martedì 22 aprile 2008

l’Unità 22.4.08
Ingrao: guai a rassegnarsi. È la destra peggiore dobbiamo salvare Roma
di Simone Collini


Pietro Ingrao confessa di vivere «con rabbia e con dolore» la situazione politica che si è venuta a creare dopo il 14 aprile. «C’è stata una vittoria delle forze reazionarie raccolte intorno a Silvio Berlusconi e di questo successo di una brutta destra, e delle sue fonti, bisognerà fare un’analisi cruda e approfondita», dice lo storico leader comunista. «Ma guai a rassegnarsi o a considerare la partita conclusa».

«Ci sono questioni brucianti tutt’ora aperte - sottolinea Ingrao - prima fra tutte la lotta per la guida di Roma».
È questa secondo lei la priorità, ora?
«Sono necessarie, contemporaneamente, un’analisi approfondita e di massa delle cause della sconfitta e un tornare in campo, un rilancio della lotta, innanzitutto per le elezioni del sindaco della Capitale. Roma è città simbolo, e oggi la scelta di chi dovrà dirigere il Campidoglio assume una doppia valenza: per il domani di questa metropoli così radicata nella storia d’Italia e del mondo, e per gli sviluppi dell’aspro scontro aperto con la destra berlusconiana».
Una destra diversa da quella che vinse nel 2001, con una Lega più forte. Una destra peggiore sostiene la sinistra.
«Sì, è peggiore. E del resto a questa deriva reazionaria non ha resistito nemmeno la relazione con un moderato come Casini».
È preoccupato per quello che potrà fare il prossimo governo?
«Purtroppo sì. E mi sembra che sia non abbastanza forte l’allarme per questa deriva autoritaria di schietta marca berlusconiana. Forse non tutti, nella sponda democratica, hanno capito bene tutto il rischio di questo blocco reazionario a cui hanno dato vita Berlusconi e Bossi».
Per alcuni commentatori la Lega abbandona i tratti a cui ci ha abituato nel passato e ne assume di più istituzionali. Lei che dice?
«A me sembra di cogliere anche nelle file democratiche una tendenza a leggere la Lega come un buffo folklore. Sarà che ho una chiusura paesana, perché invece io sono colpito dall’intensità con cui si è allargata la connotazione reazionaria dei bossiani».
Che risposta va data a questa destra?
«Noi, forze dell’opposizione, siamo chiamati in questi giorni, direi in queste ore, a sviluppare una doppia azione: capire e rendere chiare le cause della nostra sconfitta e contemporaneamente impegnare compattamente tutte le nostre forze per la prova di Roma e per quelle delle altre città in cui si torna subito a votare. Non ci sono consentiti ritardi o esitazioni».
Parla col “noi”: per la prima volta nella storia repubblicana, in Parlamento non ci saranno esponenti di partiti comunisti e socialisti.
«È un dato su cui non c’è stata finora un’adeguata riflessione. Eppure io mi ricordo che svolta e che emozione per noi quando, cacciati i tedeschi da Roma, nelle nuove assemblee elettive entrarono finalmente anche i “rossi”, quelli che venivano da Gramsci...».
Nelle forze della Sinistra arcobaleno si è aperto un vero e proprio scontro sulle cause della sconfitta. Secondo lei è ciò di cui c’è bisogno, adesso?
«Non propongo né a me né ai miei compagni e amici il silenzio sulle cause e le responsabilità della sconfitta. Vengo da una storia di aspre battaglie anche interne alla mia parte, forse c’era anche una pesante inclinazione a “punizioni” pesanti e affrettate. Ma io credo, spero, che noi della sinistra abbiamo anche imparato qualche cosa dai nostri errori del passato».
Cosa vuole dire?
«Ho una formazione leninista-stalinista. Ho vissuto in Italia le vicende straordinarie e talvolta eroiche con cui la componente comunista ha animato nel mio Paese, ma più largamente nel vasto mondo, una lotta epica per i diritti dei lavoratori. E tuttavia quella lettura e pratica del mondo, che chiamammo leninismo, è stata sconfitta. E oggi io e tanti altri miei compagni sappiamo bene per quali errori pesanti si determinò il crollo».
Tornando alla sinistra e applicando il suo ragionamento all’oggi?
«Lo scontro con la destra reazionaria è tutt’ora in corso, e anche il confronto elettorale è ancora in atto in molte città italiane. Per me questo passa avanti a tutto. Può anche darsi che dentro di me ciò sia radicato nell’antica, ostinata tensione che avevamo per realizzare l’unità, quella parola scelta addirittura a nome e simbolo del nostro giornale...»
Però è innegabile che errori a sinistra sono stati commessi, non c’è da stupirsi se ora si avverte la necessità e l’urgenza di capire...
«Ripeto, non sto chiedendo il silenzio. Anzi. La stessa battaglia aperta per Roma e altre città italiane chiede una iniziativa fresca e rapida per realizzare ciò che ci è mancato per la vittoria. Seppure da lontano, riesco a vedere le carenze, le divisioni, i silenzi che ci hanno fatto male. Ma dico un duro no alla rissa interna nelle nostre file».
Insiste molto sul ballottaggio di domenica: che ne è delle questioni di più ampio respiro a cui si è dedicato?
«Questo è il primo passo, necessario, ma è chiaro che l’amara vicenda italiana non cancella per nulla - non deve cancellare - lo scontro che continua nel vasto mondo: scontro a mano armata. In luoghi cruciali del globo tuttora si spara: nei modi della moderna “uccisione di massa”. Sembra incerto persino il luogo in cui si terranno le Olimpiadi. Le dimensioni della lotta hanno questi connotati. È viva in me l’amarezza per la scomparsa di quella nozione solenne e dimenticata che usammo chiamare: pace. Chi spera ancora nella pace?».
È la cosa che più la turba?
«Questa, sì. Ma resto turbato anche da questioni - come dire? - più semplici. Ostinatamente (forse ottusamente...) non riesco a capire perché siano ancora in campo istituzioni umane (chiamiamole così...) come la pena di morte, o anche l’ergastolo. Non le capisco nemmeno quando vengono usate contro gli assassini o i massacratori come quel tale Saddam Hussein...».
I difensori della pena di morte sostengono che sia per scoraggiare gli assassini.
«Scoraggiare uccidendo... Che straordinaria invenzione. Quante ne sappiamo inventare noi esseri umani».

l’Unità 22.4.08
I Demoni di Montaldo, 20 anni dopo
di Gabriella Gallozzi


CINEMA Nasce dalla vita di Dostoevskij e fa riflettere su violenza e intolleranza il nuovo film di Giuliano Montaldo «I demoni di San Pietroburgo». Il regista qui condanna le bombe dei terroristi, quelle Usa, e vede la distanza della sinistra dal «popolo»

«La violenza causa solo morte e distruzione, non accetto i crimini. E se i miei film toccano l’attualità è perché è la Storia che ricorre»

«Ogni intolleranza mi fa soffrire terribilmente ma con l’egoismo non si vive: quindi conservo un po’ di ottimismo per offrirlo ai giovani»

C’è un demone che ha riportato Giuliano Montaldo dietro alla macchina da presa dopo quasi vent’anni (è del 1989 Tempo di uccidere): l’intolleranza nei confronti dell’intolleranza. Come sempre nel suo cinema, da Sacco e Vanzetti a Giordano Bruno, tanto per citarne alcuni, il tema è ricorrente.
E non poteva essere da meno anche I demoni di San Pietroburgo, stralcio di grande impatto visivo dalla vita di Fjodor Mikhajlovic Dostoevskij - in sala da giovedì per RaiCinema che lo produce con la Jean Vigo.

Come progetto (Paolo Serbandini firma il soggetto e poi a sei mani la sceneggiatura con Monica Zapelli e lo stesso regista) il film del regista 78enne risale addirittura agli «anni di piombo», il cui riferimento è il punto di partenza per uno sguardo incredibilmente «contemporaneo». Dostoevskij, anziano e malato, dopo essere scampato al plotone di esecuzione, dopo la detenzione in Siberia, riflette sul suo impegno da rivoluzionario, in preda al demone del dubbio e del rimorso per poter essere stato un cattivo maestro.
«Che ne sapete voi del popolo?» rimprovera Dostoevskij ai giovani rivoluzionari borghesi che vivono nell’agio. Sembra quasi una riflessione messa lì all’indomani della débâcle elettorale e alla scomparsa della sinistra in parlamento....
«Tante volte nei miei film mi è capitato di toccare l’attualità ancor prima che le cose accadessero. Come la scena in Sacco e Vanzetti: ricorda il caso Pinelli per cui mi hanno detto che l’avevo aggiunta in seguito, ma non è stato così... Oppure che tutto il film sia tornato di attualità per la moratoria sulla pena di morte. È che la storia è ricorrente. Nel caso de I demoni, poi, stiamo parlando di Dostoevskij, un autore che ha sempre cercato di capire il popolo, la gente, andando a scavare nel “sottosuolo”. Durante la prigionia in Siberia ha dovuto convivere con l’arroganza e la violenza del popolo. La colpa che rimprovera ai terroristi è quella di vivere nella ricchezza, totalmente scollati dalla realtà delle persone comuni. E invece bisognerebbe tornare davvero a stare fra la gente. Come diceva Zavattini: bisogna prendere l’autobus per capire davvero quello che ci circonda. Dostoevskij usava la penna e non la telecamera. Che questo, all’indomani delle elezioni, tornasse di così grande attualità davvero non potevamo saperlo. Come anche la coerenza, la professione di “libero pensiero” per le quali Dostoevskij rischia il plotone d’esecuzione. Quanti scrittori ancora oggi sono condannati a morte per le loro idee?»
Altra immagine, altro squarcio d’attualità: la donna che vede morire la sua bambina nell’attentato all’alto graduato zarista...
«Quella scena è un’immagine chiave del film. La bomba del terrorismo, la violenza idiota che causa morte e distruzione. Qui racconto tutta la mia intolleranza per le bombe, per la violenza, per quelli che credono si possa cambiare il mondo uccidendo degli innocenti. Sono contro questi crimini nascosti dietro falsi ideali».
L’immagine delle bombe dei «terroristi» porta anche a quelle Usa sull’Iraq, sull’Afghanistan... giusto per citare le più recenti.
«Certo, sono sempre espressione di violenza e terrorismo. Oggi si chiama bomba intelligente, ma come si può definire tale? Sicuramente non voglio conoscere chi l’ha inventata. Sono tutte forme di intolleranza, cosa di cui soffro terribilmente e che ho raccontato in tanti film...».
Ma dunque quale può essere la strada per un cambiamento?
«Se la rivoluzione si potesse fare soltanto con le idee allora sì. Io sono della generazione che c’era nel 1945. Eravamo pieni di speranza e di ottimismo. Poi ci sono stati rubati sia l’una che l’altro: ce li hanno portati via la storia e gli eventi. Ma soltanto con l’egoismo e senza ottimismo non si può vivere. Per questo mi conservo gelosamente quel po’ di ottimismo che mi resta per offrirlo alle giovani generazioni».

l’Unità 22.4.08
Un film sull’oggi dove rintracciare la battaglia tibetana o il tracollo a sinistra
Attenti ai cattivi maestri. Dostoevskij ci avvisa
di Alberto Crespi


Fjodor Michajlovic, io sono convinto che prima o poi la rivoluzione vincerà. Ma sono pagato perché questo accada il più tardi possibile». Sono profetiche, le parole che l’inquisitore Pavlovic rivolge allo scrittore Dostoevskij; ha letto attentamente Proudhon, Marx e Bakunin e sa che c’è del buono nelle loro parole, ma un burocrate di Stato deve fare prima di tutto il suo dovere. Quando poi la rivoluzione, in Russia, vincerà, l’utopia sfocerà in un bagno di sangue che continua, in forme diverse, ancora oggi.
I demoni di San Pietroburgo, nuovo film di Giuliano Montaldo a 19 anni di distanza dal precedente Tempo di uccidere, comunica tutta la vertigine della Storia con la «S» maiuscola. Parla di Dostoevskij, dei nichilisti, degli attentati contro la famiglia dello Zar che insanguinano San Pietroburgo nel 1860. Ma parla del futuro di quel paese, e soprattutto parla di noi italiani: si rivolge a una generazione che ascoltando i «cattivi maestri» ha creduto di interpretare i desideri del «popolo» e di realizzarli con la violenza. Il Dostoevskij di Montaldo - brillantemente interpretato dall’attore jugoslavo Miki Manojlovic - da giovane ha corteggiato l’ideologia rivoluzionaria, ma dopo esser stato condannato a morte e aver ricevuto la grazia davanti al plotone d’esecuzione ha trascorso dieci anni in Siberia e lì ha conosciuto il popolo vero, e ora può dire che la violenza non serve a nulla. Ma gli ex discepoli non sono più disposti ad ascoltarlo e fermarli è forse impossibile...
I demoni di San Pietroburgo si muove su due livelli, narrativi e filosofici. Il «presente» del 1865-66, che vede Dostoevskij impegnato nell’affannosa stesura del Giocatore, si mescola ai flash-back sulla prigionia in Siberia; lo stile solenne della messinscena storica si fa parabola contro l’uso della violenza a fini politici, in ogni tempo e in ogni luogo. È la forza di Dostoevskij, che non era solo uno scrittore immenso, ma anche un uomo nella cui vita si riflette, come in un ologramma, l’intero mistero dell’umanità (anche qui ha ragione il Pavlovic del solito, grande Roberto Herlitzka: «La sua vita, Fjodor Michajlovic, è più affascinante dei suoi romanzi»). Una forza che Montaldo, già capace di confrontarsi con il genio ribelle di Giordano Bruno e con la curiosità umanistica di Marco Polo, ci ridà sullo schermo al 100%. I demoni di San Pietroburgo è leggibile a mille livelli. Oggi - il nostro «oggi» di questo aprile 2008 - può sembrare un film sulla resistenza non violenta dei tibetani, sulla bizzarra amicizia Putin-Berlusconi o sul tracollo elettorale della sinistra radicale. Domani, chissà.

l’Unità 22.4.08
C’era una volta il Novecento
di Adolfo Di Maio


Diciamoci la verità: a sinistra si sentono, tutti, un po’ più orfani, dopo il terremoto politico, un vero e proprio tsunami, che ha spazzato via la Sinistra Arcobaleno e cioè l’ala sinistra della “sinistra”.
E, in realtà, quanti di coloro che albergano a sinistra misuravano se stessi, il proprio modo di essere e di manifestarsi, di fare politica, sul metro di coloro che, nell’area, si professavano comunisti e/o post-comunisti, rifondatori del comunismo, socialisti democratici, nenniani o craxiani, verdi ambientalisti e quant’altro! E ora, come ci si fa a definirsi tout court “democratici”, senza i compagni di strada?
Il passato, più o meno presente, e/o meglio il “maledetto” Novecento, sembra diventato d’improvviso “storia” e lo è, in realtà, diventata, così come ha osservato con la consueta lucidità Aldo Schiavone nella Repubblica di questi giorni.
Freddi interpreti dei risultati elettorali si sono già affrettati a proferire giudizi, nel riconoscere ad esempio che è stato un po’ uscire dai sogni del Novecento, entrare nel XXI secolo, acquistare coscienza che questa è la scommessa posta dalla “modernità” e che, al di là di questa, non v’era che immaginare di stare in compagnia di gogoliane “anime morte”.
Il Walter nazionale aveva ben visto nel fondo, a voler camminare “da solo”, senza più la compagnia, ingombrante, degli amici di strada. E non è un caso che i circa due milioni di voti persi dalla sinistra sono entrati nella unica realtà che, per essi, allo stato era proponibile e cioè nel Partito Democratico. E, a ben considerare, la mancata vittoria non è dunque dovuta agli errori della sinistra ma al fatto che essa, aprendo gli occhi sulla realtà, doveva constatare che questa era ben più seria di quanto essa stessa fosse indotta a pensare. E chiamiamola “destra” o “popolo della libertà” o con altra espressione, la denominazione poco conta: nietzsciana volontà di potenza, ri-appropriazione del territorio in forme inconsuete, periferia, in salsa federalista, che si ribella al centro “ladrone”, ma poi sovratutto antipolitica. Fattori, umori, tutti presenti, senza esclusione alcuna, in una società indistinta, ove etichette, quella di destra e/o di sinistra, rischiano di non essere in grado di rappresentare mutamenti, trasformazioni, precarietà in certa di padroni, professionalità emergenti, non più leggibili con il linguaggio, politichese, del Novecento.
Il leniniano “che fare”, si pone dunque in termini nuovi! Ma la ragione può indurre a dire che i problemi non sono sogni, ma dura realtà, e continuano ad essere più complicati e ingarbugliati di prima e che la “politica”, pur sempre, è l’unica, deputata in prima persona a risolverli. Di qui la convinzione che le forme della politica siano destinate, pur sempre, a sopravvivere ai terremoti e la “storia” può continuare ad essere ancora presente nell’agire e nella memoria degli uomini. È questa anche una forma di ottimismo della volontà!
Università Roma Tre

l’Unità Roma 22.4.08
Fritz Lang l’«inesorabile»
Così veniva definito da Truffaut il regista al quale la Sala Trevi dedica una rassegna
di Federico Pedroni


«UNA PAROLA SOLA per qualificarlo: inesorabile. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina, ogni taglio, ogni spostamento degli attori, ogni gesto ha qualcosa di decisivo, di inimitabile». Con queste parole François Truffaut definiva Fritz Lang, uno dei giganti del cinema mondiale che la Sala Trevi omaggia oggi e domani con otto film. Lang è uno dei registi che meglio ha saputo mescolare la forza stilistica tipica del cinema espressionista tedesco con una feroce tensione morale anche quando, dopo la fuga dalla Germania nazista, si è trovato a lavorare nel meccanismo produttivo degli studios americani. Negli anni ’40 e ’50 Lang ha saputo riscrivere come pochi il cinema noir realizzando veri e propri capolavori che hanno fatto la storia del cinema di genere americano, da "La donna del ritratto" a "Il grande caldo". E proprio "La donna del ritratto" chiuderà i due giorni di programmazione domani sera alle 21.20, presentato da Vieri Razzini, distributore cinefilo che al grande cinema classico americano dedica da anni una bellissima collana di DVD. Il film racconta la discesa agli inferi di un tranquillo professore di criminologia, interpretato da Edward G. Robinson. Il film indaga, come molte delle opere di Lang, sul filo sottile che lega colpevolezza e innocenza, sul lato più oscuro dell’animo umano, sul torbido vero che giace sotto le apparenze più accettabili. A questa tensione etica sono riconducibili anche, in maniera più o meno marcata, anche altri due film presentati domani: il classico "Gardenia blu" e il meno conosciuto, bellissimo, "Bassa marea" mentre all’impegno antinazista di Lang è da ascrivere "Maschere e pugnali", interpretato da Gary Cooper e censurato per la violenta requisitoria antiatomica del finale originale. La giornata di oggi ci dà invece la possibilità di scoprire, accanto a un capolavoro celebre come "M - Il mostro di Dusseldorf", tre rarità di grande fascino: "Harakiri", presentato in versione restaurata, e "L’inafferrabile" - entrambi del periodo tedesco - e il bellissimo "Il vendicatore di Jess il bandito", primo film a colori di Lang e sua rara incursione nel western che l’autore viennese arricchisce con i suoi interrogativi etici e con una riflessione non banale che lo porta a confrontarsi con i miti fondanti dell’America e della sua epopea.

Repubblica 22.4.08
Simboli e passato
Il candidato di An dal Fronte della Gioventù alle stanze del potere
Gianni, crociato eclettico tra Evola e Santo Sepolcro
L’ex ministro e quella celtica fatta benedire
di Filippo Ceccarelli


Arrivato al ministero fece benedire la stanza che era stata di Pecoraro
Il candidato sindaco: la celtica per me ha valore religioso, era di Paolo Di Nella
Da ministro ha celebrato il solstizio d´inverno e scalato il K2

Ballottaggi: a ciascuno la sua croce. Quella che porta appesa al collo Gianni Alemanno è una croce celtica. Poco amichevolmente, in verità, l´ha ricordato nei giorni scorsi l´ex sodale Storace, ma si sapeva dal maggio del 2006, quando alle Invasioni barbariche Daria Bignardi in pratica costrinse l´esponente di An a sbottonarsi il colletto della camica mostrando quel ciondolo alle telecamente, in una specie di outing a sfondo politico, identitario e confessionale.
«Per me - disse in quell´occasione - è un simbolo religioso e rappresenta un modo d´essere del cristianesimo celtico. Lo porto anche in ricordo dei miei amici persi». Quella croce, in particolare, apparteneva a un giovane di destra trucidato dai «rossi» negli anni di piombo, Paolo Di Nella - a cui nel 2005 l´amministrazione Veltroni ha dedicato una strada.
C´è pure da dire che il simbolico spogliarello allora non piacque affatto ad Alemanno: «Lei mi fa una violenza - disse - perché certe cose è meglio non metterle in campo». Ma da due anni a questa parte, grazie anche a spettacoli politici di questo genere, «certe cose» hanno ampiamente guadagnato il campo della vita pubblica. Tanto che ieri il candidato sindaco del centrodestra non solo ha insistito sulla natura religiosa della sua croce celtica, ma ha rivelato di averla anche fatta benedire «al Santo Sepolcro», nell´anno 2003, «durante il viaggio che ho fatto in Israele».
Ora. Posto che gli elementi devozionali, ancorché privati, sono definitivamente entrati nell´agone, converrà qui esprimere qualche serio dubbio sul valore esclusivamente sacro di ciò che l´ex ministro Alemanno porta al collo. Perché si tratta certo di un simbolo del cattolicesimo irlandese, come ha ricordato ieri anche il presidente emerito Cossiga, ma nelle sue radici indoeuropee la croce celtica si trova connessa alle iscrizioni rupestri, all´esoterismo solare, ai graffiti bretoni ed etruschi, alla cultura druidica dei celti e poi ancora ai cimiteri gotici, alla divisione «Charlemagne» delle Ss, fino all´universo di Tolkien.
Secondo un classico, ormai, come «Fascisti immaginari», di Luciano Lanna e Filippo Rossi (Vallecchi, 2003) la croce celtica risulta molto poco santa e assai estremistica, introdotta da Jean Thiriart, l´«orologiaio di Bruxelles», leader di Jeune Europe. Messa al bando da Almirante nel 1978, mantenuta in vita dai rautiani della tradizione evoliana, allora in odore di magia e paganesimo; e quindi, una volta approdata fra gli ultrà del calcio, dichiarata illegale dalla legge Mancino (1993). Infine - se di fine si tratta - ri-santificata da Alemanno, ieri camerata certamente oltranzista, oggi crociato parecchio eclettico.
Nel senso che è di sicuro cattolico, ma per sua ammissione ha praticato la meditazione Zen. Va a messa con una certa regolarità, ma è stato scritto che si fa fare le carte dalla maga Luana. Non che tutto questo sia motivo di scandalo, gli osservatori anzi ne traggono spunti di un certo interesse sulla trasformazione del ceto politico e della destra in particolare. Nel 2001, appena preso possesso del ministero dell´Agricoltura, «a scanso di equivoci», come poi spiegò con quella che parve una allusione ai costumi dei predecessori, Alemanno fece benedire da un sacerdote le stanze fino a quel momento occupate da Pecoraro Scanio e dal suo staff. Poi sì certo con il leader dei verdi fece anche pace, partecipando a una sorta di incredibile gara di free-climbing, entrambi imbracati dentro il cratere del Vesuvio.
Ma quello che qui vale forse la pena di sottolineare è che un paio d´anni dopo, per la precisione la notte del 21 dicembre del 2003, il ministro dell´Agricoltura volò con l´elicottero in un paesino delle Marche, Campodonico, per celebrare all´aperto con alcuni amici e un grande falò quello che al locale parroco parve «il rito pagano del solstizio d´inverno». E vai a sapere se di questo si trattava, o di un «seminario» come tempestivamente spiegarono al ministero.
Nel frattempo, è possibile che il potere abbia molto cambiato «Lupomanno», com´era detto nel Fronte della Gioventù, quando l´ardore politico e la tempesta di quegli anni più di una volta lo portarono in situazioni estreme, scontri, fermi, arresti. Si sa come vanno queste cose: questuanti, auto, riviste, foto, feste, interviste di Anna La Rosa, applausi, codazzi, vacanze esotiche, pranzetti sullo Yacht di Diego Della Valle, immersioni e scalate anche impegnative tipo il K2, ma proprio per questo con i giornalisti dei tg al seguito.
La secolarizzazione nera. Al punto che ad Alemanno è ispirata la figura del ministro di An - Manlio Germano - che nel film di Virzì Caterina va in città si vergogna ormai dei vecchi camerati. Non si sapeva però che intanto il vero Alemanno, il futuro candidato che promette di regalare a Roma due stadi e il casinò, faceva benedire la celtica. E in questa trasfigurazione di simboli, in questo carosello di croci disvelate ed estremismi rimossi si misura tutto il senso di un passaggio che anche solo cinque anni fa nessuno avrebbe mai potuto immaginare.

Repubblica 22.4.08
Jorge Luis Borges. Perché amo il labirinto
di Achille Bonito Oliva


Una antica conversazione con l'autore di "Finzioni" apre una sorta di enciclopedia dedicata all´arte nostra contemporanea
"Il mio amico de Chirico è un grande pittore ma ho perso la vista non so più nulla"
"Ariosto è come un fiume con tanti meandri, non è come leggere Kafka o James"

Di uscirà nei prossimi giorni l´"Enciclopedia della parola" (sottotitolo: Dialoghi d´artista. 1968-2008, Skira, pagg. 504, euro 34). Qui pubblichiamo parte della "Prefazione in forma di dialogo sul labirinto dell´arte" con Jorge Luis Borges. L´incontro con lo scrittore si è svolto a Buenos Aires nel 1981.
«Noi scriviamo delle commedie che non si assomigliano... commedie in assoluto... è impossibile che abbiamo scelto... Orlando, ad esempio».
E´ curioso che a lei piacciano sempre grandi scrittori che non sono labirintici.
«Bene Ariosto... è un poco... sì, però è un labirinto felice, è come un fiume con tanti meandri, non è un labirinto nel senso, diciamo, di Henry James o Kafka... sono labirinti quelli di Piranesi, è vero, carceri... dimensioni; però Ariosto è un´altra cosa, è un labirinto felice, nel senso di una selva, tutto il mondo è un labirinto. Una volta ho immaginato».
Ha immaginato che cosa?
«La cosa più impossibile, impossibile pronunciarla al sole... credo che l´idea sia questa... nell´ultimo viaggio, Dante è stato a Venezia, vero?... Andiamo a supporre, se questo è supporre, che egli si sia proposto di scrivere un altro libro dopo la Commedia, che libro poteva proporsi... che fosse un altro racconto... salvo che non si sia proposto niente, perché la Commedia era tutto. Una bella storia... c´era un soliloquio, un monologo di Dante: scriverò tale libro, non è necessario che lo scriva, perché immaginarlo sarebbe moltissimo, no? Dopo muore senza scriverlo, è un racconto impossibile, no? Perché uno si immagina, nel periodo d´oro della Commedia... Però potrebbe essere un racconto fantastico, troppo fantastico... e uno lo interpreta in diversi modi, tutti permessi dal testo. In generale, quando uno traduce, sceglie un´interpretazione e la accentua, però l´ambiguità, o l´oscurità, può essere una ricchezza, anche... è così misteriosa la letteratura che non si sa cosa è chiaro e cosa è oscuro... è un´arte tanto misteriosa. tanto difficile da realizzare».
Esiste una contraddizione tra la chiarezza e il labirinto?
«Sì, soltanto che il labirinto è stato ideato con chiarezza. Vuol dire che al labirinto, al caos, non si arriva col caos, si arriva col cosmo. S´intende che il labirinto ha un ordine segreto. E´ disposto per l´ordine e per essere compreso... può darsi».
Qual è il primo labirinto che ha visto in vita sua?
«Il primo l´ho visto su un´incisione; dopo sono stato a Cnossos, a Creta; poi a Hampton Court, che è un maze, diverso, è un labirinto un poco frivolo, un poco scherzoso; però tante volte il labirinto è un simbolo per la felicità... e tu, e tu hai vissuto per questo, perché ci sentiamo smarriti nel mondo, e il simbolo evidente è essere smarriti nel labirinto... e questa parola "labirinto" è così bella!».
Cosa significa per lei la parola "labirinto"?
«Suggerisce qualcosa di terribile. Anticamente si riferiva alle gallerie delle miniere, il labirinto... E´ curioso, in Chaucer nel XIV secolo, il "labirinto" è un labirinto che si muove, fatto di giunchi, circolare, molto strano; e ho letto che il labirinto, Dürer se lo immaginava girevole, ma Dürer si era perso nel labirinto che gira, ma dal labirinto si entra e si esce rapidamente, una specie di circolo mobile, "Laborintus" scriviamo, che bella parola, inventa figure... il Minotauro...».
Secondo lei, i gironi dell´inferno possono essere considerati una specie di labirinto?
«Forse sì».
Il labirinto fino al Rinascimento era una struttura in cui si arrivava sempre al centro; dopo il Rinascimento, col manierismo, invece, il labirinto diventa il luogo della perdita, quindi esiste un labirinto che è più vicino alla nostra sensibilità e che comincia col manierismo e col barocco.
«Chesterton ha detto: "Noi siamo quello che noi tutti temiamo, un labirinto senza centro". Lui ha usato un´espressione di timore cosmico, no?».
Il suo labirinto, quello della sua letteratura, Borges, ha un centro o no?
«Sì, ha un centro, un racconto fantastico di significati senza spiegazioni; è un apparente labirinto, e dopo si vede che no, che è un cosmo, che c´è un ordine, che c´è una spiegazione ragionevole. Io non so perché ho usato tanto "labirinto"; mi ha richiamato tanto l´attenzione l´idea del labirinto, l´idea del Minotauro, da quando ero piccolo, e io non saprei spiegarmelo. Quell´ossessione è stata notata dai lettori, io non la conoscevo, la esercitavo o ero vittima sua, però non ho mai cercato di spiegarmela. Lo sa che io non ho mai letto niente di scritto su di me, io non ho mai letto un libro scritto su di me, o perché m´interessava poco il tema, o perché m´interessava troppo. Si è scritta una biblioteca su di me, io non ho mai letto niente; a casa mia non ci sono neanche libri miei, ci sono degli autori, non i miei libri».
Borges, il suo labirinto, il labirinto dei suoi racconti, delle sue poesie, ha un centro...
«Io credo di capire che abbiano un centro, ma tante volte no, per incapacità mia. Io non cerco di essere oscuro, io cerco di essere classico, però sembra di no, sembra che io sia disgraziatamente moderno. Un mio amico, de Chirico, quando diceva che qualcosa era brutto, diceva: "E´ moderno, è brutto"».
Lei cosa ne pensa della pittura di de Chirico?
«E´ un grande pittore; non posso vedere le sue opere, perché ho perso la vista. La mia opinione non vale niente, perché ho perso la vista come lettore. Nell´anno 1955 ho potuto vedere qualche film, dopo... ho potuto vedere dei volti, e adesso no, adesso vivo nel centro di una nebbia, di una nebbia luminosa, più o meno grigiastra o verde. Ho perso due colori, che sono il rosso e il nero; li vedo come il pardo (indica un colore che va dal grigio al verdastro, spesso attribuito alla pelle dei meticci, n.d.t.) e come azzurro ora verdastro. Quello che ora mi fa nostalgia è il nero; io avevo l´abitudine di dormire nell´oscurità, adesso non c´è oscurità per me, adesso è tutto vagamente luminoso e non vedo forma, non vedo movimento. Se muovo la mano, la vedo che si muove, però non vedo che è la mia mano; e quando muovo las tontas (in gauchesco: "gamboni", "piedoni", n.d.t.) mi sembra di vederli, e m´incattivisco di non vederli. Però non è terribile, perché è stato un processo così lento che non c´è stato nessun momento tragico; se fosse stato brusco, sarebbe stato, sì, tragico, e uno può suicidarsi. Siccome io ho visto i miei genitori morire ciechi, mia nonna morire cieca, il mio nonno inglese morire cieco, e più indietro... non lo so».
Si può dire che nella sua letteratura...
«Io conosco molto poco della letteratura, io la scrivo e la dimentico, voi la conoscete di più perché l´avete letta. Io l´ho letta per correggere le bozze, e ultimamente neanche, perché non potevo correggere le bozze. Io cerco tanto di dimenticare quello che ho scritto e di pensare a ciò che scriverò; credo che sia malsano guardare indietro. Franco Maria Ricci mi ha detto: "Pubblichiamo per non passare la vita a correggere i manoscritti". Se si pubblica un libro, ci si libera di lui; io pubblico un libro e non so se sia venduto, se sia tradotto, se ha avuto successo, se hanno scritto su di esso, se non hanno scritto. Io giudico attraverso i miei amici; se i miei amici non me ne parlano è perché non è loro piaciuto, e se me ne parlano sono molto generosi di particolari. Però molte volte se pubblico un libro, non dicono una parola; io capisco che non è loro piaciuto e cambio tema... e cerco un altro tema. Non ho mai cercato di essere famoso. E´ questione di generazioni; quando io ero giovane non si pensava al successo».

Corriere della Sera 22.4.08
L'intervento di Giovanni De Luna: il Ventennio non significò solo le leggi del '38, ma anche la fine della libertà
L'interpretazione Equiparare regime mussoliniano e nazismo serve anche a salvare almeno un merito storico del comunismo
Se la Shoah oscura l'antifascismo
L'uso strumentale del razzismo: un errore che la sinistra paga oggi
di Ernesto Galli Della Loggia


Le tesi di De Felice avrebbero avuto lo scopo di attenuare il carattere totalitario del regime

Se «per decenni la memoria della Resistenza, dell'antifascismo e della deportazione politica era così straripante da annettersi anche quella della Shoah, oggi la situazione si è capovolta, e nel segno della Shoah a rischiare di sparire dal discorso pubblico e dalla nostra memoria collettiva è proprio l'antifascismo». Con queste parole, qualche settimana fa, sulla Stampa («Il fascismo derubricato») Giovanni De Luna ha voluto unire il proprio grido d'allarme a quello dell'Associazione degli ex deportati politici (Aned) per la decisione del governo Prodi di affidare il nuovo allestimento del Padiglione italiano del Museo di Auschwitz esclusivamente a organizzazioni ebraiche come il Cdec e l'Ucei. Dunque con la virtuale esclusione dell'Aned la quale, invece, aveva avuto l'incarico in questione per l'allestimento precedente, eseguito negli anni Settanta. Ecco la prova per l'appunto, secondo De Luna, che la memoria della Shoah ha inghiottito quella dell'antifascismo, sicché oggi, egli lamenta, «per prendere le distanze dal fascismo basta condannare l'infamia delle leggi razziali del 1938» — cosa che anche a Fini e al suo partito non è stato difficile fare — «quasi che quelle leggi esaurissero per intero la dimensione totalitaria del regime e possano costituire un ottimo pretesto per chi vuole dimenticare che il fascismo prima uccise la libertà e la democrazia e poi perseguitò gli ebrei».
In quello che dice De Luna c'è senz'altro qualcosa di vero che non riguarda certo solo l'Italia. Dietro lo spostamento d'ottica che egli in qualche modo denuncia c'è, infatti, un grande fenomeno, storiografico ma in generale culturale che ha investito tutto l'Occidente a partire dagli anni Sessanta. Si tratta, per così dire, della «riscoperta» dell'Olocausto dopo la parentesi di relativo oblio in cui esso era caduto negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Riscoperta a sua volta decisiva per dare vita a quell'altro importantissimo fenomeno che è stato il progressivo emergere, in tempi a noi vicini, di una vera e propria «cultura della vittima» e dell'idea connessa di una giustizia cosmopolitica.
Ma sicuramente c'è anche dell'altro nello spostamento di ottica dal fascismo nel suo insieme al singolo aspetto dell'antisemitismo quale suo supposto tratto onnicomprensivo e determinante. E questo altro, mi pare, è molto italiano, molto roba di casa nostra, perché legato a quella componente essenziale della scena pubblica italiana che è stata la «cultura di sinistra», di cui non a caso la storiografia dell'età contemporanea — soprattutto quella del fascismo — è stata e continua ad essere una parte così importante. In questo senso, come adesso dirò, al lamento di De Luna, il quale nella cultura suddetta si è sempre riconosciuto, non sarebbe affatto improprio replicare «chi è causa del suo mal» con quel che segue. Per capire che cosa intendo bisogna rifarsi a quel momento cruciale della contesa storiografico- politica intorno all'interpretazione del fascismo che furono in Italia gli anni Settanta- Ottanta. Gli anni in cui si afferma nel nostro panorama degli studi e ancor di più presso il grande pubblico l'opera di Renzo De Felice: alla quale però una gran parte della «cultura di sinistra» risponde con l'accusa di «revisionismo ». Cioè con l'accusa di voler programmaticamente attenuare il carattere totalitario del regime, di non nasconderne certe ispirazioni moderne e popolari, di volerne mostrare l'effettiva base di consenso, e così in certo senso di riabilitarlo. Oltre che storiografica l'accusa ha anche un esplicito contenuto politico: la ricostruzione di De Felice, infatti, smentisce nella sostanza l'immagine del Ventennio in contrapposizione alla quale la sinistra ha costruito il mito dell'antifascismo e della Resistenza, di cui ha così ampiamente beneficiato. È precisamente nell'ambito di questa contesa (e in sintonia con quanto nel frattempo stava accadendo all'estero, specie negli Stati Uniti, e di cui parlavo sopra) che la storiografia della sinistra, che fino allora non aveva prestato quasi alcuna attenzione al tema (basti vedere i diversi volumi di «lezioni» sul fascismo che i maggiori editori italiani, da Laterza a Einaudi, pubblicano dall'inizio degli anni Sessanta agli inizi dei Settanta), comincia a mettere sempre più l'accento sull'antisemitismo e sulle leggi razziali quale tratto assolutamente caratterizzante della storia e dell'ideologia del fascismo. Lo fa con l'intento di equiparare in qualche modo la legislazione razzista del '38 alla «soluzione finale» hitleriana, il fascismo pre-25 luglio a quello di Salò, e di stabilire così un legame decisivo tra il regime fascista e quello nazista. In tal modo lo statuto storico del fascismo è dedotto in misura decisiva dall'antisemitismo; è l'antisemitismo che ne definisce la vera natura, omologandolo sostanzialmente a quell'archetipo di totalitarismo diabolico-omicida che è stato il regime hitleriano. Di modo che, come si capisce, ogni distinzione o disamina defeliciana è destinata a lasciare il tempo che trova, mentre resta ben salda l'immagine del Ventennio elaborata dall'antifascismo politico tradizionale.
Ma non basta. Alle pur importanti ragioni difensive di questo impianto storiografico la cultura di sinistra ne ha aggiunto alla fine degli anni Ottanta un'altra ancora, non meno importante: la difesa della memoria del comunismo, quel comunismo con cui la sua vicenda, specie in Italia, era stata fino allora tanto strettamente intrecciata. La fine dell'Unione Sovietica e ciò che anche dai suoi archivi cominciava a venir fuori gettavano, infatti, un'ombra sempre più cupa su quell'ideologia, sui suoi regimi e i suoi partiti, minacciando di relegare l'una e gli altri tra gli orrori del Novecento. Dunque per un'intera esperienza vissuta anche in Italia da milioni e milioni di persone, tra cui molti intellettuali, il passato rischiava di diventare un vissuto ideologicamente indifendibile, costellato solo da errori. Anche l'esperienza dell'antifascismo politico tradizionale perdeva ogni efficacia compensatrice e redentrice, nel momento in cui bisognava ammettere che quell'esperienza implicava molto spesso l'adesione a un'ideologia e a un regime, quelli comunisti, rivelatisi altrettanto se non più oppressivi del fascismo (si ricordi: sto parlando sempre del fascismo italiano, del regime di Mussolini). Tutto cambiava però se tra i due attori, il fascismo e il comunismo, ne veniva introdotto un terzo, l'antisemitismo. Se dopo l'89, agli occhi di molti, il comunismo in quanto tale non bastava più, infatti, ad assicurare una posizione di superiorità etico-politica rispetto al fascismo; se l'uno e l'altro potevano addirittura essere considerati due totalitarismi più o meno equivalenti, tutto però cambiava e ritornava al suo posto se sul conto del ventennio ducesco poteva essere messo il carico dell'Olocausto e sul conto del comunismo il merito — almeno quello, ma di quale peso! — di avere aperto i cancelli di Auschwitz. La Shoah, insomma, era chiamata a salvare indirettamente l'onore del comunismo o quel ne restava. Dopo l'equiparazione del fascismo al nazismo, l'accento sull'antisemitismo serviva ora a ristabilire l'incrinata primazia del comunismo sull'uno e sull'altro.
Anche per questa via, dunque, si è affermata, nell'interpretazione del fascismo fatta propria da molta storiografia e cultura di sinistra italiane (ma non solo) un'inedita centralità della categoria dell'antisemitismo. Chi, come Giovanni De Luna, si rammarica oggi che ciò abbia alla fine condotto ad una «derubricazione » del fascismo (e dell'antifascismo) dovrebbe forse pensare alle tante occasioni in cui in passato avrebbe potuto far sentire la propria voce contro l'uso forzato e strumentale della storia, ma non lo ha fatto.

Corriere della Sera 22.4.08
Editoria. Un'iniziativa della Sellerio, curata da Gianni Puglisi, indaga i nuovi saperi
«Le parole e le cose»: Foucault diventa una collana
di Pierluigi Panza


Dalla più teoretica tra le opera del filosofo francese Michel Foucault, Le parole e le cose (un'analisi epistemologica del sapere nell'età classica che mostra il dominio del linguaggio sull'individuo) prende nome e spunto una collana di saggi della casa editrice Sellerio, curata da Gianni Puglisi, rettore dello Iulm.
La collana, viene presentata oggi a Milano (ore 18, libreria Feltrinelli di piazza del Duomo, con Daniel-Henri Pageaux dell'Università Paris III e Luca Maria Scarantino dell'Ecole des Hautes Etudes di Parigi) nell'occasione di due nuove uscite:
Il grado zero dell'immagine. Rispecchiamenti dell'io nell'Altro di Puglisi e Paolo Proietti (pagine 68, e 12) e Specchi del Letterario: l'imagologia di Proietti (pp. 168, e 14).
La collana si prefigge di tratteggiare statuti disciplinari di materie tradizionali e di nuove «scienze umane» che vanno definendosi, come la «narratologia», la «imagologia» o la «tematologia» in un quadro di sapere interdisciplinare che va dagli studi sociologici a quelli della comunicazione.
Tra tutti questi argomenti accenniamo a due aspetti. Nel libro di Puglisi-Proietti emerge l'idea di conoscenza come performance, ovvero oggi ogni sapere è — come già in Richard Rorty ( Le conseguenze del pragmatismo) — costruzione di un modello che resiste al tempo in ragione della sua efficacia. In un altro testo della collana, Addio all'estetica di Jean-Marie Schaeffer (pp. 84, e 12) si mette sotto accusa il pan-estetismo, ovvero l'estendere all'infinito il campo d'indagine di questa disciplina fondata a metà Settecento da Baumgarten, transitata da un piano gnoseologico inferiore e di indagine artistica a quella di una soggettivazione di ogni fenomeno mondano.

il Riformista 22.4.08
Loft, si lavora al ballottaggio, va in soffitta il Pd autarchico
Se salva Roma, c'è un piano B
Autodifesa del leader. L'offerta all'Udc e quella alla Sinistra
di Stefano Cappellini


Il partito del nord, il ruolo dell'opposizione, le riforme istituzionali, la costruzione del Pd. Ma intanto Tor Bella Monaca e la Borghesiana. Nell'agenda di Walter Veltroni, prima delle grandi trame nazionali, viene il tour che lo vedrà impegnato oggi pomeriggio all'estrema periferia di una Roma sempre più in bilico tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno, e da qui a domenica a passeggio per tutti i quartieri più a rischio astensione, «perché il ballottagio - spiegano i veltroniani - non si vince con gli apparentamenti, ma portando la gente a votare». Veltroni ha ben chiaro il significato del secondo turno romano. Una sconfitta di Rutelli avrebbe conseguenze devastanti sulla leadership nazionale e sul Pd tutto. E per questo su Roma si stanno mobilitando anche gli altri leader, da Massimo D'Alema, sponsor del candidato democrat al consiglio comunale più votato (Umberto Marroni), a Franco Marini, impegnato a blindare i voti di area Cisl.
Solo conservando Roma la «nuova stagione» può ripartire. E ieri l'ex sindaco, approfittando della prima riunione post-voto dei segretari regionali, ha gettato le basi dell'autodifesa davanti alle contestazioni che comunque arriveranno sul deludente risultato del Pd. «Le parole d'ordine della campagna elettorale erano giuste ma la credibilità non si costruisce in quattro mesi», ha spiegato Veltroni, prima di fare muro su tutte le critiche. La Waterloo del 14 aprile? «Abbiamo avviato una rivoluzione dolce e segnato una discontinuità nel rapporto tra il Pd e la parte produttiva del Paese così come con la povera gente». La mancata rimonta su Berlusconi? «C'erano 22 punti di distanza, e questo è dimostrato anche dalle elezioni amministrative. Quei dati confrontati con quelli di oggi evidenziano un incremento del nostro elettorato di circa un terzo. Un recupero gigantesco». Il Pd fermo ai voti dell'Ulivo? «Il raffronto elettorale tra i dati del 2008 e quelli del 2006 è statisticamente corretto ma politicamente scorretto». Morale: «L'errore più grande che potremmo commettere ora è quello di tornare indietro», ha arringato il segretario.
Ma si sbaglia a pensare che Veltroni voglia barricarsi sulla linea con cui ha perso le elezioni. Le critiche che arrivano dal mondo dalemiano sul fallimento dell'autarchia, gli ammonimenti da quello popolare (ultimo il ministro Beppe Fioroni, che vuole «ridiscutere») e i mal di pancia dal fronte dei sindaci "padani" prefigurano già, archiviati i ballottaggi, un quadro di acceso confronto. L'assemblea dei segretari ha bocciato l'idea di un partito autonomo del nord. Nessuna specificità: nascerà un coordinamento del nord così come uno del sud. Ma di cambiamenti ne sono in arrivo altri e più importanti. Il Pd a vocazione maggioritaria sta lasciando il posto ad altre e meno solitarie soluzioni. Un primo cambiamento di rotta è già chiaro sul tema delle alleanze. Tra un anno c'è una importante tornata amministrativa, e tra due anni le regionali: come si tengono quelle città, province e regioni dove il Pd oggi governa con la sinistra? L'incubo generale dei dirigenti locali è il ripetersi su scala nazionale di un caso Roma, ovvero candidati costretti a remare controcorrente rispetto al quadro nazionale. Veltroni ha raccolto il tema. E per la prima volta, oltre a dolersi della scomparsa in Parlamento dell'Arcobaleno, ha condiviso una parte delle responsabilità sul disastro rosso-verde: «Alcune contraddizioni del centrosinistra - ha detto - si sono scaricate su quell'elettorato». Una mano tesa all'asse Bertinotti-Vendola-Mussi, che già lavora per una nuova Sinistra unita e alleata del Loft. Quindi è arrivata un'offerta politica ufficiale a Pieferdinando Casini: «Se il Pd costruirà un rapporto con le altre forze politiche, penso all'Udc, c'è la possibilità di far partire una sfida riformista che il paese non ha mai riconosciuto». Basterà la nuova linea, insieme alla difesa di Roma, a sopire le tensioni interne?
Per ora l'assalto al gruppo dirigente veltroniano avanza sottotraccia. Marini non vuol parlare di un suo approdo alla presidenza, più che probabile, ma intanto ha prenotato una stanza al Loft e ha opzionato il futuro capogruppo al Senato: vuole a tutti i costi Luigi Zanda. Alla Camera s'avanza Pierluigi Bersani, uno dei più critici verso la gestione attuale. Veltroni riuscirà a stoppare il commissariamento di fatto della sua leadership? Fonti vicine al segretario spiegano che la sua contromossa potrebbe essere un'altra. Lasciare che i detrattori si tolgano qualche soddisfazione sull'organigramma e puntare tutte le carte sull'apertura del tavolo delle riforme. Goffredo Bettini ha un mandato chiaro. E Veltroni non ha cambiato idea da quando, a Natale, disse che dopo le elezioni si sarebbe dovuto puntare sul modello francese per la Grande Riforma. La preoccupazione del leader è accorciare i tempi della traversata nel deserto: cinque anni di attesa potrebbero rivelarsi un logorio insostenibile, mentre invece il varo della Terza Repubblica, semipresidenziale, mischierebbe non poco tempi e attori della rivincita sul Pdl. Un piano non privo di rischi e incognite (Berlusconi è pronto davvero a sedersi al tavolo? Come si porrà la Lega?), ma sul quale intanto la prima parola spetta a Tor Bella Monaca e Borghesiana.

il Riformista 22.4.08
Tsunami. Citto tradisce, La Porta abiura, il manifesto si divide
I sans-papiers della Sinistra in cerca di casa
di Tommaso Labate


O con noi o contro di noi. I nemici dentro il partito, gli avversari fuori. O stai con Fausto&Nichi o con Ferrero. Per un pezzo autorevole di sinistra-sinistra, la guerra che si è aperta col comitato politico nazionale (Cpn) di Rifondazione - che molto probabilmente si concluderà con una scissione al congresso - rischia di avere effetti ancor più devastanti rispetto alla batosta elettorale. C'è chi rimane per vedere l'effetto che fa, chi medita di scappare, chi s'aggrappa al miraggio veltroniano, chi addirittura medita di intraprendere - parafrasando Zangrandi - un lungo viaggio attraverso il leghismo.
Col Fausto silente, la claque del presidente della Camera si è sciolta o quasi. Citto Maselli e la di lui compagna Stefania Brai, bertinottiani di antico conio, hanno votato il documento di Ferrero. Gabriele La Porta aveva fatto un salto a salutare i compagni nel pomeriggio del 14 aprile; dopo la prima proiezione se n'è andato e i pochi che l'hanno sentito recentemente giurano che l'uomo della notte Rai è pronto a riabbracciare la vecchia fede leghista. Dei fantasmi che turbano Piero Sansonetti e la direzione di Liberazione si sa più o meno tutto. Al manifesto, i senatori Valentino Parlato e Rossana Rossanda sostengono la linea-Fausto e stanno con Nichi Vendola; Gabriele Polo, invece, pende nettamente dalla parte opposta. Qualche mese fa, narra una leggenda che proprio leggenda non è, fu proprio a Polo, durante una segretissima cena, che Ferrero confidò i suoi piani per la conquista del partito.
Tutto questo è peggio dell'uscita dal Palazzo. Perché una sconfitta elettorale toglie potere. Una guerra civile, invece, alimenta le schiere di profughi. I sans-papiers della sinistra. «Ma è mai possibile?», ripete da giorni Sandro Curzi, rivendicando orgogliosamente la scelta di disertare il Cpn del week-end. «La settimana scorsa c'è stata una disfatta. Invece di ragionare sulle cause, c'è chi preferisce ripiegare sull'orticello interno. Diliberto con la falce e il martello, Rifondazione con lo scontro interno...». Già, lo scontro. La violenza si nasconde nei dettagli. «Non vogliamo un partito monosessuato», hanno scritto Imma Barbarossa, Loredana Fraleone e Roberta Fantozzi in un documento votato dalla maggioranza dalle donne del Prc. Documento anti-Vendola in cui si rilevava, tra le altre cose, il rischio «di un match tra maschi» per la segreteria.
E le cause della débâcle elettorale? Come derubricate, in secondo piano. Ancora Curzi: «Ho rivisto in Toscana un mio vecchio compagno dei tempi della Fgci. Mi ha detto: "Sandro, te abiti a Roma, sopra i Fori. Ma noi che stiamo qui sappiamo cosa vuol dire avere a che fare con quelli là..."». I Rom. Il caos sicurezza. «Non possiamo restare fermi - aggiunge il consigliere Rai -. Nel '47, quando a Roma c'era il grande campo nomadi ai Parioli, il Pci ci fece andare all'interno e aprire una sotto-sezione. Ci impose di capire. Oggi, niente di niente. La sinistra medita su sé stessa e la Lega trionfa. Magari poi fai un salto nei campi Rom, tutti in periferia, e ci trovi le Mercedes».
Di queste cose si discute fuori. «Per ora aspetto. Poi andrò al congresso e dirò la mia, sempre che interessi», spiega Curzi. C'è il Pd di Veltroni, in lontananza. «Se contestano o cacciano Walter dopo il ballottaggio di Roma, sarà un altra sconfitta per la democrazia», sottolinea l'ex direttore di Telekabul. Agnoletto è sempre più lontano. «Paghiamo tutti il grande prezzo di aver sostenuto un governo che è rimasto in Afghanistan e ha alzato le spese militari. Dobbiamo riallacciare il cordone coi movimenti», insiste mister no-global da Bruxelles.
Il resto della galassia è sempre più slacciato. Sinistra democratica si riunisce: Fabio Mussi si dimetterà per motivi di salute, Cesare Salvi guarderà (anzi, guarda già) ai socialisti. Più complicata la vita di Pietro Folena, che continua a coltivare l'amicizia personale con Veltroni: per mettere attorno a un tavolo la sua Uniti a sinistra , dovrà stare a sentire le ragioni dell'Associazione per il rinnovamento della sinistra (Tortorella), il Cantiere fu Occhetto (oggi Falomi) e i Rossoverdi (Ersilia Salvato). Dove si va? «Per adesso concentriamoci sul ballottaggio di Roma e sul 25 aprile», insiste Giovanni Russo Spena. «Con Alemanno e i suoi che puntano al Campidoglio, quest'anno la Liberazione assumerà un significato particolare. Non sarà semplice liturgia, vedrete». Il sindaco forzista di Alghero ha già vietato Bella ciao . Mario D'Urso è irreperibile. La traversata nel deserto della sinistra-sinistra è appena iniziata.

Giovedì 17 aprile
Festival della filosofia all'auditorium Parco della musica, sala Sinopoli
“Dalla critica alle armi? Il '68 e il problema della violenza”.
Conduce Giacomo Marramao, sono presenti Roberto Esposito, Toni Negri, Oskar Negt, Peter Schneider, Pere Vilanova.
(assenti Giuliano Ferrara e Massimiliano Fuksas, benché annunciati dal programma. Dal pubblico Oreste Scalzone alla fine interviene polemicamente rivolto a Negri)
il dibattito in una scheda di Noemi Ghetti


G. Marramao apre con la frase di E. Hobswan: “Non sa che la storia è storia della violenza?” . Ricorda che nel ‘68 in fase ascendente non c’era distinzione tra partecipanti di formazione liberale e marxista. A questa logica inclusiva delle differenze si è sostituita negli anni 70 una logica identitaria, fonte di violenza.
Roberto Esposito non crede che la violenza fosse insita nel ‘68, pensa che sia stata indotta dallo sterminio della differenza, dalla strategia della tensione.
Toni Negri afferma che il ‘68 americano o europeo in Italia non c’è stato. Qui è stata la classe operaia ad avere l’egemonia della lotta (agosto ‘69, Mirafiori) e ad aprire la strada a studenti e femministe. La violenza, che Spinoza considera comunque necessaria, nasce alla fine del ‘69 col compromesso storico, quando si determina un’asimmetria tra sviluppo delle lotte e reazione del potere. Il ‘68 segna la fine della lotta operaia, con il processo della modernità capitalista. Allora la critica e le armi ricominciano a lavorare insieme, come voleva Machiavelli. Quando non si incontrano, si ha il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, cioè il terrorismo. A ragione - conclude - parlando del ‘68 si torna a San Paolo: “Ero giudeo, son diventato cristiano. Non è una conversione, è il mio essere che è cambiato”. Il dopo è stato triste per chi non sa riconoscere nel ‘68 un’origine che è un avvenire (applausi).
Peter Schneider (autore di Lenz, all’epoca colpito dal provvedimento in Germania che escludeva dall’insegnamento gli insegnanti radicali) replica che la violenza del ‘68 fa parte della teoria della sinistra, e non è stata, come dicono Negri ed Esposito, solo una reazione alla violenza di destra. Un nuovo vocabolario ha dominato le menti: “classe operaia” invece di “operaio”, “sistema” invece che “politico corrotto”, “lotta di classe” sono termini che per logica di gruppo si sono imposti abbattendo ogni resistenza personale, con punizioni psicologiche per chi non si adeguava ai misteri del pensiero “giusto”. Il terrorismo è un movimento aberrante che ha distrutto il ‘68. Non è stata la polizia, siamo stati noi a distruggere le istanze migliori del ‘68. Ci voleva coraggio per combattere gli scandali del capitalismo, ma ci voleva più coraggio ancora per opporsi ai maestri dei nostri gruppi quando impazzivano. Questo secondo coraggio è mancato.
Marramao concorda che il ‘68 è fallito anche per colpa dei suoi protagonisti, ma ricorda che la generazione del ‘68 è diventata classe dirigente in Germania e in Francia, mentre in Italia è stata tagliata fuori, cosa che ha limitato la nostra democrazia.
Schneider precisa che tuttavia la marcia dentro le istituzioni dei sessantottini tedeschi non ha mostrato di avere idee molto chiare. Il ‘68 ha comunque portato una generale civilizzazione della società ora messa in pericolo, in Italia, da Berlusconi e da un papa tedesco che fa di tutto per annullare la separazione tra religione e stato.
Oskar Negt, che fu allievo di Adorno della scuola di Francoforte, si associa all’allarme.
Pere Vilanova, militante comunista durante il franchismo, riferendosi all’ETA e ad altre forme di terrorismo, precisa di avere sempre pensato che, per quanto riguarda la violenza, deve comunque esistere uno spartiacque: ci sono cose che il nemico fa e che io non vorrò mai fare. E’ una questione di etica politica. Altrimenti ogni differenza rispetto al nemico cade. Osserva inoltre che l’internazionalismo è stato rappresentato per l’ultima volta dal ‘68, ora ogni gruppo sta a sé. Neri coi neri, protestanti coi protestatnti, omesessuali con gli omosessuali. I palestinesi allora erano maoisti come noi, ora sono fondamentalisti.

Repubblica 21.4.08
I due Benedetto contro l'Illuminismo
di Mario Pirani


La vittoria della destra contiene in sé tutte le premesse per l´accentuarsi dell´interferenza religiosa sull´ordinamento laico della Repubblica. E´ facile, infatti, prefigurarsi lo zelo privo di remore ideali di Berlusconi e associati di fronte alle prescrizioni del Pontefice e della Conferenza episcopale sia che si tratti di coppie di fatto, di concepimento assistito o di aborto, di sovvenzioni alle scuole cattoliche o di convenzioni favorevoli alle cliniche di Ordini e Congregazioni. Ma tutto ciò si inquadrerà ancor più di quanto non avvenga in una complessa azione ideologica per ridurre la cultura laica ad una funzione ancillare e di servizio nei confronti della trascendenza e della verità come rivelazione. E´ un´offensiva che ha come teatro l´Europa cattolica con l´Italia da epicentro.
Lo "Standard" di Vienna tracciando un quadro sulla ripresa in forza del cattolicesimo militante scrive: «L´ora sembra essere quella di una Riconquista politica... Un clero senza complessi si autoinvita oggi nello spazio pubblico... con una arroganza che non si era più vista da molto tempo nella vecchia Europa». Potrei proseguire con una miriade di citazioni internazionali ma quel che m´interessa è proporre ai lettori una riflessione sul carattere dell´offensiva clericale.
Molti affermano che essa sgorga dall´emergere delle questioni "eticamente sensibili", ma a me pare che alla radice vi sia l´antica avversione per l´Illuminismo, per il libero pensiero, per la piena autonomia dell´individuo, per un´etica pubblica sottratta all´imperativo religioso. Siamo di fronte ad un grande balzo culturale all´indietro, a prima della Rivoluzione francese. Mi conforta in questa tesi un bel libro appena uscito, «Il governo della lettura. Chiesa e libri nell´Italia del Settecento» (ed. Il Mulino, Bologna 1908) di Patrizia Delpiano, che analizza e rende di impressionante attualità il conflitto tra la Chiesa e l´Illuminismo e, cioè, quella filosofia della Ragione, banalmente declassata al livello dell´incerto laicismo dei nostri giorni. L´oggetto della ricerca ha, anzitutto, la particolarità di concentrarsi sul XVIII secolo, il "secolo dei Lumi", quando la Chiesa appare sulla difensiva, dopo il periodo trionfante delle Congregazioni dell´Indice e dell´Inquisizione nei due secoli precedenti. Mentre declina la pratica dei roghi la Chiesa «sposta il baricentro dalle tecniche repressive a quelle persuasive». La materia del contendere è il controllo della cultura che allora voleva dire il controllo sui libri e sulla lettura, e la gerarchia ecclesiastica individua il nemico in «categorie culturali che andavano ben oltre l´eresia protestante.... Proponendo una morale laica, del tutto aliena dalla fede dogmatica tridentina, l´Illuminismo pareva travolgere l´ordine costituito e attaccare in nome dell´universalismo cosmopolitico, la stessa identità cattolica e cristiana della penisola». Anche il romanzo e la lettura d´intrattenimento «sono guardati con sospetto in quanto capaci di raggiungere un pubblico più ampio della tradizionale élite di lettori. Furono i due fenomeni (come non paragonarli alla Tv di oggi?, ndr) strettamente intrecciati nell´immaginario ecclesiastico a sollevare... una ricca riflessione sui danni della lettura... uno dei pericoli assoluti cui sembrava esposto quel popolo che la Chiesa in passato aveva cercato di proteggere dai veleni del protestantesimo».
Artefice di quella «controrivoluzione attiva» fu il celebre cardinal Lambertini, bolognese, assurto al Soglio come papa Benedetto XIV. Parso a molti il papa della tolleranza, «seppe in realtà trasformare l´Indice (che venne soppresso solo nel 1960 dopo il Vaticanio II) in uno strumento adeguato... a incoraggiare tra i letterati la pratica dell´autocorrezione e dunque dell´autocensura. Nel corso del secolo furono condannati tutti i classici dell´Illuminismo italiano ed europeo... In tal senso la resistenza della Chiesa ai Lumi ha oltrepassato il Settecento, sopravvivendo al tramonto dell´Illuminismo storicamente inteso... Non è soltanto nel breve periodo che bisogna valutare gli effetti di censura e propaganda svolta dalla Chiesa nel Settecento. In quella fase consegnò al futuro indicazioni preziose, seppe approntare un apparato teorico compatto, costituito in gran parte contro il mondo dei Lumi, basato sul ruolo centrale del cattolicesimo nella vita pubblica... sulla difesa dei doveri contro la rivendicazione dei diritti dell´uomo».
Nel cancellare le conquiste del Concilio il Benedetto bavarese raccoglie, dunque, l´eredità del Benedetto bolognese. Ecco con cosa i laici debbono confrontarsi.

lunedì 21 aprile 2008

l'Unità 21.4.08
Giordano via. Primo round a Ferrero
di Simone Collini


Giordano: «Dobbiamo poter dire: ci siamo battuti per il mondo e la gentilezza abbiamo potuto e voluto essere gentili»
Grassi: «Riattivare il partito della Rc come progetto politico necessario alla sinistra in Italia per l’oggi e per il domani»
Ferrero: «Con le scelte di oggi Rc riparte dalla sua presenza nella società e dall’opposizione sociale al prossimo governo»
Vendola: «C’è bisogno di una sinistra larga e plurale dove un cantiere e il Prc sono necessari l’uno all’altro»
Migliore: «Nel momento in cui si darà la parola agli iscritti ce la possiamo fare: sono fiducioso»
Vendola: «Ognuno di noi, me compreso, farà la sua parte per rimettere in piedi questa comunità»

La guerra dei documenti finita 98 a 70 per l’ex ministro Ferrero

CAMBIO DI MAGGIORANZA per Rifondazione. La segreteria di Giordano è stata sostituita da un comitato di garanzia controllato dall’asse Ferrero-Grassi. Sarà questo organismo a traghettare il partito verso il congresso di luglio. Battuta la linea bertinottiana dell’unità a sinistra. Sarà Vendola a rilanciarla. Collini a pagina 7

Prc, Ferrero vince la prima battaglia
Giordano, battuto, lascia in lacrime. Vendola sarà il candidato di Bertinotti. Un comitato reggerà il partito

CAMBIO DI MAGGIORANZA per Rifondazione comunista. Al Comitato politico nazionale convocato per discutere la sconfitta elettorale, Franco Giordano ha giocato tutte le carte a sua disposizione per uscire dall’angolo, assicurando che il Prc non si
scioglie ma anche dimettendosi insieme a tutta la segreteria e concedendo che a traghettare il partito verso il congresso di luglio sia un comitato di garanzia. Tutto inutile. Paolo Ferrero, insieme a Ramon Mantovani, Giovanni Russo Spena e alla minoranza “Essere comunisti” di Claudio Grassi, ha presentato comunque un documento politico alternativo a quello di Giordano che ha incassato il più alto numero di voti: 98, contro i 70 a favore del segretario uscente. Ferrero è riuscito ad ottenere la maggioranza calamitando lo scontento per la linea impostata negli ultimi mesi da Fausto Bertinotti e puntando tutto sull’orgoglio di partito, proponendo cioè di rilanciare il ruolo di Rifondazione comunista e criticando la proposta di Giordano di dar vita a una costituente per l’unità a sinistra.
I bertinottiani sminuiscono la portata della sconfitta, facendo notare che nessun documento ha preso il 50% dei voti e che al congresso di luglio (dal 17 al 20) non si riproporranno questi rapporti di forza, visto che è da escludere una mozione comune Ferrero-Grassi (sono di quest’ultimo 38 dei 98 voti incassati ieri). «Nel nostro documento c’è tutta intera la storia e l’apertura alla società del Prc», dice Giordano al termine dell’estenuante due giorni, prima di telefonare a Bertinotti per una valutazione della situazione. «Loro hanno imbarcato pezzi contrari alla nonviolenza, contrari al rapporto con i movimenti, più che altro mi pare un cartello elettorale», è la valutazione del segretario uscente.
Si vedrà nelle prossime settimane se è solo questo la maggioranza che ha preso il controllo del partito (del comitato di garanzia che gestirà la fase congressuale fanno parte sei esponenti dell’asse Ferrero-Grassi, cinque vicini a Giordano e uno della minoranza dell’Ernesto). Per ora è chiaro che la sfida per la leadership di Rifondazione sarà aspra, come si intuisce dall’assaggio di scambio di accuse tra Ferrero e Giordano: «In campagna elettorale si è parlato di comunismo come tendenza culturale e della necessità di superare i partiti - è l’attacco del ministro uscente della Solidarietà sociale - si possono avere idee diverse, si può pensare che questa sia la soluzione, ma non si può dire una cosa e farne un’altra e poi accusare di golpe chi dice che si sta sbagliando. È inaccettabile sul piano morale prima ancora che politico». La replica di Giordano non è più tenera. Non solo perché dice che le sue dimissioni sono dovute alla sconfitta elettorale, non ad altro: «Non posso essere dimesso per una cultura del sospetto». Ma anche perché critica chi ora si colloca sulla posizione dell’intransigenza: «Quelli che oggi ci accusano di essere stati troppo accondiscendenti col governo sono gli stessi che quando venne approvato il protocollo sul welfare dissero no alla proposta di ritirare la nostra delegazione al governo». Ferrero, a chi glielo chiede, esclude che il riferimento sia a lui, ma nell’entourage di Giordano si conferma che fu proprio il ministro della Solidarietà sociale, quest’estate, a opporsi all’idea di uscire dall’esecutivo.
Altrettanto chiaro quanto, l’asprezza dello scontro, è il fatto che l’esito del congresso è del tutto aperto. Anche se a portare avanti la bandiera bertinottiana dell’unità a sinistra sarà un candidato come Nichi Vendola. Ipotesi che prende sempre più corpo, soprattutto dopo l’abbraccio che il governatore della Puglia si è scambiato sul palco con Giordano tra gli applausi, dopo che il leader del Prc aveva dato l’addio con gli occhi lucidi e la voce rotta dalla commozione: «È l’ultima volta che chiudo un comitato politico, il sipario sta per calare...».
È anche l’intervento che Vendola pronuncia al Comitato politico nazionale a far presagire una sua candidatura. Il presidente della Puglia evita attacchi frontali a Ferrero e compagni ma non qualche frecciata: come quando ricorda che lui è tra i fondatori di Rifondazione, non come qualcuno confluito dopo (riferimento tutt’altro che casuale a Democrazia proletaria, da cui provengono Ferrero e Russo Spena); o come quando racconta di quella volta che Paolo Bufalini, «esponente della destra del Pci, come dicevamo», dopo averlo accusato di voler sciogliere il partito perché ne criticava il centralismo democratico, si presentò in una sezione per sostenere la mozione Occhetto e a lui, che sosteneva quella Cossutta-Ingrao, disse: «Vendola, conservatore tuo malgrado». «La storia si ripete - dice ora il governatore pugliese - vorrei che non si ripeta in forma di farsa». Ma il punto che sta a cuore a Vendola è che «serve una larga e plurale sinistra», che «il cantiere della sinistra e il cantiere del Prc sono l’uno necessario per l’altro». In sintesi sarà questa la proposta politica dei bertinottiani al congresso di luglio. «Ognuno di noi, me compreso, farà la sua parte per rimettere in piedi questa comunità», dice Vendola prima di ripartire da Roma. «Non facciamoci del male, facciamoci del bene, diamo a questa comunità non l’orizzonte di un fortino delle antiche certezze in cui rinserrarsi ma mettiamo al centro del nostro cantiere l’innovazione politica e culturale». La risposta agli iscritti Prc.

La reggenza a dodici
Il comitato di garanzia che guiderà Rifondazione Comunista fino al congresso di luglio è composto da 12 persone, nessuna delle quali, in base al dispositivo votato dal Cpn fa parte della segreteria uscente.
I sei esponenti che fanno capo alla nuova maggioranza che ha come punto di riferimento il documento di Paolo Ferrero e Claudio Grassi, leader di Essere Comunisti, sono: Maria Campese e Claudio Grassi per la ex minoranza, Eleonora Forenza, Erminia Emprin, Maurizio Acerbo e Alfio Nicotra a rappresentare il ministro per la Solidarietà Sociale.
I componenti che fanno riferimento alla minoranza guidata da Franco Giordano sono: Franco Bonato, Rosa Rinaldi, Francesco Forgione, Graziella Mascia, Titti De Simone. A rappresentare l’Ernesto, corrente guidata da Fosco Giannini, c’è Gian Luigi Pegolo.

Corriere della Sera 21.4.08
Resa dei conti Il leader sul rivale: ora critica ma lui non volle uscire dal governo
Prc, l'addio a Bertinotti Ferrero batte Giordano
L'ex ministro: il partito non si scioglie. Vendola: meno spocchia
di Maria Teresa Meli


A luglio il congresso. Il vincitore: eticamente inaccettabile cancellarci La Deiana: indecorose lezioni di moralità

ROMA — È andata come da copione. Paolo Ferrero ha ottenuto la maggioranza (relativa e non assoluta) con il suo documento contrapposto a quello di Franco Giordano. E Nichi Vendola ha battuto il ministro della Solidarietà sociale nella gara dell'applausometro.
Al comitato politico di Rifondazione comunista le tensioni non si sciolgono e i veleni restano, però si trova una mediazione, per quanto abborracciata, per evitare una spaccatura insanabile ancor prima del congresso, che si terrà dal 17 al 20 luglio.
Così si è stabilito di nominare un comitato di gestione di dodici persone che rappresentano tutte le diverse anime del partito. Sarà quest'organismo, dove non ci sono i «big», a portare il partito all'appuntamento delle assise nazionali. E lì si vedrà, perché in quella sede i numeri sono diversi da quelli del comitato politico e Nichi Vendola ha un forte «appeal» anche tra coloro che tifano per Paolo Ferrero perché vogliono la falce, il martello e la dizione comunista nel nome del partito.
È naturale che a questo punto il percorso immaginato da Fausto Bertinotti andrà riveduto e corretto, anche se dovesse vincere Vendola. Ormai sciogliere Rifondazione in qualcosa di più grande diventa un'impresa impossibile. Piuttosto si pensa a un percorso simile a quello della «Cosa 2» inaugurata da Massimo D'Alema a Firenze. Il paragone non porta bene, perché quell'esperienza finì in un fiasco, ma la strada sarà questa: allargare Rifondazione (cambiandole il nome senza però scioglierla) coinvolgendo le altre anime della sinistra.
Di tutto ciò, però, non si è parlato nel parlamentino rifondarolo. Dove, per la verità, non si è neanche discusso del «che fare». Ossia di come andare avanti, di come recuperare il rapporto con gli elettori e con la realtà. Scambi d'accuse, lamenti, mea culpa più o meno sinceri: un dibattito tutto rivolto all'interno.
Ha cominciato Paolo Ferrero, che dal palco ha giudicato «eticamente inaccettabile» il comportamento di Fausto Bertinotti e di tutti gli altri che pur «senza dirlo» puntavano a «precostituire lo scioglimento di Rifondazione comunista ». Ha invece cercato di non acuire le tensioni l'ex capogruppo del Prc a Montecitorio Gennaro Migliore (che di Ferrero è stato in questi tempi il grande avversario). Ma Elettra Deiana, scandalizzata dalle parole del ministro rifondarolo è andata giù dura: «La lezione di moralità di Paolo è indecorosa».
Poi è stata la volta di Nichi Vendola. Il presidente della Puglia ha invitato il partito a «non rinchiudersi in un fortino », a non fare del Prc una «miniatura del passato», e ha sollecitato i dirigenti di Rifondazione ad avere «più umiltà e meno spocchia».
Solo così, secondo Vendola, potranno comprendere che la realtà italiana è cambiata: è «fluida e in movimento» e non è più quella che loro immaginano.
Quindi il parlamentino del Prc si è trasformato in uno sfogatoio. C'era chi accusava Bertinotti di ogni nefandezza, ma, soprattutto, di essersi fatto eleggere presidente della Camera. E c'era chi metteva sul banco degli imputati tutti i dirigenti del partito forniti di auto blu.
Ed effettivamente, fuori dal centro congressi dove si svolgeva il comitato politico di Rifondazione, le auto oggetto dello scandalo c'erano. Una decina suppergiù, assai meno di quelle che si vedono davanti agli altri partiti, ma sempre troppe per i rifondaroli.
Alla fine è toccato a un commosso Franco Giordano dare il suo «addio» al partito. Con una frecciata che solo pochi in quella sala hanno capito a chi fosse veramente rivolta. L'ex segretario di Rifondazione comunista ha puntato l'indice contro coloro che prima non volevano uscire dal governo e che ora accusano lui di essere stato troppo prono a Romano Prodi. «Il riferimento — spiegava alla fine Giordano a due compagni di partito — è a Paolo. Dopo la manifestazione sul Welfare valutammo anche l'eventualità di uscire dal governo. Ma il primo a opporsi fu proprio lui...».

l'Unità 21.4.08
Paolo Uccello. Quel simbolo scambiato, un giallo rinascimentale
di Michele Emmer


PAOLO UCCELLO veniva rimproverato da Donatello di avere la fissazione della prospettiva e del «mazzocchio», una forma ad anello molto difficile da disegnare. Ora quella figura ritorna in un’opera di Paladino all’Ara Pacis di Roma...

«Paolo Uccello, eccellente pittore fiorentino, (1397-1475) il quale perché era dotato di sofistico ingegno, si dilettò sempre di investigare faticose e strane opere nell’arte della prospettiva, e dentro tanto tempo vi consumò che se nelle figure avesse fatto il medesimo, più raro e mirabile sarebbe divenuto. Ove altrimenti facendo, se la passò in ghiribizzi mentre visse e fu non manco povero che famoso. Per il che Donato (Donatello) che lo conobbe spesso gli diceva, essendo suo caro e domestico amico: “Eh, Paulo, cotesta tua prespettiva ti fa lasciare il certo per l’incerto”. E questo avveniva perché Paulo ogni giorno mostrava a Donato mazzocchi a facce tirati in prospettiva, e di quegli a punte di diamanti con soma diligenza bizarre vedute per essi». Aggiunge il Vasari ne Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri: «Sotto queste due storie di mano d’altro, più basso, vi fece il Diluvio con l’Arca di Noè… Opera tutta di bontà e d’eccellenza infinita che gli acquistò grandissima fama. Diminuì le figure ancora per via di linee in prospettiva, e fece mazzocchi et alter cose in tale opra certo bellissime».
L’opera di Paolo Uccello si trova nel chiostro verde della Basilica di Santa Maria Novella a Firenze, la cui facciata, di splendidi marmi, restaurata, è stata da qualche giorno liberata dalle impalcature, esempio unico di facciata rimasta come la progettò Leon Battista Alberti. Anche nella famosa Battaglia di San Romano sempre di Paolo Uccello, compaiono mazzocchi.
A partire dal 1422 circa Masolino, con l’aiuto di Masaccio, lavora alla Cappella Brancacci a Firenze. La cappella Brancacci è situata all’interno della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. Masaccio applica alla pittura le nuove teorie rinascimentali sulla prospettiva. I primi affreschi non permettono di stabilire bene la predominanza di un artista sull’altro. Masaccio morirà a soli 27 anni nel 1428 durante un viaggio di studio a Roma lasciando l’opera incompiuta.
In particolare Masolino realizza la Guarigione dello storpio e la Resurrezione di Tabita. A Masaccio sono attribuiti l’impostazione prospettica, i palazzi e la piazza. Le due scene sono separate dal particolare di due personaggi in vestito moderno che passeggiano indifferenti parlando dei loro affari. «Due indicibili giovanottini stoffati e in mazzocchio, da parer sagome per il sarto di moda a Firenze nella stagione 1424-1425», scrisse lo storico dell’arte Roberto Longhi.
Il mazzocchio, dunque. Che cosa era il mazzocchio? Potrebbe derivare dal latino maxuca tramite il diminutivo maxuculus: «quantità di cose strette insieme a guisa di mazzo e quindi gambo sottile pannocchiuto in cima e in modo speciale tallo di radicchio od anche specie di grano grosso. Anello che si forma intorno ad un tronco d’albero. Per similitudine si chiamò così il berretto».
Perché Paolo Uccello era cosi interessato ai mazzocchi e perché Donatello, per bocca di Vasari, lo rimprovera di un suo eccessivo interesse per quella forma geometrica? Certo non era il copricapo che interessava Paolo Uccello, ma quella specie di cerchio sfaccettato che era una stilizzazione geometrica del cappello.
Piero della Francesca (1420-1492) nel libro primo, XXVII, di De prospectiva pingendi, composto negli ultimi anni prima della morte, traccia un mazzocchio in prospettiva, spiegando come si doveva costruirlo.
Margaret Daly Davis nel volume Piero della Francesca’s Mathematical treatises ricorda che la corretta rappresentazione prospettica era di estrema importanza per gli architetti, per i pittori ed inoltre per chi doveva realizzare i meticolosi disegni per i fabbricanti di intarsi, come ricorda lo stesso Piero nella dedica a Guidobaldo del Monte della Summa arithmetica. Chi sapeva ben rappresentare un mazzocchio in prospettiva era un vero maestro.
Alan e Judith Ferr Tormey scrivono un articolo sul Scientific American nel 1982 intitolato Renaissance Intarsia: the Art of Geometry: «Alla metà del XV secolo avvenne una importante trasformazione nell’arte dell’intarsio che passò dall’essere considerata una attività decorativa e di abbellimento di secondaria importanza per diventare l’arte geometrica per eccellenza. I pannelli ad intarsio rappresentano nella stragrande maggioranza architetture complesse, immaginarie o reali in prospettiva, come se fossero viste attraverso una finestra aperta. Praticamente ogni pannello è una illusione di prospettiva tridimensionale. L’improvviso fiorire e la susseguente grande fortuna dell’intarsio coincideva con la sforzo di dare all’arte una base matematica, e la storia dello sviluppo di quest’arte esemplifica molto efficacemente la fusione di arte, matematica e filosofia durante il Rinascimento».
Era quindi del tutto evidente che i pannelli ad intarsio più interessanti era quelli che contenevano oggetti geometrici. Aggiungeva Daniele Barbaro che la costruzione del mazzocchio era considerata molto difficile anche alla fine del XVI secolo. Proprio per questo il mazzocchio diventa il simbolo della geometria e compare nei lavori più interessanti ad intarsio, nel Duomo di Modena ad esempio.
Ai maestri di prospettiva si rivolgeva la classe culturalmente più elevata, per realizzare studioli simboli di un’ideale solitudine riflessiva. Le tarsie per lo studiolo di Federico da Montefeltro a Palazzo Ducale di Urbino vengono realizzate tra il 1474 e il 1476 da Baccio Pontelli.
Nel 1519, qualche anno dopo la morte di Piero, fra’ Giovanni da Verona realizza i pannelli ad intarsio per il Monastero di Monte Oliveto Maggiore vicino Siena.
I Tormey suggeriscono che fra’ Giovanni doveva forse avere avuto accesso ad alcuni disegni di Piero o di altri. Nell’articolo, sulla base del libro di Daniele Barbaro, Pratica della Prospettiva (1569), e di quello dello storico della matematica tedesco G.I. Kern, i Tormey forniscono una possibile via per disegnare in prospettiva un mazzocchio, forma presente in ogni serie di intarsi dell’epoca.
Cose di altri tempi, si dirà. Le forme geometriche archetipo, ed il mazzocchio sicuramente lo è, non spariscono, riappaiono, ritornano. Un grande mazzocchio di metallo, nero, con segni, numeri cifre, oggetti geometrici, simboli di infinito. Dove? All’Ara Pacis, a Roma, davanti all’Ara della pace di Augusto. Dentro il grande contenitore bianco di Richard Meier, che tante polemiche ha suscitato. Un grande mazzocchio nero, simmetrico, immutabile, inciso, scolpito, immobile ed eterno. In eterno contrasto con la pietra bianca dell’Ara, ma suo completamento inevitabile. Una forma moderna ed antica, che rimanda, richiama, ricolloca eppure inventa un nuovo spazio, una nuova geometria, un nuovo movimento. Creato ripensando a Paolo Uccello da quel sognatore di forme e di numeri che è Mimmo Paladino. Un semplice cappello Rinascimentale? Un semplice esercizio di abilità prospettica? Un simbolo della eterna immutabilità dell’arte e della sua altrettanto eterna mutevolezza. Simbolo della modernità, della essenzialità, segno antico del nostro tempo.

Repubblica 21.4.08
Scalfari e il Sessantotto
Il fondatore di "Repubblica" al festival della filosofia che si è chiuso ieri a Roma
di Laura Lilli


Sabato sera, all´Auditorim di Roma, in una sala Sinopoli silenziosa e gremita di sessantottini appesi al filo della sua voce (teste maschili calve o brizzolate, imbionditi i primi capelli bianchi delle teste femminili), Eugenio Scalfari, interrogato e sollecitato da Antonio Gnoli, ha parlato del Sessantotto nell´ambito del Festival della Filosofia che quest´anno, come è noto, è dedicato precisamente a quell´anno tanto discusso. Come lo ricorda un così rappresentativo testimone del nostro tempo? Cosa ne rimane? Com´era l´Italia di allora?

Quel che resta del "movimento" secondo il giornalista ospite della rassegna all´Auditorium
Nel 1969 avrebbe dovuto operarsi la saldatura tra operai e studenti, ma non fu così
Ogni cosa veniva riportata al "qui e ora", una resa al presente che dura ancora oggi

È colpa del Sessantotto se la Lega ha preso una valanga di voti alle ultime elezioni? Secondo Eugenio Scalfari, in una certa misura, culturalmente, lo è. Nelle sue richieste (o meglio, pretese), la Lega, infatti, a suo avviso, ha in testa lo stesso approssimativo e prepotente sistema di valori, la stessa morale individualistica incurante del bene comune, e lo stesso motto ("Tutto e subito") agitato nel Sessantotto. Sabato sera, all´Auditorim di Roma, in una sala Sinopoli silenziosa e gremita di sessantottini appesi al filo della sua voce, (teste maschili calve o brizzolate, imbionditi i primi capelli bianchi delle teste femminili), Eugenio Scalfari, interrogato e sollecitato da Antonio Gnoli, ha parlato del Sessantotto nell´ambito del Festival della Filosofia che quest´anno, come è noto, è dedicato precisamente a quell´anno tanto discusso. Come lo ricorda un così rappresentativo testimone del nostro tempo? Cosa ne rimane? Com´era l´Italia di allora?
Gnoli traccia un profilo del suo interlocutore, e ne annuncia il prossimo libro da Einaudi, L´uomo che non credeva in Dio. Aggiunge: «Il Sessantotto è una data che contiene più date, e che in questi quarant´anni è stata oggetto di rimozioni, oblii, giudizi semplificati, interpretazioni dissonanti, ancora da ricollegare. Si tratta di un evento non esaurito, in cui è presente almeno un elemento irrisolto: la violenza, una tabe che il "Movimento" si è portato dietro fin dal principio, e che ne ha condizionato il giudizio fino alla criminalizzazione».
Scalfari, sulle prime, non sembra affatto un nemico del Sessantotto. Ci sono un antefatto e un "fatto", afferma, sostenendo che il Sessantotto in Italia è cominciato nel Sessantanove, con il famoso "autunno caldo" (qualche lieve mormorio in sala, qualche rara testa si scuote, in segno di disaccordo. Probabilmente sono piemontesi, e devono aver partecipato, nel 1967, all´occupazione di Palazzo Campana, a Torino, che "il Movimento" ha sempre visto come il proprio inizio italiano). Ma Scalfari insiste sulla sua datazione, ricordando anche Piazza Fontana, che fu a sua volta nel 1969, e l´ingrossarsi del movimento a Milano oltre che a Roma (torinesi sempre esclusi). Aggiunge: «Nell´autunno caldo avrebbe dovuto operarsi l´auspicata saldatura fra studenti e operai che non si operò: i primi volevano "l´immaginazione al potere" e che "il privato fosse pubblico", i secondi dei nuovi e buoni contratti». Sì, ammette, «ci fu qualche precedente italiano, come quello di Architettura a Roma, o perfino il Gruppo ‘63, che voleva rivoluzionare la letteratura. Ma quello che io chiamo l´"antefatto" fu internazionale. Veniva, sul piano del costume, dall´Inghilterra (Mary Quant e la minigonna, i Beatles, i Rolling Stones eccetera) e sul piano dei contenuti - pacifisti - dagli Stati Uniti, dove la guerra del Vietnam fu avversata in ogni modo nelle università californiane e di New York. Slogan come "Mettete fiori nei vostri cannoni", o "Fate l´amore e non la guerra" trovavano entusiasta la mia generazione (all´epoca avevo 44 anni). Eravamo stati educati al bellicismo fascista, ed eravamo, per contrasto, totalmente pacifisti. Quei "figli dei fiori" li consideravamo nostri figli. Parlo, beninteso, della borghesia liberale di sinistra in cui mi riconoscevo con la quale - e per la quale - avevo partecipato alle esperienze giornalistiche de Il mondo e L´Espresso. Repubblica verrà più tardi. Lì la scommessa borghese la facemmo ma la perdemmo. Le ragioni per cui il giornale andò bene sono altre».
Quell´anno, ricorda Gnoli, Scalfari era deputato indipendente nelle liste socialiste. Il direttore non ha un ricordo travolgente della esperienza in Parlamento. «Che conoscevo bene, ma da giornalista. Altra cosa era sedervi come attore. Il primo giorno, nel Transatlantico, incontrai il mio vecchio amico Giorgio Amendola. Mi predisse che non sarei stato a mio agio. Abituato com´ero, da giornalista, a vedere immediatamente il risultato del mio lavoro, qui "avrei dovuto abituarmi a costruire castelli di sabbia. Asciutta", precisò. Ben presto mi accorsi che aveva ragione». Tra le attività dello Scalfari deputato ci fu quella di fare, con altri deputati, da mediatore fra la polizia e il "Movimento" all´epoca dei primi cortei. «Che non erano autorizzati. Gli studenti non riconoscevano l´autorità della polizia, e volevano sfilare liberamente, senza bisogno di autorizzazioni. La polizia diceva: "Se non ci dicono dove vanno, noi saremo costretti a scioglierli", che significava botte da orbi. Allora noi chiedevamo a qualche organizzatore: dove andate? Quello - che sapeva benissimo perché glielo avevamo chiesto - ce lo diceva, e noi lo riferivamo alla polizia, che organizzava il servizio d´ordine. Però ci diceva anche: allora sarete voi garanti del corteo? Noi rispondevamo sì, e prendevamo la testa della sfilata portando cartelli che dicevano "Gli studenti sfilano contro il fascismo". Così la prima parte del corteo camminava muta, mentre dietro si urlava: "Fascisti, carogne, tornate nelle fogne", "Borghesi, ancora pochi mesi", "Una risata vi seppellirà". A volte funzionava. Altre volte non ci rivelavano il loro percorso. O ce lo dicevano, e poi andavano altrove. E così le botte continuavano. Intanto, in noi cresceva un certo disagio. Eravamo pacifisti, di un puritano pacifismo ghandiano. La cannabis e la liberazione sessuale ci lasciavano interdetti».
Gnoli allarga l´orizzonte "rivoluzionario". «Nel 1967 muore il Che e diventa un´icona. C´era stato il Concilio Vaticano II, che fece presa su molti studenti, di cui poi si disse che molti sarebbero diventati terroristi. Ci fu la rivoluzione culturale cinese, in cui personaggi come Sartre o Godard credettero al punto che Sartre andò a distribuire nelle mense il giornale Servire il popolo. C´è la primavera di Praga... e l´università di Varsavia che si muove sotto l´occhio ostile di Breznev, un uomo restituiro dai ghiacci... («... e ci sono gli inglesi e i francesi a Suez...», aggiunge Scalfari")». Insomma, un quadro internazionale in cui, se non tutto, molto è in ebollizione e anche in contraddizione. I temi del movimento sono contraddittori e complessi, e generano equivoci. Qualcuno vuole la centralità operaia, qualcun altro vuole riscoprire la soggettività. Le resistenze di Scalfari sono solo generazionali?
«Di grave io vedo l´abolizione dei ruoli, padre-figlio, maestro-allievo e così via, che porta diritto alla rescissione della memoria storica. Si decide tutto in assemblea o al collettivo, figurarsi se si può riconoscere l´autorità costituita e accettare il suo sapere (magari per rifiutarlo più tardi), che appunto significa memoria storica. Tutto viene riportato al "qui e ora", e, mancando di passato, non si è in grado (né lo si vuole) di progettare il futuro. Questa "resa al presente" e al "qui e ora" al "tutto e subito" dura ancora oggi. Gli ultimi quarant´anni sono stati scanditi dal presente. È questo che io vedo in comune con la cultura (o incultura) della Lega, ma non solo di quella. Siamo in una palude culturale (e politica) generata dal Sessantotto, che è stato una rivoluzione non riuscita. Alla fine del mio libro L´autunno della repubblica, io paragono una rivoluzione a un fiume che straripa. Dopo di che può: rientrare nel suo letto, lasciando un terreno fertilizzato, o scavarsi un nuovo letto. Ma può anche non fare né una cosa né l´altra: fermarsi e diventare palude. Porterà solo malaria e zanzare».

Repubblica 21.4.08
Dna. L'anima gemella è scritta nei geni
Basta raccogliere un campioncino di saliva con un kit In poco tempo arrivano i contatti
di Micol Passariello


In amore è tutta una questione di chimica. Letteralmente. A dimostrarlo, la prima agenzia di dating che accoppia single sulla base del loro Dna. ScientificMatch. com, questo il nome del servizio, è stata fondata a dicembre, con uffici a Boston e sportelli virtuali nel web, dall´ingegner Eric Holzle. La sua curiosità è stata stimolatada una ricerca compiuta dal professor Claus Wedekind, nell´università di Berna, Svizzera. Gli studi partivano dalla tesi secondo cui tra uomo e donna l´intesa dipenda da una questione di olfatto: tanto più l´odore dei due è differente, più è probabile che scocchi la scintilla. Riprendendo le redini di precedenti ricerche compiute sui topi, Wedekind aveva provato la dipendenza genetica tra due persone, con uno studio in due tempi. Una prima fase consisteva nell´analisi delle reazioni di due campioni di uomini e donne, sottoposti a stimolazione olfattiva: veniva chiesto loro di annusare i capi indossati da un rappresentante del sesso opposto, per poi dare un voto all´attrazione provata per quell´ odore: donne con odori simili tendevano ad essere attirate da uomini con odori somiglianti. Nella seconda fase, si analizzava il Dna: gli odori più distanti appartenevano a codici genetici differenti. Il perché è racchiuso in tre lettere: Mhc, Major Histocompatibility Complex, l´insieme dei cromosomi che influenzano la secrezione dei tessuti e gli odori. Quindi, se l´attrazione tra due persone è basata sulla chimica prodotta dai geni Mhc, più gli individui hanno Dna diversi, più è alta l´affinità tra loro. Non basta. La coppia geneticamente più assortita risulta essere più fertile e, se decidesse di mettere su famiglia, darebbe vita a figli più forti.
In ScientificMatch crede persino il dottor Dean Hamer, Direttore del U. S. National Cancer Institute, specializzato nello studio della struttura genetica sostiene: «Sono molti gli studi che dimostrano l´evidenza del peso del Dna in ogni angolo della nostra vita. In amore, il primo approccio è una questione di naso, confermata poi dalla disposizione cromosomica. L´Mhc è una parte del genoma. È per questo che le preferenze vanno di solito a membri con un diverso genotipo: è una mossa inconscia, che garantisce alla discendenza un sistema immunitario più versatile».
Per cercare la perfetta anima gemella, l´agenzia dell´Ingegner Holzle sottopone i suoi single ad un test personalizzato del Dna, concentrandosi sui geni Mhc. Il laboratorio di ScientificMatch spedisce un kit per il prelievo del Dna, composto da un paio di tamponi in cotone sterilizzati da passare nella parete della guancia. Il laboratorio analizza il Dna, ne inserisce la composizione nel database del computer e tenta legami ideali. Dopo due settimane, la sentenza e con essa una serie di contatti, protetti dalla privacy. Costo, poco meno di duemila dollari.
A sollevare obiezioni è Marc Siegel, professore di psicologia alla NYU School of Medicine. «Ci stiamo dirigendo verso la chiara conoscenza della mappa genetica e presto riusciremo a interpretare le preferenze riconducendoli al Dna, ma, per avere certezze, di strada la scienza ne deve fare ancora molta. E poi, anche ammettendo che questo sistema abbia un ampio margine di verità, dove la mettiamo la magia di un incontro?».

Repubblica 21.4.08
Salvator Rosa. L'artista più amato dai romantici


Lavorò a lungo per la corte medicea ma dopo una lite tornò a Roma
Il merito di aver ristabilito la realtà è di Luigi Salerno con la biografia
Il mito di un personaggio guascone, mago, filosofo e brigante
Per la prima volta l´Italia dedica un´intera rassegna all´esuberante pittore: al museo di Capodimonte

NAPOLI. Rimasto finora ai margini della grande abbuffata espositiva di questi ultimi decenni, Salvator Rosa è tornato prepotentemente alla ribalta in questi mesi, prima come uno dei principali poli d´attrazione dell´eccellente rassegna sulla pittura napoletana del ‘600 nelle collezioni medicee, tenutasi di recente agli Uffizi, ed ora, nella sua Napoli, come protagonista assoluto della prima mostra monografica che gli sia stata dedicata in Italia (Salvator Rosa tra mito e magia, Museo di Capodimonte, fino al 29 giugno).
Nato nel 1615 a Napoli, ma attivo principalmente in Toscana, dove si trattenne per nove anni al servizio dei Medici, e a Roma, dove svolse la maggior parte della sua carriera morendovi nel ‘73, Rosa fu un artista vivacissimo e dalla personalità esuberante, che non si limitò a produrre un gran numero di dipinti, ma si cimentò in molteplici attività, atteggiandosi a filosofo, scrivendo componimenti poetici, dilettandosi di musica e recitando in commedie.
Apprezzatissimo in vita soprattutto per i suoi quadri di genere - furiose battaglie, paesaggi aspri e selvatici animati da figurine di zingari, pitocchi e soldati di ventura, ma anche soggetti capricciosi a sfondo stregonesco - , Rosa godette di un´immensa fama postuma, specie tra fine Sette e Ottocento, ma tale da stravolgerne completamente la reale fisionomia storica. Affascinato dai suoi istrionici autoritratti e dai suoi dipinti, interpretati in chiave di sublime e pittoresco, il Romanticismo europeo, ed in particolare d´Oltremanica, confuse allegramente arte e vita, scambiando il pittore per i suoi personaggi e costruendo il mito di un artista guascone ed abile spadaccino, mago e alchimista, per metà filosofo e per metà brigante, in un crescendo onirico il cui estremo prodotto fu addirittura un delizioso film girato da Blasetti nel ‘39, in cui il giovane Gino Cervi interpretava la parte di un Rosa vezzeggiato dalla corte napoletana, ma che in segreto, nascondendosi sotto una maschera carnevalesca, riattizzava la ribellione popolare, sopita dopo l´amaro fallimento di Masaniello.
Il merito di aver demolito l´ingombrante sovrastruttura che si era incrostata sulla figura storica del Rosa va attribuito principalmente a Luigi Salerno, che dedicò al pittore una monografia nel 1963. Ma nell´immagine dell´artista delineata da quella meritoria revisione storiografica sopravvive ancora qualche residuo del mito romantico che ne ha offuscato per secoli la vera identità.
L´identikit tratteggiato da Salerno è senz´altro più attendibile, ma forse ancora un po´ troppo sbilanciato in favore di un´interpretazione del pittore come fiero esponente del «dissenso», artista che in nome dello stoicismo denuncia il lusso delle corti, anticipando con i suoi atteggiamenti, laici e spregiudicati, i philosophes dell´età dei Lumi.
La grande mostra monografica che si è aperta in questi giorni a Capodimonte non è pertanto solo un evento di richiamo per il grande pubblico, ma anche una preziosa occasione di studio in vista di un più aderente e approfondito bilancio critico su questo artista singolare, ma ancora un po´ misterioso. Ne è garanzia l´ampia ed intelligente selezione compiuta dal Comitato scientifico presieduto da Marco Chiarini, che ci consente di ammirare e confrontare tra loro oltre ottanta dipinti dell´artista, cui si affianca un´adeguata rappresentanza di sue incisioni.
Rosa è artista eclettico che sa abbeverarsi alle fonti più diverse, ma non dimentica mai l´imprinting ricevuto a Napoli dal cognato Francesco Fracanzano, e soprattutto dal vivace e colorito naturalismo di Aniello Falcone. A Roma, dove si recò poco più che ventenne, si fece subito apprezzare per i soggetti di genere, ma si segnalò anche per l´intraprendenza e l´aggressività polemica con cui attaccava l´establishment culturale dominato da Bernini. Il biografo Giovan Battista Passeri, che lo conobbe bene, ce ne offre un ritratto vividissimo: «Salvatore fu di presenza curiosa, perché essendo di statura mediocre, mostrava nell´abilità della vita qualche sveltezza e leggiadria: assai bruno nel colore del viso, ma di una brunezza africana, che non era dispiacevole. Gl´occhi suoi erano turchini, ma vivaci a gran segno; di capelli negri e folti, li quali gli scendevano sopra le spalle ondeggianti e ben disposti naturalmente. Vestiva galante, ma senza gale e superfluità».
A Roma entrò in contatto con quegli ambienti intellettuali che si ispiravano al classicismo e alla filosofia stoica, attorno ai quali ruotavano anche pittori del calibro di Poussin e di Pietro Testa, ma fu a Firenze, dove si recò nel 1639 trattenendosi per quasi un decennio, che strinse i maggiori legami intellettuali: con scienziati come Evangelista Torricelli, allievo di Galilei, e con letterati come Valerio Chimentelli, Andrea Cavalcanti e il cattedratico di Pisa Giovan Battista Ricciardi, che gli rimase indefettibilmente amico per tutta la vita. Con essi Rosa fondò l´Accademia dei Percossi, che si riuniva nella sua dimora della Croce al Trebbio per rianimare l´antica usanza delle Compagnie fiorentine, organizzando cene a tema, in cui si recitavano poesie satiriche e ci si cimentava nella recita di commedie «all´improvvisa».
Comincia a manifestarsi già a Firenze, dove l´artista lavora intensamente per la corte medicea e la nobiltà cittadina, quel dissidio tra l´inclinazione di Rosa a dipingere grandi quadri di storia, in cui riversare temi allegorico-filosofici tratti dalle fonti classiche, e il favore di una committenza che di lui apprezzava soprattutto le battaglie, le marine, i paesaggi aspri e pittoreschi e i capricci negromantici. Un dissidio che si acuirà ancor più dopo il definitivo ritorno dell´artista a Roma nel ‘48-´49, e su cui vale di nuovo la pena di citare un illuminante brano del Passeri: «Gran contrasto hebbe nell´animo suo per voler sostenere che le figure di sua mano della grandezza del naturale fussero della stessa vaglia quanto quelle di minore proporzione...et era entrato in una smania così inquieta per tante opposizioni che ne sentiva, che si era stabilito di non voler mai più dipingere quadri in piccolo...Sentiva dirsi che in grande egli era assai mancante nel disegno quanto alle parti, e che il colorito di quel genere non era adattato né naturale, che le tinte delle sue carni erano di legno e senza sangue, e che l´arie delle teste erano tutte dispettose...che li suoi panni non formavano pieghe elette...che poco intendeva l´ignudo...Si travagliava quando sentiva lodarsi che nelli Paesi occupava il primo luoco nella gloria, nelle marine era singolare, in macchiette e componimenti minuti di capricciose invenzioni prevaleva ad ogni altro, nelle battaglie era unico; nel capriccio e nelle invenzioni delle storie pellegrine e recondite toccava il segno maggiore; nella maestria del pennello non haveva uguale, nell´armonia del colore era il maestro; ma nelle figure grandi perdeva tutte quelle sue buone qualità, perché gli mancava il principale che gl´è lo studio».
Un giudizio per tanti aspetti impietoso e non immune da pregiudizi accademici, ma che, a conti fatti, mi sento di poter sottoscrivere in massima parte.

Corriere della Sera 21.4.08
Affondo di Jean Ziegler contro i biocarburanti: «Crimine contro l'umanità»
L'inviato Onu: «La crisi del cibo è uno sterminio silenzioso»
E Ban Ki-moon: «A rischio progresso sociale e sicurezza»
di Danilo Taino


Sott'accusa i sussidi Ue: «Così gli agricoltori producono meno per evitare eccedenze e sostenere i prezzi»

BERLINO — La crisi alimentare globale sta diventando un problema politico molto serio in Europa. Ieri, il relatore speciale dell'Onu per il diritto al cibo, Jean Ziegler, ha sostenuto che gli aumenti dei prezzi di grano, mais, riso, soia stanno spingendo verso «un omicidio di massa silenzioso» nei Paesi più poveri. Pochi giorni fa, aveva detto alla radio tedesca che la produzione di biocarburante — che è un obiettivo dell'Unione Europea, ma aliena terreni alla produzione alimentare — è «un crimine contro l'umanità».
L'inviato Onu ci mette molta ideologia nel sostenere l'allarme. Ma la questione è così seria che anche la politica continentale inizia a preoccuparsene. Ieri, il ministro dell'Agricoltura tedesco, Horst Seehofer, ha detto in un'intervista che la Politica agricola comunitaria (Pac) deve essere rovesciata: negli ultimi anni — ha notato - ha spinto gli agricoltori, con il sistema dei sussidi, ad abbandonare 3,8 milioni di ettari di terreno produttivo, per evitare le eccedenze di latte, carne, vino e per sostenere i prezzi. «Abbiamo bisogno di un rinascimento agricolo — ha sostenuto — e di un aumento della produzione in Germania, nella Ue e, soprattutto, nei Paesi in via di sviluppo». Anche Ziegler aveva messo i sussidi della Pac tra i fattori responsabili dell'esplosione dei prezzi, assieme a biocarburanti, aumento dei consumi mondiali e speculazione finanziaria.
Secondo l'Onu, dal gennaio 2007, i prezzi dei prodotti alimentari di base sono aumentati del 55%. Ciò ha portato a rivolte popolari in alcuni Paesi e al blocco delle esportazioni agricole in altri. Le scorte sono a livelli minimi. Fenomeni che non si verificavano da decenni. Ieri lo stesso segretario generale dell'Onu ha lanciato un grido d'allarme: aprendo la Conferenza sul commercio e lo sviluppo ad Accra, in Ghana, Ban Ki-moon ha detto che «se l'attuale crisi non viene affrontata correttamente, potrebbe scatenare una cascata di altri crisi multiple», spiegando che questo si ripercuoterà «sulla crescita economica, il progresso sociale e la stessa sicurezza politica mondiale».
Una decina di giorni fa, l'Agenzia europea per l'Ambiente aveva raccomandato alla Commissione di Bruxelles di sospendere i suoi obiettivi di introduzione del bioetanolo, perché ciò sta già portando in molti Paesi alla distruzione delle foreste per fare spazio alle nuove produzioni. Peter Brabeck-Letmathe, il presidente della Nestlé, ha sostenuto che «assicurare enormi sussidi per la produzione di biocarburanti è moralmente inaccettabile e irresponsabile », e ha aggiunto che se non si cambia direzione «non resterà niente da mangiare».
L'allarme lanciato su un giornale austriaco ieri da Ziegler, che arriva dopo quello molto autorevole della Banca Mondiale la settimana scorsa, è accompagnato da un'analisi discutibile. L'inviato Onu sostiene che la globalizzazione sta «monopolizzando le ricchezze della terra» e che le multinazionali sarebbero responsabili di una «violenza strutturale». «Abbiamo — aggiunge — un gregge di operatori di mercato, di speculatori e di banditi finanziari che sono diventati selvaggi e hanno costruito un mondo di disuguaglianze e orrore: dobbiamo mettere una fine a tutto questo». Diversamente, la gente si ribellerà: «È possibile, proprio come lo è stata la Rivoluzione Francese». Molta ideologia, ma è un fatto che il problema sia uno dei più seri che il mondo debba affrontare oggi. Sia la Politica agricola comunitaria sia la scelta di usare bioetanolo nei carburanti sono strade che la «ricca» Ue ha deciso di seguire nel suo modo di relazionarsi al resto del mondo: per difendere i suoi agricoltori o per difendere l'ambiente. Se però ieri sembravano inadeguate perché non tenevano conto delle esigenze dei Paesi emergenti, oggi appaiono addirittura distruttive degli equilibri internazionali. Questioni non solo europee: gli Usa non sono da meno. Ma, decisamente, anche europee.

Corriere della Sera 21.4.08
In un piccolo istituto medio di Pieve Ligure. A Genova denunciato il figlio di un ex assessore prc. Scriveva: «Morte al Papa»
Arriva il capo dei vescovi, rivolta a scuola
No a Bagnasco di alcuni genitori e insegnanti. La preside: attività alternative per chi non lo ascolta
di Erika Dellacasa


La protesta accompagnata da un documento scaricato dal sito Internet dell'Unione atei e agnostici razionalisti

GENOVA — L'arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco prepara una visita nella scuola media di Pieve Ligure, un piccolo comune del Golfo Paradiso, e scoppia un caso. La visita in orario di lezione, domani, non è piaciuta ad alcuni genitori (tre dichiarati, altri defilati) che hanno protestato in nome della laicità della scuola pubblica. Richieste di chiarimenti alla preside, Vanda Roveda, una lettera riservata diventata pubblica, una professoressa che solleva obiezioni, in breve tutto il paese ne parla. La lettera arrivata sul tavolo del consiglio di istituto, che ha poi approvato la visita con un solo astenuto, aveva allegato un testo scaricato dal sito dell'Unione atei e agnostici razionalisti. Il testo definisce le visite confessionali nelle scuole: «La legge non consente — scrive la Uaar — che nelle scuole pubbliche statali il normale svolgimento delle lezioni venga modificato per celebrazioni di carattere confessionale ». Gli atei e agnostici consigliano di diffidare la scuola e rivolgersi al Tribunale civile. «Volevamo solo documentare la giurisprudenza in materia — spiega Carla Scarsi, mamma di uno studente — ma soprattutto volevamo chiedere informazioni e ricordare che ci sono regole. Due mesi fa era stata annunciata la proiezione alle elementari di un video sui volontari nelle missioni in Africa. Poi sono venuti in classe dei militari in divisa e hanno proiettato un video con i marines che si paracadutavano ».
Cosa farà a scuola il cardinale Bagnasco? «Non è una visita confessionale — spiega la preside —, non c'è alcun momento di liturgia, niente messe, niente preghiere collettive, è solo un saluto». Ma la situazione ha imposto una nuova organizzazione: «Nessuno è obbligato a partecipare — dice la preside —. I ragazzi che non fanno l'ora di religione avranno a disposizione un'attività alternativa durante la visita. Se qualche professore lo preferisce potrà fare lezione». Quello che la preoccupa, ora, è la scorta di Bagnasco: «Spero che rimangano fuori dalla scuola». Un micro-caso Sapienza? «Ma quale Sapienza — dice don Grilli, vicario del Levante —. Rispetto l'opinione di tutti ma chi contesta è una infinitesima minoranza che non ha capito lo spirito di una visita di cortesia. Non c'è nessuna volontà di ingerenza della Chiesa. Certi atteggiamenti sono frutto di un integralismo laicista. A scuola ci vanno i calciatori e non ci può andare il vescovo? ». Il cardinale Bagnasco ieri era a Roma. «Gli ho spiegato la situazione per telefono — dice don Grilli — e ne ha sorriso con me». Quindi verrà? «Sicuro, sereno come sempre. I problemi sono altri«. Bagnasco è sempre sotto scorta e le misure di sicurezza in attesa della visita del Papa a Genova il 17 maggio sono aumentate. Due giorni fa sono stati denunciati due ragazzi di 17 e 24 anni che scrivevano su un muro «Morte al papa», uno è il figlio di un ex assessore comunale di Rifondazione. Gli Atei e Agnostici preparano uno «sbattezzo » collettivo (la richiesta di essere cancellati dagli elenchi parrocchiali) e manifesti per illustrare «quanto ci costa la Chiesa e questa visita papale». Chi si dichiara esterrefatto per l'arrivo della Digos sono i quaranta curdi riuniti in un ostello a Savona: «Siamo qui per un incontro culturale. Del Papa non sapevamo nulla».

Corriere della Sera 21.4.08
La Storia del fascismo
Giovanni Sabbatucci: Una dittatura anomala. Fu un totalitarismo imperfetto
di Dino Messina


«Una delle domande che ancora adesso non ha trovato una risposta concorde fra gli storici è se il fascismo sia da considerarsi uno Stato totalitario. Hannah Arendt diceva di no e sottolineava le differenze con il nazismo e il comunismo staliniano. Altri studiosi, tra i quali Emilio Gentile, hanno sostenuto il contrario. Non solo perché sviluppò una struttura politica adeguata ma perché creò una mistica che si sarebbe sviluppata ulteriormente se mai la Germania e l'Italia avessero vinto la guerra. Io invece più di una volta ho usato la formula di "totalitarismo imperfetto"».
Storico acuto ed equilibrato, curatore della Storia d'Italia per Laterza, autore tra l'altro dei saggi Il trasformismo come sistema e Le riforme elettorali in Italia, Giovanni Sabbatucci tra le tesi opposte sceglie una soluzione intermedia. E così motiva la sua definizione.
«Il fascismo fu un totalitarismo imperfetto perché, anche se ci fu una forte spinta, gli ostacoli alla sua piena attuazione furono molto forti, a cominciare dalla monarchia e dalla chiesa cattolica. Uno Stato in cui a un certo punto il re può chiamare i carabinieri e far arrestare il Duce non si può definire pienamente totalitario. C'è insomma, a mio avviso, una differenza tipologica con la Germania nazista, e con l'altro termine di paragone, l'Unione Sovietica». Il fascismo costituì tuttavia un modello per il nazismo. «Si presentò subito come un precedente da studiare — argomenta Sabbatucci — il modo in cui un partito-movimento che sembrava minoritario divenne partito- Stato. Il fatto che non fosse mai avvenuta una cosa simile rese inermi coloro che avrebbero dovuto opporsi. La lezione appresa anche da Hitler è che si può anche ostentare il putsch, ma uno Stato democratico si conquista prima dall'interno, come fece Mussolini fra il 1922 e il '26 e come avrebbe fatto Hitler dopo la vittoria alle elezioni del 1933».
Una delle questioni cui gli storici non hanno mai veramente risposto è se Mussolini pensasse sin dagli inizi all'instaurazione di un regime totalitario. «Già tra il 1922 e il 1924 — dice Sabbatucci — era evidente che il fascismo era una cosa diversa da un partito normale. Tuttavia Mussolini, un tattico più che un ideologo, agli inizi era possibilista. Se gli avvenimenti fossero andati in maniera diversa si sarebbe accontentato di una stretta autoritaria, cosa che invece non piaceva all'anima totalitaria del movimento fascista. Chissà, se non ci fosse stato il delitto Matteotti, con tutta l'accelerazione che comportò, e che lo costrinse a reagire, forse le cose sarebbero andate in maniera diversa».
La formazione dello Stato totalitario ha alcune tappe obbligate. Innanzitutto l'organizzazione di un apparato propagandistico mirato a orientare le masse e a formare i giovani. E in questo, osserva Sabbatucci, «il fascismo vinse una serie di conflitti, a cominciare da quello con l'Azione cattolica. Il tentativo di inquadrare la gioventù riuscì pienamente e quando si afferma che i Guf, i circoli della Gioventù universitaria fascista, furono in realtà una scuola di antifascismo si dice una bugia colossale.
Il «totalitarismo imperfetto» secondo Sabbatucci si realizzò nel rapporto con il mondo industriale e con quello degli intellettuali. «Il fascismo fu certo un restauratore dell'ordine e raccolse enormi consensi fra i grandi borghesi finché la sua evoluzione non minacciò di limitarne il potere. Certamente, essi si adattarono all'autarchia e all'economia di guerra e cercarono di approfittarne anche se non ne erano entusiasti. Non fu mai lo strumento dei padroni del vapore, come hanno sostenuto i marxisti e studiosi come Ernesto Rossi».
«Non condivido inoltre — dice Sabbatucci — l'analisi di Norberto Bobbio secondo il quale una certa cultura riuscì ad attraversare il fascismo senza esserne toccata. A parte Benedetto Croce e pochi fuoriusciti, già alla fine degli anni Venti il consenso del mondo intellettuale verso il fascismo era pressoché totale. C'erano le grandi figure, vicine ma non omogenee al regime, come Filippo Tommaso Marinetti o Gabriele D'Annunzio. C'erano i rappresentanti della cultura alta che aderirono in maniera motivata al fascismo, da Giovanni Gentile a Gioacchino Volpe e Guglielmo Marconi. C'erano intellettuali come Ugo Ojetti, che in quanto promotore di un primato italiano poteva essere assimilato al regime. Il consenso era grande fra i giovani scrittori, da Corrado Alvaro a Vitaliano Brancati. E lo era anche nel mondo delle arti e dell'architettura, dove il fascismo lasciava coesistere razionalismo e classicismo, avanguardia e tradizione ».
A differenza del nazismo o del comunismo sovietico, «il fascismo lasciò una certa libertà agli intellettuali, come dimostrò l'esperienza di Giuseppe Bottai. Ma ciò non significa che non fosse totalitario. Seppure imperfetto».

Corriere della Sera 21.4.08
Simona Colarizi. La questione tabù
Il regime trovò consensi anche nelle fabbriche
di D. M.


La questione del consenso al fascismo, e quindi lo studio dell'opinione pubblica durante il regime, è rimasto un argomento tabù per un paio di decenni dopo la fine della guerra. Si deve agli studi di Renzo De Felice, a partire dalla metà degli anni Sessanta, e alle polemiche feroci che ne seguirono se il fascismo poté essere studiato non soltanto in termini di repressione, ma anche di adesione. Tra questi studi si segnala il saggio di Simona Colarizi,
L'opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943, edito nel '91 da Laterza. Come già ci dice il titolo di questo saggio, è evidente che la questione della periodizzazione è essenziale per capire il problema del consenso: «Nel periodo precedente al 1929 — ci dice Simona Colarizi — il vero focus del fascismo riguarda l'imbavagliamento delle opposizioni. La fabbrica del consenso, per dirla con Philip Cannistraro, cominciò a funzionare dopo il 1925, quando le opposizioni erano state debellate, e riuscì a esplicare tutta la sua forza quando il regime controllava pienamente l'opinione pubblica».
Il 1929, e il periodo della grande crisi economica, si caratterizzano secondo la professoressa Colarizi «per il consolidamento del fascismo presso l'opinione pubblica dei ceti popolari, anche se c'è una perdita di consenso nelle classi medie». Ma è con il 1936, con la guerra d'Etiopia, che il regime tocca il massimo dell'isolamento internazionale e del consenso interno. «Dal 1936 al 1940 paradossalmente — continua la studiosa — il consenso comincia a declinare a causa delle grandi scelte del fascismo: alleanza con il nazismo, guerra di Spagna, leggi razziali. L'omologazione con la Germania di Hitler non piaceva agli italiani».
Studiare l'opinione pubblica («allora veniva chiamato spirito pubblico») durante una dittatura pone una seria questione delle fonti. «Nella ricerca — continua Simona Colarizi — bisogna distinguere fra strumenti che servono a formare l'opinione pubblica — come i mass media — e strumenti che servono a rilevarla. Nel primo caso, dai giornali ai documentari, abbiamo molto materiale, nel secondo relativamente poco. Anche se le carte dei prefetti, i rapporti della polizia segreta ci dicono molto sugli umori che sotto traccia percorrevano il fascismo».
A questo punto è necessario scomporre l'opinione perché all'epoca la divisione in classi era molto netta: diverso l'atteggiamento nel corso del ventennio di operai e contadini da quello del ceto medio o da quella che è stata definita «l'opinione del partito di corte». All'interno della questione si pone il problema della galassia cattolica: «Un esempio per studiare le differenze è costituito dalla guerra di Spagna. Avversata dai ceti popolari, perché con essa il fascismo si riproponeva come guardia bianca del capitale e anche perché i volontari erano in realtà dei coscritti, quel conflitto fu invece sostenuto fortemente dall'opinione media dei cattolici».
Infine, un altro grande problema è posto dalle differenze tra Nord e Sud. «Il fascismo trascurò il Mezzogiorno e i rapporti dei prefetti davano l'impressione di calma piatta, non c'erano picchi di adesione e dissenso. Sotto l'atteggiamento passivo si nascondevano in realtà un'inquietudine e una disperazione che emersero pienamente negli anni di guerra. Un distacco dal regime che i federali e i podestà non riuscirono più a governare». Al Nord, invece, il fascismo conquistò consenso anche nelle fabbriche, dove alcuni vecchi consideravano Mussolini un figlio del popolo. E dove attorno al 1939 i giovani operai pensavano che in fondo le tre grandi dittature, nazismo, fascismo e comunismo sovietico, dovessero collaborare».
Il Duce conquistò un picco di consenso nel 1938, «quando durante la conferenza di Monaco venne accolto come salvatore della pace. Subito dopo cominciarono i dubbi e le vociferazioni, in cui ricorrevano gli stessi nomi del '43, da Badoglio a Grandi. Poi arrivò il crollo effettivo».

Corriere della Sera 21.4.08
La studiosa dell'Ucla «copiata» dal filosofo italiano: «Non è la prima volta che plagia testi altrui»
Giulia Sissa: Galimberti si scusi davvero, non cerchi scuse
di Stefano Bucci


«Accolgo le scuse di un mio lettore che, forse, mi stima troppo. Ma per favore: che si scusi e basta!». Giulia Sissa, la ricercatrice e storica dell'antichità (oggi all'Ucla di Los Angeles) non sembra davvero soddisfatta dell'ammissione di colpa del filosofo Umberto Galimberti che ieri ha dichiarato di aver «rielaborato» e «riassunto» nel suo L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli) brani tratti da un saggio della Sissa pubblicato nel 1999 (sempre da Feltrinelli), Il piacere e il male. Sesso, droga e filosofia. E quasi a voler abbassare il livello della sua adrenalina («in questi giorni ha superato ogni limite»), Sissa cita Il nome della Rosa di Umberto Eco: «Ricorda quel manoscritto che lasciava tracce indelebili e velenose sulle dita e sulla lingua dei monaci curiosi? Leggere è fatale. Soprattutto quando si riscrive».
Le scuse, fatte ieri in un'intervista sul «Giornale », hanno ferito Sissa perché «quello di Galimberti non è stato un chiedere scusa, piuttosto un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi ». Il filosofo aveva detto: «Il mio libro è una raccolta di articoli, quelle pagine sono una rielaborazione di una recensione del 23 aprile 1999 che io scrissi parlando de Il piacere e il male di Giulia Sissa. Nella recensione io riassumevo ciò che diceva la professoressa Sissa». Più onesto, per la ricercatrice, il comunicato della Feltrinelli che parlava invece di «riproduzione», sia pure non integrale, della favorevolissima recensione di Galimberti in cui venivano riportati passi del libro della Sissa «senza le virgolette», passi «che ora riemergono dopo otto anni in un capitolo de L'ospite inquietante ».
Ma c'è di più: «Nel libro di Galimberti ci sono note riprese dal mio Il piacere e il male che non esistevano nella recensione del 23 aprile 1999 e che, quindi, devono essere state cercate e trovate nel mio libro». E ancora: «Rispetto alla stessa recensione sono state fatte ulteriori aggiunte prelevate sempre dal mio libro». Eccole: «A pagina 153 del mio libro io riassumo, ma con debito rinvio in nota, le idee dello psichiatra Edward Khantzian. Questo passo non si trova nella recensione del 1999, ma è stato inserito nel pezzo apparso su "La Repubblica" nell'agosto 2007 e poi a pagina 69 dell'Ospite
inquietante ». Oltretutto, dice Sissa, «per colmo dell'ironia Galimberti utilizza le mie parole come fossero una citazione letteraria di Khantzian, così negando anche il lavoro a suo tempo fatto dal traduttore del mio libro, originariamente scritto in francese, Alessandro Serra». Altro esempio: a pagina 69 del suo libro, a proposito dei pazienti anedonici, Galimberti utilizza una espressione ("La finalità del loro gesto identica") attribuendola a Peter Kremer quando invece è mia».
Poi la stoccata finale: «Quello che è successo a me non è, purtroppo, un fatto isolato. Ho appena ricevuto una email da Alida Cresti, una studiosa fiorentina, che citava una sentenza del Tribunale di Roma che in data 30/5/2006 aveva condannato Galimberti per aver pubblicato a sua firma su "La Repubblica" l'articolo La stinta metropoli che spegne le emozioni completamente copiato da un saggio della stessa Cresti» (L'immaginario cromatico, Medical books, 1997). In quel caso il Tribunale aveva riconosciuto «un'attività di plagio dell'opera letteraria respingendo (in data 19/7/2006) il ricorso presentato dallo stesso Galimberti».

il Riformista 21.4.08
Campidoglio, si complica il ballottaggio
Rutelli sotto assedio: «Così rischiamo»
di Stefano Cappellini


Si potesse credere ai sondaggi, quelli che davano Walter Veltroni testa a testa con Silvio Berlusconi, Francesco Rutelli dormirebbe più tranquillo. Perché tutte le rilevazioni hanno sempre continuato a darlo in vantaggio sul rivale Gianni Alemanno in vista del ballottaggio di domenica prossima per eleggere il nuovo sindaco di Roma. Ma sul voto per la capitale gravano ormai troppe incognite e significati per affidarsi a qualsivoglia pronostico: quanto peserà l'astensionismo? La batosta del Pd al livello nazionale produrrà nell'elettorato di sinistra una risposta d'orgoglio o un effetto depressione? Come si distribuiranno i voti centristi? E soprattutto: l'irruzione della cronaca nera in campagna elettorale può lanciare la rimonta di Alemanno? Rutelli è ancora fiducioso, ma a un amico ha confidato: «Stavolta rischiamo di perdere».
Il tema sicurezza, rilanciato dall'aggressione alla studentessa africana a opera di un clandestino romeno, è al momento il cruccio principale dell'ex sindaco. Dopo la conferenza stampa dell'altroieri per ricordare di aver sempre messo in cima alle priorità il dossier sicurezza e rivendicare le espulsioni decretate dal governo lo scorso autunno, il vicepremier ha dovuto giocare in difesa anche ieri. Alemanno è tornato all'assalto: «La ragazza violentata dovrebbe far causa al Comune». Tutto il centrodestra ha puntato l'indice contro la sinistra radicale, alleata di Rutelli a Roma, e accusata di aver affossato il decreto sicurezza varato dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani. E la bordata più pesante è arrivata da Letizia Moratti, indirizzata a Veltroni ma arrivata pure dalle parti di Rutelli: «Nel corso di una riunione sull'emergenza criminalità al Viminale - ha raccontato alla radio il primo cittadino di Milano - Veltroni mi accusò di agitare il tema dell'emergenza sicurezza per fini politici. Qualche settimana dopo, lo stesso Veltroni diceva che eravamo seduti su una polveriera». Ha chiosato Roberto Calderoli: «Veltroni e Rutelli sono come il gatto e la volpe».
Difficile dire chi, tra i due leader del Pd, fosse ieri più nero. «Una canea indecorosa», s'è sfogato Rutelli coi suoi, inferocito «per i tentativi di strumentalizzare» la cronaca: «Nessuno dopo la violenza sessuale a Milano si è permesso di dire una parola contro Moratti». E ancora: «Bisogna ricordare a questi signori che la legge che regola l'ingresso degli immigrati in questo paese si chiama ancora Boss-Fini». Ma l'umore del candidato democrat dipende anche dal fatto che avverte bene quanto è scivoloso il terreno di questa polemica. «A vedere i dati e le statistiche - dice Rutelli - Roma è una delle città più sicure d'Europa, ma purtroppo questo non basta e non accontenta nessuno». Come parlare di cifre, quando la percezione dei cittadini va in direzione opposta? «Noi - ha infatti detto Rutelli di tappa a Torre Angela, periferia molto a rischio - avvertiamo in troppi punti della città una insicurezza crescente, e questo tocca anche al sindaco affrontarlo». Poi, però, ha cercato di restituire il colpo all'avversario: «Dobbiamo sconfiggere il leghismo, che ogni giorno sputa veleno contro Roma e dobbiamo sconfiggere anche i suoi alleati, che non dicono mai una parola in difesa della città». E con una nuova conferenza stampa ha provato a ribaltare le accuse. «Bisogna affrontare uniti il problema della sicurezza e non divisi per polemica o propaganda elettorale. Altrimenti ricorderò ad Alemanno che il governo di cui era membro approvò una sanatoria per 141.620 romeni, una direttiva che non prevede il divieto di rientro per i cittadini romeni allontanati dal nostro paese, abolì il visto per i cittadini romeni e non ha previsto alcun limite all'ingresso di cittadini romeni». Ma i problemi nel gestire la comunicazione su questi temi sono sempre i medesimi. Dallo schieramento avversario si rinfaccia all'ex leader della Margherita la palla al piede degli alleati di sinistra. E, al tempo stesso, tenere insieme il proprio fronte è ormai un'operazione di equilibrismo continuo: aprendo a sinistra, si sfarina il centro. Inseguendo Casini, si scatena il malessere dall'altra parte. È bastata una mezza giornata di dibattito sulla sicurezza perché dal comunista Marco Rizzo arrivasse la minaccia della diserzione "rossa" del ballottaggio: «Se il centrosinistra copia il centrodestra sulla sicurezza, perché il popolo dovrebbe votarli?».
E Veltroni? Se possibile, per il leader del Pd queste ore sono persino peggiori di quelle successive alla sconfitta da Berlusconi. Sceso in campo per sostenere l'aspirante successore, il sindaco uscente è sotto attacco insieme al suo «modello Roma». Anche lui molto irritato con Moratti: «Se c'è violenza a Milano, è colpa del governo. Se c'è a Roma, è colpa del sindaco». La situazione è molto tesa. Gli avvertimenti arrivati al Loft dai maggiorenti del Pd sono chiari: se cade Roma, si ridiscute tutto. Nella migliore delle ipotesi Veltroni sarebbe commissariato e il suo gruppo dirigente azzerato, nella peggiore costretto addirittura a un passo indietro.