un esito diverso negli Usa avrebbe forse risparmiato al mondo una guerra in Iraq). Però con le elezioni avviene quel che capita con le «libertà formali» che non rendono davvero liberi, ma la cui assenza rende davvero schiavi. Così il voto ha scarsa influenza, ma le società che non votano stanno parecchio peggio. Accettiamo quindi di (ap)portare la nostra croce.

l'Unità 14.4.08
Uno studio italiano sui traduttori simultanei
La lingua madre non si scorda mai
di Nicoletta Manuzzato


Quando un bambino impara a parlare, non apprende solo ad associare un oggetto a un determinato suono, ma collega a questa forma sonora tutto un complesso di informazioni: le sensazioni che l'oggetto gli procura alla vista o al tatto, le emozioni che gli suscita (piacere, paura, repulsione), una serie di contenuti normativi (le proibizioni o le raccomandazioni degli adulti). Il cervello costruisce così le sue conoscenze del mondo, e queste resteranno per sempre legate alla lingua dell'infanzia. Crescendo, il bambino imparerà altre lingue, altri nomi con cui indicare lo stesso oggetto: ma si tratterà di un apprendimento puramente fonetico e ortografico. E per quanto possa approfondire lo studio di un idioma straniero, fino a confondersi con i nativi, il suo cervello sarà sempre pronto a tradire la sua vera origine.
Lo rivela una ricerca coordinata dalla professoressa Alice Mado Proverbio, docente di Elettrofisiologia cognitiva presso l'Università di Milano Bicocca, in collaborazione con il Cnr. Lo studio, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Biological Psychology, è stato condotto su quindici traduttori simultanei italiani, con una perfetta padronanza dell'inglese e una buona conoscenza del tedesco. A queste "cavie" è stata applicata una cuffia dotata di sensori, con lo scopo di registrare l'attività elettrica che avveniva nel loro cervello mentre leggevano una successione di parole nelle tre lingue. Gli sperimentatori hanno così potuto constatare che le cellule nervose preposte alla comprensione del linguaggio riconoscono ed elaborano in maniera differente le parole della lingua madre e quelle di lingue apprese dal soggetto dopo i cinque anni d'età. In particolare la prima onda d'attività, che appare sulla regione visiva sinistra del cervello dopo 150-200 millisecondi dalla presentazione di una parola, è di grandezza diversa a seconda dell'appartenenza o meno della parola stessa all'idioma nativo.
Al di là delle nuove acquisizioni sul funzionamento cerebrale, la ricerca si presta a interessanti applicazioni. Può fornire ad esempio un valido aiuto a persone in stato confusionale o colpite da amnesia e incapaci di ricordare la propria identità, dando indicazioni sulla loro lingua materna e dunque sulla cultura di provenienza.

l'Unità 14.4.08
Da «Nature» Un’inchiesta on line
Scoperta: gli scienziati si «dopano»


La pratica di assumere sostanze che «dopano» il cervello sembra essere più diffusa di quanto si pensa. Lo afferma uno studio compiuto dalla rivista Nature sui suoi lettori, da cui emerge che almeno il 20% di quelli che hanno risposto ai questionari fa uso di farmaci come il Ritalin. Le prime a far emergere il problema erano state due neuroscienziate dell’università di Cambridge qualche mese fa, con un articolo sempre su Nature. La rivista ha deciso di lanciare un questionario on-line sull’argomento raccogliendo 1400 risposte da 60 paesi. Uno su cinque di quelli che hanno risposto ha dichiarato di fare uso di farmaci che potenziano l’attenzione e miglioranole prestazioni intellettuali: metà di questi lo fa almeno una volta al mese, mentre l’altra metà una volta l’anno. Il Ritalin viene preso dal 62% del campione, e non ci sono sorprendentemente grosse variazioni nelle percentuali al variare dell’età. Il 34% degli intervistati compre il farmaco su Internet.

Repubblica 14.4.08
L'arcobaleno è un simbolo: via il disegno di uno scolaro


AREZZO - L´arcobaleno tracciato su un disegno dalla mano ingenua di un bambino, e rimasto affisso in un´aula adibita a seggio, richiama il simbolo di un partito e per questo deve essere rimosso. Lo ha preteso un rappresentante di lista del Pdl. L´episodio è avvenuto a San Giuliano, frazione del comune di Arezzo. Il rappresentante di lista ha fatto notare il disegno al presidente di seggio che lo ha fatto togliere.

Repubblica 14.4.08
Giacomo Balla
Portò l'Italia nell'arte contemporanea


Con Depero sviluppa i temi del movimento e del dinamismo delle forme
L´esposizione è scandita in cinque momenti che giungono agli anni Trenta
Senza di lui e Boccioni saremmo ancora ai laghettisti e ai montagnisti
Al Palazzo Reale di Milano, i suoi esordi divisionisti la fotografia il futurismo l´esplosione della luce e del colore

MILANO. In attesa che si celebri il secolo della nascita del Futurismo alle Scuderie del Quirinale, si odono già i primi rulli di tamburo. Filippo Tommaso Marinetti fu il vate del movimento, ma ebbe come dioscuri Umberto Boccioni e Giacomo Balla: una trinità che con forza immise, con un colpo d´ala, l´arte italiana tra le grandi protagoniste della modernità. Senza Boccioni e senza Balla, staremmo ancora a gingillarci con laghettisti e montagnisti come sarcasticamente scrisse il fondatore. Ma Boccioni era nato nel 1881 e morì assai giovane nel 1916, mentre Balla nato dieci anni prima ebbe una vita assai più lunga e morì nel 1958. Proprio attorno a quegli anni, dopo il "la" di Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, con Le due avanguardie, cominciò ad arare con coraggio e solerzia questa stagione e i suoi maggiori campioni: tutti gli dobbiamo gratitudine: nel tempo ebbe comprimari fino al ‘71 quando si tenne alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna, la prima grande monografica a cura di Giorgio De Marchis.
Ora Balla, sia per la maggiore età d´esordio rispetto al reggino sia per la longevità, è a tutti gli effetti con la sua opera, un eccezionale spaccato nell´arte del primo Novecento. I suoi esordi a Torino, all´Accademia Albertina, sono per intero collocabili nell´ambito divisionista anche se Balla condì subito questa poetica con un´attenzione particolare alla fotografia: suo padre era fotografo e l´arte nova per eccellenza appassionò e sedusse Giacomo, come si può ben vedere nel modo in cui scandì la sua tavolozza inclinando a toni monocromi e attingendo persino a quel pulviscolo che si scorge nelle cromolitografie e nelle foto dell´epoca. In Ritratto della moglie Elisa (1904) e nel coevo trittico Lavorano, mangiano, ritornano possiamo vedere a confronto questi due modi diversi di vivere la pittura: se la prima è debitrice della fotografia, la seconda è pregna della lezione postimpressionista e divisionista. La gaiezza della sua tavolozza s´evince in quel pannello con un cantiere che anticipa il Boccioni di Porta romana, della Città che sale e dell´Autoritratto: d´altronde Boccioni fu suo diretto allievo. Prima di trasferirsi a Roma Balla andò a Parigi dove dipinse tele ammiccanti e piene di verve: a Roma dopo il 1901 fu il suo studio ad accogliere Boccioni che lì familiarizzò con Severini, Sironi e Cambellotti.
La prima sala della mostra a Palazzo Reale (fino al 2 giugno), scandita in cinque momenti che giungono alla soglia degli anni Trenta, a cura di Giovanni Lista, a cui si deve denso contributo in catalogo (Skira), con Paolo Baldacci e Livia Velani ci dice con chiarezza, come (vedi quel memorabile Affetti) fosse ancora gozzaniana la vena di Balla torinese, prima dell´incontro con la luce di Roma che aveva incantato Claude Lorrain.
Il 20 febbraio del 1909 Marinetti pubblica il Manifesto futurista su Le Figaro. Balla vi aderirà l´anno successivo, ma con tanta convinzione ed energia da divenirne leader assieme al suo più giovane collega e con Severini, che, chissà perché, rimane sempre un po´ sacrificato. Sono infatti contemporanee le ricerche sulla scansione del movimento che attingono dalle precedenti o coeve immagini fotografiche - belle le pagine di Lista - per fissare il moto che in quegli anni si compiono in area inglese, francese e austro-tedesca. Compie due viaggi in Germania e l´esperienza non è senza esiti. Già dal 1912 e poi negli anni successivi Balla con il primo di questi dipinti Bambina x balcone prova a scandire le immagini, ancor più convincenti gli studi sul volo delle rondini così apparentato alle conofotografie di Marey: ma qui il soggetto realistico è ancora ben presente. In questi anni si nota con evidenza che Balla è un po´ fermo, produce assai poco, evidentemente è alla ricerca di una sua via. Il passo successivo e decisivo è l´annullamento del soggetto, lo spingersi cioè su una frontiera che è lui a perlustrare in isolamento anche rispetto ai suoi più giovani amici. Tutto si muove e Velocità d´automobile ne è segno evidente: la serie delle Velocità viene cronologicamente risistemata. Va lentamente così elaborando un suo linguaggio, sempre più pervaso di colore, ma scandito secondo un sistema geometrico che con le compenetrazioni iridescenti costituiscono uno stacco netto da qualunque influenza contemporanea. Sono ventagli, esplosioni di luce, vibrazioni prismatiche che ci fanno capire come Balla abbia familiarità con la grafica espressionista, ma l´abbia elaborate con colori sfacciati nella loro eloquenza luminosa. Con il Manifesto della ricostruzione futurista dell´Universo (1915) assieme a Depero - importante la mostra di Enrico Crispolti a Torino del 1980 - sviluppa i temi marinettiani del movimento e del dinamismo delle forme che deve avvolgere e coinvolgere tutto l´habitat: è l´inizio che lo porterà a elaborare Casa Balla. Il Pugno di Boccioni, poi nel tempo variamente elaborato, è un momento importante della sua concezione sintetica e dinamica: le ricerche sulle parole in libertà, la sua propensione alla musica, in sintonia con Russolo, per Giovanni Paisiello e l´amico Francesco Cangiullo, a cui dedica delle opere, l´accostano al teatro e alla scenografia.
S´intrecciano a questo punto le ricerche teosofiche e sullo spiritismo che Fabio Benzi in Balla. Genio futurista (Electa) con originali tratti mette a fuoco. Questo universo sensitivo, che pure affiora già nel manifesto di fondazione del movimento, viene ulteriormente indagato e ha conseguenze non irrilevanti nella pratica artistica. Sembra quasi che Balla, mai scalfito dall´alone cubista - a differenza di Boccioni, Carrà e Severini - vada alla ricerca di un al di là della forma. Indagine, che è anche propensione piena di passione per l´intervento nella grande guerra: evento a cui dedica numerose tele nelle quali i colori della bandiera italiana sono mescolati vorticosamente: la Manifestazione patriottica (1914) è forse la più intensa tra queste tele. Col tempo i colori non hanno più sbavature, sono campi netti, sono eliche nello spazio e nella luce: si dà il caso che le sue figlie si chiamino Elica e Luce e a loro si deve una ricca donazione alla Gnam. Nel corso degli anni Venti l´elaborazione originale di forme e colori subisce come un´accelerazione, invadendo non solo le cornici dei dipinti ma il suo studio e la sua casa. Dal primo Fiore futurista (circa 1920), scultura policromatica, si passa agli arredi della casa e dell´atelier in cui lavora e come un artigiano sapiente Balla costruisce con le sue mani. Una passione che l´accompagnerà per tutto il resto di una lunga e operosissima vita.

Repubblica 14.4.08
Goya e gli anni della guerra
Museo Nacional del Prado. Dal 15 aprile.


Madrid. Nel duecentesimo anniversario dell'inizio della Guerra di Indipendenza, il museo propone una grande esposizione dedicata al maestro spagnolo, che ruota attorno alle tele da lui eseguite il 2 e il 3 maggio del 1808, recentemente restaurate. La prima raffigura i cittadini che insorgono contro gli invasori francesi. La seconda, che rappresenta l'esecuzione dei patrioti, non è soltanto un quadro commemorativo di un drammatico episodio che aveva insanguinato la Spagna, ma è anche un documento che riassume la posizione del pittore e gli aneliti di una età di transizione. Con l'invasione delle truppe napoleoniche ha infatti inizio il periodo più travagliato della vita di Goya: in contatto con i circoli liberali favorevoli ai francesi, l'artista era nello stesso tempo testimone angosciato delle violenze e della brutalità del conflitto, delle sanguinose repressioni e del martirio del popolo, vicende che fissò in immagini crudeli e disperate nelle incisioni dei "Disastri della guerra" del 1810. Il percorso espositivo, che raccoglie duecento opere, tra dipinti, disegni e incisioni, prende avvio dagli ultimi anni del XVIII secolo e si conclude con il 1819, anno in cui l'artista dipinse la sua ultima opera pubblica.

Corriere della Sera 14.4.08
Almudena Grandes. Da Lulù al dopo Franco
«Indifferente e ricca: ecco la nuova Spagna»
di Elisabetta Rosaspina


Elisabetta Rosaspina Scrittrice Almudena Grandes, 47 anni, spagnola, resa celebre dal romanzo erotico «Le età di Lulù», scritto nel 1989

Se esistesse davvero, il mio personaggio lussurioso oggi sarebbe una quarantenne impegnata a ristrutturare la cucina di casa

Sondare il cuore gelato della Spagna l'ha lasciata più esausta delle prodezze erotiche della sua indimenticata Lulù. Vent'anni dopo aver scandalizzato (un po') il mondo, Almudena Grandes si misura con il tabù più coriaceo del suo Paese.

L'intervista «Io sto più a sinistra. Ma il governo ha fatto una buona cosa con la Legge sulla memoria della guerra civile»
«In questa Spagna di nuovi ricchi non c'è più spazio per l'erotica Lulù»
Almudena Grandes: «I socialisti? Poco solidali con gli immigrati»

La memoria del passato prossimo, la guerra civile, il franchismo, la transizione dalla dittatura alla democrazia e a una società che lei non trova esente da una punta di volgarità. Quella degli «arricchiti» troppo in fretta. «Ora sono una scrittrice generazionale », rivendica la sua nuova etichetta.
E Lulù? Che fine ha fatto Lulù?
«Si è imborghesita. Gli anni sono passati anche per lei, e il decennio degli '80 è finito da un pezzo, con le sue trasgressioni. Ora è una donna matura come tante. Lei non è più lei, io non sono più io e la Spagna non è più la Spagna». Pausa. Poi la mazzata finale alla sua fantasiosa e impudica lolita: «Oggi, se esistesse davvero, Lulù sarebbe una quarantenne occupata a rinnovare la cucina di casa». È la risposta standard con cui Almudena ama cementare, sorridendo, la tomba del suo erotismo letterario.
Dunque non riscriverebbe più «Le età di Lulù», il lussurioso romanzo che le ha aperto il mercato mondiale e l'ha rinchiusa negli asfittici scaffali della narrativa hard?
«Non lo riscriverei adesso. Ma è la storia migliore che potessi scrivere a 28 anni. Non mi sento prigioniera di Lulù. Già sei anni dopo, con Malena è un nome di tango, avevo svoltato da scrittrice erotica a femminista. Almeno qui in Spagna».
All'Hayfestival Alhambra di Granada, con il suo ultimo libro El corazón helado, il cuore gelato, 900 pagine di complessi intrecci tra il passato famigliare di Alvaro e quello di Raquel, costretti a fare i conti con i misteri e le opposte scelte politiche dei rispettivi nonni durante il franchismo, Almudena Grandes si è presentata come una «pre-historiadora», una pre-storica: «A volte — dice — penso di essere diventata una scrittrice perché mi sono sbagliata di professione. Avrei voluto studiare latino e mia madre mi suggerì: perché non fai la storica, che è un lavoro da ragazza? Ma io non ci pensavo nemmeno, a fare un lavoro da ragazza. A 12 anni, nel 1972, seppi che mia nonna aveva visto ballare Josephine Baker, con il suo gonnellino di banane, a Madrid. E cominciai a intuire che la mia vita sarebbe stata molto più simile a quella di mia nonna che di mia madre. Il franchismo ha l'enorme responsabilità di aver tagliato i ponti tra nonni e nipoti».
«Manuel Grandes, mio nonno, è stato il primo uomo della mia vita, il più importante. Il tema della memoria è sempre stato presente nei miei scritti, fin dall'inizio: Pablo e Lulù vanno a letto e poi parlano di Spagna, di dittatura e comunismo. El corazón helado non è un romanzo sulla guerra, è una storia mia, i personaggi sono miei, ma il tema no, mi appartiene solo in parte. È il grande nodo della mia generazione: la memoria ».
Lulù sta ristrutturando la cucina, Almudena Grandes racconta storie di Storia. E la Spagna che cosa è diventata?
«Una potenza economica. È stato un cambio così profondo da non essere sociologico, ma antropologico. La Spagna attuale si riflette in questo balzo. Ha perso i suoi complessi di inferiorità. Ma ha smesso di essere povera troppo in fretta. E ha tutti i difetti dei nuovi ricchi. A cominciare dal disprezzo e l'intolleranza per quelli che sono arrivati dopo».
Gli immigrati?
«Abbiamo cominciato a importare lavoratori molto in fretta. Da bambina, io non vedevo un solo nero in giro. Il cambiamento è stato improvviso e violento. Ma ignoriamo le nostre origini e siamo ingiusti con i nuovi arrivati, perché troppo compiaciuti di ciò che abbiamo raggiunto».
Comunque anche l'economia spagnola perde colpi...
«Era prevedibile. Colpa della crisi del mercato immobiliare. Tutti sapevano che il boom edilizio non era normale. Non c'era abbastanza gente per comprare tutte quelle case. Ma il peggioramento economico non cambia la dinamica sociale. Avrei preferito che l'ondata di benessere non fosse accompagnata da una così evidente mancanza di solidarietà».
Sostenitrice di Izquierda Unida, la formazione di origine comunista che alle ultime elezioni ha perso cinque seggi alla Camera su otto, Almudena Grandes è disposta a riconoscere tra i meriti del governo socialista, la legge della Memoria Storica: «L' importante è che esista, anche se dovrebbe essere migliorata. La Spagna è un Paese strano, anormale. Ha avuto una traiettoria diversa, antagonista rispetto agli altri Paesi europei del ventesimo secolo: qui c'era la guerra e in Europa non ancora. Qui vinsero quelli che avrebbero perso in Europa».
«La transizione è stata un grande successo istituzionale, ma un fiasco morale. Un successo, perché le istituzioni democratiche sono oggi più solide che mai. Ma, sul piano morale, ha rappresentato un tentativo brusco e senza argomenti di chiudere la storia con un patto del silenzio. Fallito. La mia generazione è arrivata alla maturità scontrandosi con questo silenzio. Tacevano i nonni che avevano combattuto per la Repubblica, perché era dura ricordare la disfatta. Tacevano i nonni che appoggiarono il colpo di Stato credendolo un richiamo all'ordine e non l'avvio di 40 anni di dittatura e isolamento. I padri sono stati educati nel silenzio e nel segreto. La transizione è stata come la riga tracciata per terra da Mary Poppins; e tutti siamo saltati dall'altra parte».
Non per tutti, in Spagna, il franchismo è stato un regime...
«La destra ancora non si decide a condannarlo. Perché la Spagna è l'unico Paese dell'Unione Europea in cui destra ed estrema destra sono assimilate. Se nei libri di testo, dopo 30 anni di democrazia, ancora si presenta la Repubblica come la causa della guerra civile e non la vittima, la destra è legittimata a non votare la condanna del franchismo in Parlamento. Ma tutto questo cambierà».
Izquierda Unida è ai minimi termini: non ha pensato di integrarsi nel partito socialista?
«No. Preferisco armarmi di pazienza. Sarà un lungo cammino, ci sarà da rifondare la coalizione, come ha fatto Oskar Lafontaine in Germania, partendo da un partito piccolo. Ma un programma che difenda gli spazi pubblici e l'integrazione degli immigrati è possibile e praticabile».
E chissà, magari la figlia di Lulù ha voglia di darsi alla politica. In Spagna, è il momento delle donne.

Corriere della Sera 14.4.08
Dialoghi Lo scienziato italiano e il fondatore della «grammatica generativa» esaminano i nuovi sviluppi delle discipline cognitive
Il cervello non è relativista
Pensiero e genetica, incontro tra Piattelli Palmarini e Noam Chomsky «Esistono componenti biologiche innate nella mente e nel linguaggio»
di Massimo Piattelli Palmarini


Piattelli Palmarini insegna Scienze cognitive all'Università dell'Arizona Nato nel 1928, Noam Chomsky è professore emerito di Linguistica al Mit
A livello profondo le strutture logiche mostrano una fondamentale semplicità

Sono appena usciti, negli Stati Uniti, due eccellenti dvd destinati ai corsi universitari, a cura del noto psicologo della Harvard University Howard Gardner. Uno è intitolato La mente di Noam Chomsky, l'altro Noam Chomsky: linguaggio e pensiero (www.classroommedia.
com). Osannato da alcuni come il Galileo delle scienze cognitive e il Copernico della linguistica, detestato da altri come un arido riduzionista delle squisite sottigliezze del linguaggio e della mente, una recente ricerca statistica ha rivelato che Chomsky, oggi ottantenne e sempre attivissimo, è l'intellettuale vivente più citato al mondo. Inoltre è stato il più noto e uno dei più inflessibili avversari della guerra in Vietnam, militanza che gli ha anche procurato brevi detenzioni nelle patrie galere. Le sue posizioni politiche di matrice anarchica sono ben note e non mi ci soffermerò qui. La lista di autori, di articoli e di libri anti chomskiani sarebbe molto lunga, ma bastino due recenti esempi: nel 2006, la psicologa inglese Margaret Boden pretendeva di smascherare «dieci miti su Chomsky». Dello stesso tenore, e con simili fraintendimenti ed errori, è un articolo appena pubblicato su Libero (martedì 1 aprile) a firma Lucio d'Arcangelo, intitolato «Vacilla il mito del linguista più scientifico del mondo».
Chomsky ha pazientemente e molto dettagliatamente, nel corso di decenni, ribattuto alle critiche e messo in evidenza gli errori e i fraintendimenti. Prima di dargli la parola in un'intervista in esclusiva sulle scienze cognitive, vorrei citare solo alcuni dati di fatto. Da molti anni leggo i lavori di grammatica generativa (così si chiama esattamente il filone di linguistica inaugurato da Chomsky intorno alla metà degli Anni Cinquanta), ho a suo tempo seguito dieci interi corsi semestrali di Chomsky al Mit e circa altri dieci di linguisti suoi colleghi e collaboratori. Ciò nonostante, non ho problemi ad ammettere che molti dettagli tecnici ancora mi sfuggono.
Il messaggio, qui, è che si tratta di una scienza immensamente complessa e profonda e che ogni ritocco a un'ipotesi, a una teoria, riverbera con inevitabili ritocchi su molte altre ipotesi e teorie e su dati già noti per varie lingue. Sbalordisco quando vedo criticata con sicumera la grammatica generativa da chi, con ogni evidenza, ne sa poco o niente. Un altro dato, diciamo, demografico: hanno contribuito a questa scienza, nel corso di mezzo secolo, circa duemila studiosi, in vari Paesi. Importanti ricadute della teoria e notevoli conferme sono venute anche da altri campi come la genetica, le neuroscienze, le simulazioni su calcolatori, le patologie del linguaggio, la psicologia animale. Formidabile è stato il potere di attrattiva di questa scienza su menti di straordinario calibro, su studiosi di matematica, fisica, ingegneria, scienze di calcolo e biologia. Questa comunità ha offerto, offre e continuerà a offrire una grande diversità di teorie, di ipotesi e di indirizzi, non di rado in aspra polemica, anche con lo stesso Chomsky, come è naturale che sia in una scienza viva e in incessante progresso. Vengo ora alla mia intervista.
Piattelli Palmarini — Se dovesse scegliere un'idea, un evento, un'ipotesi o un campo di ricerca che ritiene essere il più importante per la nascita delle scienze cognitive, quale sarebbe?
Chomsky — Penso che l'evento centrale sia stato riconoscere come i fenomeni mentali possano e debbano essere studiati come gli altri fenomeni naturali, non attraverso metodi per manipolare il comportamento, né osservandoli superficialmente, ma indagandone i meccanismi interni, quelli che sono alla base dei comportamenti e spiegano i dati osservabili.
Piattelli Palmarini — Ritiene giustificata l'espressione «rivoluzione cognitiva»?
Chomsky — C'è stato un cambiamento importante di prospettiva a partire dagli Anni Cinquanta. Sostanzialmente si è trattato di un recupero di intuizioni e riflessioni che risalivano al XVII e al XVIII secolo, ma che furono spinte in direzioni nuove. Non amo troppo il termine «rivoluzione», e ho sempre ritenuto che, se proprio lo si vuole adottare, quello che è successo negli Anni Cinquanta sia una seconda rivoluzione cognitiva.
Piattelli Palmarini — È d'accordo con me che due componenti sono state centrali: l'importanza e la complessità dei processi detti
bottom-up (cioè che procedono dal basso in alto, dai dati dei sensi al pensiero) e la modularità della mente, cioè la suddivisione della mente e del cervello in molte unità relativamente autonome?
Chomsky — Sì, ma mi chiedo se non siano conseguenze dell'aver adottato con successo un approccio biologico alla cognizione. Speculando un po', ho il sospetto che tra un secolo, guardando indietro verso il presente, si concluderà che la componente veramente centrale è stata la scoperta di un livello profondo. I processi mentali superiori mostrano, a questo livello, una fondamentale semplicità, forse il risultato di un'evoluzione biologica relativamente improvvisa e recente.
Piattelli Palmarini — Il titolo del mio libro usa l'aggettivo «classiche» per distinguere le scienze cognitive dal ritorno odierno di tendenze del passato, cioè modelli che vogliono ritornare a un'analisi generica, superficiale, statistica. Che ne pensa?
Chomsky — È certo che c'è, oggi, una pressione possente verso un ritorno allo studio dei fenomeni mentali in superficie, enfatizzando le differenze culturali, le stranezze, le frequenze statistiche. Perfino la fisica, fino a circa un secolo fa, era soprattutto basata su misure di fenomeni osservabili. Uno scienziato del calibro di Henri Poincaré riteneva che avessimo adottato l'ipotesi della natura molecolare dei gas solo perché ci sono familiari i rimpalli delle biglie, delle bocce e delle palle da biliardo. I principi della chimica erano ritenuti dai massimi studiosi essere solo utili semplificazioni di calcolo, senza una vera realtà fisica. C'è, quindi, una certa somiglianza con l'assurdo dogma che i processi mentali, se reali, debbano essere accessibili alla nostra coscienza (Chomsky ha polemizzato su questo per anni con il famoso filosofo americano John Searle, nda). Cercare, per i processi mentali superiori, teorie che siano genuinamente esplicative e non solo superficialmente descrittive rappresenta, con ogni evidenza, uno sforzo psicologico. Ci è difficile ammettere che ciò che sentiamo e pensiamo è il prodotto di meccanismi invisibili e di principi astratti, inaccessibili, se ci limitiamo a semplici induzioni e a piatte generalizzazioni.
Piattelli Palmarini — Le critiche anti chomskiane di Margaret Boden e del giornalista di Libero, tra gli altri, rivelano una forte resistenza ad ammettere che esiste una grammatica universale e delle forti componenti biologiche nel linguaggio e nel pensiero. Come mai le tendenze al relativismo e al generalismo cognitivo sono così diffuse e possenti?
Chomsky — Ho risposto recentemente in dettaglio a Margaret Boden e nel corso degli anni a tanti altri critici. Esiste, purtroppo, una forte tentazione a essere dualisti, cioè a ritenere che il mondo dei fenomeni naturali e il mondo della mente siano due settori distinti e separati. Anche coloro che non lo ammettono fino in fondo, cioè anche quando non sono dualisti in senso metafisico, lo sono in senso metodologico. Cioè non ammettono che gli stessi standard razionali di indagine delle normali scienze e gli stessi metodi di ricerca delle scienze possano essere applicati anche allo studio della mente. Sarebbe interessante capire perché il dualismo sia ancora oggi tanto diffuso. C'è un'assurdità nel rifiutare la grammatica universale, cioè nel rifiutarsi di ammettere che esiste una componente genetica della facoltà di linguaggio. Come ho cercato di mostrare in dettaglio per molti anni, se così fosse davvero, cioè se non esistesse questa componente innata, l'acquisizione del linguaggio nel bambino diventerebbe un miracolo.

Baldini Castoldi Dalai ha appena pubblicato il libro di Chomsky «Regole e rappresentazioni. Sei lezioni sul linguaggio» (pp. 542, e 18,50)
«Le scienze cognitive classiche: un panorama» è il titolo del saggio più recente di Piattelli Palmarini, uscito da Einaudi (pagine 534, e 23,50), a cura di Nicola Canessa e Alessandra Gorini