venerdì 18 aprile 2008

l’Unità 18.4.08
Sinistra, che fare
Da dove ripartire
di Giuseppe Tamburrano


Che fare? Così titolava il famoso opuscolo di Lenin. Già: che fare? Vorrei proporre alcune riflessioni sul risultato più clamoroso e inaspettato di queste elezioni: la (quasi) scomparsa della sinistra. E mi chiedo, preliminarmente: è l’effetto del superamento nella moderna società della dicotomia destra-sinistra, come molti sostengono, o è il «tradimento» della sinistra politica che non ha saputo interpretare i bisogni e le aspirazioni di un’area sociale - e culturale - che c’è, che è rimasta orfana e si è dispersa nel non voto, nel voto per partiti estranei di centro e di destra?
La sinistra sociale e culturale c’è, c’è stata e con molte articolazioni, divisioni, errori era - nella prima repubblica - attorno al 40% (socialisti, comunisti e «sinistra diffusa»). Non può essere scomparsa.
È mutata perché cambiata è la società, ma c’è. Ci sono le vecchie e nuove povertà, i bisogni sociali, le aspirazioni ideali. La società moderna è divisa, diversamente divisa rispetto a ieri, ma divisa: e la dialettica che è la forza del cambiamento e del progresso non si è esaurita: la storia non è finita. E per tanti aspetti nuova perché è il portato, appunto, del processo e del progresso. Prima conclusione: la sinistra c’è ma si è quasi dissolto il soggetto politico che la incarna e la rappresenta.
La controprova empirica è che in Europa c’è la destra e c’è la sinistra. E la sinistra è socialista: anche se lo è più di nome che di fatto e deve aprire gli occhi sui problemi del mondo e rinnovarsi.
Oggi in Italia ci sono fondamentalmente due “poli” ma uno, quello diretto da Berlusconi, paradossalmente è alleato con un partito, la Lega, che si reclama rappresentante di vaste categorie operaie, e ospita una intellighenzia che civetta con concetti di sinistra (Tremonti); e l’altro, quello diretto da Veltroni, che, con un altro paradosso, pur avendo le sue radici nella sinistra storica, ha fatto ogni sforzo per non apparire (e non essere?) di sinistra rifiutando persino e recisamente la parola, l’etichetta “sinistra” per disputare all’altro polo la rappresentanza di interessi e di ceti moderati ed occupare un’area di centro.
Insomma vi è una sinistra storica che rifiuta di esserlo tout court, che non si riconosce nemmeno nella sinistra moderata che è il socialismo europeo, e vi è una sinistra politica che ha preteso di esserlo in modo radicale ma è svanita perché ha doppiamente “tradito” la sua area di riferimento partecipando ad un governo che ha praticato una politica impopolare e non rinnovando il suo “antagonismo” in un progetto di socialismo moderno.
Che fare? È possibile rimettere le cose al loro posto? E rivolgo la domanda prima di tutto a Veltroni. Il quale ha tentato di realizzare in Italia l’operazione riuscita a Blair in Inghilterra. Il leader laburista, senza cambiare nome al partito, ha adottato il liberismo della signora Thatcher: molti elettori conservatori stanchi e delusi di un lungo e ormai inefficiente governo conservatore (erano finiti i tempi ruggenti della signora!) hanno sposato il liberismo del giovane e brillante Tony.
In Italia - questo è stato l’handicap di Veltroni - il governo che ha deluso non è stato diretto dall’avversario Berlusconi, ma dall’amico Prodi. E Veltroni non ha potuto scrollarsi di dosso l’impopolarità di quel governo. E il suo disegno non ha avuto successo. Se ha imparato la lezione il leader del Partito democratico deve guardare dalla sua parte, deve guardare a sinistra, a quel progetto tante volte annunciato e mai neanche avviato di costruire anche in Italia un grande partito socialista di tipo europeo e se possibile più avanzato e moderno di quello europeo.
Sarà un processo lungo - ma abbiamo lunghi anni di governo Berlusconi - che forse vedrà la scissione di Calearo e di Colaninno (e speriamo non di tutta l’ex Margherita), ma è l’unica via per un leader che voglia costruire il futuro e “rassembler” la sinistra: come ha fatto Mitterrand il quale ha invertito il corso e la crisi della screditata socialdemocrazia francese; come ha fatto Nenni che, nel 1956, ha capovolto la sua politica frontista e ha restituito al Psi la sua identità democratica.
Ma un compito importante spetta alla residua sinistra radicale. Bertinotti ha lasciato la carica, ma non ha perso la “carica”. Coinvolgendo il Partito socialista occorre avviare un profondo processo costituente, una Epinay o un congresso di Venezia (Psi 1957) ma non per rilanciare l’Arcobaleno: lo lasci perdere perché non ha annunciato bel tempo, ma è stato foriero dell’uragano. La «via maestra, l’immortale» (ho citato Lenin, cito anche Turati), il quadro di riferimento è il socialismo.
Quella sinistra può rinascere dalle sue ceneri a condizione che 1) a provarci non siano solo quelli che in cenere l’hanno ridotta: e perciò Bertinotti deve cercare nuove facce; 2) si parta dalle idee, dalla ricerca di una nuova identità del progetto socialista, e si cerchi di propagare questo processo al Pd, incalzando Veltroni.
E concludo con l’ultimo paradosso. Il modello del capitalismo globalizzato è in crisi; si accentua il malessere sociale nelle aree metropolitane colpite dalla recessione e si aggravano le già drammatiche condizioni dei Paesi poveri colpiti anche da una crisi alimentare di enormi proporzioni. Ormai il ricorso alla mano pubblica è chiesto e praticato dall’establishment. È il momento della sinistra: la quale invece cerca il “centro”, difende il mercato o si gingilla con un “antagonismo” fraseologico mentre operai, lavoratori precari o a reddito insufficiente, pensionati, famiglie povere, giovani in cerca di avvenire, cittadini tartassati da tasse o rifiuti se ne vanno verso la Lega o la sfiducia.

l’Unità 18.4.08
Dal 1950 al 2002 i sacerdoti accusati di pedofilia sono stati 4392. Negli Stati Uniti le vittime sono almeno cinquemila
Abusi sui minori, cono d’ombra sul viaggio americano
di Stefano Pistolini


La parola chiave è «inerente». C’è una questione più inerente delle altre al viaggio del Papa in America, in corso di svolgimento. Ma andiamo con ordine. Perché la ferita è aperta. La questione non è sanata. L’offesa non è lavata. Benedetto XVI lo sa così bene, che ha atteso il fatidico non-luogo di un aereo in viaggio tra Roma e Washington, in procinto di sbarcare nella capitale americana e di essere affettuosamente accolto da un presidente in dismissione come George W. Bush, per ribadire d’essere ben al corrente dell’allarmante congiuntura: i contraccolpi dell’imperdonabile, perniciosa diffusione della pedofilia nel clero cattolico statunitense, macchia di vergogna che ha prodotto e produce dolore, riflessione e pentimento. Ma da navigato amministratore di anime Ratzinger sa che la pedofilia dei prelati non ha, nel continente di cui adesso è ospite, lo stesso attutito impatto che ha avuto qua da noi: là è diventato un ostacolo psichico in certi casi insormontabile nel relazionarsi con serenità col cattolicesimo, è diventato uno scandalo indicibile, un germe infettivo, una piaga così purulenta che solo un intervento divino, o perlomeno una parola decisiva dal legale rappresentante di Dio in terra, potrà mondare l’onta. E di tutto ciò Benedetto XVI sa che ora l’America gli chiederà ragione, dopo che ha mal tollerato il suo negarsi al passaggio da Boston, la diocesi culla di questa satanica escrescenza.
Due sono i fattori da aggiungere all’analisi. Il primo riguarda le dimensioni macroscopiche del fenomeno: secondo lo studio condotto dal John Jay College, dal 1950 al 2002 sono 4392 i sacerdoti americani (su 109.000) accusati di relazioni sessuali con minorenni. Di questi, per le più diverse motivazioni, poco più di un centinaio sono stati condannati dai tribunali civili. Lo stesso studio precisa poi che il 78,2 % delle accuse si riferisce a minorenni nella postpubertà e che i sacerdoti accusati di vera pedofilia sono 958 in 52 anni, ovvero una media di 18 all’anno. Negli Stati Uniti oggi sono circa 5.000 le persone che hanno dichiarato di essere state vittima di abusi sessuali da parte dei sacerdoti. Lo scandalo, che a partire da Boston ha contagiato la nazione, è costato fin qui oltre 1,5 miliardi di dollari alla Chiesa cattolica Usa in risarcimenti, a cominciare da quello formidabile da 660 milioni di dollari che la diocesi di Los Angeles, guidata dal cardinale Mahoney (anch’egli travolto dalle accuse) ha pagato a 508 vittime di molestie sessuali, molte delle quali avvenute in un passato lontano, con un’intesa che ha posto fine a tutte le azioni legali nei confronti dell’arcidiocesi più popolosa d’America, per quanto non abbia certo messo a tacere le inquietudini dei fedeli. Il risarcimento medio per ciascuna vittima di molestie è stato stabilito in 1,3 milioni di dollari. Altre diocesi hanno rischiato la bancarotta, come quella di Boston che ha pagato 157 milioni di dollari, o i 129 milioni sborsati dalla diocesi di Portland. Cinque diocesi - San Diego, Davenport, Portland, Spokane e Tucson - hanno richiesto la protezione dalla bancarotta.
Il secondo fattore, che aggrava la drammaticità della vicenda, riguarda le ventilate responsabilità dirette di Joseph Ratzinger nella vicenda, che pongono ancor più sotto i riflettori il pontefice al fatale appuntamento di questo viaggio in America. Risale al 1962 il documento emesso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede consistente in un’«Istruzione» dal titolo «Crimen Sollicitationis», che sanciva la competenza esclusiva della Congregazione su alcuni reati tra cui «la violazione del Sesto Comandamento» che recita «non commettere atti impuri» laddove coinvolgessero un membro del clero e un minorenne. La firma del documento è del cardinale Alfredo Ottaviani, con l’approvazione di papa Giovanni XXIII. Ma nell’anno 2001 il «Crimen Sollicitationis» viene menzionato nella lettera «De Delictis Gravioribus» che rivede l’istruzione alla luce delle riforme dei codici di diritto canonico. E qui le firme sono quelle dei cardinali Ratzinger e Bertone, che qui non disinnescavano, bensì reiteravano (contrariamente a quanto sostenuto dal Vaticano) la volontà della Chiesa di Roma di farsi giudice unica di particolari delitti commessi nel suo grembo. Una responsabilità che nel settembre 2005 negli States costa a Ratzinger una procedura giudiziaria civile per l’accusa di complotto allo scopo di coprire le molestie sessuali di un seminarista del Texas contro tre ragazzi. Accusa poi bloccata dal vice ministro della giustizia Usa Peter Keisler in nome dell’immunità di cui Benedetto XVI, nel frattempo divenuto Papa, gode in quanto capo di Stato, secondo quanto stabilito dalla Corte Suprema. E comunque un segno di rispetto che certamente non è sfuggito al Papa tedesco.
Così il viaggio americano di Ratzinger va in scena in questo cono d’ombra. A Boston i comitati delle vittime di violenze sessuali hanno comprato pagine sui quotidiani per manifestare la loro rabbia verso il pontefice. Che, fin dall’inizio, fin dalle dichiarazioni d’alta quota con cui ha rotto gli indugi ed è piombato sul punto dolente di questa visita pastorale, dimostra la volontà di superare questa crisi spinosa. Errori commessi, omissioni, colpe. Infine il desiderio di ristabilire la dignità di un clero che rischiava d’essere travolto dal disastro-pedofilia. Mentre si sgranano le giornate della sua visita americana, appare chiaro che i motivi dell’espiazione e della ritrovata serenità sono molto più al centro delle intenzioni di Benedetto XVI di quanto si sarebbe potuto presupporre scorrendo il denso programma di appuntamenti politici del viaggio. La sensazione è che, tra Washington e New York, Ratzinger intenda soprattutto mettere riparo al torto commesso da quei cattivi soldati dell’esercito di cui ora è il responsabile tattico e morale.

l’Unità 18.4.08
"Le parole non bastano a noi abusati dai religiosi"
Il leader dell´Associazione: "A quell´incontro solo in pochi. Ora servono fatti"
di Arturo Zampaglione


"Chiediamo che sia dato il buon esempio, punendo chi ha protetto i responsabili "

NEW YORK - Le vittime dei preti pedofili non si accontentano né delle espressioni di «profonda vergogna» di Benedetto XVI, né dell´incontro di ieri del Papa con alcuni di loro.
«Ci aspettavamo un atteggiamento più fermo nei confronti di vescovi e cardinali che hanno nascosto le nefandezze dei sacerdoti», si lamenta Peter Isely. «Invece il Papa non ha redarguito nessuno e si è limitato a pregare assieme a un piccolo numero di vittime, scelto con molta cura, rifiutandosi di incontrare i membri della nostra associazione».
Molestato da un sacerdote del Wisconsin quando aveva appena 13 anni - e rimasto cattolico - , Isely è uno dei leader dello Snap (Survivors network of those abused by priests), l´associazione cui fanno parte 4500 vittime e che in questi giorni accompagna la visita pontificia con manifestazioni di protesta. Gli obiettivi? «Chiediamo che sia dato il buon esempio, punendo alcuni prelati che hanno protetto i pedofili ed estendendo le norme introdotte negli Stati Uniti al resto della Chiesa», dice Isely in un colloquio con Repubblica.
Non è importante, per voi, la grande attenzione del Papa per un problema che ha scosso e indebolito la Chiesa americana?
«Abbiamo apprezzato le parole del Santo Padre: ma sono rimaste per aria, a 10mila metri d´altezza, cioè alla stessa quota dell´aereo che lo portava qui negli Stati Uniti, senza mai scendere sulla terra e tradursi in azioni concrete. Il Papa si è seduto accanto al cardinale di Chicago, Francis George, senza mai rimproverarlo. E ha deplorato l´onnipresenza della pornografia e dei temi sessuali in televisione come se fossero una causa della pedofilia dei sacerdoti».
Che ha fatto di male il cardinale di Chicago?
«Nel 2005, invece di sospendere Daniel McCormack, un sacerdote arrestato per pedofilia, il cardinale lo trasferì in un´altra parrocchia, dove il prete continuò a molestare i bambini, tanto da essere arrestato una seconda volta. Vede: non sarà mai possibile evitare casi di pedofilia, ma se vengono scoperti non si può proteggere il colpevole. Invece è proprio quello che ha fatto la Chiesa: rifiutandosi di denunciare alla magistratura i sacerdoti pedofili, o trasferendoli in altre diocesi o persino all´estero».
Ora però la Chiesa americana ha voltato pagina.
«È vero, ma ci sono ancora molte ambiguità. Secondo i dati forniti dai nostri vescovi, ci sono stati 5180 sacerdoti pedofili: alcuni sono morti, come quello del Wisconsin che molestò 40 ragazzini tra cui il sottoscritto, ma altri sono stati semplicemente nascosti. E non è mai stato punito alcun responsabile dell´insabbiamento istituzionale».
Perché ha da ridire sulle critiche di Ratzinger alla pornografia?
«Capisco che il Papa abbia difficoltà nell´accettare che la sacralità del sacerdozio venga tradita dalla pedofilia. Ma questa è la realtà. E per combattere il problema non bisogna dare la colpa alla cultura di massa perché incensa la sessualità, ma allertare la magistratura e soprattutto allontanare i complici, anche se indossano la porpora. Mi sorprende pure che le sanzioni del diritto canonico per i sacerdoti pedofili si applichino soltanto agli Stati Uniti, non a tutta la Chiesa: come se il problema fosse solo americano, mentre sappiamo bene che è mondiale».

l’Unità 18.4.08
Lorenz, l’uomo che aveva capito il caos
di Andrea Barolini


È MORTO l’altro ieri a Cambridge il meteorologo che teorizzò il funzionamento dei fenomeni complessi. Celebre la sua frase «il battito d’ali di una farfalla in Brasile può generare un tornado in Texas?»

Forse oggi - anche per chi non ha studiato fisica né si è mai chiesto come funzionino le previsioni del tempo - la frase «può il battito d’ali di una farfalla in Brasile generare un tornado in Texas?» non sembra più una provocazione. Quando Edward Lorenz la pronunciò (ufficialmente) per la prima volta, il 29 dicembre del 1979 alla conferenza annuale dell’American Association for the Advancement of Science, il mondo non conosceva l’effetto serra (per lo meno al di fuori del mondo accademico), i ghiacciai sulle montagne resistevano e il clima non aveva dato segni di squilibrio allarmanti. Era difficile, insomma, comprendere come i comportamenti collettivi potessero avere conseguenze globali. Figuriamoci quelli individuali. Figuriamoci il battito d’ali di una farfalla. Eppure lo scienziato americano aveva ragione. Tanto che la sua «teoria del caos» ha rivoluzionato, dagli anni 60 ad oggi, tutte le discipline scientifiche. «Ha messo fine all’universo cartesiano e ispirato la cosiddetta terza rivoluzione scientifica del ventesimo secolo, dopo le teorie della relatività e della fisica quantistica», ha spiegato Kerry Emanuel, docente di scienze atmosferiche al Massachusetts Institute of Technology.
Lorenz è morto mercoledì, novantenne, nella sua casa di Cambridge. Era nato nel 1917 a West Hartfort, nel Connecticut; si era laureato in matematica prima al Dartmouuth College nel 1938 e due anni più tardi ad Harvard. «Da ragazzo ero sempre stato interessato ai numeri, e insieme affascinato dai cambiamenti del tempo», scrisse più tardi. Nel 1943 si era specializzato come meteorologo al Mit. Proprio come meteorologo, poté approfondire la materia in tempo di guerra (la seconda mondiale), mentre prestava servizio per l’aeronautica americana. Dimostrò già allora ciò che è oggi noto a chi si occupa di previsioni del tempo. E cioè che i modelli matematici (che simulano, sulla base di equazioni fisiche, le condizioni dell’atmosfera nel futuro prossimo) hanno dei limiti temporali di previsione. L’attendibilità, infatti, è superiore all’80% solo nei primi tre - quattro giorni.
Quello che è passato alla storia come l’«effetto farfalla» - citato anche in best seller come Jurassic Park di Michael Crichton - saltò agli occhi di Lorenz nel corso di un programma di simulazione del clima che si basava su dodici variabili. Lo scienziato scoprì che, ripetendo la stessa simulazione ma modificando (seppur di pochissimo) i valori immessi, l’elaborazione finale fornita dal computer si discostava notevolmente dai risultati precedenti. In quegli anni creò una sorta di modello-giocattolo della meteorologia: il suo computer non aveva memoria né velocità sufficienti per elaborare una simulazione realistica del comportamento dell’atmosfera. Anche in questo caso i risultati forniti dalla macchina non erano mai gli stessi. Per quanto si trattasse di modelli ricorrenti, in ogni ripetizione variavano sempre alcuni elementi. Erano, appunto, imprevedibili. Da qui l’intuizione della teoria del caos.
Sulla scorta di quei risultati, nel 1963 Lorenz pubblicò un articolo intitolato Deterministic Nonperiodic Flow in cui - partendo da un modello dinamico non lineare per la descrizione dei moti convettivi nell’atmosfera (ovvero la circolazione delle correnti) - descriveva il fenomeno del «caos deterministico». Le conclusioni alle quali giungeva erano simili a quelle descritte dal matematico francese Henri Poincaré (precursore del relativismo einsteiniano) 60 anni prima. Ma suscitarono grande scalpore per la loro «graficizzazione» (il renderle immagini, attraverso l’elaborazione al computer) e per l’interesse di cui già godeva la meteorologia anche al di fuori dei circoli accademici.
Le sue intuizioni gli sono valse numerosi riconoscimenti, tra i quali il premio Kyoto per le scienze applicate per aver dato vita ad «una rivoluzione pari a quella di Isaac Newton nel modo con cui l’uomo vede la natura», si legge nelle motivazioni.
Ma non il Nobel, perché la meteorologia non è tra le discipline premiate. E forse è ora che lo diventi…

l’Unità 18.4.08
Un nuovo sguardo sulla vita
Ha messo d’accordo il caso e la necessità
di Marcello Buiatti


In tutte le discipline scientifiche, l’introduzione dei concetti relativi alla complessità ideati da Edward Lorenz ha avuto un effetto dirompente. Il denominatore comune di tutto è l’aver trovato una sorta di «soluzione» alla contrapposizione tra i concetti di caso e di necessità. Mentre fino a qualche decennio fa si tendeva a considerarle come categorie separate - e, in qualche misura, dicotomiche - oggi le si osserva come parti diverse di un tutto. È scomparso l’aut-aut «o caso, o necessità» per lasciare spazio, appunto, ai sistemi «complessi». Per chi studia la natura, nelle sue diverse forme, ciò ha significato cominciare a valutarne i comportamenti secondo, da un lato, la loro predeterminazione (la «necessità»), dall’altro i suoi elementi di casualità. Da queste considerazioni, la fisica ha partorito lo studio delle dinamiche non lineari, a partire dal 1961, attraverso l’applicazione delle modellizzazioni matematiche. La biologia, invece, sta superando le concezioni che interpretano la vita come un’evoluzione predeterminata dalla nascita (attraverso le «istruzioni» del nostro Dna) oppure, al contrario, come frutto del caso. La prima corrisponde ad una visione meccanicistica, in cui l’essere vivente è costituito come una macchina fatta di singoli componenti che, presi ciascuno singolarmente, sono identici in tutti gli esseri umani. Come se fossimo organismi dotati di «programmi» con un’unica «configurazione». Nel secondo, la concezione è quella teorizzata non già da Darwin ma dai neutralisti, sostenitori appunto della casualità.
Ci sono voluti i moderni studi di genetica per superare questa dicotomia. In particolare, l’aver dimostrato come solo l’1,5% del nostro Dna sia composto da geni - mentre il resto è costituito da «strumenti» che controllano quei geni, interagendo al contempo con il contesto esterno -, ha imposto un ripensamento delle teorie sull’evoluzione umana. Oggi sappiamo che i nostri geni sono «ambigui»: ciascuno di essi è in grado di produrre non una sola, ma fino a 60mila diverse proteine. E ciò accade proprio in funzione degli stimoli esterni. L’evoluzione attuale della biologia ha giovato anche alla fisica, che fino a poco tempo fa studiava sistemi complessi di durata relativamente breve (ad esempio la dinamica della forma di una goccia d’acqua), mentre oggi ha a disposizione gli stessi esseri viventi.
L’eco del lavoro di Lorenz, insomma, continua a riverberare in tutte le discipline scientifiche (non ultime la psicologia, la psichiatria e la medicina). E, con essa, si fa largo un’idea relativista in tutte le branche della scienza.

l’Unità 18.4.08
Aimé Césaire: il poeta della «negritudine» che non amava Sarkozy
di Marco Innocente Furina


È morto ieri il poeta cantore della cultura nera caraibica, Aimé Césaire. Noto in italia per titoli come Negro sono e negro resterò, Diario del ritorno al Paese Natale e Una stagione nel Congo, Césaire si è spento all’età di 94 anni nell’ospedale di Fort-de-France, la città, capoluogo della Martinica, di cui è stato sindaco per 56 anni, e dove era stato ricoverato il 9 aprile per problemi cardiaci. Insieme ad autori come il senegalese Léopold Sédar Senghoer, Césaire aveva coniato il termine «negritudine», come «affermazione dell’orgoglio di essere nero», anticipazione di quel «nero è bello» che sarebbe diventato lo slogan dell’emancipazione degli afroamericani.
Dopo gli studi secondari in Martinica, si trasferisce a Parigi dove frequenta l’Università e conosce il senegalese Léopold Sédar e Léon Gontran Damas originario della Guiana. Insieme si appassionano alle opere sull’Africa scritte da autori europei, scoprendo la storia e i tesori del continente nero. Una rivelazione che porta Césaire a elaborare il concetto di négritude, come nozione che comprende i valori spirituali, artistici, filosofici dei neri africani, e che costituirà lo sfondo ideologico di tutte le lotte per l’affermazione dei diritti degli afroamericani.
Come poeta è considerato uno dei massimi esponenti del surrealismo francese, ma in lui l’impegno letterario si accompagnò sempre a quello civile e politico. Nel 1932 fondò la rivista L’Etudiant Noir (lo studente nero), una pubblicazione in cui per la prima volta alcuni scrittori di colore rifiutano di seguire i modelli tradizionali della letteratura europea. Tornato in patria diede vita al partito progressista della Martinica con l’obiettivo di perseguire l’autonomia della sua isola (tutt’ora dipartimento d’oltremare francese) e «l’uguaglianza sociale». Nel 1950 pubblica il Discorso sul colonialismo, un virulento attacco contro l’Occidente, accusato di essere responsabile del «più grande cumolo di cadeveri dell’umanità». Ma il suo lavoro più popolare è il poema, risalente al 1939, Diario del ritorno al Paese Natale, che può essere considerato l’enciclopedia degli schiavi neri e al tempo stesso l’espressione della speranza della liberazione.
Il poeta non venne mai meno al suo impegno politico e coerente con la sua dottrina anticolonialista nel 2005 rifiutò di incontrare il ministro degll’Interno, Nicolas Sarkozy in visita nelle Antille. «Non saprei come adeguarmi allo spirito e alla lettera della legge del 23 febbraio 2005 - aveva spiegato - che riconosce il ruolo positivo della presenza francese oltre mare». Alla fine l’incontro ebbe luogo un anno dopo, nel marzo del 2006, ma il poeta non rinunciò a un forte gesto simbolico, regalando una copia del suo Discorso sul colonialismo a Sarkozy. Che ieri l’ha voluto ricordare così: Césaire è un «simbolo di speranza per tutti i popoli oppressi», grazie alla lotta per il «riconoscimento della sua identità e la ricchezza delle sue radici africane». Parole di cordoglio anche da Segolene Royale che ha definito il poeta l’«illustre simbolo di una Francia multirazziale».

l’Unità 18.4.08
Roma. «Un voto per difendere la città democratica»
di Jolanda Bufalini


Morassut: Alemanno non ha voglia di fare il sindaco, quando glielo proposero disse «ho già dato»

«HO GIÀ DATO». Forse ora si mangia le mani ma allora, quando Gianfranco Fini si era sfilato, Gianni Alemanno di primo acchito rispose così all’ipotesi di una sua candidatura a Roma. Con tutto il rispetto, come si dice a Roma, «nun glie va», chiosa ora l’ex
assessore all’Urbanistica della giunta Veltroni Roberto Morassut e, del resto, è comprensibile «perché fare il sindaco di Roma è il mestiere più faticoso che possa capitare a un esponente politico». Insomma, Alemanno non si meriterebbe una vittoria, per tanti motivi fra i quali c’è pure quella svogliatezza, quel senso di costrizione di una candidatura nata da mediazioni politiche e non da una scelta per la città: «Non è stato certo assiduo in consiglio comunale, anzi è stato un campione di assenteismo. E ora ha a portata di mano l’obiettivo che preferiva, una poltrona da ministro».
Francesco Rutelli invece ha fatto una scelta che è un atto di amore per la città. C’è l’investimento fatto su un leader nazionale. «C’è l’esperienza che consentirebbe a Francesco di entrare subito in medias res, in un momento delicato per lo sviluppo di Roma che deve fare i conti con una sempre maggiore internazionalizzazione, con la globalizzazione e la multiculturalità».
Questo è solo una delle ragioni per cui Morassut, che è stato segretario della federazione romana dei Ds, chiama, al «tumultus»: «come dicevano gli antichi romani quando c’era ragione di allarme per la città: ognuno prenda in mano l’agenda, spedisca e mail, prenda iniziative in ogni caseggiato, in ogni strada, in ogni mercato perché la vittoria è a portata di mano, ha ragione Francesco quando sottolinea che ci sono 84mila voti di vantaggio. E il voto per Rutelli e Zingaretti può segnare subito la riscossa democratica del centro sinistra in una città che da 15 anni vive un’esperienza di buongoverno, che viene giudicata tale anche da molti osservatori internazionali». Il voto, oltretutto, cade a metà fra le celebrazioni del 25 aprile e del primo maggio. «Forse la discriminante antifascista non è più posta con la forza di un tempo ma un problema attuale c’è: questi sono stati di giorni di offesa al tricolore, alla presidenza della Repubblica. È importante la risposta di saldo legame con i valori della Repubblica e della giustizia sociale».
Preoccupano l’ex assessore l’alleanza a livello nazionale delle due B: Bossi e Berlusconi e l’apparentamento locale con le forze rappresentate da Storace: «L’ostilità a Roma, il malgoverno, la questione morale e l’estremismo sono quattro argomenti per non votare Gianni Alemanno», dice: «Alemanno fa nel programma promesse mirabolanti di un milione e mezzo per le periferie romane, mentre Berlusconi annuncia misure impopolari. Più modestamente, chieda al governo Bossi-Berlusconi se confermeranno per il 2009-2010 lo stesso stanziamento che Prodi ha dato per finanziare “Roma Capitale” nel 2007-2008, di 650 milioni. Il più grande finora erogato». Malgoverno? «Storace, che ora si apparenta con Alemanno, ha distrutto i bilanci e la sanità del Lazio, era a capo di una giunta che ha un numero impressionante di inquisiti». Estremismo? «Storace ha forse condannato quei gruppi violenti che abbiamo visto in azione soprattutto allo stadio? Come si concilia questo con i discorsi sulla sicurezza urbana? E come si concilia l’apparentamento con una forza neofascista di fronte alla chiara presa di posizione della comunità ebraica attraverso le parole del presidente Pacifici?»
A proposito di apparentamenti c’è un’altra cosa che Morassut vuole dire: «Sono oggetto di valutazioni che spettano a Francesco Rutelli, io do una testimonianza personale: nel periodo molto conflittuale con la giunta Storace, io ho trovato sia in Ciocchetti che in Dionisi, assessori all’urbanistica regionale in tempi diversi, atteggiamenti aperti e propositivi».

Repubblica 18.4.04
La comunità ebraica verso il sit-in "Il Pdl rifiuti l´appoggio di Storace"
di Gabriele Isman


Perla Pavoncello "Se ci fosse questa alleanza con la Destra resterei spiazzata"

ROMA - «Alemanno e Storace erano assieme nella Destra sociale, e sono ancora amici. No, l´apparentamento non ci piace». Angelo Sermoneta, 60 anni, commerciante, è il presidente del Circolo del ‘48, anno della nascita dello Stato di Israele, intitolato a Raimondo Di Neris, che, tornato da Auschwitz, divenne una delle anime del ghetto romano. Si misurano umori e sensazioni della comunità ebraica all´indomani delle dichiarazioni a Repubblica di Riccardo Pacifici che da poche settimane, della stessa comunità, è presidente. Esponenti della comunità si mobilitano: per lunedì si annuncia un sit-in al Portico d´Ottavia, cuore del ghetto. «Una serata contro il fascismo», annuncia Vittorio Pavoncello, candidato per la lista Rutelli. «Pacifici - spiega Pavoncello - ha voluto ricordare che Fini ha intrapreso un percorso partito a Fiuggi. Ora un apparentamento con Storace sarebbe un ritornare indietro in quel percorso».
A fine giornata è lo stesso presidente, da Israele, a intervenire: «Se Buontempo continua a dichiararsi fascista, sono certo che la mia Comunità sarà compatta e unita nel respingere al mittente le sue farneticanti dichiarazioni», attacca Pacifici. «Da questo momento entrerò in silenzio stampa fino al termine ultimo dell´apparentamento che dovrebbe avvenire domenica alle 19. Dopo, faremo le nostre legittime considerazioni».
Dallo stesso schieramento di Alemanno attacca Perla Pavoncello, la precaria che in uno studio della Rai si era sentita rispondere da Berlusconi che per sistemarsi nella vita bisogna sposare un milionario. «Non so se ci sarà», dice la Pavoncello che per alcune ore era anche stata data in corsa per le Comunali nelle liste del Pdl, «ma se ci fosse questa alleanza con la Destra spiazzerebbe le mie certezze».
Poco dopo le 18 nel Circolo di via della Reginella c´è una riunione per ragionare sul ballottaggio del 27 e 28 aprile. Arriva Stefano Valabrega, 55 anni, vicepresidente degli ebrei romani: «Qualsiasi forma di fascismo vecchio o nuovo è inaccettabile per la comunità». E Sermoneta: «In questi giorni abbiamo visto per le vie di Roma i camion scoperti con le bandiere fasciste de La Destra di Storace. Poi ogni ebreo è libero di votare come crede. Fra Alemanno con Storace e Rutelli, mi tappo il naso e voto Rutelli».
Carla Di Veroli è nel coordinamento romano del Pd: l´estate scorsa fu derubata e picchiata da due romeni, ma ora sta bene. «Buontempo - dice Di Veroli - ha dichiarato che a Roma se c´è la comunità ebraica ci possono stare anche gli zingari. Nel loro programma si prevede la chiusura di tutti i campi rom, e se potessero, deporterebbero loro e noi. Tanto è il settantesimo anniversario delle leggi razziali che colpirono ebrei e zingari».
L´apparentamento risulta davvero «una pessima idea» come alle agenzie la definisce Tullia Zevi: «Non si può non tener conto di chi ha un pesante passato e una nostalgia altrettanto pesante» dice l´ex partigiana di Giustizia e Libertà che suggerisce ad Alemanno di «dormirci su e ripensarci». La riunione prosegue. Sui muri del Circolo, tra immagini d´epoca e cimeli, un pezzo di filo spinato: «Viene da Auschwitz, l´ha riportato chi è riuscito a tornare vivo. E per noi i tempi non sono cambiati» dice Sermoneta.

Repubblica 18.4.04
Per la prima volta consultabili su Internet tutte le carte dello scienziato
Darwin, i segreti in un clic
di Enrico Franceschini


Fotografie, appunti, diari, scambi epistolari: tutti consultabili su Internet La Cambridge University Library pubblica gli scritti dello scienziato
Oltre ai testi più celebri, ora sono consultabili anche alcune "chicche" come un manuale di cucina scritto di suo pugno
Il curatore del nuovo sito: "È una delle più importanti collezioni nella storia della scienza"

«Sono rimasto estremamente colpito da circa un mese di osservazione del carattere dei fossili Sudamericani, e delle specie animali dell´arcipelago delle Galapagos. Da questi fatti, e specialmente dal secondo, derivano tutte le mie idee». Così scriveva, prendendo furiosamente appunti su un taccuino di pelle, Charles Robert Darwin, nel luglio del 1838, tre anni dopo essere tornato in Inghilterra dal viaggio intorno al mondo che avrebbe cambiato la sua vita, e anche la percezione universale dell´evoluzione umana.
Quel foglietto di carta ingiallito dal tempo, su cui scorre la calligrafia quasi illeggibile di uno dei più grandi scienziati della storia, è ora a portata di mano di chiunque abbia un computer e una connessione a Internet. La Cambridge University Library, che nel 1942, sessant´anni esatti dopo la morte di Darwin, ricevette dai suoi eredi l´archivio personale dell´autore di «Le origini della specie», ha messo infatti da ieri sul web l´intera documentazione, vale a dire oltre 20 mila libri, manoscritti, lettere, taccuini e circa 90 mila immagini, schizzi, fotografie, disegni. «Fino ad oggi questi materiali erano stati esaminati soltanto da accademici e studiosi nelle sale chiuse al pubblico della nostra biblioteca», spiega John van Wyhe, direttore di «Darwin Online», come si chiama l´iniziativa. «D´ora in poi invece saranno a disposizione di tutti, gratis, su Internet. Darwin ha cambiato per sempre la nostra percezione della natura, e le sue carte dimostrano come immensamente dettagliate fossero le sue ricerche. Diffonderle in questo modo segna una rivoluzione nell´accesso a una delle più importanti collezioni nella storia della scienza». E rappresenta pure un´altra prova, se ce ne fosse ancora bisogno, del potenziale e del valore della rete che ci mette in comunicazione con tutto e con tutti.
Chiaramente suddivisa per argomenti e cronologia sul sito www.darwin-online.org.uk, la collezione Darwin include le prime stesure manoscritte della teoria dell´evoluzione, appunti sul viaggio della Beagle, la nave su cui il naturalista, appena 22enne, viaggiò per cinque anni dall´Inghilterra all´America Latina fermandosi alle isole Galapagos, i suoi dubbi religiosi, la sua meraviglia davanti alle tartarughe giganti, agli iguana e ad altri animali fino a quel momento sconosciuti, ma anche tutto quanto Darwin raccolse nel corso della sua esistenza, libri, articoli di giornali, recensioni delle sue opere, il diario dei suoi anni giovanili con le prime osservazioni ornitologiche, il primo disegno del cosiddetto «albero della vita», oltre alla sua numerosa corrispondenza privata. Altri materiali fanno luce sulla vita della sua famiglia, cioè di una tipica famiglia intellettuale e altolocata dell´epoca vittoriana, compreso il libro di ricette di sua moglie Emma e anche una guida, scritta da Darwin medesimo, su come si cucina il riso, quasi si trattasse di un complicato esperimento scientifico: «To cook rice. Add salt to the water and when boiling stir in the rice» («Per cucinare il riso. Aggiungere sale all´acqua e gettare il riso quando bolle»), comincia la dettagliata spiegazione. Leggendola, è come trovarsi in cucina con lui, e scoprire che per Darwin tutto era appassionante, misterioso, degno di essere studiato, analizzato, osservato: perfino una banalissima pentola d´acqua che bolle sul fuoco.
Le carte coprono tutta la vita di Darwin, dai momenti salienti, come la pubblicazione del suo libro «L´origine della specie» nel 1858, che andò esaurita in un giorno e fece istantaneamente di lui uno scienziata di fama mondiale, alle polemiche sulla fede e con la religione, che lo accompagnarono fino alla morte, nel 1882, quando ricevette un funerale di stato nella cattedrale di Westminster, dove fu sepolto, accanto alla tomba dell´altro grande scienziato britannico, Newton. C´è anche, nell´archivio dei suoi documenti on line, un curioso memorandum sul matrimonio, che Darwin vergò, forse con intento vagamente umoristico, nel 1838, quando aveva 29 anni ed era ancora scapolo: «Ragioni per non sposarsi. Libertà di andare dove si vuole, conversazione con uomini intelligenti al club, nessun obbligo di visitare i parenti della sposa, niente spese e preoccupazioni per i figli, niente bisticci familiari, niente perdite di tempo, niente ansie e responsabilità, puoi leggere la sera quanto vuoi, puoi spendere tutti i soldi che vuoi per i libri». Il club per gentiluomini in cui preferiva fare conversazione, piuttosto che stare a casa con una consorte, era il celebre «Atheneum», nel centro di Londra, dove a tutt´oggi è conservata, identificata da una targhetta, la poltrona su cui sedeva Darwin. Ma gli argomenti in favore del matrimonio, alla fine, prevalsero sui piaceri della conversazione tra uomini e del celibato: «Figli, compagnia costante, un´amica per la vecchiaia. Comunque sia, meglio di un cane». Non proprio un gran complimento alle donne: ma l´anno seguente lo scienziato si sposò, e dalla moglie Emma, una sua lontana cugina, ebbe ben dieci figli (tre morirono in tenera età), che lo appassionarono, si può dire, non meno degli iguana, come testimoniano gli appunti ora finiti su Internet. Dopo la nascita di William Erasmus, suo primogenito, il 27 dicembre 1839, per esempio lo studioso scriveva, evidentemente compiaciuto: «Durante la prima settimana, sbadiglia, si stiracchia esattamente come farebbe un vecchio signore, ha il singhiozzo, starnutisce rumorosamente».
L´evoluzione della specie, in questo caso della specie personale e privata di Charles Robert Darwin, da quel momento era garantita. E lui lo annotava coscienziosamente sul suo taccuino.

Repubblica 18.4.04
Nelle periferie crescono le bande femminili La polizia di Parigi: sono peggio dei maschi
Le ragazze delle banlieues dure, violente e arrabbiate
di Giampiero Martinotti


Fra i 13 e i 16 anni sono soprattutto nere e figlie di immigrati di prima generazione
Ha fatto scalpore una rissa in periferia: botte e minacce per un amore conteso

«Mettetevi nei nostri panni: quando due bande di ragazzotti si affrontano, è abbastanza facile dividerli, basta picchiarli di santa ragione e alla fine si calmano. Ma quando a battersi sono delle ragazzine? Dobbiamo pestarle come i maschi? É impossibile, ma al tempo stesso diventa più difficile mettere fine a una rissa». L´ufficiale di polizia manifesta i dubbi e lo sconcerto di fronte a un fenomeno nuovo, ancora marginale, eppure in crescita costante: la formazione di bande femminili nelle banlieues. Che come quelle maschili non esitano al confronto fisico, non solo con le mani, ma anche con cacciaviti, coltelli, mazze. Le statistiche, per quanto possano prestarsi a letture diverse, danno una consistenza a questa realtà. Certo, solo una ragazza per sei maschi è stata responsabile di violenze fisiche "gratuite" (cioè non legate a furti o altro) nel 2007, ma in cinque anni il loro numero è aumentato del 140 per cento.
Il fenomeno è preoccupante. Finora, infatti, nelle banlieues esistevano due profili radicalmente diversi a seconda del sesso. Da un lato, i maschi, più violenti, più inclini ad agire in branco, a organizzarsi in bande che controllano «il proprio territorio», abituati fin da piccoli alla baby delinquenza, allo spaccio di droga, alle bagarre. Dall´altro, le ragazze, che frequentano assiduamente le scuole (a differenza dei maschi), che studiano per crearsi una posizione, come si diceva un tempo, sfuggire alle periferie in cui sono cresciute e soprattutto a una cultura familiare che le opprime. Adesso, le cose sono un po´ cambiate, non tutte le ragazze credono di poter sfuggire alla loro condizione attraverso la scuola e il lavoro.
Malgrado i francesi siano reticenti (per non dire ambigui), le ragazzine violente appartengono a un gruppo etnico ben definito: sono nere e figlie di immigrati di prima generazione. Alla base, insomma, ci sarebbe un fenomeno di sradicamento. Hanno fra i 13 e i 16 anni, cercano di avere comportamenti da maschiaccio, si vestono in maniera vistosa, pensano che mostrarsi come una "dura" sia indispensabile per imporsi nel quartiere e farsi rispettare. Ripetono insomma i cliché maschilisti. E la loro violenza, spesso, si riversa contro le ragazzine femminili, che si vestono scollate, le «puttanelle» che cercherebbero di rimorchiare i ragazzi del loro quartiere.
L´unica grande rissa femminile finora conosciuta, svoltasi in febbraio a Chelles, nella periferia parigina, aveva infatti questo motivo: una battaglia tra una ventina di ragazzine (armate di cacciaviti e perfino di un coltello da carne proveniente dalla mensa scolastica) a causa di una banale storia di flirt tra giovani che vivono in quartieri diversi. Niente a che fare con una moderna versione dei Capuleti e Montecchi, ma piuttosto una vicenda di «branco», di delimitazione del proprio potere all´interno di un territorio.
Potere seduttivo, fisico, violento. Come fanno i maschi. Secondo lo psicanalista Didier Lauru, le ragazze «s´identificano alla violenza dei maschi sia per difendersi sia per avere un´identità positiva, che non sia quella della vittima, poiché questa posizione violenta dei maschi è quella valorizzata fra gli adolescenti delle borgate». In pratica, la violenza è l´altra risposta a una cultura maschilista, propagata dal rap, in cui le ragazze sono sottomesse e spesso trattate da prostitute. E per sottrarsi a questo cliché adottano i comportamenti maschili, come dimostra il linguaggio di una delle ragazze protagoniste della rissa di Chelles: «Mi capita spesso di picchiarmi. Se una ragazza mi guarda male, se viene dal mio settore, la sfondo, la inc...». Parole che rivelano come le femmine abbiano letteralmente ripreso il comportamento dei maschi.
Di fronte a questa violenza, i genitori sono disarmati. Quasi sempre si tratta di famiglie arrivate da poco, che già si battono per integrarsi, per far propri i valori educativi e culturali europei e che non sanno cosa fare di fronte a ragazze che sfuggono sia ai vecchi canoni africani sia ai nuovi canoni europei. E sono le madri ad affrontare da soli la situazione, visto che i mariti pensano che l´educazione dei figli, in particolare delle ragazze, riguardi esclusivamente le madri.
Del resto, alcuni membri di associazioni che lavorano nelle banlieues tendono a relativizzare il fenomeno: il problema non sarebbe tanto una crescita della violenza femminile, ma piuttosto l´età in cui le ragazzine cominciano ad avere comportamenti delinquenziali. Un problema non molto diverso da quello dei maschi. Ma c´è soprattutto un elemento che sembra differenziare i due sessi: i ragazzi continuano sulla strada della violenza e della piccola criminalità anche una volta diventati adulti. Le ragazze, invece, sarebbero violente durante l´adolescenza e poi rientrerebbero nei ranghi: verso i 18-20 anni vogliono sposarsi, avere un lavoro, fare figli. Ma il fenomeno è troppo recente per trarre conclusione perentorie sui suoi sviluppi.

giovedì 17 aprile 2008

Repubblica 17.4.08
Sinistra Arcobaleno, un voto su due al Pd
I flussi elettorali
di Silvio Buzzanca


Di Pietro conserva il 26,1% del 2006 e raccoglie ovunque anche da Forza Italia e da An
Statico il voto di Berlusconi e Fini che però portano a casa l´80 per cento del voto del 2006

ROMA - La sinistra si è liquefatta nelle urne e più o meno metà dei suoi voti sono finiti nel carniere di Walter Veltroni e Antonio Di Pietro. E qualche cosa ha raccolto il Pdl di Silvio Berlusconi. I dati arrivano da una prima ricerca condotta da Consortium per Rai e Sky sui flussi elettorali. E i numeri non lasciano dubbi su dove sono finiti i voti che Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio avevano nel 2006. Il 40, 3 per cento dei voti di Rifondazione è passato al Pd. E il 6,3 per cento ha preso la via dell´Italia dei Valori. Il totale fa 46,9 per cento. Ancora più alto il dato che riguarda il Pdci. Il 48,1 per cento dei voti è finito a Veltroni e il 6,4 per cento a Di Pietro. Complessivamente si tratta del 55,5 per cento dei consensi dei comunisti italiani. Infine i Verdi. Al Pd è andato il 45,1 per cento e all´Idv l´11,3 per cento. La somma fa 56,4 per cento.
Secondo Piepoli, è rimasto fedele a Bertinotti il 38,4 degli elettori, a Diliberto il 20 per cento e a Pecoraro Scanio il 24,8 per cento. Ma ci sono voti migrati persino verso Berlusconi. Il 5,1 per cento dei rifondaroli, il 5,6 per cento dei comunisti e addirittura l´8 per cento dei verdi il 13 aprile ha scelto il Cavaliere. Infine, il tracollo è completato dal flusso di voti in uscita che si è diretto a sinistra. Marco Ferrando e il Partito comunista dei lavoratori hanno portato via solo lo 0,4 per cento a Rifondazione e l´1 per cento ai Verdi. Ma hanno "succhiato" l´11 per cento al partito di Diliberto. Sinistra Critica di Franco Turigliatto ha portato via il 5,4 per cento a Bertinotti, il 3,8 a Diliberto e il 2 per cento agli ambientalisti.
Questi i calcoli di Consortium dei voti in uscita dalla Sinistra Arcobaleno. Quelli sui voti in entrata gli fanno dire che siamo di fronte ad un Pdl "conservatore", un Pd "statico", un Di Pietro "raccattatore" e una Lega "vampira". E l´Udc, invece può essere definita "rimescolatrice". In concreto vuol dire che il 26 per cento dei voti di Di Pietro sono di elettori che lo avevano votato nel 2006. Il 36,3 per cento arriva invece da elettori che avevano votato l´Ulivo. Il 4,8 per cento aveva votato Forza Italia e il 3,5 per cento An. Un 6,4 per cento dichiara di avere votato nel 2006 Rifondazione e il 2,2 i Verdi. Insomma l´ex pm riceve contributi un po´ da tutti.
Il Pd presenta invece un nucleo "forte" del 63,9 per cento che conferma la scelta fatta nel 2006. Il 6,6 per cento è composto da elettori in arrivo da Rifondazione, il 2,2 viene dal Pdci, l´1,5 dai Verdi. Di Pietro cede invece solo l´1,6 per cento. E l´1,7 viene da chi nel 2006 aveva scelto la Rosa nel Pugno. Come se gli elettori radicali avessero accolto in gran parte l´appello di Pannella a votare Pd.
Questo apporto radicale sarebbe dietro anche al grande rimescolamento al centro. Il partito di Casini, infatti, avrebbe incassato il 13,6 per cento di voti da ex elettori ulivisti. Rifugiatisi da Casini forse per paura del "laicismo " radicale. Ma i centristi hanno portato via voti anche a Forza Italia, il 15,5 per cento, e ad An, il 7,2 per cento. E per completare la rivoluzione dell´elettorato centrista bisogna sottolineare che solo il 34,4 per cento del voto Udc arriva da elettori centristi del 2006. Infine Casini si è portato a casa un 2,4 per cento di voti da elettori orfani di Mastella.
Grande movimento anche fra gli elettori leghisti. Le indagini dell´Istituto Cattaneo dicono che Forza Italia e An hanno perso circa 800 mila nel Nord. Un dato confermato dagli studi di Piepoli. Nel bottino di Bossi il 30,3 per cento arriva da elettori che nel 2006 aveva votato Berlusconi e Fini: il 18,9 da Forza Italia e l´11,4 da An. Dati, come gli altri, sottostimati di uno o due punti, perché il 5,5 per cento del campione non ha dichiarato per chi ha votato. A dimostrazione della mobilità del voto leghista c´è da notare che solo il 45,4 per cento de risultato di è una conferma del voto del 2006. E ne conto un 2,9 per cento arriva da elettori ulivisti del 2006. Alla mobilità leghista corrisponde la fedeltà, la staticità del voto del Pdl. Quasi l´80 per cento del voto del Pdl è una conferma del 2006. In percentuale il 62 per cento proviene da elettori che nel 2006 avevano scelto il Cavaliere. E il 17,1 dei finiani.

Corriere della Sera 17.4.08
L'intervista. Il leader dell'estrema sinistra nella Cgil: l'Arcobaleno ha ottenuto zero
Cremaschi e il boom della Lega operaia: «Marxisti di destra. E Tremonti non sbaglia»
di Enrico Marro


Sindacato casta? Sì, come apparato con meccanismi di autoriproduzione, ma noi non abbiamo privilegi economici

ROMA — «Nel 2006 Prodi diventò presidente del Consiglio grazie al voto degli operai. Gli stessi che questa volta hanno scelto in massa la Lega, mandando a Palazzo Chigi Berlusconi». Per Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom e capo della minoranza di estrema sinistra della Cgil, «il successo della Lega era nell'aria, bastava girare nelle fabbriche».
Perché gli operai hanno scelto il partito di Umberto Bossi?
«Lo avevano già fatto nel 2001. È un voto di protesta che dice ai partiti di sinistra: "Non vi siete occupati di noi". Il segnale c'era già stato con i fischi dell'assemblea di Mirafiori del 7 dicembre 2006».
Ma perché proprio la Lega?
«Perché assomiglia di più a un partito marxista-leninista: ha una fortissima identità ma al tempo stesso un grande pragmatismo».
Solo per questo?
«No. La Lega dà una forte risposta, sia pure di destra, a chi si sente minacciato dalla globalizzazione. E nel centrodestra il libro di Tremonti, anche se un po' spregiudicato, è però intelligente».
Lei è d'accordo con Tremonti?
«Condivido il giudizio negativo su quello che lui chiama mercatismo e io preferisco chiamare liberismo, ma non le proposte».
Se tutti questi operai che prima votavano per la sinistra ora scelgono la Lega, significa che la Lega è di sinistra?
«No. Anche un partito di destra può essere un partito popolare».
Allora gli operai sono diventati di destra?
«No. Sono rimasti di sinistra ma hanno punito chi li ha traditi».
Anche la Sinistra arcobaleno?
«Era la forza politica meno credibile. Aveva portato in piazza un milione di persone su salari e precarietà, ma nel governo ha ottenuto zero. Poi ha commesso anche delle stupidaggini, come lo slogan "Anche i ricchi piangano"».
Ma non hanno votato neppure per Marco Ferrando e per i partiti della falce e martello.
«Gli operai non votano per formazioni elitarie».
Rosi Mauro, segretario del sindacato della Lega, dice che il Carroccio ha sempre interpretato i bisogni operai, ma che il suo sindacato è stato discriminato.
«Rosi Mauro me la ricordo fin da quando, molti anni fa, era una delegata della Uilm. Il Sinpa non ha mai sfondato perché fare sindacato non è una cosa semplice. Detto questo, chiunque oggi dice "Mettiamo alla prova la rappresentatività del sindacato" fa una cosa giusta. Non si deve nemmeno avere il sospetto che il gioco sia truccato».
E quindi?
«Se il governo fa una legge sulla rappresentatività sindacale, anche se per fini diversi dai miei, mi sta bene. Ci vogliono elezioni delle Rsu senza quote riservate a Cgil, Cisl e Uil. Ci vuole un rinnovo periodico delle deleghe, ogni 3-4 anni. E infine regole per garantire che il finanziamento sia trasparente».
Che linea deve avere la Cgil?
«La deve decidere un congresso. So che la mia posizione è ultraminoritaria, ma sono per una Cgil conflittuale. Ma non quella di Cofferati del 2002-2003. Non dobbiamo fare la grande opposizione politica a Berlusconi, ma tornare nelle fabbriche e batterci per il salario».
Ma dove la vede tutta questa voglia di conflitto? Il voto ha punito le forze antagoniste.
«Un operaio può votare Lega e fare tantissimi scioperi. Dopo l'autunno caldo, alle amministrative del 1970 a Mirafiori il primo partito risultò la Dc. Gli operai hanno votato Lega, ma se Berlusconi e Confindustria non aumenteranno loro i salari, il conflitto scoppierà».
Perché invece i dipendenti pubblici continuano a votare in maggioranza per il Pd?
«Perché si sentono più tutelati. Nel sindacato si deve aprire una discussione vera su questo. Non voglio fare i discorsi di Ichino sui fannulloni, ma nel mondo del lavoro convivono sacche di privilegio accanto a condizioni inaccettabili».
Il sindacato è una casta?
«Sì se ci si riferisce a un apparato di 20 mila persone e ai suoi meccanismi di autoriproduzione, no se si allude a privilegi economici. Io prendo 2 mila euro al mese e quando incontro un segretario nazionale del sindacato tedesco o inglese che guadagna 5-6 volte tanto mi prende per un pezzente».
Senta, ma non sarà che alla fine il sindacato non rappresenta più gli operai, ma soprattutto dipendenti pubblici e pensionati?
«I pensionati hanno un peso abnorme e danno al sindacato una connotazione di lobby politico-sociale alla quale non corrisponde una forza sindacale».

Repubblica 17.4.08
"La Spagna è laica, non giurare sulla Bibbia"


MADRID - Perché in una Spagna che si professa sempre più laica e moderna i ministri giurano o promettono la fedeltà alla Costituzione dinanzi a una Bibbia e a un crocifisso? Lo chiede il quotidiano El Pais a due giorni dall´insediamento del nuovo governo in una lunga analisi dal titolo "La croce resiste nella Spagna laica", ricordando che il protocollo dei giuramenti risalente al 1979 non fa alcun cenno ai simboli religiosi.

Repubblica 17.4.08
68 a ciascuno il suo
Si apre oggi il Festival della filosofia
di Slavoj Zizek


"Come rivoluzionari, voi siete dei pazzi che chiedono un nuovo padrone e lo avrete" disse Lacan agli studenti, cogliendo l´ambiguità del Maggio
"Le strutture non camminano per strada" è una delle frasi più famose di allora
Il nuovo spirito del capitalismo ha saputo recuperare la retorica antigerarchica
Nicolas Sarkozy ha detto che vuol far superare alla Francia l´eredità di quegli anni

Quattro giorni all´Auditorium
Pubblichiamo un intervento di Slavoj Zizek che sarà ospite, con una lectio magistralis, del Festival della Filosofia: quattro giornate, da oggi al 20 aprile all´Auditorium - Parco della Musica per rileggere con gli occhi di oggi il Sessantotto a quarant´anni di distanza.
Con il titolo «Sessantotto-Tra pensiero e azione» infatti si apre la terza edizione della manifestazione. Quattro lectio magistralis, dodici tavole rotonde, tre incontri speciali, quattro "contrappunti", tre caffè letterari che vedranno, intellettuali e artisti di oggi a confronto con alcuni dei protagonisti dell´epoca, tra cui, Achille Bonito Oliva, Furio Colombo, Claudio Petruccioli, Luca Sofri, Luis Sepulveda, Ettore Scola, Bernardo Bertolucci, Mogol, Eugenio Scalfari (con "Svolte d´epoca"), Sergio Staino, Oliviero Toscani, Franco Volpi, Daniel Cohn-Bendit, Erica Jong, Giulio Giorello, Ascanio Celestini, Lidia Ravera, Massimo Donà, Franco Piperno. All´inaugurazione ci saranno anche il presidente e l´amministratore delegato della fondazione «Musica per Roma», Gianni Borgna e Carlo Fuortes, e i curatori scientifici del Festival, Giacomo Marramao e Paolo Flores d´Arcais. A seguire l´incontro «Dalla critica alle armi? Il Sessantotto e il problema della violenza» con Roberto Esposito, Massimiliano Fuksas, Toni Negri, Oskar Negt, Peter Schneider, Pere Vilanova.


Nel Sessantotto una delle frasi più famose apparse sui muri di Parigi fu: «Le strutture non camminano per strada!», espressione che non giustifica le grandi dimostrazioni di studenti e di lavoratori del Sessantotto in termini di strutturalismo (il che chiarisce perché alcuni storici arrivino addirittura a considerare il 1968 come lo spartiacque tra lo strutturalismo e il post-strutturalismo, che fu - così si dice - molto più dinamico e incline a interventi di politica attiva). La risposta di Jacques Lacan fu che nel 1968 in verità era accaduto proprio questo: «Le strutture scesero in strada davvero». I palesi eventi esplosivi furono in definitiva l´esito di uno squilibrio strutturale; per dirla con le parole di Lacan furono l´esito del passaggio dal discorso del Padrone al discorso dell´Università.
In che cosa consiste di preciso questo passaggio? The New Spirit of Capitalism di Boltanski e Chiapello lo esamina in dettaglio, con particolare attenzione alla Francia. Abbracciando il metodo weberiano, il libro distingue tre «spiriti» consecutivi del capitalismo: il primo spirito del capitalismo, imprenditoriale, durò fino alla Grande Depressione degli anni Trenta; il secondo spirito del capitalismo prese a proprio ideale non l´imprenditore bensì il dirigente stipendiato di una grande azienda. Dagli anni Settanta in poi, invece, andò emergendo una nuova figura di «spirito del capitalismo»: il capitalismo abbandonò la struttura gerarchica di stampo fordista del processo di produzione e sviluppò una forma di organizzazione basata su una struttura a rete che si reggeva sull´iniziativa e l´autonomia del lavoratore dipendente sul posto di lavoro. Invece di una catena di comando centralizzata e gerarchica, si diffusero strutture a rete formate da una moltitudine di partecipanti, che organizzavano il lavoro sotto forma di team o di progetti, mirando a soddisfare la clientela, e vi fu una generale mobilitazione dei lavoratori grazie alla visione dei loro leader. In questo modo il capitalismo si è trasformato e legittimato come un progetto egalitario: per mezzo di un´accresciuta interazione autopoietica e di un´auto-organizzazione spontanea, arrivò perfino a usurpare il linguaggio dell´estrema Sinistra dell´auto-gestione dei lavoratori e da slogan anticapitalista che era ne fece uno slogan capitalista.
Un´intera sequenza di eventi storico-ideologici andò così creandosi, nella quale il Socialismo appare conservatore, gerarchico, amministrativo, tanto che la lezione del Sessantotto è «Good-bye, Mr Socialism», «Addio, Socialismo!» e la vera rivoluzione è quella del capitalismo digitale. Questo capitalismo è la logica conseguenza, la «verità» della rivoluzione del 1968. Le proteste anticapitaliste degli anni Sessanta integrarono la critica consueta dello sfruttamento socioeconomico con argomenti di critica culturale: l´alienazione della vita di tutti i giorni, la mercificazione dei beni di consumo, la mancanza di autenticità di una società di massa nella quale «si indossano maschere» e si subiscono oppressioni sessuali e di altra natura.
Il nuovo spirito del capitalismo in modo trionfante recuperò la retorica egalitaria e antigerarchica del 1968, presentandosi come una rivolta libertaria di successo contro le organizzazioni sociali oppressive del capitalismo delle corporation e anche contro il socialismo «reale, esistente»: questo nuovo spirito libertario è incarnato dai capitalisti «disinvolti», vestiti alla buona, come Bill Gates e i fondatori del gelato «Ben and Jerry».
La scommessa di Michael Hardt e Toni Negri è che questo nuovo spirito è già di per sé Comunista: come Marx celebrano il potenziale rivoluzionario «de-territorializzante» del capitalismo; come Marx individuano la contraddizione all´interno del capitalismo, nel divario esistente tra questo potenziale e la forma del capitale (l´appropriazione da parte della proprietà privata del surplus). In breve, riabilitano il vecchio concetto marxista di tensione tra forze produttive e relazioni della produzione: il capitalismo genera già «i germi della futura forma di vita nuova», produce incessantemente il nuovo «terreno comune», così che in una esplosione rivoluzionaria, questo Nuovo dovrebbe essere svincolato dalla vecchia forma sociale. Non stupisce che Negri di recente stia sempre più apprezzando il capitalismo digitale «postmoderno», affermando che esso è già Comunista, e che occorrerà soltanto poco, una spintarella, un gesto puramente formale, perché divenga apertamente tale. La strategia di base dell´odierno capitalismo consiste nel coprire la propria superfluità, trovando un nuovo modo per sussumere nuovamente la libera moltitudine produttiva.
L´ironia è che Negri si riferisce qui al processo che gli stessi ideologi dell´odierno capitalismo «postmoderno» celebrano in qualità di passaggio dalla produzione materiale alla simbolica, dalla logica centralista-gerarchica alla logica dell´auto-organizzazione autopoietica, della collaborazione multi-centrica, e così via. Negri qui è in effetti fedele a Marx: ciò che si sforza di dimostrare è che Marx aveva ragione, che l´ascesa dell´«intelletto generale» è incompatibile a lungo termine con il capitalismo. Gli ideologi del capitalismo postmoderno stanno facendo un´affermazione diametralmente opposta: è la teoria marxista (e la pratica marxista) stessa a restare nell´ambito delle costrizioni della logica gerarchica centralizzata a controllo statale, e pertanto non può affrontare gli effetti sociali della nuova rivoluzione informazionale.
Ci sono buone ragione empiriche a conferma di questa affermazione: ancora una volta, il paradosso storico è che la disintegrazione del Comunismo è l´esempio più convincente della validità della tradizionale dialettica marxista tra forza di produzione e rapporto di produzione, sulla quale il marxismo fece affidamento nel suo tentativo di rovesciare il capitalismo. A nuocere definitivamente ai regimi comunisti è stata la loro stessa incapacità ad adattarsi alla nuova logica sostenuta dalla «rivoluzione informazionale»: hanno cercato di pilotare questa rivoluzione come un qualsiasi progetto su larga scala di pianificazione statale centralizzata. L´assurdo, pertanto, è che ciò che Negri esalta come una chance irripetibile per rovesciare il capitalismo, gli ideologi della «rivoluzione informazionale» lo esaltano come l´ascesa del nuovo capitalismo «privo di attriti».
Ma il passaggio a un altro spirito del capitalismo fu davvero tutto ciò che accadde negli eventi del ‘68, così che tutto l´euforico entusiasmo per la libertà in realtà non fu altro che un mezzo per sostituire una forma di dominio con un´altra? Ricordiamo le parole di sfida lanciate da Lacan agli studenti: «Come rivoluzionari, voi siete dei pazzi che chiedono un nuovo padrone. E lo avrete». Pur avendo ragione, il Sessantotto fu un evento unico oppure fu uno strappo, e anche ambiguo, nel corso del quale varie tendenze politiche lottarono tra loro per l´egemonia? Ciò spiegherebbe il fatto che mentre l´ideologia egemonica si appropriò magnificamente del Sessantotto come di un´esplosione della libertà sessuale e della creatività anti-gerarchica, Nicholas Sarkozy ha detto nella sua campagna elettorale del 2007 che suo compito è quello di far finalmente superare alla Francia il Sessantotto. Pertanto c´è un «loro maggio ‘68» e un «nostro maggio ‘68» nel nostro odierno ricordo ideologico, la «nostra» idea di base delle dimostrazioni di quel maggio, mentre il collegamento tra le proteste studentesche e gli scioperi dei lavoratori è dimenticato.
Della liberazione sessuale degli anni Sessanta è sopravvissuto il tollerante edonismo facilmente incorporato nella nostra ideologia egemonica. L´imperativo del superego di divertirsi pertanto funge da esatto contrario del «Du kannst, denn du sollst!» (Puoi, quindi devi!) di Kant, diventa un «Devi perché puoi!». Ciò significa che l´aspetto del superego dell´edonismo odierno «non-repressivo» (le incessanti provocazioni alle quali siamo esposti, che ci impongono di andare fino in fondo e di esplorare tutti i modi possibili di godimento, di jouissance) risiede nel modo in cui la jouissance necessariamente si trasforma in una joiussance obbligatoria. Questo impulso al puro godimento autistico (per mezzo di sostanze stupefacenti o di altri metodi che inducono uno stato di trance) si affermò in un momento politico preciso: allorché la spinta emancipatrice del 1968 esaurì il suo potenziale. In quel periodo critico (la metà degli anni Settanta) l´unica opzione rimasta era il passaggio all´azione diretta, brutale, una spinta verso la Realtà che assunse tre forme principali: la ricerca di forme estreme di jouissance sessuale; il terrorismo politico di sinistra (con la Raf in Germania e le Brigate Rosse in Italia, e così via, la cui scommessa era che in un´epoca in cui le masse erano totalmente immerse nel sonno ideologico capitalista, la critica consueta dell´ideologia non era più operativa, così che soltanto il ricorso alla cruda Realtà della violenza diretta - l´azione diretta - poteva risvegliare le masse); e infine la svolta verso la Realtà di un´esperienza interiore (il misticismo orientale). In comune, tutte e tre erano caratterizzate da una medesima estraniazione da un impegno concreto socio-politico in un contatto diretto con la Realtà.
Questo cambiamento dall´impegno politico alla Realtà post-politica è forse esemplificato al meglio dai film di Bernardo Bertolucci, un rivoltoso accanito, e in particolare dall´evoluzione delle sue opere, dai suoi primi capolavori quali Prima della rivoluzione ai suoi più recenti cedimenti estetico-spiritualisti, come il tremendo Piccolo Budda. Questo percorso ha compiuto un giro completo con I sognatori, l´ultimo film di Bertolucci sul Sessantotto parigino, nel quale una coppia di studenti, fratello e sorella, e un giovane studente americano di passaggio stringono una profonda amicizia nel turbinio degli eventi per poi separarsi, alla fine del film, perché i due francesi restano invischiati nella violenza politica mentre l´americano rimane fedele al messaggio di amore e di libertà passionale.
Infine, il grande interrogativo: se, come afferma Alain Badiou, il Maggio 1968 è stato la fine di un´epoca, che ha segnato (insieme alla rivoluzione culturale cinese) il consumarsi definitivo di una grande successione di rivoluzioni politiche iniziate con la Rivoluzione d´Ottobre, oggi dove ci collochiamo? Siamo tra coloro che ancora contano su - e con un´alternativa radicale - un capitalismo egemonico democratico parlamentare, costretti ad estraniarci e ad agire da diversi «siti di resistenza» oppure possiamo ancora concepire un intervento politico più radicale?
Questo è il vero lascito del Sessantotto: al cuore del Sessantotto ci fu il rifiuto del sistema liberal - capitalista, un grande NO alla sua totalità, meglio esplicitato nel famoso slogan: «Cerchiamo di essere realisti, chiediamo l´impossibile!». La vera utopia è credere che il sistema globale esistente possa riprodursi all´infinito; l´unico modo di essere veramente «realisti» è pensare a cosa, nell´ambito delle coordinate di questo sistema, non possa sempre apparirci impossibile.
(Traduzione di Anna Bissanti)

Corriere della Sera 17.4.08
Risoluzione Voto del Consiglio d'Europa
«Garantire sempre il diritto all'aborto»
di Maria Serena Natale


STRASBURGO — È la prima volta che un'organizzazione internazionale definisce l'aborto «un diritto della donna ». Con 102 voti contro 69, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa riunita a Strasburgo ha approvato ieri la risoluzione che raccomanda la depenalizzazione dell'interruzione di gravidanza a quanti tra i 47 Stati membri non abbiano già provveduto e la rimozione di qualsiasi restrizione che « de jure o de facto ostacoli l'accesso a un aborto sicuro» compromettendo «l'effettivo esercizio del diritto delle donne ad abortire»: il testo, presentato dalla socialista austriaca Gisela Wurm, non ha valore giuridico vincolante ma segna una svolta teorica nell'ambito della più antica istituzione paneuropea, chiamata a vigilare sul rispetto dei diritti umani nel continente.
Sottoposto a 72 emendamenti in quattro ore di acceso dibattito, il documento stabilisce che l'aborto non può essere strumento di politiche di pianificazione familiare e resta una decisione «da evitare, per quanto possibile: occorrerà utilizzare ogni mezzo per ridurre il numero sia delle gravidanze che degli aborti non desiderati»; a tal fine, gli Stati sono invitati a garantire libero accesso alla contraccezione e, per le giovani generazioni, a un'educazione sessuale completa. «Non è più possibile abbandonare la donne al proprio destino esponendole a traumi e gravi pericoli — dice al Corriere l'onorevole Wurm —, non c'è contrapposizione tra i loro diritti e i "diritti umani". Il movimento "Aborto no grazie" in Italia? Non ne so molto, ma azzarderei un paragone con battaglie culturali simili lanciate in altri Paesi europei, miranti, in ultima istanza, a rivedere le condizioni imposte dalle legislazioni nazionali e quindi ridurre le possibilità di abortire». In tutti i Paesi europei l'interruzione di gravidanza è consentita in caso di grave pericolo per la madre, nella maggioranza degli Stati la legge ammette anche altre ragioni (come il pericolo di malformazioni per il feto) e fissa dei limiti temporali; fanno eccezione Irlanda, Polonia, Malta, Monaco e Andorra, dove l'aborto è illegale.
Aspra l'opposizione dei gruppi di centro-destra che hanno partecipato al dibattito in Aula, allarmati di fronte a «un forte sbilanciamento della discussione a detrimento del diritto alla vita del nascituro », nelle parole del deputato italiano di Forza Italia e Ppe Claudio Azzolini.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Lancet nel 2007, nel mondo una gravidanza su cinque si conclude con un aborto.

Corriere della Sera 17.4.08
Destini. Esce una raccolta dello scrittore che ha nascosto fino alla morte le sue origini di colore
Il segreto nero del genio bianco
Storia di Anatole Broyard, personaggio della «Macchia umana» di Philip Roth
di Livia Manera


Nel romanzo La macchia umana di Philip Roth c'è un momento memorabile in cui il protagonista Coleman Silk, un uomo vigoroso vicino ai settant'anni, nel mezzo di una conversazione a casa propria con l'anziano e ben più malconcio amico scrittore Nathan Zuckerman, gli dice: «Vieni. Balliamo». «Che diamine, ho pensato, presto saremo morti tutti e due, e così mi sono alzato, e là nel portico Coleman Silk e io abbiamo cominciato a ballare il fox trott insieme. Lui conduceva, e io, alla meglio, seguivo... C'era una sincerità semiseria nel suo modo di portarmi in giro sul pavimento di pietra, per non parlare di una deliziosa sensazione di spensieratezza per il solo fatto di essere vivi, accidentalmente e ridicolmente e per nessuna particolare ragione vivi... ».
Quando otto anni fa uscì La macchia umana,
ogni recensore americano scrisse di aver riconosciuto nel personaggio di Coleman Silk lo scrittore e critico letterario Anatole Broyard, morto dieci anni prima: uno degli uomini più colti, attraenti, ironici e dotati di grazia virile che l'America avesse conosciuto.
Un ballerino naturale, come Coleman Silk. E come lui «estroverso, spiritoso, levigato e muscoloso seduttore...». Uno che aveva vissuto e insegnato molti anni in una cittadina del New England, come il protagonista della Macchia umana. E che come lui si era dannato tutta la vita per un segreto. Era un nero che era riuscito a passare per bianco.
Qui però le somiglianze finivano, perché il protagonista del romanzo di Roth era «diventato» anche ebreo e Anatole Broyard questo ulteriore passaggio se lo era risparmiato. Quanto a Philip Roth, reagì ai commenti della critica con la medesima insofferenza con cui ha sempre liquidato suggerimenti analoghi — che nel Lo scrittore fantasma Bernard Malamud fosse il modello di E.I. Lonoff e Saul Bellow quello di Felix Abravanel; la sua ex moglie Claire Bloom fosse l'attrice di Ho sposato un comunista, Nathan Zuckerman fosse il proprio alter ego, e si potrebbe continuare all'infinito. Del resto, come ha scritto Joan Didion, «Uno scrittore si vende sempre qualcun altro». Quanto ad Anatole Broyard, morto a settant'anni nel 1990, da noi è ancora sconosciuto se non per l'abbozzo di memorie Furoreggiava Kafka (Sylvestre Bonnard). Ed è anche per questo che è da salutare con interesse l'uscita nella Bur Original di La morte asciutta (postfazione di Francesco Rognoni, traduzione di Monica Pareschi, pp.130, € 8,60), un libro che contiene la sua riflessione di carattere autobiografico «Il paziente esamina il dottore», la short story «Pranzo domenicale a Brooklyn» e il racconto romanzato della discesa nella morte del padre di Broyard, «Quel che disse il citoscopio», che nel 1954 gli procurò la fama e un moto di ammirazione di Norman Mailer — «Correrei a comprare un romanzo di questo scrittore il giorno stesso che uscisse» — che equivalse a una sentenza di morte. Perché Anatole Broyard quel romanzo non riuscì a scriverlo mai. Tutto qui, quindi? Nemmeno per idea. Perché Broyard è stato l'oggetto di un grande revival negli ultimi mesi. In parte perché il più importante intellettuale nero d'America, Henry Louis Gates Jr, gli ha dedicato uno dei suoi documentari sulla storia dei neri americani. E in parte perché sua figlia Bliss Broyard ha pubblicato un magnifico memoir, One Drop, che sembra scritto per elaborare lo shock di ciò che ha appreso soltanto a ventiquattro anni, sul prato davanti all'ospedale in cui suo padre stava morendo, quando sua madre Sandy disse a lei e a suo fratello: «Credo sia meglio che vi dica il suo segreto. Vostro padre è in parte nero». I ragazzi scoppiarono in una risata di sollievo. «Questo sarebbe il suo gran segreto? Avere un po' di sangue nero?». Ma quel «po'» era un eufemismo, buono per giustificare qualche voce che nell'ambiente era girata.
Gli americani hanno una parola per il fenomeno dei neri che fanno il salto di razza: passing. Bliss Broyard racconta che durante la Depressione degli anni '30 alcuni, come il suo nonno muratore Paul, vi furono costretti per trovare lavoro, ma rimasero lo stesso legati alle loro famiglie e al loro ambiente e furono protetti dall'omertà degli altri neri. Altri, come Anatole, lo fecero invece per costruirsi una nuova identità. E questo comportava un taglio definitivo col passato. Fu così che nel 1948 Anatole Broyard, reduce dalla guerra nel Pacifico, figlio di genitori neri, fratello di due donne nere, marito di una donna nera e padre di una neonata nera, entrò da uomo nero nella stazione della metropolitana del suo quartiere a Brooklyn e uscì nel Greenwich Village bianco. Aprì una libreria, entrò in contatto con gli scrittori del momento, si laureò grazie alle facilitazioni per i reduci di guerra, e non guardò più indietro. Nathan Zuckerman ne La macchia umana
ha solo ammirazione per la ferocia «degna dell'Iliade » della stessa scelta fatta da Coleman Silk. E siccome quella scelta implicava anche una certa dose di razzismo, Anatole Broyard attraversò gli anni '60 senza una parola di simpatia per il movimento per i diritti civili. Si sposò a quarant'anni con la bellissima e biondissima Sandy Nelson, di origine norvegese, ebbe due figli chiari di pelle, Bliss e Todd, divenne critico letterario del «New York Times», insegnò all'università, andò a vivere nella parte più bianca e ricca del Connecticut e si iscrisse a uno yacht club che non ammetteva neri. E tutto questo lo fece, nell'opinione di Bliss Broyard, di Henry Louis Gates Jr. e di quasi tutti coloro che gli furono amici, perché voleva essere uno scrittore. E non, come gli scrittori di colore della sua epoca, «uno scrittore nero». Ma è proprio qui, nel paradosso implicito in questa scelta, che il grande ballerino del Greenwich Village inciampò e non riuscì più a rialzarsi. Perché Anatole Broyard era uno scrittore autobiografico. E l'essere costretto a nascondere una parte imprescindibile si sé come le proprie origini, finì per impedirgli di scrivere il grande romanzo per cui aveva venduto l'anima. «Credo che dovremmo ordinare qualcosa da mangiare per gli amici che stanno arrivando», disse a sua moglie in ospedale, poco prima di sprofondare nel coma finale. «Ci vorranno del formaggio, dei crackers, e Faust». «Faust?» gli chiese Sandy. E lui, malgrado tutto ancora ironico, le spiegò: «Sai quel tipo del patto faustiano, che non può aver pace finché ogni cosa non è rivelata...».
Scene di vita quotidiana di una famiglia di borghesi neri in un quadro di Jacob Lawrence (1943, Corbis) Anatole Broyard è morto nel 1990 a settant'anni.
Nella Bur è appena uscito il volume autobiografico «La morte asciutta» Philip Roth, 75 anni, ha scritto la trilogia «Pastorale americana», «Ho sposato un comunista », «La macchia umana» (editi da Einaudi)

l’Unità 17.4.08
Carpaccio, uno psicoanalista a colori
di Gaspare Polizzi


UN GRANDE INTELLETTUALE ci racconta il viaggio interiore intrapreso contemplando i nove quadri della Leggenda aurea di Jacopo da Varagine dipinta dall’artista nella cappella degli Schiavoni a Venezia

Michel Serres, accademico di Francia, professore alla Stanford University, è uno tra i principali pensatori del nostro tempo. Il suo percorso di ricerca, condensato in 44 volumi, si è avviato nel 1969, con un ambizioso progetto di filosofia della comunicazione, verso un «passaggio di Nord-Ovest» (felice metafora che indica il difficile e tortuoso passaggio dalle scienze naturali alle scienze umane). La sua opera fa perno sulla considerazione dell’avvenuta svolta epocale che dal mondo della produzione e dell’industrialismo (o di Prometeo) ha condotto a quello della comunicazione e dei messaggi (o di Ermes). Serres mira a costruire una nuova cultura della comunicazione e dello scambio che unisca insieme le scienze, le arti, le leggi e le religioni in una «nuova alleanza» e in un nuovo «patto naturale e morale» tra uomini e natura; una cultura in armonia con i nostri saperi, un «nuovo umanesimo» che acceda all’universale.
L’ultimo suo libro - Carpaccio les esclaves libérés («Carpaccio gli schiavi liberati»), Le Pommier, Paris 2007 - torna su un autore e su un motivo coltivati fin dal 1975 (Esthétiques. Sur Carpaccio, Paris, Hermann, 1975; tradotto in italiano da Hopeful Monster, Firenze, nel 1990), ripercorrendo in chiave antropologica, culturale ed evolutiva la leggenda «aperta» depositata nei nove quadri della Cappella veneziana degli Schiavoni, che Carpaccio lesse dalla Leggenda aurea di Jacopo da Varagine. Gli abbiamo posto qualche domanda su questa sua ultima opera.
Più di trent’anni fa avete scritto un libro intrigante a partire da Carpaccio: «Esthétiques. Sur Carpaccio», «un viaggio nell’alfabeto delle forme e del cromatismo», nel quale c’era molta geometria, c’era molta attenzione alle strutture dello spazio e dei colori. Come mai un nuovo Carpaccio?
«Le mie Esthétiques sur Carpaccio descrivevano soltanto alcuni quadri della Cappella degli Schiavoni di Venezia, senza tener conto della loro connessione. Ritornato sul posto, ho avuto l’intuizione che la serie raccontasse una o più storie: non soltanto il triplo ciclo dei santi dalmati, Giorgio, Trifone e Gerolamo, ai quali era devota la confraternita lì riunita, ma un gesto completo di iniziazioni, di conversioni, forse personali, senza dubbio collettive, ancora più profonde, credo; in ogni caso, dei racconti, che ho cercato di riproporre».
Inizia così il suo itinerario intorno ai nove splendidi «teleri» del ciclo di Carpaccio. Ma perché «Schiavi liberati»?
«I quadri della Scuola degli Schiavoni raccontano - non l’avevo compreso finora - come si trasformano la spada in spina, l’odio in sofferenza, la paura in dolore, la lotta in malattia, la vittoria o la disfatta, equivalenti, in terapia e guarigione: la schiavitù in libertà».
Scrive anche che questa sua nuova visita alla Cappella degli Schiavoni è stata una forma di «psicoterapia».
«È ciò che propongo nella mia penultima visita. Per me il Carpaccio psicopompo annuncia anche la mia verità. Chi sono io? I clamori del collettivo, lo spettacolo e la battaglia. Non sono io, ma innanzitutto soltanto noi, e in più il teatro terrificante che appiccica questo collettivo alla mia carne, dove esso urla e mi comanda, spingendo la mia vanità verso l’eroismo del combattimento. Chi sono, ancora una volta? L’aggressività che lotta e critica, in nome delle polemiche pubbliche. Chi sono, di nuovo? L’approvazione del gruppo, quando, trionfale, espello il mostro. Il noi sacrificale mi applaude, non da successo che allo spettacolo del male. Ecco, dipinta alla perfezione, una malattia mentale ordinaria, nevrosi, ossessione o altro».
Ancora una volta, dunque un’autobiografia, insieme privata e collettiva. Ma come è possibile vedervi una deriva verso la dolcezza, come concepire il bene in un mondo dominato dalla lotta e dal conflitto?
«Chi sono io, infine? L’autore autentico delle mie Confessioni, talvolta riconosciute, come in questo caso, in immagini; un individuo autonomo, in riposo e in estasi. Scrivere questo libro mi ci conduce. A leggerlo, conduce anche voi. Gioia, pianti di gioia. La genesi del cristianesimo, quella della modernità, la via verso l’umanizzazione, la deriva verso la dolcezza… queste liberazioni si chiamano anche e in definitiva: guarigione. Beati gli uomini dolci.
Come il male si può definire come la dura lotta del bene contro il male, così il bene, dolce e mitigato, nasce dall’incontro dei due assi; sì, il bene mescola il bene e il male. Come il male si misura dalla distanza della battaglia, così il bene nasce nelle vicinanze e nelle prossimità. Il precetto di amare il prossimo non significa soltanto prediligere colui o colei che vive al nostro fianco, ma praticare l’atto stesso di avvicinarglisi».
Nel famoso quadro di «San Giorgio e il drago» non si legge allora soltanto la violenza dello scontro frontale, l’uccisione del nemico diabolico, ma anche la rappresentazione della società tripartita…
«La picca di San Giorgio si radica nei muscoli e nei tendini incrociati, ai piedi della bestia. Gerolamo tocca con la mano l’unghia che gli fa male, sotto la quale o al posto della quale giace la spina che la ferisce. La bontà inventa di andare a sfregare quell’estremità, dove l’unghia e la spina sono vicine, senza sapere ancora se si tratta dell’una o dell’altra. Ecco che emergono delle cose straordinarie: avvicinandosi, questa bontà si espone, prima di tutto, essa stessa al male; in secondo luogo, si prende cura del male, ma, infine e soprattutto, inventa il nuovo. Essa inventa nel massima vicinanza con il male, con il pericolo mortale, con la battaglia, con la stessa uccisione. Niente scopritori senza l’affrontare il peggior pericolo. La vera morale possiede il vero coraggio di inventare veramente. Ritroviamo, nella vicinanza stessa del male, Caino l’inventore?
E più in generale, San Giorgio, santo, guerriero e contadino (il suo nome rinvia all’agricoltura, alle Georgiche) personifica la vecchia tripartizione delle società indoeuropee (Giove, Marte e Quirino, secondo Georges Dumézil), oggi cancellata dalle nuove trasformazioni umane e sociali. Se guardiamo la sequenza dei quadri degli Schiavoni troviamo il superamento della tripartizione originaria delle nostre società. La filosofia deve pensare la nuova ominizzazione, oltre la violenza del guerriero».
Un’ultima domanda. Questo libro, come il precedente - «L’Art des Ponts, Homo Pontifex» (Le Pommier, 2006) testimonia l’efficacia e la bellezza della sua nuova tensione verso il pensiero visivo, espresso a partire dal 1999 con la rappresentazione delle variazioni dei corpi («Variations sur le corps») e dei paesaggi delle scienze («Paysages des Sciences, ouvrage collectif sous la direction» de M. Serres et N.Farouki) entrambi editi da Le Pommier-Fayard nel 1999. Nell’ultima pagina di questo libro la sinestesia si arricchisce con uno «strano» messaggio musicale.
«Ho voluto scrivere una nota per un ipotetico compositore che volesse mettere in musica il mio libro: “Sebbene quasi in preghiera tra il mutismo tranquillo delle forme, delle tinte e della cappella, voi credete tuttavia di udire nel primo atto in cui la battaglia fa irrompe furibonda nella campagna, il clicchettio della spada, le grida di coraggio nel combattimento, lo scatto corazzato della lancia il cui acciaio si affonda nella dentatura del dragone, il lamento agonizzante del vinto, le urla di terrore e di ammirazione della folla, il cui rumore riempie il volume dello spazio… in breve il caos ventoso dei clamori”. All’inizio di questo racconto, il quadro, all’estrema sinistra, si riempie dell’angoscia dei duellanti e delle acclamazioni multiple del pubblico; si direbbe che esse s’involvono nella coda arrotolata, turbinosa, della bestia, dove si accumulano i muti crani calcarei che, cadendo, continuano a urtarsi.
Ora, alla fine dei nove quadri, all’estrema destra, in basso nella tavola orizzontale, tra il silenzio della camera e l’estasi di Agostino, si stendono due spartiti musicali, a pagine aperte, pronti per la salmodia.
Dal duro verso il dolce: dalla confusione del conflitto al silenzio del lamento meditativo; dallo strepito disordinato della violenza alle alte note gialle del lamento-canto; dall’orrendo rumore di fondo che fanno i corpi, le anime e i gruppi infuriati alla sorgente silenziosa della musica, pienezza e inizio divini di ogni linguaggio e di ogni arte.
Che lo dica il cristianesimo, l’ominizzazione, la storia, la politica o la vita personale… un racconto va dal caos verso una sorta di ordine, dalla violenza verso un acquietamento, dalla lacerazione alla sua cicatrice, insomma, dal rumore di fondo verso la musica.
O inversamente. Uscendo dagli Schiavoni, ci coglie l’assordimento insensato della civilizzazione».

Quattro passi, mensile, aprile 2008, XIII, 109
“...del cammin di nostra vita”
di Gian Carlo Zanon
Lasciando il bosco
Il libro della monteverdina Susanne Portmann. L'intervista


Il Sud, per ogni essere umano, dovrebbe rappresentare quel luogo dove libertà, identità, rapporto con l'altro da sé, sono possibili. Il viaggio verso Sud è un "riandare in quel luogo dell'umano" per riprendere qualcosa di interrotto di cui sono rimaste sensazioni vaghe. Il viaggio verso Sud non è tomare all'origine ma immaginare e poi ricreare, sviluppare, trasformare, nel rapporto con l'altro da sé, quella "impossibile memoria" in una identità profondamente umana. Uno il Sud lo può trovare, come il protagonista- narratore, per qualche minuto, di notte a Roma, a Largo Argentina, guardando i templi di antichi dei ormai senza nome e respirando un'aria primaverile assurdamente pulita, dato il luogo, e forse accampando la speranza nascente negli squarci di cielo e sulle terrazze che ne disegnano i mutevoli Confini. O forse, uno, il suo Sud lo può trovare nell'immagine di una donna che attende l'amante come la protagonista del romanzo: «Aspettando! questa notte/la luce sorgerà da dentro i tuoi occhi! il tempo si dispiegherà dalle tue mani! e le tue labbra scriveranno sulle mia pelle/l'amore! che domani! il mio corpo canterà! camminando. / Domani! /'immagine del tuo ricordo! dentro i miei occhi! porrà! un'altra pietra alla difesa! delle città. / Aspettando! ascolto il suono della notte/ che mi annuncia i tuoi passi. »
Eppure, per i protagonisti de "Lasciando il bosco'; raggiungere questo profondo Sud del sentire è un viaggio quasi impossibile. Essi partono da un dramma che farebbe impallidire i tragediografi greci: la tragica morte della madre che grava sulla realtà psichica di Anja e suo fratello sin da quando erano bambini. Susanne Portmann per raccontare questo dramma reinterpreta la favola di Hänsel e gretel. Nella favola i due bambini si salvano dalla strega uccidendola. Ormai adulti Anja e david sembrano aver trovato un loro equilibrio ma in effetti la tragedia è stata annullata dai protagonisti i quali non ne hanno più parlato come fosse un tabù da tenere nascosto. E così i fantasmi del passato ritornano a sconvolgere questo precario equilibrio e tocca al fratello minore, quello apparentemente più "coglione", come egli si autodefinisce, a dover riannodare i fili della memoria per ricordare realtà dimenticate. AlIa fine toccherà a David scoprire chi era la strega e chi l'orco. Ciò che colpisce, in quest’opera, è come tutto scorra senza affanni. Anche la sparizione, ciò che l'essere umano teme di più, non viene mai percepita come un evento angoscioso: Anja scompare corrompendo quell'abitudine al silenzio sul passato e costringendo il fratello ad una ricerca che li salverà entrambi dalla follia o dall'annullamento anaffettivo.
Ma c'è ben altro sotto questo racconto: un profondo sottosuolo cutturale che trae origine dalla tragedia e che, però, dalla tragedia si affranca mantenendone inalterato tutto il pathos.
Pensiamo alla protagonista quando, ancora bambina, si ammala " ... a scuola c'era stata una ragazza più grande che le aveva dato dell'assassina». È esattamente ciò che succede nell' Edipo tiranno di Sofocle: un coetaneo offende Edipo chiamandolo ''figlio della fortuna" che equivaleva a bastardo. Ed Edipo cade in una crisi di identità, parte per cercare la verità sulla propria nascita non sapendo della sua corsa verso la catastrofe. Sfiorando con leggerezza ed ironia i miti ancestrali di Antigone, Elettra, Clitennestra, Oreste l'autrice racconta le tragedie che esplodono nelle cosiddette famiglie normali. I miti tragici, inspiegabilmente, riemergono, forse per essere elaborati e ripensati, per farci indignare e dire che Oreste era un criminale che rimase impunito per l'intervento del dio della ragione, Apollo, nonostante avesse ucciso colei che lo allattò, legittimando così l'annullamento del primo anno di vita irrazionale. Ma Hänsel e Gretel che uccidono la strega non sono criminali come non lo sono nemmeno i protagonisti del romanzo.
Anja "lasciando il bosco" è uscita dalla tragedia ma non dalle immagini del mito: è venuta a Roma e così il fratello. Roma per Anja e David rappresenta il Sud, il luogo del sentire umano. Lo scioglimento di questa storia, così... intensa, non è catastrofe, è ricominciare a vivere magari ricreando quel bosco perché... Roma non è Tebe dalle sette porte, e, se vai a Piazza Argentina, di notte...

L'INTERVISTA
In questa collana, chiamata Mangrovie, vengono raccolte opere di autori "migranti del linguaggio" vale a dire scritti letterari di donne e uomini che hanno avuto il coraggio di esprimere il loro pensiero, la loro fantasia, in una lingua che non gli appartiene, in un suono che non è quello che udivano già dai primi giomi di vita, e che, come scrive l'editore, «è madre e proteggente».
Susanne Portmann è sicuramente una migrante anomala, una extracomunitaria che non appartiene al Sud del mondo. Essendo svizzera, per lei il sud non è il luogo di partenza ma, forse, un punto di arrivo. L'autrice abita alle pendici di Monteverde Vecchio, dalle sue finestre vede passare i treni che ricordano il suo migrare, ed è qui che siamo andati ad intervistarla.
Cominciamo dal titolo: "Lasciando il bosco". Che non è "aver lasciato il bosco". Cosa significa: che c'è una tua ricerca e un tuo divenire umano che non si sono ancora conclusi, o che i personaggi del romanzo realizzano una loro identità, non tanto per aver lasciato il luogo dell'infanzia ma per aver scelto quel movimento?
Non ho vissuto il mio racconto come un'operazione di memoria, un ritomo indietro, il titolo in questo senso mi è sembrato conispondere piuttosto al movimento che realizzano i miei personaggi. Penso di essere stata esplicita dicendo che non si trattava di raccontare la loro storia, ma di qual cos'altro, forse di quel divenire umano che tu dici, e che è molto bello, per un movimento che è scelta, magari anche inconsapevole ma che tocca tenere. Sono convinta che per la realizzazione umana, l'andar via non basti. C'è differenza tra scappare e trasformare la propria identità. Scappare in situazioni di pericolo può essere la mossa sana. Ma salvarsi la pelle non basta. Bisogna tenere salda la mente per ri-conoscere il pericolo, per non ricascare in rapporti sbagliati. Il movimento che tu dici, dovrebbe quindi stare nel "dopo'; oltre il movimento fisico dell'andar via. Forse sta nel rifiuto della coazione a ripetere.
Il protagonista maschile, che poi è anche la voce narrante, assomiglia nella forma del linguaggio un po' al giovane Holden di Salinger più volte citato nel libro. C'è questa somiglianza? E perché ti sei voluta esprimere al maschile?
Holden è stato per me, come per la sorella protagonista e per molti altri, un libro fondamentale. Anche oggi non sono in grado di dire esattamente perché fu così importante, certamente perché parla di una crisi profonda, forse universale. Il libro poi è anche terribilmente divertente, nella sua drammaticità: Holden, anche se è uno che si parla addosso, ma non si piange addosso, ha uno senso dell'humour straordinario. Il mio protagonista è diverso, è simile a Holden nella ferrea volontà di non volersi piangere addosso, ma diverso per quanto riguarda il parlare. David, di fondo, è uno che parla poco, soprattutto di sé. È costretto a parlare, ad essere esatti, è costretto a scrivere, perché solo lo scrivere, e non il parlare di sé, gli permetterà di cavarsela, perché forse solo nello scrivere riesce a tendere un filo di rapporto con la sorella che, sparita, gli ha lasciato degli scritti. Quando lessi il libro, a quattordici anni, mi identificai completamente con Holden "Holden c'etait moi!" E questo ha chiaramente ha comportato un grande dramma per me: comprendere e aderire profondamente a Holden, ma non poter corrispondere a Holden, visto che ero femmina. Il pensare maschile mi è entrato nelle vene da piccola. Non è difficile per una ragazza entrare nella mente maschile, ci entri aprendo i libri scritti da uomini. Più difficile casomai è trovare un’espressione al femminile, oltre lo standard del pensare maschile. Nel racconto quindi, mi è premuto, più che volermi esprimere al maschile, dare espressione a due scritture, diverse tra loro.
Questo tuo romanzo, sembra appartenere alla categoria del dramma, vale a dire: rivolgimento di uno stato di apparente equilibrio; svolgimento, la ricerca della persona scomparsa; scioglimento, che non diciamo. Tuttavia, pur mantenendo sino alla fine un pathos drammatico, sfugge alla catarsi tragica. AI suo posto vi è una nemesis, una giustizia distributrice che riconduce a immagini di rinascita e ricreazione di un vivere umano possibile.
Magari è quel "oltre lo scappare" che cercavo di dire prima, che sarebbe allora il riuscire - che sarebbe, uscire nuovamente, cioè rinascere. A questo proposito ti dico che al mio racconto è stato mosso l'accusa di essere "buonista" - espressione che fatico ad afferrare bene, ma che non mi sembra giusta rispetto ad esso. lo mi sono ispirata alla favola di Hänsel e Gretel. Nel caso della favola anzi, il tutto finisce persino troppo bene, un "troppo" che ho voluto correggere facendo - se vogliamo come dici tu, "giustizia distributrice'; sino in fondo. La tragedia umana, le catastrofi, vissute anche da piccoli trovano eco e rappresentazione nella favola di Hänsel e Gretel, dove padre e madre si sbarazzano dei figli perché non c’è da mangiare: e tutto questo è vecchio come il mondo quanto attualissimo. "Il mangiare" che scarseggia si riferisce anche agli affetti, all'essere delusi dalle '”assenze”... degli altri, dei grandi e dove non ce dramma fisico, c'è quello psicologico. Le proposte d'uscita dalle tragedie sembrerebbero solo il sopravvivere, vale a dire "morire senza morire”: Ma c’è un'altra via. Ecco la ricreazione che tu dici, suona molto strano: si può vivere, anche oltre il sopravvivere, perché prima si è stati vivi, sempre, sin dalla nascita. Si può ritrovare se stessi per questo essere nati e la scrittura, forse, rivela questa ricreazione della nascita in modo più palese.
Pensi si possa uscire dagli arcaici cliches, dove si narra solo di figli che pagano le colpe dei padri, mantenendo tutta la tragicità necessaria all'opera d'arte letteraria e non?
Penso sì che sia possibile. Questa poi dei figli che debbono pagare... la maledizione, di chi?, degli antichi dei? Parliamoci chiaro: cos’è questa colpa dei padri, concretamente, storicamente per noi? Per me, per noi d'oltralpe delle generazioni del dopoguerra, è il nazismo su cui continuiamo a interrogarci e tormentarci. Ma appunto, dov'erano finiti tutti questi nazisti negli anni cinquanta, sessanta e ancora settanta? Ebbene erano tutti li e facevano... i bravi padri di famiglia, come del resto avevano fatto anche da nazisti dichiarati. La cosa che più mi ha colpito di Salinger, è che ha passato molto tempo in Europa a dare la caccia ai nazisti dopo la guerra, e mentre faceva questo ha scritto l'HoIden, che è uscito nel ‘51, forse bisogna tenerlo presente.
Nel tuo lavoro metti in evidenza un'immagine femminile, Anja, arrivando quasi a descriverla come superba nella sua aristocratica pretesa di giustizia assoluta. È un'immagine che riecheggia Antigone. Ci hai pensato o avevi presente un'imago femminile universale?
Non credo che Anja pretenda "giustizia”; tanto meno ''assoluta''. Lei pretende "verità" che è cosa diversa. Che sia superba, questo sì, ma penso ne abbia diritto. No, non mi sono ispirata a Antigone, non c'erano matrici, ho cercato solo di immaginarmi lei, che cosa si è potuto o si può vivere una donna con la sua storia, con questa incertezza e fragilità. Lei è molto coraggiosa, perché non ha paura di niente se non, appunto, del potersi sbagliare rispetto alle sue intuizioni. Lei vive o crolla su questo punto, su nient’altro. E la certezza gliela può dare solo il fratello, andando a vedere lui, facendo sua l'intuizione della sorella.

Susanne Portmann - Lasciando il bosco
Michele Di Salvo Editore, 2007 - Pp 200, € 12,00
In vendita anche presso la libreria "Mezzomondo", Largo Cocchi 11


Rosso di Sera 17.4.08
Una nuova sinistra popolare e di massa
di Piero Di Siena


Quando si incorre in una sconfitta così sonora e inequivocabile, e inoltre imprevista e inaspettata nelle dimensioni, come quella che ha subito il progetto della Sinistra l’Arcobaleno bisogna innanzitutto fermarsi a riflettere. Non ci sono ricette semplici e, sebbene la politica sia oltre che ragione anche passione e conflitto che impongono scelte tempestive, il peggio sarebbe continuare lungo strade note come se nulla fosse successo. Insipienza sarebbe continuare nel progetto lanciato dai quattro partiti senza alcuna soluzione di continuità raccogliendo quei reduci della sconfitta che ancora “ci stanno”. Ma altrettanto grottesco sarebbe pensare che la via di uscita è quella di ritornare a sicuri lidi identitari, sia comunisti che socialisti, che i fatti dimostrano di non parlare più all’immaginario di nessuno. Segno di una profonda fragilità sarebbe precipitarsi nel Partito democratico sull’onda di un’amara sconfitta.
Che la discussione nei partiti della sinistra, a cominciare da Rifondazione, si sia immediatamente trasformata in una resa dei conti interna è la conferma di quello che il voto ci dice. Che essi sono ormai scatole vuote e una somma di dirigenti privati dall’esito elettorale di ogni legittimazione. E nemmeno le associazioni e i movimento politici stanno in una condizione migliore anche se in esse rimane l’esigenza di una rinnovamento dell’agire politico che può diventare un punto fecondo da cui ripartire.
Se le cose stanno così non mi convincono le recriminazioni e gli anatemi né le posizioni più o meno esplicite di chi comincia a pensare che non ci sia alternativa alla scelta, ora, di ricostruire una posizione di sinistra nel Pd. Ciò può restituire una speranza a carriere politiche spezzate dal voto ma non rispondere ai problemi del paese.
Appunto, i problemi del paese. E’ questo il luogo da cui ripartire per ricostruire una sinistra all’altezza del tempo presente, radicando programmi e organizzazione politica laddove si vivono i bisogni e le ingiustizie del tempo presente, interrogandosi sulle condizioni materiali ma anche sull’evoluzione delle mentalità che, oggi, orienta ogni disagio sociale vissuto sulla pelle di tanti uomini e donne più a destra che a sinistra.
C’è qualcuno che a sinistra ha la risposta pronta a questi quesiti? Nessuno. Bisogna cercarli facendo tutti un passo indietro, sviluppando fino in fondo, anche nei congressi dei partiti che si annunciano imminenti, un confronto e una ricerca che siano insieme liberi e solidali, riportando la politica nei luoghi in cui le persone vivono, soffrono, gioiscono, e costruiscono la loro vita. Senza estremismi e minoritarismi, senza rinunciare a una politica delle alleanze e respingendo la retorica dell’opposizione a ogni costo, ma senza venir meno a un progetto di cambiamento.
E’ questa la ragione per cui tante e tanti saranno a Firenze il 19 aprile. L’iniziativa promossa da Ginsborg acquista ora un significato oggettivamente diverso da quello che aveva nel momento in cui è stata pensata. E augurabile che se ne rendano conto gli stessi promotori senza per questo cedere a deliri di onnipotenza o al rituale di atti salvifici ma gettando le basi di un lavoro di ricostruzione dal basso, democratico e partecipato. Insomma, ciò che alcuni di noi hanno da tempo auspicato.
E’ ovvio che se tutto ciò non è accompagnato a un’enorme lavoro di conoscenza di quello che è diventata la società italiana, di riflessione su come un nuovo progetto di sinistra si alimenti di comuni idee generali criticamente elaborate, di un giudizio sull’evoluzione dei sistemi politici e della crisi della democrazia, tutto potrebbe rischiare di essere inutile.
Dovremmo dunque non lasciarci travolgere. Questa è l’ora in cui il pessimismo dell’intelligenza deve essere accompagnato da un rinnovato ottimismo della volontà. Se c’è un momento in cui questo famoso “topos” del pensiero di Gramsci non suona retorico è questo. E del resto se ci ripieghiamo sulla realtà con spirito sgombro da pregiudizi appare evidente che, se è arrivata al capolinea la storia della sinistra degli ultimi venti anni, quella che è stata azzerata dal voto del 13 e 14 aprile, tutta la situazione invoca la necessità che ne nasca una nuova, popolare e di massa.

Liberazionev 16.4.08
Dopo il 20 ottobre una svolta culturale che ci ha portato al tracollo
di Citto Maselli


Nella valutazione di quanto è accaduto io credo si debba partire dal successo straordinario e inaspettato che ebbe la manifestazione dello scorso 20 ottobre. Tutti sanno che, malgrado il dissenso di Mussi, quella manifestazione era unitaria ma fondamentalmente organizzata, voluta, preparata da Rifondazione comunista. Ne sanno qualcosa le centinaia di nostri compagni che vivendo la militanza forse in modo non propriamente allegro e gioioso - come oggi va di moda dire - ma sicuramente tenacissimo e vivo, erano riusciti a darle vita arrivando a quintuplicare ogni previsione di riuscita. Per dire che, dunque, fino a sei mesi fa e con tutto il problema del governo Prodi, l'immagine e il popolo di Rifondazione comunista avevano conservato tutta intera la loro forza di richiamo e la loro presenza. Ricordo che insieme ai nostri dirigenti presenti sotto il palco a piazza San Giovanni commentavamo felici e stupiti questa verifica di forza, prestigio e capacità che non a caso veniva dopo Carrara e il grande sussulto di orgoglio e rilancio che quell'assise aveva significato.
Dunque. Il nostro tracollo è avvenuto nel corso di questi sei mesi e io credo che senza alcuno spirito polemico e senza volere in alcun modo semplificare le cose, sia proprio nei fatti che è avvenuto in corrispondenza della vera e propria svolta culturale che si è voluta dare da tanta parte della nostra dirigenza con la graduale ma sistematica cancellazione della nostra identità di rifondatori comunisti. Per non scadere in polemiche facili e comunque inadeguate alla gravità storica di quello che è successo, non mi metto qui a citare una per una le tappe, i gesti, le dichiarazioni e le azioni che hanno segnato questo cammino. Mi limito a due cose che sono culturalmente inconsistenti ma tuttavia a loro modo simboliche e significative: la definizione del comunismo come tendenza politico-culturale e la scelta del caffè Hard rock e non so che altro di via Veneto in Roma come luogo di incontro e verifica dei risultati elettorali. Forse per quest'ultima trovata parlo un po' da regista: perché sembra davvero un'idea straordinaria di sceneggiatura per dare il misto di provincialismo e falso giovanilismo con cui si è voluta esprimere plasticamente la propria distanza da un passato e da una storia.
Per quello che mi riguarda nella giornata di ieri e insieme a tanti altri sono andato nella sede del partito cui sono iscritto. E lì è successo che, verso le nove di sera, quando ci siamo salutati un po' tutti, due compagne, credo del Forum delle donne che erano rimaste con noi tutto il pomeriggio, visto che la Sinistra l'Arcobaleno anche alla Camera non andava oltre il 3 per cento, hanno dichiarato di volersi iscrivere - sin dal mattino dopo - al Partito della Rifondazione comunista. Ci siamo guardati tutti, un po' com'era successo sotto il palco di piazza S. Giovanni la sera del venti ottobre. Ultimo scorso.

Repubblica 17.4.08
Salvate il soldato Fausto
di Francesco Merlo


Buttare, con l´acqua sporca del comunismo, anche il bambino della sinistra radicale? Non bastonate il cane che annega, perché è il cane da guardia degli interessi deboli, dell´Italia povera.
E Walter Veltroni non lasci all´intelligenza di Giulio Tremonti la rappresentanza «sociale e culturale» – come ha scritto ieri Ezio Mauro – di quella «rete di valori, interessi, critiche, opposizioni presenti nel Paese e nella sua storia». Dovrebbe invece, Veltroni, lanciare un ponte alla sua sinistra, anche organizzativamente, magari chiamando, perché no?, Nichi Vendola nella plancia di comando.
E´ certamente vero che il comunismo in Italia era diventato il divertimento intellettuale di alcuni professori, la camicia di forza della sinistra incartapecorita. Ma ora che non c´è più Bertinotti, chi, in Parlamento, difenderà gli operai? Davvero il Partito democratico, senza ospitare, come tutti i partiti riformisti del mondo, una rappresentanza di sinistra radicale, basterà a coltivare e proteggere gli interessi dei gruppi sociali più deboli, dagli operai agli impiegati di concetto, dagli insegnanti ai venditori ambulanti, dai piccoli e sempre più terminali bottegai ai giovani disoccupati e sotto occupati? Chi darà cittadinanza politico istituzionale a questo lungo, largo e grosso proletariato italiano, colpevolmente confuso e ridotto solo agli operai di fabbrica?
Per la verità, gli studi della Cgil e le riflessioni dei politologi già nel 2006 segnalavano l´affezione leghista degli operai del Nord, che infatti adesso hanno votato, in maggioranza, per la destra. E si sa che gli ultimi libri di Giulio Tremonti sono puntati contro il fantasma della povertà italiana, alimentata dall´euro forte e dall´ingresso della Cina nella globalizzazione. Tremonti denunzia «i salari italiani orientali erosi dai costi occidentali», propone aiuti alle fabbriche e alle industrie… Non so se è un discorso di sinistra. Sicuramente, in un universo senza più simboli, Tremonti, che è la mente economica non solo di Berlusconi ma anche della Lega, rischia davvero di rappresentare i produttori – operai e imprenditori – molto meglio del Pd e di occupare dunque il posto vuoto lasciato da Bertinotti sia nell´urna e sia nelle sezioni di partito, nella concertazione, nella società dei deboli.
Veltroni ha dunque «una responsabilità in più». Secondo noi ha persino il dovere di richiamare a casa la sinistra radicale operaista, alla quale, troppo sbrigativamente, i rappresentanti degli imprenditori vorrebbero dare il colpo di grazia, con una spietatezza un po´ ridicola. Insomma, la Confindustria dovrebbe evitare di cantare una vittoria che potrebbe essere quella di Pirro, o, se preferite, quella di Sansone che morì con tutti i filistei. La perdita di rappresentanza dei ceti deboli infatti potrebbe portare alla fine delle buone maniere nelle fabbriche, nelle strade, nel conflitto sociale.
Non che sia davvero immaginabile un ritorno del terrorismo diffuso, come dice il solito autoreferenziale Cossiga, il quale pensa di compendiare in sé tutto il vissuto e tutto il vivibile: "Nihil novi sub Cossiga" (con la a lunga dell´ablativo). Ma può accadere che esplodano, come attorno alla spazzatura di Napoli, i plebeismi, il luddismo o nuove forme di criminal sindacalismo. E un´avvisaglia la si è avuta, per esempio, in Sicilia dove, la settimana scorsa, i braccianti, esasperati perché nessuno li sta ad ascoltare, hanno bloccato per ben tre giorni i caselli dell´autostrada Catania – Messina.
Secondo noi ad affossare e bastonare Bertinotti è stata soprattutto l´antimodernità dei vari Pecoraro Scanio, quel mondo reazionario che in nome della sacra lucertola immagina un´Italia contadina, non capisce che anche il treno fa landscape, che termovalorizzatori, ponti, autostrade e persino il nucleare sono elementi del paesaggio, sono l´ambiente storico che va difeso, vissuto e sviluppato. Marx era prometeico, industrialista, era contro le utopie rovesciate, contro il cammino all´indietro che, almeno, ai suoi tempi era sognato dal socialismo prescientifico e giustificato dal grado zero dello sviluppo tecnologico. Oggi invece l´utopia antisviluppo è sognata dalle caricature italiane del pensiero verde europeo, in un mondo nel quale la tecnologia è ubiquitaria: dalle lenti a contatto ai telefoni, dall´alimentazione all´ecologia stessa.
Ebbene, non è immaginabile un Partito democratico che, liberatosi dell´antimodernità, non abbia dentro di sé gli operai, anche nella loro rappresentanza estremista. Né si può pensare a un Partito democratico senza i difensori del lavoro dipendente, di quello usurante, dei nuovi poveri (tra i quali, ripetiamo, ci sono gli insegnanti, che guadagnano meno degli operai qualificati). E poi ci sono intere regioni italiane che sono come piccole Albanie e che hanno bisogno di un pensiero di sinistra ma imprenditoriale, sviluppista ma solidaristico.
Bisogna riconoscere per esempio che l´esperienza di Nichi Vendola è molto interessante. Da quando è al governo della Puglia, la cronaca quotidiana non è cronaca nera di scafisti, di morti ammazzati e di sacra corona unita, ma anche di leggi laiche e non estremiste sulla famiglia; e di sviluppo, con un primato nella produzione di energia, l´utilizzo del combustibile da rifiuti, il rigassificatore, il progetto pilota (nel mondo) dei distributori di idrogeno per autovetture. E ancora: gli aiuti regionali ai giovani che vanno a studiare all´estero con il patto che dopo due anni rientrino in Puglia.
Al di là dei risultati, la direzione di marcia è quella giusta: giovani, sapere, sviluppo, tecnologie di ultima generazione, con l´idea vincente che la maniera migliore di difendere gli operai sia produrre ricchezza. Non rivendicarla, ma produrla. Non ci sono soviet senza elettrificazione. E però più che di falce e martello questa di Vendola è una sinistra che sembra fatta di libro e computer. Ora Veltroni potrebbe far sua la gentilezza di sinistra di Vendola e maritarla con la cultura di impresa, salvare i salari, aggredire il fantasma della povertà ma al tempo stesso progettare futuro: impianti a mare, ponti, città sull´acqua, investimenti internazionali. Parafrasando Gramsci: non contro il capitale ma per il capitale. Suscitarlo e addomesticarlo.
Berlusconi, se vuole, inviti pure a cena Bertinotti. Veltroni potrebbe rispondere allargandosi appunto verso Vendola, e magari offrirgli, che so?, la vicesegreteria, per una convivenza ben più duratura di una cena.