domenica 20 aprile 2008


19.4.2008 23.12


La grande partecipazione di oggi ci dice che la sconfitta elettorale non ci ha cancellati.

NOI CI SIAMO COMUNQUE.

Questa assemblea ha avviato una riflessione sulle molte cause della sconfitta elettorale, ma con determinazione ha ribadito che il PROCESSO COSTITUENTE DI UNA SINISTRA UNITA E PLURALE E' IRREVERSIBILE.

Deve ripartire da un profondo rinnovamento della sinistra e di noi stessi.

E' un processo che avrà bisogno di tempi rispettosi delle diverse identità e appartenenze, ma deve iniziare da subito, A PARTIRE DALLE ESPERIENZE DEI TERRITORI PER CREARE LUOGHI PUBBLICI PIU' LARGHI DELLE FORME ORGANIZZATE GIA' ESISTENTI, SPERIMENTANDO NUOVE FORME DI DEMOCRAZIA CHE ABBIANO UN'IMMEDIATA OPERATIVITA'. Occorre ripartire dalle donne e dagli uomini che si sono impegnati nella campagna elettorale e dalle tante case comuni della sinistra che già esistono, diffuse.

E' altrettanto urgente aprire laboratori di analisi e di pensiero a sinistra, costruendo seminari territoriali e nazionali.

DA OGGI NASCE UN GRUPPO DI LAVORO CHE AVVIA E ORGANIZZA LUOGHI DI DISCUSSIONE E DI ELABORAZIONE SULLE REGOLE E SULLE FORME DEL NUOVO SOGGETTO, per costruire un NUOVO APPUNTAMENTO PRIMA DELL'ESTATE [hanno già dato la disponibilità Marco Revelli, Paul Ginsborg, Fulvia Bandoli, i compagni e le compagne del Veneto, il Movimento delle associazioni per la Sinistra l 'Arcobaleno].

Da domani ripartiamo dal radicamento sociale, dai conflitti e dai contenuti, impegniamoci ad un appuntamento nazionale di confronto sulle priorità che ne emergono.

L'OBBIETTIVO E' QUELLO DI RISPONDERE OGNI GIORNO AI BISOGNI REALI E CONCRETI DELLE DONNE E DEGLI UOMINI per far vivere nel paese l'opposizione al governo Berlusconi, a partire dalla riaffermazione e difesa della Costituzione, dal contrasto ad ogni forma di rinascita del fascismo, e dalla più forte PARTECIPAZIONE ALLE MANIFESTAZIONI DEL 25 APRILE E DEL PRIMO MAGGIO.


Corriere della Sera 20.4.08
A Firenze Assemblea all'indomani del flop del listone
E la Sinistra elabora il «lutto» Ginsborg: avanti con l'unità
di Marco Gasperetti


FIRENZE — L'inizio è beffardo. Ad accogliere al Palazzo dei congressi la Sinistra l'Arcobaleno, quel che rimane, è un cartello sulla depressione. Che non è lo scherzo di Berlusconi, ma l'annuncio di un convegno di psichiatria che si sta svolgendo nel salone attiguo dove il popolo della sinistra radicale si è ritrovato per analizzare la sconfitta e la cacciata dal Parlamento.
L'appuntamento somiglia più a uno psicodramma che a un'assemblea politica. Si analizza il male oscuro della sconfitta e si ammettono in diretta colpe collettive e personali. Come quelle dell'ex ministro Paolo Ferrero che si infervora come un Savonarola al contrario: accusa se stesso e smentisce seccamente i rumor su una sua possibile candidatura alla leadership della «cosa rossa» prossima ventura.
Esterna pure il governatore della Puglia, Nichi Vendola, applauditissimo, che si autoiscrive nel listone dei colpevoli. E fa outing politico Giovanni Russo Spena: chiede «un azzeramento dei vecchi vertici, io compreso, e un rinnovamento totale» e poi smentisce ipotesi di epurazioni, come quella del direttore di Liberazione, Piero Sansonetti.
A tirar su un po' il morale ci vogliono le battute della veterana Luciana Castellina: «Io sono la dimostrazione storica che dalle sconfitte si sopravvive» e di Paul Ginsborg, il professore, che chiede di uscire dalla «retorica del lutto collettivo» perché dall'assemblea fiorentina stanno venendo buone cose «e si può ricominciare » e lancia un appello a Rifondazione «perché la smetta di litigare e ritrovi l'unità che serve a tutti». Il sorriso, vero, arriva con l'atipico intervento del movimentista Andrea Alzetta, detto Tarzan, che chiede scusa ai mille intervenuti perché prova imbarazzo «nella nuova veste istituzionale a stare in un'assemblea di estremisti extraparlamentari ».
Segue una lamentosa processione di operai e sindacalisti, intellettuali e movimen-tisti, precari e vecchi comunisti. Quando l'autoflagellazione sembra essere compiuta ecco l'ultimo scatto di orgoglio. Un documento politico. Che recita: «È plurale e irreversibile il processo costituente di una sinistra unita e plurale. Che deve ripartire da un profondo rinnovamento da iniziare da subito». E prosegue con l'annuncio della nascita di un gruppo di lavoro per organizzare «luoghi di discussione e di elaborazione sulle regole e sulle forme del nuovo soggetto per costruire un appuntamento prima dell'estate». Un po' di sereno dopo la tempesta. Ma non chiamatelo Arcobaleno, per favore.

Convegni Il meeting di sinistra e quello sulla depressione

l'Unità 20.4.08
Il direttore di Liberazione ammette: dovremmo essere più comprensibili
«Già smentita la mia sostituzione
Il giornale non ha nulla da temere»
di s.c.


«Niente di vero», dice Piero Sansonetti delle voci che vorrebbero un imminente cambio della guardia alla direzione di Liberazione.
Eppure l’indiscrezione di una sua sostituzione con Russo Spena circola.
«Mi sembra ci sia già stata la smentita».
Sì, lui ha detto che non ne ha “nessuna intenzione”, però c’è anche l’ipotesi di un suo commissariamento.
«Cosa vuol dire commissariamento? Se l’editore vuole nominare un altro direttore si può fare, come in tutti i giornali. Ma non mi pare proprio che ci sia questa idea».
E della preoccupazione del Cdr per il futuro del giorna-
le? infondata anche questa?
«È dovuta alle voci drammatiche che sono circolate, ma dal punto di vista finanziario non cambia niente, nonostante non ci sia più il gruppo Prc in Parlamento. C’è sempre il gruppo a Strasburgo a garantire il finanziamento pubblico. E poi sta andando molto bene la free press che abbiamo lanciato all’inizio del mese».
Continuerà nei prossimi mesi?
«Nei prossimi anni, direi. Stiamo lavorando per avere pubblicità per due anni, e sta arrivando. L’obiettivo è di finanziare interamente il giornale. Anche se la free press è stata lanciata sia per questo che per aumentare i lettori e l’influenza, perché passiamo da 10mila a 130mila copie diffuse».
Avrete anche aumentato i lettori però l’influenza non si è vista in queste elezioni.
«La maggior parte dei voti persi sono andati in parti uguali verso l’astensione e verso il Pd. Verso il Pd chi pensava che dovessimo governare e fare meno i bastian contrari, verso l’astensione chi pensava che abbiamo retto la coda a Prodi e non dovevamo andare al governo. Sono due obiezioni opposte e non c’era nessuna politica possibile che le soddisfacesse entrambe. Se la sinistra non ha evitato una sconfitta di questa portata è perché non ha fatto una delle due scelte. Il giornale l’ha detto a suo tempo, quando abbiamo fatto il titolo: Domanda proibita: cosa ci stiamo a fare nel governo?».
Il Prc va a congresso e l’aria è da resa dei conti. Sicuro che il giornale non sarà tra un fuoco incrociato?
«Su quali basi? Giordano dice che bisogna fare la costituente della sinistra ma che Rifondazione non si scioglie, Ferrero che Rifondazione non si scioglie ma che si deve aprire anche ad altri. Penso che uno dei problemi della sinistra sia quello di ricominciare a parlare in modo che la gente capisca. E una spaccatura su queste due posizioni non credo che riuscirei a spiegarla sul giornale».

l'Unità Roma 20.4.08
Tre generazioni di donne a confronto tra ’68 e femminismo
Il movimento femminista statunitense tra la paura di volare e gli attacchi politici alle conquiste delle donne. Oliviero Toscani: «La minigonna unico colpo di genio del ’68»
di Adele Cambria


Non c’è dubbio che alla tavola rotonda intitolata Storia immagine e immaginario della sessualità femminile, in calendario venerdì sera al Festival della Filosofia dedicato al ’68, la novità sono state loro, le femministe americane che si definiscono «della terza ondata». Si chiamano Jennifer Baumgardner ed Amy Richards, tutt’e due bionde e di buon carattere, anzi Amy si dice senza problemi «ottimista», motivando: «Sono cresciuta in un mondo in cui il successo del femminismo si misura dai diritti conquistati da voi per noi». E con quel «voi», che esprime la gratitudine delle giovani americane per quelle che le hanno precedute, Amy si rivolge alla seconda generazione del Women’s Liberation Mouvement, rappresentata da una florida Erica Jong: che appare invece piuttosto pessimista. «Paura di volare» il suo primo best-seller del 1973, la rese popolare in tutto il mondo come eroina di quella che la traduzione italiana del 1975 definiva senza troppi eufemismi «scopata senza cerniera». A me che l’incontrai allora sembrò una bella donna ingiustificatamente piena di paure; e non era solo la paura di volare… (Che del resto mimetizza, almeno secondo la vulgata freudiana, problemi di sesso.) Il suo secondo romanzo, Come salvarsi la vita, mi confermò l’impressione che la donna americana abbia bisogno, assai più delle francesi e anche delle italiane, di avere un marito a fianco, per sentirsi socialmente a posto. All’incontro della Sala Sinopoli - coordinato da una come sempre aguzza e lucida Ida Dominijanni - la scrittrice ha fatto dichiarazioni coraggiose: «Per la prima volta nella mia vita mi vergogno di essere americana». Parlava della guerra in Iraq - «Ormai sta durando più della seconda guerra mondiale» - ma anche di Hillary Clinton, «insultata in campagna elettorale per le caviglie grosse o perché ha sessant’anni». (Ed è stato l’improvvido marito, nell’intento di aiutarla, a giustificare con l’età «avanzata» l’inesattezza di certi suoi ricordi). In quanto ai diritti delle donne, Jong dice: «Stiamo tornando indietro in tutti i campi, le leggi ci sono ma un qualsiasi George W. Bush può svenderle per procacciarsi i voti dei cristiani fondamentalisti». A questo punto, conclude, non c’è che esigere «che i diritti delle donne siano proclamati diritti inalienabili dall’Onu». «In quanto a me - aggiunge - da tempo mi sono assunta il ruolo di “Mentore” femminista per le giovani».
Dominjianni accenna alle pratiche di affidamento reciproco, e Amy Richards spiega come dal 1992 lei collabori con Gloria Steinem, una mitica protagonista del Women’s Liberation Mouvement dei primi anni 70, direttrice del magazine femminista americano, MS. E ora Amy tiene una rubrica giornaliera, Ask Amy, su Feminist.com.
The Third Wave Foundation, racconta, è una organizzazione di attiviste femministe tra i 15 e i 30 anni. «Rispettiamo il femminismo che è stato prima di noi - spiega- anche se alcune “pioniere” non sono d’accordo con le iniziative delle giovani. Noi abbiamo ottenuto investimenti di milioni di dollari a favore delle emarginate, e nella nostra Fondazione i vertici sono anche maschili: gli uomini hanno bisogno di più femminismo!» Non sembrerebbe, ahimé, a giudicare dall’intervento di Oliviero Toscani, unico (e professionalmente prestigioso) maschio invitato al dibattito. «Per me il ’68 è stato il funerale dei favolosi Anni Sessanta, e la vera e unica femminista è stata Mary Quant, quando decise di dare un taglio alle sottane scoprendo le gambe delle ragazze. Io avevo vent’anni e stavo a Londra, eravamo tutti arrapati per via di quel colpo di genio…! Del resto, il Sessantotto etimologicamente viene dalla parola Sesso! Non poteva scoppiare nel 58!» Dominijanni, misericordiosa, tace.

Repubblica 20.4.08
Per chi suonano le campane di Bossi
di Eugenio Scalfari


Io non credo che chi ha sperato nella vittoria del Partito democratico abbia confuso i suoi sogni con la realtà e un paese immaginario con quello esistente. Credo che esistano due paesi reali, due contrapposte visioni della politica e del bene comune come sempre accade in tutti i luoghi dove è assicurata la libera espressione delle idee e la libera formazione di maggioranze che governano e di minoranze che controllano il rispetto della legalità e preparano le alternative future.
Molti amici mi hanno chiesto nei giorni scorsi come mai chi si è battuto per la vittoria dei democratici (ed io sono tra questi) non ha percepito che essa era impossibile.
Ma non è vero. Sapevamo e abbiamo detto e scritto che sarebbe stato miracoloso riagguantare nelle urne elettorali un avversario che nel novembre del 2007, quando si è aperta la gara, aveva nei sondaggi un vantaggio di oltre 20 punti e c´erano soltanto quattro mesi di tempo prima del voto.
Se l´avverarsi di un´ipotesi viene definita miracolosa ciò significa che le dimensioni dell´ostacolo da superare non sono state sottovalutate ma esattamente pesate per quello che realmente erano. Tuttavia un errore è stato certamente commesso: non è stata avvertita l´onda di piena della Lega.
Non se n´è accorto nessuno, gli stessi dirigenti di quel movimento ne sono rimasti felicemente stupiti. Fino alle ore 16 del lunedì elettorale la Lega veniva data nei sondaggi attorno al 6 per cento. Nessuno le attribuiva di più e i leghisti sarebbero stati soddisfatti di quel risultato. Stavano marciando verso il 9 per cento su scala nazionale con punte fino al 30 nel lombardo-veneto e successi consistenti in tutta la Padania anche sulla riva destra del Po, e non lo sapevano.
Se si confrontano i risultati elettorali tra il partito di Veltroni e quello guidato da Berlusconi e Fini, la differenza è più o meno di 4 punti, tra il novembre e l´aprile il recupero è stato dunque di 16 punti percentuali.
La vittoria della Lega in quelle dimensioni è stata la sorpresa e qui va approfondita l´indagine, scoperte le cause dell´errore e la natura profonda di ciò che è avvenuto senza trascurare la Lega siciliana di Lombardo e del suo alleato Cuffaro, che anch´essa merita la massima attenzione.
* * *
Si dice sempre più frequentemente che i termini di Sinistra e Destra non esprimono più la natura politica della realtà.
Probabilmente è vero e non da poco tempo. Il crollo delle ideologie ha accelerato la rivelazione di un fenomeno già presente da anni.
Del resto quelle due parole sono nate e sono entrate nell´uso comune nel corso dell´Ottocento. All´epoca della Rivoluzione dell´Ottantanove non si parlava di Destra e di Sinistra, si parlava di monarchici e repubblicani e poi di montagnardi e di girondini, in Inghilterra di conservatori e di liberali.
Al tempo d´oggi in una società come la nostra si può correttamente parlare di riformisti che puntano sulla modernizzazione del paese, dell´economia e dello Stato, ai quali si contrappongono coloro che vogliono recuperare l´identità e la sicurezza. In un certo senso sono anch´essi riformisti. Per realizzare modernità e innovazione ci vogliono profonde riforme, ma anche per recuperare sicurezza identitaria ce ne vogliono. Riforme in un senso, riforme in un altro. Due contrapposte visioni di Paese e di ruoli.
E´ fin troppo ovvio dire che nell´una e nell´altra di queste visioni esistono elementi della visione opposta. E´ diverso il dosaggio e questo fa una differenza non da poco che si estende ben oltre la politica, determina diversità di costume, di stili di vita, di impegno del tempo libero, di letture, di sentimenti, di scelte.
C´è infatti un altro elemento che entra in questo complesso incastro di messaggi e di dosaggi ed è un elemento tipicamente culturale. Si può definire come rapporto tra il tempo e la felicità.
Le generazioni più giovani sono state schiacciate sul tempo presente, la memoria del passato interessa loro poco o nulla, non sembrano disposte a condividere quel tanto di felicità attuale con le generazioni che le seguiranno.
Questo rapporto tra felicità e tempo è un fenomeno relativamente recente e ha prodotto una serie di effetti non sempre positivi. Per esempio lo scarso tasso di nuove nascite e la richiesta sempre più pressante di protezione sociale ed economica. Un altro effetto lo si vede nel localismo degli insediamenti più produttivi e più ricchi: contrariamente a quanto finora era accaduto sono proprio le comunità più agiate ad aver perso di vista i cosiddetti interessi nazionali dando invece schiacciante prevalenza a quelli del territorio dove essi risiedono. Si tratta di un aspetto essenziale per capire la vittoria leghista di così ampie dimensioni. La Pianura Padana è un pezzo dell´Europa agiata; l´Italia peninsulare comincia a sud-est delle Alpi Marittime e a sud dell´Appennino Tosco-Emiliano, all´incirca seguendo la vecchia linea gotica d´infausta memoria.
Questo luogo sociale e politico considera, da trent´anni in qua, l´Italia peninsulare come un fardello da portare sulle spalle senza ricavarne alcun vantaggio. Perciò è ormai convinta della necessità di un federalismo fiscale che si riassume così: il peso delle tasse deve diminuire per tutti e almeno i due terzi del gettito dovrà rimanere sul territorio dove viene generato.
L´altro terzo andrà allo Stato centrale per i suoi bisogni primari cioè per il funzionamento dei servizi pubblici indivisibili.
Da questa concezione l´idea di una redistribuzione del reddito con criteri sociali e geografici è del tutto assente. Lo slogan per definire lo spirito di questa filosofia potrebbe essere «chi fa da sé fa per tre». Ognuno pensi ai suoi poveri, ai suoi bambini, alle sue famiglie, ai suoi artigiani, alle sue partite Iva. E vedrete che anche i «terroni» si troveranno meglio di adesso.
* * *
In un mondo globale questa visione significa costruire compartimenti stagni che separano le comunità locali dall´insieme. Significa dare vita ad un Paese non più soltanto duale (il Nord e il Sud) ma con velocità plurime e con dislivelli crescenti all´interno stesso dei distretti più produttivi e più agiati e con contraddizioni mai viste prima.
Ne cito alcune. Le imposte pagate da imprese delle dimensioni di una Fiat, di una Telecom, di un Enel, di un Eni, di una Finmeccanica così come le grandi banche o le grandi compagnie d´assicurazione presenti in tutto il Paese, dove saranno incassate e da chi? Si scorporerà il loro reddito stabilimento per stabilimento, il valore del gas e del petrolio importati e altre grandezze economiche difficilmente divisibili sul territorio? Oppure per dare attuazione a questo tipo di federalismo fiscale si prenderà in considerazione la natura delle varie imposte e tasse? L´Iva resterà nei luoghi dove viene pagata? E le imposte sui consumi? E quelle sui redditi personali o aziendali? Un ginepraio. E´ possibile che la creatività di Giulio Tremonti ne venga a capo, ma non sarà certo una facile impresa.
Segnalo tuttavia una contraddizione difficilmente risolvibile. La maggioranza relativa dei pensionati vive nelle regioni del Nord; in esse infatti c´è stato e c´è maggior lavoro e quindi maggiori pensioni. Nel Nord vive anche gran parte dei possessori di titoli pubblici.
L´erogazione delle pensioni e il pagamento delle cedole sui titoli di Stato costituiscono una fonte imponente di uscite dalle casse dello Stato verso le regioni del Settentrione.
Come verrà valutato in un´Italia a compartimenti stagni questo flusso imponente di spesa pubblica?
La verità è che l´idea di trattenere due terzi delle entrate sui territori locali è pura demagogia inapplicabile in quelle proporzioni. Ma intanto la gente ci crede così come crede anche che la sicurezza pubblica sarà migliorata se una parte dei poteri che oggi incombono all´autorità centrale sarà attribuita ai sindaci e ai vigili urbani.
* * *
Qui viene a proposito meditare sulla Sicilia autonomista di Lombardo e Cuffaro.
Si tratta di province potenzialmente ricche ma attualmente povere. Province deturpate da secoli di lontananza dal mercato e dalla presenza del racket, di poteri criminali, di traffici illegali e mafiosi.
Oggi è in atto, per merito di industriali e commercianti coraggiosi, una nuova forma di lotta contro il racket che ha già avuto le sue vittime e i suoi morti. La politica centrale e soprattutto quella locale avrebbero dovuto precedere o quantomeno affiancare questa battaglia ma non pare che ciò sia avvenuto, anzi sembra esattamente il contrario per quanto riguarda i poteri locali, molti dei quali infiltrati da illegalità e mafioseria.
Tra le istituzioni e la criminalità organizzata esiste da tempo e si allarga sempre più un´ampia zona grigia, un impasto di indifferenza, contiguità, tolleranza, collusione. Il confine tra la zona grigia e i mercati illegali non è affatto blindato anzi è largamente permeabile. Si svolge un continuo andirivieni da quelle parti, gente che va e gente che viene. Si attenuano le asprezze dell´ordine pubblico in proporzione diretta all´andirivieni sul confine tra zona grigia e poteri criminali. Più il potere criminale riesce a legalizzare i suoi membri, i loro figli, i loro nipoti, più diminuisce la crudeltà della lupara. Ricordate il Padrino? La dinamica è quella.
Ma torniamo alla Sicilia di Lombardo. Aumenteranno le richieste di denaro pubblico e di autonomia locale della loro gestione. Non dimentichiamo che i padri dei Lombardo e dei Cuffaro volevano il separatismo, così come il Bossi di vent´anni fa voleva la secessione. Adesso sia gli uni che gli altri hanno capito che una forte autonomia abbinata a un altrettanto forte separatismo fiscale configurano una secessione dolce e duratura.
I due separatismi del Nord e del Sud hanno come obiettivo primario le casse dello Stato e come conseguenza la competizione tra loro a chi riuscirà meglio nell´impresa.
E´ infine evidente che per fronteggiare una situazione di questo genere i poteri di quanto resta dell´autorità centrale dovranno essere rafforzati da robuste dosi di autoritarismo per tenere insieme le forze centrifughe operanti in tutto il sistema.
* * *
Questo quadro è qui descritto al nero ma può anche essere raccontato in rosa anzi in azzurro: un´autorità centrale forte ma democratica, un´articolazione regionale rappresentata dal Senato federale non diversamente da quanto accade nel sistema tedesco.
Ma sta di fatto che la Germania dispone di elementi centripeti molto robusti mentre in Italia la centrifugazione localistica è una costante secolare, anzi millenaria.
Quella che un tempo si chiamava sinistra trovava la sua identità nell´ideologia della classe. Ma la classe ormai non c´è più e perciò la sinistra è affondata. E´ curioso che per spiegare la sparizione della sinistra dal Parlamento del 2008 si cerchino motivazioni di carattere elettorale.
Eppure, specie da parte di chi ancora pensa marxista, la spiegazione è evidente: quando una certa struttura delle forze produttive viene meno, l´effetto inevitabile è che scompaia anche la sovrastruttura che quelle forze avevano prodotto e configurato. Questi fenomeni erano già presenti da anni nella società italiana; i nodi sono arrivati al pettine in questa campagna elettorale.
Il popolo sovrano che si è manifestato nelle urne elettorali del 14 aprile è, con una maggioranza di oltre tre milioni di voti, più localistico che nazionale, vive più il presente che il futuro, è più identitario che innovatore e più protezionista che liberale. Questi sono dati di fatto con i quali è difficile anzi inutile polemizzare. Il Partito democratico ha conservato per fortuna la memoria del passato ma ha cambiato posizione e linguaggio diventando la maggiore forza politica a sostegno dell´innovazione e della modernizzazione delle istituzioni e della società.
Per spostare su questa strada le scelte future del popolo sovrano ci vorrà però uno sforzo senza risparmio soprattutto in due settori: la presenza sul territorio e una progettazione culturale che capovolga quella esistente.
Soprattutto nel rapporto tra il tempo e la felicità, che deve includere anche gli esclusi e i nipoti.
Non è compito da poco, significa recuperare nello stesso tempo il valore del passato e la creatività del futuro.
Perciò basta con le condoglianze e buon lavoro per la democrazia italiana.

Repubblica 20.4.08
Voci super. Cecilia Bartoli
di Giuseppe Videtti


"Tutto cominciò con Pippo Baudo" e una trasmissione Rai per giovani talenti... Oggi, a quarantadue anni, la mezzosoprano italiana è una diva mondiale che ha venduto sette milioni di dischi. L´ultimo cd lo ha dedicato a Maria Malibran, astro della musica ottocentesca, "la prima pop star, morta non ancora trentenne, come Janis Joplin o Jim Morrison" Adesso coltiva un sogno segreto: cantare nel "Don Giovanni", però nel ruolo del protagonista
A chi ha voglia di scoprire le meraviglie della lirica direi: alzati, spegni la tv, rimettiti le scarpe, esci, vai a teatro e decidi da solo quello che ti piace

Il lungolago di Zurigo è semideserto nel pomeriggio di piombo che non promette primavera. I cigni si preparano alla bella stagione mettendo in scena un grooming coreografico e meticoloso. Poche anime sulla passeggiata: anziani con le badanti, bambinaie in grembiule blu indaffarate coi rampolli capricciosi che hanno in custodia. Sul muro dell´antico gazebo, una svastica neonazi che gli spazzini non sono riusciti a graffiar via. Nell´hotel de charme l´atmosfera è calda, serena. La radio di lingua tedesca trasmette alla rinfusa Mercadante, Petrella, Mahler. Lei fa il suo ingresso mentre l´Adagietto della quinta riempie la hall di una tale solennità che bastano i tacchi sul parquet a far chiasso. Poi la risata generosa riempie il salone di un´allegria tutta italiana. E la musica, per non esser da meno, si adegua; adesso è Percy Sledge che canta When a Man Loves a Woman. Al mezzo soprano Cecilia Bartoli anche il pop sta benissimo. «Da ragazza ascoltavo Pink Floyd, Rolling Stones, il Michael Jackson di Thriller e tutta la musica gitana», ricorda la cantante, quarantadue anni, che ormai da tempo vive a Zurigo con il suo compagno, il baritono svizzero Oliver Widmer. «Ero nel gruppo di flamenco Andalucia di Isabel Fernandez e il mio debutto nel mondo dello spettacolo fu proprio come ballerina. La Carrà ci volle a Pronto Raffaella, il varietà tv in cui il pubblico doveva indovinare quanti fagioli c´erano nel vaso. Volavo in motorino, tutta sudata, dalla lezione di ballo al conservatorio. Incoscienza giovanile. Ma una cosa ricordo con chiarezza: mio padre aveva una collezione di vecchi dischi di Aureliano Pertile e Tito Schipa. Quei signori cantavano e porgevano con una grazia infinita. Da loro ho imparato moltissimo. L´arte del suono filato di certi tenori mi stupiva, m´incantava».
Chioma fluente, labbra carnose, seno generoso, contagiosa comunicativa mediterranea: sarebbe stata una perfetta ballerina di flamenco. Ma la tentazione della lirica era in casa. Mamma soprano, papà tenore. «All´inizio, cercavo di fuggire dall´opera. Fu mia madre a darmi la spinta, quando una domenica pomeriggio - doveva piovere moltissimo se decisi di restare in casa - disse: perché non proviamo a fare due vocalizzi? I risultati furono immediati, ma non pensavo alla carriera. Non è una strada in discesa, la nostra è una vita randagia, fatta di sacrificio, di viaggi (e io detesto volare). Per questo mio padre, che aveva una voce straordinaria, rinunciò alla carriera. Conobbe mia madre quando insieme vinsero il Festival dei Due Mondi di Spoleto, pronti per la carriera internazionale. Poi siamo nati noi, e alla fine degli anni Cinquanta per due che venivano da famiglie semplici non era facile. Lui romagnolo, lei emiliana, senza nessuno a cui lasciare i bambini durante le tournée. Si trasferirono nella capitale... Mamma avrebbe avuto il temperamento e la volontà per continuare… Papà invece era un po´ più pantofolaro, come diciamo a Roma».
Cecilia non ha figli, da quasi un quarto di secolo è diventata cittadina del mondo. È appena rientrata da Baden Baden, dove ha eseguito una versione concertante de La sonnambula di Bellini. «La mia storia è strana», racconta. «Tutto cominciò con Pippo Baudo a Fantastico 6. Frequentavo il conservatorio, quando un amico di famiglia venne a trovarmi. Mi disse che in Rai cercavano giovani talenti. Partecipai ad alcune audizioni in una situazione felliniana. C´erano prestigiatori, attori, pianisti, cantanti. Presero me e un basso sedicenne. Fu il trampolino di lancio. Mi videro altri musicisti, impresari e... Barenboim, che mi chiamò a sostituire una cantante per un omaggio alla Callas. Iniziai subito a studiare con lui dei ruoli mozartiani, poi arrivarono Karajan, Muti, Abbado e Nikolaus Harnoncourt, che mi ha spalancato le porte della musica barocca. Ma a Pippo sarò sempre grata, ci siamo rivisti a Lucca, l´ho invitato all´inaugurazione del progetto Malibran».
Nella casa di Zurigo tutto parla di Maria Malibran (1808-1836). Cecilia colleziona qualsiasi cosa le sia appartenuto. «È stato divertente, perché mi ha permesso di conoscere la donna che in soli dieci anni di carriera ha influenzato il romanticismo, compositori come Mendelssohn, Bellini, Liszt. E anche la moda dell´epoca». Nella sua fulminante carriera, la Malibran fu la prima, insieme alla troupe Garcia (il padre, tenore andaluso, ma anche suo impresario), a portare in America la musica di Mozart. Il pubblico adorava l´artista, la donna, l´intellettuale che cantava, recitava, componeva, scriveva e suonava tre strumenti. «Era capace ogni sera di improvvisare le cabalette», spiega la Bartoli sgranando gli occhi, cercando con le lunghe dita di dar corpo al fantasma dell´antica diva. «Senza trascurare la vita privata, movimentatissima e scandalosa». A New York, Maria Garcia sposò Eugene Malibran, commerciante indebitato fino al collo di vent´anni più grande. Dopo un po´ la situazione si fece insostenibile. Di ritorno in Europa, a Parigi, s´innamorò del violinista belga Charles de Bériot (1802-1870). La sua vita di concubina divise l´opinione pubblica. Storia bellissima e tristissima, fatalmente romantica. Cinque mesi dopo il matrimonio, incinta del terzo figlio, la Malibran morì a ventotto anni per una caduta da cavallo. «Maria fu la prima diva, l´eroina romantica per eccellenza, l´artista che ruppe gli schemi, manifestando quelle emozioni che l´epoca dei castrati aveva cancellato. Con lei iniziò una nuova era. La sua personalità andò oltre la compostezza di Giuditta Pasta (1797-1865), la prima Sonnambula, e Isabella Colbran (1785-1845), la musa di Rossini».
Quella per la Malibran è diventata una tenera ossessione per la Bartoli. Le ha dedicato Maria, l´ultimo cd (l´omonimo spettacolo arriverà all´Auditorium di Roma nella seconda metà di settembre ), ha indossato i suoi gioielli di scena e per il bicentenario della nascita della sua eroina ha organizzato una mostra che ha girato per l´Europa con un tir (proprio come quella di Elvis ha attraversato l´America), ultima tappa piazza della Scala, a Milano. «L´idea della mostra itinerante è iniziata nel momento in cui ho cominciato a collezionare lettere e cimeli, già all´inizio della mia carriera, quando Christopher Raeburn, il mio primo produttore discografico, mi regalò un ritratto della Malibran. L´idea era di organizzare una mostra nei foyer dei teatri, poi ho pensato che sarebbe stato noioso, Maria era un´artista in continuo movimento, una donna emancipata, moderna, colta (parlava tre lingue), un po´ folle, morta giovanissima. Una vita che ricorda quelle di Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison e tutte le rockstar morte prima dei trent´anni. Per me è la prima pop star».
La Svizzera, dice, le ha dato tantissimo. Canta all´Opera di Zurigo da quando aveva ventuno anni. Poi per un lungo periodo è stata rapita dall´America. E in un batter d´occhio diventò la nuova diva della lirica. «Negli Usa cantavo due ore e firmavo autografi per tre. Mi volevano star, un´isteria che stava per farmi perdere il vero obiettivo per cui ero lì. Volevo fare musica, studiare, crescere. Ricordo le prime foto per le copertine dei dischi. Io ci tenevo a mostrare la vera Cecilia; indossavo il chiodo e loro mi volevano in Saint-Laurent. Insomma, non mi ci vedevo in quel cliché. Dissi: ho vent´anni e voglio farmi fotografare sulla motocicletta. Loro sgranarono gli occhi, la cosa fece scalpore. A un certo punto mi resi conto che stavo diventando una cantante... americana. Invece volevo essere europea, non avevo sposato il signor Malibran io. Anche se, beh sì, ci fu un momento in cui un certo Getty veniva a tutti i miei concerti. Ricco e bello, ma non bastava. Io non volevo vivere negli Stati Uniti, non ne volevo sapere dei loro compromessi. Ho vinto quattro Grammy, ho venduto sette milioni di dischi senza fare crossover (anche se hanno cercato in ogni modo di istigarmi a un´operazione stile Tre Tenori): di questo sono immensamente grata all´America. Fu proprio a New York che mi resi conto di avercela fatta, il giorno in cui la nonna Libia partì da Sorbole Levante, dodici chilometri da Parma, e a ottant´anni arrivò a Manhattan per venire al Metropolitan a vedere la nipotina adorata. La vidi così orgogliosa e felice al dopo-concerto organizzato da Alberto Vilar - allora era lo sponsor numero uno del Met, poi fu arrestato per frode - in una penthouse sontuosa, tra fiumi di champagne e caviale... lei che aveva fatto la contadina tutta la vita. Ma poi, in Italia, la trovai cambiata, quasi in soggezione. Come se, dopo il caviale, le lasagne fossero diventate un piatto plebeo. Le dissi: nonna l´America è una cosa, ma i tuoi fagioli bianchi dell´orto con sedano e carota valgono più di tutto. E per me è davvero così. Nonostante i grandi spettacoli, le emozioni, i trionfi, sono sempre rimasta attaccata alla mia terra». Guarda fuori, una pioggerellina insistente picchia contro la vetrata, la neve sulle montagne non ne vuol sapere di sciogliersi. Aggiunge: «Anche se non so più qual è la mia terra».
«L´Italia non è il paese migliore del mondo per la musica, eppure abbiamo i più bei teatri e un pubblico fantastico», sospira. «La maggior parte del mio repertorio è italiano. Eppure io canto soprattutto all´estero. Sembra che l´Italia abbia perso la voglia di reagire. È scoraggiata. Che tristezza. All´inizio, vivere lontana da casa la maggior parte dell´anno mi costava fatica. Adesso ci sono abituata. Che altro potevo fare? Sono andata dove c´era lavoro. Questo vale per me e per molti altri italiani. La mancanza di ingaggi ha portato all´esasperazione gli artisti e causato la ben nota fuga di talenti. E ancora c´è chi insiste che questa è musica d´élite, così i giovani, che in Germania riempiono i teatri, in Italia si tengono alla larga dalla lirica. A chi è rimasta un po´ di curiosità e ha voglia di scoprire queste meraviglie direi: alzati, spegni la tv, staccati dal frigorifero, rimettiti le scarpe, esci, vai a teatro e decidi da solo quello che ti piace e che non ti piace. I giovani devono rendersi conto che la musica di Vivaldi, Mozart o Rossini era il pop dell´epoca. Il flauto magico fu scritto per il popolo, non certo per l´élite. L´opera è la storia dell´uomo. Come sono attuali le donne mozartiane! In Così fan tutte le ho cantate tutte e tre, la serva Despina e le due sorelle ferraresi, Dorabella e Fiordiligi. Creature fragili eppure esuberanti, piene di conflitti ma anche dotate di uno spiccato senso dell´umorismo. Il mio sogno segreto? Fare il Don Giovanni nei panni del protagonista. Ma non avventuriamoci nell´impossibile. Impossibile?», conclude con un sorriso malizioso. Vuol dire: «Prima o poi lo farò».

Corriere della Sera 20.4.08
L'anniversario Melograni: la ricorrenza resti fuori dalla sfida. Tranfaglia: no, a Roma è decisivo ricordare
E il 25 Aprile irrompe nel ballottaggio
di Paolo Conti


ROMA — «Un vaffa al 25 Aprile», titolava ieri il Riformista. Aggiungendo: «La sinistra tramortita regala a Grillo la piazza della Resistenza». Sotto il titolo, un dettagliato (e allarmato) racconto sui «non sappiamo cosa faremo» raccolti in area Pd-la Sinistra l'Arcobaleno. Reagisce Furio Colombo: «L'appello del Riformista mi sembra giustissimo. Non proibirei mai a Beppe Grillo di convocare manifestazioni il 25 Aprile, tutti i giorni sono liberi per tutti i cittadini di questa Repubblica. Ma dico appassionatamente che il 25 Aprile, per chi si riconosce nei valori della Liberazione e dell'antifascismo, ricorda la notte in cui gli italiani non liberi diventarono liberi. Una bella differenza, mi pare, che va adeguatamente festeggiata da tutti gli italiani». E il richiamo alla sinistra disorientata? «Importante e legittimo ».
Intanto c'è chi si chiede, intorno al 25 Aprile 2008: verrà «usato» in funzione del ballottaggio romano Rutelli-Alemanno? Dal centrodestra reagisce Piero Melograni che però cita il comunista Giorgio Amendola: «L'editore Laterza sta per ripubblicare la mia Intervista sull'antifascismo, roba di 33 anni fa. Lì Amendola chiedeva di sfatare certi miti della Resistenza e raccontava come nel 1975 avrebbe voluto protestare contro quella retorica...». Il centrodestra potrebbe contestare la ricorrenza, così come la sinistra potrebbe enfatizzarla in vista del duello per il Campidoglio. «Meglio lasciar perdere, da una parte come dall'altra. Alemanno ha anche rinunciato ad apparentarsi con Storace. Certe contrapposizioni sarebbero inutili».
Concorda, ancora da destra, lo storico Giano Accame: «Mi pare superfluo mettersi lì a strumentalizzare, per il ballottaggio romano, questa materia inerte ». In che senso il 25 Aprile «materia inerte», Accame? «La gente non si fa più trascinare da certe vecchie emozioni. Né pro e assolutamente né contro. Forse qualche ragazzotto dei centri sociali... ma a destra mi sembra sia diffusa una convinzione che sostengo da anni, cioè che la storia nazionale è una sintesi degli opposti di cui tutti devono tenere conto. E poi le cose cambiano». Per esempio? «Prendiamo la nostra bandiera. Per decenni "loro" non hanno amato il concetto di Patria. Ora il logo Pd è tutto un tricolore. Noi della destra ne siamo felici. L'amor di Patria non è geloso, è un sentimento che si deve condividere... ».
Di parere opposto lo storico Nicola Tranfaglia: «A maggior ragione per questo ballottaggio Rutelli-Alemanno bisogna ricordare a tutti come la Resistenza sia alla base della fondazione della Repubblica italiana, come disse anche Alcide De Gasperi. Va celebrata come il valore consacrato nella Costituzione repubblicana e come il frutto della battaglia contro i tedeschi nazisti e i fascisti della Repubblica di Salò». Ma perché premere così sul pedale della piazza e delle manifestazioni? «Perché comincia ad essere difficile persino celebrare il 25 Aprile. Io avevo accettato di essere l'oratore per la ricorrenza nella manifestazione di Verona. Ma il sindaco leghista Flavio Tosi, nella sua giunta c'è anche An, ha negato la piazza sostenendo che la Resistenza "è roba da archeologia". Il centrodestra non vuole che i giovani conoscano il peso di quella pagina storica».
Infine, ancora da sinistra Lucio Villari. Che va controtendenza: «Mai pensato al 25 Aprile come a un territorio privilegiato della sinistra. La Resistenza fu combattuta anche da liberali, monarchici e soprattutto dai cattolici. Ancor più che dai comunisti. E se il Pci nel dopoguerra si è annesso quel capitolo storico, ha commesso un falso». Usare la festa per il ballottaggio romano? «C'entrerebbe come i cavoli a merenda. Con tutto il rispetto per Rutelli e Alemanno, non capisco come un momento così tragico della nostra storia possa essere "usato" per una vicenda locale, romana. Suvvia».

Corriere della Sera 20.4.08
L'Osservatorio di Renato Mannheimer
L'8% dei voti lumbard è «rubato» alla sinistra


La Lega è il partito che in queste elezioni ha visto il maggiore incremento di voti in assoluto: 1.300.000. La seconda forza nella graduatoria dell'accrescimento di consensi è, non a caso, l'Idv, con circa 700.000 voti in più: rappresenta la componente «radicale» del centrosinistra, così come la Lega lo è nel centrodestra. Ma il partito di Bossi non ha vinto solo perché ha saputo attrarre nuovi voti. Esso registra il valore massimo nel tasso di fedeltà, vale a dire nel mantenimento degli elettori già acquisiti nel 2006: quasi tutti (95%) hanno riconfermato la loro opzione. Infine, gli elettori della Lega sono stati i più «decisi»: è qui che si trova la più alta percentuale di chi dichiara di avere formato la propria scelta da molto tempo, indipendentemente o quasi dalla campagna elettorale. Proprio lo straordinario afflusso di voti «nuovi» e, al tempo stesso, l'elevata capacità di mantenere quelli vecchi, consigliano di evitare un'unica interpretazione delle motivazioni di voto. La Lega è un fenomeno composito, dalle tante sfaccettature, e nelle origini del suo voto coesistono molteplici fattori. Che vanno dalla difesa degli interessi economici territoriali, al timore per le novità originate dalla globalizzazione e dal conseguente arrivo di «diversi», sino a ragioni più direttamente legate alla collocazione politica del partito. Ciò suggerisce di distinguere diversi «tipi» di voti leghisti a seconda del prevalere dell'una o dell'altra motivazione. Un primo segmento è costituito da votanti «storici», consolidati nel tempo, spinti soprattutto dall'identificazione col territorio e dalla percezione di questo come prevalente su altre identità. Si tratta dell'elettorato che potremmo definire «padano», assai radicato nelle zone tradizionali della Lega e mosso per lo più dalla difesa degli interessi territoriali economici, specie quelli connessi alla fiscalità. Esso costituisce la maggioranza relativa — grossomodo il 40% — degli attuali votanti per la Lega. Per un'altra parte di elettori tradizionali della Lega (cui si è aggiunta in queste consultazioni una quota di votanti che nel 2006 si era astenuta), la scelta è più determinata dall'insicurezza sociale, assieme alla paura suscitata del processo di globalizzazione e, soprattutto, dalla conseguente ostilità verso il «diverso», in particolare, verso gli immigrati.
È la componente che potremmo definire «xenofoba»: corrisponde al 20% circa dell'attuale elettorato leghista.
Entrambi questi settori sono sostanzialmente slegati dal continuum sinistra-destra, in quanto non si identificano con nessun segmento di quest'ultimo o, semmai, si definiscono «di centro». Viceversa una terza, importante, componente, si autocolloca esplicitamente nel centrodestra. Sono gli elettori transfughi da Forza Italia e, in misura minore, dall'Udc, che, in questa occasione, le hanno abbandonate per dare una maggiore radicalità alla propria scelta, pur mantenendo il proprio posizionamento politico. La motivazione è stata prevalentemente economica, legata alla percezione di lentezza e di inefficienza dello Stato centrale e anche sollecitata, da ultimo, dal «caso Malpensa». Sono stimabili più o meno nel 30% dell'attuale elettorato leghista. C'è, infine, un ulteriore segmento di «nuovi» elettori leghisti, assai meno numeroso, ma molto significativo. Si tratta dei votanti provenienti dalla sinistra, in particolare da quella estrema.
Che l'hanno lasciata per dare il voto ad una forza ritenuta più efficace nel difendere i loro interessi. Si tratta dell'8% circa dell'elettorato leghista. Solo un'analisi che tenga conto di questi diversi gruppi coesistenti può dar conto appieno del successo del Carroccio in queste elezioni. Non esiste, insomma, una lettura univoca del fenomeno leghista.

Corriere della Sera 20.4.08
Contro il boicottaggio dei giochi
La Cina non è solo tirannia
di Max Hastings


I cinesi mi piacciono. Forse dovrei accompagnare quest'affermazione con la precisazione che non ho mai incontrato i governanti della Cina o la polizia segreta. Quel che sta succedendo in Tibet è disgustoso. In Cina vi è una tirannia in cui non esistono diritti e libertà personali. Ma essendo stato recentemente in quel Paese in varie occasioni (l'ultima volta a gennaio), mi sento ben disposto verso la popolazione cinese e per questo sono restio a unirmi al coro di chi vorrebbe che le Olimpiadi della prossima estate si rivelassero un fiasco. La Cina ha sofferto tanto e così a lungo — a causa di disastri naturali, barbari venuti da Occidente, giapponesi, Mao Zedong — che sembra meritare un po' di fortuna.
Nel mio ultimo viaggio, ho incontrato parecchi professori universitari ferocemente critici verso il governo di Pechino. Eppure nessuno di loro auspicava un boicottaggio delle Olimpiadi da parte degli occidentali.
Molti pensavano, piuttosto, che i giochi potessero essere l'occasione per ottenere qualche piccolo beneficio.
La Cina continua a essere una tirannia, ma dagli anni Settanta in poi è diventata assai meno brutale. Li Datong, un giornalista che lo scorso anno è stato allontanato dalla direzione di una rivista per aver superato il tenue livello di critica politica tollerato dal governo, diceva: «Abbiamo fatto dei progressi. Ad esempio, per lei è stato possibile incontrarmi, mentre ai tempi di Mao non lo sarebbe stato. La nostra è ancora una dittatura, ma molto meno violenta e crudele».
Le misure repressive sono andate attenuandosi. Anche se il regime di Pechino si dice indifferente all'opinione del resto del mondo, è sempre più sensibile a essa. Moltissimi cinesi studiano all'estero. Tornano a casa dopo aver visto da vicino i comportamenti adottati altrove, con l'acuto desiderio di poter avere anch'essi la stessa libertà.
Questo avrà necessariamente un peso nel determinare il futuro della Cina.
Mao Yushi, un esperto economista che ha insegnato ad Harvard, a gennaio mi ha detto, con una certa preveggenza: «Questo potrebbe essere un anno problematico per la Cina. Il partito comunista è talmente concentrato sui suoi interessi particolari da cercare di ignorare la miriade di contraddizioni che sono andate accumulandosi nel Paese».
Pensa, comunque, che le Olimpiadi siano una tappa storica. Ed è contento del progresso che, seppure a passo di lumaca, si sta compiendo nel riesaminare il passato della Cina. È ancora proibito ammettere gli orrori della grande carestia degli anni Cinquanta, o della rivoluzione culturale del decennio successivo. Ma secondo Mao Yushi «il tempo in cui riusciremo a parlare di Mao Zedong e degli enormi danni che ha arrecato alla Cina e al suo popolo è vicino». Crede che le critiche internazionali per l'assenza di diritti umani in Cina vadano incoraggiate ma, «quando qualcosa migliora — afferma — le accuse dovrebbero essere mitigate da un giusto riconoscimento». Nutre la speranza che l'esempio di Hong Kong, dove più o meno vige uno stato di diritto, si affermi anche altrove nel Paese. Il relativo ottimismo di Mao Yushi sul futuro deriva dal fatto che ne ha viste tante e ha attraversato gli anni più cruenti della Cina. «Il regime di Mao traeva forza dalla sofferenza — dice —.

Corriere della Sera 20.4.08
Personaggi Bill Bryson ricostruisce le (poche) certezze e demolisce le (molte) leggende: il viaggio in Italia, la fede cattolica, la mano di Marlowe
I misteri di Shakespeare
Thriller, biografie, saggi: così il Bardo è tornato a far parlare di sé
di Ranieri Polese


Un thriller (W di Jennifer Lee Carrell), la biografia ipotetica di Anne Hathaway ( Shakespeare's Wife di Germaine Greer), la ricostruzione romanzesca di un episodio minore della vita del drammaturgo ( The Lodger di Charles Nicholl): sono i casi più recenti di quell'industria di congetture legata al nome e ai misteri del Bardo di Stratford upon Avon. Il primo indaga su un'opera teatrale perduta, il Cardenio, ispirato al Chisciotte di Cervantes; il secondo immagina tutto quello che non sappiamo della donna che sposò Shakespeare nel 1582, gli dette tre figli, restò vedova nel 1616 (ottenendo nel testamento solo «the second best bed», nemmeno il letto matrimoniale!) e morì nel 1623; il terzo estrapola i possibili retroscena del fatto che Shakespeare, nel 1604, vivesse in affitto in una casa della City, proprietà di Christopher Mountjoy, un ugonotto francese stimato fabbricante di cappelli per signora. La sua presenza in quella casa è attestata dagli atti di un processo del 1612, quando il drammaturgo fu chiamato a testimoniare nella causa intentata dal genero di Mountjoy contro il suocero che non gli aveva corrisposto la dote promessa.
Con una vita densa di opere (38 drammi, 154 sonetti, due lunghi poemi e due altri componimenti in versi) e poverissima di fatti documentati, Shakespeare (1564-1616) non ha mai cessato di ispirare ogni genere di supposizioni. Su di lui, peraltro, ogni anno escono mediamente quattromila studi: è un soggetto inesauribile per ogni genere di indagine. Anche quelle più bizzarre, come «Mal d'orecchi e omicidio nell'Amleto» o «Shakespeare e la nazione del Quebec». Ma cosa possiamo dire di sapere veramente su di lui? A questa esigenza di semplificazione e di ripulitura risponde il lavoro di Bill Bryson, lo scrittore americano autore di brillanti libri di viaggio (Notizie da un'isoletta, America perduta)
e di una divertente miscellanea su tutto quello che non sappiamo della scienza ( Breve storia di — quasi — tutto). Pubblicato nella collana di Atlas Books (HarperCollins) dedicata alle biografie, Shakespeare: The World as a Stage, esce a fine mese in traduzione italiana da Guanda, con il titolo Il mondo è un teatro. La vita e l'opera di William Shakespeare (traduzione Stefano Bortolussi, pp. 246, e 15).
Troppe congetture
Secondo un esperto citato da Bryson «ogni biografia di Shakespeare è formata al 5 per cento di fatti e al 95 per cento di congetture». In caccia di fatti, molti studiosi, pertanto, si dedicano alle ricerche di archivio, nella speranza di trovare il nome del poeta in qualche carta. Lo spoglio sistematico dei documenti d'archivio era cominciato ufficialmente agli inizi del '900, quando una coppia di americani (Charles e Hulda Wallace) passò lunghi periodi in Inghilterra esaminando milioni di documenti dell'epoca. A loro si deve la scoperta della testimonianza resa da Shakespeare nel processo contro Mountjoy (1612, con firma dello stesso poeta). Deluso per i mancati riconoscimenti, Charles Wallace se ne tornò in America, dove fece fortuna come proprietario di pozzi di petrolio. Da allora la ricerca prosegue; potrebbe ancora dare dei frutti anche se, nota Bryson, da queste indagini escono solo atti legali e certificati di proprietà. Sulla personalità del poeta, i suoi affetti, i suoi interessi culturali gli archivi tacciono.
Le critiche e il sarcasmo di Bryson, però, si appuntano soprattutto sui fabbricanti di congetture, che nei loro lavori passano con grande disinvoltura dalle ipotesi alla certezza assoluta. Per esempio, nel caso dei cosiddetti Lost Years, gli anni perduti (1585-1592), il periodo in cui Shakespeare lascia moglie e tre figli a Stratford per trasferirsi a Londra e cominciare a lavorare in teatro e di cui non sappiamo niente. Partendo dal fatto che Shakespeare produce diversi drammi di ambiente italiano, molti studiosi hanno sostenuto che in quegli anni il giovane William visitò l'Italia. Illazione non proprio lecita, dice Bryson, oltretutto perché i drammi italiani di Shakespeare offrono solo informazioni confuse, inverosimili (per esempio, nella Tempesta e nei Due gentiluomini di Verona, per raggiungere rispettivamente Milano e Verona si va per mare) che tutto provano fuori che una conoscenza diretta del Paese. Più complessa l'altra ipotesi secondo la quale Shakespeare in quegli anni avrebbe prestato servizio come tutore presso una famiglia di nobili cattolici del Nord dell'Inghilterra. Quella di uno Shakespeare segretamente cattolico è una teoria che ha affascinato molti, ma le prove addotte sono poco consistenti. Si dice, per esempio, che fra gli insegnanti della Grammar School presumibilmente frequentata dal giovane William (ma i registri sono perduti) c'era il fratello di un missionario cattolico scoperto e messo a morte nel 1582. Poi si aggiunge la notizia del ritrovamento verso la fine del '700, durante dei lavori nella casa di Shakespeare, del «testamento spirituale» del padre di William, John, che si dichiarava cattolico. Peccato, scrive Bryson, che quel testamento fu perduto poco dopo, e che quindi non si possa valutare la sua autenticità. Peggio di tutti, comunque, sempre secondo Bryson, si comportano quegli studiosi che passano dall'esame dei testi (frequenza di certe parole, uso di determinate espressioni, ecc.) per arrivare a conclusioni assolutamente ingiustificabili. Fra gli altri, quelli che da due sonetti (37 e 89) deducono che Shakespeare zoppicava; o quelli che si immaginano uno Shakespeare marinaio (addirittura insieme a Sir Francis Drake) vista la frequenza di termini marini.
William chi?
La controversia sulla vera identità di Shakespeare (una sorta di Questione omerica per il più grande poeta dell'età moderna) nasce relativamente tardi. Nel 1857, quando un'americana, Delia Bacon, pubblica The Philosophy of the Plays of Shakespeare Unfolded (La filosofia delle opere di S. rivelata). Lì si sostiene che a scrivere i drammi del Bardo fu il filosofo Francis Bacon. La Bacon basava la sua argomentazione sul fatto che le opere di Shakespeare mostrano conoscenze fuori dal comune per un provinciale venuto a Londra per fare l'attore; ma aggiungeva di essere arrivata alla verità grazie alle sue particolari doti intuitive. (Tornata in America nel 1859, la poverina finì i suoi giorni in un manicomio). Il partito dei «baconiani» riscosse subito grande successo, fra l'altro ottenne l'adesione di Henry James e Mark Twain.
Comune a tutti i cosiddetti «antistratfordiani», quelli cioè che non riconoscono la paternità dei drammi all'uomo di Stratford, c'è il pregiudizio di uno Shakespeare troppo rozzo e senza cultura per poter scrivere le opere che vanno sotto il suo nome. Così, nel 1918 si volle «dimostrare» che l'autore vero di drammi, poemi e sonetti era Edward de Vere, conte di Oxford, colto e raffinato uomo di mondo, protettore di una compagnia teatrale e ammirato dalla regina Elisabetta. Peccato — nota Bryson — che Oxford muore nel 1604, quando ancora dovevano nascere molti capolavori shakespeariani. Un altro candidato, inevitabile, è Christopher Marlowe: molti sostengono che non morì nella rissa alla taverna di Deptford nel 1593, ma sotto copertura continuò a scrivere. Anche una donna appare nella lista dei pretendenti, Mary Sidney, sorella del poeta Philip Sidney. Infine — ed è la tesi ripresa dal thriller W di Jennifer Lee Carrell — c'è anche l'idea che dietro il nome di Shakespeare si celassero molti personaggi, fra cui lo stesso Philip Sidney e Walter Raleigh. Ma che valore hanno tutte queste supposizioni? Per Bryson nessuno, sono solo fantasie romanzesche più vicine alle teorie dei complotti che non a seri studi. Ai cultori di questa mania moderna (curiosamente, per circa 200 anni, nessuno mise mai in dubbio l'identità del poeta), ossessionati dal fatto che di un genio così grande si conosca così poco, Bryson ricorda che dei poeti e drammaturghi contemporanei di Shakespeare si conosce molto meno. E ci sono rimaste molte meno opere.

Corriere della Sera 20.4.08
Il Führer secondo lo scrittore americano
HitlerI un diavolo. L'errore di Mailer
di Giuseppe Galasso


Al termine della guerra nel 1945 si chiese subito un esame del cervello di Mussolini, di Hitler e non so se di altri, in quanto genii del male (perché non si chiedesse lo stesso per i cervelli dei «buoni» non si è mai capito). Si annunciavano così le due tendenze degli studi storici su Hitler. Da un lato, quelli per i quali la sua personalità e azione era il frutto di una patologia genetica, di una follia criminosa, esaltata all'inverosimile dai successi e convertita in una furia autodistruttiva quando si risolse in una delle più complete e rovinose disfatte della storia. Dall'altro lato, quelli per i quali agiva in lui il fondo demoniaco del potere, l'attrazione fatale di un miraggio di onnipotenza, l'antico peccato della übris che va anche oltre i più invalicabili limiti dell'umano.
Il problema è stato riproposto per Hitler, dal libro dedicatogli da Norman Mailer, sul quale J. M. Coetzee, Nobel per la letteratura nel 2003, scrisse un anno fa sulla New York Review of Books, un articolo di cui ora Alberto Garlini ha tradotto una gran parte, in vista dell'uscita del romanzo di Mailer, The Castle in the Forest anche in Italia. Coetzee a ragione boccia l'idea di Mailer che dietro Hitler ci sia stato il diavolo: Hitler controfigura di Satana, in un'inaudita eruzione del male nella storia. Troppo semplice, per Coetzee. Del resto, già, ad esempio, per Heidegger, pur tanto discutibile e discusso per i suoi trascorsi nazisti, se a Hitler si dava un tale ruolo satanico, gli si risparmiava la vera qualifica sua di criminale, agente del male in proprio e per proprio conto. E Heidegger respingeva pure la tesi di Hannah Arendt, che poneva Hitler sotto la rubrica della «banalità del male», ossia del niente che ci vuole a pensare il male e a farlo, senza alcun possibile senso. Heidegger replicava che, se il male è un'evenienza così banale (banale la Shoah?), esso è anche fuori della vita morale, che richiede sempre di scegliere fra alternative di opposto, ma forte senso.
A sua volta, Coetzee conclude, senza uscire dal binomio Mailer-Arendt, e quindi con qualche contraddizione, che «mantenere il paradosso infernale/ banale in tutta la sua angosciosa imperscrutabilità è forse il risultato ultimo» del romanzo di Mailer, giudicato un «molto notevole contributo alla fiction storica». E non ci sarebbe nulla di male, perché la letteratura è la letteratura e ha un diritto sovrano all'invenzione. Ciò che non c'entra per nulla e non può starsi a questo diritto sovrano è, però, la storia. Che anch'essa assume spesso le nozioni di male o di crimine come chiavi per capire Hitler, ma dovrebbe ormai far tesoro della loro incongruenza e inconcludenza storiografica. Né è poi diverso l'assegnare Hitler a un anch'esso imperscrutabile disegno divino nella storia o a quel-l'altra teologia che nella storia vede solo l'azione di qualche grande e latente motore (l'economia, lo Spirito o l'Idea, o il Verbo o altro).
Hitler, invece, è stato nella storia e vi ha agito come sempre fanno gli uomini, ossia al crocevia molteplice e tumultuoso di innumerevoli condizionamenti, forze e fattori, massimi e minimi, di una miriade di volontà variamente influenti sul corso degli eventi. Il crocevia in cui agì Hitler era eminente e ricco di problemi. Prima di giungere alla sanguinosa e sanguinaria avventura della guerra nel 1939 e all'abisso di orrore della Shoah, Hitler vi attuò un governo tirannico e violento, che però in pochi anni diede alla Germania il senso profondo di un risanamento e di una trasformazione, di cui solo la guerra avrebbe mostrato le fragili basi, e ciò in un concorso di circostanze e di spinte non riducibili tutte a Hitler e alla tirannide nazista, e per cui non si può giudicare del 1935 o del 1938 solo alla luce del 1945 o isolando la Germania dal contesto del tempo. Ma per dipanare questa matassa non vale il ricorso ai dèmoni o a Satana, al divino, alla filosofia della storia o ad altro di simile. Abbiamo solo il modesto lume della nostra ragione per penetrare e illustrare la storia nei suoi anfratti e percorsi e il suo senso, che non preesiste al suo svolgersi, ma emerge via via nel suo farsi, ed emerge via via anche quando studiamo la storia per scriverla dopo che è stata vissuta.

Repubblica 20.4.08
Rita Levi Montalcini
"A 99 anni si pensa meglio"
"Non sono stanca, continuo a cercare"
di Dario Cresto-Dina


Tra due giorni Rita Levi Montalcini compirà novantanove anni. È un numero che inquieterebbe chiunque. Non lei. «Mi sento per la seconda volta un po´ Robinson Crusoe. La prima fu negli anni del fascismo. Allora ero più sola, più giovane e meno forte di adesso, eppure il male produsse un bene». Ogni sera va a letto alle undici. Ogni mattina si alza alle cinque. «Il mio cervello funziona meglio di quando avevo vent´anni».

Bisogna dimenticarsi di vivere. È questo, dice, il segreto per avvicinarsi a qualcosa che può assomigliare all´illusione dell´immortalità. Tra due giorni la signora che mi guarda con occhi azzurri, limpidi e curiosi compirà novantanove anni. È un numero che inquieterebbe chiunque. Non lei. È un´età alla quale si giunge quasi sempre da solitari, è come sbarcare dopo un lungo viaggio su un´isola deserta e sapere che tutto ciò che conoscevamo ce lo siamo lasciato alle spalle, ma nulla, proprio nulla, possiamo immaginare del nuovo approdo, neppure la sua estensione geografica, se sarà un posto di valli e montagne da attraversare prima del prossimo mare o appena una lingua di sabbia. «Mi sento per la seconda volta un po´ Robinson Crusoe. La prima fu negli anni del fascismo. Allora ero più sola, più giovane e meno forte di adesso, eppure il male produsse un bene».
Seduta in un angolo del divano della sua casa romana con la leggerezza di un ramo antico, Rita Levi Montalcini sembra una vecchia appena nata. È elegante nel vestito blu che le scende fino alle caviglie, chiuso sul collo lungo e sottile. Il blu elettrico dell´abito esalta la sua testa bianca, al polso destro porta un bracciale che ha disegnato lei stessa e sul quale spicca, incastonato come un minuscolo cammeo, il giglio di Firenze. È un gioiello che aveva regalato alla sorella Paola, la gemella tanto amata morta otto anni fa. «Quella vagabonda della mia gemellina - la chiamava con affetto nelle lettere alla madre - che è riuscita ad addentrarsi in un mondo chimerico libero da imposizioni di leggi».
Paola era un´artista, allieva e amica di Felice Casorati. «Il suo cuore continua a battere dentro di me». Le pareti di questa bella e semplice casa sono attraversate dai suoi quadri. C´è un ritratto di Rita dipinto nel ‘45. C´è, sul pavimento del terrazzo, un grande mosaico che riproduce le traiettorie delle particelle atomiche nella camera a bolle. C´è la malinconia nello sguardo della professoressa ogni volta che parla di lei. Nostalgia, non il dolore del lutto. Non più. «Abbiamo avuto una bella vita. Non credo all´eternità. Si spegne tutto». Ricorda a memoria una poesia scritta per il nipote schizofrenico morto suicida a ventiquattro anni: «Che rimane di noi quando il fiato non appanna più il vetro...».
A novantanove anni Rita Levi Montalcini ogni sera va a letto alle undici. Ogni mattina si alza alle cinque. «Non mi interessano né il cibo né il sonno». Mangia una volta al giorno, a pranzo. La sera si concede al massimo un brodo e un´arancia. «Sto bene. Malgrado la diminuzione della vista e dell´udito. Mai avuto una malattia». Ha un apparecchio acustico nelle orecchie, legge grazie a un video ingranditore. «Mi aiutano i miei collaboratori». Due in particolare, Pietro Calissano che è con lei da quarant´anni e Piero Ientile. «Il mio cervello funziona meglio di quando avevo vent´anni. Ho deciso di utilizzarlo di più proprio nell´ultima tappa del mio percorso. Penso di continuo, mi aiuta la passione per il mio lavoro».

«Continuo la ricerca sull´Nfg, la sigla della proteina che stimola la crescita delle cellule nervose, uno studio sulle malattie neurovegetative che ho cominciato più di mezzo secolo fa. Mi occupo della fondazione creata assieme a Paola in memoria di mio padre per il conferimento di borse di studio a studentesse africane a livello universitario, con l´obiettivo di creare una classe di giovani donne che svolgano un ruolo di leadership nella vita scientifica e sociale dei loro paesi. Sto scrivendo due nuovi saggi scientifici. Non mi sento mai stanca».
Ogni giorno va in laboratorio, nella sua équipe ci sono altre sette donne. Si china sul microscopio, esamina gli embrioni di pollo come faceva cinquant´anni fa in America. Dice: «La mia intelligenza è mediocre, e il mio impegno è poco più che mediocre. Credo di avere due sole qualità: l´intuito e la capacità di vedere un problema nella sua globalità. Quand´ero giovane pensavo che la mia missione sarebbe stata quella di aiutare gli altri, volevo andare a curare i lebbrosi in Africa. Volevo disinteressarmi totalmente della mia persona, non volevo riconoscimenti». Non è andata così. Anche il destino accarezza i propri desideri a nostra insaputa. Nel 1986 ha vinto il Nobel per la medicina. «Abitavo già a Roma. Ricordo che era quasi notte quando mi telefonarono per darmi la notizia. Stavo leggendo un giallo di Agatha Christie. Lo rammento perché è raro che io legga romanzi, prediligo i saggi di filosofia. Ho fatto eccezione per Tolstoj, Michael Crichton e Agatha Christie, appunto. La cerimonia della consegna del Nobel a Stoccolma non fu particolarmente eccitante, piuttosto una specie di grande festival».
Il primo agosto del 2001 la chiamò l´allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. «Mi disse: "Sono Ciampi e l´abbraccio. La nomino senatrice a vita per meriti scientifici e sociali". Riuscii a rispondere solamente grazie. Ero emozionatissima». Oggi il giudizio sulla politica è riassunto in un gesto di scoramento. La mano passata sugli occhi. «Sono assolutamente ignorante in fatto di politica, la mia appartenenza ad essa è di puro dovere civile e morale. Certo, sono sempre stata una donna di sinistra. In Parlamento ho trovato persone di grande intelligenza in entrambi gli schieramenti e amici come Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa e Anna Finocchiaro. La netta vittoria della destra nelle ultime elezioni mi ha sorpreso, ma sarebbe troppo facile sostenere che dopo vent´anni di fascismo e cinque di Berlusconi gli italiani hanno dimostrato ancora una volta di non avere capacità di scelta e di discrimine. Ci sono sentimenti e bisogni che vanno analizzati a fondo e io non possiedo gli strumenti per farlo. Mi ritiro, con modestia e rispetto».
Severa è anche la pagella al paese. «L´Italia dà l´impressione di essere vecchia, come se fosse prigioniera di una campana di vetro che le impedisce di camminare. In diciotto mesi il governo di centrosinistra ha lavorato bene, ma poteva fare molto di più. Potrei dire che gli è mancato il karma. Nella nostra classe politica, almeno per quanto riguarda la ricerca medica e scientifica, non c´è la consapevolezza che la conoscenza significa ricchezza. È un peccato, perché abbiamo un capitale umano eccellente e un grado di innovazione tecnologica che nulla deve invidiare al resto del mondo. Dalle nostre università escono ragazzi molto preparati che non trovano però un terreno fertile sul quale esercitarsi, così la gran parte di loro, se può, fugge all´estero. Li regaliamo agli altri, per vederli ritornare magari dopo dieci o vent´anni, un po´ più vecchi, un po´ più stanchi. L´Italia non è mai stata capace di investire sulle capacità intellettuali della sua gente. Manca la voglia di riconoscere il merito».
L´alloggio è al quarto piano di una casa costruita negli anni Sessanta su viale di Villa Massimo, alle spalle di Villa Torlonia. Sull´ascensore una bimba di quattro o cinque anni si stringe alle gambe della mamma e, mentre schiaccio il pulsante sulla bottoniera, mi chiede seria se sto andando a trovare la professoressa con i capelli bianchi. Rita Levi Montalcini non ha figli. Mi spiega perché cominciando da Dio. «Invidio chi ha la fede. Io non credo in dio. Non posso credere in un dio che ci premia e ci punisce, in un dio che ci vuole tenere nelle sue mani. Ognuno di noi può diventare un santo o un bandito, ma ciò dipende dai nostri primi tre anni di vita, non da dio. È una legge di una scienza che si chiama epigenetica, in altre parole si può definire il risultato del dialogo che si instaura tra i nostri geni e l´ambiente familiare e sociale nel quale cresciamo. Prenda una bicicletta o un insetto, oggi sono pressoché uguali a com´erano duecento anni or sono. Noi no. L´uomo è darwiniano al cento per cento. Ebbene, io a tre anni, a tre anni, glielo giuro, ho deciso che non mi sarei mai sposata e che non avrei avuto bambini. Sono rimasta condizionata dal rapporto vittoriano che subordinava mia madre a mio padre. A quei tempi nascere donna significa avere impresso sulla pelle un marchio di inferiorità. Eppoi ho visto troppe vite matrimoniali mai fortunate. Ne vedo tante anche ai nostri giorni. Vite tristi e vuote. Le racconto un episodio di quand´ero negli Stati Uniti. A un ricevimento mi si avvicina una signora e mi fa: "Anche suo marito è membro della National Academy?". Le rispondo "I am my own husband", sono io stessa mio marito. Lei si allontana frettolosamente e un po´ interdetta, pensando probabilmente che non so esprimermi in inglese. Ho rinunciato a costruire una famiglia, non all´amore. Questo no. Ho avuto degli affetti, mi sono innamorata, sono stata felice. Ma forse il mio unico figlio è stato l´Nfg. Ho avuto e ho amici importantissimi, gli amici di una vita: Renato Dulbecco, Giuseppe Attardi, il mio maestro Viktor Hamburgher alla Washington University di St. Louis, Norberto Bobbio, la poetessa Maria Luisa Spaziani. Tutto è stato enorme attorno a me».
Dal passato non si levano fantasmi. «Senza Mussolini e Hitler oggi sarei soltanto una vecchia signora a un passo dal centenario. Grazie a quei due, invece, sono arrivata a Stoccolma. Non mi sono mai sentita una perseguitata. Ho vissuto il mio essere ebrea in modo laico, senza orgoglio e senza umiltà. Non vado in sinagoga né in chiesa. Non porto come una medaglia il dato storico di appartenere a un genere umano che ha sofferto molto, né ho mai cercato di trarre vantaggi o risarcimenti morali. Essere ebrei può non essere piacevole, non è comodo, ma ha creato in noi un impulso intellettuale supplementare. Come si può affermare che Albert Einstein era di razza inferiore? Dovremmo abolire anche nella nostra testa il concetto di razza. Esistono i razzisti, non le razze. E a me interessano soltanto le persone. Durante la guerra, a Torino ho trasformato in laboratorio la mia camera da letto, un piccolo locale di due metri per tre in corso Re Umberto. Quella stanza diventò un centro di ricerca frequentato anche da alcuni miei compagni di scuola che professavano il fascismo e forse la domenica indossavano la camicia nera. Qualcuno cantava quelle stupide canzoncine. "Se ci manca un po´ di terra prenderemo l´Inghilterra, se ci mancherà il sapone prenderemo anche il Giappone...". Tutti assieme si rideva. Con l´avvento delle leggi razziali di Mussolini la mia famiglia fu costretta a trasferirsi a Firenze. Scegliemmo un altro cognome, lo decisi io, Lupani, il primo che mi venne in mente. Ci ospitava una famiglia che vagamente sapeva di noi. Mi specializzai nella stampa di documenti falsi per gli ebrei, avevo rapporti con il Partito d´azione. Un giorno mi venne a trovare il professor Giuseppe Levi e per non farci scoprire disse semplicemente alla padrona di casa: "Mi chiami la Rita". Vede, sono stata anche allora come Crusoe. Sola. Devo alla solitudine anche il Nobel. Sono giunta alla scoperta sull´Nfg perché ero l´unica a lavorare in quello specifico campo della neurologia. Ero sola in una giungla e non conoscevo nulla o quasi. Sapere troppo, spesso, ostacola i nostri progressi».
Le domando se ancora sogna. Mi dice di sì. Spera che quando lei non ci sarà più altri continueranno i suoi studi sulla molecola proteica che le è valsa il Nobel, perché le sue applicazioni cliniche nella cura delle malattie degenerative del cervello possono essere straordinarie. «Ma la cosa che più desidero è la pace in Medioriente. Mi interrogo spesso sul conflitto tra arabi e israeliani. Non posso accettare l´idea di chi vorrebbe la soppressione dello Stato d´Israele e allo stesso modo non accetto che i palestinesi abbiano poche possibilità di esprimere liberamente la propria intelligenza. Credo ancora sia possibile raggiungere l´obiettivo di una convivenza pacifica tra i due popoli. Siamo tutti uguali, ha detto Confucio».
Il tavolino di cristallo di fronte al divano è pieno di fiori. Sono rose bianche e gialle, azalee, iris, orchidee. Non sono lì per ciò che accadrà tra due giorni. Sono per una donna che ama i colori tutto l´anno. Lei si alza, mi tende le mani. Mi aspetto la loro fragilità. Le sfioro appena. Sono invece secche e nodose. Sono ferme, la stretta è forte e calda. «La vita non mi ha maltrattata. Sono una donna senza rimpianti. Se rinascessi ripercorrerei le stesse strade. Tutto è stato a mio vantaggio, anche ciò che non ho avuto, anche ciò che ho perso lungo il cammino. Certo, avrei potuto essere una donna migliore. Sono pessima in matematica. Non conosco la musica, solo un po´ di Beethoven e Bach, qualcosa di Schubert, Mozart e Chopin. Non abbastanza. Amo molto il teatro, non l´opera. Nei rapporti umani ho trovato la compensazione ai miei novantanove anni. Accetto questa età senza fatica, non mi vergogno delle mie doppie protesi acustiche, dei miei occhi che non vedono quasi più. Voglio andare avanti. Non sono stanca di vivere. E non cerco la morte. Arriverà. Forse tra un mese, forse tra due anni, chissà. Le mie colpe sono di scarsa entità. Spero di avere pochissimo da farmi perdonare».

sabato 19 aprile 2008

PIETRO INGRAO
«Siamo in un momento aspro e delicato per la nostra nazione. Si sono svolte le elezioni politiche e hanno visto la vittoria di un capo reazionario come Silvio Berlusconi. Ritengo che sia un evento brutto e grave per il mio paese e soprattutto per le grandi masse di lavoratori, oggetto di duro sfruttamento. Non c’è tempo però per lacrime e recriminazioni. Non possiamo rinchiuderci nel guscio di casa. Bisogna riprendere da subito, da domani stesso, la lotta. Ci sono già di fronte a noi nuovi appuntamenti brucianti, di grande importanza: prima di tutto l’elezione del sindaco di Roma capitale: città che è un simbolo per il mondo intero. Avanti allora a lavorare adesso col popolo e nel popolo per l’elezione di Francesco Rutelli, combattente generoso e conoscitore profondo delle questioni romane, a guida della metropoli capitolina. Questo è il compito alto e grave che sta ora dinanzi alle forze democratiche e di sinistra, e che non ci consente soste. La lotta continua. Da vecchio e testardo militante mi rivolgo al popolo romano e chiedo, invoco: in queste ore cruciali dia ognuno un contributo per eleggere Rutelli a sindaco di Roma»

l’Unità 19.4.08
Rifondazione, dopo la sconfitta l’assalto al quartier generale
Giordano potrebbe ritrovarsi in minoranza. Il Pdci propone di riunire i comunisti: critico Rizzo, no dal Prc
di Simone Collini

A SINISTRA le macerie sono ancora fumanti, tutti parlano di ricostruire, ma intanto ci si spacca per segnare la posizione, complici i congressi straordinari convo-
cati per luglio.
In casa Pdci, Oliviero Diliberto propone di ripartire dall’unione dei comunisti, la direzione del partito approva a larga maggioranza la proposta ma Marco Rizzo non partecipa al voto per protesta, visto che il segretario ha sì definito morta e sepolta la Sinistra arcobaleno, ma ha anche rivendicato che era l’unica scelta possibile alle ultime elezioni.
In casa Prc, Franco Giordano propone di dar vita a una costituente della sinistra, uno «spazio pubblico in cui tutte e tutti possano intervenire, pesare e decidere», sottolineando che non ha «mai pensato allo scioglimento di Rifondazione comunista». Ma Paolo Ferrero e le minoranze del Prc non esiteranno, alla riunione del comitato politico nazionale che si apre oggi e si chiude domani, a sfidare anche con un voto il segretario, proponendo di sostituire in questa fase congressuale la segreteria con un comitato di gestione all’interno del quale la maggioranza sia minoranza (l’ipotesi è che ne facciano parte un esponente indicato da Giordano, uno da Ferrero e uno dalla componente Essere comunisti di Claudio Grassi). Due esempi che la dicono lunga sulle difficoltà che dovranno essere superate a sinistra e che annunciano congressi tutt’altro che semplici, sia per il Prc che per il Pdci.
La sua proposta Diliberto la mette sul piatto alla direzione del partito: abbandonare al suo triste destino la Sinistra arcobaleno e lavorare invece per l’unificazione di Comunisti italiani e Prc. «Ora occorre ricostruire la sinistra iniziando da noi stessi, quindi rimettendo insieme i due partiti comunisti e tutti gli altri comunisti che non si riconoscono in Rifondazione e nel Pdci». Questa sarà la piattaforma con cui Diliberto si presenterà al congresso dei Comunisti italiani, che verrà convocato per luglio. Una piattaforma che però, per il segretario del Pdci, deve poggiare su una «autocritica severissima» su quanto fatto negli ultimi mesi con la Sinistra arcobaleno: «Il simbolo, l’insediamento sociale, la campagna elettorale sbagliata e anche il profilo della sinistra stessa». Ora bisogna «ricostruire da capo», ripartendo dalla falce e martello: «Con quel simbolo due anni fa abbiamo preso 3 milioni e 700 mila voti. Con l’Arcobaleno solo un milione». L’autocritica non è però per Rizzo abbastanza severa: il coordinatore del Pdci chiede di votare la relazione di Diliberto per parti separate, annunciando il suo voto contrario per la parte riguardante il passato (Sa unica scelta possibile) e a favore per il futuro. Richiesta respinta, e allora Rizzo non partecipa al voto. Alla fine la relazione viene approvata, dai 104 membri della direzione, con due no, cinque astenuti e sette non partecipanti alla votazione.
Ben più infuocata sarà la riunione del comitato politico di Rifondazione, a cui di sicuro non parteciperà Fausto Bertinotti. Si apre oggi con la relazione di Giordano, che rilancerà la costituente della sinistra e risponderà no alla proposta di Diliberto, che il capogruppo uscente del Prc Gennaro Migliore non esita a definire «ancora più disastrosa della già cataclismatica sconfitta elettorale». I lavori si chiudono domani, con un voto che può mettere in minoranza il segretario. Lo scenario è questo: Ferrero, anche lui contrario alla proposta di Diliberto, proporrà insieme a Giovanni Russo Spena e Ramon Mantovani non solo «il rilancio di Rifondazione» ma anche la creazione di un comitato di gestione che curi la preparazione del congresso; la minoranza dell’Ernesto presenterà un documento da mettere al voto in cui si punterà il dito sulle responsabilità del gruppo dirigente; andrà all’attacco anche la minoranza guidata da Grassi, che tra l’altro ha poco apprezzato la risposta di Migliore a Diliberto. Se, come al momento appare possibile, si sommeranno i voti di Ferrero e delle minoranze, Giordano finirà in minoranza. E Ferrero potrebbe cominciare da una posizione di vantaggio la campagna congressuale.

l’Unità 19.4.08
«Liberazione»: paura per il futuro del giornale

Il comitato di redazione e le rappresentanze sindacali unitarie di Liberazione, «alla luce dell’esito elettorale di domenica e lunedì scorso, che ha prodotto l’esclusione dal prossimo Parlamento della Sinistra Arcobaleno, esprimono la propria preoccupazione e quella dei lavoratori e delle lavoratrici per il destino e l’autonomia della testata». In una nota, il cdr e le rsu «chiedono quindi garanzie da parte della società editrice di Liberazione, la Mrc Spa, riguardo le sorti del giornale e il mantenimento dei livelli occupazionali nell’immediato e nel prossimo futuro». Le preoccupazioni delle rappresentanze sindacali si riferiscono in particolare ai contributi pubblici destinati ai quotidiani che fanno riferimento a Gruppi parlamentari, qual è appunto Liberazione, che ha come riferimento Rifondazione comunista.

Corriere della Sera 19.4.08
Resa dei conti Il ministro: comitato di gestione. Il no di Giordano
Prc, Ferrero va all'assalto Cambi in vista a «Liberazione»
Bertinotti si prepara a dare l'addio alla vita politica
di Maria Teresa Meli

ROMA — Non sarà oggi l'addio di Fausto Bertinotti. Oggi, per il Prc, sarà il giorno della divisione, che preluderà a una possibile scissione, più in là nel tempo. Paolo Ferrero e suoi alleati in nome della falce e martello intendono riprendersi il partito nel comitato politico che si riunisce nel pomeriggio. E hanno i numeri per farlo. Come hanno i numeri per commissariare Liberazione. Con un vero e proprio blitz, ossia destituendo il direttore Piero Sansonetti e mettendo al suo posto l'ex capogruppo del Senato Giovanni Russo Spena (legato a Ferrero dalla comune militanza in DP), oppure limitandosi a commissariarlo. Ma al momento l'opzione più gettonata dal ministro della Solidarietà sociale è la prima.
Fausto Bertinotti, comunque, non ci sarà. Oggi, per ovvi motivi di opportunità. Ma potrebbe non esserci neanche un domani. Il "subcomandante" Fausto, come lo chiamavano i suoi quando tutto andava bene, sta maturando la decisione di lasciare la vita politica attiva. «E' stato grave da parte mia - è il suo pensiero - non capire quello che stava succedendo e non posso rifuggire dalle mie responsabilità». Le dimissioni che aveva dato in diretta tv non bastano. Certo, ora Bertinotti non lascerà soli i "compagni" che finiscono in minoranza per essere stati dalla sua parte. Li accompagnerà fino al congresso prossimo venturo che con tutta probabilità si svolgerà a luglio. Ma il suo viaggio, probabilmente, terminerà lì. Medita addirittura di chiedere "scusa", Bertinotti, ma più in là, non quando Ferrero, oggi, lo metterà sul banco degli imputati.
Dunque, il presidente della Camera non andrà al comitato politico. E non ascolterà l'intemerata di Ramon Mantovani secondo il quale «il gran frequentatore dei salotti deve andarsene a casa». In compenso ci saranno tutti gli uomini di Bertinotti, dal segretario dimissionario Franco Giordano all'ex capogruppo a Montecitorio Gennaro Migliore. Dovranno essere loro a fare da bersagli all'offensiva di Ferrero e dei suoi. Il ministro della Solidarietà sociale, però, giocherà d'abilità. Formalmente non si impossesserà subito in prima persona del partito, ma proporrà all'ala bertinottiana di Rifondazione un comitato di gestione in cui siano presenti tutti. All'apparenza un'offerta di pace, in realtà un modo per coinvolgerli nella conduzione del partito, cosicché al congresso, quando Ferrero proverà a farsi eleggere segretario, non potranno smarcarsi da lui.
Ma se questa è la proposta, Giordano e gli altri hanno deciso di rispondere di "no": non entreranno in un organismo «fintamente collegiale», fanno sapere, e che «in realtà verrà gestito dal solo Ferrero». Questo "no", però, non equivarrà a un annuncio di scissione. I bertinottiani tenteranno di riprendersi la maggioranza al Congresso (e in questo caso il loro candidato sarà Migliore). Ma se non non ci riusciranno si troveranno davanti a una strada obbligata: quella della scissione. Per fare che? «Per cercare», rispondono loro, «di costruire la sinistra con chi ci sta». Ossia con la Sd di Fabio Mussi, con un pezzo dei verdi (l'altro pezzo vuole già confluire in tutta fretta nel Pd) e con una parte dei movimenti.
Alla fine la sinistra risulterà polverizzata. Ci saranno il Prc con falce e martello di Ferrero, il Pdci di Diliberto (con cui però il ministro di Rifondazione non vuole allearsi), la sinistra critica di Turigliatto, quella di Ferrando e quella movimentista e non comunista dei bertinottiani... Un arcipelago piccolo, ma, in compenso, molto frastagliato.

l’Unità 19.4.08
«Una casa comune per i comunisti»
Centinaia le adesioni

Sono centinaia le adesioni all’appello «Comunisti di tutta Italia, unitevi», fatto proprio anche dalla segreteria di Comunisti italiani. L’appello era stato lanciato cento intellettuali o esponenti del mondo del lavoro e dello spettacolo: da Ciro Argentino, operaio Thyssen, all’astrofisica Margherita Hack, al filosofo Gianni Vattimo. E ancora lo storico Luciano Canfora, Vauro, Bebo Storti, Marco Baldini. Un appello alla costruzione di una «casa comune dei comunisti», un «partito comunista forte e unitario», rivolto alle «centinaia di migliaia di comunisti senza tessera».
L’appello attacca duramente la proposta di Franco Giordano, Prc: «Non condividiamo l’idea di un soggetto unico della sinistra di cui alcuni chiedono ostinatamente un’accelerazione, nonostante il fallimento politico-elettorale. Proponiamo invece una prospettiva di unità e autonomia delle forze comuniste in Italia, un processo di aggregazione che, a partire dalle forze maggiori (Prc e Pdci) vada oltre coinvolgendo altre soggettività politiche e sociali, senza settarismi o logiche auto-referenziali». Insomma, l’obiettivo è «casa comune dei comunisti», un «partito comunista forte e unitario».

l’Unità Roma 19.4.08
Gli ultras e lo squadrismo mistico-fascista
Gli arresti e il sequestro dei documenti che hanno permesso di collegare lo stadio e l’assalto a Villa Ada
di Massimiliano Di Dio

TEORIE «Il nucleo più consapevole degli Ultras Lazio ha un retroterra teorico che lo porta a identificare nello squadrismo mistico-fascista l’essenza di una condotta che vuole essere una risposta alla sterilità politica contingente». Tifo e ideologie fasciste appaiono per la prima volta insieme per iscritto nel manifesto del tifoso dell’Olimpico. Titolo: «Ultras: oltre il tempo. Storie di barricate e lacrimogeni». Un documento di ventinove pagine trovato a casa di Roberto Sabuzi, 41 anni, fede laziale. Per tutti lui è er Capitano, uno dei tifosi arrestati nella capitale per gli assalti alle caserme la notte dell’11 novembre scorso, subito dopo l’uccisione di Gabriele Sandri. «Quando parte "la carica alle guardie" - si legge - il grido di battaglia, come una sfida intera al mondo antifascista, rimane il classico Duce Duce». Quello stesso grido che accompagna gli ultras di estrema destra nella spedizione punitiva del 28 giugno 2007 a Villa Ada durante il concerto rock della Banda Bassotti. I feriti allora furono tre ma quell’irruzione, ribadiscono ora i carabinieri, «confermò la matrice politica che univa le singole tifoserie, laziali e romaniste, la cui aggressività trovava sfogo anche al di fuori dello stadio». Spedizioni punitive all’insegna della xenofobia. Dettate da un linguaggio senza filtri: «Sarebbe da sparaje in faccia alle guardie. Che te credi che non m’andrebbe de ammazzalla na guardia?», «Sti rumeni stanno infestando la nostra razza», «Stasera voglio ammazzare qualcuno, voglio andare in battaglia». Tra gli obiettivi portati a termine secondo l’accusa, oltre all’attacco a Villa Ada, anche un tentato incendio ad una baracca di rom, l’occupazione di un immobile Atac e soprattutto l’assalto alla caserma di via Guido Reni. In programma poi l’attacco ad un campo nomadi quale risposta all’omicidio di Giovanna Reggiani e una missione violenta in Campania per partecipare agli scontri sui rifiuti. Insieme a Sabuzi finiranno in manette altre quindici persone accusate, a seconda delle posizioni, di associazione a delinquere, devastazione e lesioni. Per alcuni c’è l’inedita aggravante del terrorismo. Molti sono vicini a Forza Nuova, tra loro anche Daniele Pinti, scarcerato insieme a Fabio Pompili perché risultato estraneo al contesto accusatorio e transitato nelle liste del “popolo della vita per Alemanno”. Gli inquirenti sanno di aver sferrato un duro colpo alla caccia avviata contro «gli sbirri e le strutture dello Stato». La sensazione è di aver decapitato ma non annientato l’organizzazione. Dopo gli arresti, non ci sono stati nuovi episodi di violenza. «Sanno di essere sotto controllo - fanno sapere gli investigatori -. Ma l’attenzione è sempre alta. Possono fare danni enormi. All’Olimpico la coltellata alla gamba potrebbe trasformarsi in altro e ci vuole poco per far scappare il morto». Lo stadio sotto controllo, com’è ovvio. Secondo i dati del Viminale su un esercito di 75mila tifosi, oltre 20mila sono violenti. Di questi 15mila si ispirano alla destra oltranzista e 5mila all’estrema sinistra. Gente pronta a colpire in ogni modo l’avversario. Tra le tifoserie più temute: quelle della Roma (Bisl, Basta infami solo lame, Tradizione e distinzione) e della Lazio (Banda noantri, cui appartenevano almeno tre degli arrestati). Entrambe ormai accomunate dalla matrice politica di estrema destra. «L’ultras nasce e muore clandestino - recita un volantino del 2003 diffuso da Bisl all’Olimpico - soprattutto non tradisce i suoi amici perché il numero uno resta chi lo vuole eliminare. Onore ai detenuti, ai diffidati, morte alle spie».

l’Unità Roma 19.4.08
«Con Gianni Alemanno l’estremismo fascista»

«Al di là degli apparentamenti, Alemanno e i suoi alleati più o meno ufficiali rischiano di far arretrare Roma e la cultura democratica che l’ha caratterizzata in questi anni», avvertono a due voci i vertici romani di Pd e Sinsitra Alternativa. Denunciano Riccardo Milana e Patrizia Sentinelli: «Alemanno ha candidato tra i suoi un esponente di Forza Nuova, Daniele Pinti. Abbiamo una destra xenofoba e intollerante che ha visto come protagonista Luca Romagnoli, un signore quarantenne che ha fatto impallidire il parlamento di Strasburgo con le dichiarazioni che negavano l’Olocausto». A riprova gli esponenti politici che sostengono Rutelli nella sfida per Roma mostrano le locandine che pubblicizzano le iniziative dei centri sociali di destra, primo fra tutti Casa Pound: Paolo Di Canio che fa il saluto fascista sotto la Curva Nord; Benito Mussolini, ancora in fase squadristica, che sgrana gli occhi in un primissimo piano. E ancora: camice nere ritratte in pose plastiche mentre partono alla ‘carica’ con il fez ben calcato sulla testa. «In un clima in cui si parla di legalità ci sono sedi di proprietà pubblica occupate da anni da circoli della destra in continuità con le ideologie del Ventennio e con cui Alemanno si appresta a fare un’alleanza», dice Riccardo Milana, segretario romano del Partito Democratico. E poi aggiunge: «A casa Pound è andato a fare campagna elettorale Francesco Storace, il 14 marzo. Alemanno - continua l’esponente Pd - nel 2003 sosteneva ancora che il fascismo non fu solo leggi razziali e non può essere definito il male assoluto, nè tantomeno An può apparire come un partito antifascista».
«Questa città ha comunque gli anticorpi per rispondere a questi personaggi», dice anche Massimo Cervellini, segretario romano di Sinistra Democratica.

l’Unità Firenze 19.4.08
25 aprile, l’appello di Anpi, Arci e Cgil

Primo avvertimento al premier in pectore Silvio Berlusconi, che in passato spesso ha snobbato le celebrazioni del 25 aprile, festa della Liberazione: «Attui il dettato della nostra Costituzione nella sua interezza e sia sempre rispettoso di tutti i diritti che la Costituzione consente al popolo italiano». Parola dell’ex partigiano «Pillo», oggi noto come Silvano Sarti, presidente dell’Anpi provinciale di Firenze. E per tramandare a giovani e bambini l’importanza e il significato della Liberazione, Arci, Cgil e Anpi organizzano per il 25 aprile iniziative e feste nelle case del popolo di Firenze e provincia, incontri nelle fabbriche e un’intera giornata di manifestazione in piazza Ghiberti, promossa con gli studenti universitari. Il 21 aprile la Cgil sarà alla Galileo insieme al presidente nazionale Anpi Tino Casali, mentre il 23 è previsto un incontro al nuovo Pignone col presidente della Regione Claudio Martini. Il 24, invece, per inaugurare un nuovo piano della sede del sindacato è stata organizzata una tavola rotonda col sindaco Leonardo Domenici. Pranzi, proiezioni, dibattiti, mostre, incontri e musica animeranno invece le tante iniziative organizzate presso i circoli Arci del territorio fiorentino, sia nei giorni del 25 aprile che successivamente. «Democrazia, lavoro, libertà, antifascismo: è fondamentale tramandare i valori del 25 aprile e della Costituzione ai più giovani, soprattutto in questo momento così particolare», vogliono ricordare Francesca Chiavacci, presidente di Arci Firenze, e Mauro Fuso, segretario della camera del lavoro. t.gal

Corriere della Sera 19.4.08
La verità nascosta del regime «mussolinista»
Piero Melograni: non ci fu un'ideologia fascista ma soltanto il potere personale di un dittatore
di Dario Fertilio

Si comincia con il dramma delle trincee: fango e baionette sui fronti del '15-18, e poi quella rabbia per la «vittoria mutilata» che sarebbe presto degenerata in fascismo. E si finisce con la tragedia dell'aprile 1945, quando nel crepuscolo del regime si consumano grandi eroismi e piccole vendette da guerra civile.
Tra l'uno e l'altro evento, in un arco di tempo da riassumere e spiegare — anche per smontare i luoghi comuni interpretativi intorno a quegli anni — c'è lo storico Piero Melograni. La sua rivisitazione del ventennio nero — una ricerca in cui ha selezionato, interpretato e commentato una enorme quantità di materiale con l'aiuto della giovane studiosa Federica Saini - rappresenta anche l'occasione di lanciare una diversa definizione del regime. Che fu in realtà, secondo il suo giudizio, «mussolinismo ».
Ma c'è una differenza significativa tra i due termini?
«Certo, ed è essenziale, come compresero per primi i fratelli Rosselli: anzi, nei Quaderni di Giustizia e Libertà sostennero più volte questa tesi. Se vogliamo afferrare il senso del sistema di potere del ventennio, dunque, conviene evitare di definirlo "fascista". Fu un regime mussoliniano. Perché il centro del sistema di consenso era rappresentato da lui stesso, il Duce, e nessun altro. E perché è ormai tempo di comprendere che anche i dittatori hanno bisogno di consenso».
Il che si può tradurre così: il fascismo, in quanto sistema politico, non possedeva una vera e propria consistenza ideologica. Infatti, osserva Melograni, «ne aveva molto meno di quella che gli è stata attribuita in seguito. Oltretutto, l'uomo che ne era a capo si poteva definire una persona fortemente indecisa». E dire che secondo l'opinione corrente, compresa quella degli avversari, Benito Mussolini incarnò il "decisionismo". Tanto che molti decenni dopo, in circostanze diversissime, gli avversari del "decisionista" Bettino Craxi si sarebbero serviti proprio del paragone con Mussolini per attaccarlo.
«Una fama completamente immeritata, quella del Duce capace di prendere sempre la decisione giusta » afferma Melograni. «I suoi collaboratori, a cominciare dal capo della polizia Carmine Senise, hanno riferito che Mussolini subiva talmente l'influenza altrui, da dare sempre ragione all'ultimo che gli aveva parlato».
Si potrebbe capovolgere lo slogan «il Duce ha sempre ragione», insomma, nello slogan «il Duce dà sempre ragione»... «E non è solo una battuta. Si arrivava ad estremi incredibili: non era raro che gli accadesse di rispondere affermativamente a progetti completamente contraddittori, sottoposti a lui lo stesso giorno! Una conferma diretta di un simile atteggiamento viene da Guido Leto, il capo della polizia segreta fascista, la famosa e lugubre Ovra».
Dunque, si trattava di una condizione legata alla personalità unica di Benito Mussolini, o piuttosto di un tratto comune agli altri grandi dittatori del suo tempo?
«Qualcosa in comune lo avevano. Il comportamento di Adolf Hitler, ad esempio, era a dir poco ondeggiante. L'architetto Albert Speer, a lui molto vicino, scrisse che si lasciava influenzare moltissimo da coloro che sapevano prenderlo per il verso giusto. Credo che sia corretto definirlo un incompetente accentratore, o per lo meno che questa fosse una delle sue caratteristiche peculiari».
Un bel paradosso: fascismo e nazionalsocialismo finirono per affidarsi entrambi a leader indecisionisti. «Ma con una precisazione: l'ideologia nazionalsocialista era molto più potente e strutturata di quella fascista ». Se ne può dedurre che una caratteristica del dittatore totalitario novecentesco sia stata quella di lasciarsi imprigionare dal mito del consenso. Un consenso talmente "totalitario" da voler accontentare tutti, o quasi, tanto che — secondo Melograni — «Mussolini e Hitler furono schiavi del loro stesso consenso».
In una certa misura anche Stalin si può ricondurre allo stesso profilo psicologico: «Secondo la figlia Svetlana, lo si vedeva ben poco al lavoro, nel suo ufficio. Certo era molto più rozzo di Mussolini. E forse persino più rozzo di Hitler».
Le loro personalità erano ben diverse, dunque, da come oggi le immaginiamo. Erano, si direbbe, tutti e tre schiavi del loro potere. «Insomma — spiega Melograni — incarnavano il contrario del principio di onnipotenza. Succubi dei loro collaboratori, prigionieri e spaventati dal ruolo che interpretavano ».
Ma questa affinità di fondo non può cancellare le grandi differenze tra l'uno e l'altro, che « furono profonde, in parte ideologiche e in parte dovute a condizionamenti geopolitici. E influì sul comportamento dei dittatori il carattere dei loro popoli ».
Resta da stabilire se il «mussolinismo » sia stato un fenomeno realmente «totalitario», nel senso che soppresse la società civile, o semplicemente «autoritario», rassegnato a convivere entro certi limiti con centri di potere concorrenti. A questo proposito, secondo Melograni, «la svolta fu quella del 1938: leggi razziali e alleanza con Hitler. Da quel momento si può parlare di un vero totalitarismo fascista, mentre fino ad allora il ruolo dei Savoia aveva fatto somigliare piuttosto l'Italia a una diarchia, in cui il capo del regime condivideva il potere con il Re».
Tuttavia, se chiamiamo «mussolinista» la dittatura, dove va a finire quella famosa categoria dell'uomo «fascista», che nel costume e nel linguaggio politico è sopravvissuta quasi fino ad oggi, sia pure sotto forma di insulto? Secondo Piero Melograni essere "fascista" equivaleva di fatto a dichiararsi fanatico. Dunque, «più fascista di Mussolini, confermandosi tale anche dopo, durante la Repubblica sociale». Ben diverso era invece Mussolini, «che aveva il senso della mediazione, e sapeva come comportarsi... e non a caso si era fatto le ossa nel partito socialista».
La parabola del fascismo si chiude dunque definitivamente con la morte del Duce?
«Sì, anche se la Repubblica Sociale era già una cosa completamente diversa dal regime, prigioniera di fatto della Germania. La verità è che Mussolini aspirava a una pace di compromesso fra i due blocchi in guerra, in cui lui avrebbe potuto svolgere il ruolo di mediatore».
Eccoli dunque, i tre grandi dittatori messi in fila da Piero Melograni, ognuno con il suo profilo psicologico "indecisionista". «Mussolini, Hitler e Stalin interpretarono ugualmente la paura verso il mondo moderno, incarnarono una reazione al caos. Il che coincise, per Hitler e Mussolini, con un tentativo di ritorno all'ordine della civiltà contadina, agricola, "verde". Lenin invece, ancor prima di Stalin, concepì il tutto come un salto a marce forzate nel futuro».

Corriere della Sera 19.4.08
L'antropologo Marc Augé descrive come si pensano le soluzioni nell'era dell'esistenzialismo pratico
Le utopie hanno rubato il futuro
«Ora cambiamo il mondo senza doverlo immaginare»
di Marc Augé

Il tema del migliore dei mondi deve situarsi in rapporto ai due tipi di miti apparsi nella storia: i miti di origine, fondatori delle religioni, di cui i filosofi occidentali hanno potuto dire che la modernità del XVIII secolo li aveva uccisi, e i miti del futuro, i grandi racconti fondatori delle ideologie politiche progressiste, che la storia del XX secolo avrebbe fatto scomparire.
Le due declinazioni del tema dell'altro mondo presentano paradossi, differenze e similitudini. Le utopie laiche possono apparire più generose e disinteressate delle religioni di salvezza, poiché non promettono alcuna ricompensa individuale a breve termine e non si interessano alla morte individuale. Ma entrambe hanno conseguenze nel mondo attuale (se designiamo con l'espressione «mondo attuale» il mondo in cui viviamo e con l'espressione «mondo virtuale» il mondo che le religioni o le utopie pretendono di sostituirgli). Le religioni di salvezza, infatti, accordano importanza alle «opere»; quanto alle utopie laiche, esse sono state spesso legate a filosofie della felicità che hanno cambiato il rapporto con la vita «mondana». Storicamente, le une e le altre sono state sovente, per una moltitudine di individui, un modo di vivere il mondo attuale piuttosto che un modo di cambiarlo.
Forse l'attualità ci invita a sfumare il tema della fine dei due tipi di miti. Se è vero che l'esistenza di forme aggressive di religione (islamismo, evangelismo) può farci temere un XXI secolo dilaniato da concezioni opposte e ugualmente retrogradi del mondo — il che smentirebbe il tema della fine dei miti di origine e del trionfo della modernità —, non bisogna sottovalutare l'aspetto politico delle nuove affermazioni religiose, né il loro aspetto reattivo. Forse la modernità è ancora da conquistare e noi siamo al centro di una crisi che in realtà è simile a una fine. Inoltre, se è bene constatare l'indebolimento delle proiezioni politiche di vasta portata, non sono da escludere sorprese in questo campo; le concezioni dominanti non sono più sicure delle loro precorritrici, e l'assenza o l'indebolimento di rappresentazioni costruite dell'avvenire può costituire un'opportunità per cambiamenti effettivi che si sono nutriti dell'esperienza storica concreta. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a convertirci a una sorta di esistenzialismo pratico. Le innovazioni tecnologiche che hanno sconvolto i rapporti di sesso e i modi di comunicare (la pillola, Internet), non sono nate dall'utopia, ma dalla scienza e dalle sue conseguenze tecnologiche. L'esigenza democratica e l'affermazione individuale prenderanno probabilmente strade inedite che solo oggi intravediamo.
Dall'inizio del XX secolo, la scienza ha compiuto progressi accelerati che oggi ci lasciano scorgere prospettive rivoluzionarie. Nuovi mondi cominciano ad aprirsi davanti a noi: da un lato, l'universo, le galassie (e questo cambiamento di scala non sarà privo di conseguenze, a termine, sull'idea che ci facciamo del pianeta e dell'umanità); dall'altro, il confine tra la materia e la vita, l'intimità degli esseri viventi, la natura della coscienza (e queste nuove conoscenze comporteranno una ridefinizione dell'idea che ogni individuo può farsi di se stesso). Quello che sapremo del mondo cambierà il mondo, ma questi cambiamenti sono oggi inimmaginabili; non possiamo sapere, per esempio, quali saranno i progressi della scienza entro i prossimi trenta o quarant'anni.
A tal proposito, due osservazioni: 1) Se nel campo dell'educazione non si realizzeranno cambiamenti rivoluzionari, c'è il rischio che l'umanità di domani si divida fra un'aristocrazia del sapere e dell'intelligenza e una massa ogni giorno meno informata su quello che la conoscenza comporta. Questa disuguaglianza riprodurrebbe e moltiplicherebbe la disuguaglianza delle condizioni economiche. L'educazione è la priorità delle priorità.
2) Le conseguenze tecnologiche della scienza sono come una seconda natura. Le immagini e i messaggi ci circondano e ci rassicurano, ci alienano dal nuovo ordine delle cose senza necessariamente darci i mezzi di comprenderlo. È qui il rischio connesso a ciò che ho chiamato «cosmotecnologia». Essa ci dà l'illusione che il mondo sia finito. Aiuta a vivere, ma può anche essere il passaggio che apre a tutti gli sfruttamenti se coloro che alla cosmotecnologia si richiamano non hanno una coscienza esatta del suo ordinamento.
La scienza non ha bisogno di disuguaglianze, né di dominazione. Se, di fatto, dipende dai politici che la finanziano, e in larga misura la orientano, la scienza risponde di diritto solo al desiderio di conoscere. Riguardo a questa esigenza, la miseria e l'ignoranza sono fattori di ritardo. Un mondo che ubbidisse soltanto all'ideale di conoscenza (e di educazione) sarebbe più giusto e insieme più ricco. Constatare che la scienza cambia il mondo significa ammettere che non esiste un altro mondo se non quello che stiamo cambiando; un mondo che, in sé, è al tempo stesso fine e finalità.
(Traduzione di Daniela Maggioni) Nostradamus (1503-1566). In alto scritta su un muro di Roma, citazione attribuita a Paul Valéry.
Dà il titolo a una raccolta di poesie di Mark Strand (foto Ciofani) Marc Augé, 72 anni, ha pubblicato l'anno scorso «Il mestiere dell'antropologo» (Bollati Boringhieri)

Repubblica 19.4.08
Sfida Capezzone-Bergamini per il portavoce del Cavaliere

ROMA - Daniele Capezzone potrebbe essere il nuovo portavoce di Silvio Berlusconi, quando il leader del Pdl si insedierà a Palazzo Chigi. Paolo Bonaiuti, l´attuale portavoce, sembra infatti destinato ad assumere una carica ministeriale nel nuovo governo. E in quel caso il suo ruolo verrebbe appunto ricoperto dall´ex segretario radicale, che nell´ultima legislatura era stato eletto nelle liste della Rosa nel Pugno all´interno dell´Unione. Non è escluso che la "squadra" della comunicazione di governo venga in realtà composta da un tandem. Molti fanno anche il nome di Deborah Bergamini, ex assistente del Cavaliere, poi direttore del Marketing strategico della Rai e consigliere di amministrazione di RaiTrade, ed ora deputato del Pdl.

Repubblica 19.4.08
Criminali impuniti
Un saggio di Filippo Focardi con nuovi documenti
Quando la politica cancella la memoria
di Simonetta Fiori

I responsabili delle stragi naziste in Italia beneficiarono di un´amnistia occulta, mai riconosciuta dalla verità ufficiale
Svelate le trame filonaziste del vescovo austriaco Alois Hudal
L´esiguità dei processi italiani rispetto alla giustizia in Europa

È un capitolo oscuro, tuttora irrisolto, che si nutre del controverso rapporto tra politica e storia. Politica e storia di sessant´anni fa, ma anche politica e storia di oggi. Investe un tema delicato, la memoria italiana dei crimini nazifascisti subiti dal nostro paese, ma anche il confronto con i crimini commessi altrove dai nostri soldati, in Grecia e in Jugoslavia, in Francia, in Albania e in Etiopia. Una memoria fragile, incline a reticenza, che lo storico tedesco Lutz Klinkhammer stigmatizza - nel raffronto con gli altri paesi europei - come "forte anomalia italiana": sia per l´esiguità dei processi penali celebrati nel dopoguerra, sia per la ripresa tardiva dei dibattimenti dopo la scoperta negli anni Novanta dell´"armadio della vergogna", centinaia di istruttorie insabbiate negli scaffali della procura militare. Di fatto un´amnistia per occultamento, dettata da ragioni diverse, non ultimo garantire l´impunità ai criminali di casa nostra.
Ora un nuovo libro di Filippo Focardi, arricchito da una nutrita documentazione, aiuta a ricostruire questa pagina ancora incompiuta, "sbianchettata" appena due anni fa dalla "verità" di Stato sancita - in conclusione dei lavori della Commissione d´inchiesta parlamentare sulle stragi nazifasciste - dall´allora maggioranza di centro-destra (Criminali di guerra in libertà, Un accordo segreto tra Italia e Germania federale, 1949-1955, pagg. 170, euro 18,20, Carocci). Non fu una tessitura politico-diplomatica - sentenziò nel febbraio del 2006 il Parlamento italiano - a impedire i processi contro gli aguzzini tedeschi o a vanificarne l´esito. Si trattò più semplicemente di negligenza da parte della giustizia militare. Ed è da escludere - recita ancora la relazione di maggioranza della Commissione - qualsiasi relazione tra il corso rallentato dell´azione giudiziaria verso i criminali tedeschi con la pratica dilatoria attuata dal governo italiano verso l´estradizione dei criminali italiani, richiesta avanzata soprattutto dalla Jugoslavia. Anzi, sostennero i parlamentari di centro-destra, sarebbe più opportuno concentrarsi sulle violenze commesse dai partigiani di Tito contro gli italiani, da qui la proposta di istituire una commissione di inchiesta sulle foibe. La politica ieri, la politica oggi. Ma le cose stanno esattamente così? Non agì piuttosto, al principio degli anni Cinquanta, una ragion di Stato che pose un freno alla giustizia militare?
L´"accordo segreto" cui allude il titolo di Focardi non è in realtà una novità storiografica. Lo rivelò lo stesso studioso nel 2003 in un convincente saggio su Italia Contemporanea. Nel novembre del 1950 Heinric Höfler, compagno di partito e amico personale del cancelliere Adenauer, s´accordò con il conte Vittorio Zoppi, segretario generale del ministero degli Esteri, per la liberazione dei criminali di guerra tedeschi condannati con sentenza definitiva. Nel giro di pochi mesi, attraverso decreti di grazia firmati dal presidente Luigi Einaudi e controfirmati dal ministro della Difesa Randolfo Pacciardi, i militari furono rimpatriati in Germania. Tra essi, i quattro ufficiali del cosiddetto Gruppo di Rodi, in testa il generale Otto Wagener, responsabili dell´uccisione sull´isola greca di numerosi prigionieri di guerra italiani.
Nel nuovo lavoro di Focardi acquista centralità un curioso personaggio finora rimasto sullo sfondo, il vescovo austriaco Alois Hudal, rettore del Collegio teutonico presso la Chiesa di Santa Maria dell´Anima a Roma. Il prelato si distinse nel dopoguerra per "l´attività caritatevole" al cospetto dei criminali tedeschi in Italia, "poveri connazionali" secondo una sua bizzarra definizione. Fu Hudal nel maggio del 1949 a scrivere una lettera a monsignor Montini, futuro Paolo VI, per sollecitare la Santa Sede verso una sanatoria a beneficio dei prigionieri di guerra tedeschi condannati in Italia, missiva cui fece immediatamente seguito un´iniziativa del Vaticano a favore del "gruppo di Rodi". Il profilo di Hudal si staglia nitidamente dietro le manovre diplomatiche di questi anni, fino al suo "licenziamento" decretato nel giugno del 1951 dal ministro della giustizia tedesco, il quale in una lettera lo ringrazia per "l´opera disinteressata e piena di abnegazione", invitandolo a riconsegnare i soldi fino a quel momento amministrati per le necessità dei criminali. «Un emissario di fiducia del governo tedesco», sintetizza Focardi, che utilizza le carte dell´archivo personale di Hudal già studiate da Matteo Sanfilippo.
In fondo, il governo tedesco fece con noi esattamente quel che l´Italia aveva fatto con la Grecia. Nel marzo del 1948 anche le autorità italiane s´erano adoperate per la liberazione dei nostri criminali di guerra responsabili di sanguinose rappresaglie contro i partigiani e la popolazione civile greca. Accordi naturalmente condotti in gran segreto, in paesi in cui erano ancora molto vive le ferite impresse dal nazifascismo.
La "pista politica" è dunque quella che spiega l´impunità dei criminali - italiani e tedeschi - pista incomprensibilmente negata dalla relazione conclusiva approvata a maggioranza dalla commissione parlamentare sulle stragi nazifasciste (che pure poteva tener conto delle preziose acquisizioni storiografiche). La ragion di Stato e il contesto internazionale vengono invece letti come fattori decisivi nella relazione di minoranza presentata dal centro-sinistra, che fa riferimento proprio al caso del generale Wagener e coimputati, raccontato estesamente in questo volume di Focardi.
Le nuove ricerche della storiografia europea consentono inoltre di cogliere l´anomalia italiana in tutta la sua portata nel raffronto con gli altri paesi. Se l´Italia fu capace di dare solo tre ergastoli (Kappler, Reder e Niedermayer), di cui uno in contumacia, due sole condanne a più di 15 anni di reclusione (Wagener e Mair), ben dodici assoluzioni su un totale di ventisei persone processate, un piccolo paese come la Danimarca - dove l´occupazione tedesca fu certo meno sanguinaria - celebrò tra il 1948 e il 1950 almeno settantasette processi, con settantuno condanne. Le cifre prodotte da Focardi sono impressionanti. In Belgio furono condotti trentuno processi contro una novantina di criminali, con pene molto pesanti tra cui ventuno condanne a morte (solo due eseguite). In Olanda i criminali di guerra processati furono duecentotrentuno, con diciotto condanne a morte (cinque eseguite). In Francia i processi furono centinaia, circa cinquanta i giustiziati.
Né provvidero i tedeschi a riscattare le vittime italiane. Tutti i fascicoli aperti in Germania alla metà degli anni Sessanta si conclusero con "un non luogo a procedere". Con l´eccezione di Caiazzo, nessuna strage di civili italiani ha mai avuto un processo. Per la giustizia non ci sono colpevoli.

Repubblica 19.4.08
Klinkhammer "L'Italia ha un problema di coscienza"

Lutz Klink-hammer, autore di studi fondamentali sull´occupazione tedesca in Italia, fa riflettere su un aspetto paradossale della nostra storia: da una parte siamo il paese che meno degli altri ha fatto i conti con i crimini del nazifascismo, dall´altra non abbiamo rivali nella detenzione di due personaggi-simbolo come Kappler e Reder. «Dagli anni Cinquanta in poi», dice lo storico, «l´Italia si dimostrò il paese occidentale con l´atteggiamento più duro nell´esecuzione della pena inflitta ai due criminali nazisti condannati all´ergastolo, Herbert Kappler e Walter Reder. Nonostante le insistenti richieste di Bonn, il governo italiano non acconsentì al rilascio del boia delle Fosse Ardeatine, fino a quella strana "fuga" dal Celio».
Una durezza in realtà apparente. Per due criminali in galera, tutti gli altri beneficiarono di un´amnistia occulta.
«Sì, la carcerazione di Kappler funzionò da evento simbolico, dietro il quale far passare l´insabbiamento di tutte le altre stragi. Rimane il fatto che l´Italia fu l´unico paese della nascente comunità europea a non concedere, per tre decenni, il rilascio di un criminale di guerra tedesco».
Altri criminali furono rimpatriati o mai processati.
«Le ragioni dell´insabbiamento cambiarono nel corso dei decenni. Alla fine degli anni Quaranta il rallentamento della giustizia serviva ad evitare la punizione dei criminali di guerra italiani. Alla metà degli anni Sessanta, su esplicita richiesta della Germania, le autorità italiane decisero di riaprire una decina di casi, mentre centinaia rimasero occultati».
Il risultato finale è che quei crimini sono rimasti impuniti.
«Sì, l´altro aspetto dell´anomalia italiana è la ripresa tardiva dei processi negli anni Novanta. Istruttorie e dibattimenti sono ancora in corso, ma è sempre più difficile provare la colpevolezza. È passato troppo tempo per una condanna certa».
L´anomalia rivela l´incapacità di misurarsi con quella storia.
«L´Italia ha un problema di coscienza. Quella guerra fu combattuta all´inizio con i tedeschi e questo crea difficoltà e imbarazzi. In Germania c´è stata Norimberga: in qualche modo alla riflessione siamo stati costretti. In Italia c´è ancora chi inneggia a Mussolini».
S.Fio.

Repubblica 19.4.08
Festival della filosofia
Schopenhauer. Il mondo non ha senso
di Franco Cordero

La parabola del filosofo Schopenhauer, artista della lingua viva capace di svelare i verminai della storia
La Germania 1813 è l´epicentro del collasso napoleonico e il filosofo non è certo un patriota
La sua opera dissona dai tempi quindi cade e qualche recensore fa dello spirito
Nel 1848 l´hegelismo più cortigiano ha perso l´appeal ed emerge il buio

Quando nasce Sainte-Beuve, controllore della bienséance letteraria francese (Boulogne-sur-Mer 1804), viaggiava nel continente e oltre Manica il figlio appena adolescente d´un facoltoso mercante tedesco: Arthur Schopenhauer (Danzica, 22 febbraio 1788) conosceva la Francia del Direttorio avendo abitato due anni a Le Havre; nei Reisetagebücher appare già pensatore introverso. Dal 17º anno fa pratica commerciale in una Casa d´affari amburghese, non avendo la stoffa dei Buddenbrook, e anche Heinrich Floris, suo padre, nasconde punti fragili se, come pare, muore suicida senza motivo perché gli affari vanno bene nell´Europa 1805. Johanna Troisiener è una fredda e vanitosa «précieuse ridicule»: rimasta vedova, trasloca da Amburgo a Weimar aprendo un salotto; tra gli ospiti annovera Goethe, gli Schlegel, i Grimm, Wieland; scrive romanzi à la page.
Stupisce che Arthur resista due anni nella Casa Jenisch, poi coltiva lettere classiche tra Gotha e Weimar. Nell´autunno 1809 studiava medicina: filosofo d´istinto, cambia Facoltà; a Göttingen coniuga Platone e Kant, non trascurando gl´inglesi, specie Hume. Due anni dopo sperimenta l´insegnamento berlinese d´un Fichte profeta della riscossa tedesca: la Germania 1813 è l´epicentro del collasso napoleonico ma non esiste tedesco meno patriota d´Arthur; s´addottora, 2 ottobre, discutendo i quattro fondamenti della ragione sufficiente. Tornato a Weimar, frequenta Goethe, sulla cui teoria dei colori pubblicherà una memoria. Lì scopre fonti buddistiche e indiane, guidato dall´orientalista Friedrich Mayer. Madre letterata e figlio in rotta col mondo sono incompatibili: dalla primavera 1814 s´asserraglia in Dresda, immerso nell´opus, finché nasce Die Welt als Wille und Vorstellung (Brockaus, Leipzig 1819); tre nomi, il mondo come volontà e immagine. Nella premessa, agosto 1818, indica i percorsi d´una lettura seria. Chi cerca svago vada altrove. Cos´è il mondo: «Vorstellung» significa quel che percepiamo; «Wille» denomina l´oscuro substrato, in lingua kantiana «fenomeno» e «noumeno». Sotto i fenomeni batte un impulso senza senso, privo d´ogni fine: nell´animale umano lo chiamiamo Es, da cui affiora precariamente l´Io; ed è anche gravità, cristalli, magnete, materia viva, poussées vegetali, catena biologica.
«Die Welt» svela un pensatore artista dalla lingua viva, immaginosa, moderna, e scoperchia i verminai della storia, contro l´ottimismo hegeliano (Spirito=Stato prussiano). Libro choquant, dissona dai tempi, quindi cade piatto. Qualche recensore fa dello spirito. Dal 1820 è Privatdozent: Hegel l´ha beccato nella discussione; e lui lancia una sfida fissando le sue lezioni nelle stesse ore; vanno deserte; invano bussa a Heidelberg e Würzburg. Con eguale sfortuna ritenta la scena accademica 1825-31. Infine, abbandona Berlino infetta dal colera, del quale muore l´antagonista soverchiante; e trasloca sul Meno, fermo nell´assunto che la storia non meriti credito: l´Io spunti dal Wille, motore del nonsenso cosmico, donde cannibalismo, omicidio, asservimento, rapina, invidia, gusto del male; l´animale umano patisca bisogno, desideri, conflitti, delusione, sospeso tra dolore e noia, in una sequela stupidamente meccanica alla cui fine «ricomincia il ballo» (ed it. Laterza, 1968, 416, 57; ivi, C. Vasoli, viii-liii); l´arte apra intervalli quieti; sia raccomandabile la compassione; e l´unica terapia radicale consista nel rinnegare l´impulso egotistico, ma non è chiaro come, se regna una ferrea causalità.
L´autore violava la consegna ascetica nella guerra accademica: insegue premi banditi da accademie scandinave; ne ottiene uno («la mia premiata monografia: ivi, 385, 55); e diamogli atto d´essere tutto fuorché narciso; anzi, intrattiene con l´Io rapporti d´irsuta antipatia. L´opera era finita al macero: dopo 24 anni la ristampa con dei Supplementi, forse sentendo aria nuova, sebbene la prefazione deprechi i tempi. Manca ancora qualche anno. L´ultimo capoverso denuncia le manovre omertose d´una filosofia ridotta ad affare pratico: gl´integrati tengono d´occhio ministero, Chiese, profitto editoriale, afflusso studentesco, solidarietà corporativa; scambiano lodi; inscenano rumorose feste; aborrono chiunque pensi, salvo strappargli qualche piuma adoperabile nel loro mercato verbale; sinora è riuscita la politica del silenzio, prima o poi però le idee importanti emergono. L´explicit è un´allegoria: l´aerostato sale dall´aria caliginosa nell´atmosfera pura restandovi; niente l´abbasserà (Francoforte sul Meno, febbraio 1844: ivi, 11-23).
La scossa sopravviene nel 1848: convulsioni, reazione, arcigno ordine borghese; l´hegelismo cortigiano ha perso l´appeal; il malato non crede più al medico imbroglione che lo convinceva d´essere sano; va fuori legge la sinistra hegeliana, parente dello spettro comunista. Smontata la fiera d´una finta razionalità, emergono fondali bui. L´irregolare post-kantiano offre un diversivo anestetico e l´establishment cambia cavallo, dall´ottimismo filisteo alla mistica del Nulla. Piacciono i Parerga und Paralipomena, 1851.
«Die Welt» va muovendosi. L´ormai vecchio libero docente rentier senza uditorio ha rotto le chiavarde.
Settembre 1859, nuova edizione accresciuta: l´autentico pensiero, nota malinconicamente, avrebbe vita meno dura se gl´inetti a produrlo non impedissero che nasca, congiurati; ci sono voluti 41 anni perché fosse letto; cita Petrarca, De vera sapientia; è tanto vedere la sera, avendo corso l´intero giorno. Nella fortuna tardiva rimane eremita. Muore venerdì 21 settembre 1860 lasciando erede universale un fondo berlinese pro vittime 1848-49, dalla parte dell´ordine, beninteso.
Nietzsche gli rende onore (terza Inattuale, autunno 1874): sotto il geroglifico mondano ha scoperto un teatro futile col quale mascheriamo la paura d´essere soli (vedi Pensées, sub Misère de l´homme e Divertissement); l´educato pratica un´impavida scepsi; non sa essere invidioso né maligno; ammira le qualità eminenti; lavora al perfezionamento della natura (Schopenhauer come educatore, Opere, III.1, 406-12). Era ignoto, adesso l´adoperano quale «pepe metafisico» (ivi, 435). In mano d´una cultura versipelle «Die Welt» diventa narcotico, evasione, fantasia quietistica, ma l´antistoria è angoscia luterana: Doctor Martinus la grida negli opuscoli contro i contadini, e qui c´entra poco il capitalismo tirato in ballo dagli scoliasti marxisti; secondo tutt´e due, i ribelli aggravano l´infelicità dello stare al mondo. Misantropo, orfico litigioso, profeta del disimpegno, anticipa Freud e continua Pascal, sulla «misère de l´homme» tra bisogno, desiderio, dolore, falso piacere, noia mortale. L´analisi schopenhaueriana è ferro acuminato. L´effetto varia secondo le mani.
Non s´era mai visto l´analogo tra i filosofi tedeschi: impara le lingue, viaggia; sperimenta commercio, vanità letterarie, faide accademiche; ignora le guerre patriottiche; detesta Fichte imbonitore del germanesimo; rifiuta i cagliostrismi hegeliani; vede chiaro negl´instrumenta regni. Insomma, è l´antipode dell´intellettuale organico: gli adepti spendono quel tanto d´acume che l´autorità permette, e del mestiere nelle «mosse volpine»; promuovendosi servono persone, caste, chiese, governi dominanti; sono «pensatori riconosciuti dallo Stato»; «non ha mai turbato nessuno» è l´epitaffio da scolpire sulla loro tomba (ivi, 422s., 451, 457).
Nietzsche appartiene alla stessa famiglia, malvista da chi pensa disciplinatamente, spesso fraintesa e presentata a testa in giù, infatti György Lukács li classifica «distruttori della ragione», agenti imperialisti, come Kafka. Le sue plumbee glosse applicano i canoni d´un marx-leninisno staliniano, quindi lasciamolo da parte: è Sainte-Beuve stile Politburo, ancora vivo quando i giovani inalberano l´»imagination au pouvoir»; partendo dall´ebreo maledetto Baruch Spinoza, siamo scesi all´annus mirabilis 1968. Tentiamo un consuntivo. La sagra ha inciso nel costume, dalla moda alla vita familiare (due anni dopo viene il divorzio). In politica genera dei gruppuscoli, equivoca rivolta senza fondamenti né prospettive.
Aveva il fiato corto l´»imagination» i cui corifei aspiravano al potere: «nte toi que je m´y mets moi»; quel rissoso verbiage ha lasciato idee importanti? L´assalto era innocuo. Colpiva duro Papini, stroncatore cortese della crociana Logica come scienza del concetto puro (Leonardo, III, 1905, 115-20), idem contro l´Estetica (Lacerba, I, 1 giugno 1913, 116-19). Gli scorridori 1968 sono logomachi dall´eloquio gestuale, aggressivo, molto adoperabile nelle battaglie assembleari, dove raccoglie noia o ringhi chi porti idee chiare, sintassi, parsimonia verbale. I media, poi, scatenano sinergie i cui spettacoli abbiamo sotto gli occhi. Infine la jacquerie causa danni permanenti ispirando riforme scolastiche dall´abbecedario all´Università. Dopo quarant´anni è impopolare l´arte del pensare.