Ingrao: guai a rassegnarsi. È la destra peggiore dobbiamo salvare Roma
di Simone Collini
Pietro Ingrao confessa di vivere «con rabbia e con dolore» la situazione politica che si è venuta a creare dopo il 14 aprile. «C’è stata una vittoria delle forze reazionarie raccolte intorno a Silvio Berlusconi e di questo successo di una brutta destra, e delle sue fonti, bisognerà fare un’analisi cruda e approfondita», dice lo storico leader comunista. «Ma guai a rassegnarsi o a considerare la partita conclusa».
«Ci sono questioni brucianti tutt’ora aperte - sottolinea Ingrao - prima fra tutte la lotta per la guida di Roma».
È questa secondo lei la priorità, ora?
«Sono necessarie, contemporaneamente, un’analisi approfondita e di massa delle cause della sconfitta e un tornare in campo, un rilancio della lotta, innanzitutto per le elezioni del sindaco della Capitale. Roma è città simbolo, e oggi la scelta di chi dovrà dirigere il Campidoglio assume una doppia valenza: per il domani di questa metropoli così radicata nella storia d’Italia e del mondo, e per gli sviluppi dell’aspro scontro aperto con la destra berlusconiana».
Una destra diversa da quella che vinse nel 2001, con una Lega più forte. Una destra peggiore sostiene la sinistra.
«Sì, è peggiore. E del resto a questa deriva reazionaria non ha resistito nemmeno la relazione con un moderato come Casini».
È preoccupato per quello che potrà fare il prossimo governo?
«Purtroppo sì. E mi sembra che sia non abbastanza forte l’allarme per questa deriva autoritaria di schietta marca berlusconiana. Forse non tutti, nella sponda democratica, hanno capito bene tutto il rischio di questo blocco reazionario a cui hanno dato vita Berlusconi e Bossi».
Per alcuni commentatori la Lega abbandona i tratti a cui ci ha abituato nel passato e ne assume di più istituzionali. Lei che dice?
«A me sembra di cogliere anche nelle file democratiche una tendenza a leggere la Lega come un buffo folklore. Sarà che ho una chiusura paesana, perché invece io sono colpito dall’intensità con cui si è allargata la connotazione reazionaria dei bossiani».
Che risposta va data a questa destra?
«Noi, forze dell’opposizione, siamo chiamati in questi giorni, direi in queste ore, a sviluppare una doppia azione: capire e rendere chiare le cause della nostra sconfitta e contemporaneamente impegnare compattamente tutte le nostre forze per la prova di Roma e per quelle delle altre città in cui si torna subito a votare. Non ci sono consentiti ritardi o esitazioni».
Parla col “noi”: per la prima volta nella storia repubblicana, in Parlamento non ci saranno esponenti di partiti comunisti e socialisti.
«È un dato su cui non c’è stata finora un’adeguata riflessione. Eppure io mi ricordo che svolta e che emozione per noi quando, cacciati i tedeschi da Roma, nelle nuove assemblee elettive entrarono finalmente anche i “rossi”, quelli che venivano da Gramsci...».
Nelle forze della Sinistra arcobaleno si è aperto un vero e proprio scontro sulle cause della sconfitta. Secondo lei è ciò di cui c’è bisogno, adesso?
«Non propongo né a me né ai miei compagni e amici il silenzio sulle cause e le responsabilità della sconfitta. Vengo da una storia di aspre battaglie anche interne alla mia parte, forse c’era anche una pesante inclinazione a “punizioni” pesanti e affrettate. Ma io credo, spero, che noi della sinistra abbiamo anche imparato qualche cosa dai nostri errori del passato».
Cosa vuole dire?
«Ho una formazione leninista-stalinista. Ho vissuto in Italia le vicende straordinarie e talvolta eroiche con cui la componente comunista ha animato nel mio Paese, ma più largamente nel vasto mondo, una lotta epica per i diritti dei lavoratori. E tuttavia quella lettura e pratica del mondo, che chiamammo leninismo, è stata sconfitta. E oggi io e tanti altri miei compagni sappiamo bene per quali errori pesanti si determinò il crollo».
Tornando alla sinistra e applicando il suo ragionamento all’oggi?
«Lo scontro con la destra reazionaria è tutt’ora in corso, e anche il confronto elettorale è ancora in atto in molte città italiane. Per me questo passa avanti a tutto. Può anche darsi che dentro di me ciò sia radicato nell’antica, ostinata tensione che avevamo per realizzare l’unità, quella parola scelta addirittura a nome e simbolo del nostro giornale...»
Però è innegabile che errori a sinistra sono stati commessi, non c’è da stupirsi se ora si avverte la necessità e l’urgenza di capire...
«Ripeto, non sto chiedendo il silenzio. Anzi. La stessa battaglia aperta per Roma e altre città italiane chiede una iniziativa fresca e rapida per realizzare ciò che ci è mancato per la vittoria. Seppure da lontano, riesco a vedere le carenze, le divisioni, i silenzi che ci hanno fatto male. Ma dico un duro no alla rissa interna nelle nostre file».
Insiste molto sul ballottaggio di domenica: che ne è delle questioni di più ampio respiro a cui si è dedicato?
«Questo è il primo passo, necessario, ma è chiaro che l’amara vicenda italiana non cancella per nulla - non deve cancellare - lo scontro che continua nel vasto mondo: scontro a mano armata. In luoghi cruciali del globo tuttora si spara: nei modi della moderna “uccisione di massa”. Sembra incerto persino il luogo in cui si terranno le Olimpiadi. Le dimensioni della lotta hanno questi connotati. È viva in me l’amarezza per la scomparsa di quella nozione solenne e dimenticata che usammo chiamare: pace. Chi spera ancora nella pace?».
È la cosa che più la turba?
«Questa, sì. Ma resto turbato anche da questioni - come dire? - più semplici. Ostinatamente (forse ottusamente...) non riesco a capire perché siano ancora in campo istituzioni umane (chiamiamole così...) come la pena di morte, o anche l’ergastolo. Non le capisco nemmeno quando vengono usate contro gli assassini o i massacratori come quel tale Saddam Hussein...».
I difensori della pena di morte sostengono che sia per scoraggiare gli assassini.
«Scoraggiare uccidendo... Che straordinaria invenzione. Quante ne sappiamo inventare noi esseri umani».
l’Unità 22.4.08
I Demoni di Montaldo, 20 anni dopo
di Gabriella Gallozzi
CINEMA Nasce dalla vita di Dostoevskij e fa riflettere su violenza e intolleranza il nuovo film di Giuliano Montaldo «I demoni di San Pietroburgo». Il regista qui condanna le bombe dei terroristi, quelle Usa, e vede la distanza della sinistra dal «popolo»
«La violenza causa solo morte e distruzione, non accetto i crimini. E se i miei film toccano l’attualità è perché è la Storia che ricorre»
«Ogni intolleranza mi fa soffrire terribilmente ma con l’egoismo non si vive: quindi conservo un po’ di ottimismo per offrirlo ai giovani»
C’è un demone che ha riportato Giuliano Montaldo dietro alla macchina da presa dopo quasi vent’anni (è del 1989 Tempo di uccidere): l’intolleranza nei confronti dell’intolleranza. Come sempre nel suo cinema, da Sacco e Vanzetti a Giordano Bruno, tanto per citarne alcuni, il tema è ricorrente.
E non poteva essere da meno anche I demoni di San Pietroburgo, stralcio di grande impatto visivo dalla vita di Fjodor Mikhajlovic Dostoevskij - in sala da giovedì per RaiCinema che lo produce con la Jean Vigo.
Come progetto (Paolo Serbandini firma il soggetto e poi a sei mani la sceneggiatura con Monica Zapelli e lo stesso regista) il film del regista 78enne risale addirittura agli «anni di piombo», il cui riferimento è il punto di partenza per uno sguardo incredibilmente «contemporaneo». Dostoevskij, anziano e malato, dopo essere scampato al plotone di esecuzione, dopo la detenzione in Siberia, riflette sul suo impegno da rivoluzionario, in preda al demone del dubbio e del rimorso per poter essere stato un cattivo maestro.
«Che ne sapete voi del popolo?» rimprovera Dostoevskij ai giovani rivoluzionari borghesi che vivono nell’agio. Sembra quasi una riflessione messa lì all’indomani della débâcle elettorale e alla scomparsa della sinistra in parlamento....
«Tante volte nei miei film mi è capitato di toccare l’attualità ancor prima che le cose accadessero. Come la scena in Sacco e Vanzetti: ricorda il caso Pinelli per cui mi hanno detto che l’avevo aggiunta in seguito, ma non è stato così... Oppure che tutto il film sia tornato di attualità per la moratoria sulla pena di morte. È che la storia è ricorrente. Nel caso de I demoni, poi, stiamo parlando di Dostoevskij, un autore che ha sempre cercato di capire il popolo, la gente, andando a scavare nel “sottosuolo”. Durante la prigionia in Siberia ha dovuto convivere con l’arroganza e la violenza del popolo. La colpa che rimprovera ai terroristi è quella di vivere nella ricchezza, totalmente scollati dalla realtà delle persone comuni. E invece bisognerebbe tornare davvero a stare fra la gente. Come diceva Zavattini: bisogna prendere l’autobus per capire davvero quello che ci circonda. Dostoevskij usava la penna e non la telecamera. Che questo, all’indomani delle elezioni, tornasse di così grande attualità davvero non potevamo saperlo. Come anche la coerenza, la professione di “libero pensiero” per le quali Dostoevskij rischia il plotone d’esecuzione. Quanti scrittori ancora oggi sono condannati a morte per le loro idee?»
Altra immagine, altro squarcio d’attualità: la donna che vede morire la sua bambina nell’attentato all’alto graduato zarista...
«Quella scena è un’immagine chiave del film. La bomba del terrorismo, la violenza idiota che causa morte e distruzione. Qui racconto tutta la mia intolleranza per le bombe, per la violenza, per quelli che credono si possa cambiare il mondo uccidendo degli innocenti. Sono contro questi crimini nascosti dietro falsi ideali».
L’immagine delle bombe dei «terroristi» porta anche a quelle Usa sull’Iraq, sull’Afghanistan... giusto per citare le più recenti.
«Certo, sono sempre espressione di violenza e terrorismo. Oggi si chiama bomba intelligente, ma come si può definire tale? Sicuramente non voglio conoscere chi l’ha inventata. Sono tutte forme di intolleranza, cosa di cui soffro terribilmente e che ho raccontato in tanti film...».
Ma dunque quale può essere la strada per un cambiamento?
«Se la rivoluzione si potesse fare soltanto con le idee allora sì. Io sono della generazione che c’era nel 1945. Eravamo pieni di speranza e di ottimismo. Poi ci sono stati rubati sia l’una che l’altro: ce li hanno portati via la storia e gli eventi. Ma soltanto con l’egoismo e senza ottimismo non si può vivere. Per questo mi conservo gelosamente quel po’ di ottimismo che mi resta per offrirlo alle giovani generazioni».
l’Unità 22.4.08
Un film sull’oggi dove rintracciare la battaglia tibetana o il tracollo a sinistra
Attenti ai cattivi maestri. Dostoevskij ci avvisa
di Alberto Crespi
Fjodor Michajlovic, io sono convinto che prima o poi la rivoluzione vincerà. Ma sono pagato perché questo accada il più tardi possibile». Sono profetiche, le parole che l’inquisitore Pavlovic rivolge allo scrittore Dostoevskij; ha letto attentamente Proudhon, Marx e Bakunin e sa che c’è del buono nelle loro parole, ma un burocrate di Stato deve fare prima di tutto il suo dovere. Quando poi la rivoluzione, in Russia, vincerà, l’utopia sfocerà in un bagno di sangue che continua, in forme diverse, ancora oggi.
I demoni di San Pietroburgo, nuovo film di Giuliano Montaldo a 19 anni di distanza dal precedente Tempo di uccidere, comunica tutta la vertigine della Storia con la «S» maiuscola. Parla di Dostoevskij, dei nichilisti, degli attentati contro la famiglia dello Zar che insanguinano San Pietroburgo nel 1860. Ma parla del futuro di quel paese, e soprattutto parla di noi italiani: si rivolge a una generazione che ascoltando i «cattivi maestri» ha creduto di interpretare i desideri del «popolo» e di realizzarli con la violenza. Il Dostoevskij di Montaldo - brillantemente interpretato dall’attore jugoslavo Miki Manojlovic - da giovane ha corteggiato l’ideologia rivoluzionaria, ma dopo esser stato condannato a morte e aver ricevuto la grazia davanti al plotone d’esecuzione ha trascorso dieci anni in Siberia e lì ha conosciuto il popolo vero, e ora può dire che la violenza non serve a nulla. Ma gli ex discepoli non sono più disposti ad ascoltarlo e fermarli è forse impossibile...
I demoni di San Pietroburgo si muove su due livelli, narrativi e filosofici. Il «presente» del 1865-66, che vede Dostoevskij impegnato nell’affannosa stesura del Giocatore, si mescola ai flash-back sulla prigionia in Siberia; lo stile solenne della messinscena storica si fa parabola contro l’uso della violenza a fini politici, in ogni tempo e in ogni luogo. È la forza di Dostoevskij, che non era solo uno scrittore immenso, ma anche un uomo nella cui vita si riflette, come in un ologramma, l’intero mistero dell’umanità (anche qui ha ragione il Pavlovic del solito, grande Roberto Herlitzka: «La sua vita, Fjodor Michajlovic, è più affascinante dei suoi romanzi»). Una forza che Montaldo, già capace di confrontarsi con il genio ribelle di Giordano Bruno e con la curiosità umanistica di Marco Polo, ci ridà sullo schermo al 100%. I demoni di San Pietroburgo è leggibile a mille livelli. Oggi - il nostro «oggi» di questo aprile 2008 - può sembrare un film sulla resistenza non violenta dei tibetani, sulla bizzarra amicizia Putin-Berlusconi o sul tracollo elettorale della sinistra radicale. Domani, chissà.
l’Unità 22.4.08
C’era una volta il Novecento
di Adolfo Di Maio
Diciamoci la verità: a sinistra si sentono, tutti, un po’ più orfani, dopo il terremoto politico, un vero e proprio tsunami, che ha spazzato via la Sinistra Arcobaleno e cioè l’ala sinistra della “sinistra”.
E, in realtà, quanti di coloro che albergano a sinistra misuravano se stessi, il proprio modo di essere e di manifestarsi, di fare politica, sul metro di coloro che, nell’area, si professavano comunisti e/o post-comunisti, rifondatori del comunismo, socialisti democratici, nenniani o craxiani, verdi ambientalisti e quant’altro! E ora, come ci si fa a definirsi tout court “democratici”, senza i compagni di strada?
Il passato, più o meno presente, e/o meglio il “maledetto” Novecento, sembra diventato d’improvviso “storia” e lo è, in realtà, diventata, così come ha osservato con la consueta lucidità Aldo Schiavone nella Repubblica di questi giorni.
Freddi interpreti dei risultati elettorali si sono già affrettati a proferire giudizi, nel riconoscere ad esempio che è stato un po’ uscire dai sogni del Novecento, entrare nel XXI secolo, acquistare coscienza che questa è la scommessa posta dalla “modernità” e che, al di là di questa, non v’era che immaginare di stare in compagnia di gogoliane “anime morte”.
Il Walter nazionale aveva ben visto nel fondo, a voler camminare “da solo”, senza più la compagnia, ingombrante, degli amici di strada. E non è un caso che i circa due milioni di voti persi dalla sinistra sono entrati nella unica realtà che, per essi, allo stato era proponibile e cioè nel Partito Democratico. E, a ben considerare, la mancata vittoria non è dunque dovuta agli errori della sinistra ma al fatto che essa, aprendo gli occhi sulla realtà, doveva constatare che questa era ben più seria di quanto essa stessa fosse indotta a pensare. E chiamiamola “destra” o “popolo della libertà” o con altra espressione, la denominazione poco conta: nietzsciana volontà di potenza, ri-appropriazione del territorio in forme inconsuete, periferia, in salsa federalista, che si ribella al centro “ladrone”, ma poi sovratutto antipolitica. Fattori, umori, tutti presenti, senza esclusione alcuna, in una società indistinta, ove etichette, quella di destra e/o di sinistra, rischiano di non essere in grado di rappresentare mutamenti, trasformazioni, precarietà in certa di padroni, professionalità emergenti, non più leggibili con il linguaggio, politichese, del Novecento.
Il leniniano “che fare”, si pone dunque in termini nuovi! Ma la ragione può indurre a dire che i problemi non sono sogni, ma dura realtà, e continuano ad essere più complicati e ingarbugliati di prima e che la “politica”, pur sempre, è l’unica, deputata in prima persona a risolverli. Di qui la convinzione che le forme della politica siano destinate, pur sempre, a sopravvivere ai terremoti e la “storia” può continuare ad essere ancora presente nell’agire e nella memoria degli uomini. È questa anche una forma di ottimismo della volontà!
Università Roma Tre
l’Unità Roma 22.4.08
Fritz Lang l’«inesorabile»
Così veniva definito da Truffaut il regista al quale la Sala Trevi dedica una rassegna
di Federico Pedroni
«UNA PAROLA SOLA per qualificarlo: inesorabile. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina, ogni taglio, ogni spostamento degli attori, ogni gesto ha qualcosa di decisivo, di inimitabile». Con queste parole François Truffaut definiva Fritz Lang, uno dei giganti del cinema mondiale che la Sala Trevi omaggia oggi e domani con otto film. Lang è uno dei registi che meglio ha saputo mescolare la forza stilistica tipica del cinema espressionista tedesco con una feroce tensione morale anche quando, dopo la fuga dalla Germania nazista, si è trovato a lavorare nel meccanismo produttivo degli studios americani. Negli anni ’40 e ’50 Lang ha saputo riscrivere come pochi il cinema noir realizzando veri e propri capolavori che hanno fatto la storia del cinema di genere americano, da "La donna del ritratto" a "Il grande caldo". E proprio "La donna del ritratto" chiuderà i due giorni di programmazione domani sera alle 21.20, presentato da Vieri Razzini, distributore cinefilo che al grande cinema classico americano dedica da anni una bellissima collana di DVD. Il film racconta la discesa agli inferi di un tranquillo professore di criminologia, interpretato da Edward G. Robinson. Il film indaga, come molte delle opere di Lang, sul filo sottile che lega colpevolezza e innocenza, sul lato più oscuro dell’animo umano, sul torbido vero che giace sotto le apparenze più accettabili. A questa tensione etica sono riconducibili anche, in maniera più o meno marcata, anche altri due film presentati domani: il classico "Gardenia blu" e il meno conosciuto, bellissimo, "Bassa marea" mentre all’impegno antinazista di Lang è da ascrivere "Maschere e pugnali", interpretato da Gary Cooper e censurato per la violenta requisitoria antiatomica del finale originale. La giornata di oggi ci dà invece la possibilità di scoprire, accanto a un capolavoro celebre come "M - Il mostro di Dusseldorf", tre rarità di grande fascino: "Harakiri", presentato in versione restaurata, e "L’inafferrabile" - entrambi del periodo tedesco - e il bellissimo "Il vendicatore di Jess il bandito", primo film a colori di Lang e sua rara incursione nel western che l’autore viennese arricchisce con i suoi interrogativi etici e con una riflessione non banale che lo porta a confrontarsi con i miti fondanti dell’America e della sua epopea.
Repubblica 22.4.08
Simboli e passato
Il candidato di An dal Fronte della Gioventù alle stanze del potere
Gianni, crociato eclettico tra Evola e Santo Sepolcro
L’ex ministro e quella celtica fatta benedire
di Filippo Ceccarelli
Arrivato al ministero fece benedire la stanza che era stata di Pecoraro
Il candidato sindaco: la celtica per me ha valore religioso, era di Paolo Di Nella
Da ministro ha celebrato il solstizio d´inverno e scalato il K2
Ballottaggi: a ciascuno la sua croce. Quella che porta appesa al collo Gianni Alemanno è una croce celtica. Poco amichevolmente, in verità, l´ha ricordato nei giorni scorsi l´ex sodale Storace, ma si sapeva dal maggio del 2006, quando alle Invasioni barbariche Daria Bignardi in pratica costrinse l´esponente di An a sbottonarsi il colletto della camica mostrando quel ciondolo alle telecamente, in una specie di outing a sfondo politico, identitario e confessionale.
«Per me - disse in quell´occasione - è un simbolo religioso e rappresenta un modo d´essere del cristianesimo celtico. Lo porto anche in ricordo dei miei amici persi». Quella croce, in particolare, apparteneva a un giovane di destra trucidato dai «rossi» negli anni di piombo, Paolo Di Nella - a cui nel 2005 l´amministrazione Veltroni ha dedicato una strada.
C´è pure da dire che il simbolico spogliarello allora non piacque affatto ad Alemanno: «Lei mi fa una violenza - disse - perché certe cose è meglio non metterle in campo». Ma da due anni a questa parte, grazie anche a spettacoli politici di questo genere, «certe cose» hanno ampiamente guadagnato il campo della vita pubblica. Tanto che ieri il candidato sindaco del centrodestra non solo ha insistito sulla natura religiosa della sua croce celtica, ma ha rivelato di averla anche fatta benedire «al Santo Sepolcro», nell´anno 2003, «durante il viaggio che ho fatto in Israele».
Ora. Posto che gli elementi devozionali, ancorché privati, sono definitivamente entrati nell´agone, converrà qui esprimere qualche serio dubbio sul valore esclusivamente sacro di ciò che l´ex ministro Alemanno porta al collo. Perché si tratta certo di un simbolo del cattolicesimo irlandese, come ha ricordato ieri anche il presidente emerito Cossiga, ma nelle sue radici indoeuropee la croce celtica si trova connessa alle iscrizioni rupestri, all´esoterismo solare, ai graffiti bretoni ed etruschi, alla cultura druidica dei celti e poi ancora ai cimiteri gotici, alla divisione «Charlemagne» delle Ss, fino all´universo di Tolkien.
Secondo un classico, ormai, come «Fascisti immaginari», di Luciano Lanna e Filippo Rossi (Vallecchi, 2003) la croce celtica risulta molto poco santa e assai estremistica, introdotta da Jean Thiriart, l´«orologiaio di Bruxelles», leader di Jeune Europe. Messa al bando da Almirante nel 1978, mantenuta in vita dai rautiani della tradizione evoliana, allora in odore di magia e paganesimo; e quindi, una volta approdata fra gli ultrà del calcio, dichiarata illegale dalla legge Mancino (1993). Infine - se di fine si tratta - ri-santificata da Alemanno, ieri camerata certamente oltranzista, oggi crociato parecchio eclettico.
Nel senso che è di sicuro cattolico, ma per sua ammissione ha praticato la meditazione Zen. Va a messa con una certa regolarità, ma è stato scritto che si fa fare le carte dalla maga Luana. Non che tutto questo sia motivo di scandalo, gli osservatori anzi ne traggono spunti di un certo interesse sulla trasformazione del ceto politico e della destra in particolare. Nel 2001, appena preso possesso del ministero dell´Agricoltura, «a scanso di equivoci», come poi spiegò con quella che parve una allusione ai costumi dei predecessori, Alemanno fece benedire da un sacerdote le stanze fino a quel momento occupate da Pecoraro Scanio e dal suo staff. Poi sì certo con il leader dei verdi fece anche pace, partecipando a una sorta di incredibile gara di free-climbing, entrambi imbracati dentro il cratere del Vesuvio.
Ma quello che qui vale forse la pena di sottolineare è che un paio d´anni dopo, per la precisione la notte del 21 dicembre del 2003, il ministro dell´Agricoltura volò con l´elicottero in un paesino delle Marche, Campodonico, per celebrare all´aperto con alcuni amici e un grande falò quello che al locale parroco parve «il rito pagano del solstizio d´inverno». E vai a sapere se di questo si trattava, o di un «seminario» come tempestivamente spiegarono al ministero.
Nel frattempo, è possibile che il potere abbia molto cambiato «Lupomanno», com´era detto nel Fronte della Gioventù, quando l´ardore politico e la tempesta di quegli anni più di una volta lo portarono in situazioni estreme, scontri, fermi, arresti. Si sa come vanno queste cose: questuanti, auto, riviste, foto, feste, interviste di Anna La Rosa, applausi, codazzi, vacanze esotiche, pranzetti sullo Yacht di Diego Della Valle, immersioni e scalate anche impegnative tipo il K2, ma proprio per questo con i giornalisti dei tg al seguito.
La secolarizzazione nera. Al punto che ad Alemanno è ispirata la figura del ministro di An - Manlio Germano - che nel film di Virzì Caterina va in città si vergogna ormai dei vecchi camerati. Non si sapeva però che intanto il vero Alemanno, il futuro candidato che promette di regalare a Roma due stadi e il casinò, faceva benedire la celtica. E in questa trasfigurazione di simboli, in questo carosello di croci disvelate ed estremismi rimossi si misura tutto il senso di un passaggio che anche solo cinque anni fa nessuno avrebbe mai potuto immaginare.
Repubblica 22.4.08
Jorge Luis Borges. Perché amo il labirinto
di Achille Bonito Oliva
Una antica conversazione con l'autore di "Finzioni" apre una sorta di enciclopedia dedicata all´arte nostra contemporanea
"Il mio amico de Chirico è un grande pittore ma ho perso la vista non so più nulla"
"Ariosto è come un fiume con tanti meandri, non è come leggere Kafka o James"
Di uscirà nei prossimi giorni l´"Enciclopedia della parola" (sottotitolo: Dialoghi d´artista. 1968-2008, Skira, pagg. 504, euro 34). Qui pubblichiamo parte della "Prefazione in forma di dialogo sul labirinto dell´arte" con Jorge Luis Borges. L´incontro con lo scrittore si è svolto a Buenos Aires nel 1981.
«Noi scriviamo delle commedie che non si assomigliano... commedie in assoluto... è impossibile che abbiamo scelto... Orlando, ad esempio».
E´ curioso che a lei piacciano sempre grandi scrittori che non sono labirintici.
«Bene Ariosto... è un poco... sì, però è un labirinto felice, è come un fiume con tanti meandri, non è un labirinto nel senso, diciamo, di Henry James o Kafka... sono labirinti quelli di Piranesi, è vero, carceri... dimensioni; però Ariosto è un´altra cosa, è un labirinto felice, nel senso di una selva, tutto il mondo è un labirinto. Una volta ho immaginato».
Ha immaginato che cosa?
«La cosa più impossibile, impossibile pronunciarla al sole... credo che l´idea sia questa... nell´ultimo viaggio, Dante è stato a Venezia, vero?... Andiamo a supporre, se questo è supporre, che egli si sia proposto di scrivere un altro libro dopo la Commedia, che libro poteva proporsi... che fosse un altro racconto... salvo che non si sia proposto niente, perché la Commedia era tutto. Una bella storia... c´era un soliloquio, un monologo di Dante: scriverò tale libro, non è necessario che lo scriva, perché immaginarlo sarebbe moltissimo, no? Dopo muore senza scriverlo, è un racconto impossibile, no? Perché uno si immagina, nel periodo d´oro della Commedia... Però potrebbe essere un racconto fantastico, troppo fantastico... e uno lo interpreta in diversi modi, tutti permessi dal testo. In generale, quando uno traduce, sceglie un´interpretazione e la accentua, però l´ambiguità, o l´oscurità, può essere una ricchezza, anche... è così misteriosa la letteratura che non si sa cosa è chiaro e cosa è oscuro... è un´arte tanto misteriosa. tanto difficile da realizzare».
Esiste una contraddizione tra la chiarezza e il labirinto?
«Sì, soltanto che il labirinto è stato ideato con chiarezza. Vuol dire che al labirinto, al caos, non si arriva col caos, si arriva col cosmo. S´intende che il labirinto ha un ordine segreto. E´ disposto per l´ordine e per essere compreso... può darsi».
Qual è il primo labirinto che ha visto in vita sua?
«Il primo l´ho visto su un´incisione; dopo sono stato a Cnossos, a Creta; poi a Hampton Court, che è un maze, diverso, è un labirinto un poco frivolo, un poco scherzoso; però tante volte il labirinto è un simbolo per la felicità... e tu, e tu hai vissuto per questo, perché ci sentiamo smarriti nel mondo, e il simbolo evidente è essere smarriti nel labirinto... e questa parola "labirinto" è così bella!».
Cosa significa per lei la parola "labirinto"?
«Suggerisce qualcosa di terribile. Anticamente si riferiva alle gallerie delle miniere, il labirinto... E´ curioso, in Chaucer nel XIV secolo, il "labirinto" è un labirinto che si muove, fatto di giunchi, circolare, molto strano; e ho letto che il labirinto, Dürer se lo immaginava girevole, ma Dürer si era perso nel labirinto che gira, ma dal labirinto si entra e si esce rapidamente, una specie di circolo mobile, "Laborintus" scriviamo, che bella parola, inventa figure... il Minotauro...».
Secondo lei, i gironi dell´inferno possono essere considerati una specie di labirinto?
«Forse sì».
Il labirinto fino al Rinascimento era una struttura in cui si arrivava sempre al centro; dopo il Rinascimento, col manierismo, invece, il labirinto diventa il luogo della perdita, quindi esiste un labirinto che è più vicino alla nostra sensibilità e che comincia col manierismo e col barocco.
«Chesterton ha detto: "Noi siamo quello che noi tutti temiamo, un labirinto senza centro". Lui ha usato un´espressione di timore cosmico, no?».
Il suo labirinto, quello della sua letteratura, Borges, ha un centro o no?
«Sì, ha un centro, un racconto fantastico di significati senza spiegazioni; è un apparente labirinto, e dopo si vede che no, che è un cosmo, che c´è un ordine, che c´è una spiegazione ragionevole. Io non so perché ho usato tanto "labirinto"; mi ha richiamato tanto l´attenzione l´idea del labirinto, l´idea del Minotauro, da quando ero piccolo, e io non saprei spiegarmelo. Quell´ossessione è stata notata dai lettori, io non la conoscevo, la esercitavo o ero vittima sua, però non ho mai cercato di spiegarmela. Lo sa che io non ho mai letto niente di scritto su di me, io non ho mai letto un libro scritto su di me, o perché m´interessava poco il tema, o perché m´interessava troppo. Si è scritta una biblioteca su di me, io non ho mai letto niente; a casa mia non ci sono neanche libri miei, ci sono degli autori, non i miei libri».
Borges, il suo labirinto, il labirinto dei suoi racconti, delle sue poesie, ha un centro...
«Io credo di capire che abbiano un centro, ma tante volte no, per incapacità mia. Io non cerco di essere oscuro, io cerco di essere classico, però sembra di no, sembra che io sia disgraziatamente moderno. Un mio amico, de Chirico, quando diceva che qualcosa era brutto, diceva: "E´ moderno, è brutto"».
Lei cosa ne pensa della pittura di de Chirico?
«E´ un grande pittore; non posso vedere le sue opere, perché ho perso la vista. La mia opinione non vale niente, perché ho perso la vista come lettore. Nell´anno 1955 ho potuto vedere qualche film, dopo... ho potuto vedere dei volti, e adesso no, adesso vivo nel centro di una nebbia, di una nebbia luminosa, più o meno grigiastra o verde. Ho perso due colori, che sono il rosso e il nero; li vedo come il pardo (indica un colore che va dal grigio al verdastro, spesso attribuito alla pelle dei meticci, n.d.t.) e come azzurro ora verdastro. Quello che ora mi fa nostalgia è il nero; io avevo l´abitudine di dormire nell´oscurità, adesso non c´è oscurità per me, adesso è tutto vagamente luminoso e non vedo forma, non vedo movimento. Se muovo la mano, la vedo che si muove, però non vedo che è la mia mano; e quando muovo las tontas (in gauchesco: "gamboni", "piedoni", n.d.t.) mi sembra di vederli, e m´incattivisco di non vederli. Però non è terribile, perché è stato un processo così lento che non c´è stato nessun momento tragico; se fosse stato brusco, sarebbe stato, sì, tragico, e uno può suicidarsi. Siccome io ho visto i miei genitori morire ciechi, mia nonna morire cieca, il mio nonno inglese morire cieco, e più indietro... non lo so».
Si può dire che nella sua letteratura...
«Io conosco molto poco della letteratura, io la scrivo e la dimentico, voi la conoscete di più perché l´avete letta. Io l´ho letta per correggere le bozze, e ultimamente neanche, perché non potevo correggere le bozze. Io cerco tanto di dimenticare quello che ho scritto e di pensare a ciò che scriverò; credo che sia malsano guardare indietro. Franco Maria Ricci mi ha detto: "Pubblichiamo per non passare la vita a correggere i manoscritti". Se si pubblica un libro, ci si libera di lui; io pubblico un libro e non so se sia venduto, se sia tradotto, se ha avuto successo, se hanno scritto su di esso, se non hanno scritto. Io giudico attraverso i miei amici; se i miei amici non me ne parlano è perché non è loro piaciuto, e se me ne parlano sono molto generosi di particolari. Però molte volte se pubblico un libro, non dicono una parola; io capisco che non è loro piaciuto e cambio tema... e cerco un altro tema. Non ho mai cercato di essere famoso. E´ questione di generazioni; quando io ero giovane non si pensava al successo».
Corriere della Sera 22.4.08
L'intervento di Giovanni De Luna: il Ventennio non significò solo le leggi del '38, ma anche la fine della libertà
L'interpretazione Equiparare regime mussoliniano e nazismo serve anche a salvare almeno un merito storico del comunismo
Se la Shoah oscura l'antifascismo
L'uso strumentale del razzismo: un errore che la sinistra paga oggi
di Ernesto Galli Della Loggia
Le tesi di De Felice avrebbero avuto lo scopo di attenuare il carattere totalitario del regime
Se «per decenni la memoria della Resistenza, dell'antifascismo e della deportazione politica era così straripante da annettersi anche quella della Shoah, oggi la situazione si è capovolta, e nel segno della Shoah a rischiare di sparire dal discorso pubblico e dalla nostra memoria collettiva è proprio l'antifascismo». Con queste parole, qualche settimana fa, sulla Stampa («Il fascismo derubricato») Giovanni De Luna ha voluto unire il proprio grido d'allarme a quello dell'Associazione degli ex deportati politici (Aned) per la decisione del governo Prodi di affidare il nuovo allestimento del Padiglione italiano del Museo di Auschwitz esclusivamente a organizzazioni ebraiche come il Cdec e l'Ucei. Dunque con la virtuale esclusione dell'Aned la quale, invece, aveva avuto l'incarico in questione per l'allestimento precedente, eseguito negli anni Settanta. Ecco la prova per l'appunto, secondo De Luna, che la memoria della Shoah ha inghiottito quella dell'antifascismo, sicché oggi, egli lamenta, «per prendere le distanze dal fascismo basta condannare l'infamia delle leggi razziali del 1938» — cosa che anche a Fini e al suo partito non è stato difficile fare — «quasi che quelle leggi esaurissero per intero la dimensione totalitaria del regime e possano costituire un ottimo pretesto per chi vuole dimenticare che il fascismo prima uccise la libertà e la democrazia e poi perseguitò gli ebrei».
In quello che dice De Luna c'è senz'altro qualcosa di vero che non riguarda certo solo l'Italia. Dietro lo spostamento d'ottica che egli in qualche modo denuncia c'è, infatti, un grande fenomeno, storiografico ma in generale culturale che ha investito tutto l'Occidente a partire dagli anni Sessanta. Si tratta, per così dire, della «riscoperta» dell'Olocausto dopo la parentesi di relativo oblio in cui esso era caduto negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Riscoperta a sua volta decisiva per dare vita a quell'altro importantissimo fenomeno che è stato il progressivo emergere, in tempi a noi vicini, di una vera e propria «cultura della vittima» e dell'idea connessa di una giustizia cosmopolitica.
Ma sicuramente c'è anche dell'altro nello spostamento di ottica dal fascismo nel suo insieme al singolo aspetto dell'antisemitismo quale suo supposto tratto onnicomprensivo e determinante. E questo altro, mi pare, è molto italiano, molto roba di casa nostra, perché legato a quella componente essenziale della scena pubblica italiana che è stata la «cultura di sinistra», di cui non a caso la storiografia dell'età contemporanea — soprattutto quella del fascismo — è stata e continua ad essere una parte così importante. In questo senso, come adesso dirò, al lamento di De Luna, il quale nella cultura suddetta si è sempre riconosciuto, non sarebbe affatto improprio replicare «chi è causa del suo mal» con quel che segue. Per capire che cosa intendo bisogna rifarsi a quel momento cruciale della contesa storiografico- politica intorno all'interpretazione del fascismo che furono in Italia gli anni Settanta- Ottanta. Gli anni in cui si afferma nel nostro panorama degli studi e ancor di più presso il grande pubblico l'opera di Renzo De Felice: alla quale però una gran parte della «cultura di sinistra» risponde con l'accusa di «revisionismo ». Cioè con l'accusa di voler programmaticamente attenuare il carattere totalitario del regime, di non nasconderne certe ispirazioni moderne e popolari, di volerne mostrare l'effettiva base di consenso, e così in certo senso di riabilitarlo. Oltre che storiografica l'accusa ha anche un esplicito contenuto politico: la ricostruzione di De Felice, infatti, smentisce nella sostanza l'immagine del Ventennio in contrapposizione alla quale la sinistra ha costruito il mito dell'antifascismo e della Resistenza, di cui ha così ampiamente beneficiato. È precisamente nell'ambito di questa contesa (e in sintonia con quanto nel frattempo stava accadendo all'estero, specie negli Stati Uniti, e di cui parlavo sopra) che la storiografia della sinistra, che fino allora non aveva prestato quasi alcuna attenzione al tema (basti vedere i diversi volumi di «lezioni» sul fascismo che i maggiori editori italiani, da Laterza a Einaudi, pubblicano dall'inizio degli anni Sessanta agli inizi dei Settanta), comincia a mettere sempre più l'accento sull'antisemitismo e sulle leggi razziali quale tratto assolutamente caratterizzante della storia e dell'ideologia del fascismo. Lo fa con l'intento di equiparare in qualche modo la legislazione razzista del '38 alla «soluzione finale» hitleriana, il fascismo pre-25 luglio a quello di Salò, e di stabilire così un legame decisivo tra il regime fascista e quello nazista. In tal modo lo statuto storico del fascismo è dedotto in misura decisiva dall'antisemitismo; è l'antisemitismo che ne definisce la vera natura, omologandolo sostanzialmente a quell'archetipo di totalitarismo diabolico-omicida che è stato il regime hitleriano. Di modo che, come si capisce, ogni distinzione o disamina defeliciana è destinata a lasciare il tempo che trova, mentre resta ben salda l'immagine del Ventennio elaborata dall'antifascismo politico tradizionale.
Ma non basta. Alle pur importanti ragioni difensive di questo impianto storiografico la cultura di sinistra ne ha aggiunto alla fine degli anni Ottanta un'altra ancora, non meno importante: la difesa della memoria del comunismo, quel comunismo con cui la sua vicenda, specie in Italia, era stata fino allora tanto strettamente intrecciata. La fine dell'Unione Sovietica e ciò che anche dai suoi archivi cominciava a venir fuori gettavano, infatti, un'ombra sempre più cupa su quell'ideologia, sui suoi regimi e i suoi partiti, minacciando di relegare l'una e gli altri tra gli orrori del Novecento. Dunque per un'intera esperienza vissuta anche in Italia da milioni e milioni di persone, tra cui molti intellettuali, il passato rischiava di diventare un vissuto ideologicamente indifendibile, costellato solo da errori. Anche l'esperienza dell'antifascismo politico tradizionale perdeva ogni efficacia compensatrice e redentrice, nel momento in cui bisognava ammettere che quell'esperienza implicava molto spesso l'adesione a un'ideologia e a un regime, quelli comunisti, rivelatisi altrettanto se non più oppressivi del fascismo (si ricordi: sto parlando sempre del fascismo italiano, del regime di Mussolini). Tutto cambiava però se tra i due attori, il fascismo e il comunismo, ne veniva introdotto un terzo, l'antisemitismo. Se dopo l'89, agli occhi di molti, il comunismo in quanto tale non bastava più, infatti, ad assicurare una posizione di superiorità etico-politica rispetto al fascismo; se l'uno e l'altro potevano addirittura essere considerati due totalitarismi più o meno equivalenti, tutto però cambiava e ritornava al suo posto se sul conto del ventennio ducesco poteva essere messo il carico dell'Olocausto e sul conto del comunismo il merito — almeno quello, ma di quale peso! — di avere aperto i cancelli di Auschwitz. La Shoah, insomma, era chiamata a salvare indirettamente l'onore del comunismo o quel ne restava. Dopo l'equiparazione del fascismo al nazismo, l'accento sull'antisemitismo serviva ora a ristabilire l'incrinata primazia del comunismo sull'uno e sull'altro.
Anche per questa via, dunque, si è affermata, nell'interpretazione del fascismo fatta propria da molta storiografia e cultura di sinistra italiane (ma non solo) un'inedita centralità della categoria dell'antisemitismo. Chi, come Giovanni De Luna, si rammarica oggi che ciò abbia alla fine condotto ad una «derubricazione » del fascismo (e dell'antifascismo) dovrebbe forse pensare alle tante occasioni in cui in passato avrebbe potuto far sentire la propria voce contro l'uso forzato e strumentale della storia, ma non lo ha fatto.
Corriere della Sera 22.4.08
Editoria. Un'iniziativa della Sellerio, curata da Gianni Puglisi, indaga i nuovi saperi
«Le parole e le cose»: Foucault diventa una collana
di Pierluigi Panza
Dalla più teoretica tra le opera del filosofo francese Michel Foucault, Le parole e le cose (un'analisi epistemologica del sapere nell'età classica che mostra il dominio del linguaggio sull'individuo) prende nome e spunto una collana di saggi della casa editrice Sellerio, curata da Gianni Puglisi, rettore dello Iulm.
La collana, viene presentata oggi a Milano (ore 18, libreria Feltrinelli di piazza del Duomo, con Daniel-Henri Pageaux dell'Università Paris III e Luca Maria Scarantino dell'Ecole des Hautes Etudes di Parigi) nell'occasione di due nuove uscite:
Il grado zero dell'immagine. Rispecchiamenti dell'io nell'Altro di Puglisi e Paolo Proietti (pagine 68, e 12) e Specchi del Letterario: l'imagologia di Proietti (pp. 168, e 14).
La collana si prefigge di tratteggiare statuti disciplinari di materie tradizionali e di nuove «scienze umane» che vanno definendosi, come la «narratologia», la «imagologia» o la «tematologia» in un quadro di sapere interdisciplinare che va dagli studi sociologici a quelli della comunicazione.
Tra tutti questi argomenti accenniamo a due aspetti. Nel libro di Puglisi-Proietti emerge l'idea di conoscenza come performance, ovvero oggi ogni sapere è — come già in Richard Rorty ( Le conseguenze del pragmatismo) — costruzione di un modello che resiste al tempo in ragione della sua efficacia. In un altro testo della collana, Addio all'estetica di Jean-Marie Schaeffer (pp. 84, e 12) si mette sotto accusa il pan-estetismo, ovvero l'estendere all'infinito il campo d'indagine di questa disciplina fondata a metà Settecento da Baumgarten, transitata da un piano gnoseologico inferiore e di indagine artistica a quella di una soggettivazione di ogni fenomeno mondano.
il Riformista 22.4.08
Loft, si lavora al ballottaggio, va in soffitta il Pd autarchico
Se salva Roma, c'è un piano B
Autodifesa del leader. L'offerta all'Udc e quella alla Sinistra
di Stefano Cappellini
Il partito del nord, il ruolo dell'opposizione, le riforme istituzionali, la costruzione del Pd. Ma intanto Tor Bella Monaca e la Borghesiana. Nell'agenda di Walter Veltroni, prima delle grandi trame nazionali, viene il tour che lo vedrà impegnato oggi pomeriggio all'estrema periferia di una Roma sempre più in bilico tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno, e da qui a domenica a passeggio per tutti i quartieri più a rischio astensione, «perché il ballottagio - spiegano i veltroniani - non si vince con gli apparentamenti, ma portando la gente a votare». Veltroni ha ben chiaro il significato del secondo turno romano. Una sconfitta di Rutelli avrebbe conseguenze devastanti sulla leadership nazionale e sul Pd tutto. E per questo su Roma si stanno mobilitando anche gli altri leader, da Massimo D'Alema, sponsor del candidato democrat al consiglio comunale più votato (Umberto Marroni), a Franco Marini, impegnato a blindare i voti di area Cisl.
Solo conservando Roma la «nuova stagione» può ripartire. E ieri l'ex sindaco, approfittando della prima riunione post-voto dei segretari regionali, ha gettato le basi dell'autodifesa davanti alle contestazioni che comunque arriveranno sul deludente risultato del Pd. «Le parole d'ordine della campagna elettorale erano giuste ma la credibilità non si costruisce in quattro mesi», ha spiegato Veltroni, prima di fare muro su tutte le critiche. La Waterloo del 14 aprile? «Abbiamo avviato una rivoluzione dolce e segnato una discontinuità nel rapporto tra il Pd e la parte produttiva del Paese così come con la povera gente». La mancata rimonta su Berlusconi? «C'erano 22 punti di distanza, e questo è dimostrato anche dalle elezioni amministrative. Quei dati confrontati con quelli di oggi evidenziano un incremento del nostro elettorato di circa un terzo. Un recupero gigantesco». Il Pd fermo ai voti dell'Ulivo? «Il raffronto elettorale tra i dati del 2008 e quelli del 2006 è statisticamente corretto ma politicamente scorretto». Morale: «L'errore più grande che potremmo commettere ora è quello di tornare indietro», ha arringato il segretario.
Ma si sbaglia a pensare che Veltroni voglia barricarsi sulla linea con cui ha perso le elezioni. Le critiche che arrivano dal mondo dalemiano sul fallimento dell'autarchia, gli ammonimenti da quello popolare (ultimo il ministro Beppe Fioroni, che vuole «ridiscutere») e i mal di pancia dal fronte dei sindaci "padani" prefigurano già, archiviati i ballottaggi, un quadro di acceso confronto. L'assemblea dei segretari ha bocciato l'idea di un partito autonomo del nord. Nessuna specificità: nascerà un coordinamento del nord così come uno del sud. Ma di cambiamenti ne sono in arrivo altri e più importanti. Il Pd a vocazione maggioritaria sta lasciando il posto ad altre e meno solitarie soluzioni. Un primo cambiamento di rotta è già chiaro sul tema delle alleanze. Tra un anno c'è una importante tornata amministrativa, e tra due anni le regionali: come si tengono quelle città, province e regioni dove il Pd oggi governa con la sinistra? L'incubo generale dei dirigenti locali è il ripetersi su scala nazionale di un caso Roma, ovvero candidati costretti a remare controcorrente rispetto al quadro nazionale. Veltroni ha raccolto il tema. E per la prima volta, oltre a dolersi della scomparsa in Parlamento dell'Arcobaleno, ha condiviso una parte delle responsabilità sul disastro rosso-verde: «Alcune contraddizioni del centrosinistra - ha detto - si sono scaricate su quell'elettorato». Una mano tesa all'asse Bertinotti-Vendola-Mussi, che già lavora per una nuova Sinistra unita e alleata del Loft. Quindi è arrivata un'offerta politica ufficiale a Pieferdinando Casini: «Se il Pd costruirà un rapporto con le altre forze politiche, penso all'Udc, c'è la possibilità di far partire una sfida riformista che il paese non ha mai riconosciuto». Basterà la nuova linea, insieme alla difesa di Roma, a sopire le tensioni interne?
Per ora l'assalto al gruppo dirigente veltroniano avanza sottotraccia. Marini non vuol parlare di un suo approdo alla presidenza, più che probabile, ma intanto ha prenotato una stanza al Loft e ha opzionato il futuro capogruppo al Senato: vuole a tutti i costi Luigi Zanda. Alla Camera s'avanza Pierluigi Bersani, uno dei più critici verso la gestione attuale. Veltroni riuscirà a stoppare il commissariamento di fatto della sua leadership? Fonti vicine al segretario spiegano che la sua contromossa potrebbe essere un'altra. Lasciare che i detrattori si tolgano qualche soddisfazione sull'organigramma e puntare tutte le carte sull'apertura del tavolo delle riforme. Goffredo Bettini ha un mandato chiaro. E Veltroni non ha cambiato idea da quando, a Natale, disse che dopo le elezioni si sarebbe dovuto puntare sul modello francese per la Grande Riforma. La preoccupazione del leader è accorciare i tempi della traversata nel deserto: cinque anni di attesa potrebbero rivelarsi un logorio insostenibile, mentre invece il varo della Terza Repubblica, semipresidenziale, mischierebbe non poco tempi e attori della rivincita sul Pdl. Un piano non privo di rischi e incognite (Berlusconi è pronto davvero a sedersi al tavolo? Come si porrà la Lega?), ma sul quale intanto la prima parola spetta a Tor Bella Monaca e Borghesiana.
il Riformista 22.4.08
Tsunami. Citto tradisce, La Porta abiura, il manifesto si divide
I sans-papiers della Sinistra in cerca di casa
di Tommaso Labate
O con noi o contro di noi. I nemici dentro il partito, gli avversari fuori. O stai con Fausto&Nichi o con Ferrero. Per un pezzo autorevole di sinistra-sinistra, la guerra che si è aperta col comitato politico nazionale (Cpn) di Rifondazione - che molto probabilmente si concluderà con una scissione al congresso - rischia di avere effetti ancor più devastanti rispetto alla batosta elettorale. C'è chi rimane per vedere l'effetto che fa, chi medita di scappare, chi s'aggrappa al miraggio veltroniano, chi addirittura medita di intraprendere - parafrasando Zangrandi - un lungo viaggio attraverso il leghismo.
Col Fausto silente, la claque del presidente della Camera si è sciolta o quasi. Citto Maselli e la di lui compagna Stefania Brai, bertinottiani di antico conio, hanno votato il documento di Ferrero. Gabriele La Porta aveva fatto un salto a salutare i compagni nel pomeriggio del 14 aprile; dopo la prima proiezione se n'è andato e i pochi che l'hanno sentito recentemente giurano che l'uomo della notte Rai è pronto a riabbracciare la vecchia fede leghista. Dei fantasmi che turbano Piero Sansonetti e la direzione di Liberazione si sa più o meno tutto. Al manifesto, i senatori Valentino Parlato e Rossana Rossanda sostengono la linea-Fausto e stanno con Nichi Vendola; Gabriele Polo, invece, pende nettamente dalla parte opposta. Qualche mese fa, narra una leggenda che proprio leggenda non è, fu proprio a Polo, durante una segretissima cena, che Ferrero confidò i suoi piani per la conquista del partito.
Tutto questo è peggio dell'uscita dal Palazzo. Perché una sconfitta elettorale toglie potere. Una guerra civile, invece, alimenta le schiere di profughi. I sans-papiers della sinistra. «Ma è mai possibile?», ripete da giorni Sandro Curzi, rivendicando orgogliosamente la scelta di disertare il Cpn del week-end. «La settimana scorsa c'è stata una disfatta. Invece di ragionare sulle cause, c'è chi preferisce ripiegare sull'orticello interno. Diliberto con la falce e il martello, Rifondazione con lo scontro interno...». Già, lo scontro. La violenza si nasconde nei dettagli. «Non vogliamo un partito monosessuato», hanno scritto Imma Barbarossa, Loredana Fraleone e Roberta Fantozzi in un documento votato dalla maggioranza dalle donne del Prc. Documento anti-Vendola in cui si rilevava, tra le altre cose, il rischio «di un match tra maschi» per la segreteria.
E le cause della débâcle elettorale? Come derubricate, in secondo piano. Ancora Curzi: «Ho rivisto in Toscana un mio vecchio compagno dei tempi della Fgci. Mi ha detto: "Sandro, te abiti a Roma, sopra i Fori. Ma noi che stiamo qui sappiamo cosa vuol dire avere a che fare con quelli là..."». I Rom. Il caos sicurezza. «Non possiamo restare fermi - aggiunge il consigliere Rai -. Nel '47, quando a Roma c'era il grande campo nomadi ai Parioli, il Pci ci fece andare all'interno e aprire una sotto-sezione. Ci impose di capire. Oggi, niente di niente. La sinistra medita su sé stessa e la Lega trionfa. Magari poi fai un salto nei campi Rom, tutti in periferia, e ci trovi le Mercedes».
Di queste cose si discute fuori. «Per ora aspetto. Poi andrò al congresso e dirò la mia, sempre che interessi», spiega Curzi. C'è il Pd di Veltroni, in lontananza. «Se contestano o cacciano Walter dopo il ballottaggio di Roma, sarà un altra sconfitta per la democrazia», sottolinea l'ex direttore di Telekabul. Agnoletto è sempre più lontano. «Paghiamo tutti il grande prezzo di aver sostenuto un governo che è rimasto in Afghanistan e ha alzato le spese militari. Dobbiamo riallacciare il cordone coi movimenti», insiste mister no-global da Bruxelles.
Il resto della galassia è sempre più slacciato. Sinistra democratica si riunisce: Fabio Mussi si dimetterà per motivi di salute, Cesare Salvi guarderà (anzi, guarda già) ai socialisti. Più complicata la vita di Pietro Folena, che continua a coltivare l'amicizia personale con Veltroni: per mettere attorno a un tavolo la sua Uniti a sinistra , dovrà stare a sentire le ragioni dell'Associazione per il rinnovamento della sinistra (Tortorella), il Cantiere fu Occhetto (oggi Falomi) e i Rossoverdi (Ersilia Salvato). Dove si va? «Per adesso concentriamoci sul ballottaggio di Roma e sul 25 aprile», insiste Giovanni Russo Spena. «Con Alemanno e i suoi che puntano al Campidoglio, quest'anno la Liberazione assumerà un significato particolare. Non sarà semplice liturgia, vedrete». Il sindaco forzista di Alghero ha già vietato Bella ciao . Mario D'Urso è irreperibile. La traversata nel deserto della sinistra-sinistra è appena iniziata.
Giovedì 17 aprile
Festival della filosofia all'auditorium Parco della musica, sala Sinopoli
“Dalla critica alle armi? Il '68 e il problema della violenza”.
Conduce Giacomo Marramao, sono presenti Roberto Esposito, Toni Negri, Oskar Negt, Peter Schneider, Pere Vilanova.
(assenti Giuliano Ferrara e Massimiliano Fuksas, benché annunciati dal programma. Dal pubblico Oreste Scalzone alla fine interviene polemicamente rivolto a Negri)
il dibattito in una scheda di Noemi Ghetti
G. Marramao apre con la frase di E. Hobswan: “Non sa che la storia è storia della violenza?” . Ricorda che nel ‘68 in fase ascendente non c’era distinzione tra partecipanti di formazione liberale e marxista. A questa logica inclusiva delle differenze si è sostituita negli anni 70 una logica identitaria, fonte di violenza.
Roberto Esposito non crede che la violenza fosse insita nel ‘68, pensa che sia stata indotta dallo sterminio della differenza, dalla strategia della tensione.
Toni Negri afferma che il ‘68 americano o europeo in Italia non c’è stato. Qui è stata la classe operaia ad avere l’egemonia della lotta (agosto ‘69, Mirafiori) e ad aprire la strada a studenti e femministe. La violenza, che Spinoza considera comunque necessaria, nasce alla fine del ‘69 col compromesso storico, quando si determina un’asimmetria tra sviluppo delle lotte e reazione del potere. Il ‘68 segna la fine della lotta operaia, con il processo della modernità capitalista. Allora la critica e le armi ricominciano a lavorare insieme, come voleva Machiavelli. Quando non si incontrano, si ha il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, cioè il terrorismo. A ragione - conclude - parlando del ‘68 si torna a San Paolo: “Ero giudeo, son diventato cristiano. Non è una conversione, è il mio essere che è cambiato”. Il dopo è stato triste per chi non sa riconoscere nel ‘68 un’origine che è un avvenire (applausi).
Peter Schneider (autore di Lenz, all’epoca colpito dal provvedimento in Germania che escludeva dall’insegnamento gli insegnanti radicali) replica che la violenza del ‘68 fa parte della teoria della sinistra, e non è stata, come dicono Negri ed Esposito, solo una reazione alla violenza di destra. Un nuovo vocabolario ha dominato le menti: “classe operaia” invece di “operaio”, “sistema” invece che “politico corrotto”, “lotta di classe” sono termini che per logica di gruppo si sono imposti abbattendo ogni resistenza personale, con punizioni psicologiche per chi non si adeguava ai misteri del pensiero “giusto”. Il terrorismo è un movimento aberrante che ha distrutto il ‘68. Non è stata la polizia, siamo stati noi a distruggere le istanze migliori del ‘68. Ci voleva coraggio per combattere gli scandali del capitalismo, ma ci voleva più coraggio ancora per opporsi ai maestri dei nostri gruppi quando impazzivano. Questo secondo coraggio è mancato.
Marramao concorda che il ‘68 è fallito anche per colpa dei suoi protagonisti, ma ricorda che la generazione del ‘68 è diventata classe dirigente in Germania e in Francia, mentre in Italia è stata tagliata fuori, cosa che ha limitato la nostra democrazia.
Schneider precisa che tuttavia la marcia dentro le istituzioni dei sessantottini tedeschi non ha mostrato di avere idee molto chiare. Il ‘68 ha comunque portato una generale civilizzazione della società ora messa in pericolo, in Italia, da Berlusconi e da un papa tedesco che fa di tutto per annullare la separazione tra religione e stato.
Oskar Negt, che fu allievo di Adorno della scuola di Francoforte, si associa all’allarme.
Pere Vilanova, militante comunista durante il franchismo, riferendosi all’ETA e ad altre forme di terrorismo, precisa di avere sempre pensato che, per quanto riguarda la violenza, deve comunque esistere uno spartiacque: ci sono cose che il nemico fa e che io non vorrò mai fare. E’ una questione di etica politica. Altrimenti ogni differenza rispetto al nemico cade. Osserva inoltre che l’internazionalismo è stato rappresentato per l’ultima volta dal ‘68, ora ogni gruppo sta a sé. Neri coi neri, protestanti coi protestatnti, omesessuali con gli omosessuali. I palestinesi allora erano maoisti come noi, ora sono fondamentalisti.
Repubblica 21.4.08
I due Benedetto contro l'Illuminismo
di Mario Pirani
La vittoria della destra contiene in sé tutte le premesse per l´accentuarsi dell´interferenza religiosa sull´ordinamento laico della Repubblica. E´ facile, infatti, prefigurarsi lo zelo privo di remore ideali di Berlusconi e associati di fronte alle prescrizioni del Pontefice e della Conferenza episcopale sia che si tratti di coppie di fatto, di concepimento assistito o di aborto, di sovvenzioni alle scuole cattoliche o di convenzioni favorevoli alle cliniche di Ordini e Congregazioni. Ma tutto ciò si inquadrerà ancor più di quanto non avvenga in una complessa azione ideologica per ridurre la cultura laica ad una funzione ancillare e di servizio nei confronti della trascendenza e della verità come rivelazione. E´ un´offensiva che ha come teatro l´Europa cattolica con l´Italia da epicentro.
Lo "Standard" di Vienna tracciando un quadro sulla ripresa in forza del cattolicesimo militante scrive: «L´ora sembra essere quella di una Riconquista politica... Un clero senza complessi si autoinvita oggi nello spazio pubblico... con una arroganza che non si era più vista da molto tempo nella vecchia Europa». Potrei proseguire con una miriade di citazioni internazionali ma quel che m´interessa è proporre ai lettori una riflessione sul carattere dell´offensiva clericale.
Molti affermano che essa sgorga dall´emergere delle questioni "eticamente sensibili", ma a me pare che alla radice vi sia l´antica avversione per l´Illuminismo, per il libero pensiero, per la piena autonomia dell´individuo, per un´etica pubblica sottratta all´imperativo religioso. Siamo di fronte ad un grande balzo culturale all´indietro, a prima della Rivoluzione francese. Mi conforta in questa tesi un bel libro appena uscito, «Il governo della lettura. Chiesa e libri nell´Italia del Settecento» (ed. Il Mulino, Bologna 1908) di Patrizia Delpiano, che analizza e rende di impressionante attualità il conflitto tra la Chiesa e l´Illuminismo e, cioè, quella filosofia della Ragione, banalmente declassata al livello dell´incerto laicismo dei nostri giorni. L´oggetto della ricerca ha, anzitutto, la particolarità di concentrarsi sul XVIII secolo, il "secolo dei Lumi", quando la Chiesa appare sulla difensiva, dopo il periodo trionfante delle Congregazioni dell´Indice e dell´Inquisizione nei due secoli precedenti. Mentre declina la pratica dei roghi la Chiesa «sposta il baricentro dalle tecniche repressive a quelle persuasive». La materia del contendere è il controllo della cultura che allora voleva dire il controllo sui libri e sulla lettura, e la gerarchia ecclesiastica individua il nemico in «categorie culturali che andavano ben oltre l´eresia protestante.... Proponendo una morale laica, del tutto aliena dalla fede dogmatica tridentina, l´Illuminismo pareva travolgere l´ordine costituito e attaccare in nome dell´universalismo cosmopolitico, la stessa identità cattolica e cristiana della penisola». Anche il romanzo e la lettura d´intrattenimento «sono guardati con sospetto in quanto capaci di raggiungere un pubblico più ampio della tradizionale élite di lettori. Furono i due fenomeni (come non paragonarli alla Tv di oggi?, ndr) strettamente intrecciati nell´immaginario ecclesiastico a sollevare... una ricca riflessione sui danni della lettura... uno dei pericoli assoluti cui sembrava esposto quel popolo che la Chiesa in passato aveva cercato di proteggere dai veleni del protestantesimo».
Artefice di quella «controrivoluzione attiva» fu il celebre cardinal Lambertini, bolognese, assurto al Soglio come papa Benedetto XIV. Parso a molti il papa della tolleranza, «seppe in realtà trasformare l´Indice (che venne soppresso solo nel 1960 dopo il Vaticanio II) in uno strumento adeguato... a incoraggiare tra i letterati la pratica dell´autocorrezione e dunque dell´autocensura. Nel corso del secolo furono condannati tutti i classici dell´Illuminismo italiano ed europeo... In tal senso la resistenza della Chiesa ai Lumi ha oltrepassato il Settecento, sopravvivendo al tramonto dell´Illuminismo storicamente inteso... Non è soltanto nel breve periodo che bisogna valutare gli effetti di censura e propaganda svolta dalla Chiesa nel Settecento. In quella fase consegnò al futuro indicazioni preziose, seppe approntare un apparato teorico compatto, costituito in gran parte contro il mondo dei Lumi, basato sul ruolo centrale del cattolicesimo nella vita pubblica... sulla difesa dei doveri contro la rivendicazione dei diritti dell´uomo».
Nel cancellare le conquiste del Concilio il Benedetto bavarese raccoglie, dunque, l´eredità del Benedetto bolognese. Ecco con cosa i laici debbono confrontarsi.