lunedì 21 aprile 2008

l'Unità 21.4.08
Giordano via. Primo round a Ferrero
di Simone Collini


Giordano: «Dobbiamo poter dire: ci siamo battuti per il mondo e la gentilezza abbiamo potuto e voluto essere gentili»
Grassi: «Riattivare il partito della Rc come progetto politico necessario alla sinistra in Italia per l’oggi e per il domani»
Ferrero: «Con le scelte di oggi Rc riparte dalla sua presenza nella società e dall’opposizione sociale al prossimo governo»
Vendola: «C’è bisogno di una sinistra larga e plurale dove un cantiere e il Prc sono necessari l’uno all’altro»
Migliore: «Nel momento in cui si darà la parola agli iscritti ce la possiamo fare: sono fiducioso»
Vendola: «Ognuno di noi, me compreso, farà la sua parte per rimettere in piedi questa comunità»

La guerra dei documenti finita 98 a 70 per l’ex ministro Ferrero

CAMBIO DI MAGGIORANZA per Rifondazione. La segreteria di Giordano è stata sostituita da un comitato di garanzia controllato dall’asse Ferrero-Grassi. Sarà questo organismo a traghettare il partito verso il congresso di luglio. Battuta la linea bertinottiana dell’unità a sinistra. Sarà Vendola a rilanciarla. Collini a pagina 7

Prc, Ferrero vince la prima battaglia
Giordano, battuto, lascia in lacrime. Vendola sarà il candidato di Bertinotti. Un comitato reggerà il partito

CAMBIO DI MAGGIORANZA per Rifondazione comunista. Al Comitato politico nazionale convocato per discutere la sconfitta elettorale, Franco Giordano ha giocato tutte le carte a sua disposizione per uscire dall’angolo, assicurando che il Prc non si
scioglie ma anche dimettendosi insieme a tutta la segreteria e concedendo che a traghettare il partito verso il congresso di luglio sia un comitato di garanzia. Tutto inutile. Paolo Ferrero, insieme a Ramon Mantovani, Giovanni Russo Spena e alla minoranza “Essere comunisti” di Claudio Grassi, ha presentato comunque un documento politico alternativo a quello di Giordano che ha incassato il più alto numero di voti: 98, contro i 70 a favore del segretario uscente. Ferrero è riuscito ad ottenere la maggioranza calamitando lo scontento per la linea impostata negli ultimi mesi da Fausto Bertinotti e puntando tutto sull’orgoglio di partito, proponendo cioè di rilanciare il ruolo di Rifondazione comunista e criticando la proposta di Giordano di dar vita a una costituente per l’unità a sinistra.
I bertinottiani sminuiscono la portata della sconfitta, facendo notare che nessun documento ha preso il 50% dei voti e che al congresso di luglio (dal 17 al 20) non si riproporranno questi rapporti di forza, visto che è da escludere una mozione comune Ferrero-Grassi (sono di quest’ultimo 38 dei 98 voti incassati ieri). «Nel nostro documento c’è tutta intera la storia e l’apertura alla società del Prc», dice Giordano al termine dell’estenuante due giorni, prima di telefonare a Bertinotti per una valutazione della situazione. «Loro hanno imbarcato pezzi contrari alla nonviolenza, contrari al rapporto con i movimenti, più che altro mi pare un cartello elettorale», è la valutazione del segretario uscente.
Si vedrà nelle prossime settimane se è solo questo la maggioranza che ha preso il controllo del partito (del comitato di garanzia che gestirà la fase congressuale fanno parte sei esponenti dell’asse Ferrero-Grassi, cinque vicini a Giordano e uno della minoranza dell’Ernesto). Per ora è chiaro che la sfida per la leadership di Rifondazione sarà aspra, come si intuisce dall’assaggio di scambio di accuse tra Ferrero e Giordano: «In campagna elettorale si è parlato di comunismo come tendenza culturale e della necessità di superare i partiti - è l’attacco del ministro uscente della Solidarietà sociale - si possono avere idee diverse, si può pensare che questa sia la soluzione, ma non si può dire una cosa e farne un’altra e poi accusare di golpe chi dice che si sta sbagliando. È inaccettabile sul piano morale prima ancora che politico». La replica di Giordano non è più tenera. Non solo perché dice che le sue dimissioni sono dovute alla sconfitta elettorale, non ad altro: «Non posso essere dimesso per una cultura del sospetto». Ma anche perché critica chi ora si colloca sulla posizione dell’intransigenza: «Quelli che oggi ci accusano di essere stati troppo accondiscendenti col governo sono gli stessi che quando venne approvato il protocollo sul welfare dissero no alla proposta di ritirare la nostra delegazione al governo». Ferrero, a chi glielo chiede, esclude che il riferimento sia a lui, ma nell’entourage di Giordano si conferma che fu proprio il ministro della Solidarietà sociale, quest’estate, a opporsi all’idea di uscire dall’esecutivo.
Altrettanto chiaro quanto, l’asprezza dello scontro, è il fatto che l’esito del congresso è del tutto aperto. Anche se a portare avanti la bandiera bertinottiana dell’unità a sinistra sarà un candidato come Nichi Vendola. Ipotesi che prende sempre più corpo, soprattutto dopo l’abbraccio che il governatore della Puglia si è scambiato sul palco con Giordano tra gli applausi, dopo che il leader del Prc aveva dato l’addio con gli occhi lucidi e la voce rotta dalla commozione: «È l’ultima volta che chiudo un comitato politico, il sipario sta per calare...».
È anche l’intervento che Vendola pronuncia al Comitato politico nazionale a far presagire una sua candidatura. Il presidente della Puglia evita attacchi frontali a Ferrero e compagni ma non qualche frecciata: come quando ricorda che lui è tra i fondatori di Rifondazione, non come qualcuno confluito dopo (riferimento tutt’altro che casuale a Democrazia proletaria, da cui provengono Ferrero e Russo Spena); o come quando racconta di quella volta che Paolo Bufalini, «esponente della destra del Pci, come dicevamo», dopo averlo accusato di voler sciogliere il partito perché ne criticava il centralismo democratico, si presentò in una sezione per sostenere la mozione Occhetto e a lui, che sosteneva quella Cossutta-Ingrao, disse: «Vendola, conservatore tuo malgrado». «La storia si ripete - dice ora il governatore pugliese - vorrei che non si ripeta in forma di farsa». Ma il punto che sta a cuore a Vendola è che «serve una larga e plurale sinistra», che «il cantiere della sinistra e il cantiere del Prc sono l’uno necessario per l’altro». In sintesi sarà questa la proposta politica dei bertinottiani al congresso di luglio. «Ognuno di noi, me compreso, farà la sua parte per rimettere in piedi questa comunità», dice Vendola prima di ripartire da Roma. «Non facciamoci del male, facciamoci del bene, diamo a questa comunità non l’orizzonte di un fortino delle antiche certezze in cui rinserrarsi ma mettiamo al centro del nostro cantiere l’innovazione politica e culturale». La risposta agli iscritti Prc.

La reggenza a dodici
Il comitato di garanzia che guiderà Rifondazione Comunista fino al congresso di luglio è composto da 12 persone, nessuna delle quali, in base al dispositivo votato dal Cpn fa parte della segreteria uscente.
I sei esponenti che fanno capo alla nuova maggioranza che ha come punto di riferimento il documento di Paolo Ferrero e Claudio Grassi, leader di Essere Comunisti, sono: Maria Campese e Claudio Grassi per la ex minoranza, Eleonora Forenza, Erminia Emprin, Maurizio Acerbo e Alfio Nicotra a rappresentare il ministro per la Solidarietà Sociale.
I componenti che fanno riferimento alla minoranza guidata da Franco Giordano sono: Franco Bonato, Rosa Rinaldi, Francesco Forgione, Graziella Mascia, Titti De Simone. A rappresentare l’Ernesto, corrente guidata da Fosco Giannini, c’è Gian Luigi Pegolo.

Corriere della Sera 21.4.08
Resa dei conti Il leader sul rivale: ora critica ma lui non volle uscire dal governo
Prc, l'addio a Bertinotti Ferrero batte Giordano
L'ex ministro: il partito non si scioglie. Vendola: meno spocchia
di Maria Teresa Meli


A luglio il congresso. Il vincitore: eticamente inaccettabile cancellarci La Deiana: indecorose lezioni di moralità

ROMA — È andata come da copione. Paolo Ferrero ha ottenuto la maggioranza (relativa e non assoluta) con il suo documento contrapposto a quello di Franco Giordano. E Nichi Vendola ha battuto il ministro della Solidarietà sociale nella gara dell'applausometro.
Al comitato politico di Rifondazione comunista le tensioni non si sciolgono e i veleni restano, però si trova una mediazione, per quanto abborracciata, per evitare una spaccatura insanabile ancor prima del congresso, che si terrà dal 17 al 20 luglio.
Così si è stabilito di nominare un comitato di gestione di dodici persone che rappresentano tutte le diverse anime del partito. Sarà quest'organismo, dove non ci sono i «big», a portare il partito all'appuntamento delle assise nazionali. E lì si vedrà, perché in quella sede i numeri sono diversi da quelli del comitato politico e Nichi Vendola ha un forte «appeal» anche tra coloro che tifano per Paolo Ferrero perché vogliono la falce, il martello e la dizione comunista nel nome del partito.
È naturale che a questo punto il percorso immaginato da Fausto Bertinotti andrà riveduto e corretto, anche se dovesse vincere Vendola. Ormai sciogliere Rifondazione in qualcosa di più grande diventa un'impresa impossibile. Piuttosto si pensa a un percorso simile a quello della «Cosa 2» inaugurata da Massimo D'Alema a Firenze. Il paragone non porta bene, perché quell'esperienza finì in un fiasco, ma la strada sarà questa: allargare Rifondazione (cambiandole il nome senza però scioglierla) coinvolgendo le altre anime della sinistra.
Di tutto ciò, però, non si è parlato nel parlamentino rifondarolo. Dove, per la verità, non si è neanche discusso del «che fare». Ossia di come andare avanti, di come recuperare il rapporto con gli elettori e con la realtà. Scambi d'accuse, lamenti, mea culpa più o meno sinceri: un dibattito tutto rivolto all'interno.
Ha cominciato Paolo Ferrero, che dal palco ha giudicato «eticamente inaccettabile» il comportamento di Fausto Bertinotti e di tutti gli altri che pur «senza dirlo» puntavano a «precostituire lo scioglimento di Rifondazione comunista ». Ha invece cercato di non acuire le tensioni l'ex capogruppo del Prc a Montecitorio Gennaro Migliore (che di Ferrero è stato in questi tempi il grande avversario). Ma Elettra Deiana, scandalizzata dalle parole del ministro rifondarolo è andata giù dura: «La lezione di moralità di Paolo è indecorosa».
Poi è stata la volta di Nichi Vendola. Il presidente della Puglia ha invitato il partito a «non rinchiudersi in un fortino », a non fare del Prc una «miniatura del passato», e ha sollecitato i dirigenti di Rifondazione ad avere «più umiltà e meno spocchia».
Solo così, secondo Vendola, potranno comprendere che la realtà italiana è cambiata: è «fluida e in movimento» e non è più quella che loro immaginano.
Quindi il parlamentino del Prc si è trasformato in uno sfogatoio. C'era chi accusava Bertinotti di ogni nefandezza, ma, soprattutto, di essersi fatto eleggere presidente della Camera. E c'era chi metteva sul banco degli imputati tutti i dirigenti del partito forniti di auto blu.
Ed effettivamente, fuori dal centro congressi dove si svolgeva il comitato politico di Rifondazione, le auto oggetto dello scandalo c'erano. Una decina suppergiù, assai meno di quelle che si vedono davanti agli altri partiti, ma sempre troppe per i rifondaroli.
Alla fine è toccato a un commosso Franco Giordano dare il suo «addio» al partito. Con una frecciata che solo pochi in quella sala hanno capito a chi fosse veramente rivolta. L'ex segretario di Rifondazione comunista ha puntato l'indice contro coloro che prima non volevano uscire dal governo e che ora accusano lui di essere stato troppo prono a Romano Prodi. «Il riferimento — spiegava alla fine Giordano a due compagni di partito — è a Paolo. Dopo la manifestazione sul Welfare valutammo anche l'eventualità di uscire dal governo. Ma il primo a opporsi fu proprio lui...».

l'Unità 21.4.08
Paolo Uccello. Quel simbolo scambiato, un giallo rinascimentale
di Michele Emmer


PAOLO UCCELLO veniva rimproverato da Donatello di avere la fissazione della prospettiva e del «mazzocchio», una forma ad anello molto difficile da disegnare. Ora quella figura ritorna in un’opera di Paladino all’Ara Pacis di Roma...

«Paolo Uccello, eccellente pittore fiorentino, (1397-1475) il quale perché era dotato di sofistico ingegno, si dilettò sempre di investigare faticose e strane opere nell’arte della prospettiva, e dentro tanto tempo vi consumò che se nelle figure avesse fatto il medesimo, più raro e mirabile sarebbe divenuto. Ove altrimenti facendo, se la passò in ghiribizzi mentre visse e fu non manco povero che famoso. Per il che Donato (Donatello) che lo conobbe spesso gli diceva, essendo suo caro e domestico amico: “Eh, Paulo, cotesta tua prespettiva ti fa lasciare il certo per l’incerto”. E questo avveniva perché Paulo ogni giorno mostrava a Donato mazzocchi a facce tirati in prospettiva, e di quegli a punte di diamanti con soma diligenza bizarre vedute per essi». Aggiunge il Vasari ne Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri: «Sotto queste due storie di mano d’altro, più basso, vi fece il Diluvio con l’Arca di Noè… Opera tutta di bontà e d’eccellenza infinita che gli acquistò grandissima fama. Diminuì le figure ancora per via di linee in prospettiva, e fece mazzocchi et alter cose in tale opra certo bellissime».
L’opera di Paolo Uccello si trova nel chiostro verde della Basilica di Santa Maria Novella a Firenze, la cui facciata, di splendidi marmi, restaurata, è stata da qualche giorno liberata dalle impalcature, esempio unico di facciata rimasta come la progettò Leon Battista Alberti. Anche nella famosa Battaglia di San Romano sempre di Paolo Uccello, compaiono mazzocchi.
A partire dal 1422 circa Masolino, con l’aiuto di Masaccio, lavora alla Cappella Brancacci a Firenze. La cappella Brancacci è situata all’interno della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. Masaccio applica alla pittura le nuove teorie rinascimentali sulla prospettiva. I primi affreschi non permettono di stabilire bene la predominanza di un artista sull’altro. Masaccio morirà a soli 27 anni nel 1428 durante un viaggio di studio a Roma lasciando l’opera incompiuta.
In particolare Masolino realizza la Guarigione dello storpio e la Resurrezione di Tabita. A Masaccio sono attribuiti l’impostazione prospettica, i palazzi e la piazza. Le due scene sono separate dal particolare di due personaggi in vestito moderno che passeggiano indifferenti parlando dei loro affari. «Due indicibili giovanottini stoffati e in mazzocchio, da parer sagome per il sarto di moda a Firenze nella stagione 1424-1425», scrisse lo storico dell’arte Roberto Longhi.
Il mazzocchio, dunque. Che cosa era il mazzocchio? Potrebbe derivare dal latino maxuca tramite il diminutivo maxuculus: «quantità di cose strette insieme a guisa di mazzo e quindi gambo sottile pannocchiuto in cima e in modo speciale tallo di radicchio od anche specie di grano grosso. Anello che si forma intorno ad un tronco d’albero. Per similitudine si chiamò così il berretto».
Perché Paolo Uccello era cosi interessato ai mazzocchi e perché Donatello, per bocca di Vasari, lo rimprovera di un suo eccessivo interesse per quella forma geometrica? Certo non era il copricapo che interessava Paolo Uccello, ma quella specie di cerchio sfaccettato che era una stilizzazione geometrica del cappello.
Piero della Francesca (1420-1492) nel libro primo, XXVII, di De prospectiva pingendi, composto negli ultimi anni prima della morte, traccia un mazzocchio in prospettiva, spiegando come si doveva costruirlo.
Margaret Daly Davis nel volume Piero della Francesca’s Mathematical treatises ricorda che la corretta rappresentazione prospettica era di estrema importanza per gli architetti, per i pittori ed inoltre per chi doveva realizzare i meticolosi disegni per i fabbricanti di intarsi, come ricorda lo stesso Piero nella dedica a Guidobaldo del Monte della Summa arithmetica. Chi sapeva ben rappresentare un mazzocchio in prospettiva era un vero maestro.
Alan e Judith Ferr Tormey scrivono un articolo sul Scientific American nel 1982 intitolato Renaissance Intarsia: the Art of Geometry: «Alla metà del XV secolo avvenne una importante trasformazione nell’arte dell’intarsio che passò dall’essere considerata una attività decorativa e di abbellimento di secondaria importanza per diventare l’arte geometrica per eccellenza. I pannelli ad intarsio rappresentano nella stragrande maggioranza architetture complesse, immaginarie o reali in prospettiva, come se fossero viste attraverso una finestra aperta. Praticamente ogni pannello è una illusione di prospettiva tridimensionale. L’improvviso fiorire e la susseguente grande fortuna dell’intarsio coincideva con la sforzo di dare all’arte una base matematica, e la storia dello sviluppo di quest’arte esemplifica molto efficacemente la fusione di arte, matematica e filosofia durante il Rinascimento».
Era quindi del tutto evidente che i pannelli ad intarsio più interessanti era quelli che contenevano oggetti geometrici. Aggiungeva Daniele Barbaro che la costruzione del mazzocchio era considerata molto difficile anche alla fine del XVI secolo. Proprio per questo il mazzocchio diventa il simbolo della geometria e compare nei lavori più interessanti ad intarsio, nel Duomo di Modena ad esempio.
Ai maestri di prospettiva si rivolgeva la classe culturalmente più elevata, per realizzare studioli simboli di un’ideale solitudine riflessiva. Le tarsie per lo studiolo di Federico da Montefeltro a Palazzo Ducale di Urbino vengono realizzate tra il 1474 e il 1476 da Baccio Pontelli.
Nel 1519, qualche anno dopo la morte di Piero, fra’ Giovanni da Verona realizza i pannelli ad intarsio per il Monastero di Monte Oliveto Maggiore vicino Siena.
I Tormey suggeriscono che fra’ Giovanni doveva forse avere avuto accesso ad alcuni disegni di Piero o di altri. Nell’articolo, sulla base del libro di Daniele Barbaro, Pratica della Prospettiva (1569), e di quello dello storico della matematica tedesco G.I. Kern, i Tormey forniscono una possibile via per disegnare in prospettiva un mazzocchio, forma presente in ogni serie di intarsi dell’epoca.
Cose di altri tempi, si dirà. Le forme geometriche archetipo, ed il mazzocchio sicuramente lo è, non spariscono, riappaiono, ritornano. Un grande mazzocchio di metallo, nero, con segni, numeri cifre, oggetti geometrici, simboli di infinito. Dove? All’Ara Pacis, a Roma, davanti all’Ara della pace di Augusto. Dentro il grande contenitore bianco di Richard Meier, che tante polemiche ha suscitato. Un grande mazzocchio nero, simmetrico, immutabile, inciso, scolpito, immobile ed eterno. In eterno contrasto con la pietra bianca dell’Ara, ma suo completamento inevitabile. Una forma moderna ed antica, che rimanda, richiama, ricolloca eppure inventa un nuovo spazio, una nuova geometria, un nuovo movimento. Creato ripensando a Paolo Uccello da quel sognatore di forme e di numeri che è Mimmo Paladino. Un semplice cappello Rinascimentale? Un semplice esercizio di abilità prospettica? Un simbolo della eterna immutabilità dell’arte e della sua altrettanto eterna mutevolezza. Simbolo della modernità, della essenzialità, segno antico del nostro tempo.

Repubblica 21.4.08
Scalfari e il Sessantotto
Il fondatore di "Repubblica" al festival della filosofia che si è chiuso ieri a Roma
di Laura Lilli


Sabato sera, all´Auditorim di Roma, in una sala Sinopoli silenziosa e gremita di sessantottini appesi al filo della sua voce (teste maschili calve o brizzolate, imbionditi i primi capelli bianchi delle teste femminili), Eugenio Scalfari, interrogato e sollecitato da Antonio Gnoli, ha parlato del Sessantotto nell´ambito del Festival della Filosofia che quest´anno, come è noto, è dedicato precisamente a quell´anno tanto discusso. Come lo ricorda un così rappresentativo testimone del nostro tempo? Cosa ne rimane? Com´era l´Italia di allora?

Quel che resta del "movimento" secondo il giornalista ospite della rassegna all´Auditorium
Nel 1969 avrebbe dovuto operarsi la saldatura tra operai e studenti, ma non fu così
Ogni cosa veniva riportata al "qui e ora", una resa al presente che dura ancora oggi

È colpa del Sessantotto se la Lega ha preso una valanga di voti alle ultime elezioni? Secondo Eugenio Scalfari, in una certa misura, culturalmente, lo è. Nelle sue richieste (o meglio, pretese), la Lega, infatti, a suo avviso, ha in testa lo stesso approssimativo e prepotente sistema di valori, la stessa morale individualistica incurante del bene comune, e lo stesso motto ("Tutto e subito") agitato nel Sessantotto. Sabato sera, all´Auditorim di Roma, in una sala Sinopoli silenziosa e gremita di sessantottini appesi al filo della sua voce, (teste maschili calve o brizzolate, imbionditi i primi capelli bianchi delle teste femminili), Eugenio Scalfari, interrogato e sollecitato da Antonio Gnoli, ha parlato del Sessantotto nell´ambito del Festival della Filosofia che quest´anno, come è noto, è dedicato precisamente a quell´anno tanto discusso. Come lo ricorda un così rappresentativo testimone del nostro tempo? Cosa ne rimane? Com´era l´Italia di allora?
Gnoli traccia un profilo del suo interlocutore, e ne annuncia il prossimo libro da Einaudi, L´uomo che non credeva in Dio. Aggiunge: «Il Sessantotto è una data che contiene più date, e che in questi quarant´anni è stata oggetto di rimozioni, oblii, giudizi semplificati, interpretazioni dissonanti, ancora da ricollegare. Si tratta di un evento non esaurito, in cui è presente almeno un elemento irrisolto: la violenza, una tabe che il "Movimento" si è portato dietro fin dal principio, e che ne ha condizionato il giudizio fino alla criminalizzazione».
Scalfari, sulle prime, non sembra affatto un nemico del Sessantotto. Ci sono un antefatto e un "fatto", afferma, sostenendo che il Sessantotto in Italia è cominciato nel Sessantanove, con il famoso "autunno caldo" (qualche lieve mormorio in sala, qualche rara testa si scuote, in segno di disaccordo. Probabilmente sono piemontesi, e devono aver partecipato, nel 1967, all´occupazione di Palazzo Campana, a Torino, che "il Movimento" ha sempre visto come il proprio inizio italiano). Ma Scalfari insiste sulla sua datazione, ricordando anche Piazza Fontana, che fu a sua volta nel 1969, e l´ingrossarsi del movimento a Milano oltre che a Roma (torinesi sempre esclusi). Aggiunge: «Nell´autunno caldo avrebbe dovuto operarsi l´auspicata saldatura fra studenti e operai che non si operò: i primi volevano "l´immaginazione al potere" e che "il privato fosse pubblico", i secondi dei nuovi e buoni contratti». Sì, ammette, «ci fu qualche precedente italiano, come quello di Architettura a Roma, o perfino il Gruppo ‘63, che voleva rivoluzionare la letteratura. Ma quello che io chiamo l´"antefatto" fu internazionale. Veniva, sul piano del costume, dall´Inghilterra (Mary Quant e la minigonna, i Beatles, i Rolling Stones eccetera) e sul piano dei contenuti - pacifisti - dagli Stati Uniti, dove la guerra del Vietnam fu avversata in ogni modo nelle università californiane e di New York. Slogan come "Mettete fiori nei vostri cannoni", o "Fate l´amore e non la guerra" trovavano entusiasta la mia generazione (all´epoca avevo 44 anni). Eravamo stati educati al bellicismo fascista, ed eravamo, per contrasto, totalmente pacifisti. Quei "figli dei fiori" li consideravamo nostri figli. Parlo, beninteso, della borghesia liberale di sinistra in cui mi riconoscevo con la quale - e per la quale - avevo partecipato alle esperienze giornalistiche de Il mondo e L´Espresso. Repubblica verrà più tardi. Lì la scommessa borghese la facemmo ma la perdemmo. Le ragioni per cui il giornale andò bene sono altre».
Quell´anno, ricorda Gnoli, Scalfari era deputato indipendente nelle liste socialiste. Il direttore non ha un ricordo travolgente della esperienza in Parlamento. «Che conoscevo bene, ma da giornalista. Altra cosa era sedervi come attore. Il primo giorno, nel Transatlantico, incontrai il mio vecchio amico Giorgio Amendola. Mi predisse che non sarei stato a mio agio. Abituato com´ero, da giornalista, a vedere immediatamente il risultato del mio lavoro, qui "avrei dovuto abituarmi a costruire castelli di sabbia. Asciutta", precisò. Ben presto mi accorsi che aveva ragione». Tra le attività dello Scalfari deputato ci fu quella di fare, con altri deputati, da mediatore fra la polizia e il "Movimento" all´epoca dei primi cortei. «Che non erano autorizzati. Gli studenti non riconoscevano l´autorità della polizia, e volevano sfilare liberamente, senza bisogno di autorizzazioni. La polizia diceva: "Se non ci dicono dove vanno, noi saremo costretti a scioglierli", che significava botte da orbi. Allora noi chiedevamo a qualche organizzatore: dove andate? Quello - che sapeva benissimo perché glielo avevamo chiesto - ce lo diceva, e noi lo riferivamo alla polizia, che organizzava il servizio d´ordine. Però ci diceva anche: allora sarete voi garanti del corteo? Noi rispondevamo sì, e prendevamo la testa della sfilata portando cartelli che dicevano "Gli studenti sfilano contro il fascismo". Così la prima parte del corteo camminava muta, mentre dietro si urlava: "Fascisti, carogne, tornate nelle fogne", "Borghesi, ancora pochi mesi", "Una risata vi seppellirà". A volte funzionava. Altre volte non ci rivelavano il loro percorso. O ce lo dicevano, e poi andavano altrove. E così le botte continuavano. Intanto, in noi cresceva un certo disagio. Eravamo pacifisti, di un puritano pacifismo ghandiano. La cannabis e la liberazione sessuale ci lasciavano interdetti».
Gnoli allarga l´orizzonte "rivoluzionario". «Nel 1967 muore il Che e diventa un´icona. C´era stato il Concilio Vaticano II, che fece presa su molti studenti, di cui poi si disse che molti sarebbero diventati terroristi. Ci fu la rivoluzione culturale cinese, in cui personaggi come Sartre o Godard credettero al punto che Sartre andò a distribuire nelle mense il giornale Servire il popolo. C´è la primavera di Praga... e l´università di Varsavia che si muove sotto l´occhio ostile di Breznev, un uomo restituiro dai ghiacci... («... e ci sono gli inglesi e i francesi a Suez...», aggiunge Scalfari")». Insomma, un quadro internazionale in cui, se non tutto, molto è in ebollizione e anche in contraddizione. I temi del movimento sono contraddittori e complessi, e generano equivoci. Qualcuno vuole la centralità operaia, qualcun altro vuole riscoprire la soggettività. Le resistenze di Scalfari sono solo generazionali?
«Di grave io vedo l´abolizione dei ruoli, padre-figlio, maestro-allievo e così via, che porta diritto alla rescissione della memoria storica. Si decide tutto in assemblea o al collettivo, figurarsi se si può riconoscere l´autorità costituita e accettare il suo sapere (magari per rifiutarlo più tardi), che appunto significa memoria storica. Tutto viene riportato al "qui e ora", e, mancando di passato, non si è in grado (né lo si vuole) di progettare il futuro. Questa "resa al presente" e al "qui e ora" al "tutto e subito" dura ancora oggi. Gli ultimi quarant´anni sono stati scanditi dal presente. È questo che io vedo in comune con la cultura (o incultura) della Lega, ma non solo di quella. Siamo in una palude culturale (e politica) generata dal Sessantotto, che è stato una rivoluzione non riuscita. Alla fine del mio libro L´autunno della repubblica, io paragono una rivoluzione a un fiume che straripa. Dopo di che può: rientrare nel suo letto, lasciando un terreno fertilizzato, o scavarsi un nuovo letto. Ma può anche non fare né una cosa né l´altra: fermarsi e diventare palude. Porterà solo malaria e zanzare».

Repubblica 21.4.08
Dna. L'anima gemella è scritta nei geni
Basta raccogliere un campioncino di saliva con un kit In poco tempo arrivano i contatti
di Micol Passariello


In amore è tutta una questione di chimica. Letteralmente. A dimostrarlo, la prima agenzia di dating che accoppia single sulla base del loro Dna. ScientificMatch. com, questo il nome del servizio, è stata fondata a dicembre, con uffici a Boston e sportelli virtuali nel web, dall´ingegner Eric Holzle. La sua curiosità è stata stimolatada una ricerca compiuta dal professor Claus Wedekind, nell´università di Berna, Svizzera. Gli studi partivano dalla tesi secondo cui tra uomo e donna l´intesa dipenda da una questione di olfatto: tanto più l´odore dei due è differente, più è probabile che scocchi la scintilla. Riprendendo le redini di precedenti ricerche compiute sui topi, Wedekind aveva provato la dipendenza genetica tra due persone, con uno studio in due tempi. Una prima fase consisteva nell´analisi delle reazioni di due campioni di uomini e donne, sottoposti a stimolazione olfattiva: veniva chiesto loro di annusare i capi indossati da un rappresentante del sesso opposto, per poi dare un voto all´attrazione provata per quell´ odore: donne con odori simili tendevano ad essere attirate da uomini con odori somiglianti. Nella seconda fase, si analizzava il Dna: gli odori più distanti appartenevano a codici genetici differenti. Il perché è racchiuso in tre lettere: Mhc, Major Histocompatibility Complex, l´insieme dei cromosomi che influenzano la secrezione dei tessuti e gli odori. Quindi, se l´attrazione tra due persone è basata sulla chimica prodotta dai geni Mhc, più gli individui hanno Dna diversi, più è alta l´affinità tra loro. Non basta. La coppia geneticamente più assortita risulta essere più fertile e, se decidesse di mettere su famiglia, darebbe vita a figli più forti.
In ScientificMatch crede persino il dottor Dean Hamer, Direttore del U. S. National Cancer Institute, specializzato nello studio della struttura genetica sostiene: «Sono molti gli studi che dimostrano l´evidenza del peso del Dna in ogni angolo della nostra vita. In amore, il primo approccio è una questione di naso, confermata poi dalla disposizione cromosomica. L´Mhc è una parte del genoma. È per questo che le preferenze vanno di solito a membri con un diverso genotipo: è una mossa inconscia, che garantisce alla discendenza un sistema immunitario più versatile».
Per cercare la perfetta anima gemella, l´agenzia dell´Ingegner Holzle sottopone i suoi single ad un test personalizzato del Dna, concentrandosi sui geni Mhc. Il laboratorio di ScientificMatch spedisce un kit per il prelievo del Dna, composto da un paio di tamponi in cotone sterilizzati da passare nella parete della guancia. Il laboratorio analizza il Dna, ne inserisce la composizione nel database del computer e tenta legami ideali. Dopo due settimane, la sentenza e con essa una serie di contatti, protetti dalla privacy. Costo, poco meno di duemila dollari.
A sollevare obiezioni è Marc Siegel, professore di psicologia alla NYU School of Medicine. «Ci stiamo dirigendo verso la chiara conoscenza della mappa genetica e presto riusciremo a interpretare le preferenze riconducendoli al Dna, ma, per avere certezze, di strada la scienza ne deve fare ancora molta. E poi, anche ammettendo che questo sistema abbia un ampio margine di verità, dove la mettiamo la magia di un incontro?».

Repubblica 21.4.08
Salvator Rosa. L'artista più amato dai romantici


Lavorò a lungo per la corte medicea ma dopo una lite tornò a Roma
Il merito di aver ristabilito la realtà è di Luigi Salerno con la biografia
Il mito di un personaggio guascone, mago, filosofo e brigante
Per la prima volta l´Italia dedica un´intera rassegna all´esuberante pittore: al museo di Capodimonte

NAPOLI. Rimasto finora ai margini della grande abbuffata espositiva di questi ultimi decenni, Salvator Rosa è tornato prepotentemente alla ribalta in questi mesi, prima come uno dei principali poli d´attrazione dell´eccellente rassegna sulla pittura napoletana del ‘600 nelle collezioni medicee, tenutasi di recente agli Uffizi, ed ora, nella sua Napoli, come protagonista assoluto della prima mostra monografica che gli sia stata dedicata in Italia (Salvator Rosa tra mito e magia, Museo di Capodimonte, fino al 29 giugno).
Nato nel 1615 a Napoli, ma attivo principalmente in Toscana, dove si trattenne per nove anni al servizio dei Medici, e a Roma, dove svolse la maggior parte della sua carriera morendovi nel ‘73, Rosa fu un artista vivacissimo e dalla personalità esuberante, che non si limitò a produrre un gran numero di dipinti, ma si cimentò in molteplici attività, atteggiandosi a filosofo, scrivendo componimenti poetici, dilettandosi di musica e recitando in commedie.
Apprezzatissimo in vita soprattutto per i suoi quadri di genere - furiose battaglie, paesaggi aspri e selvatici animati da figurine di zingari, pitocchi e soldati di ventura, ma anche soggetti capricciosi a sfondo stregonesco - , Rosa godette di un´immensa fama postuma, specie tra fine Sette e Ottocento, ma tale da stravolgerne completamente la reale fisionomia storica. Affascinato dai suoi istrionici autoritratti e dai suoi dipinti, interpretati in chiave di sublime e pittoresco, il Romanticismo europeo, ed in particolare d´Oltremanica, confuse allegramente arte e vita, scambiando il pittore per i suoi personaggi e costruendo il mito di un artista guascone ed abile spadaccino, mago e alchimista, per metà filosofo e per metà brigante, in un crescendo onirico il cui estremo prodotto fu addirittura un delizioso film girato da Blasetti nel ‘39, in cui il giovane Gino Cervi interpretava la parte di un Rosa vezzeggiato dalla corte napoletana, ma che in segreto, nascondendosi sotto una maschera carnevalesca, riattizzava la ribellione popolare, sopita dopo l´amaro fallimento di Masaniello.
Il merito di aver demolito l´ingombrante sovrastruttura che si era incrostata sulla figura storica del Rosa va attribuito principalmente a Luigi Salerno, che dedicò al pittore una monografia nel 1963. Ma nell´immagine dell´artista delineata da quella meritoria revisione storiografica sopravvive ancora qualche residuo del mito romantico che ne ha offuscato per secoli la vera identità.
L´identikit tratteggiato da Salerno è senz´altro più attendibile, ma forse ancora un po´ troppo sbilanciato in favore di un´interpretazione del pittore come fiero esponente del «dissenso», artista che in nome dello stoicismo denuncia il lusso delle corti, anticipando con i suoi atteggiamenti, laici e spregiudicati, i philosophes dell´età dei Lumi.
La grande mostra monografica che si è aperta in questi giorni a Capodimonte non è pertanto solo un evento di richiamo per il grande pubblico, ma anche una preziosa occasione di studio in vista di un più aderente e approfondito bilancio critico su questo artista singolare, ma ancora un po´ misterioso. Ne è garanzia l´ampia ed intelligente selezione compiuta dal Comitato scientifico presieduto da Marco Chiarini, che ci consente di ammirare e confrontare tra loro oltre ottanta dipinti dell´artista, cui si affianca un´adeguata rappresentanza di sue incisioni.
Rosa è artista eclettico che sa abbeverarsi alle fonti più diverse, ma non dimentica mai l´imprinting ricevuto a Napoli dal cognato Francesco Fracanzano, e soprattutto dal vivace e colorito naturalismo di Aniello Falcone. A Roma, dove si recò poco più che ventenne, si fece subito apprezzare per i soggetti di genere, ma si segnalò anche per l´intraprendenza e l´aggressività polemica con cui attaccava l´establishment culturale dominato da Bernini. Il biografo Giovan Battista Passeri, che lo conobbe bene, ce ne offre un ritratto vividissimo: «Salvatore fu di presenza curiosa, perché essendo di statura mediocre, mostrava nell´abilità della vita qualche sveltezza e leggiadria: assai bruno nel colore del viso, ma di una brunezza africana, che non era dispiacevole. Gl´occhi suoi erano turchini, ma vivaci a gran segno; di capelli negri e folti, li quali gli scendevano sopra le spalle ondeggianti e ben disposti naturalmente. Vestiva galante, ma senza gale e superfluità».
A Roma entrò in contatto con quegli ambienti intellettuali che si ispiravano al classicismo e alla filosofia stoica, attorno ai quali ruotavano anche pittori del calibro di Poussin e di Pietro Testa, ma fu a Firenze, dove si recò nel 1639 trattenendosi per quasi un decennio, che strinse i maggiori legami intellettuali: con scienziati come Evangelista Torricelli, allievo di Galilei, e con letterati come Valerio Chimentelli, Andrea Cavalcanti e il cattedratico di Pisa Giovan Battista Ricciardi, che gli rimase indefettibilmente amico per tutta la vita. Con essi Rosa fondò l´Accademia dei Percossi, che si riuniva nella sua dimora della Croce al Trebbio per rianimare l´antica usanza delle Compagnie fiorentine, organizzando cene a tema, in cui si recitavano poesie satiriche e ci si cimentava nella recita di commedie «all´improvvisa».
Comincia a manifestarsi già a Firenze, dove l´artista lavora intensamente per la corte medicea e la nobiltà cittadina, quel dissidio tra l´inclinazione di Rosa a dipingere grandi quadri di storia, in cui riversare temi allegorico-filosofici tratti dalle fonti classiche, e il favore di una committenza che di lui apprezzava soprattutto le battaglie, le marine, i paesaggi aspri e pittoreschi e i capricci negromantici. Un dissidio che si acuirà ancor più dopo il definitivo ritorno dell´artista a Roma nel ‘48-´49, e su cui vale di nuovo la pena di citare un illuminante brano del Passeri: «Gran contrasto hebbe nell´animo suo per voler sostenere che le figure di sua mano della grandezza del naturale fussero della stessa vaglia quanto quelle di minore proporzione...et era entrato in una smania così inquieta per tante opposizioni che ne sentiva, che si era stabilito di non voler mai più dipingere quadri in piccolo...Sentiva dirsi che in grande egli era assai mancante nel disegno quanto alle parti, e che il colorito di quel genere non era adattato né naturale, che le tinte delle sue carni erano di legno e senza sangue, e che l´arie delle teste erano tutte dispettose...che li suoi panni non formavano pieghe elette...che poco intendeva l´ignudo...Si travagliava quando sentiva lodarsi che nelli Paesi occupava il primo luoco nella gloria, nelle marine era singolare, in macchiette e componimenti minuti di capricciose invenzioni prevaleva ad ogni altro, nelle battaglie era unico; nel capriccio e nelle invenzioni delle storie pellegrine e recondite toccava il segno maggiore; nella maestria del pennello non haveva uguale, nell´armonia del colore era il maestro; ma nelle figure grandi perdeva tutte quelle sue buone qualità, perché gli mancava il principale che gl´è lo studio».
Un giudizio per tanti aspetti impietoso e non immune da pregiudizi accademici, ma che, a conti fatti, mi sento di poter sottoscrivere in massima parte.

Corriere della Sera 21.4.08
Affondo di Jean Ziegler contro i biocarburanti: «Crimine contro l'umanità»
L'inviato Onu: «La crisi del cibo è uno sterminio silenzioso»
E Ban Ki-moon: «A rischio progresso sociale e sicurezza»
di Danilo Taino


Sott'accusa i sussidi Ue: «Così gli agricoltori producono meno per evitare eccedenze e sostenere i prezzi»

BERLINO — La crisi alimentare globale sta diventando un problema politico molto serio in Europa. Ieri, il relatore speciale dell'Onu per il diritto al cibo, Jean Ziegler, ha sostenuto che gli aumenti dei prezzi di grano, mais, riso, soia stanno spingendo verso «un omicidio di massa silenzioso» nei Paesi più poveri. Pochi giorni fa, aveva detto alla radio tedesca che la produzione di biocarburante — che è un obiettivo dell'Unione Europea, ma aliena terreni alla produzione alimentare — è «un crimine contro l'umanità».
L'inviato Onu ci mette molta ideologia nel sostenere l'allarme. Ma la questione è così seria che anche la politica continentale inizia a preoccuparsene. Ieri, il ministro dell'Agricoltura tedesco, Horst Seehofer, ha detto in un'intervista che la Politica agricola comunitaria (Pac) deve essere rovesciata: negli ultimi anni — ha notato - ha spinto gli agricoltori, con il sistema dei sussidi, ad abbandonare 3,8 milioni di ettari di terreno produttivo, per evitare le eccedenze di latte, carne, vino e per sostenere i prezzi. «Abbiamo bisogno di un rinascimento agricolo — ha sostenuto — e di un aumento della produzione in Germania, nella Ue e, soprattutto, nei Paesi in via di sviluppo». Anche Ziegler aveva messo i sussidi della Pac tra i fattori responsabili dell'esplosione dei prezzi, assieme a biocarburanti, aumento dei consumi mondiali e speculazione finanziaria.
Secondo l'Onu, dal gennaio 2007, i prezzi dei prodotti alimentari di base sono aumentati del 55%. Ciò ha portato a rivolte popolari in alcuni Paesi e al blocco delle esportazioni agricole in altri. Le scorte sono a livelli minimi. Fenomeni che non si verificavano da decenni. Ieri lo stesso segretario generale dell'Onu ha lanciato un grido d'allarme: aprendo la Conferenza sul commercio e lo sviluppo ad Accra, in Ghana, Ban Ki-moon ha detto che «se l'attuale crisi non viene affrontata correttamente, potrebbe scatenare una cascata di altri crisi multiple», spiegando che questo si ripercuoterà «sulla crescita economica, il progresso sociale e la stessa sicurezza politica mondiale».
Una decina di giorni fa, l'Agenzia europea per l'Ambiente aveva raccomandato alla Commissione di Bruxelles di sospendere i suoi obiettivi di introduzione del bioetanolo, perché ciò sta già portando in molti Paesi alla distruzione delle foreste per fare spazio alle nuove produzioni. Peter Brabeck-Letmathe, il presidente della Nestlé, ha sostenuto che «assicurare enormi sussidi per la produzione di biocarburanti è moralmente inaccettabile e irresponsabile », e ha aggiunto che se non si cambia direzione «non resterà niente da mangiare».
L'allarme lanciato su un giornale austriaco ieri da Ziegler, che arriva dopo quello molto autorevole della Banca Mondiale la settimana scorsa, è accompagnato da un'analisi discutibile. L'inviato Onu sostiene che la globalizzazione sta «monopolizzando le ricchezze della terra» e che le multinazionali sarebbero responsabili di una «violenza strutturale». «Abbiamo — aggiunge — un gregge di operatori di mercato, di speculatori e di banditi finanziari che sono diventati selvaggi e hanno costruito un mondo di disuguaglianze e orrore: dobbiamo mettere una fine a tutto questo». Diversamente, la gente si ribellerà: «È possibile, proprio come lo è stata la Rivoluzione Francese». Molta ideologia, ma è un fatto che il problema sia uno dei più seri che il mondo debba affrontare oggi. Sia la Politica agricola comunitaria sia la scelta di usare bioetanolo nei carburanti sono strade che la «ricca» Ue ha deciso di seguire nel suo modo di relazionarsi al resto del mondo: per difendere i suoi agricoltori o per difendere l'ambiente. Se però ieri sembravano inadeguate perché non tenevano conto delle esigenze dei Paesi emergenti, oggi appaiono addirittura distruttive degli equilibri internazionali. Questioni non solo europee: gli Usa non sono da meno. Ma, decisamente, anche europee.

Corriere della Sera 21.4.08
In un piccolo istituto medio di Pieve Ligure. A Genova denunciato il figlio di un ex assessore prc. Scriveva: «Morte al Papa»
Arriva il capo dei vescovi, rivolta a scuola
No a Bagnasco di alcuni genitori e insegnanti. La preside: attività alternative per chi non lo ascolta
di Erika Dellacasa


La protesta accompagnata da un documento scaricato dal sito Internet dell'Unione atei e agnostici razionalisti

GENOVA — L'arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco prepara una visita nella scuola media di Pieve Ligure, un piccolo comune del Golfo Paradiso, e scoppia un caso. La visita in orario di lezione, domani, non è piaciuta ad alcuni genitori (tre dichiarati, altri defilati) che hanno protestato in nome della laicità della scuola pubblica. Richieste di chiarimenti alla preside, Vanda Roveda, una lettera riservata diventata pubblica, una professoressa che solleva obiezioni, in breve tutto il paese ne parla. La lettera arrivata sul tavolo del consiglio di istituto, che ha poi approvato la visita con un solo astenuto, aveva allegato un testo scaricato dal sito dell'Unione atei e agnostici razionalisti. Il testo definisce le visite confessionali nelle scuole: «La legge non consente — scrive la Uaar — che nelle scuole pubbliche statali il normale svolgimento delle lezioni venga modificato per celebrazioni di carattere confessionale ». Gli atei e agnostici consigliano di diffidare la scuola e rivolgersi al Tribunale civile. «Volevamo solo documentare la giurisprudenza in materia — spiega Carla Scarsi, mamma di uno studente — ma soprattutto volevamo chiedere informazioni e ricordare che ci sono regole. Due mesi fa era stata annunciata la proiezione alle elementari di un video sui volontari nelle missioni in Africa. Poi sono venuti in classe dei militari in divisa e hanno proiettato un video con i marines che si paracadutavano ».
Cosa farà a scuola il cardinale Bagnasco? «Non è una visita confessionale — spiega la preside —, non c'è alcun momento di liturgia, niente messe, niente preghiere collettive, è solo un saluto». Ma la situazione ha imposto una nuova organizzazione: «Nessuno è obbligato a partecipare — dice la preside —. I ragazzi che non fanno l'ora di religione avranno a disposizione un'attività alternativa durante la visita. Se qualche professore lo preferisce potrà fare lezione». Quello che la preoccupa, ora, è la scorta di Bagnasco: «Spero che rimangano fuori dalla scuola». Un micro-caso Sapienza? «Ma quale Sapienza — dice don Grilli, vicario del Levante —. Rispetto l'opinione di tutti ma chi contesta è una infinitesima minoranza che non ha capito lo spirito di una visita di cortesia. Non c'è nessuna volontà di ingerenza della Chiesa. Certi atteggiamenti sono frutto di un integralismo laicista. A scuola ci vanno i calciatori e non ci può andare il vescovo? ». Il cardinale Bagnasco ieri era a Roma. «Gli ho spiegato la situazione per telefono — dice don Grilli — e ne ha sorriso con me». Quindi verrà? «Sicuro, sereno come sempre. I problemi sono altri«. Bagnasco è sempre sotto scorta e le misure di sicurezza in attesa della visita del Papa a Genova il 17 maggio sono aumentate. Due giorni fa sono stati denunciati due ragazzi di 17 e 24 anni che scrivevano su un muro «Morte al papa», uno è il figlio di un ex assessore comunale di Rifondazione. Gli Atei e Agnostici preparano uno «sbattezzo » collettivo (la richiesta di essere cancellati dagli elenchi parrocchiali) e manifesti per illustrare «quanto ci costa la Chiesa e questa visita papale». Chi si dichiara esterrefatto per l'arrivo della Digos sono i quaranta curdi riuniti in un ostello a Savona: «Siamo qui per un incontro culturale. Del Papa non sapevamo nulla».

Corriere della Sera 21.4.08
La Storia del fascismo
Giovanni Sabbatucci: Una dittatura anomala. Fu un totalitarismo imperfetto
di Dino Messina


«Una delle domande che ancora adesso non ha trovato una risposta concorde fra gli storici è se il fascismo sia da considerarsi uno Stato totalitario. Hannah Arendt diceva di no e sottolineava le differenze con il nazismo e il comunismo staliniano. Altri studiosi, tra i quali Emilio Gentile, hanno sostenuto il contrario. Non solo perché sviluppò una struttura politica adeguata ma perché creò una mistica che si sarebbe sviluppata ulteriormente se mai la Germania e l'Italia avessero vinto la guerra. Io invece più di una volta ho usato la formula di "totalitarismo imperfetto"».
Storico acuto ed equilibrato, curatore della Storia d'Italia per Laterza, autore tra l'altro dei saggi Il trasformismo come sistema e Le riforme elettorali in Italia, Giovanni Sabbatucci tra le tesi opposte sceglie una soluzione intermedia. E così motiva la sua definizione.
«Il fascismo fu un totalitarismo imperfetto perché, anche se ci fu una forte spinta, gli ostacoli alla sua piena attuazione furono molto forti, a cominciare dalla monarchia e dalla chiesa cattolica. Uno Stato in cui a un certo punto il re può chiamare i carabinieri e far arrestare il Duce non si può definire pienamente totalitario. C'è insomma, a mio avviso, una differenza tipologica con la Germania nazista, e con l'altro termine di paragone, l'Unione Sovietica». Il fascismo costituì tuttavia un modello per il nazismo. «Si presentò subito come un precedente da studiare — argomenta Sabbatucci — il modo in cui un partito-movimento che sembrava minoritario divenne partito- Stato. Il fatto che non fosse mai avvenuta una cosa simile rese inermi coloro che avrebbero dovuto opporsi. La lezione appresa anche da Hitler è che si può anche ostentare il putsch, ma uno Stato democratico si conquista prima dall'interno, come fece Mussolini fra il 1922 e il '26 e come avrebbe fatto Hitler dopo la vittoria alle elezioni del 1933».
Una delle questioni cui gli storici non hanno mai veramente risposto è se Mussolini pensasse sin dagli inizi all'instaurazione di un regime totalitario. «Già tra il 1922 e il 1924 — dice Sabbatucci — era evidente che il fascismo era una cosa diversa da un partito normale. Tuttavia Mussolini, un tattico più che un ideologo, agli inizi era possibilista. Se gli avvenimenti fossero andati in maniera diversa si sarebbe accontentato di una stretta autoritaria, cosa che invece non piaceva all'anima totalitaria del movimento fascista. Chissà, se non ci fosse stato il delitto Matteotti, con tutta l'accelerazione che comportò, e che lo costrinse a reagire, forse le cose sarebbero andate in maniera diversa».
La formazione dello Stato totalitario ha alcune tappe obbligate. Innanzitutto l'organizzazione di un apparato propagandistico mirato a orientare le masse e a formare i giovani. E in questo, osserva Sabbatucci, «il fascismo vinse una serie di conflitti, a cominciare da quello con l'Azione cattolica. Il tentativo di inquadrare la gioventù riuscì pienamente e quando si afferma che i Guf, i circoli della Gioventù universitaria fascista, furono in realtà una scuola di antifascismo si dice una bugia colossale.
Il «totalitarismo imperfetto» secondo Sabbatucci si realizzò nel rapporto con il mondo industriale e con quello degli intellettuali. «Il fascismo fu certo un restauratore dell'ordine e raccolse enormi consensi fra i grandi borghesi finché la sua evoluzione non minacciò di limitarne il potere. Certamente, essi si adattarono all'autarchia e all'economia di guerra e cercarono di approfittarne anche se non ne erano entusiasti. Non fu mai lo strumento dei padroni del vapore, come hanno sostenuto i marxisti e studiosi come Ernesto Rossi».
«Non condivido inoltre — dice Sabbatucci — l'analisi di Norberto Bobbio secondo il quale una certa cultura riuscì ad attraversare il fascismo senza esserne toccata. A parte Benedetto Croce e pochi fuoriusciti, già alla fine degli anni Venti il consenso del mondo intellettuale verso il fascismo era pressoché totale. C'erano le grandi figure, vicine ma non omogenee al regime, come Filippo Tommaso Marinetti o Gabriele D'Annunzio. C'erano i rappresentanti della cultura alta che aderirono in maniera motivata al fascismo, da Giovanni Gentile a Gioacchino Volpe e Guglielmo Marconi. C'erano intellettuali come Ugo Ojetti, che in quanto promotore di un primato italiano poteva essere assimilato al regime. Il consenso era grande fra i giovani scrittori, da Corrado Alvaro a Vitaliano Brancati. E lo era anche nel mondo delle arti e dell'architettura, dove il fascismo lasciava coesistere razionalismo e classicismo, avanguardia e tradizione ».
A differenza del nazismo o del comunismo sovietico, «il fascismo lasciò una certa libertà agli intellettuali, come dimostrò l'esperienza di Giuseppe Bottai. Ma ciò non significa che non fosse totalitario. Seppure imperfetto».

Corriere della Sera 21.4.08
Simona Colarizi. La questione tabù
Il regime trovò consensi anche nelle fabbriche
di D. M.


La questione del consenso al fascismo, e quindi lo studio dell'opinione pubblica durante il regime, è rimasto un argomento tabù per un paio di decenni dopo la fine della guerra. Si deve agli studi di Renzo De Felice, a partire dalla metà degli anni Sessanta, e alle polemiche feroci che ne seguirono se il fascismo poté essere studiato non soltanto in termini di repressione, ma anche di adesione. Tra questi studi si segnala il saggio di Simona Colarizi,
L'opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943, edito nel '91 da Laterza. Come già ci dice il titolo di questo saggio, è evidente che la questione della periodizzazione è essenziale per capire il problema del consenso: «Nel periodo precedente al 1929 — ci dice Simona Colarizi — il vero focus del fascismo riguarda l'imbavagliamento delle opposizioni. La fabbrica del consenso, per dirla con Philip Cannistraro, cominciò a funzionare dopo il 1925, quando le opposizioni erano state debellate, e riuscì a esplicare tutta la sua forza quando il regime controllava pienamente l'opinione pubblica».
Il 1929, e il periodo della grande crisi economica, si caratterizzano secondo la professoressa Colarizi «per il consolidamento del fascismo presso l'opinione pubblica dei ceti popolari, anche se c'è una perdita di consenso nelle classi medie». Ma è con il 1936, con la guerra d'Etiopia, che il regime tocca il massimo dell'isolamento internazionale e del consenso interno. «Dal 1936 al 1940 paradossalmente — continua la studiosa — il consenso comincia a declinare a causa delle grandi scelte del fascismo: alleanza con il nazismo, guerra di Spagna, leggi razziali. L'omologazione con la Germania di Hitler non piaceva agli italiani».
Studiare l'opinione pubblica («allora veniva chiamato spirito pubblico») durante una dittatura pone una seria questione delle fonti. «Nella ricerca — continua Simona Colarizi — bisogna distinguere fra strumenti che servono a formare l'opinione pubblica — come i mass media — e strumenti che servono a rilevarla. Nel primo caso, dai giornali ai documentari, abbiamo molto materiale, nel secondo relativamente poco. Anche se le carte dei prefetti, i rapporti della polizia segreta ci dicono molto sugli umori che sotto traccia percorrevano il fascismo».
A questo punto è necessario scomporre l'opinione perché all'epoca la divisione in classi era molto netta: diverso l'atteggiamento nel corso del ventennio di operai e contadini da quello del ceto medio o da quella che è stata definita «l'opinione del partito di corte». All'interno della questione si pone il problema della galassia cattolica: «Un esempio per studiare le differenze è costituito dalla guerra di Spagna. Avversata dai ceti popolari, perché con essa il fascismo si riproponeva come guardia bianca del capitale e anche perché i volontari erano in realtà dei coscritti, quel conflitto fu invece sostenuto fortemente dall'opinione media dei cattolici».
Infine, un altro grande problema è posto dalle differenze tra Nord e Sud. «Il fascismo trascurò il Mezzogiorno e i rapporti dei prefetti davano l'impressione di calma piatta, non c'erano picchi di adesione e dissenso. Sotto l'atteggiamento passivo si nascondevano in realtà un'inquietudine e una disperazione che emersero pienamente negli anni di guerra. Un distacco dal regime che i federali e i podestà non riuscirono più a governare». Al Nord, invece, il fascismo conquistò consenso anche nelle fabbriche, dove alcuni vecchi consideravano Mussolini un figlio del popolo. E dove attorno al 1939 i giovani operai pensavano che in fondo le tre grandi dittature, nazismo, fascismo e comunismo sovietico, dovessero collaborare».
Il Duce conquistò un picco di consenso nel 1938, «quando durante la conferenza di Monaco venne accolto come salvatore della pace. Subito dopo cominciarono i dubbi e le vociferazioni, in cui ricorrevano gli stessi nomi del '43, da Badoglio a Grandi. Poi arrivò il crollo effettivo».

Corriere della Sera 21.4.08
La studiosa dell'Ucla «copiata» dal filosofo italiano: «Non è la prima volta che plagia testi altrui»
Giulia Sissa: Galimberti si scusi davvero, non cerchi scuse
di Stefano Bucci


«Accolgo le scuse di un mio lettore che, forse, mi stima troppo. Ma per favore: che si scusi e basta!». Giulia Sissa, la ricercatrice e storica dell'antichità (oggi all'Ucla di Los Angeles) non sembra davvero soddisfatta dell'ammissione di colpa del filosofo Umberto Galimberti che ieri ha dichiarato di aver «rielaborato» e «riassunto» nel suo L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli) brani tratti da un saggio della Sissa pubblicato nel 1999 (sempre da Feltrinelli), Il piacere e il male. Sesso, droga e filosofia. E quasi a voler abbassare il livello della sua adrenalina («in questi giorni ha superato ogni limite»), Sissa cita Il nome della Rosa di Umberto Eco: «Ricorda quel manoscritto che lasciava tracce indelebili e velenose sulle dita e sulla lingua dei monaci curiosi? Leggere è fatale. Soprattutto quando si riscrive».
Le scuse, fatte ieri in un'intervista sul «Giornale », hanno ferito Sissa perché «quello di Galimberti non è stato un chiedere scusa, piuttosto un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi ». Il filosofo aveva detto: «Il mio libro è una raccolta di articoli, quelle pagine sono una rielaborazione di una recensione del 23 aprile 1999 che io scrissi parlando de Il piacere e il male di Giulia Sissa. Nella recensione io riassumevo ciò che diceva la professoressa Sissa». Più onesto, per la ricercatrice, il comunicato della Feltrinelli che parlava invece di «riproduzione», sia pure non integrale, della favorevolissima recensione di Galimberti in cui venivano riportati passi del libro della Sissa «senza le virgolette», passi «che ora riemergono dopo otto anni in un capitolo de L'ospite inquietante ».
Ma c'è di più: «Nel libro di Galimberti ci sono note riprese dal mio Il piacere e il male che non esistevano nella recensione del 23 aprile 1999 e che, quindi, devono essere state cercate e trovate nel mio libro». E ancora: «Rispetto alla stessa recensione sono state fatte ulteriori aggiunte prelevate sempre dal mio libro». Eccole: «A pagina 153 del mio libro io riassumo, ma con debito rinvio in nota, le idee dello psichiatra Edward Khantzian. Questo passo non si trova nella recensione del 1999, ma è stato inserito nel pezzo apparso su "La Repubblica" nell'agosto 2007 e poi a pagina 69 dell'Ospite
inquietante ». Oltretutto, dice Sissa, «per colmo dell'ironia Galimberti utilizza le mie parole come fossero una citazione letteraria di Khantzian, così negando anche il lavoro a suo tempo fatto dal traduttore del mio libro, originariamente scritto in francese, Alessandro Serra». Altro esempio: a pagina 69 del suo libro, a proposito dei pazienti anedonici, Galimberti utilizza una espressione ("La finalità del loro gesto identica") attribuendola a Peter Kremer quando invece è mia».
Poi la stoccata finale: «Quello che è successo a me non è, purtroppo, un fatto isolato. Ho appena ricevuto una email da Alida Cresti, una studiosa fiorentina, che citava una sentenza del Tribunale di Roma che in data 30/5/2006 aveva condannato Galimberti per aver pubblicato a sua firma su "La Repubblica" l'articolo La stinta metropoli che spegne le emozioni completamente copiato da un saggio della stessa Cresti» (L'immaginario cromatico, Medical books, 1997). In quel caso il Tribunale aveva riconosciuto «un'attività di plagio dell'opera letteraria respingendo (in data 19/7/2006) il ricorso presentato dallo stesso Galimberti».

il Riformista 21.4.08
Campidoglio, si complica il ballottaggio
Rutelli sotto assedio: «Così rischiamo»
di Stefano Cappellini


Si potesse credere ai sondaggi, quelli che davano Walter Veltroni testa a testa con Silvio Berlusconi, Francesco Rutelli dormirebbe più tranquillo. Perché tutte le rilevazioni hanno sempre continuato a darlo in vantaggio sul rivale Gianni Alemanno in vista del ballottaggio di domenica prossima per eleggere il nuovo sindaco di Roma. Ma sul voto per la capitale gravano ormai troppe incognite e significati per affidarsi a qualsivoglia pronostico: quanto peserà l'astensionismo? La batosta del Pd al livello nazionale produrrà nell'elettorato di sinistra una risposta d'orgoglio o un effetto depressione? Come si distribuiranno i voti centristi? E soprattutto: l'irruzione della cronaca nera in campagna elettorale può lanciare la rimonta di Alemanno? Rutelli è ancora fiducioso, ma a un amico ha confidato: «Stavolta rischiamo di perdere».
Il tema sicurezza, rilanciato dall'aggressione alla studentessa africana a opera di un clandestino romeno, è al momento il cruccio principale dell'ex sindaco. Dopo la conferenza stampa dell'altroieri per ricordare di aver sempre messo in cima alle priorità il dossier sicurezza e rivendicare le espulsioni decretate dal governo lo scorso autunno, il vicepremier ha dovuto giocare in difesa anche ieri. Alemanno è tornato all'assalto: «La ragazza violentata dovrebbe far causa al Comune». Tutto il centrodestra ha puntato l'indice contro la sinistra radicale, alleata di Rutelli a Roma, e accusata di aver affossato il decreto sicurezza varato dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani. E la bordata più pesante è arrivata da Letizia Moratti, indirizzata a Veltroni ma arrivata pure dalle parti di Rutelli: «Nel corso di una riunione sull'emergenza criminalità al Viminale - ha raccontato alla radio il primo cittadino di Milano - Veltroni mi accusò di agitare il tema dell'emergenza sicurezza per fini politici. Qualche settimana dopo, lo stesso Veltroni diceva che eravamo seduti su una polveriera». Ha chiosato Roberto Calderoli: «Veltroni e Rutelli sono come il gatto e la volpe».
Difficile dire chi, tra i due leader del Pd, fosse ieri più nero. «Una canea indecorosa», s'è sfogato Rutelli coi suoi, inferocito «per i tentativi di strumentalizzare» la cronaca: «Nessuno dopo la violenza sessuale a Milano si è permesso di dire una parola contro Moratti». E ancora: «Bisogna ricordare a questi signori che la legge che regola l'ingresso degli immigrati in questo paese si chiama ancora Boss-Fini». Ma l'umore del candidato democrat dipende anche dal fatto che avverte bene quanto è scivoloso il terreno di questa polemica. «A vedere i dati e le statistiche - dice Rutelli - Roma è una delle città più sicure d'Europa, ma purtroppo questo non basta e non accontenta nessuno». Come parlare di cifre, quando la percezione dei cittadini va in direzione opposta? «Noi - ha infatti detto Rutelli di tappa a Torre Angela, periferia molto a rischio - avvertiamo in troppi punti della città una insicurezza crescente, e questo tocca anche al sindaco affrontarlo». Poi, però, ha cercato di restituire il colpo all'avversario: «Dobbiamo sconfiggere il leghismo, che ogni giorno sputa veleno contro Roma e dobbiamo sconfiggere anche i suoi alleati, che non dicono mai una parola in difesa della città». E con una nuova conferenza stampa ha provato a ribaltare le accuse. «Bisogna affrontare uniti il problema della sicurezza e non divisi per polemica o propaganda elettorale. Altrimenti ricorderò ad Alemanno che il governo di cui era membro approvò una sanatoria per 141.620 romeni, una direttiva che non prevede il divieto di rientro per i cittadini romeni allontanati dal nostro paese, abolì il visto per i cittadini romeni e non ha previsto alcun limite all'ingresso di cittadini romeni». Ma i problemi nel gestire la comunicazione su questi temi sono sempre i medesimi. Dallo schieramento avversario si rinfaccia all'ex leader della Margherita la palla al piede degli alleati di sinistra. E, al tempo stesso, tenere insieme il proprio fronte è ormai un'operazione di equilibrismo continuo: aprendo a sinistra, si sfarina il centro. Inseguendo Casini, si scatena il malessere dall'altra parte. È bastata una mezza giornata di dibattito sulla sicurezza perché dal comunista Marco Rizzo arrivasse la minaccia della diserzione "rossa" del ballottaggio: «Se il centrosinistra copia il centrodestra sulla sicurezza, perché il popolo dovrebbe votarli?».
E Veltroni? Se possibile, per il leader del Pd queste ore sono persino peggiori di quelle successive alla sconfitta da Berlusconi. Sceso in campo per sostenere l'aspirante successore, il sindaco uscente è sotto attacco insieme al suo «modello Roma». Anche lui molto irritato con Moratti: «Se c'è violenza a Milano, è colpa del governo. Se c'è a Roma, è colpa del sindaco». La situazione è molto tesa. Gli avvertimenti arrivati al Loft dai maggiorenti del Pd sono chiari: se cade Roma, si ridiscute tutto. Nella migliore delle ipotesi Veltroni sarebbe commissariato e il suo gruppo dirigente azzerato, nella peggiore costretto addirittura a un passo indietro.

domenica 20 aprile 2008


19.4.2008 23.12


La grande partecipazione di oggi ci dice che la sconfitta elettorale non ci ha cancellati.

NOI CI SIAMO COMUNQUE.

Questa assemblea ha avviato una riflessione sulle molte cause della sconfitta elettorale, ma con determinazione ha ribadito che il PROCESSO COSTITUENTE DI UNA SINISTRA UNITA E PLURALE E' IRREVERSIBILE.

Deve ripartire da un profondo rinnovamento della sinistra e di noi stessi.

E' un processo che avrà bisogno di tempi rispettosi delle diverse identità e appartenenze, ma deve iniziare da subito, A PARTIRE DALLE ESPERIENZE DEI TERRITORI PER CREARE LUOGHI PUBBLICI PIU' LARGHI DELLE FORME ORGANIZZATE GIA' ESISTENTI, SPERIMENTANDO NUOVE FORME DI DEMOCRAZIA CHE ABBIANO UN'IMMEDIATA OPERATIVITA'. Occorre ripartire dalle donne e dagli uomini che si sono impegnati nella campagna elettorale e dalle tante case comuni della sinistra che già esistono, diffuse.

E' altrettanto urgente aprire laboratori di analisi e di pensiero a sinistra, costruendo seminari territoriali e nazionali.

DA OGGI NASCE UN GRUPPO DI LAVORO CHE AVVIA E ORGANIZZA LUOGHI DI DISCUSSIONE E DI ELABORAZIONE SULLE REGOLE E SULLE FORME DEL NUOVO SOGGETTO, per costruire un NUOVO APPUNTAMENTO PRIMA DELL'ESTATE [hanno già dato la disponibilità Marco Revelli, Paul Ginsborg, Fulvia Bandoli, i compagni e le compagne del Veneto, il Movimento delle associazioni per la Sinistra l 'Arcobaleno].

Da domani ripartiamo dal radicamento sociale, dai conflitti e dai contenuti, impegniamoci ad un appuntamento nazionale di confronto sulle priorità che ne emergono.

L'OBBIETTIVO E' QUELLO DI RISPONDERE OGNI GIORNO AI BISOGNI REALI E CONCRETI DELLE DONNE E DEGLI UOMINI per far vivere nel paese l'opposizione al governo Berlusconi, a partire dalla riaffermazione e difesa della Costituzione, dal contrasto ad ogni forma di rinascita del fascismo, e dalla più forte PARTECIPAZIONE ALLE MANIFESTAZIONI DEL 25 APRILE E DEL PRIMO MAGGIO.


Corriere della Sera 20.4.08
A Firenze Assemblea all'indomani del flop del listone
E la Sinistra elabora il «lutto» Ginsborg: avanti con l'unità
di Marco Gasperetti


FIRENZE — L'inizio è beffardo. Ad accogliere al Palazzo dei congressi la Sinistra l'Arcobaleno, quel che rimane, è un cartello sulla depressione. Che non è lo scherzo di Berlusconi, ma l'annuncio di un convegno di psichiatria che si sta svolgendo nel salone attiguo dove il popolo della sinistra radicale si è ritrovato per analizzare la sconfitta e la cacciata dal Parlamento.
L'appuntamento somiglia più a uno psicodramma che a un'assemblea politica. Si analizza il male oscuro della sconfitta e si ammettono in diretta colpe collettive e personali. Come quelle dell'ex ministro Paolo Ferrero che si infervora come un Savonarola al contrario: accusa se stesso e smentisce seccamente i rumor su una sua possibile candidatura alla leadership della «cosa rossa» prossima ventura.
Esterna pure il governatore della Puglia, Nichi Vendola, applauditissimo, che si autoiscrive nel listone dei colpevoli. E fa outing politico Giovanni Russo Spena: chiede «un azzeramento dei vecchi vertici, io compreso, e un rinnovamento totale» e poi smentisce ipotesi di epurazioni, come quella del direttore di Liberazione, Piero Sansonetti.
A tirar su un po' il morale ci vogliono le battute della veterana Luciana Castellina: «Io sono la dimostrazione storica che dalle sconfitte si sopravvive» e di Paul Ginsborg, il professore, che chiede di uscire dalla «retorica del lutto collettivo» perché dall'assemblea fiorentina stanno venendo buone cose «e si può ricominciare » e lancia un appello a Rifondazione «perché la smetta di litigare e ritrovi l'unità che serve a tutti». Il sorriso, vero, arriva con l'atipico intervento del movimentista Andrea Alzetta, detto Tarzan, che chiede scusa ai mille intervenuti perché prova imbarazzo «nella nuova veste istituzionale a stare in un'assemblea di estremisti extraparlamentari ».
Segue una lamentosa processione di operai e sindacalisti, intellettuali e movimen-tisti, precari e vecchi comunisti. Quando l'autoflagellazione sembra essere compiuta ecco l'ultimo scatto di orgoglio. Un documento politico. Che recita: «È plurale e irreversibile il processo costituente di una sinistra unita e plurale. Che deve ripartire da un profondo rinnovamento da iniziare da subito». E prosegue con l'annuncio della nascita di un gruppo di lavoro per organizzare «luoghi di discussione e di elaborazione sulle regole e sulle forme del nuovo soggetto per costruire un appuntamento prima dell'estate». Un po' di sereno dopo la tempesta. Ma non chiamatelo Arcobaleno, per favore.

Convegni Il meeting di sinistra e quello sulla depressione

l'Unità 20.4.08
Il direttore di Liberazione ammette: dovremmo essere più comprensibili
«Già smentita la mia sostituzione
Il giornale non ha nulla da temere»
di s.c.


«Niente di vero», dice Piero Sansonetti delle voci che vorrebbero un imminente cambio della guardia alla direzione di Liberazione.
Eppure l’indiscrezione di una sua sostituzione con Russo Spena circola.
«Mi sembra ci sia già stata la smentita».
Sì, lui ha detto che non ne ha “nessuna intenzione”, però c’è anche l’ipotesi di un suo commissariamento.
«Cosa vuol dire commissariamento? Se l’editore vuole nominare un altro direttore si può fare, come in tutti i giornali. Ma non mi pare proprio che ci sia questa idea».
E della preoccupazione del Cdr per il futuro del giorna-
le? infondata anche questa?
«È dovuta alle voci drammatiche che sono circolate, ma dal punto di vista finanziario non cambia niente, nonostante non ci sia più il gruppo Prc in Parlamento. C’è sempre il gruppo a Strasburgo a garantire il finanziamento pubblico. E poi sta andando molto bene la free press che abbiamo lanciato all’inizio del mese».
Continuerà nei prossimi mesi?
«Nei prossimi anni, direi. Stiamo lavorando per avere pubblicità per due anni, e sta arrivando. L’obiettivo è di finanziare interamente il giornale. Anche se la free press è stata lanciata sia per questo che per aumentare i lettori e l’influenza, perché passiamo da 10mila a 130mila copie diffuse».
Avrete anche aumentato i lettori però l’influenza non si è vista in queste elezioni.
«La maggior parte dei voti persi sono andati in parti uguali verso l’astensione e verso il Pd. Verso il Pd chi pensava che dovessimo governare e fare meno i bastian contrari, verso l’astensione chi pensava che abbiamo retto la coda a Prodi e non dovevamo andare al governo. Sono due obiezioni opposte e non c’era nessuna politica possibile che le soddisfacesse entrambe. Se la sinistra non ha evitato una sconfitta di questa portata è perché non ha fatto una delle due scelte. Il giornale l’ha detto a suo tempo, quando abbiamo fatto il titolo: Domanda proibita: cosa ci stiamo a fare nel governo?».
Il Prc va a congresso e l’aria è da resa dei conti. Sicuro che il giornale non sarà tra un fuoco incrociato?
«Su quali basi? Giordano dice che bisogna fare la costituente della sinistra ma che Rifondazione non si scioglie, Ferrero che Rifondazione non si scioglie ma che si deve aprire anche ad altri. Penso che uno dei problemi della sinistra sia quello di ricominciare a parlare in modo che la gente capisca. E una spaccatura su queste due posizioni non credo che riuscirei a spiegarla sul giornale».

l'Unità Roma 20.4.08
Tre generazioni di donne a confronto tra ’68 e femminismo
Il movimento femminista statunitense tra la paura di volare e gli attacchi politici alle conquiste delle donne. Oliviero Toscani: «La minigonna unico colpo di genio del ’68»
di Adele Cambria


Non c’è dubbio che alla tavola rotonda intitolata Storia immagine e immaginario della sessualità femminile, in calendario venerdì sera al Festival della Filosofia dedicato al ’68, la novità sono state loro, le femministe americane che si definiscono «della terza ondata». Si chiamano Jennifer Baumgardner ed Amy Richards, tutt’e due bionde e di buon carattere, anzi Amy si dice senza problemi «ottimista», motivando: «Sono cresciuta in un mondo in cui il successo del femminismo si misura dai diritti conquistati da voi per noi». E con quel «voi», che esprime la gratitudine delle giovani americane per quelle che le hanno precedute, Amy si rivolge alla seconda generazione del Women’s Liberation Mouvement, rappresentata da una florida Erica Jong: che appare invece piuttosto pessimista. «Paura di volare» il suo primo best-seller del 1973, la rese popolare in tutto il mondo come eroina di quella che la traduzione italiana del 1975 definiva senza troppi eufemismi «scopata senza cerniera». A me che l’incontrai allora sembrò una bella donna ingiustificatamente piena di paure; e non era solo la paura di volare… (Che del resto mimetizza, almeno secondo la vulgata freudiana, problemi di sesso.) Il suo secondo romanzo, Come salvarsi la vita, mi confermò l’impressione che la donna americana abbia bisogno, assai più delle francesi e anche delle italiane, di avere un marito a fianco, per sentirsi socialmente a posto. All’incontro della Sala Sinopoli - coordinato da una come sempre aguzza e lucida Ida Dominijanni - la scrittrice ha fatto dichiarazioni coraggiose: «Per la prima volta nella mia vita mi vergogno di essere americana». Parlava della guerra in Iraq - «Ormai sta durando più della seconda guerra mondiale» - ma anche di Hillary Clinton, «insultata in campagna elettorale per le caviglie grosse o perché ha sessant’anni». (Ed è stato l’improvvido marito, nell’intento di aiutarla, a giustificare con l’età «avanzata» l’inesattezza di certi suoi ricordi). In quanto ai diritti delle donne, Jong dice: «Stiamo tornando indietro in tutti i campi, le leggi ci sono ma un qualsiasi George W. Bush può svenderle per procacciarsi i voti dei cristiani fondamentalisti». A questo punto, conclude, non c’è che esigere «che i diritti delle donne siano proclamati diritti inalienabili dall’Onu». «In quanto a me - aggiunge - da tempo mi sono assunta il ruolo di “Mentore” femminista per le giovani».
Dominjianni accenna alle pratiche di affidamento reciproco, e Amy Richards spiega come dal 1992 lei collabori con Gloria Steinem, una mitica protagonista del Women’s Liberation Mouvement dei primi anni 70, direttrice del magazine femminista americano, MS. E ora Amy tiene una rubrica giornaliera, Ask Amy, su Feminist.com.
The Third Wave Foundation, racconta, è una organizzazione di attiviste femministe tra i 15 e i 30 anni. «Rispettiamo il femminismo che è stato prima di noi - spiega- anche se alcune “pioniere” non sono d’accordo con le iniziative delle giovani. Noi abbiamo ottenuto investimenti di milioni di dollari a favore delle emarginate, e nella nostra Fondazione i vertici sono anche maschili: gli uomini hanno bisogno di più femminismo!» Non sembrerebbe, ahimé, a giudicare dall’intervento di Oliviero Toscani, unico (e professionalmente prestigioso) maschio invitato al dibattito. «Per me il ’68 è stato il funerale dei favolosi Anni Sessanta, e la vera e unica femminista è stata Mary Quant, quando decise di dare un taglio alle sottane scoprendo le gambe delle ragazze. Io avevo vent’anni e stavo a Londra, eravamo tutti arrapati per via di quel colpo di genio…! Del resto, il Sessantotto etimologicamente viene dalla parola Sesso! Non poteva scoppiare nel 58!» Dominijanni, misericordiosa, tace.

Repubblica 20.4.08
Per chi suonano le campane di Bossi
di Eugenio Scalfari


Io non credo che chi ha sperato nella vittoria del Partito democratico abbia confuso i suoi sogni con la realtà e un paese immaginario con quello esistente. Credo che esistano due paesi reali, due contrapposte visioni della politica e del bene comune come sempre accade in tutti i luoghi dove è assicurata la libera espressione delle idee e la libera formazione di maggioranze che governano e di minoranze che controllano il rispetto della legalità e preparano le alternative future.
Molti amici mi hanno chiesto nei giorni scorsi come mai chi si è battuto per la vittoria dei democratici (ed io sono tra questi) non ha percepito che essa era impossibile.
Ma non è vero. Sapevamo e abbiamo detto e scritto che sarebbe stato miracoloso riagguantare nelle urne elettorali un avversario che nel novembre del 2007, quando si è aperta la gara, aveva nei sondaggi un vantaggio di oltre 20 punti e c´erano soltanto quattro mesi di tempo prima del voto.
Se l´avverarsi di un´ipotesi viene definita miracolosa ciò significa che le dimensioni dell´ostacolo da superare non sono state sottovalutate ma esattamente pesate per quello che realmente erano. Tuttavia un errore è stato certamente commesso: non è stata avvertita l´onda di piena della Lega.
Non se n´è accorto nessuno, gli stessi dirigenti di quel movimento ne sono rimasti felicemente stupiti. Fino alle ore 16 del lunedì elettorale la Lega veniva data nei sondaggi attorno al 6 per cento. Nessuno le attribuiva di più e i leghisti sarebbero stati soddisfatti di quel risultato. Stavano marciando verso il 9 per cento su scala nazionale con punte fino al 30 nel lombardo-veneto e successi consistenti in tutta la Padania anche sulla riva destra del Po, e non lo sapevano.
Se si confrontano i risultati elettorali tra il partito di Veltroni e quello guidato da Berlusconi e Fini, la differenza è più o meno di 4 punti, tra il novembre e l´aprile il recupero è stato dunque di 16 punti percentuali.
La vittoria della Lega in quelle dimensioni è stata la sorpresa e qui va approfondita l´indagine, scoperte le cause dell´errore e la natura profonda di ciò che è avvenuto senza trascurare la Lega siciliana di Lombardo e del suo alleato Cuffaro, che anch´essa merita la massima attenzione.
* * *
Si dice sempre più frequentemente che i termini di Sinistra e Destra non esprimono più la natura politica della realtà.
Probabilmente è vero e non da poco tempo. Il crollo delle ideologie ha accelerato la rivelazione di un fenomeno già presente da anni.
Del resto quelle due parole sono nate e sono entrate nell´uso comune nel corso dell´Ottocento. All´epoca della Rivoluzione dell´Ottantanove non si parlava di Destra e di Sinistra, si parlava di monarchici e repubblicani e poi di montagnardi e di girondini, in Inghilterra di conservatori e di liberali.
Al tempo d´oggi in una società come la nostra si può correttamente parlare di riformisti che puntano sulla modernizzazione del paese, dell´economia e dello Stato, ai quali si contrappongono coloro che vogliono recuperare l´identità e la sicurezza. In un certo senso sono anch´essi riformisti. Per realizzare modernità e innovazione ci vogliono profonde riforme, ma anche per recuperare sicurezza identitaria ce ne vogliono. Riforme in un senso, riforme in un altro. Due contrapposte visioni di Paese e di ruoli.
E´ fin troppo ovvio dire che nell´una e nell´altra di queste visioni esistono elementi della visione opposta. E´ diverso il dosaggio e questo fa una differenza non da poco che si estende ben oltre la politica, determina diversità di costume, di stili di vita, di impegno del tempo libero, di letture, di sentimenti, di scelte.
C´è infatti un altro elemento che entra in questo complesso incastro di messaggi e di dosaggi ed è un elemento tipicamente culturale. Si può definire come rapporto tra il tempo e la felicità.
Le generazioni più giovani sono state schiacciate sul tempo presente, la memoria del passato interessa loro poco o nulla, non sembrano disposte a condividere quel tanto di felicità attuale con le generazioni che le seguiranno.
Questo rapporto tra felicità e tempo è un fenomeno relativamente recente e ha prodotto una serie di effetti non sempre positivi. Per esempio lo scarso tasso di nuove nascite e la richiesta sempre più pressante di protezione sociale ed economica. Un altro effetto lo si vede nel localismo degli insediamenti più produttivi e più ricchi: contrariamente a quanto finora era accaduto sono proprio le comunità più agiate ad aver perso di vista i cosiddetti interessi nazionali dando invece schiacciante prevalenza a quelli del territorio dove essi risiedono. Si tratta di un aspetto essenziale per capire la vittoria leghista di così ampie dimensioni. La Pianura Padana è un pezzo dell´Europa agiata; l´Italia peninsulare comincia a sud-est delle Alpi Marittime e a sud dell´Appennino Tosco-Emiliano, all´incirca seguendo la vecchia linea gotica d´infausta memoria.
Questo luogo sociale e politico considera, da trent´anni in qua, l´Italia peninsulare come un fardello da portare sulle spalle senza ricavarne alcun vantaggio. Perciò è ormai convinta della necessità di un federalismo fiscale che si riassume così: il peso delle tasse deve diminuire per tutti e almeno i due terzi del gettito dovrà rimanere sul territorio dove viene generato.
L´altro terzo andrà allo Stato centrale per i suoi bisogni primari cioè per il funzionamento dei servizi pubblici indivisibili.
Da questa concezione l´idea di una redistribuzione del reddito con criteri sociali e geografici è del tutto assente. Lo slogan per definire lo spirito di questa filosofia potrebbe essere «chi fa da sé fa per tre». Ognuno pensi ai suoi poveri, ai suoi bambini, alle sue famiglie, ai suoi artigiani, alle sue partite Iva. E vedrete che anche i «terroni» si troveranno meglio di adesso.
* * *
In un mondo globale questa visione significa costruire compartimenti stagni che separano le comunità locali dall´insieme. Significa dare vita ad un Paese non più soltanto duale (il Nord e il Sud) ma con velocità plurime e con dislivelli crescenti all´interno stesso dei distretti più produttivi e più agiati e con contraddizioni mai viste prima.
Ne cito alcune. Le imposte pagate da imprese delle dimensioni di una Fiat, di una Telecom, di un Enel, di un Eni, di una Finmeccanica così come le grandi banche o le grandi compagnie d´assicurazione presenti in tutto il Paese, dove saranno incassate e da chi? Si scorporerà il loro reddito stabilimento per stabilimento, il valore del gas e del petrolio importati e altre grandezze economiche difficilmente divisibili sul territorio? Oppure per dare attuazione a questo tipo di federalismo fiscale si prenderà in considerazione la natura delle varie imposte e tasse? L´Iva resterà nei luoghi dove viene pagata? E le imposte sui consumi? E quelle sui redditi personali o aziendali? Un ginepraio. E´ possibile che la creatività di Giulio Tremonti ne venga a capo, ma non sarà certo una facile impresa.
Segnalo tuttavia una contraddizione difficilmente risolvibile. La maggioranza relativa dei pensionati vive nelle regioni del Nord; in esse infatti c´è stato e c´è maggior lavoro e quindi maggiori pensioni. Nel Nord vive anche gran parte dei possessori di titoli pubblici.
L´erogazione delle pensioni e il pagamento delle cedole sui titoli di Stato costituiscono una fonte imponente di uscite dalle casse dello Stato verso le regioni del Settentrione.
Come verrà valutato in un´Italia a compartimenti stagni questo flusso imponente di spesa pubblica?
La verità è che l´idea di trattenere due terzi delle entrate sui territori locali è pura demagogia inapplicabile in quelle proporzioni. Ma intanto la gente ci crede così come crede anche che la sicurezza pubblica sarà migliorata se una parte dei poteri che oggi incombono all´autorità centrale sarà attribuita ai sindaci e ai vigili urbani.
* * *
Qui viene a proposito meditare sulla Sicilia autonomista di Lombardo e Cuffaro.
Si tratta di province potenzialmente ricche ma attualmente povere. Province deturpate da secoli di lontananza dal mercato e dalla presenza del racket, di poteri criminali, di traffici illegali e mafiosi.
Oggi è in atto, per merito di industriali e commercianti coraggiosi, una nuova forma di lotta contro il racket che ha già avuto le sue vittime e i suoi morti. La politica centrale e soprattutto quella locale avrebbero dovuto precedere o quantomeno affiancare questa battaglia ma non pare che ciò sia avvenuto, anzi sembra esattamente il contrario per quanto riguarda i poteri locali, molti dei quali infiltrati da illegalità e mafioseria.
Tra le istituzioni e la criminalità organizzata esiste da tempo e si allarga sempre più un´ampia zona grigia, un impasto di indifferenza, contiguità, tolleranza, collusione. Il confine tra la zona grigia e i mercati illegali non è affatto blindato anzi è largamente permeabile. Si svolge un continuo andirivieni da quelle parti, gente che va e gente che viene. Si attenuano le asprezze dell´ordine pubblico in proporzione diretta all´andirivieni sul confine tra zona grigia e poteri criminali. Più il potere criminale riesce a legalizzare i suoi membri, i loro figli, i loro nipoti, più diminuisce la crudeltà della lupara. Ricordate il Padrino? La dinamica è quella.
Ma torniamo alla Sicilia di Lombardo. Aumenteranno le richieste di denaro pubblico e di autonomia locale della loro gestione. Non dimentichiamo che i padri dei Lombardo e dei Cuffaro volevano il separatismo, così come il Bossi di vent´anni fa voleva la secessione. Adesso sia gli uni che gli altri hanno capito che una forte autonomia abbinata a un altrettanto forte separatismo fiscale configurano una secessione dolce e duratura.
I due separatismi del Nord e del Sud hanno come obiettivo primario le casse dello Stato e come conseguenza la competizione tra loro a chi riuscirà meglio nell´impresa.
E´ infine evidente che per fronteggiare una situazione di questo genere i poteri di quanto resta dell´autorità centrale dovranno essere rafforzati da robuste dosi di autoritarismo per tenere insieme le forze centrifughe operanti in tutto il sistema.
* * *
Questo quadro è qui descritto al nero ma può anche essere raccontato in rosa anzi in azzurro: un´autorità centrale forte ma democratica, un´articolazione regionale rappresentata dal Senato federale non diversamente da quanto accade nel sistema tedesco.
Ma sta di fatto che la Germania dispone di elementi centripeti molto robusti mentre in Italia la centrifugazione localistica è una costante secolare, anzi millenaria.
Quella che un tempo si chiamava sinistra trovava la sua identità nell´ideologia della classe. Ma la classe ormai non c´è più e perciò la sinistra è affondata. E´ curioso che per spiegare la sparizione della sinistra dal Parlamento del 2008 si cerchino motivazioni di carattere elettorale.
Eppure, specie da parte di chi ancora pensa marxista, la spiegazione è evidente: quando una certa struttura delle forze produttive viene meno, l´effetto inevitabile è che scompaia anche la sovrastruttura che quelle forze avevano prodotto e configurato. Questi fenomeni erano già presenti da anni nella società italiana; i nodi sono arrivati al pettine in questa campagna elettorale.
Il popolo sovrano che si è manifestato nelle urne elettorali del 14 aprile è, con una maggioranza di oltre tre milioni di voti, più localistico che nazionale, vive più il presente che il futuro, è più identitario che innovatore e più protezionista che liberale. Questi sono dati di fatto con i quali è difficile anzi inutile polemizzare. Il Partito democratico ha conservato per fortuna la memoria del passato ma ha cambiato posizione e linguaggio diventando la maggiore forza politica a sostegno dell´innovazione e della modernizzazione delle istituzioni e della società.
Per spostare su questa strada le scelte future del popolo sovrano ci vorrà però uno sforzo senza risparmio soprattutto in due settori: la presenza sul territorio e una progettazione culturale che capovolga quella esistente.
Soprattutto nel rapporto tra il tempo e la felicità, che deve includere anche gli esclusi e i nipoti.
Non è compito da poco, significa recuperare nello stesso tempo il valore del passato e la creatività del futuro.
Perciò basta con le condoglianze e buon lavoro per la democrazia italiana.

Repubblica 20.4.08
Voci super. Cecilia Bartoli
di Giuseppe Videtti


"Tutto cominciò con Pippo Baudo" e una trasmissione Rai per giovani talenti... Oggi, a quarantadue anni, la mezzosoprano italiana è una diva mondiale che ha venduto sette milioni di dischi. L´ultimo cd lo ha dedicato a Maria Malibran, astro della musica ottocentesca, "la prima pop star, morta non ancora trentenne, come Janis Joplin o Jim Morrison" Adesso coltiva un sogno segreto: cantare nel "Don Giovanni", però nel ruolo del protagonista
A chi ha voglia di scoprire le meraviglie della lirica direi: alzati, spegni la tv, rimettiti le scarpe, esci, vai a teatro e decidi da solo quello che ti piace

Il lungolago di Zurigo è semideserto nel pomeriggio di piombo che non promette primavera. I cigni si preparano alla bella stagione mettendo in scena un grooming coreografico e meticoloso. Poche anime sulla passeggiata: anziani con le badanti, bambinaie in grembiule blu indaffarate coi rampolli capricciosi che hanno in custodia. Sul muro dell´antico gazebo, una svastica neonazi che gli spazzini non sono riusciti a graffiar via. Nell´hotel de charme l´atmosfera è calda, serena. La radio di lingua tedesca trasmette alla rinfusa Mercadante, Petrella, Mahler. Lei fa il suo ingresso mentre l´Adagietto della quinta riempie la hall di una tale solennità che bastano i tacchi sul parquet a far chiasso. Poi la risata generosa riempie il salone di un´allegria tutta italiana. E la musica, per non esser da meno, si adegua; adesso è Percy Sledge che canta When a Man Loves a Woman. Al mezzo soprano Cecilia Bartoli anche il pop sta benissimo. «Da ragazza ascoltavo Pink Floyd, Rolling Stones, il Michael Jackson di Thriller e tutta la musica gitana», ricorda la cantante, quarantadue anni, che ormai da tempo vive a Zurigo con il suo compagno, il baritono svizzero Oliver Widmer. «Ero nel gruppo di flamenco Andalucia di Isabel Fernandez e il mio debutto nel mondo dello spettacolo fu proprio come ballerina. La Carrà ci volle a Pronto Raffaella, il varietà tv in cui il pubblico doveva indovinare quanti fagioli c´erano nel vaso. Volavo in motorino, tutta sudata, dalla lezione di ballo al conservatorio. Incoscienza giovanile. Ma una cosa ricordo con chiarezza: mio padre aveva una collezione di vecchi dischi di Aureliano Pertile e Tito Schipa. Quei signori cantavano e porgevano con una grazia infinita. Da loro ho imparato moltissimo. L´arte del suono filato di certi tenori mi stupiva, m´incantava».
Chioma fluente, labbra carnose, seno generoso, contagiosa comunicativa mediterranea: sarebbe stata una perfetta ballerina di flamenco. Ma la tentazione della lirica era in casa. Mamma soprano, papà tenore. «All´inizio, cercavo di fuggire dall´opera. Fu mia madre a darmi la spinta, quando una domenica pomeriggio - doveva piovere moltissimo se decisi di restare in casa - disse: perché non proviamo a fare due vocalizzi? I risultati furono immediati, ma non pensavo alla carriera. Non è una strada in discesa, la nostra è una vita randagia, fatta di sacrificio, di viaggi (e io detesto volare). Per questo mio padre, che aveva una voce straordinaria, rinunciò alla carriera. Conobbe mia madre quando insieme vinsero il Festival dei Due Mondi di Spoleto, pronti per la carriera internazionale. Poi siamo nati noi, e alla fine degli anni Cinquanta per due che venivano da famiglie semplici non era facile. Lui romagnolo, lei emiliana, senza nessuno a cui lasciare i bambini durante le tournée. Si trasferirono nella capitale... Mamma avrebbe avuto il temperamento e la volontà per continuare… Papà invece era un po´ più pantofolaro, come diciamo a Roma».
Cecilia non ha figli, da quasi un quarto di secolo è diventata cittadina del mondo. È appena rientrata da Baden Baden, dove ha eseguito una versione concertante de La sonnambula di Bellini. «La mia storia è strana», racconta. «Tutto cominciò con Pippo Baudo a Fantastico 6. Frequentavo il conservatorio, quando un amico di famiglia venne a trovarmi. Mi disse che in Rai cercavano giovani talenti. Partecipai ad alcune audizioni in una situazione felliniana. C´erano prestigiatori, attori, pianisti, cantanti. Presero me e un basso sedicenne. Fu il trampolino di lancio. Mi videro altri musicisti, impresari e... Barenboim, che mi chiamò a sostituire una cantante per un omaggio alla Callas. Iniziai subito a studiare con lui dei ruoli mozartiani, poi arrivarono Karajan, Muti, Abbado e Nikolaus Harnoncourt, che mi ha spalancato le porte della musica barocca. Ma a Pippo sarò sempre grata, ci siamo rivisti a Lucca, l´ho invitato all´inaugurazione del progetto Malibran».
Nella casa di Zurigo tutto parla di Maria Malibran (1808-1836). Cecilia colleziona qualsiasi cosa le sia appartenuto. «È stato divertente, perché mi ha permesso di conoscere la donna che in soli dieci anni di carriera ha influenzato il romanticismo, compositori come Mendelssohn, Bellini, Liszt. E anche la moda dell´epoca». Nella sua fulminante carriera, la Malibran fu la prima, insieme alla troupe Garcia (il padre, tenore andaluso, ma anche suo impresario), a portare in America la musica di Mozart. Il pubblico adorava l´artista, la donna, l´intellettuale che cantava, recitava, componeva, scriveva e suonava tre strumenti. «Era capace ogni sera di improvvisare le cabalette», spiega la Bartoli sgranando gli occhi, cercando con le lunghe dita di dar corpo al fantasma dell´antica diva. «Senza trascurare la vita privata, movimentatissima e scandalosa». A New York, Maria Garcia sposò Eugene Malibran, commerciante indebitato fino al collo di vent´anni più grande. Dopo un po´ la situazione si fece insostenibile. Di ritorno in Europa, a Parigi, s´innamorò del violinista belga Charles de Bériot (1802-1870). La sua vita di concubina divise l´opinione pubblica. Storia bellissima e tristissima, fatalmente romantica. Cinque mesi dopo il matrimonio, incinta del terzo figlio, la Malibran morì a ventotto anni per una caduta da cavallo. «Maria fu la prima diva, l´eroina romantica per eccellenza, l´artista che ruppe gli schemi, manifestando quelle emozioni che l´epoca dei castrati aveva cancellato. Con lei iniziò una nuova era. La sua personalità andò oltre la compostezza di Giuditta Pasta (1797-1865), la prima Sonnambula, e Isabella Colbran (1785-1845), la musa di Rossini».
Quella per la Malibran è diventata una tenera ossessione per la Bartoli. Le ha dedicato Maria, l´ultimo cd (l´omonimo spettacolo arriverà all´Auditorium di Roma nella seconda metà di settembre ), ha indossato i suoi gioielli di scena e per il bicentenario della nascita della sua eroina ha organizzato una mostra che ha girato per l´Europa con un tir (proprio come quella di Elvis ha attraversato l´America), ultima tappa piazza della Scala, a Milano. «L´idea della mostra itinerante è iniziata nel momento in cui ho cominciato a collezionare lettere e cimeli, già all´inizio della mia carriera, quando Christopher Raeburn, il mio primo produttore discografico, mi regalò un ritratto della Malibran. L´idea era di organizzare una mostra nei foyer dei teatri, poi ho pensato che sarebbe stato noioso, Maria era un´artista in continuo movimento, una donna emancipata, moderna, colta (parlava tre lingue), un po´ folle, morta giovanissima. Una vita che ricorda quelle di Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison e tutte le rockstar morte prima dei trent´anni. Per me è la prima pop star».
La Svizzera, dice, le ha dato tantissimo. Canta all´Opera di Zurigo da quando aveva ventuno anni. Poi per un lungo periodo è stata rapita dall´America. E in un batter d´occhio diventò la nuova diva della lirica. «Negli Usa cantavo due ore e firmavo autografi per tre. Mi volevano star, un´isteria che stava per farmi perdere il vero obiettivo per cui ero lì. Volevo fare musica, studiare, crescere. Ricordo le prime foto per le copertine dei dischi. Io ci tenevo a mostrare la vera Cecilia; indossavo il chiodo e loro mi volevano in Saint-Laurent. Insomma, non mi ci vedevo in quel cliché. Dissi: ho vent´anni e voglio farmi fotografare sulla motocicletta. Loro sgranarono gli occhi, la cosa fece scalpore. A un certo punto mi resi conto che stavo diventando una cantante... americana. Invece volevo essere europea, non avevo sposato il signor Malibran io. Anche se, beh sì, ci fu un momento in cui un certo Getty veniva a tutti i miei concerti. Ricco e bello, ma non bastava. Io non volevo vivere negli Stati Uniti, non ne volevo sapere dei loro compromessi. Ho vinto quattro Grammy, ho venduto sette milioni di dischi senza fare crossover (anche se hanno cercato in ogni modo di istigarmi a un´operazione stile Tre Tenori): di questo sono immensamente grata all´America. Fu proprio a New York che mi resi conto di avercela fatta, il giorno in cui la nonna Libia partì da Sorbole Levante, dodici chilometri da Parma, e a ottant´anni arrivò a Manhattan per venire al Metropolitan a vedere la nipotina adorata. La vidi così orgogliosa e felice al dopo-concerto organizzato da Alberto Vilar - allora era lo sponsor numero uno del Met, poi fu arrestato per frode - in una penthouse sontuosa, tra fiumi di champagne e caviale... lei che aveva fatto la contadina tutta la vita. Ma poi, in Italia, la trovai cambiata, quasi in soggezione. Come se, dopo il caviale, le lasagne fossero diventate un piatto plebeo. Le dissi: nonna l´America è una cosa, ma i tuoi fagioli bianchi dell´orto con sedano e carota valgono più di tutto. E per me è davvero così. Nonostante i grandi spettacoli, le emozioni, i trionfi, sono sempre rimasta attaccata alla mia terra». Guarda fuori, una pioggerellina insistente picchia contro la vetrata, la neve sulle montagne non ne vuol sapere di sciogliersi. Aggiunge: «Anche se non so più qual è la mia terra».
«L´Italia non è il paese migliore del mondo per la musica, eppure abbiamo i più bei teatri e un pubblico fantastico», sospira. «La maggior parte del mio repertorio è italiano. Eppure io canto soprattutto all´estero. Sembra che l´Italia abbia perso la voglia di reagire. È scoraggiata. Che tristezza. All´inizio, vivere lontana da casa la maggior parte dell´anno mi costava fatica. Adesso ci sono abituata. Che altro potevo fare? Sono andata dove c´era lavoro. Questo vale per me e per molti altri italiani. La mancanza di ingaggi ha portato all´esasperazione gli artisti e causato la ben nota fuga di talenti. E ancora c´è chi insiste che questa è musica d´élite, così i giovani, che in Germania riempiono i teatri, in Italia si tengono alla larga dalla lirica. A chi è rimasta un po´ di curiosità e ha voglia di scoprire queste meraviglie direi: alzati, spegni la tv, staccati dal frigorifero, rimettiti le scarpe, esci, vai a teatro e decidi da solo quello che ti piace e che non ti piace. I giovani devono rendersi conto che la musica di Vivaldi, Mozart o Rossini era il pop dell´epoca. Il flauto magico fu scritto per il popolo, non certo per l´élite. L´opera è la storia dell´uomo. Come sono attuali le donne mozartiane! In Così fan tutte le ho cantate tutte e tre, la serva Despina e le due sorelle ferraresi, Dorabella e Fiordiligi. Creature fragili eppure esuberanti, piene di conflitti ma anche dotate di uno spiccato senso dell´umorismo. Il mio sogno segreto? Fare il Don Giovanni nei panni del protagonista. Ma non avventuriamoci nell´impossibile. Impossibile?», conclude con un sorriso malizioso. Vuol dire: «Prima o poi lo farò».

Corriere della Sera 20.4.08
L'anniversario Melograni: la ricorrenza resti fuori dalla sfida. Tranfaglia: no, a Roma è decisivo ricordare
E il 25 Aprile irrompe nel ballottaggio
di Paolo Conti


ROMA — «Un vaffa al 25 Aprile», titolava ieri il Riformista. Aggiungendo: «La sinistra tramortita regala a Grillo la piazza della Resistenza». Sotto il titolo, un dettagliato (e allarmato) racconto sui «non sappiamo cosa faremo» raccolti in area Pd-la Sinistra l'Arcobaleno. Reagisce Furio Colombo: «L'appello del Riformista mi sembra giustissimo. Non proibirei mai a Beppe Grillo di convocare manifestazioni il 25 Aprile, tutti i giorni sono liberi per tutti i cittadini di questa Repubblica. Ma dico appassionatamente che il 25 Aprile, per chi si riconosce nei valori della Liberazione e dell'antifascismo, ricorda la notte in cui gli italiani non liberi diventarono liberi. Una bella differenza, mi pare, che va adeguatamente festeggiata da tutti gli italiani». E il richiamo alla sinistra disorientata? «Importante e legittimo ».
Intanto c'è chi si chiede, intorno al 25 Aprile 2008: verrà «usato» in funzione del ballottaggio romano Rutelli-Alemanno? Dal centrodestra reagisce Piero Melograni che però cita il comunista Giorgio Amendola: «L'editore Laterza sta per ripubblicare la mia Intervista sull'antifascismo, roba di 33 anni fa. Lì Amendola chiedeva di sfatare certi miti della Resistenza e raccontava come nel 1975 avrebbe voluto protestare contro quella retorica...». Il centrodestra potrebbe contestare la ricorrenza, così come la sinistra potrebbe enfatizzarla in vista del duello per il Campidoglio. «Meglio lasciar perdere, da una parte come dall'altra. Alemanno ha anche rinunciato ad apparentarsi con Storace. Certe contrapposizioni sarebbero inutili».
Concorda, ancora da destra, lo storico Giano Accame: «Mi pare superfluo mettersi lì a strumentalizzare, per il ballottaggio romano, questa materia inerte ». In che senso il 25 Aprile «materia inerte», Accame? «La gente non si fa più trascinare da certe vecchie emozioni. Né pro e assolutamente né contro. Forse qualche ragazzotto dei centri sociali... ma a destra mi sembra sia diffusa una convinzione che sostengo da anni, cioè che la storia nazionale è una sintesi degli opposti di cui tutti devono tenere conto. E poi le cose cambiano». Per esempio? «Prendiamo la nostra bandiera. Per decenni "loro" non hanno amato il concetto di Patria. Ora il logo Pd è tutto un tricolore. Noi della destra ne siamo felici. L'amor di Patria non è geloso, è un sentimento che si deve condividere... ».
Di parere opposto lo storico Nicola Tranfaglia: «A maggior ragione per questo ballottaggio Rutelli-Alemanno bisogna ricordare a tutti come la Resistenza sia alla base della fondazione della Repubblica italiana, come disse anche Alcide De Gasperi. Va celebrata come il valore consacrato nella Costituzione repubblicana e come il frutto della battaglia contro i tedeschi nazisti e i fascisti della Repubblica di Salò». Ma perché premere così sul pedale della piazza e delle manifestazioni? «Perché comincia ad essere difficile persino celebrare il 25 Aprile. Io avevo accettato di essere l'oratore per la ricorrenza nella manifestazione di Verona. Ma il sindaco leghista Flavio Tosi, nella sua giunta c'è anche An, ha negato la piazza sostenendo che la Resistenza "è roba da archeologia". Il centrodestra non vuole che i giovani conoscano il peso di quella pagina storica».
Infine, ancora da sinistra Lucio Villari. Che va controtendenza: «Mai pensato al 25 Aprile come a un territorio privilegiato della sinistra. La Resistenza fu combattuta anche da liberali, monarchici e soprattutto dai cattolici. Ancor più che dai comunisti. E se il Pci nel dopoguerra si è annesso quel capitolo storico, ha commesso un falso». Usare la festa per il ballottaggio romano? «C'entrerebbe come i cavoli a merenda. Con tutto il rispetto per Rutelli e Alemanno, non capisco come un momento così tragico della nostra storia possa essere "usato" per una vicenda locale, romana. Suvvia».

Corriere della Sera 20.4.08
L'Osservatorio di Renato Mannheimer
L'8% dei voti lumbard è «rubato» alla sinistra


La Lega è il partito che in queste elezioni ha visto il maggiore incremento di voti in assoluto: 1.300.000. La seconda forza nella graduatoria dell'accrescimento di consensi è, non a caso, l'Idv, con circa 700.000 voti in più: rappresenta la componente «radicale» del centrosinistra, così come la Lega lo è nel centrodestra. Ma il partito di Bossi non ha vinto solo perché ha saputo attrarre nuovi voti. Esso registra il valore massimo nel tasso di fedeltà, vale a dire nel mantenimento degli elettori già acquisiti nel 2006: quasi tutti (95%) hanno riconfermato la loro opzione. Infine, gli elettori della Lega sono stati i più «decisi»: è qui che si trova la più alta percentuale di chi dichiara di avere formato la propria scelta da molto tempo, indipendentemente o quasi dalla campagna elettorale. Proprio lo straordinario afflusso di voti «nuovi» e, al tempo stesso, l'elevata capacità di mantenere quelli vecchi, consigliano di evitare un'unica interpretazione delle motivazioni di voto. La Lega è un fenomeno composito, dalle tante sfaccettature, e nelle origini del suo voto coesistono molteplici fattori. Che vanno dalla difesa degli interessi economici territoriali, al timore per le novità originate dalla globalizzazione e dal conseguente arrivo di «diversi», sino a ragioni più direttamente legate alla collocazione politica del partito. Ciò suggerisce di distinguere diversi «tipi» di voti leghisti a seconda del prevalere dell'una o dell'altra motivazione. Un primo segmento è costituito da votanti «storici», consolidati nel tempo, spinti soprattutto dall'identificazione col territorio e dalla percezione di questo come prevalente su altre identità. Si tratta dell'elettorato che potremmo definire «padano», assai radicato nelle zone tradizionali della Lega e mosso per lo più dalla difesa degli interessi territoriali economici, specie quelli connessi alla fiscalità. Esso costituisce la maggioranza relativa — grossomodo il 40% — degli attuali votanti per la Lega. Per un'altra parte di elettori tradizionali della Lega (cui si è aggiunta in queste consultazioni una quota di votanti che nel 2006 si era astenuta), la scelta è più determinata dall'insicurezza sociale, assieme alla paura suscitata del processo di globalizzazione e, soprattutto, dalla conseguente ostilità verso il «diverso», in particolare, verso gli immigrati.
È la componente che potremmo definire «xenofoba»: corrisponde al 20% circa dell'attuale elettorato leghista.
Entrambi questi settori sono sostanzialmente slegati dal continuum sinistra-destra, in quanto non si identificano con nessun segmento di quest'ultimo o, semmai, si definiscono «di centro». Viceversa una terza, importante, componente, si autocolloca esplicitamente nel centrodestra. Sono gli elettori transfughi da Forza Italia e, in misura minore, dall'Udc, che, in questa occasione, le hanno abbandonate per dare una maggiore radicalità alla propria scelta, pur mantenendo il proprio posizionamento politico. La motivazione è stata prevalentemente economica, legata alla percezione di lentezza e di inefficienza dello Stato centrale e anche sollecitata, da ultimo, dal «caso Malpensa». Sono stimabili più o meno nel 30% dell'attuale elettorato leghista. C'è, infine, un ulteriore segmento di «nuovi» elettori leghisti, assai meno numeroso, ma molto significativo. Si tratta dei votanti provenienti dalla sinistra, in particolare da quella estrema.
Che l'hanno lasciata per dare il voto ad una forza ritenuta più efficace nel difendere i loro interessi. Si tratta dell'8% circa dell'elettorato leghista. Solo un'analisi che tenga conto di questi diversi gruppi coesistenti può dar conto appieno del successo del Carroccio in queste elezioni. Non esiste, insomma, una lettura univoca del fenomeno leghista.

Corriere della Sera 20.4.08
Contro il boicottaggio dei giochi
La Cina non è solo tirannia
di Max Hastings


I cinesi mi piacciono. Forse dovrei accompagnare quest'affermazione con la precisazione che non ho mai incontrato i governanti della Cina o la polizia segreta. Quel che sta succedendo in Tibet è disgustoso. In Cina vi è una tirannia in cui non esistono diritti e libertà personali. Ma essendo stato recentemente in quel Paese in varie occasioni (l'ultima volta a gennaio), mi sento ben disposto verso la popolazione cinese e per questo sono restio a unirmi al coro di chi vorrebbe che le Olimpiadi della prossima estate si rivelassero un fiasco. La Cina ha sofferto tanto e così a lungo — a causa di disastri naturali, barbari venuti da Occidente, giapponesi, Mao Zedong — che sembra meritare un po' di fortuna.
Nel mio ultimo viaggio, ho incontrato parecchi professori universitari ferocemente critici verso il governo di Pechino. Eppure nessuno di loro auspicava un boicottaggio delle Olimpiadi da parte degli occidentali.
Molti pensavano, piuttosto, che i giochi potessero essere l'occasione per ottenere qualche piccolo beneficio.
La Cina continua a essere una tirannia, ma dagli anni Settanta in poi è diventata assai meno brutale. Li Datong, un giornalista che lo scorso anno è stato allontanato dalla direzione di una rivista per aver superato il tenue livello di critica politica tollerato dal governo, diceva: «Abbiamo fatto dei progressi. Ad esempio, per lei è stato possibile incontrarmi, mentre ai tempi di Mao non lo sarebbe stato. La nostra è ancora una dittatura, ma molto meno violenta e crudele».
Le misure repressive sono andate attenuandosi. Anche se il regime di Pechino si dice indifferente all'opinione del resto del mondo, è sempre più sensibile a essa. Moltissimi cinesi studiano all'estero. Tornano a casa dopo aver visto da vicino i comportamenti adottati altrove, con l'acuto desiderio di poter avere anch'essi la stessa libertà.
Questo avrà necessariamente un peso nel determinare il futuro della Cina.
Mao Yushi, un esperto economista che ha insegnato ad Harvard, a gennaio mi ha detto, con una certa preveggenza: «Questo potrebbe essere un anno problematico per la Cina. Il partito comunista è talmente concentrato sui suoi interessi particolari da cercare di ignorare la miriade di contraddizioni che sono andate accumulandosi nel Paese».
Pensa, comunque, che le Olimpiadi siano una tappa storica. Ed è contento del progresso che, seppure a passo di lumaca, si sta compiendo nel riesaminare il passato della Cina. È ancora proibito ammettere gli orrori della grande carestia degli anni Cinquanta, o della rivoluzione culturale del decennio successivo. Ma secondo Mao Yushi «il tempo in cui riusciremo a parlare di Mao Zedong e degli enormi danni che ha arrecato alla Cina e al suo popolo è vicino». Crede che le critiche internazionali per l'assenza di diritti umani in Cina vadano incoraggiate ma, «quando qualcosa migliora — afferma — le accuse dovrebbero essere mitigate da un giusto riconoscimento». Nutre la speranza che l'esempio di Hong Kong, dove più o meno vige uno stato di diritto, si affermi anche altrove nel Paese. Il relativo ottimismo di Mao Yushi sul futuro deriva dal fatto che ne ha viste tante e ha attraversato gli anni più cruenti della Cina. «Il regime di Mao traeva forza dalla sofferenza — dice —.

Corriere della Sera 20.4.08
Personaggi Bill Bryson ricostruisce le (poche) certezze e demolisce le (molte) leggende: il viaggio in Italia, la fede cattolica, la mano di Marlowe
I misteri di Shakespeare
Thriller, biografie, saggi: così il Bardo è tornato a far parlare di sé
di Ranieri Polese


Un thriller (W di Jennifer Lee Carrell), la biografia ipotetica di Anne Hathaway ( Shakespeare's Wife di Germaine Greer), la ricostruzione romanzesca di un episodio minore della vita del drammaturgo ( The Lodger di Charles Nicholl): sono i casi più recenti di quell'industria di congetture legata al nome e ai misteri del Bardo di Stratford upon Avon. Il primo indaga su un'opera teatrale perduta, il Cardenio, ispirato al Chisciotte di Cervantes; il secondo immagina tutto quello che non sappiamo della donna che sposò Shakespeare nel 1582, gli dette tre figli, restò vedova nel 1616 (ottenendo nel testamento solo «the second best bed», nemmeno il letto matrimoniale!) e morì nel 1623; il terzo estrapola i possibili retroscena del fatto che Shakespeare, nel 1604, vivesse in affitto in una casa della City, proprietà di Christopher Mountjoy, un ugonotto francese stimato fabbricante di cappelli per signora. La sua presenza in quella casa è attestata dagli atti di un processo del 1612, quando il drammaturgo fu chiamato a testimoniare nella causa intentata dal genero di Mountjoy contro il suocero che non gli aveva corrisposto la dote promessa.
Con una vita densa di opere (38 drammi, 154 sonetti, due lunghi poemi e due altri componimenti in versi) e poverissima di fatti documentati, Shakespeare (1564-1616) non ha mai cessato di ispirare ogni genere di supposizioni. Su di lui, peraltro, ogni anno escono mediamente quattromila studi: è un soggetto inesauribile per ogni genere di indagine. Anche quelle più bizzarre, come «Mal d'orecchi e omicidio nell'Amleto» o «Shakespeare e la nazione del Quebec». Ma cosa possiamo dire di sapere veramente su di lui? A questa esigenza di semplificazione e di ripulitura risponde il lavoro di Bill Bryson, lo scrittore americano autore di brillanti libri di viaggio (Notizie da un'isoletta, America perduta)
e di una divertente miscellanea su tutto quello che non sappiamo della scienza ( Breve storia di — quasi — tutto). Pubblicato nella collana di Atlas Books (HarperCollins) dedicata alle biografie, Shakespeare: The World as a Stage, esce a fine mese in traduzione italiana da Guanda, con il titolo Il mondo è un teatro. La vita e l'opera di William Shakespeare (traduzione Stefano Bortolussi, pp. 246, e 15).
Troppe congetture
Secondo un esperto citato da Bryson «ogni biografia di Shakespeare è formata al 5 per cento di fatti e al 95 per cento di congetture». In caccia di fatti, molti studiosi, pertanto, si dedicano alle ricerche di archivio, nella speranza di trovare il nome del poeta in qualche carta. Lo spoglio sistematico dei documenti d'archivio era cominciato ufficialmente agli inizi del '900, quando una coppia di americani (Charles e Hulda Wallace) passò lunghi periodi in Inghilterra esaminando milioni di documenti dell'epoca. A loro si deve la scoperta della testimonianza resa da Shakespeare nel processo contro Mountjoy (1612, con firma dello stesso poeta). Deluso per i mancati riconoscimenti, Charles Wallace se ne tornò in America, dove fece fortuna come proprietario di pozzi di petrolio. Da allora la ricerca prosegue; potrebbe ancora dare dei frutti anche se, nota Bryson, da queste indagini escono solo atti legali e certificati di proprietà. Sulla personalità del poeta, i suoi affetti, i suoi interessi culturali gli archivi tacciono.
Le critiche e il sarcasmo di Bryson, però, si appuntano soprattutto sui fabbricanti di congetture, che nei loro lavori passano con grande disinvoltura dalle ipotesi alla certezza assoluta. Per esempio, nel caso dei cosiddetti Lost Years, gli anni perduti (1585-1592), il periodo in cui Shakespeare lascia moglie e tre figli a Stratford per trasferirsi a Londra e cominciare a lavorare in teatro e di cui non sappiamo niente. Partendo dal fatto che Shakespeare produce diversi drammi di ambiente italiano, molti studiosi hanno sostenuto che in quegli anni il giovane William visitò l'Italia. Illazione non proprio lecita, dice Bryson, oltretutto perché i drammi italiani di Shakespeare offrono solo informazioni confuse, inverosimili (per esempio, nella Tempesta e nei Due gentiluomini di Verona, per raggiungere rispettivamente Milano e Verona si va per mare) che tutto provano fuori che una conoscenza diretta del Paese. Più complessa l'altra ipotesi secondo la quale Shakespeare in quegli anni avrebbe prestato servizio come tutore presso una famiglia di nobili cattolici del Nord dell'Inghilterra. Quella di uno Shakespeare segretamente cattolico è una teoria che ha affascinato molti, ma le prove addotte sono poco consistenti. Si dice, per esempio, che fra gli insegnanti della Grammar School presumibilmente frequentata dal giovane William (ma i registri sono perduti) c'era il fratello di un missionario cattolico scoperto e messo a morte nel 1582. Poi si aggiunge la notizia del ritrovamento verso la fine del '700, durante dei lavori nella casa di Shakespeare, del «testamento spirituale» del padre di William, John, che si dichiarava cattolico. Peccato, scrive Bryson, che quel testamento fu perduto poco dopo, e che quindi non si possa valutare la sua autenticità. Peggio di tutti, comunque, sempre secondo Bryson, si comportano quegli studiosi che passano dall'esame dei testi (frequenza di certe parole, uso di determinate espressioni, ecc.) per arrivare a conclusioni assolutamente ingiustificabili. Fra gli altri, quelli che da due sonetti (37 e 89) deducono che Shakespeare zoppicava; o quelli che si immaginano uno Shakespeare marinaio (addirittura insieme a Sir Francis Drake) vista la frequenza di termini marini.
William chi?
La controversia sulla vera identità di Shakespeare (una sorta di Questione omerica per il più grande poeta dell'età moderna) nasce relativamente tardi. Nel 1857, quando un'americana, Delia Bacon, pubblica The Philosophy of the Plays of Shakespeare Unfolded (La filosofia delle opere di S. rivelata). Lì si sostiene che a scrivere i drammi del Bardo fu il filosofo Francis Bacon. La Bacon basava la sua argomentazione sul fatto che le opere di Shakespeare mostrano conoscenze fuori dal comune per un provinciale venuto a Londra per fare l'attore; ma aggiungeva di essere arrivata alla verità grazie alle sue particolari doti intuitive. (Tornata in America nel 1859, la poverina finì i suoi giorni in un manicomio). Il partito dei «baconiani» riscosse subito grande successo, fra l'altro ottenne l'adesione di Henry James e Mark Twain.
Comune a tutti i cosiddetti «antistratfordiani», quelli cioè che non riconoscono la paternità dei drammi all'uomo di Stratford, c'è il pregiudizio di uno Shakespeare troppo rozzo e senza cultura per poter scrivere le opere che vanno sotto il suo nome. Così, nel 1918 si volle «dimostrare» che l'autore vero di drammi, poemi e sonetti era Edward de Vere, conte di Oxford, colto e raffinato uomo di mondo, protettore di una compagnia teatrale e ammirato dalla regina Elisabetta. Peccato — nota Bryson — che Oxford muore nel 1604, quando ancora dovevano nascere molti capolavori shakespeariani. Un altro candidato, inevitabile, è Christopher Marlowe: molti sostengono che non morì nella rissa alla taverna di Deptford nel 1593, ma sotto copertura continuò a scrivere. Anche una donna appare nella lista dei pretendenti, Mary Sidney, sorella del poeta Philip Sidney. Infine — ed è la tesi ripresa dal thriller W di Jennifer Lee Carrell — c'è anche l'idea che dietro il nome di Shakespeare si celassero molti personaggi, fra cui lo stesso Philip Sidney e Walter Raleigh. Ma che valore hanno tutte queste supposizioni? Per Bryson nessuno, sono solo fantasie romanzesche più vicine alle teorie dei complotti che non a seri studi. Ai cultori di questa mania moderna (curiosamente, per circa 200 anni, nessuno mise mai in dubbio l'identità del poeta), ossessionati dal fatto che di un genio così grande si conosca così poco, Bryson ricorda che dei poeti e drammaturghi contemporanei di Shakespeare si conosce molto meno. E ci sono rimaste molte meno opere.

Corriere della Sera 20.4.08
Il Führer secondo lo scrittore americano
HitlerI un diavolo. L'errore di Mailer
di Giuseppe Galasso


Al termine della guerra nel 1945 si chiese subito un esame del cervello di Mussolini, di Hitler e non so se di altri, in quanto genii del male (perché non si chiedesse lo stesso per i cervelli dei «buoni» non si è mai capito). Si annunciavano così le due tendenze degli studi storici su Hitler. Da un lato, quelli per i quali la sua personalità e azione era il frutto di una patologia genetica, di una follia criminosa, esaltata all'inverosimile dai successi e convertita in una furia autodistruttiva quando si risolse in una delle più complete e rovinose disfatte della storia. Dall'altro lato, quelli per i quali agiva in lui il fondo demoniaco del potere, l'attrazione fatale di un miraggio di onnipotenza, l'antico peccato della übris che va anche oltre i più invalicabili limiti dell'umano.
Il problema è stato riproposto per Hitler, dal libro dedicatogli da Norman Mailer, sul quale J. M. Coetzee, Nobel per la letteratura nel 2003, scrisse un anno fa sulla New York Review of Books, un articolo di cui ora Alberto Garlini ha tradotto una gran parte, in vista dell'uscita del romanzo di Mailer, The Castle in the Forest anche in Italia. Coetzee a ragione boccia l'idea di Mailer che dietro Hitler ci sia stato il diavolo: Hitler controfigura di Satana, in un'inaudita eruzione del male nella storia. Troppo semplice, per Coetzee. Del resto, già, ad esempio, per Heidegger, pur tanto discutibile e discusso per i suoi trascorsi nazisti, se a Hitler si dava un tale ruolo satanico, gli si risparmiava la vera qualifica sua di criminale, agente del male in proprio e per proprio conto. E Heidegger respingeva pure la tesi di Hannah Arendt, che poneva Hitler sotto la rubrica della «banalità del male», ossia del niente che ci vuole a pensare il male e a farlo, senza alcun possibile senso. Heidegger replicava che, se il male è un'evenienza così banale (banale la Shoah?), esso è anche fuori della vita morale, che richiede sempre di scegliere fra alternative di opposto, ma forte senso.
A sua volta, Coetzee conclude, senza uscire dal binomio Mailer-Arendt, e quindi con qualche contraddizione, che «mantenere il paradosso infernale/ banale in tutta la sua angosciosa imperscrutabilità è forse il risultato ultimo» del romanzo di Mailer, giudicato un «molto notevole contributo alla fiction storica». E non ci sarebbe nulla di male, perché la letteratura è la letteratura e ha un diritto sovrano all'invenzione. Ciò che non c'entra per nulla e non può starsi a questo diritto sovrano è, però, la storia. Che anch'essa assume spesso le nozioni di male o di crimine come chiavi per capire Hitler, ma dovrebbe ormai far tesoro della loro incongruenza e inconcludenza storiografica. Né è poi diverso l'assegnare Hitler a un anch'esso imperscrutabile disegno divino nella storia o a quel-l'altra teologia che nella storia vede solo l'azione di qualche grande e latente motore (l'economia, lo Spirito o l'Idea, o il Verbo o altro).
Hitler, invece, è stato nella storia e vi ha agito come sempre fanno gli uomini, ossia al crocevia molteplice e tumultuoso di innumerevoli condizionamenti, forze e fattori, massimi e minimi, di una miriade di volontà variamente influenti sul corso degli eventi. Il crocevia in cui agì Hitler era eminente e ricco di problemi. Prima di giungere alla sanguinosa e sanguinaria avventura della guerra nel 1939 e all'abisso di orrore della Shoah, Hitler vi attuò un governo tirannico e violento, che però in pochi anni diede alla Germania il senso profondo di un risanamento e di una trasformazione, di cui solo la guerra avrebbe mostrato le fragili basi, e ciò in un concorso di circostanze e di spinte non riducibili tutte a Hitler e alla tirannide nazista, e per cui non si può giudicare del 1935 o del 1938 solo alla luce del 1945 o isolando la Germania dal contesto del tempo. Ma per dipanare questa matassa non vale il ricorso ai dèmoni o a Satana, al divino, alla filosofia della storia o ad altro di simile. Abbiamo solo il modesto lume della nostra ragione per penetrare e illustrare la storia nei suoi anfratti e percorsi e il suo senso, che non preesiste al suo svolgersi, ma emerge via via nel suo farsi, ed emerge via via anche quando studiamo la storia per scriverla dopo che è stata vissuta.

Repubblica 20.4.08
Rita Levi Montalcini
"A 99 anni si pensa meglio"
"Non sono stanca, continuo a cercare"
di Dario Cresto-Dina


Tra due giorni Rita Levi Montalcini compirà novantanove anni. È un numero che inquieterebbe chiunque. Non lei. «Mi sento per la seconda volta un po´ Robinson Crusoe. La prima fu negli anni del fascismo. Allora ero più sola, più giovane e meno forte di adesso, eppure il male produsse un bene». Ogni sera va a letto alle undici. Ogni mattina si alza alle cinque. «Il mio cervello funziona meglio di quando avevo vent´anni».

Bisogna dimenticarsi di vivere. È questo, dice, il segreto per avvicinarsi a qualcosa che può assomigliare all´illusione dell´immortalità. Tra due giorni la signora che mi guarda con occhi azzurri, limpidi e curiosi compirà novantanove anni. È un numero che inquieterebbe chiunque. Non lei. È un´età alla quale si giunge quasi sempre da solitari, è come sbarcare dopo un lungo viaggio su un´isola deserta e sapere che tutto ciò che conoscevamo ce lo siamo lasciato alle spalle, ma nulla, proprio nulla, possiamo immaginare del nuovo approdo, neppure la sua estensione geografica, se sarà un posto di valli e montagne da attraversare prima del prossimo mare o appena una lingua di sabbia. «Mi sento per la seconda volta un po´ Robinson Crusoe. La prima fu negli anni del fascismo. Allora ero più sola, più giovane e meno forte di adesso, eppure il male produsse un bene».
Seduta in un angolo del divano della sua casa romana con la leggerezza di un ramo antico, Rita Levi Montalcini sembra una vecchia appena nata. È elegante nel vestito blu che le scende fino alle caviglie, chiuso sul collo lungo e sottile. Il blu elettrico dell´abito esalta la sua testa bianca, al polso destro porta un bracciale che ha disegnato lei stessa e sul quale spicca, incastonato come un minuscolo cammeo, il giglio di Firenze. È un gioiello che aveva regalato alla sorella Paola, la gemella tanto amata morta otto anni fa. «Quella vagabonda della mia gemellina - la chiamava con affetto nelle lettere alla madre - che è riuscita ad addentrarsi in un mondo chimerico libero da imposizioni di leggi».
Paola era un´artista, allieva e amica di Felice Casorati. «Il suo cuore continua a battere dentro di me». Le pareti di questa bella e semplice casa sono attraversate dai suoi quadri. C´è un ritratto di Rita dipinto nel ‘45. C´è, sul pavimento del terrazzo, un grande mosaico che riproduce le traiettorie delle particelle atomiche nella camera a bolle. C´è la malinconia nello sguardo della professoressa ogni volta che parla di lei. Nostalgia, non il dolore del lutto. Non più. «Abbiamo avuto una bella vita. Non credo all´eternità. Si spegne tutto». Ricorda a memoria una poesia scritta per il nipote schizofrenico morto suicida a ventiquattro anni: «Che rimane di noi quando il fiato non appanna più il vetro...».
A novantanove anni Rita Levi Montalcini ogni sera va a letto alle undici. Ogni mattina si alza alle cinque. «Non mi interessano né il cibo né il sonno». Mangia una volta al giorno, a pranzo. La sera si concede al massimo un brodo e un´arancia. «Sto bene. Malgrado la diminuzione della vista e dell´udito. Mai avuto una malattia». Ha un apparecchio acustico nelle orecchie, legge grazie a un video ingranditore. «Mi aiutano i miei collaboratori». Due in particolare, Pietro Calissano che è con lei da quarant´anni e Piero Ientile. «Il mio cervello funziona meglio di quando avevo vent´anni. Ho deciso di utilizzarlo di più proprio nell´ultima tappa del mio percorso. Penso di continuo, mi aiuta la passione per il mio lavoro».

«Continuo la ricerca sull´Nfg, la sigla della proteina che stimola la crescita delle cellule nervose, uno studio sulle malattie neurovegetative che ho cominciato più di mezzo secolo fa. Mi occupo della fondazione creata assieme a Paola in memoria di mio padre per il conferimento di borse di studio a studentesse africane a livello universitario, con l´obiettivo di creare una classe di giovani donne che svolgano un ruolo di leadership nella vita scientifica e sociale dei loro paesi. Sto scrivendo due nuovi saggi scientifici. Non mi sento mai stanca».
Ogni giorno va in laboratorio, nella sua équipe ci sono altre sette donne. Si china sul microscopio, esamina gli embrioni di pollo come faceva cinquant´anni fa in America. Dice: «La mia intelligenza è mediocre, e il mio impegno è poco più che mediocre. Credo di avere due sole qualità: l´intuito e la capacità di vedere un problema nella sua globalità. Quand´ero giovane pensavo che la mia missione sarebbe stata quella di aiutare gli altri, volevo andare a curare i lebbrosi in Africa. Volevo disinteressarmi totalmente della mia persona, non volevo riconoscimenti». Non è andata così. Anche il destino accarezza i propri desideri a nostra insaputa. Nel 1986 ha vinto il Nobel per la medicina. «Abitavo già a Roma. Ricordo che era quasi notte quando mi telefonarono per darmi la notizia. Stavo leggendo un giallo di Agatha Christie. Lo rammento perché è raro che io legga romanzi, prediligo i saggi di filosofia. Ho fatto eccezione per Tolstoj, Michael Crichton e Agatha Christie, appunto. La cerimonia della consegna del Nobel a Stoccolma non fu particolarmente eccitante, piuttosto una specie di grande festival».
Il primo agosto del 2001 la chiamò l´allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. «Mi disse: "Sono Ciampi e l´abbraccio. La nomino senatrice a vita per meriti scientifici e sociali". Riuscii a rispondere solamente grazie. Ero emozionatissima». Oggi il giudizio sulla politica è riassunto in un gesto di scoramento. La mano passata sugli occhi. «Sono assolutamente ignorante in fatto di politica, la mia appartenenza ad essa è di puro dovere civile e morale. Certo, sono sempre stata una donna di sinistra. In Parlamento ho trovato persone di grande intelligenza in entrambi gli schieramenti e amici come Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa e Anna Finocchiaro. La netta vittoria della destra nelle ultime elezioni mi ha sorpreso, ma sarebbe troppo facile sostenere che dopo vent´anni di fascismo e cinque di Berlusconi gli italiani hanno dimostrato ancora una volta di non avere capacità di scelta e di discrimine. Ci sono sentimenti e bisogni che vanno analizzati a fondo e io non possiedo gli strumenti per farlo. Mi ritiro, con modestia e rispetto».
Severa è anche la pagella al paese. «L´Italia dà l´impressione di essere vecchia, come se fosse prigioniera di una campana di vetro che le impedisce di camminare. In diciotto mesi il governo di centrosinistra ha lavorato bene, ma poteva fare molto di più. Potrei dire che gli è mancato il karma. Nella nostra classe politica, almeno per quanto riguarda la ricerca medica e scientifica, non c´è la consapevolezza che la conoscenza significa ricchezza. È un peccato, perché abbiamo un capitale umano eccellente e un grado di innovazione tecnologica che nulla deve invidiare al resto del mondo. Dalle nostre università escono ragazzi molto preparati che non trovano però un terreno fertile sul quale esercitarsi, così la gran parte di loro, se può, fugge all´estero. Li regaliamo agli altri, per vederli ritornare magari dopo dieci o vent´anni, un po´ più vecchi, un po´ più stanchi. L´Italia non è mai stata capace di investire sulle capacità intellettuali della sua gente. Manca la voglia di riconoscere il merito».
L´alloggio è al quarto piano di una casa costruita negli anni Sessanta su viale di Villa Massimo, alle spalle di Villa Torlonia. Sull´ascensore una bimba di quattro o cinque anni si stringe alle gambe della mamma e, mentre schiaccio il pulsante sulla bottoniera, mi chiede seria se sto andando a trovare la professoressa con i capelli bianchi. Rita Levi Montalcini non ha figli. Mi spiega perché cominciando da Dio. «Invidio chi ha la fede. Io non credo in dio. Non posso credere in un dio che ci premia e ci punisce, in un dio che ci vuole tenere nelle sue mani. Ognuno di noi può diventare un santo o un bandito, ma ciò dipende dai nostri primi tre anni di vita, non da dio. È una legge di una scienza che si chiama epigenetica, in altre parole si può definire il risultato del dialogo che si instaura tra i nostri geni e l´ambiente familiare e sociale nel quale cresciamo. Prenda una bicicletta o un insetto, oggi sono pressoché uguali a com´erano duecento anni or sono. Noi no. L´uomo è darwiniano al cento per cento. Ebbene, io a tre anni, a tre anni, glielo giuro, ho deciso che non mi sarei mai sposata e che non avrei avuto bambini. Sono rimasta condizionata dal rapporto vittoriano che subordinava mia madre a mio padre. A quei tempi nascere donna significa avere impresso sulla pelle un marchio di inferiorità. Eppoi ho visto troppe vite matrimoniali mai fortunate. Ne vedo tante anche ai nostri giorni. Vite tristi e vuote. Le racconto un episodio di quand´ero negli Stati Uniti. A un ricevimento mi si avvicina una signora e mi fa: "Anche suo marito è membro della National Academy?". Le rispondo "I am my own husband", sono io stessa mio marito. Lei si allontana frettolosamente e un po´ interdetta, pensando probabilmente che non so esprimermi in inglese. Ho rinunciato a costruire una famiglia, non all´amore. Questo no. Ho avuto degli affetti, mi sono innamorata, sono stata felice. Ma forse il mio unico figlio è stato l´Nfg. Ho avuto e ho amici importantissimi, gli amici di una vita: Renato Dulbecco, Giuseppe Attardi, il mio maestro Viktor Hamburgher alla Washington University di St. Louis, Norberto Bobbio, la poetessa Maria Luisa Spaziani. Tutto è stato enorme attorno a me».
Dal passato non si levano fantasmi. «Senza Mussolini e Hitler oggi sarei soltanto una vecchia signora a un passo dal centenario. Grazie a quei due, invece, sono arrivata a Stoccolma. Non mi sono mai sentita una perseguitata. Ho vissuto il mio essere ebrea in modo laico, senza orgoglio e senza umiltà. Non vado in sinagoga né in chiesa. Non porto come una medaglia il dato storico di appartenere a un genere umano che ha sofferto molto, né ho mai cercato di trarre vantaggi o risarcimenti morali. Essere ebrei può non essere piacevole, non è comodo, ma ha creato in noi un impulso intellettuale supplementare. Come si può affermare che Albert Einstein era di razza inferiore? Dovremmo abolire anche nella nostra testa il concetto di razza. Esistono i razzisti, non le razze. E a me interessano soltanto le persone. Durante la guerra, a Torino ho trasformato in laboratorio la mia camera da letto, un piccolo locale di due metri per tre in corso Re Umberto. Quella stanza diventò un centro di ricerca frequentato anche da alcuni miei compagni di scuola che professavano il fascismo e forse la domenica indossavano la camicia nera. Qualcuno cantava quelle stupide canzoncine. "Se ci manca un po´ di terra prenderemo l´Inghilterra, se ci mancherà il sapone prenderemo anche il Giappone...". Tutti assieme si rideva. Con l´avvento delle leggi razziali di Mussolini la mia famiglia fu costretta a trasferirsi a Firenze. Scegliemmo un altro cognome, lo decisi io, Lupani, il primo che mi venne in mente. Ci ospitava una famiglia che vagamente sapeva di noi. Mi specializzai nella stampa di documenti falsi per gli ebrei, avevo rapporti con il Partito d´azione. Un giorno mi venne a trovare il professor Giuseppe Levi e per non farci scoprire disse semplicemente alla padrona di casa: "Mi chiami la Rita". Vede, sono stata anche allora come Crusoe. Sola. Devo alla solitudine anche il Nobel. Sono giunta alla scoperta sull´Nfg perché ero l´unica a lavorare in quello specifico campo della neurologia. Ero sola in una giungla e non conoscevo nulla o quasi. Sapere troppo, spesso, ostacola i nostri progressi».
Le domando se ancora sogna. Mi dice di sì. Spera che quando lei non ci sarà più altri continueranno i suoi studi sulla molecola proteica che le è valsa il Nobel, perché le sue applicazioni cliniche nella cura delle malattie degenerative del cervello possono essere straordinarie. «Ma la cosa che più desidero è la pace in Medioriente. Mi interrogo spesso sul conflitto tra arabi e israeliani. Non posso accettare l´idea di chi vorrebbe la soppressione dello Stato d´Israele e allo stesso modo non accetto che i palestinesi abbiano poche possibilità di esprimere liberamente la propria intelligenza. Credo ancora sia possibile raggiungere l´obiettivo di una convivenza pacifica tra i due popoli. Siamo tutti uguali, ha detto Confucio».
Il tavolino di cristallo di fronte al divano è pieno di fiori. Sono rose bianche e gialle, azalee, iris, orchidee. Non sono lì per ciò che accadrà tra due giorni. Sono per una donna che ama i colori tutto l´anno. Lei si alza, mi tende le mani. Mi aspetto la loro fragilità. Le sfioro appena. Sono invece secche e nodose. Sono ferme, la stretta è forte e calda. «La vita non mi ha maltrattata. Sono una donna senza rimpianti. Se rinascessi ripercorrerei le stesse strade. Tutto è stato a mio vantaggio, anche ciò che non ho avuto, anche ciò che ho perso lungo il cammino. Certo, avrei potuto essere una donna migliore. Sono pessima in matematica. Non conosco la musica, solo un po´ di Beethoven e Bach, qualcosa di Schubert, Mozart e Chopin. Non abbastanza. Amo molto il teatro, non l´opera. Nei rapporti umani ho trovato la compensazione ai miei novantanove anni. Accetto questa età senza fatica, non mi vergogno delle mie doppie protesi acustiche, dei miei occhi che non vedono quasi più. Voglio andare avanti. Non sono stanca di vivere. E non cerco la morte. Arriverà. Forse tra un mese, forse tra due anni, chissà. Le mie colpe sono di scarsa entità. Spero di avere pochissimo da farmi perdonare».