giovedì 17 aprile 2008

Repubblica 17.4.08
Sinistra Arcobaleno, un voto su due al Pd
I flussi elettorali
di Silvio Buzzanca


Di Pietro conserva il 26,1% del 2006 e raccoglie ovunque anche da Forza Italia e da An
Statico il voto di Berlusconi e Fini che però portano a casa l´80 per cento del voto del 2006

ROMA - La sinistra si è liquefatta nelle urne e più o meno metà dei suoi voti sono finiti nel carniere di Walter Veltroni e Antonio Di Pietro. E qualche cosa ha raccolto il Pdl di Silvio Berlusconi. I dati arrivano da una prima ricerca condotta da Consortium per Rai e Sky sui flussi elettorali. E i numeri non lasciano dubbi su dove sono finiti i voti che Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio avevano nel 2006. Il 40, 3 per cento dei voti di Rifondazione è passato al Pd. E il 6,3 per cento ha preso la via dell´Italia dei Valori. Il totale fa 46,9 per cento. Ancora più alto il dato che riguarda il Pdci. Il 48,1 per cento dei voti è finito a Veltroni e il 6,4 per cento a Di Pietro. Complessivamente si tratta del 55,5 per cento dei consensi dei comunisti italiani. Infine i Verdi. Al Pd è andato il 45,1 per cento e all´Idv l´11,3 per cento. La somma fa 56,4 per cento.
Secondo Piepoli, è rimasto fedele a Bertinotti il 38,4 degli elettori, a Diliberto il 20 per cento e a Pecoraro Scanio il 24,8 per cento. Ma ci sono voti migrati persino verso Berlusconi. Il 5,1 per cento dei rifondaroli, il 5,6 per cento dei comunisti e addirittura l´8 per cento dei verdi il 13 aprile ha scelto il Cavaliere. Infine, il tracollo è completato dal flusso di voti in uscita che si è diretto a sinistra. Marco Ferrando e il Partito comunista dei lavoratori hanno portato via solo lo 0,4 per cento a Rifondazione e l´1 per cento ai Verdi. Ma hanno "succhiato" l´11 per cento al partito di Diliberto. Sinistra Critica di Franco Turigliatto ha portato via il 5,4 per cento a Bertinotti, il 3,8 a Diliberto e il 2 per cento agli ambientalisti.
Questi i calcoli di Consortium dei voti in uscita dalla Sinistra Arcobaleno. Quelli sui voti in entrata gli fanno dire che siamo di fronte ad un Pdl "conservatore", un Pd "statico", un Di Pietro "raccattatore" e una Lega "vampira". E l´Udc, invece può essere definita "rimescolatrice". In concreto vuol dire che il 26 per cento dei voti di Di Pietro sono di elettori che lo avevano votato nel 2006. Il 36,3 per cento arriva invece da elettori che avevano votato l´Ulivo. Il 4,8 per cento aveva votato Forza Italia e il 3,5 per cento An. Un 6,4 per cento dichiara di avere votato nel 2006 Rifondazione e il 2,2 i Verdi. Insomma l´ex pm riceve contributi un po´ da tutti.
Il Pd presenta invece un nucleo "forte" del 63,9 per cento che conferma la scelta fatta nel 2006. Il 6,6 per cento è composto da elettori in arrivo da Rifondazione, il 2,2 viene dal Pdci, l´1,5 dai Verdi. Di Pietro cede invece solo l´1,6 per cento. E l´1,7 viene da chi nel 2006 aveva scelto la Rosa nel Pugno. Come se gli elettori radicali avessero accolto in gran parte l´appello di Pannella a votare Pd.
Questo apporto radicale sarebbe dietro anche al grande rimescolamento al centro. Il partito di Casini, infatti, avrebbe incassato il 13,6 per cento di voti da ex elettori ulivisti. Rifugiatisi da Casini forse per paura del "laicismo " radicale. Ma i centristi hanno portato via voti anche a Forza Italia, il 15,5 per cento, e ad An, il 7,2 per cento. E per completare la rivoluzione dell´elettorato centrista bisogna sottolineare che solo il 34,4 per cento del voto Udc arriva da elettori centristi del 2006. Infine Casini si è portato a casa un 2,4 per cento di voti da elettori orfani di Mastella.
Grande movimento anche fra gli elettori leghisti. Le indagini dell´Istituto Cattaneo dicono che Forza Italia e An hanno perso circa 800 mila nel Nord. Un dato confermato dagli studi di Piepoli. Nel bottino di Bossi il 30,3 per cento arriva da elettori che nel 2006 aveva votato Berlusconi e Fini: il 18,9 da Forza Italia e l´11,4 da An. Dati, come gli altri, sottostimati di uno o due punti, perché il 5,5 per cento del campione non ha dichiarato per chi ha votato. A dimostrazione della mobilità del voto leghista c´è da notare che solo il 45,4 per cento de risultato di è una conferma del voto del 2006. E ne conto un 2,9 per cento arriva da elettori ulivisti del 2006. Alla mobilità leghista corrisponde la fedeltà, la staticità del voto del Pdl. Quasi l´80 per cento del voto del Pdl è una conferma del 2006. In percentuale il 62 per cento proviene da elettori che nel 2006 avevano scelto il Cavaliere. E il 17,1 dei finiani.

Corriere della Sera 17.4.08
L'intervista. Il leader dell'estrema sinistra nella Cgil: l'Arcobaleno ha ottenuto zero
Cremaschi e il boom della Lega operaia: «Marxisti di destra. E Tremonti non sbaglia»
di Enrico Marro


Sindacato casta? Sì, come apparato con meccanismi di autoriproduzione, ma noi non abbiamo privilegi economici

ROMA — «Nel 2006 Prodi diventò presidente del Consiglio grazie al voto degli operai. Gli stessi che questa volta hanno scelto in massa la Lega, mandando a Palazzo Chigi Berlusconi». Per Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom e capo della minoranza di estrema sinistra della Cgil, «il successo della Lega era nell'aria, bastava girare nelle fabbriche».
Perché gli operai hanno scelto il partito di Umberto Bossi?
«Lo avevano già fatto nel 2001. È un voto di protesta che dice ai partiti di sinistra: "Non vi siete occupati di noi". Il segnale c'era già stato con i fischi dell'assemblea di Mirafiori del 7 dicembre 2006».
Ma perché proprio la Lega?
«Perché assomiglia di più a un partito marxista-leninista: ha una fortissima identità ma al tempo stesso un grande pragmatismo».
Solo per questo?
«No. La Lega dà una forte risposta, sia pure di destra, a chi si sente minacciato dalla globalizzazione. E nel centrodestra il libro di Tremonti, anche se un po' spregiudicato, è però intelligente».
Lei è d'accordo con Tremonti?
«Condivido il giudizio negativo su quello che lui chiama mercatismo e io preferisco chiamare liberismo, ma non le proposte».
Se tutti questi operai che prima votavano per la sinistra ora scelgono la Lega, significa che la Lega è di sinistra?
«No. Anche un partito di destra può essere un partito popolare».
Allora gli operai sono diventati di destra?
«No. Sono rimasti di sinistra ma hanno punito chi li ha traditi».
Anche la Sinistra arcobaleno?
«Era la forza politica meno credibile. Aveva portato in piazza un milione di persone su salari e precarietà, ma nel governo ha ottenuto zero. Poi ha commesso anche delle stupidaggini, come lo slogan "Anche i ricchi piangano"».
Ma non hanno votato neppure per Marco Ferrando e per i partiti della falce e martello.
«Gli operai non votano per formazioni elitarie».
Rosi Mauro, segretario del sindacato della Lega, dice che il Carroccio ha sempre interpretato i bisogni operai, ma che il suo sindacato è stato discriminato.
«Rosi Mauro me la ricordo fin da quando, molti anni fa, era una delegata della Uilm. Il Sinpa non ha mai sfondato perché fare sindacato non è una cosa semplice. Detto questo, chiunque oggi dice "Mettiamo alla prova la rappresentatività del sindacato" fa una cosa giusta. Non si deve nemmeno avere il sospetto che il gioco sia truccato».
E quindi?
«Se il governo fa una legge sulla rappresentatività sindacale, anche se per fini diversi dai miei, mi sta bene. Ci vogliono elezioni delle Rsu senza quote riservate a Cgil, Cisl e Uil. Ci vuole un rinnovo periodico delle deleghe, ogni 3-4 anni. E infine regole per garantire che il finanziamento sia trasparente».
Che linea deve avere la Cgil?
«La deve decidere un congresso. So che la mia posizione è ultraminoritaria, ma sono per una Cgil conflittuale. Ma non quella di Cofferati del 2002-2003. Non dobbiamo fare la grande opposizione politica a Berlusconi, ma tornare nelle fabbriche e batterci per il salario».
Ma dove la vede tutta questa voglia di conflitto? Il voto ha punito le forze antagoniste.
«Un operaio può votare Lega e fare tantissimi scioperi. Dopo l'autunno caldo, alle amministrative del 1970 a Mirafiori il primo partito risultò la Dc. Gli operai hanno votato Lega, ma se Berlusconi e Confindustria non aumenteranno loro i salari, il conflitto scoppierà».
Perché invece i dipendenti pubblici continuano a votare in maggioranza per il Pd?
«Perché si sentono più tutelati. Nel sindacato si deve aprire una discussione vera su questo. Non voglio fare i discorsi di Ichino sui fannulloni, ma nel mondo del lavoro convivono sacche di privilegio accanto a condizioni inaccettabili».
Il sindacato è una casta?
«Sì se ci si riferisce a un apparato di 20 mila persone e ai suoi meccanismi di autoriproduzione, no se si allude a privilegi economici. Io prendo 2 mila euro al mese e quando incontro un segretario nazionale del sindacato tedesco o inglese che guadagna 5-6 volte tanto mi prende per un pezzente».
Senta, ma non sarà che alla fine il sindacato non rappresenta più gli operai, ma soprattutto dipendenti pubblici e pensionati?
«I pensionati hanno un peso abnorme e danno al sindacato una connotazione di lobby politico-sociale alla quale non corrisponde una forza sindacale».

Repubblica 17.4.08
"La Spagna è laica, non giurare sulla Bibbia"


MADRID - Perché in una Spagna che si professa sempre più laica e moderna i ministri giurano o promettono la fedeltà alla Costituzione dinanzi a una Bibbia e a un crocifisso? Lo chiede il quotidiano El Pais a due giorni dall´insediamento del nuovo governo in una lunga analisi dal titolo "La croce resiste nella Spagna laica", ricordando che il protocollo dei giuramenti risalente al 1979 non fa alcun cenno ai simboli religiosi.

Repubblica 17.4.08
68 a ciascuno il suo
Si apre oggi il Festival della filosofia
di Slavoj Zizek


"Come rivoluzionari, voi siete dei pazzi che chiedono un nuovo padrone e lo avrete" disse Lacan agli studenti, cogliendo l´ambiguità del Maggio
"Le strutture non camminano per strada" è una delle frasi più famose di allora
Il nuovo spirito del capitalismo ha saputo recuperare la retorica antigerarchica
Nicolas Sarkozy ha detto che vuol far superare alla Francia l´eredità di quegli anni

Quattro giorni all´Auditorium
Pubblichiamo un intervento di Slavoj Zizek che sarà ospite, con una lectio magistralis, del Festival della Filosofia: quattro giornate, da oggi al 20 aprile all´Auditorium - Parco della Musica per rileggere con gli occhi di oggi il Sessantotto a quarant´anni di distanza.
Con il titolo «Sessantotto-Tra pensiero e azione» infatti si apre la terza edizione della manifestazione. Quattro lectio magistralis, dodici tavole rotonde, tre incontri speciali, quattro "contrappunti", tre caffè letterari che vedranno, intellettuali e artisti di oggi a confronto con alcuni dei protagonisti dell´epoca, tra cui, Achille Bonito Oliva, Furio Colombo, Claudio Petruccioli, Luca Sofri, Luis Sepulveda, Ettore Scola, Bernardo Bertolucci, Mogol, Eugenio Scalfari (con "Svolte d´epoca"), Sergio Staino, Oliviero Toscani, Franco Volpi, Daniel Cohn-Bendit, Erica Jong, Giulio Giorello, Ascanio Celestini, Lidia Ravera, Massimo Donà, Franco Piperno. All´inaugurazione ci saranno anche il presidente e l´amministratore delegato della fondazione «Musica per Roma», Gianni Borgna e Carlo Fuortes, e i curatori scientifici del Festival, Giacomo Marramao e Paolo Flores d´Arcais. A seguire l´incontro «Dalla critica alle armi? Il Sessantotto e il problema della violenza» con Roberto Esposito, Massimiliano Fuksas, Toni Negri, Oskar Negt, Peter Schneider, Pere Vilanova.


Nel Sessantotto una delle frasi più famose apparse sui muri di Parigi fu: «Le strutture non camminano per strada!», espressione che non giustifica le grandi dimostrazioni di studenti e di lavoratori del Sessantotto in termini di strutturalismo (il che chiarisce perché alcuni storici arrivino addirittura a considerare il 1968 come lo spartiacque tra lo strutturalismo e il post-strutturalismo, che fu - così si dice - molto più dinamico e incline a interventi di politica attiva). La risposta di Jacques Lacan fu che nel 1968 in verità era accaduto proprio questo: «Le strutture scesero in strada davvero». I palesi eventi esplosivi furono in definitiva l´esito di uno squilibrio strutturale; per dirla con le parole di Lacan furono l´esito del passaggio dal discorso del Padrone al discorso dell´Università.
In che cosa consiste di preciso questo passaggio? The New Spirit of Capitalism di Boltanski e Chiapello lo esamina in dettaglio, con particolare attenzione alla Francia. Abbracciando il metodo weberiano, il libro distingue tre «spiriti» consecutivi del capitalismo: il primo spirito del capitalismo, imprenditoriale, durò fino alla Grande Depressione degli anni Trenta; il secondo spirito del capitalismo prese a proprio ideale non l´imprenditore bensì il dirigente stipendiato di una grande azienda. Dagli anni Settanta in poi, invece, andò emergendo una nuova figura di «spirito del capitalismo»: il capitalismo abbandonò la struttura gerarchica di stampo fordista del processo di produzione e sviluppò una forma di organizzazione basata su una struttura a rete che si reggeva sull´iniziativa e l´autonomia del lavoratore dipendente sul posto di lavoro. Invece di una catena di comando centralizzata e gerarchica, si diffusero strutture a rete formate da una moltitudine di partecipanti, che organizzavano il lavoro sotto forma di team o di progetti, mirando a soddisfare la clientela, e vi fu una generale mobilitazione dei lavoratori grazie alla visione dei loro leader. In questo modo il capitalismo si è trasformato e legittimato come un progetto egalitario: per mezzo di un´accresciuta interazione autopoietica e di un´auto-organizzazione spontanea, arrivò perfino a usurpare il linguaggio dell´estrema Sinistra dell´auto-gestione dei lavoratori e da slogan anticapitalista che era ne fece uno slogan capitalista.
Un´intera sequenza di eventi storico-ideologici andò così creandosi, nella quale il Socialismo appare conservatore, gerarchico, amministrativo, tanto che la lezione del Sessantotto è «Good-bye, Mr Socialism», «Addio, Socialismo!» e la vera rivoluzione è quella del capitalismo digitale. Questo capitalismo è la logica conseguenza, la «verità» della rivoluzione del 1968. Le proteste anticapitaliste degli anni Sessanta integrarono la critica consueta dello sfruttamento socioeconomico con argomenti di critica culturale: l´alienazione della vita di tutti i giorni, la mercificazione dei beni di consumo, la mancanza di autenticità di una società di massa nella quale «si indossano maschere» e si subiscono oppressioni sessuali e di altra natura.
Il nuovo spirito del capitalismo in modo trionfante recuperò la retorica egalitaria e antigerarchica del 1968, presentandosi come una rivolta libertaria di successo contro le organizzazioni sociali oppressive del capitalismo delle corporation e anche contro il socialismo «reale, esistente»: questo nuovo spirito libertario è incarnato dai capitalisti «disinvolti», vestiti alla buona, come Bill Gates e i fondatori del gelato «Ben and Jerry».
La scommessa di Michael Hardt e Toni Negri è che questo nuovo spirito è già di per sé Comunista: come Marx celebrano il potenziale rivoluzionario «de-territorializzante» del capitalismo; come Marx individuano la contraddizione all´interno del capitalismo, nel divario esistente tra questo potenziale e la forma del capitale (l´appropriazione da parte della proprietà privata del surplus). In breve, riabilitano il vecchio concetto marxista di tensione tra forze produttive e relazioni della produzione: il capitalismo genera già «i germi della futura forma di vita nuova», produce incessantemente il nuovo «terreno comune», così che in una esplosione rivoluzionaria, questo Nuovo dovrebbe essere svincolato dalla vecchia forma sociale. Non stupisce che Negri di recente stia sempre più apprezzando il capitalismo digitale «postmoderno», affermando che esso è già Comunista, e che occorrerà soltanto poco, una spintarella, un gesto puramente formale, perché divenga apertamente tale. La strategia di base dell´odierno capitalismo consiste nel coprire la propria superfluità, trovando un nuovo modo per sussumere nuovamente la libera moltitudine produttiva.
L´ironia è che Negri si riferisce qui al processo che gli stessi ideologi dell´odierno capitalismo «postmoderno» celebrano in qualità di passaggio dalla produzione materiale alla simbolica, dalla logica centralista-gerarchica alla logica dell´auto-organizzazione autopoietica, della collaborazione multi-centrica, e così via. Negri qui è in effetti fedele a Marx: ciò che si sforza di dimostrare è che Marx aveva ragione, che l´ascesa dell´«intelletto generale» è incompatibile a lungo termine con il capitalismo. Gli ideologi del capitalismo postmoderno stanno facendo un´affermazione diametralmente opposta: è la teoria marxista (e la pratica marxista) stessa a restare nell´ambito delle costrizioni della logica gerarchica centralizzata a controllo statale, e pertanto non può affrontare gli effetti sociali della nuova rivoluzione informazionale.
Ci sono buone ragione empiriche a conferma di questa affermazione: ancora una volta, il paradosso storico è che la disintegrazione del Comunismo è l´esempio più convincente della validità della tradizionale dialettica marxista tra forza di produzione e rapporto di produzione, sulla quale il marxismo fece affidamento nel suo tentativo di rovesciare il capitalismo. A nuocere definitivamente ai regimi comunisti è stata la loro stessa incapacità ad adattarsi alla nuova logica sostenuta dalla «rivoluzione informazionale»: hanno cercato di pilotare questa rivoluzione come un qualsiasi progetto su larga scala di pianificazione statale centralizzata. L´assurdo, pertanto, è che ciò che Negri esalta come una chance irripetibile per rovesciare il capitalismo, gli ideologi della «rivoluzione informazionale» lo esaltano come l´ascesa del nuovo capitalismo «privo di attriti».
Ma il passaggio a un altro spirito del capitalismo fu davvero tutto ciò che accadde negli eventi del ‘68, così che tutto l´euforico entusiasmo per la libertà in realtà non fu altro che un mezzo per sostituire una forma di dominio con un´altra? Ricordiamo le parole di sfida lanciate da Lacan agli studenti: «Come rivoluzionari, voi siete dei pazzi che chiedono un nuovo padrone. E lo avrete». Pur avendo ragione, il Sessantotto fu un evento unico oppure fu uno strappo, e anche ambiguo, nel corso del quale varie tendenze politiche lottarono tra loro per l´egemonia? Ciò spiegherebbe il fatto che mentre l´ideologia egemonica si appropriò magnificamente del Sessantotto come di un´esplosione della libertà sessuale e della creatività anti-gerarchica, Nicholas Sarkozy ha detto nella sua campagna elettorale del 2007 che suo compito è quello di far finalmente superare alla Francia il Sessantotto. Pertanto c´è un «loro maggio ‘68» e un «nostro maggio ‘68» nel nostro odierno ricordo ideologico, la «nostra» idea di base delle dimostrazioni di quel maggio, mentre il collegamento tra le proteste studentesche e gli scioperi dei lavoratori è dimenticato.
Della liberazione sessuale degli anni Sessanta è sopravvissuto il tollerante edonismo facilmente incorporato nella nostra ideologia egemonica. L´imperativo del superego di divertirsi pertanto funge da esatto contrario del «Du kannst, denn du sollst!» (Puoi, quindi devi!) di Kant, diventa un «Devi perché puoi!». Ciò significa che l´aspetto del superego dell´edonismo odierno «non-repressivo» (le incessanti provocazioni alle quali siamo esposti, che ci impongono di andare fino in fondo e di esplorare tutti i modi possibili di godimento, di jouissance) risiede nel modo in cui la jouissance necessariamente si trasforma in una joiussance obbligatoria. Questo impulso al puro godimento autistico (per mezzo di sostanze stupefacenti o di altri metodi che inducono uno stato di trance) si affermò in un momento politico preciso: allorché la spinta emancipatrice del 1968 esaurì il suo potenziale. In quel periodo critico (la metà degli anni Settanta) l´unica opzione rimasta era il passaggio all´azione diretta, brutale, una spinta verso la Realtà che assunse tre forme principali: la ricerca di forme estreme di jouissance sessuale; il terrorismo politico di sinistra (con la Raf in Germania e le Brigate Rosse in Italia, e così via, la cui scommessa era che in un´epoca in cui le masse erano totalmente immerse nel sonno ideologico capitalista, la critica consueta dell´ideologia non era più operativa, così che soltanto il ricorso alla cruda Realtà della violenza diretta - l´azione diretta - poteva risvegliare le masse); e infine la svolta verso la Realtà di un´esperienza interiore (il misticismo orientale). In comune, tutte e tre erano caratterizzate da una medesima estraniazione da un impegno concreto socio-politico in un contatto diretto con la Realtà.
Questo cambiamento dall´impegno politico alla Realtà post-politica è forse esemplificato al meglio dai film di Bernardo Bertolucci, un rivoltoso accanito, e in particolare dall´evoluzione delle sue opere, dai suoi primi capolavori quali Prima della rivoluzione ai suoi più recenti cedimenti estetico-spiritualisti, come il tremendo Piccolo Budda. Questo percorso ha compiuto un giro completo con I sognatori, l´ultimo film di Bertolucci sul Sessantotto parigino, nel quale una coppia di studenti, fratello e sorella, e un giovane studente americano di passaggio stringono una profonda amicizia nel turbinio degli eventi per poi separarsi, alla fine del film, perché i due francesi restano invischiati nella violenza politica mentre l´americano rimane fedele al messaggio di amore e di libertà passionale.
Infine, il grande interrogativo: se, come afferma Alain Badiou, il Maggio 1968 è stato la fine di un´epoca, che ha segnato (insieme alla rivoluzione culturale cinese) il consumarsi definitivo di una grande successione di rivoluzioni politiche iniziate con la Rivoluzione d´Ottobre, oggi dove ci collochiamo? Siamo tra coloro che ancora contano su - e con un´alternativa radicale - un capitalismo egemonico democratico parlamentare, costretti ad estraniarci e ad agire da diversi «siti di resistenza» oppure possiamo ancora concepire un intervento politico più radicale?
Questo è il vero lascito del Sessantotto: al cuore del Sessantotto ci fu il rifiuto del sistema liberal - capitalista, un grande NO alla sua totalità, meglio esplicitato nel famoso slogan: «Cerchiamo di essere realisti, chiediamo l´impossibile!». La vera utopia è credere che il sistema globale esistente possa riprodursi all´infinito; l´unico modo di essere veramente «realisti» è pensare a cosa, nell´ambito delle coordinate di questo sistema, non possa sempre apparirci impossibile.
(Traduzione di Anna Bissanti)

Corriere della Sera 17.4.08
Risoluzione Voto del Consiglio d'Europa
«Garantire sempre il diritto all'aborto»
di Maria Serena Natale


STRASBURGO — È la prima volta che un'organizzazione internazionale definisce l'aborto «un diritto della donna ». Con 102 voti contro 69, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa riunita a Strasburgo ha approvato ieri la risoluzione che raccomanda la depenalizzazione dell'interruzione di gravidanza a quanti tra i 47 Stati membri non abbiano già provveduto e la rimozione di qualsiasi restrizione che « de jure o de facto ostacoli l'accesso a un aborto sicuro» compromettendo «l'effettivo esercizio del diritto delle donne ad abortire»: il testo, presentato dalla socialista austriaca Gisela Wurm, non ha valore giuridico vincolante ma segna una svolta teorica nell'ambito della più antica istituzione paneuropea, chiamata a vigilare sul rispetto dei diritti umani nel continente.
Sottoposto a 72 emendamenti in quattro ore di acceso dibattito, il documento stabilisce che l'aborto non può essere strumento di politiche di pianificazione familiare e resta una decisione «da evitare, per quanto possibile: occorrerà utilizzare ogni mezzo per ridurre il numero sia delle gravidanze che degli aborti non desiderati»; a tal fine, gli Stati sono invitati a garantire libero accesso alla contraccezione e, per le giovani generazioni, a un'educazione sessuale completa. «Non è più possibile abbandonare la donne al proprio destino esponendole a traumi e gravi pericoli — dice al Corriere l'onorevole Wurm —, non c'è contrapposizione tra i loro diritti e i "diritti umani". Il movimento "Aborto no grazie" in Italia? Non ne so molto, ma azzarderei un paragone con battaglie culturali simili lanciate in altri Paesi europei, miranti, in ultima istanza, a rivedere le condizioni imposte dalle legislazioni nazionali e quindi ridurre le possibilità di abortire». In tutti i Paesi europei l'interruzione di gravidanza è consentita in caso di grave pericolo per la madre, nella maggioranza degli Stati la legge ammette anche altre ragioni (come il pericolo di malformazioni per il feto) e fissa dei limiti temporali; fanno eccezione Irlanda, Polonia, Malta, Monaco e Andorra, dove l'aborto è illegale.
Aspra l'opposizione dei gruppi di centro-destra che hanno partecipato al dibattito in Aula, allarmati di fronte a «un forte sbilanciamento della discussione a detrimento del diritto alla vita del nascituro », nelle parole del deputato italiano di Forza Italia e Ppe Claudio Azzolini.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Lancet nel 2007, nel mondo una gravidanza su cinque si conclude con un aborto.

Corriere della Sera 17.4.08
Destini. Esce una raccolta dello scrittore che ha nascosto fino alla morte le sue origini di colore
Il segreto nero del genio bianco
Storia di Anatole Broyard, personaggio della «Macchia umana» di Philip Roth
di Livia Manera


Nel romanzo La macchia umana di Philip Roth c'è un momento memorabile in cui il protagonista Coleman Silk, un uomo vigoroso vicino ai settant'anni, nel mezzo di una conversazione a casa propria con l'anziano e ben più malconcio amico scrittore Nathan Zuckerman, gli dice: «Vieni. Balliamo». «Che diamine, ho pensato, presto saremo morti tutti e due, e così mi sono alzato, e là nel portico Coleman Silk e io abbiamo cominciato a ballare il fox trott insieme. Lui conduceva, e io, alla meglio, seguivo... C'era una sincerità semiseria nel suo modo di portarmi in giro sul pavimento di pietra, per non parlare di una deliziosa sensazione di spensieratezza per il solo fatto di essere vivi, accidentalmente e ridicolmente e per nessuna particolare ragione vivi... ».
Quando otto anni fa uscì La macchia umana,
ogni recensore americano scrisse di aver riconosciuto nel personaggio di Coleman Silk lo scrittore e critico letterario Anatole Broyard, morto dieci anni prima: uno degli uomini più colti, attraenti, ironici e dotati di grazia virile che l'America avesse conosciuto.
Un ballerino naturale, come Coleman Silk. E come lui «estroverso, spiritoso, levigato e muscoloso seduttore...». Uno che aveva vissuto e insegnato molti anni in una cittadina del New England, come il protagonista della Macchia umana. E che come lui si era dannato tutta la vita per un segreto. Era un nero che era riuscito a passare per bianco.
Qui però le somiglianze finivano, perché il protagonista del romanzo di Roth era «diventato» anche ebreo e Anatole Broyard questo ulteriore passaggio se lo era risparmiato. Quanto a Philip Roth, reagì ai commenti della critica con la medesima insofferenza con cui ha sempre liquidato suggerimenti analoghi — che nel Lo scrittore fantasma Bernard Malamud fosse il modello di E.I. Lonoff e Saul Bellow quello di Felix Abravanel; la sua ex moglie Claire Bloom fosse l'attrice di Ho sposato un comunista, Nathan Zuckerman fosse il proprio alter ego, e si potrebbe continuare all'infinito. Del resto, come ha scritto Joan Didion, «Uno scrittore si vende sempre qualcun altro». Quanto ad Anatole Broyard, morto a settant'anni nel 1990, da noi è ancora sconosciuto se non per l'abbozzo di memorie Furoreggiava Kafka (Sylvestre Bonnard). Ed è anche per questo che è da salutare con interesse l'uscita nella Bur Original di La morte asciutta (postfazione di Francesco Rognoni, traduzione di Monica Pareschi, pp.130, € 8,60), un libro che contiene la sua riflessione di carattere autobiografico «Il paziente esamina il dottore», la short story «Pranzo domenicale a Brooklyn» e il racconto romanzato della discesa nella morte del padre di Broyard, «Quel che disse il citoscopio», che nel 1954 gli procurò la fama e un moto di ammirazione di Norman Mailer — «Correrei a comprare un romanzo di questo scrittore il giorno stesso che uscisse» — che equivalse a una sentenza di morte. Perché Anatole Broyard quel romanzo non riuscì a scriverlo mai. Tutto qui, quindi? Nemmeno per idea. Perché Broyard è stato l'oggetto di un grande revival negli ultimi mesi. In parte perché il più importante intellettuale nero d'America, Henry Louis Gates Jr, gli ha dedicato uno dei suoi documentari sulla storia dei neri americani. E in parte perché sua figlia Bliss Broyard ha pubblicato un magnifico memoir, One Drop, che sembra scritto per elaborare lo shock di ciò che ha appreso soltanto a ventiquattro anni, sul prato davanti all'ospedale in cui suo padre stava morendo, quando sua madre Sandy disse a lei e a suo fratello: «Credo sia meglio che vi dica il suo segreto. Vostro padre è in parte nero». I ragazzi scoppiarono in una risata di sollievo. «Questo sarebbe il suo gran segreto? Avere un po' di sangue nero?». Ma quel «po'» era un eufemismo, buono per giustificare qualche voce che nell'ambiente era girata.
Gli americani hanno una parola per il fenomeno dei neri che fanno il salto di razza: passing. Bliss Broyard racconta che durante la Depressione degli anni '30 alcuni, come il suo nonno muratore Paul, vi furono costretti per trovare lavoro, ma rimasero lo stesso legati alle loro famiglie e al loro ambiente e furono protetti dall'omertà degli altri neri. Altri, come Anatole, lo fecero invece per costruirsi una nuova identità. E questo comportava un taglio definitivo col passato. Fu così che nel 1948 Anatole Broyard, reduce dalla guerra nel Pacifico, figlio di genitori neri, fratello di due donne nere, marito di una donna nera e padre di una neonata nera, entrò da uomo nero nella stazione della metropolitana del suo quartiere a Brooklyn e uscì nel Greenwich Village bianco. Aprì una libreria, entrò in contatto con gli scrittori del momento, si laureò grazie alle facilitazioni per i reduci di guerra, e non guardò più indietro. Nathan Zuckerman ne La macchia umana
ha solo ammirazione per la ferocia «degna dell'Iliade » della stessa scelta fatta da Coleman Silk. E siccome quella scelta implicava anche una certa dose di razzismo, Anatole Broyard attraversò gli anni '60 senza una parola di simpatia per il movimento per i diritti civili. Si sposò a quarant'anni con la bellissima e biondissima Sandy Nelson, di origine norvegese, ebbe due figli chiari di pelle, Bliss e Todd, divenne critico letterario del «New York Times», insegnò all'università, andò a vivere nella parte più bianca e ricca del Connecticut e si iscrisse a uno yacht club che non ammetteva neri. E tutto questo lo fece, nell'opinione di Bliss Broyard, di Henry Louis Gates Jr. e di quasi tutti coloro che gli furono amici, perché voleva essere uno scrittore. E non, come gli scrittori di colore della sua epoca, «uno scrittore nero». Ma è proprio qui, nel paradosso implicito in questa scelta, che il grande ballerino del Greenwich Village inciampò e non riuscì più a rialzarsi. Perché Anatole Broyard era uno scrittore autobiografico. E l'essere costretto a nascondere una parte imprescindibile si sé come le proprie origini, finì per impedirgli di scrivere il grande romanzo per cui aveva venduto l'anima. «Credo che dovremmo ordinare qualcosa da mangiare per gli amici che stanno arrivando», disse a sua moglie in ospedale, poco prima di sprofondare nel coma finale. «Ci vorranno del formaggio, dei crackers, e Faust». «Faust?» gli chiese Sandy. E lui, malgrado tutto ancora ironico, le spiegò: «Sai quel tipo del patto faustiano, che non può aver pace finché ogni cosa non è rivelata...».
Scene di vita quotidiana di una famiglia di borghesi neri in un quadro di Jacob Lawrence (1943, Corbis) Anatole Broyard è morto nel 1990 a settant'anni.
Nella Bur è appena uscito il volume autobiografico «La morte asciutta» Philip Roth, 75 anni, ha scritto la trilogia «Pastorale americana», «Ho sposato un comunista », «La macchia umana» (editi da Einaudi)

l’Unità 17.4.08
Carpaccio, uno psicoanalista a colori
di Gaspare Polizzi


UN GRANDE INTELLETTUALE ci racconta il viaggio interiore intrapreso contemplando i nove quadri della Leggenda aurea di Jacopo da Varagine dipinta dall’artista nella cappella degli Schiavoni a Venezia

Michel Serres, accademico di Francia, professore alla Stanford University, è uno tra i principali pensatori del nostro tempo. Il suo percorso di ricerca, condensato in 44 volumi, si è avviato nel 1969, con un ambizioso progetto di filosofia della comunicazione, verso un «passaggio di Nord-Ovest» (felice metafora che indica il difficile e tortuoso passaggio dalle scienze naturali alle scienze umane). La sua opera fa perno sulla considerazione dell’avvenuta svolta epocale che dal mondo della produzione e dell’industrialismo (o di Prometeo) ha condotto a quello della comunicazione e dei messaggi (o di Ermes). Serres mira a costruire una nuova cultura della comunicazione e dello scambio che unisca insieme le scienze, le arti, le leggi e le religioni in una «nuova alleanza» e in un nuovo «patto naturale e morale» tra uomini e natura; una cultura in armonia con i nostri saperi, un «nuovo umanesimo» che acceda all’universale.
L’ultimo suo libro - Carpaccio les esclaves libérés («Carpaccio gli schiavi liberati»), Le Pommier, Paris 2007 - torna su un autore e su un motivo coltivati fin dal 1975 (Esthétiques. Sur Carpaccio, Paris, Hermann, 1975; tradotto in italiano da Hopeful Monster, Firenze, nel 1990), ripercorrendo in chiave antropologica, culturale ed evolutiva la leggenda «aperta» depositata nei nove quadri della Cappella veneziana degli Schiavoni, che Carpaccio lesse dalla Leggenda aurea di Jacopo da Varagine. Gli abbiamo posto qualche domanda su questa sua ultima opera.
Più di trent’anni fa avete scritto un libro intrigante a partire da Carpaccio: «Esthétiques. Sur Carpaccio», «un viaggio nell’alfabeto delle forme e del cromatismo», nel quale c’era molta geometria, c’era molta attenzione alle strutture dello spazio e dei colori. Come mai un nuovo Carpaccio?
«Le mie Esthétiques sur Carpaccio descrivevano soltanto alcuni quadri della Cappella degli Schiavoni di Venezia, senza tener conto della loro connessione. Ritornato sul posto, ho avuto l’intuizione che la serie raccontasse una o più storie: non soltanto il triplo ciclo dei santi dalmati, Giorgio, Trifone e Gerolamo, ai quali era devota la confraternita lì riunita, ma un gesto completo di iniziazioni, di conversioni, forse personali, senza dubbio collettive, ancora più profonde, credo; in ogni caso, dei racconti, che ho cercato di riproporre».
Inizia così il suo itinerario intorno ai nove splendidi «teleri» del ciclo di Carpaccio. Ma perché «Schiavi liberati»?
«I quadri della Scuola degli Schiavoni raccontano - non l’avevo compreso finora - come si trasformano la spada in spina, l’odio in sofferenza, la paura in dolore, la lotta in malattia, la vittoria o la disfatta, equivalenti, in terapia e guarigione: la schiavitù in libertà».
Scrive anche che questa sua nuova visita alla Cappella degli Schiavoni è stata una forma di «psicoterapia».
«È ciò che propongo nella mia penultima visita. Per me il Carpaccio psicopompo annuncia anche la mia verità. Chi sono io? I clamori del collettivo, lo spettacolo e la battaglia. Non sono io, ma innanzitutto soltanto noi, e in più il teatro terrificante che appiccica questo collettivo alla mia carne, dove esso urla e mi comanda, spingendo la mia vanità verso l’eroismo del combattimento. Chi sono, ancora una volta? L’aggressività che lotta e critica, in nome delle polemiche pubbliche. Chi sono, di nuovo? L’approvazione del gruppo, quando, trionfale, espello il mostro. Il noi sacrificale mi applaude, non da successo che allo spettacolo del male. Ecco, dipinta alla perfezione, una malattia mentale ordinaria, nevrosi, ossessione o altro».
Ancora una volta, dunque un’autobiografia, insieme privata e collettiva. Ma come è possibile vedervi una deriva verso la dolcezza, come concepire il bene in un mondo dominato dalla lotta e dal conflitto?
«Chi sono io, infine? L’autore autentico delle mie Confessioni, talvolta riconosciute, come in questo caso, in immagini; un individuo autonomo, in riposo e in estasi. Scrivere questo libro mi ci conduce. A leggerlo, conduce anche voi. Gioia, pianti di gioia. La genesi del cristianesimo, quella della modernità, la via verso l’umanizzazione, la deriva verso la dolcezza… queste liberazioni si chiamano anche e in definitiva: guarigione. Beati gli uomini dolci.
Come il male si può definire come la dura lotta del bene contro il male, così il bene, dolce e mitigato, nasce dall’incontro dei due assi; sì, il bene mescola il bene e il male. Come il male si misura dalla distanza della battaglia, così il bene nasce nelle vicinanze e nelle prossimità. Il precetto di amare il prossimo non significa soltanto prediligere colui o colei che vive al nostro fianco, ma praticare l’atto stesso di avvicinarglisi».
Nel famoso quadro di «San Giorgio e il drago» non si legge allora soltanto la violenza dello scontro frontale, l’uccisione del nemico diabolico, ma anche la rappresentazione della società tripartita…
«La picca di San Giorgio si radica nei muscoli e nei tendini incrociati, ai piedi della bestia. Gerolamo tocca con la mano l’unghia che gli fa male, sotto la quale o al posto della quale giace la spina che la ferisce. La bontà inventa di andare a sfregare quell’estremità, dove l’unghia e la spina sono vicine, senza sapere ancora se si tratta dell’una o dell’altra. Ecco che emergono delle cose straordinarie: avvicinandosi, questa bontà si espone, prima di tutto, essa stessa al male; in secondo luogo, si prende cura del male, ma, infine e soprattutto, inventa il nuovo. Essa inventa nel massima vicinanza con il male, con il pericolo mortale, con la battaglia, con la stessa uccisione. Niente scopritori senza l’affrontare il peggior pericolo. La vera morale possiede il vero coraggio di inventare veramente. Ritroviamo, nella vicinanza stessa del male, Caino l’inventore?
E più in generale, San Giorgio, santo, guerriero e contadino (il suo nome rinvia all’agricoltura, alle Georgiche) personifica la vecchia tripartizione delle società indoeuropee (Giove, Marte e Quirino, secondo Georges Dumézil), oggi cancellata dalle nuove trasformazioni umane e sociali. Se guardiamo la sequenza dei quadri degli Schiavoni troviamo il superamento della tripartizione originaria delle nostre società. La filosofia deve pensare la nuova ominizzazione, oltre la violenza del guerriero».
Un’ultima domanda. Questo libro, come il precedente - «L’Art des Ponts, Homo Pontifex» (Le Pommier, 2006) testimonia l’efficacia e la bellezza della sua nuova tensione verso il pensiero visivo, espresso a partire dal 1999 con la rappresentazione delle variazioni dei corpi («Variations sur le corps») e dei paesaggi delle scienze («Paysages des Sciences, ouvrage collectif sous la direction» de M. Serres et N.Farouki) entrambi editi da Le Pommier-Fayard nel 1999. Nell’ultima pagina di questo libro la sinestesia si arricchisce con uno «strano» messaggio musicale.
«Ho voluto scrivere una nota per un ipotetico compositore che volesse mettere in musica il mio libro: “Sebbene quasi in preghiera tra il mutismo tranquillo delle forme, delle tinte e della cappella, voi credete tuttavia di udire nel primo atto in cui la battaglia fa irrompe furibonda nella campagna, il clicchettio della spada, le grida di coraggio nel combattimento, lo scatto corazzato della lancia il cui acciaio si affonda nella dentatura del dragone, il lamento agonizzante del vinto, le urla di terrore e di ammirazione della folla, il cui rumore riempie il volume dello spazio… in breve il caos ventoso dei clamori”. All’inizio di questo racconto, il quadro, all’estrema sinistra, si riempie dell’angoscia dei duellanti e delle acclamazioni multiple del pubblico; si direbbe che esse s’involvono nella coda arrotolata, turbinosa, della bestia, dove si accumulano i muti crani calcarei che, cadendo, continuano a urtarsi.
Ora, alla fine dei nove quadri, all’estrema destra, in basso nella tavola orizzontale, tra il silenzio della camera e l’estasi di Agostino, si stendono due spartiti musicali, a pagine aperte, pronti per la salmodia.
Dal duro verso il dolce: dalla confusione del conflitto al silenzio del lamento meditativo; dallo strepito disordinato della violenza alle alte note gialle del lamento-canto; dall’orrendo rumore di fondo che fanno i corpi, le anime e i gruppi infuriati alla sorgente silenziosa della musica, pienezza e inizio divini di ogni linguaggio e di ogni arte.
Che lo dica il cristianesimo, l’ominizzazione, la storia, la politica o la vita personale… un racconto va dal caos verso una sorta di ordine, dalla violenza verso un acquietamento, dalla lacerazione alla sua cicatrice, insomma, dal rumore di fondo verso la musica.
O inversamente. Uscendo dagli Schiavoni, ci coglie l’assordimento insensato della civilizzazione».

Quattro passi, mensile, aprile 2008, XIII, 109
“...del cammin di nostra vita”
di Gian Carlo Zanon
Lasciando il bosco
Il libro della monteverdina Susanne Portmann. L'intervista


Il Sud, per ogni essere umano, dovrebbe rappresentare quel luogo dove libertà, identità, rapporto con l'altro da sé, sono possibili. Il viaggio verso Sud è un "riandare in quel luogo dell'umano" per riprendere qualcosa di interrotto di cui sono rimaste sensazioni vaghe. Il viaggio verso Sud non è tomare all'origine ma immaginare e poi ricreare, sviluppare, trasformare, nel rapporto con l'altro da sé, quella "impossibile memoria" in una identità profondamente umana. Uno il Sud lo può trovare, come il protagonista- narratore, per qualche minuto, di notte a Roma, a Largo Argentina, guardando i templi di antichi dei ormai senza nome e respirando un'aria primaverile assurdamente pulita, dato il luogo, e forse accampando la speranza nascente negli squarci di cielo e sulle terrazze che ne disegnano i mutevoli Confini. O forse, uno, il suo Sud lo può trovare nell'immagine di una donna che attende l'amante come la protagonista del romanzo: «Aspettando! questa notte/la luce sorgerà da dentro i tuoi occhi! il tempo si dispiegherà dalle tue mani! e le tue labbra scriveranno sulle mia pelle/l'amore! che domani! il mio corpo canterà! camminando. / Domani! /'immagine del tuo ricordo! dentro i miei occhi! porrà! un'altra pietra alla difesa! delle città. / Aspettando! ascolto il suono della notte/ che mi annuncia i tuoi passi. »
Eppure, per i protagonisti de "Lasciando il bosco'; raggiungere questo profondo Sud del sentire è un viaggio quasi impossibile. Essi partono da un dramma che farebbe impallidire i tragediografi greci: la tragica morte della madre che grava sulla realtà psichica di Anja e suo fratello sin da quando erano bambini. Susanne Portmann per raccontare questo dramma reinterpreta la favola di Hänsel e gretel. Nella favola i due bambini si salvano dalla strega uccidendola. Ormai adulti Anja e david sembrano aver trovato un loro equilibrio ma in effetti la tragedia è stata annullata dai protagonisti i quali non ne hanno più parlato come fosse un tabù da tenere nascosto. E così i fantasmi del passato ritornano a sconvolgere questo precario equilibrio e tocca al fratello minore, quello apparentemente più "coglione", come egli si autodefinisce, a dover riannodare i fili della memoria per ricordare realtà dimenticate. AlIa fine toccherà a David scoprire chi era la strega e chi l'orco. Ciò che colpisce, in quest’opera, è come tutto scorra senza affanni. Anche la sparizione, ciò che l'essere umano teme di più, non viene mai percepita come un evento angoscioso: Anja scompare corrompendo quell'abitudine al silenzio sul passato e costringendo il fratello ad una ricerca che li salverà entrambi dalla follia o dall'annullamento anaffettivo.
Ma c'è ben altro sotto questo racconto: un profondo sottosuolo cutturale che trae origine dalla tragedia e che, però, dalla tragedia si affranca mantenendone inalterato tutto il pathos.
Pensiamo alla protagonista quando, ancora bambina, si ammala " ... a scuola c'era stata una ragazza più grande che le aveva dato dell'assassina». È esattamente ciò che succede nell' Edipo tiranno di Sofocle: un coetaneo offende Edipo chiamandolo ''figlio della fortuna" che equivaleva a bastardo. Ed Edipo cade in una crisi di identità, parte per cercare la verità sulla propria nascita non sapendo della sua corsa verso la catastrofe. Sfiorando con leggerezza ed ironia i miti ancestrali di Antigone, Elettra, Clitennestra, Oreste l'autrice racconta le tragedie che esplodono nelle cosiddette famiglie normali. I miti tragici, inspiegabilmente, riemergono, forse per essere elaborati e ripensati, per farci indignare e dire che Oreste era un criminale che rimase impunito per l'intervento del dio della ragione, Apollo, nonostante avesse ucciso colei che lo allattò, legittimando così l'annullamento del primo anno di vita irrazionale. Ma Hänsel e Gretel che uccidono la strega non sono criminali come non lo sono nemmeno i protagonisti del romanzo.
Anja "lasciando il bosco" è uscita dalla tragedia ma non dalle immagini del mito: è venuta a Roma e così il fratello. Roma per Anja e David rappresenta il Sud, il luogo del sentire umano. Lo scioglimento di questa storia, così... intensa, non è catastrofe, è ricominciare a vivere magari ricreando quel bosco perché... Roma non è Tebe dalle sette porte, e, se vai a Piazza Argentina, di notte...

L'INTERVISTA
In questa collana, chiamata Mangrovie, vengono raccolte opere di autori "migranti del linguaggio" vale a dire scritti letterari di donne e uomini che hanno avuto il coraggio di esprimere il loro pensiero, la loro fantasia, in una lingua che non gli appartiene, in un suono che non è quello che udivano già dai primi giomi di vita, e che, come scrive l'editore, «è madre e proteggente».
Susanne Portmann è sicuramente una migrante anomala, una extracomunitaria che non appartiene al Sud del mondo. Essendo svizzera, per lei il sud non è il luogo di partenza ma, forse, un punto di arrivo. L'autrice abita alle pendici di Monteverde Vecchio, dalle sue finestre vede passare i treni che ricordano il suo migrare, ed è qui che siamo andati ad intervistarla.
Cominciamo dal titolo: "Lasciando il bosco". Che non è "aver lasciato il bosco". Cosa significa: che c'è una tua ricerca e un tuo divenire umano che non si sono ancora conclusi, o che i personaggi del romanzo realizzano una loro identità, non tanto per aver lasciato il luogo dell'infanzia ma per aver scelto quel movimento?
Non ho vissuto il mio racconto come un'operazione di memoria, un ritomo indietro, il titolo in questo senso mi è sembrato conispondere piuttosto al movimento che realizzano i miei personaggi. Penso di essere stata esplicita dicendo che non si trattava di raccontare la loro storia, ma di qual cos'altro, forse di quel divenire umano che tu dici, e che è molto bello, per un movimento che è scelta, magari anche inconsapevole ma che tocca tenere. Sono convinta che per la realizzazione umana, l'andar via non basti. C'è differenza tra scappare e trasformare la propria identità. Scappare in situazioni di pericolo può essere la mossa sana. Ma salvarsi la pelle non basta. Bisogna tenere salda la mente per ri-conoscere il pericolo, per non ricascare in rapporti sbagliati. Il movimento che tu dici, dovrebbe quindi stare nel "dopo'; oltre il movimento fisico dell'andar via. Forse sta nel rifiuto della coazione a ripetere.
Il protagonista maschile, che poi è anche la voce narrante, assomiglia nella forma del linguaggio un po' al giovane Holden di Salinger più volte citato nel libro. C'è questa somiglianza? E perché ti sei voluta esprimere al maschile?
Holden è stato per me, come per la sorella protagonista e per molti altri, un libro fondamentale. Anche oggi non sono in grado di dire esattamente perché fu così importante, certamente perché parla di una crisi profonda, forse universale. Il libro poi è anche terribilmente divertente, nella sua drammaticità: Holden, anche se è uno che si parla addosso, ma non si piange addosso, ha uno senso dell'humour straordinario. Il mio protagonista è diverso, è simile a Holden nella ferrea volontà di non volersi piangere addosso, ma diverso per quanto riguarda il parlare. David, di fondo, è uno che parla poco, soprattutto di sé. È costretto a parlare, ad essere esatti, è costretto a scrivere, perché solo lo scrivere, e non il parlare di sé, gli permetterà di cavarsela, perché forse solo nello scrivere riesce a tendere un filo di rapporto con la sorella che, sparita, gli ha lasciato degli scritti. Quando lessi il libro, a quattordici anni, mi identificai completamente con Holden "Holden c'etait moi!" E questo ha chiaramente ha comportato un grande dramma per me: comprendere e aderire profondamente a Holden, ma non poter corrispondere a Holden, visto che ero femmina. Il pensare maschile mi è entrato nelle vene da piccola. Non è difficile per una ragazza entrare nella mente maschile, ci entri aprendo i libri scritti da uomini. Più difficile casomai è trovare un’espressione al femminile, oltre lo standard del pensare maschile. Nel racconto quindi, mi è premuto, più che volermi esprimere al maschile, dare espressione a due scritture, diverse tra loro.
Questo tuo romanzo, sembra appartenere alla categoria del dramma, vale a dire: rivolgimento di uno stato di apparente equilibrio; svolgimento, la ricerca della persona scomparsa; scioglimento, che non diciamo. Tuttavia, pur mantenendo sino alla fine un pathos drammatico, sfugge alla catarsi tragica. AI suo posto vi è una nemesis, una giustizia distributrice che riconduce a immagini di rinascita e ricreazione di un vivere umano possibile.
Magari è quel "oltre lo scappare" che cercavo di dire prima, che sarebbe allora il riuscire - che sarebbe, uscire nuovamente, cioè rinascere. A questo proposito ti dico che al mio racconto è stato mosso l'accusa di essere "buonista" - espressione che fatico ad afferrare bene, ma che non mi sembra giusta rispetto ad esso. lo mi sono ispirata alla favola di Hänsel e Gretel. Nel caso della favola anzi, il tutto finisce persino troppo bene, un "troppo" che ho voluto correggere facendo - se vogliamo come dici tu, "giustizia distributrice'; sino in fondo. La tragedia umana, le catastrofi, vissute anche da piccoli trovano eco e rappresentazione nella favola di Hänsel e Gretel, dove padre e madre si sbarazzano dei figli perché non c’è da mangiare: e tutto questo è vecchio come il mondo quanto attualissimo. "Il mangiare" che scarseggia si riferisce anche agli affetti, all'essere delusi dalle '”assenze”... degli altri, dei grandi e dove non ce dramma fisico, c'è quello psicologico. Le proposte d'uscita dalle tragedie sembrerebbero solo il sopravvivere, vale a dire "morire senza morire”: Ma c’è un'altra via. Ecco la ricreazione che tu dici, suona molto strano: si può vivere, anche oltre il sopravvivere, perché prima si è stati vivi, sempre, sin dalla nascita. Si può ritrovare se stessi per questo essere nati e la scrittura, forse, rivela questa ricreazione della nascita in modo più palese.
Pensi si possa uscire dagli arcaici cliches, dove si narra solo di figli che pagano le colpe dei padri, mantenendo tutta la tragicità necessaria all'opera d'arte letteraria e non?
Penso sì che sia possibile. Questa poi dei figli che debbono pagare... la maledizione, di chi?, degli antichi dei? Parliamoci chiaro: cos’è questa colpa dei padri, concretamente, storicamente per noi? Per me, per noi d'oltralpe delle generazioni del dopoguerra, è il nazismo su cui continuiamo a interrogarci e tormentarci. Ma appunto, dov'erano finiti tutti questi nazisti negli anni cinquanta, sessanta e ancora settanta? Ebbene erano tutti li e facevano... i bravi padri di famiglia, come del resto avevano fatto anche da nazisti dichiarati. La cosa che più mi ha colpito di Salinger, è che ha passato molto tempo in Europa a dare la caccia ai nazisti dopo la guerra, e mentre faceva questo ha scritto l'HoIden, che è uscito nel ‘51, forse bisogna tenerlo presente.
Nel tuo lavoro metti in evidenza un'immagine femminile, Anja, arrivando quasi a descriverla come superba nella sua aristocratica pretesa di giustizia assoluta. È un'immagine che riecheggia Antigone. Ci hai pensato o avevi presente un'imago femminile universale?
Non credo che Anja pretenda "giustizia”; tanto meno ''assoluta''. Lei pretende "verità" che è cosa diversa. Che sia superba, questo sì, ma penso ne abbia diritto. No, non mi sono ispirata a Antigone, non c'erano matrici, ho cercato solo di immaginarmi lei, che cosa si è potuto o si può vivere una donna con la sua storia, con questa incertezza e fragilità. Lei è molto coraggiosa, perché non ha paura di niente se non, appunto, del potersi sbagliare rispetto alle sue intuizioni. Lei vive o crolla su questo punto, su nient’altro. E la certezza gliela può dare solo il fratello, andando a vedere lui, facendo sua l'intuizione della sorella.

Susanne Portmann - Lasciando il bosco
Michele Di Salvo Editore, 2007 - Pp 200, € 12,00
In vendita anche presso la libreria "Mezzomondo", Largo Cocchi 11


Rosso di Sera 17.4.08
Una nuova sinistra popolare e di massa
di Piero Di Siena


Quando si incorre in una sconfitta così sonora e inequivocabile, e inoltre imprevista e inaspettata nelle dimensioni, come quella che ha subito il progetto della Sinistra l’Arcobaleno bisogna innanzitutto fermarsi a riflettere. Non ci sono ricette semplici e, sebbene la politica sia oltre che ragione anche passione e conflitto che impongono scelte tempestive, il peggio sarebbe continuare lungo strade note come se nulla fosse successo. Insipienza sarebbe continuare nel progetto lanciato dai quattro partiti senza alcuna soluzione di continuità raccogliendo quei reduci della sconfitta che ancora “ci stanno”. Ma altrettanto grottesco sarebbe pensare che la via di uscita è quella di ritornare a sicuri lidi identitari, sia comunisti che socialisti, che i fatti dimostrano di non parlare più all’immaginario di nessuno. Segno di una profonda fragilità sarebbe precipitarsi nel Partito democratico sull’onda di un’amara sconfitta.
Che la discussione nei partiti della sinistra, a cominciare da Rifondazione, si sia immediatamente trasformata in una resa dei conti interna è la conferma di quello che il voto ci dice. Che essi sono ormai scatole vuote e una somma di dirigenti privati dall’esito elettorale di ogni legittimazione. E nemmeno le associazioni e i movimento politici stanno in una condizione migliore anche se in esse rimane l’esigenza di una rinnovamento dell’agire politico che può diventare un punto fecondo da cui ripartire.
Se le cose stanno così non mi convincono le recriminazioni e gli anatemi né le posizioni più o meno esplicite di chi comincia a pensare che non ci sia alternativa alla scelta, ora, di ricostruire una posizione di sinistra nel Pd. Ciò può restituire una speranza a carriere politiche spezzate dal voto ma non rispondere ai problemi del paese.
Appunto, i problemi del paese. E’ questo il luogo da cui ripartire per ricostruire una sinistra all’altezza del tempo presente, radicando programmi e organizzazione politica laddove si vivono i bisogni e le ingiustizie del tempo presente, interrogandosi sulle condizioni materiali ma anche sull’evoluzione delle mentalità che, oggi, orienta ogni disagio sociale vissuto sulla pelle di tanti uomini e donne più a destra che a sinistra.
C’è qualcuno che a sinistra ha la risposta pronta a questi quesiti? Nessuno. Bisogna cercarli facendo tutti un passo indietro, sviluppando fino in fondo, anche nei congressi dei partiti che si annunciano imminenti, un confronto e una ricerca che siano insieme liberi e solidali, riportando la politica nei luoghi in cui le persone vivono, soffrono, gioiscono, e costruiscono la loro vita. Senza estremismi e minoritarismi, senza rinunciare a una politica delle alleanze e respingendo la retorica dell’opposizione a ogni costo, ma senza venir meno a un progetto di cambiamento.
E’ questa la ragione per cui tante e tanti saranno a Firenze il 19 aprile. L’iniziativa promossa da Ginsborg acquista ora un significato oggettivamente diverso da quello che aveva nel momento in cui è stata pensata. E augurabile che se ne rendano conto gli stessi promotori senza per questo cedere a deliri di onnipotenza o al rituale di atti salvifici ma gettando le basi di un lavoro di ricostruzione dal basso, democratico e partecipato. Insomma, ciò che alcuni di noi hanno da tempo auspicato.
E’ ovvio che se tutto ciò non è accompagnato a un’enorme lavoro di conoscenza di quello che è diventata la società italiana, di riflessione su come un nuovo progetto di sinistra si alimenti di comuni idee generali criticamente elaborate, di un giudizio sull’evoluzione dei sistemi politici e della crisi della democrazia, tutto potrebbe rischiare di essere inutile.
Dovremmo dunque non lasciarci travolgere. Questa è l’ora in cui il pessimismo dell’intelligenza deve essere accompagnato da un rinnovato ottimismo della volontà. Se c’è un momento in cui questo famoso “topos” del pensiero di Gramsci non suona retorico è questo. E del resto se ci ripieghiamo sulla realtà con spirito sgombro da pregiudizi appare evidente che, se è arrivata al capolinea la storia della sinistra degli ultimi venti anni, quella che è stata azzerata dal voto del 13 e 14 aprile, tutta la situazione invoca la necessità che ne nasca una nuova, popolare e di massa.

Liberazionev 16.4.08
Dopo il 20 ottobre una svolta culturale che ci ha portato al tracollo
di Citto Maselli


Nella valutazione di quanto è accaduto io credo si debba partire dal successo straordinario e inaspettato che ebbe la manifestazione dello scorso 20 ottobre. Tutti sanno che, malgrado il dissenso di Mussi, quella manifestazione era unitaria ma fondamentalmente organizzata, voluta, preparata da Rifondazione comunista. Ne sanno qualcosa le centinaia di nostri compagni che vivendo la militanza forse in modo non propriamente allegro e gioioso - come oggi va di moda dire - ma sicuramente tenacissimo e vivo, erano riusciti a darle vita arrivando a quintuplicare ogni previsione di riuscita. Per dire che, dunque, fino a sei mesi fa e con tutto il problema del governo Prodi, l'immagine e il popolo di Rifondazione comunista avevano conservato tutta intera la loro forza di richiamo e la loro presenza. Ricordo che insieme ai nostri dirigenti presenti sotto il palco a piazza San Giovanni commentavamo felici e stupiti questa verifica di forza, prestigio e capacità che non a caso veniva dopo Carrara e il grande sussulto di orgoglio e rilancio che quell'assise aveva significato.
Dunque. Il nostro tracollo è avvenuto nel corso di questi sei mesi e io credo che senza alcuno spirito polemico e senza volere in alcun modo semplificare le cose, sia proprio nei fatti che è avvenuto in corrispondenza della vera e propria svolta culturale che si è voluta dare da tanta parte della nostra dirigenza con la graduale ma sistematica cancellazione della nostra identità di rifondatori comunisti. Per non scadere in polemiche facili e comunque inadeguate alla gravità storica di quello che è successo, non mi metto qui a citare una per una le tappe, i gesti, le dichiarazioni e le azioni che hanno segnato questo cammino. Mi limito a due cose che sono culturalmente inconsistenti ma tuttavia a loro modo simboliche e significative: la definizione del comunismo come tendenza politico-culturale e la scelta del caffè Hard rock e non so che altro di via Veneto in Roma come luogo di incontro e verifica dei risultati elettorali. Forse per quest'ultima trovata parlo un po' da regista: perché sembra davvero un'idea straordinaria di sceneggiatura per dare il misto di provincialismo e falso giovanilismo con cui si è voluta esprimere plasticamente la propria distanza da un passato e da una storia.
Per quello che mi riguarda nella giornata di ieri e insieme a tanti altri sono andato nella sede del partito cui sono iscritto. E lì è successo che, verso le nove di sera, quando ci siamo salutati un po' tutti, due compagne, credo del Forum delle donne che erano rimaste con noi tutto il pomeriggio, visto che la Sinistra l'Arcobaleno anche alla Camera non andava oltre il 3 per cento, hanno dichiarato di volersi iscrivere - sin dal mattino dopo - al Partito della Rifondazione comunista. Ci siamo guardati tutti, un po' com'era successo sotto il palco di piazza S. Giovanni la sera del venti ottobre. Ultimo scorso.

Repubblica 17.4.08
Salvate il soldato Fausto
di Francesco Merlo


Buttare, con l´acqua sporca del comunismo, anche il bambino della sinistra radicale? Non bastonate il cane che annega, perché è il cane da guardia degli interessi deboli, dell´Italia povera.
E Walter Veltroni non lasci all´intelligenza di Giulio Tremonti la rappresentanza «sociale e culturale» – come ha scritto ieri Ezio Mauro – di quella «rete di valori, interessi, critiche, opposizioni presenti nel Paese e nella sua storia». Dovrebbe invece, Veltroni, lanciare un ponte alla sua sinistra, anche organizzativamente, magari chiamando, perché no?, Nichi Vendola nella plancia di comando.
E´ certamente vero che il comunismo in Italia era diventato il divertimento intellettuale di alcuni professori, la camicia di forza della sinistra incartapecorita. Ma ora che non c´è più Bertinotti, chi, in Parlamento, difenderà gli operai? Davvero il Partito democratico, senza ospitare, come tutti i partiti riformisti del mondo, una rappresentanza di sinistra radicale, basterà a coltivare e proteggere gli interessi dei gruppi sociali più deboli, dagli operai agli impiegati di concetto, dagli insegnanti ai venditori ambulanti, dai piccoli e sempre più terminali bottegai ai giovani disoccupati e sotto occupati? Chi darà cittadinanza politico istituzionale a questo lungo, largo e grosso proletariato italiano, colpevolmente confuso e ridotto solo agli operai di fabbrica?
Per la verità, gli studi della Cgil e le riflessioni dei politologi già nel 2006 segnalavano l´affezione leghista degli operai del Nord, che infatti adesso hanno votato, in maggioranza, per la destra. E si sa che gli ultimi libri di Giulio Tremonti sono puntati contro il fantasma della povertà italiana, alimentata dall´euro forte e dall´ingresso della Cina nella globalizzazione. Tremonti denunzia «i salari italiani orientali erosi dai costi occidentali», propone aiuti alle fabbriche e alle industrie… Non so se è un discorso di sinistra. Sicuramente, in un universo senza più simboli, Tremonti, che è la mente economica non solo di Berlusconi ma anche della Lega, rischia davvero di rappresentare i produttori – operai e imprenditori – molto meglio del Pd e di occupare dunque il posto vuoto lasciato da Bertinotti sia nell´urna e sia nelle sezioni di partito, nella concertazione, nella società dei deboli.
Veltroni ha dunque «una responsabilità in più». Secondo noi ha persino il dovere di richiamare a casa la sinistra radicale operaista, alla quale, troppo sbrigativamente, i rappresentanti degli imprenditori vorrebbero dare il colpo di grazia, con una spietatezza un po´ ridicola. Insomma, la Confindustria dovrebbe evitare di cantare una vittoria che potrebbe essere quella di Pirro, o, se preferite, quella di Sansone che morì con tutti i filistei. La perdita di rappresentanza dei ceti deboli infatti potrebbe portare alla fine delle buone maniere nelle fabbriche, nelle strade, nel conflitto sociale.
Non che sia davvero immaginabile un ritorno del terrorismo diffuso, come dice il solito autoreferenziale Cossiga, il quale pensa di compendiare in sé tutto il vissuto e tutto il vivibile: "Nihil novi sub Cossiga" (con la a lunga dell´ablativo). Ma può accadere che esplodano, come attorno alla spazzatura di Napoli, i plebeismi, il luddismo o nuove forme di criminal sindacalismo. E un´avvisaglia la si è avuta, per esempio, in Sicilia dove, la settimana scorsa, i braccianti, esasperati perché nessuno li sta ad ascoltare, hanno bloccato per ben tre giorni i caselli dell´autostrada Catania – Messina.
Secondo noi ad affossare e bastonare Bertinotti è stata soprattutto l´antimodernità dei vari Pecoraro Scanio, quel mondo reazionario che in nome della sacra lucertola immagina un´Italia contadina, non capisce che anche il treno fa landscape, che termovalorizzatori, ponti, autostrade e persino il nucleare sono elementi del paesaggio, sono l´ambiente storico che va difeso, vissuto e sviluppato. Marx era prometeico, industrialista, era contro le utopie rovesciate, contro il cammino all´indietro che, almeno, ai suoi tempi era sognato dal socialismo prescientifico e giustificato dal grado zero dello sviluppo tecnologico. Oggi invece l´utopia antisviluppo è sognata dalle caricature italiane del pensiero verde europeo, in un mondo nel quale la tecnologia è ubiquitaria: dalle lenti a contatto ai telefoni, dall´alimentazione all´ecologia stessa.
Ebbene, non è immaginabile un Partito democratico che, liberatosi dell´antimodernità, non abbia dentro di sé gli operai, anche nella loro rappresentanza estremista. Né si può pensare a un Partito democratico senza i difensori del lavoro dipendente, di quello usurante, dei nuovi poveri (tra i quali, ripetiamo, ci sono gli insegnanti, che guadagnano meno degli operai qualificati). E poi ci sono intere regioni italiane che sono come piccole Albanie e che hanno bisogno di un pensiero di sinistra ma imprenditoriale, sviluppista ma solidaristico.
Bisogna riconoscere per esempio che l´esperienza di Nichi Vendola è molto interessante. Da quando è al governo della Puglia, la cronaca quotidiana non è cronaca nera di scafisti, di morti ammazzati e di sacra corona unita, ma anche di leggi laiche e non estremiste sulla famiglia; e di sviluppo, con un primato nella produzione di energia, l´utilizzo del combustibile da rifiuti, il rigassificatore, il progetto pilota (nel mondo) dei distributori di idrogeno per autovetture. E ancora: gli aiuti regionali ai giovani che vanno a studiare all´estero con il patto che dopo due anni rientrino in Puglia.
Al di là dei risultati, la direzione di marcia è quella giusta: giovani, sapere, sviluppo, tecnologie di ultima generazione, con l´idea vincente che la maniera migliore di difendere gli operai sia produrre ricchezza. Non rivendicarla, ma produrla. Non ci sono soviet senza elettrificazione. E però più che di falce e martello questa di Vendola è una sinistra che sembra fatta di libro e computer. Ora Veltroni potrebbe far sua la gentilezza di sinistra di Vendola e maritarla con la cultura di impresa, salvare i salari, aggredire il fantasma della povertà ma al tempo stesso progettare futuro: impianti a mare, ponti, città sull´acqua, investimenti internazionali. Parafrasando Gramsci: non contro il capitale ma per il capitale. Suscitarlo e addomesticarlo.
Berlusconi, se vuole, inviti pure a cena Bertinotti. Veltroni potrebbe rispondere allargandosi appunto verso Vendola, e magari offrirgli, che so?, la vicesegreteria, per una convivenza ben più duratura di una cena.

mercoledì 16 aprile 2008

l’Unità 16.4.08
Consigli utili
Come sopravvivere allla coppia B&B
di Roberto Cotroneo


In qualche modo bisognerà farcela. Da qualche parte una possibilità c’è. Per tutti quelli che martedì 15 aprile, come in un romanzo di Kafka, si sono svegliati, e si sono accorti, in un momento, che da ieri, l’Italia sarà di nuovo berlusconiana c’è bisogno di una terapia di sostegno, di un appoggio, di una ragione. Molti vagano increduli, altri sfogliano nervosamente vecchi giornali per ricordarsi com’era solo due anni fa, altri ancora credono che con questa maggioranza “stabile” nessuno ce la farà, perché gli anni potrebbero essere cinque, non uno di meno, e si dovrebbe camminare nella valle del regno di Berlusconi fino al 2013.

Fino al 2013 con Bossi e Cicchitto, con Fini e Maroni, con la Carfagna e Bondi, con Borghezio e Calderoli. Fino al 2013 con Gasparri, con Alemanno, con Lombardo. Fino al 2013 tutti là appassionatamente, o magari anche no, magari anche a litigare ogni tre minuti, ma certi che questa volta il potere se lo tengono stretto e si governa fino alla fine. E se qualcosa va fatto, allora non bastano palliativi facili. E ci sono una serie di strategie che si possono adottare da subito.
1. Evitare le trasmissioni televisive politiche. Innanzi tutto «Porta a Porta». Cominciare a pensare con determinazione che la politica non esiste più in quella forma, e che se ne può fare a meno. Rimuovere, se è possibile. Guardare in televisione solo film e naturalmente molto sport. Occuparsi più di calcio mercato che di toto ministri, ostentare un'indifferenza totale verso qualsiasi tipo di nomina pubblica o istituzionale, per chi vive a Roma tenersi lontani da piazza Montecitorio, perché non vengano pensieri angosciosi.
2. Darsi un'anima internazionale. Le prime tre pagine di qualsiasi quotidiano lasciarle direttamente all’edicolante. Se è opportuno munirsi di una piccola taglierina per rendere l'operazione più semplice. Almeno una volta a settimana immergersi nella lettura di Limes e occuparsi di esteri con passione e competenza. Sapere tutto dell'Africa, della Cina, del Sudamerica. Non sapere nulla della politica interna, tanto non c’è che da incavolarsi. E poi l’opposizione in Parlamento e solida e compatta, e ci penseranno loro. Ovvio. Per quanto riguarda i telegiornali, saltando i primi quindici minuti si dovrebbero evitare le cose peggiori. Dunque Tg1 e Tg5 iniziano per definizione alle 20 e 15 e il Tg2 alle 20 e 45. Desintonizzare per principio Rete 4 dal proprio televisore per non incappare neppure casualmente in Emilio Fede. Se usate internet per informarvi, è preferibile togliere dalla home page la pagina del Corriere o di Repubblica on line, e metterci quella del Paìs.
3. Pensare il meno possibile. Non è opportuno andare a riposarsi, o fare immediate vacanze, in eremi umbri e toscani, in luoghi di riflessione, o in regioni, comuni e provincie amministrate dal centro sinistra in modo particolarmente efficace. Provoca stati d’ansia. Provoca stati d’ansia anche finire in luoghi amministrati dal centro destra, perché poi si capisce cosa ci aspetta. Stare a casa propria è molto meglio. E circondarsi di feticci e simboli rilassanti e positivi. Con pochi euro e possibile farsi stampare una gigantografia di Obama da appendere in salotto, ma senza la frase «we can».
4. Molta natura. La natura funziona sempre. E soprattutto non l'ha inventata Berlusconi, fino a prova contraria. Passeggiate, studio degli insetti, della flora e della fauna. Per chi ama il mare sono indicate lunghe passeggiate sulla spiaggia. Basta che non sia la Costa Smeralda.
5. Molta natura, ma evitare accuratamente le passeggiate per la pianura Padana, o lungo gli argini del Po. Si rischia di incontrare gente con l’armatura che riempie ampolle dal fiume. E vengono inquietanti pensieri.
6. Trovarsi un hobby. Può essere uno sport, ma anche no, ovviamente. Indicati sport ossessivi senza attinenza con la cronaca politica. Il calcio ad esempio non è molto indicato. Meglio il golf. E può funzionare anche il Polo. Per chi non riesce a fare a meno di pensarci, a Berlusconi e Bossi al governo, potrebbero andare bene anche gli scacchi, la dama, il backgammon, e in genere i videogiochi. Da evitare assolutamente i giochi da tavolo. Sopra ogni cosa il “Monopoli”.
7. Allontanarsi il più possibile dalla contemporaneità. Non leggere saggi sull'Italia di oggi, darsi alla magia della letteratura. Esotismo, esotismo e ancora esotismo. Imparare a ballare, per chi non sa farlo. Balli di coppia, scegliendo accuratamente partner che non siano di centro sinistra. Perché poi si finisce per parlare solo di Berlusconi. Tutti i balli vanno bene, eccetto quelli da viveur anni Sessanta. Per chi con il ballo ha dei problemi, imparare a suonare uno strumento, o perfezionarlo è un buon modo per dimenticare. Iscriversi a una stagione di concerti, rigorosamente musica classica. Rarefazione e distanza fanno bene, meglio la musica barocca. Il rigore e le geometrie di Bach fanno illudere di vivere in un Paese migliore.
8. Per chi è single, il vecchio metodo di trovarsi subito un fidanzato o fidanzata potrebbe essere di aiuto. Ma attenzione. Meglio uno straniero o una straniera. Per motivi immaginabili, non pensano troppo a Berlusconi, e non sanno quasi chi siano Bossi o Maroni. Se proprio non si può andare oltre Italia, scegliere anime gemelle nell’area dell’astensionismo. Niente politica, per favore.
9. E niente cultura. Leggere libri certo. Ma meglio non frequentare presentazioni di testi impegnati, cineforum, teatro sperimentale, o musicisti contemporanei. Finisce che ti senti di nicchia. E non va bene affatto.
10. Attendere. Con pazienza. Non c’è altra possibilità. Ascoltare la radio di notte. È raro che telefoni Berlusconi a quell’ora durante i programmi. Uscire circospetti, provare a sorridere, nonostante tutto. Convincersi che pioverà per cinque anni, più o meno. Perché è andata così. L’importante, come dice il poeta Paolo Conte, è che piova sugli impermeabili, e non sull’anima.

l’Unità 16.4.08
Cina, a morte 22 condannati ogni giorno


LONDRA La Cina esegue in media 22 condanne a morte al giorno: lo afferma Amnesty International nel suo rapporto sulla pena di morte nel 2007, chiedendo ai partecipanti alle Olimpiadi di Pechino 2008 di far pressione sul regime per l'abolizione della pena capitale. «Primo Paese per le condanne a morte, la Cina ha la medaglia d'oro per le esecuzioni. Secondo stime attendibili, la Cina mette a morte in segreto circa 22 detenuti al giorno. Da qui ai Giochi olimpici, saranno stati 374», ha dichiarato la direttrice dell'organizzazione per i diritti umani in GB, Kate Allen, aggiungendo: «Tutti coloro che saranno coinvolti nei Giochi dovrebbero fare pressione sulla Cina affinchè riveli i numeri dell'uso della pena capitale, perchè riduca il numero di circa 60 reati per cui è prevista, e si diriga verso l'abolizione».
Secondo Amnesty, nel 2007 il regime di Pechino ha messo a morte almeno 470 persone, ma questo secondo gli scarsi dati pubblici: per l'organizzazione sarebbero circa 8.000 le condanne eseguite ogni anno. Il rapporto Death Sentences and Executions in 2007 afferma che nel mondo almeno 1.252 persone sono state giustiziate nel 2007, in 24 paesi (ma si teme siano moltissime di più), mentre le condanne pronunciate sono state 3.347 in 51 paesi. Circa 27.500 persone sono attualmente nel braccio della morte. L'organizzazione esprime grave preoccupazione per l'aumento delle esecuzioni non solo in Cina, ma anche Mongolia, Vietnam, Iran, Arabia Saudita e Pakistan. L'88% di tutte le condanne a morte è stata eseguita in cinque paesi: Cina, Arabia Saudita, Iran, Pakistan e Usa.

Corriere della Sera 16.4.08
La denuncia Il rapporto mondiale di Amnesty International. All'Iran il secondo posto
Pena capitale, primato alla Cina Le esecuzioni sono 22 al giorno
Da qui ai Giochi saranno giustiziate oltre 2 mila persone
Pechino si difende: «Applichiamo la pena estrema soltanto nei confronti di un numero limitato di criminali»
di Paolo Salom


Lo avevano promesso. E la promessa è stata mantenuta. Niente moratoria sulla pena di morte. Così la Cina, riferisce Amnesty International nel suo rapporto Death Sentences and Executions in 2007
(Sentenze capitali e esecuzioni nel 2007), pubblicato ieri, ha nuovamente conquistato il triste primato di Paese con il più alto numero di detenuti giustiziati. E a quanto pare il boia non si fermerà nemmeno durante le Olimpiadi. «Primo Paese per le condanne a morte, la Cina ha la medaglia d'oro per le esecuzioni», ha dichiarato la responsabile di Amnesty in Gran Bretagna Kate Allen. Aggiungendo: «Secondo stime attendibili, la Repubblica popolare uccide in segreto una media di 22 detenuti al giorno». Da qui ai Giochi i giustiziati saranno dunque oltre duemila.
L'organizzazione umanitaria internazionale, compilando la «lista della morte», fornisce solo dati verificati. In base a queste cifre, nel 2007 Pechino ha mandato di fronte al boia 470 persone. Al secondo posto c'è l'Iran, con almeno 317 giustiziati. Quindi l'Arabia Saudita (143), il Pakistan (135), gli Stati Uniti (42) e altri 19 Paesi. Il dato complessivo, si legge nel Rapporto, è di 1.252 giustiziati in 24 differenti nazioni (27.500 persone sono al momento nei bracci della morte di tutto il mondo), ma fa riflettere, in primo luogo, il fatto che l'88 per cento delle condanne sia portato a termine nei primi cinque Paesi della lista. E, in particolare, che queste cifre non forniscano che una pallida idea della realtà. Al di là dei dati «ufficiali », infatti, ci sono quelli ottenuti attraverso canali «confidenziali ». «Secondo l'organizzazione Dui Hua Foundation, con base negli Stati Uniti — spiega ancora il Rapporto di Amnesty International — la Cina l'anno scorso avrebbe messo a morte almeno 6 mila condannati». Una cifra più bassa rispetto all'anno precedente (circa 8 mila) grazie al fatto che dal 1˚ gennaio 2007 è stato nuovamente reso vincolante il parere della Corte suprema del popolo sulle condanne comminate dai tribunali provinciali. Questo provvedimento, che intendeva costituire di fatto una «moratoria », ha allungato i tempi tra una condanna capitale e l'esecuzione (in passato il «reo», il più delle volte, veniva portato direttamente dall'aula del tribunale al boia), abbassando il dato ufficiale (nel 2006 era di 1.010 giustiziati) e quello stimato (ma più vicino alla realtà). Le autorità cinesi ritengano operante «una riduzione del 10 per cento». Dunque anche se la Cina ha diminuito le esecuzioni, la cifra rimane così alta — la Repubblica popolare da sola manda a morte più detenuti di tutti gli altri Paesi del mondo che applicano la pena capitale — da non poter parlare di moratoria, almeno non nel senso in cui l'hanno inteso le Nazioni Unite con il voto dell'Assemblea Generale del 18 dicembre scorso.
Pechino si difende. «Teniamo sotto stretto controllo e adottiamo un atteggiamento prudente, applicando la condanna estrema soltanto nei confronti di un numero limitato di criminali responsabili di reati gravi», ha affermato Jiang Yu, la portavoce del ministero degli Esteri. Che ha subito chiarito come la Repubblica popolare non intenda per il momento abolire la pena di morte perché «le condizioni non sono ancora adatte» e la riforma del codice penale «non sarebbe accettata dal popolo cinese ».
Risponde Amnesty International: «Mentre Pechino si prepara ad ospitare i Giochi Olimpici, sfidiamo il governo cinese a porre fine alla pratica di giustiziare i detenuti segretamente e a fornire informazioni dettagliate sulla pena capitale, in modo da poter finalmente discutere in pubblico l'opportunità di fermare il boia».

l’Unità 16.4.08
Ossessione ’68: quel sogno ci tormenta ancora
di Oskar Negt


QUELL’ANNO è diventato una sorta di schermo che serve ad ognuno per scaricare nello spazio politico le proprie speranze deluse e i propri problemi irrisolti. L’analisi del filosofo tedesco, uno degli ospiti del Festival di Filosofia di Roma

Gli anniversari rappresentano occasioni propizie al fine di por mano a una tematizzazione pubblica di problematiche che non vanno né eluse né affrontate nell’ottica di un consenso generale. Questo nuovo anniversario chiama in causa quarant’anni di rapporti con eventi che vengono puntualmente rievocati ogni decennio, benché la loro influenza sulla nostra società, pur nettamente tangibile, sia difficile da determinare esattamente. È dunque una scadenza che presenta un carattere del tutto diverso dalle celebrazioni che ci siamo appena lasciati alle spalle: Kant, Einstein, Mozart, Adorno ecc. Improvvisamente si forma la percezione che si abbia a che fare con l’elaborazione di una rivoluzione ai suoi tempi legittima, e tuttavia fallita e bruscamente interrotta. Le attribuzioni di colpa assumono in effetti dimensioni tali che qualcuno che dovesse trovarsi tra le mani, poniamo nel 2068, la documentazione prodotta nel corso di questo quarantennio, resterebbe sconvolto dalla percezione delle profonde trasformazioni cui la data-simbolo del Sessantotto rimanda.
Il che è per molti versi anche vero. La nostra società è diventata un’altra. A guardare le reazioni di odio e disprezzo, si potrebbe assolutamente parlare, in termini socialpsicologici, di una paranoia collettiva: di un’ossessione persecutoria alla quale si tende normalmente a rispondere con un ostracismo aggressivo nei confronti di tutto ciò che appare estraneo, ma in cui è però contenuto molto della propria incompiutezza. Per questo motivo il Sessantotto si presta in modo eccellente alla conferma di pregiudizi e alla rimozione dei propri problemi, il cui arsenale è stato assemblato e periodicamente riproposto nel corso di quarant’anni anni da una sfera pubblica perversa.
Non riesco, tuttavia, a liberarmi dal sospetto che un numero crescente di critici, nel frattempo arrivati al punto di mettere in scena la generazione nazista del ’33 come costituita da precursori dei sessantottini, non siano affatto interessati a capire cosa i protagonisti del movimento abbiano davvero fatto, voluto, discusso e provocatoriamente portato sulla scena pubblica. In luogo di un «pathos del rischiaramento» che si rivolge al contesto storico, allo stato della società, agli aspetti internazionali, al conflitto generazionale, abbiamo pertanto la tendenza ad utilizzare il Sessantotto come una sorta di schermo che serve ad ognuno per scaricare nello spazio politico le proprie speranze deluse e i propri irrisolti problemi esistenziali. Ciò è perfettamente funzionale a una politica dell’ordine reazionaria che ha oggi un particolare bisogno di legittimazione. Chi vuole ordine deve prima alimentare la paura del caos.
Il Sessantotto è una grossa spina nel fianco di una società alla spasmodica ricerca di una «nuova trasparenza» e di un «ordine affidabile». Qualcosa viene ancora percepito come provocazione, come sfida ai poteri stabiliti: i quali avvertono come questo movimento contenga anche qualcosa di vero, plausibile e giusto. Ernst Bloch parlerebbe dell’irrisolto, dell’eccedenza utopica che non può essere espunta tramite il semplice riferimento ai fatti. Se non ci fosse questa eccedenza, il sogno ad occhi aperti di una società migliore, ma anche di una vita buona in una comunità giusta, il movimento sarebbe da lunga pezza caduto nella dimenticanza. Problemi centrali della nostra società, come la crisi della società del lavoro, la miseria del sistema scolastico e la polarizzazione di ricchi e poveri, appartengono a regioni di una realtà nascosta. Per questo il Sessantotto si presta in modo eccellente a un dibattito compensativo che si balocca con i simboli della «caduta dei valori» e dei «deficit dell’educazione».
Appare pertanto sensato, in questa sede, richiamare ancora una volta alcuni aspetti determinanti di questo movimento. Tali aspetti non hanno soltanto a che fare con un problema generazionale (che pure innegabilmente sussiste), quanto piuttosto con una comunità che ha il suo nucleo essenziale nella democrazia di base. L’anno 1968 dischiude per alcuni attimi la storia. Si tratta indubbiamente di un anno politicamente scandaloso, che inaugura novità e speranze. Ma di quella stessa memoria collettiva fanno parte anche le sconfitte e le aspettative deluse. E più gli eventi originali si allontanano nel tempo, più la memoria viene selezionata e adattata alla realtà attuale.
Di qui la legittima domanda: che cosa resta? Che cosa occorre fare e che cosa bisogna in ogni caso evitare? Quali impulsi di questo anno «scandaloso» rimangono vitali, quali idee e approcci sono ancora incompiuti? Il movimento per la pace degli anni ottanta, il movimento antinucleare, il movimento ecologico e altri ancora - la maggior parte di queste ampie iniziative dal basso ha tratto origine dai sessantottini e dalla loro coraggiosa ribellione. Siamo soggetti che imparano. E solo in un processo di apprendimento collettivo, ossia di faticosa approssimazione, gli eventi del passato riacquistano vitalità e fruibilità.
Sono problemi internazionali che sono stati posti all’ordine del giorno proprio dal Sessantotto. Nel maggio 1968 un milione di operai, studenti, docenti, ingegneri, uomini e donne praticamente di tutti gli strati sociali, si raduna a Parigi contro l’ordine esistente e per il cambiamento della società. In Cecoslovacchia, come vediamo oggi retrospettivamente, si sviluppa sotto Dubcek, già fuori tempo massimo, una delle ultime possibili iniziative di riforma del socialismo. Alimentata dalla primigenia forza delle utopie socialiste, e tramite un socialismo dal volto umano, tale iniziativa invitava le burocrazie poststaliniste a farsi da parte pacificamente e senza sanguinosi conflitti. Ultima erede di questa linea è, per alcuni intellettuali di sinistra, la strategia di apertura di Gorbaciov. Ci sono voluti più di vent’anni anni perché il disprezzato e calpestato Alexander Dubcek vedesse riconosciute le sue ragioni come presidente del Parlamento. Ma in quel momento Dubcek non rappresentava più il socialismo. La guerra in Vietnam si avvicina al suo culmine. L’offensiva del Tet è il preambolo della catastrofe per la politica interventista americana.
So che ai difensori dell’ordine di tutte le tendenze politiche non piacerà affatto quanto sto per affermare. Penso siano soprattutto due gli ambiti in cui il Sessantotto ha dato origine a nuovi impulsi umani e produttivi: mi riferisco al campo dell’educazione e della formazione e, soprattutto, alla decisiva rivalorizzazione della partecipazione e della democrazia. In entrambi i casi abbiamo a che fare con problemi essenzialmente politici.
È merito del movimento del Sessantotto aver reso pubblicamente visibili le pecche di una democrazia parlamentare e i due elementi fondamentali che appartengono a una democratizzazione di base. Da un lato abbiamo la politicizzazione degli interessi e dei bisogni degli esseri umani, finalmente inclusi nel processo di formazione del giudizio politico nell’ambito di una sfera pubblica critica. Dall’altro lato, quando parliamo di democrazia di base, la democratizzazione della società investe gli ambiti della vita concreta che determinano le esperienze quotidiane degli esseri umani: nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, nelle università.
L’idea che non possa darsi una società democratica senza democratici era di certo utopica. Ma resta tuttavia una sfida alla realtà dello stato di cose presente.

l’Unità 16.4.08
Le sette meraviglie del mondo secondo me
di Stefano Miliani


Il giornalista Viviano Domenici non ha visitato quelle canoniche, ma ha scelto sette mete inconsuete, le ha visitate e raccontate in un libro

Tra i luoghi descritti il Sahara libico la Cappadocia i pueblos degli anasazi

Mette in scena rapporti crudeli ma veri. Con la forza d’una teatralità appresa forse dai genitori attori

Viviano Domenici è un giornalista del Corriere della Sera che ha, tra i disbrighi quotidiani, scorrazzato nei luoghi più disparati della terra, attratto dall’umanità nelle sue umane contraddizioni e dall’archeologia nei suoi risvolti meno scontati. Come ultimo atto prima della pensione ha scritto un libro commissionatogli dal giornale e pubblicato or ora da Ponte alle Grazie, Alla ricerca delle sette meraviglie (pagine 182, euro 12). Non ha cercato, com’è ovvio, le sette canoniche meraviglie dallo scomparso faro di Rodi alle piramidi egizie. Il cronista ha invece scelto sette mete e lì è volato. Nell’ordine: il Sahara libico con le pitture rupestri nei massicci dell’Akakus; la città maya di Calakmul nella giungla dello Yucatan messicano; i villaggi dei dogon inerpicati lungo la falesia di Bandiagara nel Mali; le abitazioni nei coni di pietra e le città sotterranee in Cappadocia, in Turchia; le usanze funebri e le case che ricordano barche del popolo dei Toraja in Indonesia; i pueblos, le città costruite nel sud-ovest statunitense dagli Anasazi nel XIII secolo e abbandonate di colpo intorno al 1300; infine le rovine della città-teatro del potere persiano Persepolis e la fortezza di Bam, laddove Zurlini ambientò il film dal Deserto dei tartari dal romanzo di Buzzati, in Iran.
Nei suoi rapidi reportage, umanamente partecipi, Domenici inquadra civiltà remote a portata di turista poco pigro. Ricorda come prima dell’era cristiana il Sahara sia stato verdeggiante per qualche millennio - lo attestano le pitture e i graffiti - per finire poi a secco a causa si ribaltamenti climatici. Un ammonimento? E il cronista toscano informa che vicino a quei capolavori d’arte preistorica nell’Akakus inizieranno presto trivellazioni per il petrolio con l’alta probabilità di devastare un patrimonio affascinante e unico. Ogni civiltà, sembra sottintendere, poggia su equilibri fragili e instabili. Su questo filo di pensiero Domenici ricorda che gli anasazi, fondatori nel XIII secolo delle città di case cubiche nel sud-ovest americano e antenati degli indiani, nel XIV secolo siano stati annientati di colpo da una lunga siccità sommata a fattori politici e ambientali: peccato per il salto di parole tra pagina 135 e 136, ma è un altro avviso alla nostra era scialaquatrice?
Il capitolo più stimolante e ironico è quello sui dogon: sintetizza bene come la caccia dell’esotico possa influenzare, con risvolti ambivalenti, una cultura. Sulla scia del successo del Dio d’acqua, libro su miti e religiosità dei dogon pubblicato nel ’48 dall’etnologo francese Marcel Griaule, è andata a finire che quella popolazione africana ha scoperto di coltivare «misteri» di cui neppure sospettava l’esistenza. I dogon si sono «dogonizzati» interpretando «così bene il ruolo del saggio popolo delle maschere e dei misteri - annota Domenici - che ormai non fanno altro. Il gioco delle parti funziona a meraviglia: il visitatore trova proprio quello che si aspetta e il Dogon offre ciò che il mercato chiede». A beneficio dei turisti gli uomini inscenano rituali propiziatori perfino fuori stagione o invecchiano maschere antropomorfe e zoomorfe e feticci. «Un tacito scambio alla pari che, per quanto ambiguo, ha favorito la sopravvivenza di molti elementi culturali che altrimenti sarebbero svaniti», concede il giornalista. D’altronde converrà rammentare che neppure noi italiani siamo così indenni e «puri»: basti pensare a come si siano modellati a misura di turista i centri storici di città come Firenze o Venezia... I Dogon non sono forse così lontani.

l’Unità 16.4.08
L’Iran e la voce delle donne
di Wendy Kristianasen


Wendy Kristianasen vive a Londra è ed caporedattore della versione inglese di «Le Monde Diplomatique» © 2008, Le Monde Diplomatique Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La chiusura di «Zanan», rivista di donne che parla di donne è l’ultima conferma della repressione in atto in Iran contro chi difende i diritti della popolazione femminile

«Zanan» parlava dei delitti d’onore, del commercio sessuale, delle violenze domestiche, della lapidazione: era la voce di una nuova generazione di donne attiviste

La chiusura, il 28 gennaio, della rivista Zanan (Donne) è un evidente segnale del clima di crescente repressione contro quanti in Iran difendono i diritti delle donne. La rivista è stata chiusa perché «metteva in pericolo la salute spirituale, mentale e intellettuale dei lettori» e diffondeva l’idea di «insicurezza nella società, disturbava i diritti pubblici, indeboliva le istituzioni militari e rivoluzionarie». Zanan pubblicava articoli che «portavano le persone a credere che la Repubblica Islamica non è sicura per le donne».
La chiusura della rivista è stato solo un pretesto in quanto il movimento per i diritti delle donne stava lavorando, tramite la Campagna per l’Uguaglianza (principalmente, ma non solo femminile), per convincere milioni di iraniani a firmare una petizione per chiedere il cambiamento delle leggi discriminatorie nei confronti delle donne. La pacifica raccolta delle firme è in corso dal 2006 come testimoniato da alcuni blog e da video su YouTube.
Shahla Sherkat, 52 anni, divorziata con due figli e una laurea in psicologia presa all’università di Teheran, è una veterana del movimento delle donne. Ha creato Zanan nel 1991 in modo che le donne potessero trovare ciò che per loro contava. Considerato il clima ostile che regna nel giornalismo iraniano, la longevità della rivista - 151 numeri in 17 anni - è un tributo alla sua gestione attenta ed efficace. Shahla Sherkat era solita dire: «non posso scrivere su tutto e quindi ho intenzione di non alterare la verità di quello che posso scrivere». Per questa ragione la rivista Zanan era molto rispettata e, altrettanto importante in Iran, rispettosa.
La sua chiusura è un passo indietro per le autorità e la perdita di una importante voce dei diritti delle donne. Shahla Sherkat si sta battendo per la riapertura della rivista come era logico aspettarsi. Ai tempi della rivoluzione, fece di tutto per trovare un posto in un giornale: lo Zan-e Rouz (La donna di oggi) di proprietà pubblica. Nel 1990, quando in seno al giornale ci fu un giro di vite, decise di fondare Zanan.
Nel 2001 fu condannata a quattro mesi di reclusione sulla base di ambigue disposizioni in materia di sicurezza per aver preso parte ad una conferenza a Berlino dove si parlò delle elezioni parlamentari del febbraio 2000 che videro l’affermazione del riformista Muhammad Khatami. L’avvenimento fu contrastato dagli oppositori di Khatami e dal nuovo governo di Teheran. Shahla Sherkat ha ottenuto diversi riconoscimenti: nel 2005 ha ricevuto il «Louis Lyons Award» della Fondazione Nieman per il giornalismo dell’università di Harvard e il «Courage in Journalism Award» dalla International Women’s Media Foundation.
Diritti che gli altri danno per scontati
La redazione di Zanan ha scelto di parlare dei delitti d’onore, del commercio sessuale, delle violenze sessuali domestiche ecc. Sono usciti articoli come «Porre fine alla lapidazione delle donne» e «Ho difeso il rispetto per me stessa» (su una donna che ha rinunciato al suo diritto di ottenere l’esecuzione di un omicida). La rivista si è occupata del Nobel per la Pace Shirin Ebadi e ha parlato del significato di questo premio per le donne iraniane. Ci sono stati servizi sulle donne parlamentari, sulla violenza contro le donne, sulla condizione delle donne nel sud del Libano. Sull’ultimo numero sono apparsi un articolo su Benazir Bhutto e una intervista con Asma Jahangir, che fa parte dell’equipe per i diritti umani dell’Onu.
Zanan si occupa di diritti che la gente fuori dell’Iran dà per scontati. In Iran è ancora forte la discriminazione contro le donne ai sensi della legislazione vigente e le donne sono escluse da molti settori della vita pubblica, ad esempio non possono fare i giudici in un tribunale penale o rivoluzionario e non possono candidarsi alla presidenza. Non godono di pari diritti nel matrimonio, in caso di divorzio, di affidamento dei figli e di eredità. L’età legale per contrarre matrimonio è di 13 anni, ma i padri possono chiedere l’autorizzazione per far sposare le loro figlie anche prima e con uomini molto più anziani. I reati penali che hanno come vittime le donne sono puniti con minore severità. La testimonianza fornita da una donna in tribunale vale la metà di quella dell’uomo. E poi ogni tanto le autorità attaccano le donne: l’anno scorso il ministro responsabile dei servizi segreti, Gholam Hossein Ejei, ha accusato il movimento per la difesa dei diritti delle donne di fare parte di una «cospirazione nemica volta a sovvertire la Repubblica Islamica».
Zanan è stata uno stimolo e un incoraggiamento per una generazione di giornaliste di attualità politica e sociale e di inchiesta. I servizi sulle preoccupazioni delle donne e sulle soluzioni pratiche generalmente riuscivano a passare la censura e ad evitare misure quali la chiusura e l’incriminazione delle giornaliste.
Una nuova generazione
L’eredità di Shahla Sherkat e di Zanan è visibile in una nuova generazione di donne attiviste. Nel marzo 2007 sono state arrestate 33 donne che, davanti ad un tribunale, protestavano contro l’ingiusto processo contro cinque donne accusate di aver organizzato una manifestazione pacifica nel giugno del 2006 per chiedere la fine della discriminazione contro le donne.
Mahboubeh Abbasgholizadeh, 50 anni, scrittrice e attivista, laureata in scienze islamiche e in comunicazioni, era una delle 33 donne arrestate. Membro attivo della campagna per mettere al bando la lapidazione e per chiedere la moratoria della pena di morte e delle iniziative a favore dell’Uguaglianza, è stata in prigione per un mese. È entrata in carcere come attivista di una Ong e ne è uscita come femminista. L’anno scorso è stata accusata di «adunanza sediziosa, complotto contro la sicurezza nazionale, turbamento dell’ordine pubblico». Il suo caso è tuttora aperto al solo scopo di intimidirla.
Parvin Ardalan, 36 anni, è un’altra attivista che ha preso parte alla manifestazione del giugno 2006 ed è stata condannata a sei mesi di reclusione in applicazione di una serie di disposizioni quanto mai vaghe in materia di sicurezza nazionale (ora è in attesa dell’appello). Nel 2007 ha vinto il premio Olof Palme, ma è stata fatta scendere con la forza dall’aereo che doveva portarla in Svezia per ricevere il riconoscimento. Al suo posto ci è andata la sorella che ha fatto vedere un video nel quale Parvin Ardalan aveva registrato il discorso di accettazione del premio. In una intervista rilasciata al quotidiano madrileno La Razon, Ardalan ha detto: «il governo del presidente Mahmoud Ahmadinejad ha accresciuto la pressione nei confronti delle donne». Ha ammesso di avere una certa paura ma «non abbiamo nulla da nascondere. Sappiamo di poter finire di nuovo in carcere, ma continuiamo ad incontraci perché la paura fa ormai parte della nostra vita».
Shadi Sadr, 34 anni, laureata in legge e specializzata in diritto internazionale all’università di Teheran, ha fondato nel 2004 il primo centro di consulenza legale per le donne. Difende gratuitamente sia le adolescenti che scappano da casa che le donne condannate a morte per lapidazione perché dedite alla prostituzione o per aver assassinato il marito che le violentava e le maltrattava. È una delle principali esponenti della campagna per la messa al bando della lapidazione.
Le donne iraniane debbono il loro ruolo attivo nella vita pubblica a generazioni di attiviste che hanno lottato affinché i loro diritti non fossero dimenticati prima e dopo la guerra con l’Iraq nel 1980-88. Shahla Sherkat faceva parte di questa tradizione.
Ci sono stati anche dei progressi. Le parlamentari donne hanno presentato nella legislatura 2000-2004, 33 disegni di legge, 16 dei quali sono stati approvati. Grazie a queste nuove disposizioni di legge l’età minima per contrarre matrimonio per una bambina è passata da 9 a 13 anni, le donne divorziate hanno potuto avere l’affidamento dei figli fino al compimento del settimo anno di età (prima era fino al compimento di due anni). È stata anche avanzata la proposta per indurre l’Iran a firmare la Convenzione dell’Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw).
Oggi le donne possono essere consulenti giudiziarie, possono presentare domanda di divorzio o possono impedire al marito di prendere una seconda moglie. Possono concorrere per le cariche pubbliche (e stanno cominciando a farlo nei consigli comunali, in particolare a Teheran) e ricoprire ruoli manageriali nelle imprese. Inoltre il, 64% degli studenti universitari iraniani sono di sesso femminile. A dispetto dell’ultimo atto repressivo consistente nella chiusura di Zanan, Parvin Ardalan afferma che «il movimento delle donne in Iran è forte e inarrestabile».

Repubblica 16.4.08
Primo sì del Parlamento: previste multe e prigione
Francia, diventa reato "Istigare all'anoressia"


PARIGI - «Ciao, mi chiamo Ana, con me smetterai di essere una grossa mucca e riuscirai a diventare leggera come una farfalla». In codice, le anoressiche si chiamano "pro-ana", oppure "ana-mia". Parlano con ammirazione di Ana Carolina Reston, la giovane modella brasiliana, arrivata a pesare 40 chili, prima di morire nel 2006. Il passaparola viaggia su Internet, e ormai fa sempre più vittime. L´anoressia, ha avvertito il ministero della Sanità francese, sta diventano un culto, una setta virtuale tra le giovani in crisi. Blog e siti offrono consigli e suggerimenti per praticare diete estreme. Molte adolescenti che rifiutano la propria immagine trovano in questi forum consolazione. «I tuoi amici ti dicono che non sei grassa? Lo dicono per rassicurarti, in fondo anche loro sono disgustati dal tuo fisico», scrive una delle tante "Ana" su un blog che enuncia "dieci comandamenti", tra cui portare sempre con sé sacchetti di plastica nelle borse per vomitare il cibo di nascosto da genitori e amici, oppure non dire mai: «Ho fame».
E´ per combattere questo micidiale proselitismo tra i giovani che il governo di Parigi vuole istituire il reato di istigazione all´anoressia. Ieri, i deputati francesi hanno fatto un primo passo. L´Assemblea nazionale ha approvato una proposta di legge che prevede multe fino a 40 mila euro e 3 anni di reclusione per chi incita persone a non mangiare, a vomitare il cibo o a mortificare il proprio fisico, mettendo a rischio la propria salute. La nuova normativa, che adesso dovrà passare al vaglio del Senato, prevede di reprimere chiunque - persona, società o media - riconosciuto responsabile di provocare disturbi del comportamento alimentare o di apologia di figure anoressiche.
In Francia, ci sarebbero circa 40mila giovani che soffrono di questo disturbo. Una malattia che spesso inizia segretamente, e che nel 10% dei casi porta alla morte. E´ un fenomeno in aumento, riconoscono tutti gli esperti. E forse la legge da sola non basterà.
(a.gi.)

Repubblica 16.4.08
Paolo Miccoli, endocrinologo
"Così si scatena l'aggressività che è propria degli uomini"


«Far dipendere dal testosterone l´andamento della Borsa forse è un po´ eccessivo. Ma si tratta di un ormone che può effettivamente cambiare il comportamento» conferma Paolo Miccoli, che insegna endocrinologia chirurgica all´università di Pisa.
Ma il suo livello può essere influenzato?
«Esistono dei prodotti. Ma non vanno certo consigliati agli operatori di borsa (né a nessun altro). Il rischio per la salute è serio. Il testosterone viene prodotto in maniera naturale dai testicoli. Negli uomini tende a calare con l´età Ma anche nelle donne è presente in piccole dosi. Anche a esso è legato il desiderio sessuale femminile.»
Però su questi ormoni non si può intervenire.
«Quello di Pnas non vuole essere uno studio con ricadute pratiche. Si propone semplicemente di mettere in evidenza un fenomeno: il peso del testosterone si fa sentire nelle decisioni finanziarie. E in effetti non c´è da stupirsi. Anche negli animali questo ormone provoca comportamenti aggressivi e sprezzo del pericolo. Negli uomini è legato a spirito di iniziativa, scelta di comportamenti a rischio, una forte assertività. Elementi positivi, ma che possono essere spinti all´eccesso».
E il cortisolo, il secondo attore della ricerca?
«È un ormone che viene prodotto in condizioni di stress sia fisico che psichico, come ad esempio durante una turbolenza di mercato. È tipico delle situazioni nuove, inaspettate. Detto ciò, sarebbe esagerato attribuire agli ormoni un ruolo troppo grande nelle decisioni di Borsa».
I ricercatori suggeriscono una ricetta per evitare le turbolenze di mercato: affidare l´intermediazione finanziaria alle donne.
«Mi sembra una buona idea. Anche le donne hanno le loro variazioni ormonali. Ma conoscono meglio se stesse e a differenza degli uomini hanno imparato a valutare l´effetto del ciclo su umore e comportamento».
(e.d.)

Repubblica 16.4.08
Un saggio di Guglielmo Gorni, una nuova lettura dell'Alighieri
Il sogno di Dante visionario fallito
di Alberto Asor Rosa


Esce anche in questi giorni un nuovo commento della Commedia di Giorgio Inglese

Dante, e in particolare la Commedia, stanno attraversando un periodo di grande fortuna. Merito principale, senza dubbio, delle letture gravi e profonde di Vittorio Sermonti e di quella appassionante e trascinante di Roberto Benigni (con qualche strafalcione in meno sarebbe ancora meglio).
Però anche gli studi scientifico-accademici danno importanti segnali di risveglio. E´ di questi giorni la comparsa di un Inferno, primo volume, ovviamente, di una terna il cui completamento s´aspetta a breve scadenza, «revisione del testo e commento» di Giorgio Inglese (Carocci, pagg. 416, euro 30): impresa d´impianto filologico classico, direi, ma sapientemente arricchita dell´enorme mole di dati linguistici e testuali accumulata nel corso degli ultimi decenni: con effetti di una chiarezza esemplare e di un´utilità interpretativa senza pari.
Pure di questi giorni è un Dante. Storia di un visionario di Guglielmo Gorni (Laterza, pagg. 346, euro 20). Attiro l´attenzione su quest´ultimo testo per i suoi molteplici pregi.
Gorni è figura di studioso in sé esemplare. Insegna nelle Università una materia d´istituzionalizzazione abbastanza recente, - la filologia italiana, - che ha tuttavia acquisito un ruolo sempre più importante nelle definizioni delle problematiche proprie della storiografia letteraria (quando non sia caduta, come talvolta è accaduto, nelle mani di allegri dilettanti oppure di altezzosi incompetenti provenienti da aree disciplinari circonvicine). Siccome la formazione gorniana nasce dall´intersezione di due delle migliori scuole filologiche italiane, quella pavese (Corti, e anche un po´ di Segre) e quella fiorentina (Domenico De Robertis), i presupposti di un´esemplare correttezza di metodi e di strumenti ci sono stati per lui fin dall´inizio della sua carriera, - e i risultati si sono visti progressivamente in maniera sempre più chiara.
Sono possibili due accezioni di metodo filologico - letterario. Una è quella che attribuisce alla filologia (da parte non di rado degli stessi specialisti del settore) una funzione eminentemente ancillare: in questo ambito essa serve a stabilire il dato certo, su cui altre forme del discorso (la critica, la storiografia letteraria) fonderanno il loro lavoro. L´altra sviluppa direttamente dall´acquisizione del dato filologico un proprio autonomo discorso, che in parte resta nel dominio della disciplina di competenza, in parte, via via crescendo, va a incrociare domini e discorsi delle altre.
Guglielmo Gorni (e, lo dico di sfuggita, anche Giorgio Inglese: basti pensare ai suoi studi machiavelliani) appartiene decisamente a questa seconda variante del sapere filologico. Le sue indagini partono sempre da un´esigenza di ri-definizione circostanziata e certa di una tale questione, letteraria o storico-documentaria, per arrivare poi a una ri-discussione dei termini generali su cui quella cultura, messa in causa dall´incertezza del dato, si fonda.
A questo si deve l´estrema ricchezza che caratterizza la sua produzione: sia che si tratti della poesia del Duecento o della Vita nova, di questioni di metrica o di tradizione poetica, dei problemi numerologici e ordinativi della Commedia oppure di testi umanistici o rinascimentali come quelli di Leon Battista Alberti o del Boiardo.
Il Dante, di cui parliamo, rappresenta il culmine di questa lunga e intelligente ricerca. Naturalmente, di «Danti» ne esiste un´infinità, più o meno autorevoli, più o meno condivisibili. Il fatto che se ne continui a «inventare» ha a che fare, ovviamente, con l´ineguagliabile profondità e ricchezza del Padre di ogni nostra lingua e poesia: il quale, ogniqualvolta entra o rientra in gioco, segnala un accrescimento della nostra consapevolezza critica e, al tempo stesso, un ritorno d´interesse per la nostra identità nazionale (non solo culturale).
Il Dante di Gorni vuol, essere, secondo l´autore, «un ritratto in piedi», che cioè «non si limiti a raccogliere e a ordinare una bibliografia sterminata» (la quale pur tuttavia è presente ad ogni passo del libro, e discussa in tutti suoi punti nodali quando se ne manifesti la necessità), ma «che abbia un´idea forte dell´autore: tendenziosa magari, ma moderna e nuova». Quest´ «idea forte», come si può capire, è quella del «visionario fallito»: tema sul quale tornerò in conclusione.
Colpisce la straordinaria ricchezza del «racconto», e l´abilità, - si potrebbe definire «registica», - con cui è stato «montato» (anche nel senso della perfetta fusione tra i pezzi vecchi e quelli nuovi qui per la prima volta presentati). Gorni, infatti, affianca gli uni agli altri i capitoli più strettamente biografici e quelli di descrizione e interpretazione delle opere, in una sequenza unica e, quel che più importa profondamente unitaria.
Non potendo entrare di più nel merito, mi limiterei ad osservare che riuscirebbe difficile segnalare un solo punto della vita di Dante o della sua produzione letteraria, poetica e trattatistica, che Gorni non abbia affrontato, discusso, descritto (sempre, per giunta, con grande chiarezza e piacevolezza affabulatoria) e reso plasticamente visibile al lettore dei nostri giorni. La filologia serve in questo caso mirabilmente a render perspicuo a chiunque quel che altrimenti avrebbe potuto restare, - e spesso di fatto resta, - celato sotto «il velame de li versi strani». Invece d´esser quel che più solitamente è, - un affare da specialisti, - diventa strumento per una didassi più allargata. Anche a questo si deve, - mi pare, - se il libro si legge con confortevole e gratificante accessibilità (salvo che in qualche punto necessariamente più tecnico).
Ridurrò a due le mie possibili osservazioni critiche.
Per quando riguarda l´attribuzione a Dante della collana anepigrafa di sonetti denominata Il Fiore (e, conseguentemente, dell´altra che va sotto il nome di Detto d´Amore) per la quale Gorni, sia pure molto prudentemente di altri, sembra propendere, desidero dire che, destituito come sono di ogni specifica competenza in materia, condivido pienamente quelle che Gianfranco Contini, altro grande sostenitore dell´attribuzione, definiva un po´ arrogantemente le «obiezioni umorali e reverenziali» dei contrari. E cioè (detto in maniera rozza e sommaria): prima di ammettere che i versi del Fiore siano stati veramente scritti da Dante, sarei disposto a farmi tagliare la mano che scrive queste righe.
Quanto al «visionarismo fallito», non si potrebbe osservare che quanto in Dante è altissima poesia o, anche più semplicemente, nobilissima ispirazione etico-politica, nasce esattamente dalla drammatica sproporzione che l´Autore, - soprattutto da un certo momento in poi della sua vita, - percepisce e coglie fra la sua personale «visione del mondo» e l´abissale, irrimediabile, inadeguatezza e mediocrità dei tempi suoi? Capita a Dante, - anche in questo compiutamente umano, - quel che è capitato a molti; di scoprire che non c´è accordo possibile fra ciò che si desidera e ciò che accade. Il fatto è che Dante, - e in ciò consiste il tratto più inconfondibile della sua fisionomia, - viene, non depresso, ma catapultato verso l´alto dal suo biografico, personale, individuale «fallimento». Del quale, dunque, dovremmo esser grati, visto che ne sono conseguiti effetti così grandiosi.

Corriere della Sera 16.4.08
Niente figli, per scelta. Il movimento, nato dalla provocazione di una scrittrice francese, sta crescendo
di Alessandra Mangiarotti


In Italia Eva Cantarella: «Maternità, basta l'enfasi». La Tamaro: «Sono senza figli e non mi sento un mostro»
La generazione delle «no kid»
Il nostro Paese occupa le ultime posizioni nella classifica europea della natalità: 1,33 figli per donna

MILANO — Nell'Italia dei «mammoni», della Chiesa, dei «pancioni» esibiti sui giornali come trofei di femminilità, l'appello di Corinne Maier ha il dichiarato intento di scioccare. «Choquer!», dice lei. «Donne italiane non imitate le vostre cugine francesi, continuate a non fare figli». Perché «costano ». Perché «non avrete più tempo per voi». Perché sono una palla al piede in fatto di: a. carriera; b. rapporti di coppia; c. rapporti
tout court. Per non parlare dell'assassinio delle responsabilità nei confronti del pianeta: «Si lascia ai figli il compito di lottare per un mondo migliore». Provare per credere.
Lei, che di bambini ne ha due, di ragioni per non moltiplicarsi ne ha trovate quaranta («Parlo perché so»). Le ha elencate in un libro
— No kid. Quaranta ragioni per non avere figli — che ha spaccato la Francia dei deux enfants pour femme a metà. E che oggi, edito da Bompiani, arriva nelle librerie dell'«Italia dell'1,33» (figli per donna, s'intende). Del Belpaese fanalino di coda in fatto di culle dove dietro il non volere bambini c'è sempre più spesso una scelta e non una rinuncia. Childfree e non
childless: libere dai figli per volontà e non senza figli, sottolineano le «no kid» nostrane che sul web dicono: «Non voglio figli, ma perché dovrei sentirmi un mostro?». Nemmeno nell'Italia dove la futura mamma è glamour, dove i nuovi nati sono aumentati di un punto e mezzo in percentuale. E dove le vip che non vogliono bebè lo dicono (se lo dicono) solo dopo il placet del responsabile immagine. L'outing provocatorio della Maier apre il dibattito: «rifiutate di essere ventri ambulati», «la donna non si realizza solo nella maternità », «in Francia, essere "senza figli" è una tara»; «altri paesi sono più intelligenti: l'Italia nel 2050 sarà popolata da 50 milioni di abitanti invece di 58». «Volete l'uguaglianza? Cominciate con lo smettere di avere figli».
Affermazioni forti. Discutibili. Ma lo scopo, le but, è proprio quello: discuterne. La scrittrice Susanna Tamaro, «senza vergogna», lo ha dichiarato di recente: «Non ho mai voluto figli, ricordo quando da ragazzine le mie amiche sognavano la maternità e io restavo freddissima, non me ne importava niente». La grecista Eva Cantarella le va a ruota: «I figli deve farli chi li vuole. Io non ho mai sentito questo desiderio, non mi pento e non mi sento un mostro». Cita Caro Diario e Moretti alle prese con figli unici che monopolizzano il telefono dei genitori. Quindi spiega: «Ho voluto altro. Il lavoro, la carriera. Le donne si possono realizzare in mille modi». E la femminilità? «Non sta in un pancione. Basta tutta questa enfatizzazione della maternità». Parole sante anche per la giornalista e scrittrice Candida Morvillo: «Il mio orologio biologico non è mai scattato. Ho preferito il lavoro, i viaggi, gli amici. E poi ci sono così tante coppie/ scoppiate che ci si può sempre trovare, come me, un fidanzato con figli di cui occuparsi ogni tanto ». La scrittrice Camilla Baresani ricorda: «Mamma e nonna mi dicevano sempre "bambina mia non cascarci, non fare figli. Prima il lavoro, poi il resto". Io finora ho ubbidito. Le loro parole però oggi creano imbarazzo». L'ex campionessa di sci di fondo Manuela Di Centa, per il fatto di non avere avuto figli, ha ottenuto l'annullamento del suo primo matrimonio: «Nessuna vergogna, non li volevo e basta. Oggi per me è diverso».
Natalia Strozzi, attrice, imprenditrice e discendente della Monna Lisa, cita la «settimana di 70 ore» della Maier: «Nella mia vita, ora, non c'è spazio per un terzo lavoro ». E anche per chi di lavoro ne ha uno («ma totalizzante»), come l'avvocato Giulia Bongiorno, a volte la scelta si impone: «Professione o figli. Io ho scelto la prima. Forse con un po' di dispiacere ma vergogna no, non scherziamo». Anche Tiziana Maiolo è stata molte cose ma non mamma: «Insegnante, giornalista. Moglie. Mi sono anche divertita. Un mattino mi sono chiesta: "E i figli"? Il mio inconscio aveva lavorato per me». La sintesi del governatore del Piemonte Mercedes Bresso: «Non ho figli perché non ne ho voluti. Sensi di colpa? Pas du tout. Nella mia vita c'è stato molto altro».

«Sessantotto. Tra pensiero e azione» sarà il tema della terza edizione del Festival della Filosofia, da domani a domenica 20 all’Auditorium Parco della Musica.
Tantissimi i protagonisti di quegli anni come Fernando Savater, Erica Jong, Bernardo Bertolucci, Daniel Cohn-Bendit, Adam Michnik, Furio Colombo, Luis Sepulveda, Oliviero Toscani, Achille Bonito Oliva, Massimiliano Fuksas, Fabio Mauri, Ettore Scola, Slavoj Zizek, Toni Negri, Mario Perniola, Giovanni Jervis, Giacomo Marramao, Paolo Fabbri, Eugenio Scalfari. Tra filosofia, arte, politica e giornalismo.

Il Messaggero 16.4.08
Giorello. La guerra dei saperi
di Massimo Forti


Al Festival della Filosofia, da domani all’Auditorium, protagonista il Sessantotto
E il ruolo della scienza: al servizio della conoscenza e della verità o del potere?
Parla il filosofo milanese

«L’ILLUMINISMO ha perseguito da sempre l’obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura». Fa ancora venire qualche brivido l’incipit di Dialettica dell’illuminismo, testo epocale di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, maestri della scuola di Francoforte e guide teoriche delle rivolte del Sessantotto al quale è dedicato il Festival della Filosofia, in programma da domani a domenica 20 all’Auditorium. Erano gli anni dell’incubo nucleare e della guerra fredda, il caso Oppenheimer aveva scosso la coscienza dell’opinione pubblica mondiale, Stanley Kubrick aveva girato Il dottor Stranamore e la scienza stessa si interrogava con angoscia sul proprio ruolo.
Sostiene Giulio Giorello, titolare della cattedra di Filosofia della scienza alla Statale di Milano, che interverrà al Festival partecipando domenica alle 15 alla tavola rotonda Al servizio della verità o serva del potere? La scienza e il problema dell’oggettività con Edoardo Boncinelli, Marcello Cini e Vito Mancuso: «In quell’atmosfera di ribellioni e di insofferenza, guardavo con un certo sospetto questa idea della scienza come forma di dominio, che era appoggiata con forza anche dal movimento studentesco. Il mio maestro Ludovico Geymonat mi aveva insegnato che era semplicistico considerare la rete concettuale su cui si basa la scienza come una semplice sovrastruttura che coprirebbe i rapporti di puro potere. E, per me, la matematica era “il regno della libertà” come la definiva Georg Cantor, il padre della teoria degli insiemi. Questo non mi impediva di capire le ragioni che spingevano molti giovani ad accogliere con entusiasmo i contributi della Scuola di Francoforte e il pensiero di Herbert Marcuse, soprattutto il suo capolavoro Ragione e rivoluzione, in cui esprimeva l’insofferenza per Auguste Comte, al quale si riferivano molte dottrine tecnocratiche, e il suo positivismo inteso come scientismo. Ma lo scientismo - la visione ideologica della scienza come unica forma di conoscenza - non è la scienza. Fare questa confusione è stato l’errore del ’68 e dei sessantottini».
Gli attacchi, però, non venivano soltanto dai filosofi di Francoforte. Anche grandi scienziati - come fece Norbert Wiener, padre della cibernetica, nel memorabile saggio “Dio & Golem s.p.a.” - esprimevano riserve sul potere raggiunto dalla scienza...
«Questo riferimento a Wiener è molto interessante perchè prova che, all’interno della stessa impresa scientifica, esiste una grande capacità di revisione che spesso ha visto in prima linea alcuni suoi grandi protagonisti, da Einstein a Niels Bohr. Penso anche a logici e storici della scienza che, come Thomas Kuhn con il suo saggio La struttura delle rivoluzioni scientifiche, hanno messo in risalto alcuni aspetti problematici della ricerca scientifica che una visione agiografica della scienza nascondeva o sottovalutava. Questa assunzione di responsabilità è un aspetto positivo. In questo senso, il ’68 ebbe i suoi meriti indicando talvolta non una regressione antiscientifica ma un aumento di consapevolezza sui problemi che esistevano».
La scienza si è trovata e si trova tuttora al centro di una “guerra dei saperi”. I filosofi, come è avvenuto con un recente intervento di Emanuele Severino, non hanno mai smesso di rivendicare il primato della filosofia come forma privilegiata di conoscenza...
«Sì, la guerra dei saperi c’è davvero. Ne discuto spesso proprio con Severino. Ma la ricerca scientifica non deve essere “guidata” dai filosofi, dai politici o dai sacerdoti. Ha tutte le risorse per essere indipendente da influenze esterne. Guai ad abbandonarla».
Abbandonarla? Sarebbe stupido e delittuoso. Ma, di fronte alla sua possibilità di controllare la vita e la morte degli esseri viventi, non è necessaria una riflessione critica? E non si deve ammettere che la stessa scienza ha finora solo conoscenze limitate parziali della realtà?
«E’ vero, abbiamo conoscenze parziali e sbattiamo i denti contro grandi difficoltà in tanti campi fondamentali. Potremmo ripetere con Charlie Brown: “Tutto questo significa qualcosa ma non so che cosa”. Per esempio, in fisica non siamo riusciti a raggiungere la grande unificazione tra fisica quantistica e relatività. Dobbiamo prendere decisioni su problemi fondamentali per il futuro dell’umanità: nucleare sì o no, ogm sì o no e così via... Ma con trovate pseudoidelogiche o con quelle che, dopo il ’68, vennero definite le assemblee cattocomunistre non si risolvono certo questi problemi».
Infine, a sorpresa, un singolare “scatto d’orgoglio” filoscientifico con un ricordo personale: «Che senso ha diffidare della scienza e degli scienziati? Neanche Edward Teller, il padre della bomba H, era così cattivo come lo hanno descritto. L’ho conosciuto personalmente ed era molto piacevole e interessante. Ripeteva con convinzione: “La conoscenza è sempre meglio dell’ignoranza”. Dicevano che fosse stato lui a ispirare il personaggio del dottor Stranamore. Mah... Forse, invece, il vero Stranamore è stato John von Neumann, fondatore della teoria dei giochi, che era affascinante ma poteva anche dimostrare un gelido cinismo». Altro che ’68.

Il Mattino 16.4.08
Erica Jong. Donne, paura di volere
«Nel ’68 c’era ottimismo Oggi il clima è cinico» La scrittrice a Roma al Festival della filosofia
di Maria Tiziana Lemme


Non batte ciglio, Erica Jong, gli occhi spalancati su chi le sta di fronte. Scrittrice-icona della generazione della liberazione sessuale, in grado di trasformare quella rivoluzione in best seller, è a Roma per partecipare, venerdì, alla terza edizione del Festival della filosofia, che quest’anno è incentrato sui quarant’anni del Sessantotto (Jong interverrà a una tavola rotonda sul ’68 e il femminismo «tra pensiero e azione» in politica, nella sessualità e nel costume). Sessant’anni, una figlia, tre nipoti e quattro mariti: l’ultimo dei quali è un avvocato newyorchese, Ken Burrows, col quale stipulò un accordo prematrimoniale per bruciarlo poi dieci anni dopo. Sedici libri pubblicati, l’ultimo tradotto in Italia è Sedurre il demonio (Bompiani), una autobiografia, la sua fama è legata al primo: quel Fear of Flying, Paura di volare, che dal 1973 ha venduto ben diciotto milioni di copie in tutto il mondo e ha consacrato la protagonista Isadora Wing come teorica della ”scopata senza cerniera”. Signora Jong, ha seguito i risultati delle elezioni in Italia? «Certo. Vorrei tanto capire meglio la situazione italiana. Perché, mi chiedo, proprio uno come Berlusconi? Io ero convinta, o ci speravo, che vincesse Veltroni. Mi sembra che Berlusconi sia un tale pagliaccio, che mi riesce difficile credere che agli italiani piaccia, e che lo abbiano voluto per la terza volta al governo. Devo dire che sono abbastanza scioccata. Così come sono sconvolta anche del fatto che Bush sia ancora presidente degli Stati Uniti, visto che si sa per certo che le elezioni sono state truccate, sia quelle del 2000 che del 2004. Eppure sembra che alla gente non gliene importi niente. Ma forse la società tende ad avere paura degli intellettuali, da noi come da voi. Ed entrambi, Berlusconi e Bush, sono infatti uomini ordinari, senza valore intellettuale: non hanno competenze, non sanno niente di politica estera, non capiscono i problemi della gente, non affrontano seriamente la questione della sicurezza. Il fatto è che non sono politici ma personaggi da video, che usano la loro immagine, non la loro testa». Come saprà, in lizza c’era anche un partito, «pro-life», per una moratoria sull’aborto. Com’è a riguardo la situazione negli Stati Uniti? «Dentro la destra c’è una minoranza ma molto forte che non vuole più aborti. Il guaio è che sia appoggiata dal presidente e dal vicepresidente, ai quali però non importa un bel nulla dei bambini che sono già nati, che muoiono di fame o sotto le bombe che gli sganciamo. Come mai a questa gente interessano soltanto i bambini che non sono ancora nati? Non è ipocrita? Mi sembra assurdo e inaccettabile che debbano essere degli uomini a decidere che cosa fa una donna del suo utero. Mi ricordo quando negli anni ’70 gli antifemministi dicevano che con la pillola non ci sarebbe più stato un bambino sulla faccia della terra. È stato dimostrato che non è così. Non posso non chiedermi il perché di questa grande reazione contro il femminismo. È una questione che mi appassiona al punto che intendo scriverci». Sta lavorandoci in questo periodo? «Sì. Sto scrivendo proprio su questa grande reazione contro il femminismo. Questi fenomeni vanno compresi appieno sul piano psicologico. Del resto tutta la storia del femminismo è costellata da balzi in avanti e da colossali passi indietro. L’altra cosa che non abbiamo compreso fino in fondo è che cosa veramente significhi la società di massa e che effetti abbia sulla democrazia. Così come va indagata fino in fondo la violenza maschile sulle donne. Il mio impegno è di cercare di capire meglio». Il ’68 fu un po’ il fratello minore che preparò quegli anni Settanta di cui parlava prima. Che anni furono? «Il ’68 l’ho vissuto come un’epoca di grandi speranze. Ci sentivamo dentro la possibilità di cambiare le cose e di cambiarle in meglio. L’immagine diffusa di un periodo tutto sesso droga e rock’n’roll non corrisponde a ciò che sentivamo. Il punto cruciale del ’68 è che noi ci sentivamo dentro un enorme ottimismo e fiducia di essere in grado di fare la differenza. Non penso che i ragazzi di oggi si sentano dentro una cosa del genere. A me pare che si percepiscano molto cinici e nello stesso momento incastrati, senza speranza e vivacità interiore. Forse il fenomeno pubblico, sociale, per lo meno negli Usa, che si avvicina di più a quel clima è il fenomeno Obama». E ancora una volta non si potrà avere una donna presidente degli Stati Uniti. «Ho appoggiato con donazioni e articoli Hillary Clinton, sono convinta che potrebbe essere un ottimo presidente. Ma non posso non accorgermi della misoginia che la circonda. L’informazione è in mano a grandi gruppi di potere ai cui vertici ci sono soltanto uomini». Dove vive oggi, se vive ancora, Isadora Wing? «Ha sessant’anni, ha perso il padre, è nonna. Sto scrivendo un nuovo romanzo su di lei. Sa che cos’è la cosa grande dell’incalzare dell’età? È che tutto diventa più chiaro. Ma nel contempo è doloroso perché ti rendi conto che le persone non cambiano. Nel 2009 uscirà una raccolta di poesie. E di colpo mi sento molto euforica, sa perché? Dopo tutte queste cose, forse, vorrei scrivere un romanzo ambientato nella Roma imperiale. Ci sono notevoli parallelismi con la nostra società».