La destra al potere. Negare il 25 aprile
di Eduardo Di Blasi
Dal Giornale di Berlusconi parte l’attacco. Veltroni: festa di tutti gli italiani
Prima il sindaco (Pdl) di Alghero che vieta “Bella Ciao”. Poi l’attacco del “Giornale” di famiglia che bolla il 25 Aprile come ricorrenza che divide e la sindaca Letizia Moratti che fa sapere che alla manifestazione di venerdì a Milano non ci sarà. Infine Gustavo Selva (Pdl) che ne propone l’abolizione. La Destra ha rimesso nel mirino la festa della Liberazione dell’Italia dall’oppressione nazista e fascista. Proprio nel 60esimo anniversario della Costituzione e 70 anni dopo che il fascismo emise le leggi razziali per sterminare gli ebrei. «Il 25 Aprile - ricorda Veltroni - è la festa di tutti gli italiani»LA LIBERAZIONE vista da destra diventa una «festa di parte», una data «che divide». Il nuovo epigono è un sindaco di Alghero che non vuol sentire «Bella ciao» (anche questa «canzone che divide») e che considera «estremista di sinistra» chi, durante la manifestazione alzi «i pugni al cielo»
Titolo: «Il 25 aprile che divide». Primo svolgimento, a cura di Giordano Bruno Guerri: «Un italiano su due non la considera una festa nazionale» (articolo a commento di un sondaggio somministrato a mille persone). Seguono intervista al sindaco di Alghero «che ha vietato Bella Ciao», e non da ora (e per questo si appunta una medaglia sul petto), un altro pezzo sul sindaco di Milano che quest’anno diserta il corteo («e anche il primo maggio» perché non sarà in città, ma, assicura, ci sarà una rappresentanza della giunta), e due articoli contro l’Anpi, l’associazione dei partigiani. Nel primo l’attacco è al manifesto unitario delle associazioni combattentistiche e partigiane, reo di contenere l’appello: «A sessant’anni dal 1° gennaio 1948, da quando essa entrò in vigore, l’Italia sta correndo nuovi pericoli. Emergono sempre più i rischi per la tenuta del sistema democratico, come evidenti si manifestano le difficoltà per il suo indispensabile rinnovamento. Permangono, d’altro canto, i tentativi di sminuire e infangare la storia della Resistenza, cercando di equiparare i “repubblichini”, sostenitori dei nazisti, ai partigiani e ai combattenti degli eserciti alleati». Il secondo descrive i circoli dell’Anpi come «circoli ricreativi, veri e propri dopolavori con annessi ristoranti, club sportivi, scuole di arti orientali», e annota, mentre spiega il tesseramento dei ragazzi che tengano alta la memoria della Resistenza una volta che i partigiani non ci saranno più: «Salvare l’Anpi significa salvare i fiumi di euro che arrivano dalle casse pubbliche».
Sono due pagine de «Il Giornale», il quotidiano di Paolo Berlusconi (il fratello del primo ministro che mai si è visto ai festeggiamenti del 25 aprile), andato in edicola ieri. Due pagine che andavano sotto l’ambiguo titoletto: «L’Italia degli irriducibili». Dove non si comprendeva se fossero «irriducibili» (termine terroristico-curvaiolo) coloro che si ostinano a festeggiare la Liberazione o il sindaco di Alghero che alla domanda: «E se qualcuno nel corteo intona Bella Ciao?», risponde: «Non succede assolutamente nulla, a meno che non ci sia qualche estremista di sinistra che cominci ad alzare i pugni al cielo. Ma non sono io a giudicare, se ci sono gli estremi della provocazione interverranno le forze dell’ordine». Intanto Gustavo Selva, senatore uscente del Pdl (quello che ha adoperato un’ambulanza per presenziare in una trasmissione tv in un giorno di blocco del traffico), propone «l’abolizione della festa nazionale del 25 aprile» in quanto, dal suo punto di osservazione “privilegiato” («ho vissuto dal 1943 al 1945 a Riolo Terme in provincia di Ravenna dove è finita la seconda guerra mondiale») osserva: «L’attività dei partigiani è emersa solo dopo il 25, ma sul piano militare hanno fatto solo dei danni. Per esempio l’uccisione di un soldato tedesco che stava magari pascolando qualche animale, ucciso da quelli che dopo il 25 aprile sono stati definiti eroi della Resistenza, a cominciare da Arrigo Boldrini che io ho conosciuto nella sua attività». È la stessa riscrittura della storia di cui parla l’appello dell’Anpi. Confondere la Liberazione con qualcosa di diverso dalla fine della guerra mondiale e del giogo fascista sull’Italia. Lo afferma chiaro il segretario del Pd Walter Veltroni: «Il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani, per ricordare il giorno in cui è stata restituita la libertà di dire ciò che si pensa, la libertà di votare, la libertà di stare in un partito, di fare un sindacato e di essere ebrei senza finire in un campo di sterminio. Non ci deve essere nessun italiano che considera questo giorno altro che una festa di tutti gli italiani, la festa della Liberazione».
Sono due pagine de «Il Giornale», il quotidiano di Paolo Berlusconi (il fratello del primo ministro che mai si è visto ai festeggiamenti del 25 aprile), andato in edicola ieri. Due pagine che andavano sotto l’ambiguo titoletto: «L’Italia degli irriducibili». Dove non si comprendeva se fossero «irriducibili» (termine terroristico-curvaiolo) coloro che si ostinano a festeggiare la Liberazione o il sindaco di Alghero che alla domanda: «E se qualcuno nel corteo intona Bella Ciao?», risponde: «Non succede assolutamente nulla, a meno che non ci sia qualche estremista di sinistra che cominci ad alzare i pugni al cielo. Ma non sono io a giudicare, se ci sono gli estremi della provocazione interverranno le forze dell’ordine». Intanto Gustavo Selva, senatore uscente del Pdl (quello che ha adoperato un’ambulanza per presenziare in una trasmissione tv in un giorno di blocco del traffico), propone «l’abolizione della festa nazionale del 25 aprile» in quanto, dal suo punto di osservazione “privilegiato” («ho vissuto dal 1943 al 1945 a Riolo Terme in provincia di Ravenna dove è finita la seconda guerra mondiale») osserva: «L’attività dei partigiani è emersa solo dopo il 25, ma sul piano militare hanno fatto solo dei danni. Per esempio l’uccisione di un soldato tedesco che stava magari pascolando qualche animale, ucciso da quelli che dopo il 25 aprile sono stati definiti eroi della Resistenza, a cominciare da Arrigo Boldrini che io ho conosciuto nella sua attività». È la stessa riscrittura della storia di cui parla l’appello dell’Anpi. Confondere la Liberazione con qualcosa di diverso dalla fine della guerra mondiale e del giogo fascista sull’Italia. Lo afferma chiaro il segretario del Pd Walter Veltroni: «Il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani, per ricordare il giorno in cui è stata restituita la libertà di dire ciò che si pensa, la libertà di votare, la libertà di stare in un partito, di fare un sindacato e di essere ebrei senza finire in un campo di sterminio. Non ci deve essere nessun italiano che considera questo giorno altro che una festa di tutti gli italiani, la festa della Liberazione».
l’Unità 23.4.08
I 99 anni della Montalcini: il male mi ha portato il bene
Compleanno del Premio Nobel che ricorda le persecuzioni razziali: giovani, abbiate fiducia
Compleanno del Premio Nobel che ricorda le persecuzioni razziali: giovani, abbiate fiducia
All’età non ha «mai dato importanza», così come ai festeggiamenti di compleanno, dichiarava lo scorso anno al traguardo dei suoi 98 anni. E anche ieri, che di candeline ne ha spente 99, il Premio Nobel per la Medicina e senatrice Rita Levi Montalcini non ha smentito il suo credo: è andata a lavorare in laboratorio, come tutti i giorni, per poi proseguire con un impegno pubblico, mentre dalla mattinata numerosi auguri giungevano da più parti.
Nella sede della Fondazione European Brain Research Institute (Ebri) da lei creata tre anni, ha ricevuto gli auguri di Francesco Rutelli. «Se guardo indietro, penso di avere avuto una vita fortunata», gli ha detto. «Il male - ha proseguito la Montalcini - mi ha portato il bene» e il suo pensiero è andato ai giorni delle persecuzioni razziali, quando era costretta a stare nascosta in camera da letto. Poi ha ricordato le ricerche che, con la scoperta del 1986, l’hanno portata al Premio Nobel per la Medicina. «Per prima cosa - ha detto - voglio dire ai giovani disinteressatevi di voi stessi e pensate agli altri. Ma la cosa più importante è: abbiate sempre fiducia, non abbiate paura neanche nei momenti difficili, perchè, come è successo anche a me, dopo, verranno tempi migliori».
«Vorrei essere viva, per poter assistere allo sviluppo fondamentale delle scoperte da me fatte 50 anni fa», ha confidato al candidato del centrosinistra a sindaco di Roma Rutelli. Il clima dell’incontro è stato quello di due vecchi amici, che si sono tenuti per tutto il tempo mano nella mano. Rutelli, che le ha fatto dono di una composizione di fiori e del catalogo appena edito della Galleria nazionale di Arte antica, l’ha ringraziata perchè, ha detto, «fin dall’inizio sei stata amabilissima con me e tanto importante anche nella precedente esperienza di sindaco». La Montalcini si è informata su come stesse andando la campagna elettorale e Rutelli non ha nascosto che si tratta di «una battaglia impegnativa».
Alla Premio Nobel sono arrivati, tra gli altri, gli auguri del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano («per una ricorrenza che la vede sempre così fervidamente e operosamente impegnata per la scienza e per il paese»), di Prodi, che l’ha ricevuta a Palazzo Chigi dove hanno festeggiato con un brindisi. Auguri anche da Veltroni, Bertinotti, Marini. Una calorosa lettera di auguri è stata inviata alla Montalcini da Michail Gorbaciov, presidente della Croce Verde internazionale, che ricopre anche il ruolo di presidente d’onore di Green Cross Italia e di consigliere dello stesso Gorbaciov.
l’Unità 23.4.08
Sinistra, il doloroso addio di Mussi
Con una lettera le dimissioni da coordinatore di Sd. «Necessario un ricambio generazionale»
di Simone Collini
AVEVA FATTO INTUIRE le sue intenzioni all’indomani della sconfitta elettorale, dichiarandosi «politicamente corresponsabile del disastro» e annunciando: «Ne trarrò le conseguenze». Ieri Fabio Mussi ha ufficializzato la decisione di dimettersi da coordi-
natore di Sinistra democratica, con una lettera inviata al direttivo del movimento, riunito a Roma per analizzare il voto di dieci giorni fa e per pianificare le strategie future. La riunione, nove ore a porte chiuse all’ex hotel Bologna, si è aperta proprio con la lettura delle righe scritte dal ministro uscente, lontano per via di accertamenti medici dovuti al trapianto di reni di pochi mesi fa. Nella lettera, Mussi ha sottolineato la coincidenza tra la sua delicata situazione personale e la débâcle elettorale: «In questo momento la sinistra ha bisogno del massimo impegno e di un vero rinnovamento», è il messaggio dell’ex leader del Correntone ai suoi. «Non potendo garantire, per motivi indipendenti dalla mia volontà, il contributo necessario e volendo favorire un rinnovamento anche generazionale, lascio l’incarico di coordinatore».
Un passo indietro, che però Mussi accompagna a un’esortazione: bisogna rilanciare il percorso costituente a sinistra e si deve andare «comunque» verso un ricambio generazionale di tutti gli organismi dirigenti. Posizione condivisa dalla maggior parte degli interventi che sono seguiti, e che è stata poi ribadita in un documento approvato alla fine dei lavori. Nel testo si legge che impegno di Sinistra democratica, in prospettiva, è quello di dar vita a «una sinistra unita e rinnovata» che un domani porti a «un centrosinistra nuovo». E che per far questo, nell’immediato, bisogna avviare una campagna d’ascolto sui territori. Perché, come è stato sottolineato in più di un intervento, una delle lezioni da trarre da questo voto è che non si può pretendere di rappresentare istanze e bisogni per intuizione, senza passare per l’ascolto.
Ma non è solo questa la causa sconfitta. Marco Fumagalli, che insieme ai capigruppo uscenti Titti Di Salvo e Cesare Salvi traghetterà sinistra democratica fino all’elezione del successore di Mussi, punta il dito contro il fatto di non essere riuscita a comunicare il progetto politico di una sinistra di governo e di essere apparsa un semplice cartello elettorale. Concetto su cui ha insistito anche Salvi, per il quale alla lista rosso-verde «è mancata la capacità di persuadere e di presentarsi con parole d’ordine chiare». Il capogruppo uscente di Sd al Senato ritiene che il lavoro da fare nelle prossime settimane sia quello di lavorare con le altre forze di sinistra, socialisti compresi. Ma c’è anche altro da fare. La sua convinzione è infatti che in Sd «è necessario un percorso democratico che finora non c’è stato». Posizione tornata in vari interventi, anche se poi, quanto alle soluzioni prospettate, non è emerso un univoco orientamento.
La prima prova in questo senso sarà comunque la scelta del successore di Mussi. L’intenzione prevalente è di farlo eleggere già alla riunione del comitato promotore di Sinistra democratica, convocato per il 10 maggio. Candidature non sono venute alla luce e ogni ipotesi al momento è prematura. Quanto a una più ampia consultazione di iscritti e anche simpatizzanti, Sd dovrebbe darsi appuntamento dopo il congresso di Rifondazione comunista. L’auspicio è che a ottenere la maggioranza sia l’asse Bertinotti-Vendola, favorevole a una costituente della sinistra, e non quello Ferrero-Grassi, per i quali va rilanciato il carattere identitario del Prc. Carlo Leoni non fa mistero che il percorso che dovrà dispiegarsi nelle prossime settimane «porta alla costituente della sinistra al fianco di Rifondazione e quanti ci stanno». Altre prospettive, riguardanti una confluenza nel Pd, vengono invece escluse dal vicepresidente della Camera: «Noi ci siamo, siamo qui». E anche Fumagalli smentisce voci di un avvicinamento al Pd: «Noi investiamo sulla nuova sinistra». Intanto, però, oggi si riuniscono a Roma Cialente, Nerozzi, Crucianelli e altri fuoriusciti recentemente da Sd. Spiega Vincenzo Vita che presto l’associazione “Sinistra per il paese” potrebbe varare una Fondazione, che sia «parte costitutiva del Pd e che sappia però anche dialogare con l’esterno». Un ponte lanciato verso gli ex compagni? Dice Giulia Rodano: «Per il momento non se ne parla».
l’Unità 23.4.08
Aborto, meno interventi ma è boom di obiettori
La relazione del ministero della Salute: Ivg in calo del 3%, il 70% dei ginecologi dice «no»
CONTINUA A CALARE il numero degli aborti in Italia (-3% nel 2007 rispetto al 2006), e in particolare tra le donne italiane. Tuttavia il fronte del no all’aborto tra i
medici ha segnato un vero e proprio boom: i ginecologi obiettori nel 2007 hanno raggiunto quasi il 70% (69,2%), contro il 58,7% del 2003: su 5462 ginecologi che lavorano in strutture in cui si effettuano aborti, solo 1682 non sono obiettori. Sono i dati contenuti nella relazione annuale 2006-2007 sull’applicazione della legge 194, inviata ieri al Parlamento dal ministro della Salute Livia Turco, che ha definito la legge 194 «efficace, saggia e lungimirante», ricordando che «la sua applicazione può essere ulteriormente migliorata». Il ministro ha sottolineato la necessità di potenziare i consultori, che sono solo 0,7 ogni 20mila abitanti, mentre la legge ne prevede 1 ogni 20mila. La Turco raccomanda anche di «monitorare» l’offerta della prestazioni in relazione all’aumento delle obiezioni, al fine di garantire in tutte le Regioni l’accesso al servizio, anche attraverso «la mobilità del personale». La crescita delle obiezioni, infatti, è stata molto marcata in particolare nel Sud, con punte in alcune regioni come la Campania (dal 44,1% di obiettori all’83%), e la Sicilia (dal 44,1% al 84,2%). A porre ostacoli alle donne, sono però anche gli anestesisti (dal 45,7% al 50,4% di obiettori), e il personale non medico (dal 38,6% al 42,6%). Secondo Giorgio Vettori, presidente della Sigo (Società italiana di ginecologia), i medici operativi «sono sufficienti» per far fronte alla domanda. «Il problema semmai è organizzativo, faremo un’indagine attenta per verificare se c’è la necessaria copertura in tutto il Paese». Più critico Silvio Viale, ginecologo ed esponente radicale, secondo cui ormai la legge 194 è «a rischio». Giovanni Monni, presidente dell’Associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi), spiega così l’impennata delle obiezioni: «I ginecologi preferiscono fare un parto rispetto ad un aborto, non solo per le implicazioni etiche, ma anche perché nei concorsi questo intervento dà meno punteggio». E poi, dice Monni, «possono aver influito tutte le campagne contro l’aborto: i ginecologi spesso seguono le mode». Infine, pesano le dichiarazioni pro-vita «di molti direttori generali e assessori alla Sanità». Nel 2007 gli aborti sono stati 127.038 contro i 131.018 casi del 2006 (-3%); rispetto al 1982, anno in cui ci sono stati 234.801 casi, il decremento è del 45,9%. Tuttavia il calo è da imputare soprattutto alle donne italiane (- 3,7% rispetto al 2005), soprattutto se istruite, occupate o coniugate, mentre tra le straniere il ricorso all’aborto continua a salire (+ 4,5% rispetto al 2005). Corretta al ribasso la stima degli aborti clandestini: nel 2005 sono stati 15mila e non 20mila. Stabile il numero degli aborti terapeutici effettuati dopo il 90° giorno di gravidanza, nel 2006 pari al 2,9% del totale. Rimane invece sul terreno della sperimentazione l’aborto farmacologico con la pillola RU486: dal 2005 al 2007 ci sono stati solo 2353 casi. Sei le regioni coinvolte: Piemonte, Trentino, Toscana, Emilia Romagna, Marche, Puglia.
l’Unità 23.4.08
Yael Dayan. La scrittrice ed ex parlamentare laburista: Meshaal non riconoscerà Israele ma ammette il referendum su un accordo, è già un primo risultato
«Da israeliana sto con Carter: trattare anche con Hamas»
di Umberto De Giovannangeli
Natoli: «Io e gli altri copiati da Galimberti»
di Marco Innocente Furina
IL FILOSOFO, dopo le accuse di plagio rivolte dalla storica Sissa al celebre psicoanalista, spiega che quella della «riproduzione» di brani altrui non è una novità: «Lo faceva già ai tempi del Sole 24 ore...»
Repubblica 24.4.08
A chi serve la versione edulcorata del fascismo
di Mario Pirani
Una poesia può contenere in pochi versi più verità e chiarezza di un saggio storico. L´idea mi è suggerita dalla lettura di una breve lirica (da "Gente sul ponte", ed. Scheiwiller) di una grande poetessa polacca, Wislawa Szymborska, poco conosciuta in Italia, malgrado il Nobel.
Intitolata "Figli dell´epoca" ne riporto qui poco più di una strofa: «Siamo figli dell´epoca,/ l´epoca è politica./ ... Ciò di cui parli ha una risonanza, / ciò di cui taci ha una valenza/ in un modo o nell´altro politica./.... Intanto la gente moriva, / gli animali crepavano,/ le case bruciavano/ e i campi inselvatichivano/ come in epoche remote/ e meno politiche». L´analogia nasce dal paragone con una polemica tra storici – Giovanni De Luna sulla "Stampa" e Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere"–, il primo preoccupato dal fatto che la natura totalitaria del fascismo venga ormai derubricata solo alla persecuzione razziale anti ebraica, il secondo, come d´abitudine, impegnato ad incolpare di ciò gli storici di sinistra, i quali, per alleviare le responsabilità del comunismo, avrebbero appiattito tutta l´esperienza fascista su quella hitleriana. A tal fine, quindi, «dopo l´equiparazione del fascismo al nazismo, l´accento sull´antisemitismo serviva a ristabilire l´incrinata supremazia del comunismo sull´uno e sull´altro». Alla base della riduzione del fascismo «all´archetipo di totalitarismo diabolico-omicida che è stato il regime hitleriano» vi sarebbe, inoltre, il vecchio rifiuto delle ricerche di Renzo De Felice che smentivano «l´immagine del Ventennio in contrapposizione alla quale la sinistra ha costruito il mito dell´antifascismo e della Resistenza».
Stanca polemica, in verità, sol che essa conferma ancora una volta come l´uso politico della storia risorga dalle sue ceneri ogni qualvolta si delinea un mutamento di scenario - come ora con l´alternanza destra-sinistra - contribuendo a confondere sia la storia che la politica.
Se, infatti, guardiamo, da cronisti attenti ai fatti e non da cattedratici innamorati delle loro tesi, il calendario degli anni più recenti, possiamo facilmente constatare che l´amalgama delle più generali responsabilità fasciste solo alle leggi razziali, è andata via via affermandosi con l´evoluzione democratica dell´estrema destra, la trasformazione del Msi in An e, da ultimo, l´approdo al Pdl, accompagnati dalle visite di Fini ad Auschwitz, a Gerusalemme, alla Sinagoga di Roma, al suo sostegno sincero ad Israele, alle sue affermazioni contro le leggi razziali, alla condanna senza mezzi termini della Shoah. Tutto ciò, oltre ad essere in sé ottima cosa, ha contribuito a sdoganare anche sul piano internazionale, a dare un profilo nuovo al vecchio movimento post-repubblichino e ad inserirlo a pieno diritto nel quadro costituzionale, pagando solo lo scotto della scissione dell´ala estremista.
D´altro canto l´accentuazione posta sul ripudio dell´antisemitismo come simbolo unico di un passato, inaccettabile, invece, anche per tanti altri versi, ha permesso alla destra di non confrontarsi con la sua storia reale. Si è finito per ricoprire di un oblio quasi nostalgico gli anni di una dittatura in primo luogo antiliberale, che soffocò la libertà di stampa, di parola, di associazione, di sciopero; soppresse la democrazia rappresentativa; istituì tribunali speciali, incarcerò e talora assassinò gli oppositori; infine trascinò l´Italia in una guerra rovinosa contro le più grandi potenze del mondo. Non aver fatto i conti culturali - ribadisco culturali - col passato, attraverso la vulgata detta revisionista, ha portato non solo la destra ma una parte non piccola dell´opinione pubblica a recepire una versione edulcorata e distorta del Ventennio, ad accettare per buona una «condivisione» strumentale di una storia falsificata, culminata nella par condicio tra ragazzi di Salò e Resistenza, ad accettare la ricorrente richiesta di rivedere i testi scolastici a seconda di chi vinca le elezioni.
La storiografia di sinistra porta in tutto ciò le sue responsabilità ma non nella «reductio» del fascismo alla sua svolta razzista. Le colpe più gravi, che si sono trascinate a lungo, riguardano piuttosto il giudizio sul comunismo e sull´Urss. Così anche sull´uso strumentale dell´accusa di fascismo contro chi condannava la dittatura staliniana. In questo seguendo la propaganda sovietica che, ad esempio, giustificò, tra l´altro, l´invasione della Cecoslovacchia inventandosi la minaccia del riarmo tedesco alle frontiere orientali (ma in proposito non va dimenticato che il governo centrista Dc-Liberali nascose nell´armadio della vergogna le carte sull´eccidio di Cefalonia per non mettere in difficoltà la Repubblica federale tedesca al momento della sua adesione alla Nato).
Infine anche la polemica su De Felice «vittima», è in gran parte viziata. Non solo perché Giorgio Amendola in un impegnato libro-intervista dette subito una interpretazione largamente positiva della riscoperta defeliciana (che non vuol dire rivalutazione) delle ragioni del consenso popolare al regime mussoliniano, ma anche perché quella riscoperta in realtà coincideva con le analisi togliattiane sul carattere di massa del fascismo, sulla opportunità, sia pure strumentale, che i giovani comunisti entrassero nei Guf, partecipassero ai Littoriali, cogliessero le esigenze di rinnovamento che provenivano dall´interno del fascismo.
Una linea che trovò una sua conferma subito dopo la Liberazione con l´apertura senza veti ideologici alle nuove generazioni educate dal regime. Quel che gli storici di sinistra non intravidero neppure era la insania, al termine autodistruttiva, come infatti avvenne, del nucleo centrale del pensiero e dell´azione dei partiti comunisti, quel finalismo assoluto che tutto giustificava in nome di una costruzione sociale e politica senza contraddizioni, basata su un´etica costrittiva capace di sfociare nel gulag e nel crimine di massa. Il non aver mai affrontato la negatività insita nell´utopia comunista ha portato il Pci e, poi, il post-Pci (nelle sue susseguenti trasformazioni) a smarrire identità, ad arrivare sempre in ritardo agli appuntamenti col rinnovamento riformista, a lasciare alla sua sinistra, specularmente alla destra post fascista, i brandelli radioattivi e dannosi di scorie storiche che ancora si richiamano al comunismo.
Peraltro le afone e invecchiate sirene degli opposti estremismi non appaiono più in grado di influenzare l´agenda del Paese. Non sarebbe allora giunto il momento per separare finalmente l´operare politico dall´analisi storica? Non è venuto il giorno per spogliare le date epocali della vicenda repubblicana dall´affronto riduttivo delle polemiche contingenti? Se il 14 luglio è la festa di tutti i francesi, degli eredi dei giacobini come dei vandeani, dei laici come dei cattolici, di chi si richiama alla Comune e dei gollisti che inalberano Giovanna d´Arco perché tutti gli italiani non debbono finalmente ritrovarsi nel 25 aprile e nel 2 giugno? Se Berlusconi e Fini, pur non essendo ancora in carica, promuovessero una iniziativa in tal senso, non sarebbe davvero questo un buon inizio, al di là della validità di ogni restante giudizio politico?
Repubblica 24.4.08
Appello per il 25 aprile: "Scendiamo in piazza"
Torino, mobilitazione da Zagrebelsky a Grosso. Napolitano a Genova. Polemica sulla Moratti
di Silvio Buzzanca
Giorgio Napolitano festeggerà il 25 aprile a Genova, città simbolo della Resistenza e della lotta contro il nazifascismo. Una scelta simbolica che vuole ricordare come il mito della Resistenza come movimento di popolo sia fondato su basi molto concrete. Ma l´impegno del presidente della Repubblica nelle celebrazioni inizierà già domani quando riceverà al Quirinale le Associazione d´Arma e Combattentistiche. La mattina del 25 Napolitano deporrà una corona d´allora all´Altare della Patria in onore dei caduti della guerra di Liberazione. E in quella sede consegnerà alcune medaglie al merito civile dedicate alla Resistenza. Poi volerà a Genova.
A Torino è di ieri un appello a scendere in piazza firmato da un gruppo di intellettuali tra cui spiccano Gustavo Zagrebelsky, Guido Neppi Modona e Carlo Federico Grosso. L´appello ricorda «il sacrificio della parte migliore di questo paese che permise alle generazioni che seguirono di vivere in una nazione libera e democratica». All´iniziativa del deputato Ds Stefano Esposito hanno già aderito una quarantina di intellettuali di Torino, chiaramente in contrapposizione con il W-day che Beppe Grillo organizza nel capoluogo piemontese proprio quel giorno. «Tre generazioni, tante ne sono passate da quando l´Italia è stata liberata dall´occupazione nazista e dal fascismo - si legge nell´appello - sarebbe questa una ragione sufficiente per festeggiare il 25 Aprile, ma crediamo vi sia di più del semplice ricordo. Il 25 Aprile ci parla dell´oggi, della necessità di non dare mai per scontati quei valori per i quali combatterono i nostri padri e i nostri nonni.»
Letizia Moratti, sindaco di Milano, invece conferma che altri impegni la portano lontano dal capoluogo meneghino e non potrà parteciperà alle manifestazioni. Il primo cittadino, accusa Alfio Nicotra, di Rifondazione, «per la prima volta nella storia repubblicana Milano non sarà rappresentata alle celebrazioni del 25 aprile dal suo sindaco. Sindaco che sarà assente anche dalle manifestazioni del Primo maggio nella storica capitale del lavoro salariato e del movimento operaio». Non è vero, replica la Moratti, «normalmente i sindaci non erano presenti. - spiega - Io sono stata presente, non solo da candidato ma anche da sindaco, quest´anno non posso. Ma la giunta sarà rappresentata». Roberto Formigoni, presidente della Lombardia, si schiera con la Moratti. Quella del 25 aprile, dice il governatore, «è una festa che va celebrata. Se il sindaco non può essere presente, che so per impegni personali già presi, non facciamo inutili polemiche. Non è che fisicamente il sindaco debba essere presente, l´importante è che sia rappresentata l´istituzione».
Ma più si avvicina la data, più le polemiche crescono. Perché il centrodestra non esita ad attaccare una celebrazione che considera monopolio della sinistra. Gustavo Selva, senatore uscente del Pdl, arriva a proporre «l´abolizione della festa nazionale del 25 aprile». Secondo Selva «per la retorica e i falsi che sono stati fatti, viene attribuito alla Resistenza e alla vittoria dei partigiani un merito che non c´è stato». Replica Walter Veltroni, leader del Pd: «Il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani perché è il giorno in cui è stata restituita a ciascuno la libertà di dire ciò che pensa». Le parole di Selva suscitano anche la reazione di Pino Sgobio, Pdci: «Selva propone di attuare un golpe.» Nella sinistra, scottata dal risultato elettorale, c´è aria di mobilitazione. Un po´ come nel 1994, subito dopo la prima vittoria elettorale di Berlusconi.
Repubblica 24.4.08
Se questa è una sinistra
Intervista allo storico Perry Anderson
«Dalla fine della Guerra Fredda le idee della destra hanno guadagnato ulteriore terreno; il centro si è adattato, in modo crescente, a quelle idee; la sinistra resta, in una visione globale, in ritirata». Nel suo ultimo libro Spectrum (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 471, euro 21) Perry Anderson - eminente storico britannico, professore a Ucla ed ex direttore della New Left Review - affronta senza pregiudizi l´intero spettro ideologico che anima il dibattito politico contemporaneo, attraverso le opere di alcuni dei più rappresentativi intellettuali del nostro tempo: Michael Oakeshott, Leo Strauss, Carl Schmitt e Friedrich von Hayek (la destra intransigente); John Rawls, Jürgen Habermas e Norberto Bobbio (il centro liberale e socialdemocratico); Edward Thompson, Robert Brenner ed Eric Hobsbawm (la sinistra marxista eterodossa). Con una suggestiva incursione anche nel campo del romanzo (Gabriel García Márquez) e della filologia (Sebastiano Timpanaro).
Come è nato Spectrum?
«Dal desiderio di adottare un approccio alla vita intellettuale relativamente raro, non solo nella sinistra ma anche nella destra e nel centro. Partendo da due punti: il primo è quello di mostrare rispetto e curiosità per intellettuali del campo avverso e oppositori politici, senza tentare di appropriarsi delle loro idee; il secondo è quello di essere realmente critici verso la propria parte, in modo leale ma senza alcuno spirito di autoflagellazione. Le posizioni politiche della sinistra che ho scelto di difendere sono quelle che definisco con il termine uncompromising realism. Con cui intendo dire due cose: la prima è che l´essere realistici senza compromessi significa non minimizzare la portata di una sconfitta storica, quella della sinistra nel Ventesimo Secolo, cosa che molti fanno. La seconda è che occorre guardare al sistema che ha vinto in modo lucido, senza nascondere la sua forza ma evitando il compromesso ad ogni costo, come invece è successo. Con una ulteriore distinzione: che puoi essere sconfitto ma non piegato».
Qual è lo stato della sinistra?
«La storia della sinistra nel secolo scorso è stata la storia del socialismo, del riformismo e della rivoluzione che ne è l´aspetto più importante perché prevedeva la costruzione di un sistema totalmente alternativo. Se analizziamo la storia del socialismo, o comunismo, con gli occhi delle generazioni future - e da storico voglio usare analogie storiche - penso a quattro possibili esiti. Si potrebbe guardare alla storia del socialismo nel Ventesimo Secolo nello stesso modo con cui noi oggi consideriamo l´esperimento dei gesuiti in Paraguay. Una sorta di esotico ed isolato tentativo di costruire una società nuova basata sulla fede, qualcosa di innaturale cui guardiamo con semplice curiosità. La si potrebbe poi considerare nello stesso modo in cui pensiamo ai Levellers, l´ala più radicale della rivoluzione inglese. I Levellers posero richieste estremamente avanzate - suffragio universale per gli uomini, costituzione scritta, separazione dei poteri, elezione del parlamento, addirittura elezione dei comandanti militari - richieste che nel Diciassettesimo Secolo erano rivoluzionarie, impossibili da realizzare e che in alcuni casi non sono realizzate neanche oggi. Al contrario dei Levellers - e questo è un altro esito ancora - i giacobini raggiunsero il potere, trasformarono la Francia e brevemente anche l´Europa e furono poi sconfitti dalla Restaurazione. La loro tradizione molto rapidamente, in un paio di generazioni, si trasformò nel movimento socialista tanto che nel 1848 giacobinismo e socialismo sono fianco a fianco. Questa terza possibilità non è una transvaluation, ma una mutazione in cui anche il linguaggio - libertà, eguaglianza, fratellanza - sono simili. Un´analogia potrebbe essere fatta - e questo è l´ultimo esito possibile - anche con il liberalismo del diciannovesimo secolo, quello economico di Adam Smith e quello politico essenzialmente francese. Sono due aspetti che si fondono; agli inizi del Novecento il liberalismo nel suo duplice senso di libero mercato, libero commercio, minimo governo ma anche di libertà civili e rules of law diventa l´ideologia dominante ed egemone. La storia ci dice che questa civiltà liberale crolla nella barbarie della Prima Guerra Mondiale, nella Grande Depressione, un crollo economico ma anche morale che ha tra le sue conseguenze la nascita del fascismo in Italia e Germania, iniziata con una vittoria parlamentare. Verso la fine degli Anni Trenta si poteva pensare, molte persone intelligenti lo pensavano, che il liberalismo fosse finito: economicamente, politicamente e moralmente. Invece con la Seconda Guerra Mondiale, con il keynesismo, il liberalismo è risorto ancora più forte fino a diventare, con il neo-liberalismo, l´ideologia ovunque predominante».
E oggi?
«Viviamo per la prima volta in un mondo che può essere definito di "pancapitalismo", una parola che può riassumere il nuovo ordine mondiale. Come ha spesso osservato un brillante pensatore americano, Fredric Jameson, è diventato per la gente più facile immaginare la fine della terra che la fine del capitalismo. Comunque, dobbiamo meditare la parola profonda di un altro teorico della posmodernità, Jean Baudrillard, in un suo breve saggio pubblicato dopo l´11 settembre: "L´allergia ad ogni ordine definitivo, ad ogni potere concludente, è fortunatamente universale"».
L´Europa può rappresentare un´alternativa?
«L´idea dei padri fondatori dell´Europa come Jean Monnet era quella di creare l´unità in un´Europa indipendente dalle due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. Indipendente nell´azione ma anche nella creazione di un modello sociale differente. Se guardiamo all´Europa di oggi da una parte vediamo che il successo è andato oltre le aspettative - Monnet e gli altri avevano immaginato un´Europa occidentale, mentre oggi arriva fino a Brest - dall´altra che è molto più indietro: oggi tutti i principali Stati europei sono meno indipendenti in politica estera dagli Stati Uniti di quanto non lo fossero ai tempi di Monnet, Adenauer e de Gaulle e anche rispetto ai tempi della signora Thatcher. L´Europa unita doveva essere più forte ma non è così: se pensiamo al modello sociale, quello del lavoro, al welfare, vediamo che ci sono ancora differenze rilevanti, ma che diminuiscono in modo costante. La dottrina neo-liberista è più forte anche in Europa, manca una politica estera europea, sul Medio Oriente siamo a rimorchio degli Stati Uniti».
Lei insegna negli Stati Uniti: cosa pensa della sfida elettorale?
«Penso che Obama sarà il candidato, anche se la Clinton è ancora in gara, e che vincerà a novembre. È una figura politica inusuale per gli standard americani, per il suo essere mezzo africano. Ha una grande capacità nel ragionamento. Questa campagna mi ricorda quella del 1968 quando, dopo il ritiro di Lyndon Johnson c´erano due candidati, Eugene McCarthy e Robert Kennedy, tutti e due capaci di mobilitare e di appassionare. McCarthy era un intellettuale, Kennedy una star carismatica, tutti e due rappresentavano l´antitesi al Vietnam dell´amministrazione Johnson. Sappiamo come è andata. Kennedy vince le primarie in California e il giorno stesso viene assassinato, Humphrey domina la Convention di Chicago, ma viene battuto a novembre da Nixon. Fu un vero dramma. Oggi ci sono delle somiglianze. La Clinton è l´Humphrey del 2008, Obama in qualche modo racchiude in sé i differenti magnetismi di McCarthy e Kennedy».
Con Obama presidente che America sarebbe?
«Dalla seconda guerra mondiale tutti i presidenti americani hanno avuto grandi difficoltà nel cambiare il paese all´interno, perché il potere legislativo del presidente è limitato dai poteri del Congresso anche quando il partito del presidente ha la maggioranza. Però ha campo libero in politica estera, dove gode di un potere quasi illimitato. Certo, ci sono stati i diritti civili con Johnson o i tagli alle tasse di Reagan, ma anche questi due presidenti vengono ricordati più per il Vietnam e per il crollo del comunismo. Come Bush lo sarà per l´Iraq. Con Obama questa tradizione può essere invertita. All´estero lo spazio per una politica imperiale, in Medio Oriente o altrove, sta diventando più limitato, mentre all´interno cominicia a delinearsi una grande crisi economica e molti elettori chiedono che vengano affrontate le disuguaglianze sociali cosa che le precedenti amministrazioni - sia democratiche che repubblicane - non hanno fatto. Credo sia possibile che Obama diventi un presidente capace di cambiare più cose all´interno che in politica estera».
Si è votato anche in Italia, paese che lei conosce bene. Cosa pensa dei risultati?
«Come storico mi è impossibile non guardare senza una certa nostalgia alla prima repubblica, nata della Resistenza: un sistema politico ricco e sofisticato, con grandi partiti sia della destra e della sinistra, alti livelli di partecipazione, anni di inventività e successo economico, una cultura straordinariamente dinamica; basta pensare al cinema italiano di quel periodo. La svolta negativa avviene a metà degli anni Settanta con il compromesso storico e le sue conseguenze: il terrorismo, il conformismo, la strana carriera di Bettino Craxi in grado di bloccare la vita politica con un piccolo partito, e poi a seguire la corruzione e la criminalità. Oggi, dopo 16 anni di Seconda Repubblica, possiamo veramente dire che le cose siano - politicamente, economicamente, giuridicamente, intellettualmente - migliori? Adesso c´è l´Italia che vuole diventare un "paese normale", slogan di D´Alema e altri, cioè simile agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna. Ma chi ha inventato il termine normalizzazione? Breznev con la Cecoslovacchia. Quella ovviamente era una normalità alla sovietica, ma perché l´Italia dovrebbe diventare un simulacro mediocre degli Stati Uniti? Invece di una vera ambizione si mostra un complesso di inferiorità. Una sindrome che si è ostentata anche nella campagna elettorale con gli shows che Berlusconi ha adottato da Reagan e gli slogan che Veltroni ha ereditato da Obama, con una mancanza di immaginazione desolante. Naturalmente questa Repubblica, dove l´identità collettiva si è ridotta più o meno al campo di calcio, non è tutta l´Italia. Speriamo che la sua vita sia breve».
Corriere della Sera 23.4.08
Via ai «cittadini vigilanti» Bologna e Firenze in campo
In Emilia e Toscana si «arruolano» giovani e pensionati
di Francesca Basso
Nella città di Cofferati i volontari dovranno superare un concorso Per i vigili urbani arrivano i «bastoni distanziatori»
MILANO — Rotto il tabù della sicurezza, tema sdoganato ormai anche a sinistra, specie in campagna elettorale, ora tocca alle «scandalose» ronde padane, nuova frontiera bipartisan dei Comuni (rossi compresi) alle prese con il problema del degrado. Anche in questo caso a fare da apripista — come in altre battaglie scomode (due esempi: sgomberi e accattonaggio) — sono Bologna e Firenze. Certo, il nome è cambiato e non c'è la divisa, ma se ne parla. E si comincia pure a discutere di dotare i vigili urbani di spray urticante al peperoncino e bastoni distanziatori (definizione di sinistra) o manganelli (definizione di destra).
A Bologna preferiscono chiamarli «assistenti civici»: «Una ventina di studenti avrà il compito di vigilare sulla zona universitaria — spiega l'assessore alla Sicurezza Libero Mancuso —. Per diventare assistenti civici dovranno vincere un concorso. Saranno poi educati a garantire la loro sicurezza personale e dotati di telefonino per le emergenze». Guai, però, a ricordare le "sorelle" padane. «Non sono delle ronde e non vanno definite come tali — puntualizza Mancuso —. Non hanno un orientamento repressivo, dovranno con il dialogo coinvolgere e sensibilizzare gli altri giovani al rispetto della città». Intanto a Bologna, da meno di un mese sono in azione squadre di pensionati che controllano il Villaggio Ina, nel quartiere Borgo Panigale. Anche in questo caso il Gruppo Primavera preferisce definirsi «cittadinanza attiva». Il nome ronda lo usano ancora quelli della Lega, che vogliono arruolare volontari «per partecipare all'attività di controllo della città». Comunque, qualcosa sta cambiando a Bologna. Proprio ieri il Partito democratico ha annunciato l'ordine del giorno per la modifica del regolamento comunale per dotare i vigili di spray e bastoni distanziatori, «non manganelli » come tiene a sottolineare il capogruppo del Pd in Comune Claudio Merighi: «Il primo fa pensare alla difesa personale — argomenta —, la parola manganello al bastone fascista. Oggi abbiamo incontrato il comandante dei Vigili di Modena, dove sono già in uso, e ci ha raccontato la sua esperienza. «È ora di togliere dall'oggetto la velleità ideologica: spray e bastone sono strumenti che aiutano i vigili a difendersi ». È probabile che i consiglieri di An e FI voteranno a favore. Del resto anche ieri il leader di An Gianfranco Fini, pur prendendo le distanze dalle ronde di Maroni, ha dato la sua benedizione «ai cittadini che si organizzano per difendere il proprio quartiere, a patto che non sostituiscano le forze dell'ordine».
Un po' quello che accade a Firenze dal 2002, cioè da tempi non sospetti: i vigili urbani con il Comune hanno lanciato il progetto di «Marketing della sicurezza », che coinvolge circa seicento cittadini, selezionati, impegnati a segnalare alla polizia locale situazioni di degrado nei quartieri e a seguire progetti di rilancio, come spiega oggi il Corriere fiorentino.
«La politica delle ronde non mi convince — risponde al telefono l'assessore alla Sicurezza, Graziano Cioni —. La percezione di insicurezza dipende spesso da elementi di degrado, come scritte sui muri, lampade rotte, atti vandalici. La polizia municipale ha nei quartieri dei "partner": possono essere il barista, il parroco, il barbiere o il pensionato, che fanno rapporto e segnalano quello che non va». L'informatore dei telefilm americani? «Non sono un gruppo di spie sul territorio — mette le mani avanti Cioni —. Si tratta di una collaborazione civile». La conferma arriva da Patrizia Verrusio, vicecomandante vicario della Polizia locale di Firenze: «Dei 21 progetti avviati, come il rifacimento di piazze o il recupero di alcune aree, il 90% è stato portato a termine. La logica di invertire il meccanismo, sentendo i cittadini prima di agire ha funzionato».
Corriere della Sera 23.4.08
Scienza e morale, l'utopia del dialogo
Boncinelli: «La ricerca punta ai risultati, non ai valori». Severino:«Ma impone la sua verità»
dialogo tra EDOARDO BONCINELLI ed EMANUELE SEVERINO
Boncinelli: Credo che da nessun punto di vista possa sussistere un contrasto tra scienza ed etica, perché si tratta di discipline che si occupano di problemi diversi. Ciò che di norma viene definito come contrasto tra scienza ed etica è in realtà il contrasto tra etiche diverse, ovvero tra portatori di etiche diverse, dove la scienza non è che il fornitore degli argomenti. Cinquant'anni fa non si poteva discutere di alcune cose per il semplice motivo che non erano possibili; prendiamo l'esempio della fecondazione assistita. La scienza ha messo sul tavolo opportunità che prima non esistevano e che hanno fatto discutere; ma a discuterne non sono gli scienziati con gli eticisti: a discuterne sono i portatori di un'etica con i portatori di un'altra etica. O, per meglio dire, i portatori di un'etica con i portatori di molte altre etiche, perché ci troviamo di fronte, da una parte, a una sorta di monolite che è l'etica cattolica, e dall'altra a tutto un ventaglio di posizioni abbastanza diverse, giacché la cosiddetta etica laica in realtà è unificata solo da una maggiore tolleranza per il progresso, una maggiore attenzione agli interessi dell'individuo e da un richiamo ridotto al magistero della tradizione. Da parte laica, e non solo in Italia, ma in tutto il mondo, c'è una vastissima gamma di posizioni, tanto che la contrapposizione fatta da Giovanni Fornero nel suo bellissimo libro, Bioetica cattolica e bioetica laica, pubblicato da Bruno Mondadori, è utile ma leggermente forzata. La scienza in tutto questo non c'entra, se non, lo ripeto, come fornitrice di occasioni.
Severino: Certo, si tende ad avere questa immagine della scienza come semplice fornitrice di occasioni, o come semplice strumento in vista della realizzazione di scopi che non appartengono allo strumento ma, al contrario, vedo una profonda solidarietà tra etica e scienza. Bisogna cominciare a chiedersi il significato di queste parole. Etica è una parola greca. Non che prima dei Greci non vi fossero problemi di carattere morale, sebbene, col pensiero greco, l'etica acquista una connotazione che potremmo dire inaudita. Allora, che cos'è l'etica prima e dopo questa connotazione inaudita? I popoli vivono, e credono di poter vivere meglio se si alleano con ciò che essi ritengono sia per loro la potenza suprema, e questo è abbastanza naturale, poiché per vivere mi appoggio a ciò che ritengo stabile, capace di reggere. Allora, questo agganciarsi a ciò che si ritiene la potenza suprema è il vivere in un ambiente rassicurante. La parola etica indica appunto il luogo in cui si vive, la consuetudine. Etica vuol dire: vivere in un luogo rassicurante perché ci si trova in accordo e non in contrapposizione con la potenza. Se vivo in un luogo e so che è minacciato, e so di non avere strumenti per difendermi, vado altrove. Invece ethos in greco indica la consuetudine, che è insieme l'ambiente in cui ci si può difendere.
Ma difendersi da che cosa? Dal dolore, dalla morte, dall'angoscia, dalla sofferenza, dai pericoli. Ora, con il pensiero greco, questo atteggiamento assume una radicalità che qualificavo come inaudita: la potenza con la quale ci si allea per sopravvivere e per difendersi dal pericolo è cio che il pensiero greco chiama «verità ». Se ci si allea con una finta potenza, allora l'alleanza è insicura; è quindi inevitabile che emerga l'esigenza di allearsi con ciò che è la vera potenza, che l'ethos sia l'alleanza con la vera potenza. Ma per fare questo bisogna che cominci a esserci l'idea o il significato della parola verità. È solo perché il pensiero greco porta alla luce il significato radicale della verità, che ci può essere un'alleanza con la potenza vera.
Ora, tutto quello che abbiamo detto dell'etica dobbiamo dirlo anche per la scienza, che non è affatto quella semplice occasione di opportunità, quella neutralità rispetto agli scopi di cui tu parli. No, anche la scienza merita che si dica di essa ciò che già aveva detto Nietzsche: la scienza nasce dalla paura, così come l'etica, perché difendersi alleandosi alla potenza vuole dire cercare di andare oltre la paura.
Cio che noi oggi diciamo «scienza » è lo sviluppo di tutte le tecniche messe in atto dagli uomini per non avere paura e per riuscire a sopravvivere. Qual è l'etica della scienza? La scienza ha ed è di per sé un'etica. E perché? Perché ha quell'insieme di procedure che, soprattutto oggi, dà agli uomini la fede, la convinzione che essa sia lo strumento che più efficacemente di altri consente di allontanare la paura. Allora etica significa difendersi dalla paura alleandosi alla potenza, che oggi viene dalla scienza identificata con la potenza soprattutto tecnologica; in questo senso non c'è scissione tra etica e scienza.
Nella tradizione, la vera potenza è quella verità il cui contenuto è soprattutto il Dio, quindi la potenza di una conoscenza indiscutibile che dice in modo indiscutibile:
il vero potente è Dio. Oggi non si dice piu così, anche se si dice una cosa simile; è cambiato il protagonista, è cambiata la qualifica del potente. Oggi il vero potente è la tecnica. La tecnica è l'erede della funzione di rassicurazione che nella tradizione veniva compiuta da Dio.
***
Boncinelli: Oggi si parla tanto di dialogare. Ma un vero dialogo, non formale e con pieno intendimento delle ragioni dell'uno da parte dell'altro, è raro e difficile. Forse appartiene alle tante favole della modernità. Si parla in particolare di dialogo fra scienza e filosofia. Non so se la scienza possa dialogare con la filosofia, ma certo io non posso dialogare con i filosofi, anche i più vicini a me per formazione e convinzione, almeno con quelli che conosco, salvo pochissime eccezioni.
La spiegazione che mi sono dato invoca la diversa natura della vocazione di chi si dedica alla scienza e di chi si dedica alla filosofia. Lo scienziato vuole raggiungere qualche conclusione, anche se provvisoria e incompleta, su temi che possono essere considerati di nessuna rilevanza (a parte il fatto che la scienza, e non le elucubrazioni teoriche, ha cambiato il mondo, anche se questo non piace a tutti). Al contrario, il filosofo vuole mettere tutto in discussione, vuole trovare il pelo nell'uovo — che c'è sempre, perché la conoscenza perfetta non è di questo mondo — e in definitiva non lasciare più niente in piedi. D'altra parte, non c'è concetto che, discusso a lungo, non perda ogni significato. Volendo, si può completare il quadro con un altro elemento di distinzione. Lo scienziato sperimentale sa fin dall'inizio che da solo non potrà mai fare niente. Al massimo potrà aspirare a dare un contributo che, unito a quello di tanti altri, porterà a qualche risultato, teorico o pratico. Di conseguenza, costui può anche essere un mediocre, anche se nessuno ammetterà mai di buon cuore di esserlo. Il filosofo, invece, o si limita a fare lo storico della filosofia, o pensa di dare un suo contributo. Ogni filosofo aspira a essere un grande filosofo. Aggiungerei infine che, a differenza di quella del filosofo, la visione dello scienziato sui fenomeni da studiare è intrinsecamente e irrimediabilmente locale. Quando aspira alla globalità, in genere in tarda età, fa quasi sempre della cattiva filosofia, anche se si chiama Albert Einstein. È chiaro che il modo di porsi davanti a tutte le questioni, risulta molto diverso nei due casi.
Severino: Da sempre, ma soprattutto nell'età moderna, ciò che si dice «scienza» è specializzazione, che separa un certo campo di oggetti, o di cose, da tutti gli altri e lo analizza in base a precisi criteri e metodi. Per lo più, l'analisi del significato della specializzazione — cioè del separare e dell'isolare — non rientra nello stesso campo. Non vi rientra quindi nemmeno l'analisi del senso della totalità, dalla quale la specializzazione isola il proprio campo. Queste analisi appartengono, da sempre, alla filosofia. Quando uno scienziato considera i rapporti tra il proprio campo e la filosofia, non parla dunque in nome della propria disciplina. Si porta sul piano della filosofia, con maggiore o minore coscienza; vi si porta inevitabilmente — e, d'altra parte, anche quando si chiude nel proprio terreno, si appoggia pur sempre a qualcosa che gli è esterno, cioè al senso che il pensiero filosofico ha attribuito alla «cosa», all'oggetto.
Anche gli individui seguono (e tradiscono) certe specifiche regole di comportamento. In questo senso delimitano a loro volta un dominio particolare di cose, sono essi stessi, gli individui, specializzazioni. Si muovono però sempre, volenti o nolenti, all'interno delle grandi regole etiche seguite (e tradite) dai popoli a cui appartengono. Anche quando danno risalto alle proprie regole di comportamento, in qualche modo percepiscono la scacchiera greca su cui giocano la vita e su cui ormai tutte le vite si avviano a essere giocate.
Ma se oggi nemmeno a uno scienziato è consentito dominare l'intera ricchezza della propria disciplina, come può pretendere la filosofia di comprendere addirittura il fenomeno scienza nel suo insieme? O di comprendere la «storia dell'Occidente»? La filosofia del nostro tempo tende a rispondere che questo è impossibile. E, infatti, se le cose vengono dal nulla e vi ritornano, sono essenzialmente estranee le une alle altre, cioè non può esistere né essere conosciuto alcun principio che le unifichi. Il senso greco della «cosa» sta al fondamento di ogni separare, isolare, specializzarsi dell'Occidente. Oggi quel senso si esprime nell'affermazione che il mondo intero è un insieme di frammenti e che la conoscenza autentica è specializzazione. Senonché, anche questa affermazione getta uno sguardo sul mondo; e non su una parte di esso, ma sul mondo intero e pertanto è anch'essa uno sguardo unificante: scorge l'essenza unificante del mondo e vede che questa essenza è la frammentarietà stessa del mondo, la stessa divisione delle cose. Ciò significa che, in qualche modo, la manifestazione del senso unitario del mondo è inevitabile; e che tale manifestazione continua a essere il compito della filosofia.
Corriere della Sera 23.4.08
Controversie Un antropologo contro tre mostri sacri: in Asia e Cina non regnò soltanto l'immobilismo
La storia rubata dagli europei
Jack Goody accusa: Needham, Elias e Braudel malati di etnocentrismo
di Dino Messina
Abbiamo rubato la storia. Ma il furto, il più colossale che si possa commettere, non è stato mai scoperto, anche perché a cancellare le tracce hanno contribuito i più grandi pensatori dell'Occidente. È questa la tesi che espone l'antropologo inglese Jack Goody, nel saggio appena uscito da Feltrinelli, che si intitola appunto Il furto della storia (pagine 416, e 38), in cui il professore emerito dell'Università di Cambridge cerca di smontare la presunzione etnocentrica degli europei. Perché è l'eurocentrismo, secondo Goody, la malattia cronica della nostra cultura. Un morbo che, in virtù del grado di sviluppo acquisito dal vecchio continente a partire dal Rinascimento, ci fa ridimensionare il passato delle altre civiltà, in primis quelle asiatiche. Un errore prospettico che ci porta a considerare la nostra civiltà come superiore e ci fa sottovalutare il pericolo di declino e la concreta possibilità che l'egemonia culturale ed economica del mondo possa avere un altro baricentro.
All'origine del pregiudizio moderno, troviamo una serie di grandi personalità: Johann Winckelmann, che esaltò «la tradizione artistica della Grecia come l'unica capace di esprimere il vero ideale della bellezza»; il linguista Karl Wilhelm von Humboldt, «che giudicò la lingua dei cinesi inferiore»; Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il quale pensava «che la Cina rappresentasse il livello evolutivo più basso del mondo».
Ma la parte più stimolante del saggio è quella in cui Goody sottopone a dura critica le tesi di tre grandi storici: tre maestri del Novecento che rappresentano l'apice della cultura e del politicamente corretto. Invece, secondo l'impertinente decano dell'antropologia britannica (Goody è del 1919), anche personalità come Joseph Needham, Norbert Elias e Fernand Braudel hanno partecipato al «furto della storia» ai danni di altre civiltà in nome dell'eurocentrismo. L'unico peccato è che i tre grandi non possano rispondere, perché sono scomparsi.
Joseph Needham (1900-1995), il biologo inglese che più di ogni altro ha contribuito alla conoscenza della cultura cinese con la sua opera enciclopedica,
Scienza e civiltà in Cina, ricade tuttavia secondo Goody «nei luoghi comuni storiografici sull'unicità del Rinascimento e sulla nascita della borghesia, della modernizzazione, del capitalismo e della scienza, appunto, "moderna"». Needham è lo studioso che ci ha fatto capire, scrive Goody, quanto la Cina sia arrivata prima dell'Europa a molte scoperte tecnico-scientifiche, tuttavia condivide il pregiudizio dell'euromarxismo «sull'assenza di una borghesia in Cina» e vede «il capitalismo come un fenomeno specificamente europeo». Per Goody invece «la borghesia era un fenomeno internazionale » e la straordinarietà del Rinascimento europeo, reso possibile anche e soprattutto grazie agli scambi internazionali, non ci deve far sottovalutare le altre civiltà e la possibilità di assistere a «rinascenze» future che potrebbero sorprenderci.
Più diretto e sorprendente è l'attacco a Norbert Elias (1897-1990), il raffinato autore del Processo di civilizzazione e della Civiltà delle buone maniere. Al centro della discussione, anche in questo caso, il periodo del Rinascimento e dell'assolutismo, in cui, secondo il sociologo tedesco, accanto allo Stato sovrano, alla borghesia e all'economia di mercato si sono affermati i valori della bellezza, ma anche dell'igiene e dell'ordine. Per Goody, uno dei limiti dell'analisi di Elias sta nel non prendere in considerazione la storia di nessun'altra parte del mondo. Perché così avrebbe scoperto che alcune conquiste delle buone maniere si affermarono anche in altre parti del mondo: l'uso dei bastoncini a tavola, la cerimonia del tè, ma anche l'uso della carta per fini igienici, quando nel romanzo di Rabelais Gargantua raccontava di essersi pulito «con la salvia, il finocchio, l'aneto, la maggiorana, le rose, le foglie di zucca». Per non dire che fra il XV e il XVII secolo l'Occidente ha conosciuto anche per motivi religiosi una diminuzione dei bagni di pulizia, considerati peccaminosi. Invece, per fare un esempio, nella città persiana Isfahan alla fine del XVI secolo si contavano 273 bagni pubblici. Il furto della storia non riguarda tuttavia soltanto le società asiatiche, ma anche quelle africane, quando Elias parla di «senso di colpa» per la società borghese occidentale e di semplice «sentimento di vergogna» per le società primitive del Ghana, allo scopo di sottolineare il diverso grado di sviluppo che avrebbe ripercussioni anche sulla psiche degli individui.
Il compito più arduo Goody se lo assume nella contestazione di Fernard Braudel (1902-1985), il gigante della storiografia francese, fondatore delle Annales, che nei tre volumi del suo lavoro più importante, Civiltà materiale, economia e capitalismo, commette secondo il suo critico l'errore di annettere all'Europa il capitalismo. Intendiamoci, Goody esprime tutta la sua ammirazione per il genio di Braudel, ma non si può non notare che le sue fonti siano «inevitabilmente soprattutto europee » e portatrici di un pregiudizio eurocentrico. L'Europa viene considerata dal francese al centro di tutte le innovazioni anche quando scopriva bevande eccitanti che in realtà provenivano da altri mondi: il caffé arabo, il tè cinese, il cioccolato messicano. Un pregiudizio simile a quello di Elias si riscontra quando Braudel parla delle abitudini quotidiane, considerando per esempio il monotono abbigliamento cinese un sintomo dell'immutabilità sociale. Ancor più grave, secondo Goody, l'errore di Braudel quando questi attribuisce il capitalismo finanziario alla sola Europa, trascurando alcuni periodi della storia asiatica.
La visione antropologica è parte essenziale della critica storica di Jack Goody, che nella migliore tradizione britannica ha un grande gusto per la controversia intellettuale.
Corriere della Sera 23.4.08
Polemiche Il padre del pensiero debole difende il collega accusato di plagio: anche San Tommaso riprende Aristotele
Vattimo: «Che torto ha Galimberti? Filosofare è copiare»
di Pierluigi Panza
F ilosofare è un po' copiare: Averroé e San Tommaso copiavano da Aristotele; Plotino da Platone e così via. «Che male c'è?», che novità è se Umberto Galimberti ha preso frasi da altri studiosi, come Giulia Sissa? O da Salvatore Natoli (come denunciato ieri dall'Avvenire), e li ha inseriti in un suo testo? Già Harold Bloom, in un libro intitolato La Cabbala e la tradizione critica
aveva sostenuto che ogni pensiero è il travisamento di un precedente; ora lo sostiene Gianni Vattimo come estrema forma di difesa del collega filosofo Umberto Galimberti. «Capisco se fossimo scienziati in corsa per il Nobel e ci rubassimo i brevetti per curare il cancro… ma i nostri sono solo pensieri». Robetta, insomma.
Eppure i passi pubblicati da Natoli su Il sapere antropologico nell'86 e finiti in Gli equivoci dell'anima di Galimberti nell'87 sembrano copiati... «Molti dei passi citati su Avvenire ieri mi sembrano poco probanti. Solo la prima comparazione è un po' scandalosa», afferma Vattimo. Leggiamola: «Rivolgendosi alla propria interiorità, l'anima guadagna profondità. Ma la profondità è l'insieme l'estremamente distante dal sensibile » (Natoli). «Rivolgendosi alla propria interiorità, l'anima guadagna in profondità che è insieme l'estremamente distante dal sensibile» (Galimberti). Insomma, sembra copiato. «Ma bisogna vedere se il progetto del libro di Galimberti è identico a quello di Natoli. Io spero di non aver mai fatto così. Ma non mi stupirei». Cioè, nella sua opera omnia che sta pubblicando in 40 volumi c'è qualcosa di copiato? «Non so. Sono commenti a Nietzsche e Heidegger, ma sono miei e non condivisibili. Guardi che colleghi di Filosofia, presidenti di commissioni, hanno passato la vita a copiare se stessi». Beh, lo diceva anche Sartre che i professori «ripetono tutta la vita la propria tesi di laurea». «Si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione di Galimberti è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle».
Ma la citazione delle fonti? «Il sapere umanistico è retorico. Non dico che sia aria fritta, ma è tutto argomentativo. Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nei saperi umanistici, dal diritto e alla teologia, è tutto un un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da se stesso». Almeno i primi leggono… L'ermeneutica ha accentuato questi atteggiamenti? «Nelle scienze empiriche uno parte da Lavoisier e va avanti per accumulo. Le scienze dello spirito sono volatili. Odifreddi ci accusava di dire sciocchezze, ma poi confessò che i matematici le dicevano meglio».
Forse anche il «pensiero debole» ha spinto verso questa filosofia? «No il "pensiero debole" non si prende nemmeno la briga di copiare. Nel romanzo è più facile notare il plagio. Ma nel caso della riflessione filosofica non ha senso». Infatti la Mazzucco venne beccata copiare da Tolstoj; in filosofia il plagio è derubricato. Conclusione di Vattimo: «Magari la mia difesa è anche politica, ma non è così scandaloso. Tesi di laurea simili non mi farebbero né caldo né freddo ».
Nella sede della Fondazione European Brain Research Institute (Ebri) da lei creata tre anni, ha ricevuto gli auguri di Francesco Rutelli. «Se guardo indietro, penso di avere avuto una vita fortunata», gli ha detto. «Il male - ha proseguito la Montalcini - mi ha portato il bene» e il suo pensiero è andato ai giorni delle persecuzioni razziali, quando era costretta a stare nascosta in camera da letto. Poi ha ricordato le ricerche che, con la scoperta del 1986, l’hanno portata al Premio Nobel per la Medicina. «Per prima cosa - ha detto - voglio dire ai giovani disinteressatevi di voi stessi e pensate agli altri. Ma la cosa più importante è: abbiate sempre fiducia, non abbiate paura neanche nei momenti difficili, perchè, come è successo anche a me, dopo, verranno tempi migliori».
«Vorrei essere viva, per poter assistere allo sviluppo fondamentale delle scoperte da me fatte 50 anni fa», ha confidato al candidato del centrosinistra a sindaco di Roma Rutelli. Il clima dell’incontro è stato quello di due vecchi amici, che si sono tenuti per tutto il tempo mano nella mano. Rutelli, che le ha fatto dono di una composizione di fiori e del catalogo appena edito della Galleria nazionale di Arte antica, l’ha ringraziata perchè, ha detto, «fin dall’inizio sei stata amabilissima con me e tanto importante anche nella precedente esperienza di sindaco». La Montalcini si è informata su come stesse andando la campagna elettorale e Rutelli non ha nascosto che si tratta di «una battaglia impegnativa».
Alla Premio Nobel sono arrivati, tra gli altri, gli auguri del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano («per una ricorrenza che la vede sempre così fervidamente e operosamente impegnata per la scienza e per il paese»), di Prodi, che l’ha ricevuta a Palazzo Chigi dove hanno festeggiato con un brindisi. Auguri anche da Veltroni, Bertinotti, Marini. Una calorosa lettera di auguri è stata inviata alla Montalcini da Michail Gorbaciov, presidente della Croce Verde internazionale, che ricopre anche il ruolo di presidente d’onore di Green Cross Italia e di consigliere dello stesso Gorbaciov.
l’Unità 23.4.08
Sinistra, il doloroso addio di Mussi
Con una lettera le dimissioni da coordinatore di Sd. «Necessario un ricambio generazionale»
di Simone Collini
AVEVA FATTO INTUIRE le sue intenzioni all’indomani della sconfitta elettorale, dichiarandosi «politicamente corresponsabile del disastro» e annunciando: «Ne trarrò le conseguenze». Ieri Fabio Mussi ha ufficializzato la decisione di dimettersi da coordi-
natore di Sinistra democratica, con una lettera inviata al direttivo del movimento, riunito a Roma per analizzare il voto di dieci giorni fa e per pianificare le strategie future. La riunione, nove ore a porte chiuse all’ex hotel Bologna, si è aperta proprio con la lettura delle righe scritte dal ministro uscente, lontano per via di accertamenti medici dovuti al trapianto di reni di pochi mesi fa. Nella lettera, Mussi ha sottolineato la coincidenza tra la sua delicata situazione personale e la débâcle elettorale: «In questo momento la sinistra ha bisogno del massimo impegno e di un vero rinnovamento», è il messaggio dell’ex leader del Correntone ai suoi. «Non potendo garantire, per motivi indipendenti dalla mia volontà, il contributo necessario e volendo favorire un rinnovamento anche generazionale, lascio l’incarico di coordinatore».
Un passo indietro, che però Mussi accompagna a un’esortazione: bisogna rilanciare il percorso costituente a sinistra e si deve andare «comunque» verso un ricambio generazionale di tutti gli organismi dirigenti. Posizione condivisa dalla maggior parte degli interventi che sono seguiti, e che è stata poi ribadita in un documento approvato alla fine dei lavori. Nel testo si legge che impegno di Sinistra democratica, in prospettiva, è quello di dar vita a «una sinistra unita e rinnovata» che un domani porti a «un centrosinistra nuovo». E che per far questo, nell’immediato, bisogna avviare una campagna d’ascolto sui territori. Perché, come è stato sottolineato in più di un intervento, una delle lezioni da trarre da questo voto è che non si può pretendere di rappresentare istanze e bisogni per intuizione, senza passare per l’ascolto.
Ma non è solo questa la causa sconfitta. Marco Fumagalli, che insieme ai capigruppo uscenti Titti Di Salvo e Cesare Salvi traghetterà sinistra democratica fino all’elezione del successore di Mussi, punta il dito contro il fatto di non essere riuscita a comunicare il progetto politico di una sinistra di governo e di essere apparsa un semplice cartello elettorale. Concetto su cui ha insistito anche Salvi, per il quale alla lista rosso-verde «è mancata la capacità di persuadere e di presentarsi con parole d’ordine chiare». Il capogruppo uscente di Sd al Senato ritiene che il lavoro da fare nelle prossime settimane sia quello di lavorare con le altre forze di sinistra, socialisti compresi. Ma c’è anche altro da fare. La sua convinzione è infatti che in Sd «è necessario un percorso democratico che finora non c’è stato». Posizione tornata in vari interventi, anche se poi, quanto alle soluzioni prospettate, non è emerso un univoco orientamento.
La prima prova in questo senso sarà comunque la scelta del successore di Mussi. L’intenzione prevalente è di farlo eleggere già alla riunione del comitato promotore di Sinistra democratica, convocato per il 10 maggio. Candidature non sono venute alla luce e ogni ipotesi al momento è prematura. Quanto a una più ampia consultazione di iscritti e anche simpatizzanti, Sd dovrebbe darsi appuntamento dopo il congresso di Rifondazione comunista. L’auspicio è che a ottenere la maggioranza sia l’asse Bertinotti-Vendola, favorevole a una costituente della sinistra, e non quello Ferrero-Grassi, per i quali va rilanciato il carattere identitario del Prc. Carlo Leoni non fa mistero che il percorso che dovrà dispiegarsi nelle prossime settimane «porta alla costituente della sinistra al fianco di Rifondazione e quanti ci stanno». Altre prospettive, riguardanti una confluenza nel Pd, vengono invece escluse dal vicepresidente della Camera: «Noi ci siamo, siamo qui». E anche Fumagalli smentisce voci di un avvicinamento al Pd: «Noi investiamo sulla nuova sinistra». Intanto, però, oggi si riuniscono a Roma Cialente, Nerozzi, Crucianelli e altri fuoriusciti recentemente da Sd. Spiega Vincenzo Vita che presto l’associazione “Sinistra per il paese” potrebbe varare una Fondazione, che sia «parte costitutiva del Pd e che sappia però anche dialogare con l’esterno». Un ponte lanciato verso gli ex compagni? Dice Giulia Rodano: «Per il momento non se ne parla».
l’Unità 23.4.08
Aborto, meno interventi ma è boom di obiettori
La relazione del ministero della Salute: Ivg in calo del 3%, il 70% dei ginecologi dice «no»
CONTINUA A CALARE il numero degli aborti in Italia (-3% nel 2007 rispetto al 2006), e in particolare tra le donne italiane. Tuttavia il fronte del no all’aborto tra i
medici ha segnato un vero e proprio boom: i ginecologi obiettori nel 2007 hanno raggiunto quasi il 70% (69,2%), contro il 58,7% del 2003: su 5462 ginecologi che lavorano in strutture in cui si effettuano aborti, solo 1682 non sono obiettori. Sono i dati contenuti nella relazione annuale 2006-2007 sull’applicazione della legge 194, inviata ieri al Parlamento dal ministro della Salute Livia Turco, che ha definito la legge 194 «efficace, saggia e lungimirante», ricordando che «la sua applicazione può essere ulteriormente migliorata». Il ministro ha sottolineato la necessità di potenziare i consultori, che sono solo 0,7 ogni 20mila abitanti, mentre la legge ne prevede 1 ogni 20mila. La Turco raccomanda anche di «monitorare» l’offerta della prestazioni in relazione all’aumento delle obiezioni, al fine di garantire in tutte le Regioni l’accesso al servizio, anche attraverso «la mobilità del personale». La crescita delle obiezioni, infatti, è stata molto marcata in particolare nel Sud, con punte in alcune regioni come la Campania (dal 44,1% di obiettori all’83%), e la Sicilia (dal 44,1% al 84,2%). A porre ostacoli alle donne, sono però anche gli anestesisti (dal 45,7% al 50,4% di obiettori), e il personale non medico (dal 38,6% al 42,6%). Secondo Giorgio Vettori, presidente della Sigo (Società italiana di ginecologia), i medici operativi «sono sufficienti» per far fronte alla domanda. «Il problema semmai è organizzativo, faremo un’indagine attenta per verificare se c’è la necessaria copertura in tutto il Paese». Più critico Silvio Viale, ginecologo ed esponente radicale, secondo cui ormai la legge 194 è «a rischio». Giovanni Monni, presidente dell’Associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi), spiega così l’impennata delle obiezioni: «I ginecologi preferiscono fare un parto rispetto ad un aborto, non solo per le implicazioni etiche, ma anche perché nei concorsi questo intervento dà meno punteggio». E poi, dice Monni, «possono aver influito tutte le campagne contro l’aborto: i ginecologi spesso seguono le mode». Infine, pesano le dichiarazioni pro-vita «di molti direttori generali e assessori alla Sanità». Nel 2007 gli aborti sono stati 127.038 contro i 131.018 casi del 2006 (-3%); rispetto al 1982, anno in cui ci sono stati 234.801 casi, il decremento è del 45,9%. Tuttavia il calo è da imputare soprattutto alle donne italiane (- 3,7% rispetto al 2005), soprattutto se istruite, occupate o coniugate, mentre tra le straniere il ricorso all’aborto continua a salire (+ 4,5% rispetto al 2005). Corretta al ribasso la stima degli aborti clandestini: nel 2005 sono stati 15mila e non 20mila. Stabile il numero degli aborti terapeutici effettuati dopo il 90° giorno di gravidanza, nel 2006 pari al 2,9% del totale. Rimane invece sul terreno della sperimentazione l’aborto farmacologico con la pillola RU486: dal 2005 al 2007 ci sono stati solo 2353 casi. Sei le regioni coinvolte: Piemonte, Trentino, Toscana, Emilia Romagna, Marche, Puglia.
l’Unità 23.4.08
Yael Dayan. La scrittrice ed ex parlamentare laburista: Meshaal non riconoscerà Israele ma ammette il referendum su un accordo, è già un primo risultato
«Da israeliana sto con Carter: trattare anche con Hamas»
di Umberto De Giovannangeli
«Da israeliana sto con Carter: trattare anche con Hamas»
di Umberto De Giovannangeli
«Conosco molto bene Jimmy Carter e so quanto gli stia a cuore il futuro di israeliani e palestinesi, e so che ogni sua iniziativa è volta a dare un contributo per il raggiungimento della pace. Per questo reputo ingenerose sul piano personale e sbagliate su quello politico, le chiusure del governo Olmert al suo tentativo di aprire uno spazio di dialogo con Hamas». A parlare è Yael Dayan, scrittrice israeliana, più volte parlamentare laburista, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei Giorni (1967): il generale Moshe Dayan.
Il «viaggio di studio» in Medio Oriente dell’ex presidente Usa Jimmy Carter ha suscitato, specie in Israele, dibattito e polemiche.
«Reputo le accuse rivolte al presidente Carter ingenerose sul piano personale e sbagliate su quello politico. Alla base dell’iniziativa generosa di Carter c’è una presa d’atto che condivido pienamente: può piacere o no, e a me certo non fa piacere da israeliana, da donna, e da laica, ma è indubbio che Hamas è parte del popolo palestinese con la quale Israele deve fare i conti politicamente, smettendo di illudersi che esistano scorciatoie militari per la soluzione del problema. Carter ha il merito di aver costruito su questo assunto una iniziativa politica che sembra aver dato dei primi risultati».
A cosa si riferisce?
«All’accettazione da parte dei leader di Hamas di un referendum popolare cui sottoporre un eventuale accordo di pace raggiunto da Israele e dall’Autorità nazionale palestinese del presidente Abu Mazen. A me pare un fatto politico significativo che Israele farebbe bene a non sottovalutare».
Il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, ha ribadito che Hamas non intende riconoscere lo Stato d’Israele…
«È vero, ma è altrettanto vero che in quella stessa dichiarazione Meshaal ha affermato che Hamas accetta la costituzione di uno Stato indipendente palestinese sui territori occupati nel 1967: una affermazione che confligge apertamente con il dettato jihadista, riproposto dal presidente iraniano Ahmadinejad e dai capi di Al Qaeda, che esplicita l’obiettivo della cancellazione di Israele dalla cartina del Medio Oriente».
C’è chi le ribatterebbe che quella di Meshaal è solo una mossa tattica.
«Se è così perché non verificarlo? La mia non è un’apertura di credito "al buio" ad Hamas. Ciò che sostengo è che Hamas va affrontata e sconfitta sul piano politico, agendo sulle sue contraddizioni interne, sapendo peraltro che se si vuole raggiungere almeno un cessate il fuoco, esso va negoziato con il nemico».
Un negoziato che preveda anche la fine del blocco di Gaza?
«Quel blocco dovrebbe essere quantomeno allentato unilateralmente da Israele per due buone ragioni: perché le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile della Striscia sono in sé inaccettabili, sul piano etico oltre che politico, e anche perché questa politica di chiusura totale ha finito solo per rafforzare Hamas. Israele ha altri mezzi, anche militari, per fare pressione su Hamas. Va da sé che un negoziato con Hamas deve prevdere la fine del lancio dei razzi contro Sderot e il Sud d’Israele; quei lanci che Jimmy Carter ha bollato senza mezzi termini come “atti criminali”. Mi lasci aggiungere che una tregua negoziata con Hamas e l’Anp, non indebolirebbe la leadership del presidente Abu Mazen ma al contrario al rafforzerebbe perché è sulla sofferenza, la rabbia, la frustrazione e l’assenza di speranza che crescono le forze estremiste».
La pace per Yael Dayan...
«Non è una concessione ai palestinesi ma è l’unico modo perché Israele preservi, oltre la sua sicurezza, i due pilastri della nostra identità nazionale: democrazia e ebraicità dello Stato».
l’Unità 23.4.08
Il Marx magico di Scalfari
di Bruno Gravagnuolo
Il Pd «centripeto» È la ricetta che il direttore del Corsera Paolo Mieli consiglia al Pd dopo la botta elettorale. Che significa «centripeto»? Significa partito di centro. Che non si limita ad allearsi con Casini, ma occupa stabilmente quella zona, fino a «strutturarsi per occupare da sé il centro» (così Mieli domenica nel suo editoriale). Bene, sarebbe una falsa e non una «vera partenza», come titolava il quotidiano. Anzi sarebbe una catastrofe (un’altra!). Premesso che il Pd ha già fatto di tutto e di più per qualificarsi al centro con imprenditori e generali - per nulla nascosti in lista come dice Mieli - resta il fatto che un Pd post-identitario e di centro verrebbe devastato al suo interno. Tra «opposizionisti» e «volenterosi». Sicché, invece di agganciare Casini, sulla riforma elettorale e altro, finirebbe per agganciare... Berlusconi da posizioni subalterne. Oltre a perdere tutti gli elettori in fuga dalla Sinistra Arcobaleno (alle Europee, per cominciare) . La strada semmai è quella opposta ai consigli di Mieli: un moderno partito di sinistra. Radicato nei territori e di massa. Con una sua idea dello stato e dell’economia, né decisionista né liberal-mercatista. E con sfondo e contorno di alleanze: al centro, in società, in Europa e in Parlamento. Ci vuole un Partito insomma. Una specie di più ampio e innovativo Pds. Con quella «s» (che sta per sinistra) ben dentro, se non nel nome. Altrimenti è la fine.
Marxismo magico Spargeva lenimenti Eugenio Scalfari domenica su Repubblica: «più o meno 4 punti tra Pd e Pdl». Ma in realtà al Senato sono 4,5, e tra i due «poli» ci sono 9 punti! Quel che però non convince è il «ragionamento» scalfariano: destra e sinistra parole superate. Se non nel senso di sinistra come «modernità» e «innovazione». E destra come «identità» e «sicurezza», pur tra scambi e «dosaggi» alternati. Troppo generico: che modernità e che innovazione? E poi, chi ha detto che «identità» e «sicurezza» siano ipso facto o in partenza di destra? Infine è semplicistica l’idea della fine della «classe» - la «struttura» - con relativa scomparsa dell’ideologia di sinistra (la «sovrastruttura»). Questo è marxismo magico... Gli operai sono un terzo del lavoro dipendente e con esso hanno bisogno di sinistra. Sennò spariscono davvero, come s’è visto. Ma ricompaiono a destra!
l’Unità 23.4.08Il «viaggio di studio» in Medio Oriente dell’ex presidente Usa Jimmy Carter ha suscitato, specie in Israele, dibattito e polemiche.
«Reputo le accuse rivolte al presidente Carter ingenerose sul piano personale e sbagliate su quello politico. Alla base dell’iniziativa generosa di Carter c’è una presa d’atto che condivido pienamente: può piacere o no, e a me certo non fa piacere da israeliana, da donna, e da laica, ma è indubbio che Hamas è parte del popolo palestinese con la quale Israele deve fare i conti politicamente, smettendo di illudersi che esistano scorciatoie militari per la soluzione del problema. Carter ha il merito di aver costruito su questo assunto una iniziativa politica che sembra aver dato dei primi risultati».
A cosa si riferisce?
«All’accettazione da parte dei leader di Hamas di un referendum popolare cui sottoporre un eventuale accordo di pace raggiunto da Israele e dall’Autorità nazionale palestinese del presidente Abu Mazen. A me pare un fatto politico significativo che Israele farebbe bene a non sottovalutare».
Il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, ha ribadito che Hamas non intende riconoscere lo Stato d’Israele…
«È vero, ma è altrettanto vero che in quella stessa dichiarazione Meshaal ha affermato che Hamas accetta la costituzione di uno Stato indipendente palestinese sui territori occupati nel 1967: una affermazione che confligge apertamente con il dettato jihadista, riproposto dal presidente iraniano Ahmadinejad e dai capi di Al Qaeda, che esplicita l’obiettivo della cancellazione di Israele dalla cartina del Medio Oriente».
C’è chi le ribatterebbe che quella di Meshaal è solo una mossa tattica.
«Se è così perché non verificarlo? La mia non è un’apertura di credito "al buio" ad Hamas. Ciò che sostengo è che Hamas va affrontata e sconfitta sul piano politico, agendo sulle sue contraddizioni interne, sapendo peraltro che se si vuole raggiungere almeno un cessate il fuoco, esso va negoziato con il nemico».
Un negoziato che preveda anche la fine del blocco di Gaza?
«Quel blocco dovrebbe essere quantomeno allentato unilateralmente da Israele per due buone ragioni: perché le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile della Striscia sono in sé inaccettabili, sul piano etico oltre che politico, e anche perché questa politica di chiusura totale ha finito solo per rafforzare Hamas. Israele ha altri mezzi, anche militari, per fare pressione su Hamas. Va da sé che un negoziato con Hamas deve prevdere la fine del lancio dei razzi contro Sderot e il Sud d’Israele; quei lanci che Jimmy Carter ha bollato senza mezzi termini come “atti criminali”. Mi lasci aggiungere che una tregua negoziata con Hamas e l’Anp, non indebolirebbe la leadership del presidente Abu Mazen ma al contrario al rafforzerebbe perché è sulla sofferenza, la rabbia, la frustrazione e l’assenza di speranza che crescono le forze estremiste».
La pace per Yael Dayan...
«Non è una concessione ai palestinesi ma è l’unico modo perché Israele preservi, oltre la sua sicurezza, i due pilastri della nostra identità nazionale: democrazia e ebraicità dello Stato».
l’Unità 23.4.08
Il Marx magico di Scalfari
di Bruno Gravagnuolo
Il Pd «centripeto» È la ricetta che il direttore del Corsera Paolo Mieli consiglia al Pd dopo la botta elettorale. Che significa «centripeto»? Significa partito di centro. Che non si limita ad allearsi con Casini, ma occupa stabilmente quella zona, fino a «strutturarsi per occupare da sé il centro» (così Mieli domenica nel suo editoriale). Bene, sarebbe una falsa e non una «vera partenza», come titolava il quotidiano. Anzi sarebbe una catastrofe (un’altra!). Premesso che il Pd ha già fatto di tutto e di più per qualificarsi al centro con imprenditori e generali - per nulla nascosti in lista come dice Mieli - resta il fatto che un Pd post-identitario e di centro verrebbe devastato al suo interno. Tra «opposizionisti» e «volenterosi». Sicché, invece di agganciare Casini, sulla riforma elettorale e altro, finirebbe per agganciare... Berlusconi da posizioni subalterne. Oltre a perdere tutti gli elettori in fuga dalla Sinistra Arcobaleno (alle Europee, per cominciare) . La strada semmai è quella opposta ai consigli di Mieli: un moderno partito di sinistra. Radicato nei territori e di massa. Con una sua idea dello stato e dell’economia, né decisionista né liberal-mercatista. E con sfondo e contorno di alleanze: al centro, in società, in Europa e in Parlamento. Ci vuole un Partito insomma. Una specie di più ampio e innovativo Pds. Con quella «s» (che sta per sinistra) ben dentro, se non nel nome. Altrimenti è la fine.
Marxismo magico Spargeva lenimenti Eugenio Scalfari domenica su Repubblica: «più o meno 4 punti tra Pd e Pdl». Ma in realtà al Senato sono 4,5, e tra i due «poli» ci sono 9 punti! Quel che però non convince è il «ragionamento» scalfariano: destra e sinistra parole superate. Se non nel senso di sinistra come «modernità» e «innovazione». E destra come «identità» e «sicurezza», pur tra scambi e «dosaggi» alternati. Troppo generico: che modernità e che innovazione? E poi, chi ha detto che «identità» e «sicurezza» siano ipso facto o in partenza di destra? Infine è semplicistica l’idea della fine della «classe» - la «struttura» - con relativa scomparsa dell’ideologia di sinistra (la «sovrastruttura»). Questo è marxismo magico... Gli operai sono un terzo del lavoro dipendente e con esso hanno bisogno di sinistra. Sennò spariscono davvero, come s’è visto. Ma ricompaiono a destra!
Natoli: «Io e gli altri copiati da Galimberti»
di Marco Innocente Furina
«Se citi Galimberti, fai attenzione, rischi di citare qualcun’altro». Per essere una battuta lascia il segno, e non molto spazio all’immaginazione. Se poi a pronunciarla è il filosofo Salvatore Natoli, collega e compagno di studi di Umberto Galimberti, la questione si fa seria. Insomma, altro che caso isolato, altro che errore, Galimberti le virgolette le scorderebbe spesso e volentieri. Troppo volentieri.
Il caso questa volta lo solleva Avvenire, dopo che dalle pagine de Il Giornale Roberto Farneti il 17 aprile scorso, aveva dimostrato che alcuni brani de L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani edito da Feltrinelli, l’ultimo libro di Umberto Galimberti, sono «pericolosamente» somiglianti a passi de Il piacere e il male, testo del 1999, sempre edito da Feltrinelli, della storica Giulia Sissa. Il giornale dei vescovi in un articolo a firma di Edoardo Castagna, apparso martedì scorso, accusa Galimberti di esser stato «precoce» nel «vizietto» del copia incolla. Il libro all’indice è Gli equivoci dell’anima del 1987, in cui Galimberti «riassume» parecchie riflessioni di Natoli già apparse su riviste specializzate. Natoli conferma.
«Quando mi accorsi dei plagi dei miei articoli - spiega il filosofo - la mia reazione immediata fu di tristezza e dispiacere, non di aggressività». Il docente di filosofia teoretica all’università Bicocca di Milano preferì lasciar correre: «C’erano anche ragioni personali: eravamo stati compagni di studi, era un fatto che mi feriva. Mi sentii tradito, più che offeso. Nella professoressa Sissa ha prevalso un altro sentimento, forse operando nel mondo anglosassone (Giulia Sissa è ricercatrice all’Ucla di Los Angeles, ndr), è abituata a maggior rigore. Ma a indurmi a non reagire è stato anche un altro motivo. Sono convinto che dispute del genere devono essere risolte all’interno della comunità scientifica. Noi studiosi dobbiamo essere autoimmuni da fenomeni di questo genere. Altrimenti il rischio è che i non addetti ai lavori, vedendo due accademici litigare, pensino che siano soltanto gelosie e ripicche e finiscano col convincersi che abbiano torto entrambi. Come accade per le polemiche politiche».
Intanto per gettare acqua sul fuoco è intervenuto anche l’editore Feltrinelli, che in un comunicato ha definito i passi incriminati una «riproduzione» della recensione a suo tempo fatta da Galimberti del lavoro della Sissa. Una tesi sostanzialmente ribadita anche dal filosofo che, da parte sua, in un’intervista a Il Giornale, ha riconosciuto i debiti nei confronti della ricercatrice, ma ha difeso la sua buona fede: «Quelle pagine sono una rielaborazione di una recensione del 23 aprile del 1999 che io scrissi parlando de Il piacere e il male di Giulia Sissa. Nella recensione io riassumevo ciò che diceva la professoressa Sissa... Io lavoro così, leggo il libro e poi scrivo. Non faccio mai virgolettati, racconto. È stato questo il mio errore». Una spiegazione che non ha convinto la studiosa italiana («Nel libro di Galimberti ci sono note riprese dal mio Il piacere e il male che non esistevano nella recensione del 23 aprile 1999 e che, quindi, devono essere cercate e trovate nel mio libro. Più che delle scuse, è un cercare delle scuse, un arrampicarsi sugli specchi») e che non convince del tutto neppure Natoli. «Galimberti non è nuovo a episodi di questo genere. Ricordo che fin da tempi in cui scriveva per il Sole 24 ore c’erano lettori che mi contattavano per segnalarmi dei plagi dei miei scritti. E anche successivamente, in alcuni articoli su Repubblica, è avvenuta la stessa cosa. Avrei dovuto creare delle cartelle, ma ho lasciato stare».
Per Natoli il caso venuto alla luce in questi giorni dunque non è che la punta dell’iceberg di un certo modus operandi. «Una volta ho citato una frase di Galimberti, o almeno credevo fosse sua; invece era di Foucault, un brano tratto da La nascita della clinica».
Parole pesanti quelle di Natoli, che troverebbero conferma anche in un altro episodio denunciato dalla stessa Sissa. L’antichista ha raccontato al Corsera di aver ricevuto una mail da una studiosa fiorentina, Alida Cresti, che segnalava una sentenza del Tribunale di Roma che in data 30/5/2006 condannava Galimberti per aver pubblicato su Repubblica un articolo a sua firma, in realtà copiato da una saggio della stessa Cresti. Sul perché nessuno abbia mai detto niente, Natoli ha un’idea precisa: «Galimberti ha avuto grande successo televisivo, è un personaggio conosciuto e la comunità scientifica ha una forte soggezione del successo mediatico». Le comparsate in tv - Galimberti è stato spesso ospite del Maurizio Costanzo Show - e la collaborazione coi grandi giornali conterebbero più della affidabilità accademica. Un deriva inquietante, se fosse vera. Contro cui Natoli ha un’unica soluzione: «Si deve tornare a un’etica della scrittura, a una responsabilità del pensiero».
Etica e responsabilità, due concetti centrali nella riflessione di Galimberti...
Il caso questa volta lo solleva Avvenire, dopo che dalle pagine de Il Giornale Roberto Farneti il 17 aprile scorso, aveva dimostrato che alcuni brani de L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani edito da Feltrinelli, l’ultimo libro di Umberto Galimberti, sono «pericolosamente» somiglianti a passi de Il piacere e il male, testo del 1999, sempre edito da Feltrinelli, della storica Giulia Sissa. Il giornale dei vescovi in un articolo a firma di Edoardo Castagna, apparso martedì scorso, accusa Galimberti di esser stato «precoce» nel «vizietto» del copia incolla. Il libro all’indice è Gli equivoci dell’anima del 1987, in cui Galimberti «riassume» parecchie riflessioni di Natoli già apparse su riviste specializzate. Natoli conferma.
«Quando mi accorsi dei plagi dei miei articoli - spiega il filosofo - la mia reazione immediata fu di tristezza e dispiacere, non di aggressività». Il docente di filosofia teoretica all’università Bicocca di Milano preferì lasciar correre: «C’erano anche ragioni personali: eravamo stati compagni di studi, era un fatto che mi feriva. Mi sentii tradito, più che offeso. Nella professoressa Sissa ha prevalso un altro sentimento, forse operando nel mondo anglosassone (Giulia Sissa è ricercatrice all’Ucla di Los Angeles, ndr), è abituata a maggior rigore. Ma a indurmi a non reagire è stato anche un altro motivo. Sono convinto che dispute del genere devono essere risolte all’interno della comunità scientifica. Noi studiosi dobbiamo essere autoimmuni da fenomeni di questo genere. Altrimenti il rischio è che i non addetti ai lavori, vedendo due accademici litigare, pensino che siano soltanto gelosie e ripicche e finiscano col convincersi che abbiano torto entrambi. Come accade per le polemiche politiche».
Intanto per gettare acqua sul fuoco è intervenuto anche l’editore Feltrinelli, che in un comunicato ha definito i passi incriminati una «riproduzione» della recensione a suo tempo fatta da Galimberti del lavoro della Sissa. Una tesi sostanzialmente ribadita anche dal filosofo che, da parte sua, in un’intervista a Il Giornale, ha riconosciuto i debiti nei confronti della ricercatrice, ma ha difeso la sua buona fede: «Quelle pagine sono una rielaborazione di una recensione del 23 aprile del 1999 che io scrissi parlando de Il piacere e il male di Giulia Sissa. Nella recensione io riassumevo ciò che diceva la professoressa Sissa... Io lavoro così, leggo il libro e poi scrivo. Non faccio mai virgolettati, racconto. È stato questo il mio errore». Una spiegazione che non ha convinto la studiosa italiana («Nel libro di Galimberti ci sono note riprese dal mio Il piacere e il male che non esistevano nella recensione del 23 aprile 1999 e che, quindi, devono essere cercate e trovate nel mio libro. Più che delle scuse, è un cercare delle scuse, un arrampicarsi sugli specchi») e che non convince del tutto neppure Natoli. «Galimberti non è nuovo a episodi di questo genere. Ricordo che fin da tempi in cui scriveva per il Sole 24 ore c’erano lettori che mi contattavano per segnalarmi dei plagi dei miei scritti. E anche successivamente, in alcuni articoli su Repubblica, è avvenuta la stessa cosa. Avrei dovuto creare delle cartelle, ma ho lasciato stare».
Per Natoli il caso venuto alla luce in questi giorni dunque non è che la punta dell’iceberg di un certo modus operandi. «Una volta ho citato una frase di Galimberti, o almeno credevo fosse sua; invece era di Foucault, un brano tratto da La nascita della clinica».
Parole pesanti quelle di Natoli, che troverebbero conferma anche in un altro episodio denunciato dalla stessa Sissa. L’antichista ha raccontato al Corsera di aver ricevuto una mail da una studiosa fiorentina, Alida Cresti, che segnalava una sentenza del Tribunale di Roma che in data 30/5/2006 condannava Galimberti per aver pubblicato su Repubblica un articolo a sua firma, in realtà copiato da una saggio della stessa Cresti. Sul perché nessuno abbia mai detto niente, Natoli ha un’idea precisa: «Galimberti ha avuto grande successo televisivo, è un personaggio conosciuto e la comunità scientifica ha una forte soggezione del successo mediatico». Le comparsate in tv - Galimberti è stato spesso ospite del Maurizio Costanzo Show - e la collaborazione coi grandi giornali conterebbero più della affidabilità accademica. Un deriva inquietante, se fosse vera. Contro cui Natoli ha un’unica soluzione: «Si deve tornare a un’etica della scrittura, a una responsabilità del pensiero».
Etica e responsabilità, due concetti centrali nella riflessione di Galimberti...
IL FILOSOFO, dopo le accuse di plagio rivolte dalla storica Sissa al celebre psicoanalista, spiega che quella della «riproduzione» di brani altrui non è una novità: «Lo faceva già ai tempi del Sole 24 ore...»
Repubblica 24.4.08
A chi serve la versione edulcorata del fascismo
di Mario Pirani
Una poesia può contenere in pochi versi più verità e chiarezza di un saggio storico. L´idea mi è suggerita dalla lettura di una breve lirica (da "Gente sul ponte", ed. Scheiwiller) di una grande poetessa polacca, Wislawa Szymborska, poco conosciuta in Italia, malgrado il Nobel.
Intitolata "Figli dell´epoca" ne riporto qui poco più di una strofa: «Siamo figli dell´epoca,/ l´epoca è politica./ ... Ciò di cui parli ha una risonanza, / ciò di cui taci ha una valenza/ in un modo o nell´altro politica./.... Intanto la gente moriva, / gli animali crepavano,/ le case bruciavano/ e i campi inselvatichivano/ come in epoche remote/ e meno politiche». L´analogia nasce dal paragone con una polemica tra storici – Giovanni De Luna sulla "Stampa" e Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere"–, il primo preoccupato dal fatto che la natura totalitaria del fascismo venga ormai derubricata solo alla persecuzione razziale anti ebraica, il secondo, come d´abitudine, impegnato ad incolpare di ciò gli storici di sinistra, i quali, per alleviare le responsabilità del comunismo, avrebbero appiattito tutta l´esperienza fascista su quella hitleriana. A tal fine, quindi, «dopo l´equiparazione del fascismo al nazismo, l´accento sull´antisemitismo serviva a ristabilire l´incrinata supremazia del comunismo sull´uno e sull´altro». Alla base della riduzione del fascismo «all´archetipo di totalitarismo diabolico-omicida che è stato il regime hitleriano» vi sarebbe, inoltre, il vecchio rifiuto delle ricerche di Renzo De Felice che smentivano «l´immagine del Ventennio in contrapposizione alla quale la sinistra ha costruito il mito dell´antifascismo e della Resistenza».
Stanca polemica, in verità, sol che essa conferma ancora una volta come l´uso politico della storia risorga dalle sue ceneri ogni qualvolta si delinea un mutamento di scenario - come ora con l´alternanza destra-sinistra - contribuendo a confondere sia la storia che la politica.
Se, infatti, guardiamo, da cronisti attenti ai fatti e non da cattedratici innamorati delle loro tesi, il calendario degli anni più recenti, possiamo facilmente constatare che l´amalgama delle più generali responsabilità fasciste solo alle leggi razziali, è andata via via affermandosi con l´evoluzione democratica dell´estrema destra, la trasformazione del Msi in An e, da ultimo, l´approdo al Pdl, accompagnati dalle visite di Fini ad Auschwitz, a Gerusalemme, alla Sinagoga di Roma, al suo sostegno sincero ad Israele, alle sue affermazioni contro le leggi razziali, alla condanna senza mezzi termini della Shoah. Tutto ciò, oltre ad essere in sé ottima cosa, ha contribuito a sdoganare anche sul piano internazionale, a dare un profilo nuovo al vecchio movimento post-repubblichino e ad inserirlo a pieno diritto nel quadro costituzionale, pagando solo lo scotto della scissione dell´ala estremista.
D´altro canto l´accentuazione posta sul ripudio dell´antisemitismo come simbolo unico di un passato, inaccettabile, invece, anche per tanti altri versi, ha permesso alla destra di non confrontarsi con la sua storia reale. Si è finito per ricoprire di un oblio quasi nostalgico gli anni di una dittatura in primo luogo antiliberale, che soffocò la libertà di stampa, di parola, di associazione, di sciopero; soppresse la democrazia rappresentativa; istituì tribunali speciali, incarcerò e talora assassinò gli oppositori; infine trascinò l´Italia in una guerra rovinosa contro le più grandi potenze del mondo. Non aver fatto i conti culturali - ribadisco culturali - col passato, attraverso la vulgata detta revisionista, ha portato non solo la destra ma una parte non piccola dell´opinione pubblica a recepire una versione edulcorata e distorta del Ventennio, ad accettare per buona una «condivisione» strumentale di una storia falsificata, culminata nella par condicio tra ragazzi di Salò e Resistenza, ad accettare la ricorrente richiesta di rivedere i testi scolastici a seconda di chi vinca le elezioni.
La storiografia di sinistra porta in tutto ciò le sue responsabilità ma non nella «reductio» del fascismo alla sua svolta razzista. Le colpe più gravi, che si sono trascinate a lungo, riguardano piuttosto il giudizio sul comunismo e sull´Urss. Così anche sull´uso strumentale dell´accusa di fascismo contro chi condannava la dittatura staliniana. In questo seguendo la propaganda sovietica che, ad esempio, giustificò, tra l´altro, l´invasione della Cecoslovacchia inventandosi la minaccia del riarmo tedesco alle frontiere orientali (ma in proposito non va dimenticato che il governo centrista Dc-Liberali nascose nell´armadio della vergogna le carte sull´eccidio di Cefalonia per non mettere in difficoltà la Repubblica federale tedesca al momento della sua adesione alla Nato).
Infine anche la polemica su De Felice «vittima», è in gran parte viziata. Non solo perché Giorgio Amendola in un impegnato libro-intervista dette subito una interpretazione largamente positiva della riscoperta defeliciana (che non vuol dire rivalutazione) delle ragioni del consenso popolare al regime mussoliniano, ma anche perché quella riscoperta in realtà coincideva con le analisi togliattiane sul carattere di massa del fascismo, sulla opportunità, sia pure strumentale, che i giovani comunisti entrassero nei Guf, partecipassero ai Littoriali, cogliessero le esigenze di rinnovamento che provenivano dall´interno del fascismo.
Una linea che trovò una sua conferma subito dopo la Liberazione con l´apertura senza veti ideologici alle nuove generazioni educate dal regime. Quel che gli storici di sinistra non intravidero neppure era la insania, al termine autodistruttiva, come infatti avvenne, del nucleo centrale del pensiero e dell´azione dei partiti comunisti, quel finalismo assoluto che tutto giustificava in nome di una costruzione sociale e politica senza contraddizioni, basata su un´etica costrittiva capace di sfociare nel gulag e nel crimine di massa. Il non aver mai affrontato la negatività insita nell´utopia comunista ha portato il Pci e, poi, il post-Pci (nelle sue susseguenti trasformazioni) a smarrire identità, ad arrivare sempre in ritardo agli appuntamenti col rinnovamento riformista, a lasciare alla sua sinistra, specularmente alla destra post fascista, i brandelli radioattivi e dannosi di scorie storiche che ancora si richiamano al comunismo.
Peraltro le afone e invecchiate sirene degli opposti estremismi non appaiono più in grado di influenzare l´agenda del Paese. Non sarebbe allora giunto il momento per separare finalmente l´operare politico dall´analisi storica? Non è venuto il giorno per spogliare le date epocali della vicenda repubblicana dall´affronto riduttivo delle polemiche contingenti? Se il 14 luglio è la festa di tutti i francesi, degli eredi dei giacobini come dei vandeani, dei laici come dei cattolici, di chi si richiama alla Comune e dei gollisti che inalberano Giovanna d´Arco perché tutti gli italiani non debbono finalmente ritrovarsi nel 25 aprile e nel 2 giugno? Se Berlusconi e Fini, pur non essendo ancora in carica, promuovessero una iniziativa in tal senso, non sarebbe davvero questo un buon inizio, al di là della validità di ogni restante giudizio politico?
Repubblica 24.4.08
Appello per il 25 aprile: "Scendiamo in piazza"
Torino, mobilitazione da Zagrebelsky a Grosso. Napolitano a Genova. Polemica sulla Moratti
di Silvio Buzzanca
Giorgio Napolitano festeggerà il 25 aprile a Genova, città simbolo della Resistenza e della lotta contro il nazifascismo. Una scelta simbolica che vuole ricordare come il mito della Resistenza come movimento di popolo sia fondato su basi molto concrete. Ma l´impegno del presidente della Repubblica nelle celebrazioni inizierà già domani quando riceverà al Quirinale le Associazione d´Arma e Combattentistiche. La mattina del 25 Napolitano deporrà una corona d´allora all´Altare della Patria in onore dei caduti della guerra di Liberazione. E in quella sede consegnerà alcune medaglie al merito civile dedicate alla Resistenza. Poi volerà a Genova.
A Torino è di ieri un appello a scendere in piazza firmato da un gruppo di intellettuali tra cui spiccano Gustavo Zagrebelsky, Guido Neppi Modona e Carlo Federico Grosso. L´appello ricorda «il sacrificio della parte migliore di questo paese che permise alle generazioni che seguirono di vivere in una nazione libera e democratica». All´iniziativa del deputato Ds Stefano Esposito hanno già aderito una quarantina di intellettuali di Torino, chiaramente in contrapposizione con il W-day che Beppe Grillo organizza nel capoluogo piemontese proprio quel giorno. «Tre generazioni, tante ne sono passate da quando l´Italia è stata liberata dall´occupazione nazista e dal fascismo - si legge nell´appello - sarebbe questa una ragione sufficiente per festeggiare il 25 Aprile, ma crediamo vi sia di più del semplice ricordo. Il 25 Aprile ci parla dell´oggi, della necessità di non dare mai per scontati quei valori per i quali combatterono i nostri padri e i nostri nonni.»
Letizia Moratti, sindaco di Milano, invece conferma che altri impegni la portano lontano dal capoluogo meneghino e non potrà parteciperà alle manifestazioni. Il primo cittadino, accusa Alfio Nicotra, di Rifondazione, «per la prima volta nella storia repubblicana Milano non sarà rappresentata alle celebrazioni del 25 aprile dal suo sindaco. Sindaco che sarà assente anche dalle manifestazioni del Primo maggio nella storica capitale del lavoro salariato e del movimento operaio». Non è vero, replica la Moratti, «normalmente i sindaci non erano presenti. - spiega - Io sono stata presente, non solo da candidato ma anche da sindaco, quest´anno non posso. Ma la giunta sarà rappresentata». Roberto Formigoni, presidente della Lombardia, si schiera con la Moratti. Quella del 25 aprile, dice il governatore, «è una festa che va celebrata. Se il sindaco non può essere presente, che so per impegni personali già presi, non facciamo inutili polemiche. Non è che fisicamente il sindaco debba essere presente, l´importante è che sia rappresentata l´istituzione».
Ma più si avvicina la data, più le polemiche crescono. Perché il centrodestra non esita ad attaccare una celebrazione che considera monopolio della sinistra. Gustavo Selva, senatore uscente del Pdl, arriva a proporre «l´abolizione della festa nazionale del 25 aprile». Secondo Selva «per la retorica e i falsi che sono stati fatti, viene attribuito alla Resistenza e alla vittoria dei partigiani un merito che non c´è stato». Replica Walter Veltroni, leader del Pd: «Il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani perché è il giorno in cui è stata restituita a ciascuno la libertà di dire ciò che pensa». Le parole di Selva suscitano anche la reazione di Pino Sgobio, Pdci: «Selva propone di attuare un golpe.» Nella sinistra, scottata dal risultato elettorale, c´è aria di mobilitazione. Un po´ come nel 1994, subito dopo la prima vittoria elettorale di Berlusconi.
Repubblica 24.4.08
Se questa è una sinistra
Intervista allo storico Perry Anderson
«Dalla fine della Guerra Fredda le idee della destra hanno guadagnato ulteriore terreno; il centro si è adattato, in modo crescente, a quelle idee; la sinistra resta, in una visione globale, in ritirata». Nel suo ultimo libro Spectrum (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 471, euro 21) Perry Anderson - eminente storico britannico, professore a Ucla ed ex direttore della New Left Review - affronta senza pregiudizi l´intero spettro ideologico che anima il dibattito politico contemporaneo, attraverso le opere di alcuni dei più rappresentativi intellettuali del nostro tempo: Michael Oakeshott, Leo Strauss, Carl Schmitt e Friedrich von Hayek (la destra intransigente); John Rawls, Jürgen Habermas e Norberto Bobbio (il centro liberale e socialdemocratico); Edward Thompson, Robert Brenner ed Eric Hobsbawm (la sinistra marxista eterodossa). Con una suggestiva incursione anche nel campo del romanzo (Gabriel García Márquez) e della filologia (Sebastiano Timpanaro).
Come è nato Spectrum?
«Dal desiderio di adottare un approccio alla vita intellettuale relativamente raro, non solo nella sinistra ma anche nella destra e nel centro. Partendo da due punti: il primo è quello di mostrare rispetto e curiosità per intellettuali del campo avverso e oppositori politici, senza tentare di appropriarsi delle loro idee; il secondo è quello di essere realmente critici verso la propria parte, in modo leale ma senza alcuno spirito di autoflagellazione. Le posizioni politiche della sinistra che ho scelto di difendere sono quelle che definisco con il termine uncompromising realism. Con cui intendo dire due cose: la prima è che l´essere realistici senza compromessi significa non minimizzare la portata di una sconfitta storica, quella della sinistra nel Ventesimo Secolo, cosa che molti fanno. La seconda è che occorre guardare al sistema che ha vinto in modo lucido, senza nascondere la sua forza ma evitando il compromesso ad ogni costo, come invece è successo. Con una ulteriore distinzione: che puoi essere sconfitto ma non piegato».
Qual è lo stato della sinistra?
«La storia della sinistra nel secolo scorso è stata la storia del socialismo, del riformismo e della rivoluzione che ne è l´aspetto più importante perché prevedeva la costruzione di un sistema totalmente alternativo. Se analizziamo la storia del socialismo, o comunismo, con gli occhi delle generazioni future - e da storico voglio usare analogie storiche - penso a quattro possibili esiti. Si potrebbe guardare alla storia del socialismo nel Ventesimo Secolo nello stesso modo con cui noi oggi consideriamo l´esperimento dei gesuiti in Paraguay. Una sorta di esotico ed isolato tentativo di costruire una società nuova basata sulla fede, qualcosa di innaturale cui guardiamo con semplice curiosità. La si potrebbe poi considerare nello stesso modo in cui pensiamo ai Levellers, l´ala più radicale della rivoluzione inglese. I Levellers posero richieste estremamente avanzate - suffragio universale per gli uomini, costituzione scritta, separazione dei poteri, elezione del parlamento, addirittura elezione dei comandanti militari - richieste che nel Diciassettesimo Secolo erano rivoluzionarie, impossibili da realizzare e che in alcuni casi non sono realizzate neanche oggi. Al contrario dei Levellers - e questo è un altro esito ancora - i giacobini raggiunsero il potere, trasformarono la Francia e brevemente anche l´Europa e furono poi sconfitti dalla Restaurazione. La loro tradizione molto rapidamente, in un paio di generazioni, si trasformò nel movimento socialista tanto che nel 1848 giacobinismo e socialismo sono fianco a fianco. Questa terza possibilità non è una transvaluation, ma una mutazione in cui anche il linguaggio - libertà, eguaglianza, fratellanza - sono simili. Un´analogia potrebbe essere fatta - e questo è l´ultimo esito possibile - anche con il liberalismo del diciannovesimo secolo, quello economico di Adam Smith e quello politico essenzialmente francese. Sono due aspetti che si fondono; agli inizi del Novecento il liberalismo nel suo duplice senso di libero mercato, libero commercio, minimo governo ma anche di libertà civili e rules of law diventa l´ideologia dominante ed egemone. La storia ci dice che questa civiltà liberale crolla nella barbarie della Prima Guerra Mondiale, nella Grande Depressione, un crollo economico ma anche morale che ha tra le sue conseguenze la nascita del fascismo in Italia e Germania, iniziata con una vittoria parlamentare. Verso la fine degli Anni Trenta si poteva pensare, molte persone intelligenti lo pensavano, che il liberalismo fosse finito: economicamente, politicamente e moralmente. Invece con la Seconda Guerra Mondiale, con il keynesismo, il liberalismo è risorto ancora più forte fino a diventare, con il neo-liberalismo, l´ideologia ovunque predominante».
E oggi?
«Viviamo per la prima volta in un mondo che può essere definito di "pancapitalismo", una parola che può riassumere il nuovo ordine mondiale. Come ha spesso osservato un brillante pensatore americano, Fredric Jameson, è diventato per la gente più facile immaginare la fine della terra che la fine del capitalismo. Comunque, dobbiamo meditare la parola profonda di un altro teorico della posmodernità, Jean Baudrillard, in un suo breve saggio pubblicato dopo l´11 settembre: "L´allergia ad ogni ordine definitivo, ad ogni potere concludente, è fortunatamente universale"».
L´Europa può rappresentare un´alternativa?
«L´idea dei padri fondatori dell´Europa come Jean Monnet era quella di creare l´unità in un´Europa indipendente dalle due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. Indipendente nell´azione ma anche nella creazione di un modello sociale differente. Se guardiamo all´Europa di oggi da una parte vediamo che il successo è andato oltre le aspettative - Monnet e gli altri avevano immaginato un´Europa occidentale, mentre oggi arriva fino a Brest - dall´altra che è molto più indietro: oggi tutti i principali Stati europei sono meno indipendenti in politica estera dagli Stati Uniti di quanto non lo fossero ai tempi di Monnet, Adenauer e de Gaulle e anche rispetto ai tempi della signora Thatcher. L´Europa unita doveva essere più forte ma non è così: se pensiamo al modello sociale, quello del lavoro, al welfare, vediamo che ci sono ancora differenze rilevanti, ma che diminuiscono in modo costante. La dottrina neo-liberista è più forte anche in Europa, manca una politica estera europea, sul Medio Oriente siamo a rimorchio degli Stati Uniti».
Lei insegna negli Stati Uniti: cosa pensa della sfida elettorale?
«Penso che Obama sarà il candidato, anche se la Clinton è ancora in gara, e che vincerà a novembre. È una figura politica inusuale per gli standard americani, per il suo essere mezzo africano. Ha una grande capacità nel ragionamento. Questa campagna mi ricorda quella del 1968 quando, dopo il ritiro di Lyndon Johnson c´erano due candidati, Eugene McCarthy e Robert Kennedy, tutti e due capaci di mobilitare e di appassionare. McCarthy era un intellettuale, Kennedy una star carismatica, tutti e due rappresentavano l´antitesi al Vietnam dell´amministrazione Johnson. Sappiamo come è andata. Kennedy vince le primarie in California e il giorno stesso viene assassinato, Humphrey domina la Convention di Chicago, ma viene battuto a novembre da Nixon. Fu un vero dramma. Oggi ci sono delle somiglianze. La Clinton è l´Humphrey del 2008, Obama in qualche modo racchiude in sé i differenti magnetismi di McCarthy e Kennedy».
Con Obama presidente che America sarebbe?
«Dalla seconda guerra mondiale tutti i presidenti americani hanno avuto grandi difficoltà nel cambiare il paese all´interno, perché il potere legislativo del presidente è limitato dai poteri del Congresso anche quando il partito del presidente ha la maggioranza. Però ha campo libero in politica estera, dove gode di un potere quasi illimitato. Certo, ci sono stati i diritti civili con Johnson o i tagli alle tasse di Reagan, ma anche questi due presidenti vengono ricordati più per il Vietnam e per il crollo del comunismo. Come Bush lo sarà per l´Iraq. Con Obama questa tradizione può essere invertita. All´estero lo spazio per una politica imperiale, in Medio Oriente o altrove, sta diventando più limitato, mentre all´interno cominicia a delinearsi una grande crisi economica e molti elettori chiedono che vengano affrontate le disuguaglianze sociali cosa che le precedenti amministrazioni - sia democratiche che repubblicane - non hanno fatto. Credo sia possibile che Obama diventi un presidente capace di cambiare più cose all´interno che in politica estera».
Si è votato anche in Italia, paese che lei conosce bene. Cosa pensa dei risultati?
«Come storico mi è impossibile non guardare senza una certa nostalgia alla prima repubblica, nata della Resistenza: un sistema politico ricco e sofisticato, con grandi partiti sia della destra e della sinistra, alti livelli di partecipazione, anni di inventività e successo economico, una cultura straordinariamente dinamica; basta pensare al cinema italiano di quel periodo. La svolta negativa avviene a metà degli anni Settanta con il compromesso storico e le sue conseguenze: il terrorismo, il conformismo, la strana carriera di Bettino Craxi in grado di bloccare la vita politica con un piccolo partito, e poi a seguire la corruzione e la criminalità. Oggi, dopo 16 anni di Seconda Repubblica, possiamo veramente dire che le cose siano - politicamente, economicamente, giuridicamente, intellettualmente - migliori? Adesso c´è l´Italia che vuole diventare un "paese normale", slogan di D´Alema e altri, cioè simile agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna. Ma chi ha inventato il termine normalizzazione? Breznev con la Cecoslovacchia. Quella ovviamente era una normalità alla sovietica, ma perché l´Italia dovrebbe diventare un simulacro mediocre degli Stati Uniti? Invece di una vera ambizione si mostra un complesso di inferiorità. Una sindrome che si è ostentata anche nella campagna elettorale con gli shows che Berlusconi ha adottato da Reagan e gli slogan che Veltroni ha ereditato da Obama, con una mancanza di immaginazione desolante. Naturalmente questa Repubblica, dove l´identità collettiva si è ridotta più o meno al campo di calcio, non è tutta l´Italia. Speriamo che la sua vita sia breve».
Corriere della Sera 23.4.08
Via ai «cittadini vigilanti» Bologna e Firenze in campo
In Emilia e Toscana si «arruolano» giovani e pensionati
di Francesca Basso
Nella città di Cofferati i volontari dovranno superare un concorso Per i vigili urbani arrivano i «bastoni distanziatori»
MILANO — Rotto il tabù della sicurezza, tema sdoganato ormai anche a sinistra, specie in campagna elettorale, ora tocca alle «scandalose» ronde padane, nuova frontiera bipartisan dei Comuni (rossi compresi) alle prese con il problema del degrado. Anche in questo caso a fare da apripista — come in altre battaglie scomode (due esempi: sgomberi e accattonaggio) — sono Bologna e Firenze. Certo, il nome è cambiato e non c'è la divisa, ma se ne parla. E si comincia pure a discutere di dotare i vigili urbani di spray urticante al peperoncino e bastoni distanziatori (definizione di sinistra) o manganelli (definizione di destra).
A Bologna preferiscono chiamarli «assistenti civici»: «Una ventina di studenti avrà il compito di vigilare sulla zona universitaria — spiega l'assessore alla Sicurezza Libero Mancuso —. Per diventare assistenti civici dovranno vincere un concorso. Saranno poi educati a garantire la loro sicurezza personale e dotati di telefonino per le emergenze». Guai, però, a ricordare le "sorelle" padane. «Non sono delle ronde e non vanno definite come tali — puntualizza Mancuso —. Non hanno un orientamento repressivo, dovranno con il dialogo coinvolgere e sensibilizzare gli altri giovani al rispetto della città». Intanto a Bologna, da meno di un mese sono in azione squadre di pensionati che controllano il Villaggio Ina, nel quartiere Borgo Panigale. Anche in questo caso il Gruppo Primavera preferisce definirsi «cittadinanza attiva». Il nome ronda lo usano ancora quelli della Lega, che vogliono arruolare volontari «per partecipare all'attività di controllo della città». Comunque, qualcosa sta cambiando a Bologna. Proprio ieri il Partito democratico ha annunciato l'ordine del giorno per la modifica del regolamento comunale per dotare i vigili di spray e bastoni distanziatori, «non manganelli » come tiene a sottolineare il capogruppo del Pd in Comune Claudio Merighi: «Il primo fa pensare alla difesa personale — argomenta —, la parola manganello al bastone fascista. Oggi abbiamo incontrato il comandante dei Vigili di Modena, dove sono già in uso, e ci ha raccontato la sua esperienza. «È ora di togliere dall'oggetto la velleità ideologica: spray e bastone sono strumenti che aiutano i vigili a difendersi ». È probabile che i consiglieri di An e FI voteranno a favore. Del resto anche ieri il leader di An Gianfranco Fini, pur prendendo le distanze dalle ronde di Maroni, ha dato la sua benedizione «ai cittadini che si organizzano per difendere il proprio quartiere, a patto che non sostituiscano le forze dell'ordine».
Un po' quello che accade a Firenze dal 2002, cioè da tempi non sospetti: i vigili urbani con il Comune hanno lanciato il progetto di «Marketing della sicurezza », che coinvolge circa seicento cittadini, selezionati, impegnati a segnalare alla polizia locale situazioni di degrado nei quartieri e a seguire progetti di rilancio, come spiega oggi il Corriere fiorentino.
«La politica delle ronde non mi convince — risponde al telefono l'assessore alla Sicurezza, Graziano Cioni —. La percezione di insicurezza dipende spesso da elementi di degrado, come scritte sui muri, lampade rotte, atti vandalici. La polizia municipale ha nei quartieri dei "partner": possono essere il barista, il parroco, il barbiere o il pensionato, che fanno rapporto e segnalano quello che non va». L'informatore dei telefilm americani? «Non sono un gruppo di spie sul territorio — mette le mani avanti Cioni —. Si tratta di una collaborazione civile». La conferma arriva da Patrizia Verrusio, vicecomandante vicario della Polizia locale di Firenze: «Dei 21 progetti avviati, come il rifacimento di piazze o il recupero di alcune aree, il 90% è stato portato a termine. La logica di invertire il meccanismo, sentendo i cittadini prima di agire ha funzionato».
Corriere della Sera 23.4.08
Scienza e morale, l'utopia del dialogo
Boncinelli: «La ricerca punta ai risultati, non ai valori». Severino:«Ma impone la sua verità»
dialogo tra EDOARDO BONCINELLI ed EMANUELE SEVERINO
Boncinelli: Credo che da nessun punto di vista possa sussistere un contrasto tra scienza ed etica, perché si tratta di discipline che si occupano di problemi diversi. Ciò che di norma viene definito come contrasto tra scienza ed etica è in realtà il contrasto tra etiche diverse, ovvero tra portatori di etiche diverse, dove la scienza non è che il fornitore degli argomenti. Cinquant'anni fa non si poteva discutere di alcune cose per il semplice motivo che non erano possibili; prendiamo l'esempio della fecondazione assistita. La scienza ha messo sul tavolo opportunità che prima non esistevano e che hanno fatto discutere; ma a discuterne non sono gli scienziati con gli eticisti: a discuterne sono i portatori di un'etica con i portatori di un'altra etica. O, per meglio dire, i portatori di un'etica con i portatori di molte altre etiche, perché ci troviamo di fronte, da una parte, a una sorta di monolite che è l'etica cattolica, e dall'altra a tutto un ventaglio di posizioni abbastanza diverse, giacché la cosiddetta etica laica in realtà è unificata solo da una maggiore tolleranza per il progresso, una maggiore attenzione agli interessi dell'individuo e da un richiamo ridotto al magistero della tradizione. Da parte laica, e non solo in Italia, ma in tutto il mondo, c'è una vastissima gamma di posizioni, tanto che la contrapposizione fatta da Giovanni Fornero nel suo bellissimo libro, Bioetica cattolica e bioetica laica, pubblicato da Bruno Mondadori, è utile ma leggermente forzata. La scienza in tutto questo non c'entra, se non, lo ripeto, come fornitrice di occasioni.
Severino: Certo, si tende ad avere questa immagine della scienza come semplice fornitrice di occasioni, o come semplice strumento in vista della realizzazione di scopi che non appartengono allo strumento ma, al contrario, vedo una profonda solidarietà tra etica e scienza. Bisogna cominciare a chiedersi il significato di queste parole. Etica è una parola greca. Non che prima dei Greci non vi fossero problemi di carattere morale, sebbene, col pensiero greco, l'etica acquista una connotazione che potremmo dire inaudita. Allora, che cos'è l'etica prima e dopo questa connotazione inaudita? I popoli vivono, e credono di poter vivere meglio se si alleano con ciò che essi ritengono sia per loro la potenza suprema, e questo è abbastanza naturale, poiché per vivere mi appoggio a ciò che ritengo stabile, capace di reggere. Allora, questo agganciarsi a ciò che si ritiene la potenza suprema è il vivere in un ambiente rassicurante. La parola etica indica appunto il luogo in cui si vive, la consuetudine. Etica vuol dire: vivere in un luogo rassicurante perché ci si trova in accordo e non in contrapposizione con la potenza. Se vivo in un luogo e so che è minacciato, e so di non avere strumenti per difendermi, vado altrove. Invece ethos in greco indica la consuetudine, che è insieme l'ambiente in cui ci si può difendere.
Ma difendersi da che cosa? Dal dolore, dalla morte, dall'angoscia, dalla sofferenza, dai pericoli. Ora, con il pensiero greco, questo atteggiamento assume una radicalità che qualificavo come inaudita: la potenza con la quale ci si allea per sopravvivere e per difendersi dal pericolo è cio che il pensiero greco chiama «verità ». Se ci si allea con una finta potenza, allora l'alleanza è insicura; è quindi inevitabile che emerga l'esigenza di allearsi con ciò che è la vera potenza, che l'ethos sia l'alleanza con la vera potenza. Ma per fare questo bisogna che cominci a esserci l'idea o il significato della parola verità. È solo perché il pensiero greco porta alla luce il significato radicale della verità, che ci può essere un'alleanza con la potenza vera.
Ora, tutto quello che abbiamo detto dell'etica dobbiamo dirlo anche per la scienza, che non è affatto quella semplice occasione di opportunità, quella neutralità rispetto agli scopi di cui tu parli. No, anche la scienza merita che si dica di essa ciò che già aveva detto Nietzsche: la scienza nasce dalla paura, così come l'etica, perché difendersi alleandosi alla potenza vuole dire cercare di andare oltre la paura.
Cio che noi oggi diciamo «scienza » è lo sviluppo di tutte le tecniche messe in atto dagli uomini per non avere paura e per riuscire a sopravvivere. Qual è l'etica della scienza? La scienza ha ed è di per sé un'etica. E perché? Perché ha quell'insieme di procedure che, soprattutto oggi, dà agli uomini la fede, la convinzione che essa sia lo strumento che più efficacemente di altri consente di allontanare la paura. Allora etica significa difendersi dalla paura alleandosi alla potenza, che oggi viene dalla scienza identificata con la potenza soprattutto tecnologica; in questo senso non c'è scissione tra etica e scienza.
Nella tradizione, la vera potenza è quella verità il cui contenuto è soprattutto il Dio, quindi la potenza di una conoscenza indiscutibile che dice in modo indiscutibile:
il vero potente è Dio. Oggi non si dice piu così, anche se si dice una cosa simile; è cambiato il protagonista, è cambiata la qualifica del potente. Oggi il vero potente è la tecnica. La tecnica è l'erede della funzione di rassicurazione che nella tradizione veniva compiuta da Dio.
***
Boncinelli: Oggi si parla tanto di dialogare. Ma un vero dialogo, non formale e con pieno intendimento delle ragioni dell'uno da parte dell'altro, è raro e difficile. Forse appartiene alle tante favole della modernità. Si parla in particolare di dialogo fra scienza e filosofia. Non so se la scienza possa dialogare con la filosofia, ma certo io non posso dialogare con i filosofi, anche i più vicini a me per formazione e convinzione, almeno con quelli che conosco, salvo pochissime eccezioni.
La spiegazione che mi sono dato invoca la diversa natura della vocazione di chi si dedica alla scienza e di chi si dedica alla filosofia. Lo scienziato vuole raggiungere qualche conclusione, anche se provvisoria e incompleta, su temi che possono essere considerati di nessuna rilevanza (a parte il fatto che la scienza, e non le elucubrazioni teoriche, ha cambiato il mondo, anche se questo non piace a tutti). Al contrario, il filosofo vuole mettere tutto in discussione, vuole trovare il pelo nell'uovo — che c'è sempre, perché la conoscenza perfetta non è di questo mondo — e in definitiva non lasciare più niente in piedi. D'altra parte, non c'è concetto che, discusso a lungo, non perda ogni significato. Volendo, si può completare il quadro con un altro elemento di distinzione. Lo scienziato sperimentale sa fin dall'inizio che da solo non potrà mai fare niente. Al massimo potrà aspirare a dare un contributo che, unito a quello di tanti altri, porterà a qualche risultato, teorico o pratico. Di conseguenza, costui può anche essere un mediocre, anche se nessuno ammetterà mai di buon cuore di esserlo. Il filosofo, invece, o si limita a fare lo storico della filosofia, o pensa di dare un suo contributo. Ogni filosofo aspira a essere un grande filosofo. Aggiungerei infine che, a differenza di quella del filosofo, la visione dello scienziato sui fenomeni da studiare è intrinsecamente e irrimediabilmente locale. Quando aspira alla globalità, in genere in tarda età, fa quasi sempre della cattiva filosofia, anche se si chiama Albert Einstein. È chiaro che il modo di porsi davanti a tutte le questioni, risulta molto diverso nei due casi.
Severino: Da sempre, ma soprattutto nell'età moderna, ciò che si dice «scienza» è specializzazione, che separa un certo campo di oggetti, o di cose, da tutti gli altri e lo analizza in base a precisi criteri e metodi. Per lo più, l'analisi del significato della specializzazione — cioè del separare e dell'isolare — non rientra nello stesso campo. Non vi rientra quindi nemmeno l'analisi del senso della totalità, dalla quale la specializzazione isola il proprio campo. Queste analisi appartengono, da sempre, alla filosofia. Quando uno scienziato considera i rapporti tra il proprio campo e la filosofia, non parla dunque in nome della propria disciplina. Si porta sul piano della filosofia, con maggiore o minore coscienza; vi si porta inevitabilmente — e, d'altra parte, anche quando si chiude nel proprio terreno, si appoggia pur sempre a qualcosa che gli è esterno, cioè al senso che il pensiero filosofico ha attribuito alla «cosa», all'oggetto.
Anche gli individui seguono (e tradiscono) certe specifiche regole di comportamento. In questo senso delimitano a loro volta un dominio particolare di cose, sono essi stessi, gli individui, specializzazioni. Si muovono però sempre, volenti o nolenti, all'interno delle grandi regole etiche seguite (e tradite) dai popoli a cui appartengono. Anche quando danno risalto alle proprie regole di comportamento, in qualche modo percepiscono la scacchiera greca su cui giocano la vita e su cui ormai tutte le vite si avviano a essere giocate.
Ma se oggi nemmeno a uno scienziato è consentito dominare l'intera ricchezza della propria disciplina, come può pretendere la filosofia di comprendere addirittura il fenomeno scienza nel suo insieme? O di comprendere la «storia dell'Occidente»? La filosofia del nostro tempo tende a rispondere che questo è impossibile. E, infatti, se le cose vengono dal nulla e vi ritornano, sono essenzialmente estranee le une alle altre, cioè non può esistere né essere conosciuto alcun principio che le unifichi. Il senso greco della «cosa» sta al fondamento di ogni separare, isolare, specializzarsi dell'Occidente. Oggi quel senso si esprime nell'affermazione che il mondo intero è un insieme di frammenti e che la conoscenza autentica è specializzazione. Senonché, anche questa affermazione getta uno sguardo sul mondo; e non su una parte di esso, ma sul mondo intero e pertanto è anch'essa uno sguardo unificante: scorge l'essenza unificante del mondo e vede che questa essenza è la frammentarietà stessa del mondo, la stessa divisione delle cose. Ciò significa che, in qualche modo, la manifestazione del senso unitario del mondo è inevitabile; e che tale manifestazione continua a essere il compito della filosofia.
Corriere della Sera 23.4.08
Controversie Un antropologo contro tre mostri sacri: in Asia e Cina non regnò soltanto l'immobilismo
La storia rubata dagli europei
Jack Goody accusa: Needham, Elias e Braudel malati di etnocentrismo
di Dino Messina
Abbiamo rubato la storia. Ma il furto, il più colossale che si possa commettere, non è stato mai scoperto, anche perché a cancellare le tracce hanno contribuito i più grandi pensatori dell'Occidente. È questa la tesi che espone l'antropologo inglese Jack Goody, nel saggio appena uscito da Feltrinelli, che si intitola appunto Il furto della storia (pagine 416, e 38), in cui il professore emerito dell'Università di Cambridge cerca di smontare la presunzione etnocentrica degli europei. Perché è l'eurocentrismo, secondo Goody, la malattia cronica della nostra cultura. Un morbo che, in virtù del grado di sviluppo acquisito dal vecchio continente a partire dal Rinascimento, ci fa ridimensionare il passato delle altre civiltà, in primis quelle asiatiche. Un errore prospettico che ci porta a considerare la nostra civiltà come superiore e ci fa sottovalutare il pericolo di declino e la concreta possibilità che l'egemonia culturale ed economica del mondo possa avere un altro baricentro.
All'origine del pregiudizio moderno, troviamo una serie di grandi personalità: Johann Winckelmann, che esaltò «la tradizione artistica della Grecia come l'unica capace di esprimere il vero ideale della bellezza»; il linguista Karl Wilhelm von Humboldt, «che giudicò la lingua dei cinesi inferiore»; Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il quale pensava «che la Cina rappresentasse il livello evolutivo più basso del mondo».
Ma la parte più stimolante del saggio è quella in cui Goody sottopone a dura critica le tesi di tre grandi storici: tre maestri del Novecento che rappresentano l'apice della cultura e del politicamente corretto. Invece, secondo l'impertinente decano dell'antropologia britannica (Goody è del 1919), anche personalità come Joseph Needham, Norbert Elias e Fernand Braudel hanno partecipato al «furto della storia» ai danni di altre civiltà in nome dell'eurocentrismo. L'unico peccato è che i tre grandi non possano rispondere, perché sono scomparsi.
Joseph Needham (1900-1995), il biologo inglese che più di ogni altro ha contribuito alla conoscenza della cultura cinese con la sua opera enciclopedica,
Scienza e civiltà in Cina, ricade tuttavia secondo Goody «nei luoghi comuni storiografici sull'unicità del Rinascimento e sulla nascita della borghesia, della modernizzazione, del capitalismo e della scienza, appunto, "moderna"». Needham è lo studioso che ci ha fatto capire, scrive Goody, quanto la Cina sia arrivata prima dell'Europa a molte scoperte tecnico-scientifiche, tuttavia condivide il pregiudizio dell'euromarxismo «sull'assenza di una borghesia in Cina» e vede «il capitalismo come un fenomeno specificamente europeo». Per Goody invece «la borghesia era un fenomeno internazionale » e la straordinarietà del Rinascimento europeo, reso possibile anche e soprattutto grazie agli scambi internazionali, non ci deve far sottovalutare le altre civiltà e la possibilità di assistere a «rinascenze» future che potrebbero sorprenderci.
Più diretto e sorprendente è l'attacco a Norbert Elias (1897-1990), il raffinato autore del Processo di civilizzazione e della Civiltà delle buone maniere. Al centro della discussione, anche in questo caso, il periodo del Rinascimento e dell'assolutismo, in cui, secondo il sociologo tedesco, accanto allo Stato sovrano, alla borghesia e all'economia di mercato si sono affermati i valori della bellezza, ma anche dell'igiene e dell'ordine. Per Goody, uno dei limiti dell'analisi di Elias sta nel non prendere in considerazione la storia di nessun'altra parte del mondo. Perché così avrebbe scoperto che alcune conquiste delle buone maniere si affermarono anche in altre parti del mondo: l'uso dei bastoncini a tavola, la cerimonia del tè, ma anche l'uso della carta per fini igienici, quando nel romanzo di Rabelais Gargantua raccontava di essersi pulito «con la salvia, il finocchio, l'aneto, la maggiorana, le rose, le foglie di zucca». Per non dire che fra il XV e il XVII secolo l'Occidente ha conosciuto anche per motivi religiosi una diminuzione dei bagni di pulizia, considerati peccaminosi. Invece, per fare un esempio, nella città persiana Isfahan alla fine del XVI secolo si contavano 273 bagni pubblici. Il furto della storia non riguarda tuttavia soltanto le società asiatiche, ma anche quelle africane, quando Elias parla di «senso di colpa» per la società borghese occidentale e di semplice «sentimento di vergogna» per le società primitive del Ghana, allo scopo di sottolineare il diverso grado di sviluppo che avrebbe ripercussioni anche sulla psiche degli individui.
Il compito più arduo Goody se lo assume nella contestazione di Fernard Braudel (1902-1985), il gigante della storiografia francese, fondatore delle Annales, che nei tre volumi del suo lavoro più importante, Civiltà materiale, economia e capitalismo, commette secondo il suo critico l'errore di annettere all'Europa il capitalismo. Intendiamoci, Goody esprime tutta la sua ammirazione per il genio di Braudel, ma non si può non notare che le sue fonti siano «inevitabilmente soprattutto europee » e portatrici di un pregiudizio eurocentrico. L'Europa viene considerata dal francese al centro di tutte le innovazioni anche quando scopriva bevande eccitanti che in realtà provenivano da altri mondi: il caffé arabo, il tè cinese, il cioccolato messicano. Un pregiudizio simile a quello di Elias si riscontra quando Braudel parla delle abitudini quotidiane, considerando per esempio il monotono abbigliamento cinese un sintomo dell'immutabilità sociale. Ancor più grave, secondo Goody, l'errore di Braudel quando questi attribuisce il capitalismo finanziario alla sola Europa, trascurando alcuni periodi della storia asiatica.
La visione antropologica è parte essenziale della critica storica di Jack Goody, che nella migliore tradizione britannica ha un grande gusto per la controversia intellettuale.
Corriere della Sera 23.4.08
Polemiche Il padre del pensiero debole difende il collega accusato di plagio: anche San Tommaso riprende Aristotele
Vattimo: «Che torto ha Galimberti? Filosofare è copiare»
di Pierluigi Panza
F ilosofare è un po' copiare: Averroé e San Tommaso copiavano da Aristotele; Plotino da Platone e così via. «Che male c'è?», che novità è se Umberto Galimberti ha preso frasi da altri studiosi, come Giulia Sissa? O da Salvatore Natoli (come denunciato ieri dall'Avvenire), e li ha inseriti in un suo testo? Già Harold Bloom, in un libro intitolato La Cabbala e la tradizione critica
aveva sostenuto che ogni pensiero è il travisamento di un precedente; ora lo sostiene Gianni Vattimo come estrema forma di difesa del collega filosofo Umberto Galimberti. «Capisco se fossimo scienziati in corsa per il Nobel e ci rubassimo i brevetti per curare il cancro… ma i nostri sono solo pensieri». Robetta, insomma.
Eppure i passi pubblicati da Natoli su Il sapere antropologico nell'86 e finiti in Gli equivoci dell'anima di Galimberti nell'87 sembrano copiati... «Molti dei passi citati su Avvenire ieri mi sembrano poco probanti. Solo la prima comparazione è un po' scandalosa», afferma Vattimo. Leggiamola: «Rivolgendosi alla propria interiorità, l'anima guadagna profondità. Ma la profondità è l'insieme l'estremamente distante dal sensibile » (Natoli). «Rivolgendosi alla propria interiorità, l'anima guadagna in profondità che è insieme l'estremamente distante dal sensibile» (Galimberti). Insomma, sembra copiato. «Ma bisogna vedere se il progetto del libro di Galimberti è identico a quello di Natoli. Io spero di non aver mai fatto così. Ma non mi stupirei». Cioè, nella sua opera omnia che sta pubblicando in 40 volumi c'è qualcosa di copiato? «Non so. Sono commenti a Nietzsche e Heidegger, ma sono miei e non condivisibili. Guardi che colleghi di Filosofia, presidenti di commissioni, hanno passato la vita a copiare se stessi». Beh, lo diceva anche Sartre che i professori «ripetono tutta la vita la propria tesi di laurea». «Si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione di Galimberti è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle».
Ma la citazione delle fonti? «Il sapere umanistico è retorico. Non dico che sia aria fritta, ma è tutto argomentativo. Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nei saperi umanistici, dal diritto e alla teologia, è tutto un un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da se stesso». Almeno i primi leggono… L'ermeneutica ha accentuato questi atteggiamenti? «Nelle scienze empiriche uno parte da Lavoisier e va avanti per accumulo. Le scienze dello spirito sono volatili. Odifreddi ci accusava di dire sciocchezze, ma poi confessò che i matematici le dicevano meglio».
Forse anche il «pensiero debole» ha spinto verso questa filosofia? «No il "pensiero debole" non si prende nemmeno la briga di copiare. Nel romanzo è più facile notare il plagio. Ma nel caso della riflessione filosofica non ha senso». Infatti la Mazzucco venne beccata copiare da Tolstoj; in filosofia il plagio è derubricato. Conclusione di Vattimo: «Magari la mia difesa è anche politica, ma non è così scandaloso. Tesi di laurea simili non mi farebbero né caldo né freddo ».
il Riformista 23.4.08
SANS-PAPIERS. TRA GLI ORFANI DEL BERTINOTTISMO C'È ANCHE L'UOMO DELLA NOTTE RAI
La Porta se la prende con la sinistra ingrata e dialoga con la Lega
di Tommaso Labate
Gabriele La Porta. L'uomo della notte Rai e la notte della sinistra. La sua amicizia con Fausto Bertinotti. «È vero, io sono un grande amico di Fausto. Sa che le dico? Che senza di lui, la Sinistra avrebbe preso l'1 per cento. Naturalmente, è un'opinione personale», dice La Porta al Riformista . Fausto, adesso, se n'è andato. S'è ritirato. «Secondo me, purtroppo, la sua è una decisione definitiva. Senza di lui la Sinistra sarà senz'altro più povera e molto meno colta». Dentro Rifondazione volano gli stracci. La linea di Bertinotti è stata sconfessata dal comitato politico nazionale. La maggioranza, per adesso, ce l'hanno Paolo Ferrero e i suoi. «E secondo me è una maggioranza di carta. Si vedrà al congresso... E comunque Vendola è uno che ha i numeri per sostituire Fausto. Lo sa com'è Nichi, no? Emozionato ed emozionante».
Intanto, però, Bertinotti non viene considerato più il padre nobile. Di più, il presidente della Camera è sul banco degli imputati. «In questo momento - sottolinea La Porta - vedo in giro molta ingratitudine. Quanti ingrati... Le ripeto: se non c'era Fausto questi stavano sotto l'1 per cento». Il rischio di una guerra civile a Sinistra è uno spettro ancor peggiore della sconfitta, forse. «Condivido pienamente», replica La Porta.
Le ragioni della batosta elettorale? L'uomo della notte Rai mette in fila, «il governo Prodi che non ha migliorato le condizioni delle fasce medio-basse della popolazione, il rigore eccessivo, magari anche l'inchiesta su Pecoraro Scanio». Già, Pecoraro Scanio. «Per carità - spiega - io sono un garantista e ho grande fiducia nella giustizia. È anche possibile che queste inchieste si concludano con un nulla di fatto, com'è capitato anche a Mastella. Di certo, qualche voto ce l'hanno fatto perdere». Poi c'è la sicurezza. «A Sinistra, nessuno ci ha capito niente. Me compreso», dice La Porta. «I cittadini a rischio sono i più poveri, non i ricchi. Quelli che vivono in periferia, non in centro».
E intanto la Lega è passata all'incasso. Voto operaio, voto popolare. Il Carroccio, poi, è un antico pallino di La Porta, che ebbe una fase "leghista". «Ho lavorato a Milano e Torino. Ho imparato a conoscerli bene, loro». Loro sono quelli in camicia verde. «Quando li vedi da vicino, capisci che sono molto diversi da come sembrano». Forse la Tv deforma. A sentire l'uomo della notte Rai, «è il linguaggio televisivo che cambia la realtà. In politica, molti pensano che basta stare in televisione. E invece, oltre a frequentare gli studi televisivi, bisogna andare tra la gente. L'esempio del Carroccio è perfetto: stanno poco in tv e prendono un sacco di voti». Al contrario di Bertinotti, direbbero i maligni. «Non è vero. Fausto è uno dei pochi che a Sinistra sa stare ancora tra la gente. Certo, va spesso anche in Tv. Ma non ha mai trascurato il popolo».
I sans-papiers della Sinistra si dividono. «Io non mi sento un sans-papier», ribatte La Porta. Nel fuggi fuggi generale, c'è chi guarda al Pd come a un miraggio. «Il Pd è senz'altro un partito progressista. E per me non è un nemico», risponde l'uomo della notte Rai. Che vorrebbe una sinistra dialogante con la Lega. «Io non sono un politico né voglio farlo. A mio avviso, però, bisognerebbe dialogare con tutti. Se vogliamo il bene delle fasce deboli della popolazione, la Lega è senz'altro un ottimo interlocutore». Costola della sinistra? «Lo è già stata - insiste La Porta -. Se lo ricorda il '95?». Berlusconi torna a palazzo Chigi. E quelli di viale Mazzini col cuore a sinistra che fanno? Tremano? Così La Porta: «Io faccio il direttore da quattordici anni. I governi sono cambiati e io sono sempre rimasto al mio posto. E giuro che nessuno mi ha mai detto quello che dovevo o non dovevo fare».
Gabriele La Porta. L'uomo della notte Rai e la notte della sinistra. «Io seguo il popolo della notte e sono uno storico della filosofia. In alchimia la notte è un elemento importantissimo. La nigredo che porta all'albedo. La notte porta all'alba. Non c'è alba se non c'è notte. Tutte le trasformazioni più importanti arrivano durante la notte. La Notte, per la Sinistra, può essere una grande occasione». Applausi. Cala il sipario.