mercoledì 23 aprile 2008

l’Unità 23.4.08
La destra al potere. Negare il 25 aprile
di Eduardo Di Blasi

Dal Giornale di Berlusconi parte l’attacco. Veltroni: festa di tutti gli italiani
Prima il sindaco (Pdl) di Alghero che vieta “Bella Ciao”. Poi l’attacco del “Giornale” di famiglia che bolla il 25 Aprile come ricorrenza che divide e la sindaca Letizia Moratti che fa sapere che alla manifestazione di venerdì a Milano non ci sarà. Infine Gustavo Selva (Pdl) che ne propone l’abolizione. La Destra ha rimesso nel mirino la festa della Liberazione dell’Italia dall’oppressione nazista e fascista. Proprio nel 60esimo anniversario della Costituzione e 70 anni dopo che il fascismo emise le leggi razziali per sterminare gli ebrei. «Il 25 Aprile - ricorda Veltroni - è la festa di tutti gli italiani»

LA LIBERAZIONE vista da destra diventa una «festa di parte», una data «che divide». Il nuovo epigono è un sindaco di Alghero che non vuol sentire «Bella ciao» (anche questa «canzone che divide») e che considera «estremista di sinistra» chi, durante la manifestazione alzi «i pugni al cielo»
Titolo: «Il 25 aprile che divide». Primo svolgimento, a cura di Giordano Bruno Guerri: «Un italiano su due non la considera una festa nazionale» (articolo a commento di un sondaggio somministrato a mille persone). Seguono intervista al sindaco di Alghero «che ha vietato Bella Ciao», e non da ora (e per questo si appunta una medaglia sul petto), un altro pezzo sul sindaco di Milano che quest’anno diserta il corteo («e anche il primo maggio» perché non sarà in città, ma, assicura, ci sarà una rappresentanza della giunta), e due articoli contro l’Anpi, l’associazione dei partigiani. Nel primo l’attacco è al manifesto unitario delle associazioni combattentistiche e partigiane, reo di contenere l’appello: «A sessant’anni dal 1° gennaio 1948, da quando essa entrò in vigore, l’Italia sta correndo nuovi pericoli. Emergono sempre più i rischi per la tenuta del sistema democratico, come evidenti si manifestano le difficoltà per il suo indispensabile rinnovamento. Permangono, d’altro canto, i tentativi di sminuire e infangare la storia della Resistenza, cercando di equiparare i “repubblichini”, sostenitori dei nazisti, ai partigiani e ai combattenti degli eserciti alleati». Il secondo descrive i circoli dell’Anpi come «circoli ricreativi, veri e propri dopolavori con annessi ristoranti, club sportivi, scuole di arti orientali», e annota, mentre spiega il tesseramento dei ragazzi che tengano alta la memoria della Resistenza una volta che i partigiani non ci saranno più: «Salvare l’Anpi significa salvare i fiumi di euro che arrivano dalle casse pubbliche».
Sono due pagine de «Il Giornale», il quotidiano di Paolo Berlusconi (il fratello del primo ministro che mai si è visto ai festeggiamenti del 25 aprile), andato in edicola ieri. Due pagine che andavano sotto l’ambiguo titoletto: «L’Italia degli irriducibili». Dove non si comprendeva se fossero «irriducibili» (termine terroristico-curvaiolo) coloro che si ostinano a festeggiare la Liberazione o il sindaco di Alghero che alla domanda: «E se qualcuno nel corteo intona Bella Ciao?», risponde: «Non succede assolutamente nulla, a meno che non ci sia qualche estremista di sinistra che cominci ad alzare i pugni al cielo. Ma non sono io a giudicare, se ci sono gli estremi della provocazione interverranno le forze dell’ordine». Intanto Gustavo Selva, senatore uscente del Pdl (quello che ha adoperato un’ambulanza per presenziare in una trasmissione tv in un giorno di blocco del traffico), propone «l’abolizione della festa nazionale del 25 aprile» in quanto, dal suo punto di osservazione “privilegiato” («ho vissuto dal 1943 al 1945 a Riolo Terme in provincia di Ravenna dove è finita la seconda guerra mondiale») osserva: «L’attività dei partigiani è emersa solo dopo il 25, ma sul piano militare hanno fatto solo dei danni. Per esempio l’uccisione di un soldato tedesco che stava magari pascolando qualche animale, ucciso da quelli che dopo il 25 aprile sono stati definiti eroi della Resistenza, a cominciare da Arrigo Boldrini che io ho conosciuto nella sua attività». È la stessa riscrittura della storia di cui parla l’appello dell’Anpi. Confondere la Liberazione con qualcosa di diverso dalla fine della guerra mondiale e del giogo fascista sull’Italia. Lo afferma chiaro il segretario del Pd Walter Veltroni: «Il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani, per ricordare il giorno in cui è stata restituita la libertà di dire ciò che si pensa, la libertà di votare, la libertà di stare in un partito, di fare un sindacato e di essere ebrei senza finire in un campo di sterminio. Non ci deve essere nessun italiano che considera questo giorno altro che una festa di tutti gli italiani, la festa della Liberazione».

l’Unità 23.4.08
I 99 anni della Montalcini: il male mi ha portato il bene
Compleanno del Premio Nobel che ricorda le persecuzioni razziali: giovani, abbiate fiducia

Compleanno del Premio Nobel che ricorda le persecuzioni razziali: giovani, abbiate fiducia
All’età non ha «mai dato importanza», così come ai festeggiamenti di compleanno, dichiarava lo scorso anno al traguardo dei suoi 98 anni. E anche ieri, che di candeline ne ha spente 99, il Premio Nobel per la Medicina e senatrice Rita Levi Montalcini non ha smentito il suo credo: è andata a lavorare in laboratorio, come tutti i giorni, per poi proseguire con un impegno pubblico, mentre dalla mattinata numerosi auguri giungevano da più parti.
Nella sede della Fondazione European Brain Research Institute (Ebri) da lei creata tre anni, ha ricevuto gli auguri di Francesco Rutelli. «Se guardo indietro, penso di avere avuto una vita fortunata», gli ha detto. «Il male - ha proseguito la Montalcini - mi ha portato il bene» e il suo pensiero è andato ai giorni delle persecuzioni razziali, quando era costretta a stare nascosta in camera da letto. Poi ha ricordato le ricerche che, con la scoperta del 1986, l’hanno portata al Premio Nobel per la Medicina. «Per prima cosa - ha detto - voglio dire ai giovani disinteressatevi di voi stessi e pensate agli altri. Ma la cosa più importante è: abbiate sempre fiducia, non abbiate paura neanche nei momenti difficili, perchè, come è successo anche a me, dopo, verranno tempi migliori».
«Vorrei essere viva, per poter assistere allo sviluppo fondamentale delle scoperte da me fatte 50 anni fa», ha confidato al candidato del centrosinistra a sindaco di Roma Rutelli. Il clima dell’incontro è stato quello di due vecchi amici, che si sono tenuti per tutto il tempo mano nella mano. Rutelli, che le ha fatto dono di una composizione di fiori e del catalogo appena edito della Galleria nazionale di Arte antica, l’ha ringraziata perchè, ha detto, «fin dall’inizio sei stata amabilissima con me e tanto importante anche nella precedente esperienza di sindaco». La Montalcini si è informata su come stesse andando la campagna elettorale e Rutelli non ha nascosto che si tratta di «una battaglia impegnativa».
Alla Premio Nobel sono arrivati, tra gli altri, gli auguri del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano («per una ricorrenza che la vede sempre così fervidamente e operosamente impegnata per la scienza e per il paese»), di Prodi, che l’ha ricevuta a Palazzo Chigi dove hanno festeggiato con un brindisi. Auguri anche da Veltroni, Bertinotti, Marini. Una calorosa lettera di auguri è stata inviata alla Montalcini da Michail Gorbaciov, presidente della Croce Verde internazionale, che ricopre anche il ruolo di presidente d’onore di Green Cross Italia e di consigliere dello stesso Gorbaciov.

l’Unità 23.4.08
Sinistra, il doloroso addio di Mussi
Con una lettera le dimissioni da coordinatore di Sd. «Necessario un ricambio generazionale»
di Simone Collini

AVEVA FATTO INTUIRE le sue intenzioni all’indomani della sconfitta elettorale, dichiarandosi «politicamente corresponsabile del disastro» e annunciando: «Ne trarrò le conseguenze». Ieri Fabio Mussi ha ufficializzato la decisione di dimettersi da coordi-
natore di Sinistra democratica, con una lettera inviata al direttivo del movimento, riunito a Roma per analizzare il voto di dieci giorni fa e per pianificare le strategie future. La riunione, nove ore a porte chiuse all’ex hotel Bologna, si è aperta proprio con la lettura delle righe scritte dal ministro uscente, lontano per via di accertamenti medici dovuti al trapianto di reni di pochi mesi fa. Nella lettera, Mussi ha sottolineato la coincidenza tra la sua delicata situazione personale e la débâcle elettorale: «In questo momento la sinistra ha bisogno del massimo impegno e di un vero rinnovamento», è il messaggio dell’ex leader del Correntone ai suoi. «Non potendo garantire, per motivi indipendenti dalla mia volontà, il contributo necessario e volendo favorire un rinnovamento anche generazionale, lascio l’incarico di coordinatore».
Un passo indietro, che però Mussi accompagna a un’esortazione: bisogna rilanciare il percorso costituente a sinistra e si deve andare «comunque» verso un ricambio generazionale di tutti gli organismi dirigenti. Posizione condivisa dalla maggior parte degli interventi che sono seguiti, e che è stata poi ribadita in un documento approvato alla fine dei lavori. Nel testo si legge che impegno di Sinistra democratica, in prospettiva, è quello di dar vita a «una sinistra unita e rinnovata» che un domani porti a «un centrosinistra nuovo». E che per far questo, nell’immediato, bisogna avviare una campagna d’ascolto sui territori. Perché, come è stato sottolineato in più di un intervento, una delle lezioni da trarre da questo voto è che non si può pretendere di rappresentare istanze e bisogni per intuizione, senza passare per l’ascolto.
Ma non è solo questa la causa sconfitta. Marco Fumagalli, che insieme ai capigruppo uscenti Titti Di Salvo e Cesare Salvi traghetterà sinistra democratica fino all’elezione del successore di Mussi, punta il dito contro il fatto di non essere riuscita a comunicare il progetto politico di una sinistra di governo e di essere apparsa un semplice cartello elettorale. Concetto su cui ha insistito anche Salvi, per il quale alla lista rosso-verde «è mancata la capacità di persuadere e di presentarsi con parole d’ordine chiare». Il capogruppo uscente di Sd al Senato ritiene che il lavoro da fare nelle prossime settimane sia quello di lavorare con le altre forze di sinistra, socialisti compresi. Ma c’è anche altro da fare. La sua convinzione è infatti che in Sd «è necessario un percorso democratico che finora non c’è stato». Posizione tornata in vari interventi, anche se poi, quanto alle soluzioni prospettate, non è emerso un univoco orientamento.
La prima prova in questo senso sarà comunque la scelta del successore di Mussi. L’intenzione prevalente è di farlo eleggere già alla riunione del comitato promotore di Sinistra democratica, convocato per il 10 maggio. Candidature non sono venute alla luce e ogni ipotesi al momento è prematura. Quanto a una più ampia consultazione di iscritti e anche simpatizzanti, Sd dovrebbe darsi appuntamento dopo il congresso di Rifondazione comunista. L’auspicio è che a ottenere la maggioranza sia l’asse Bertinotti-Vendola, favorevole a una costituente della sinistra, e non quello Ferrero-Grassi, per i quali va rilanciato il carattere identitario del Prc. Carlo Leoni non fa mistero che il percorso che dovrà dispiegarsi nelle prossime settimane «porta alla costituente della sinistra al fianco di Rifondazione e quanti ci stanno». Altre prospettive, riguardanti una confluenza nel Pd, vengono invece escluse dal vicepresidente della Camera: «Noi ci siamo, siamo qui». E anche Fumagalli smentisce voci di un avvicinamento al Pd: «Noi investiamo sulla nuova sinistra». Intanto, però, oggi si riuniscono a Roma Cialente, Nerozzi, Crucianelli e altri fuoriusciti recentemente da Sd. Spiega Vincenzo Vita che presto l’associazione “Sinistra per il paese” potrebbe varare una Fondazione, che sia «parte costitutiva del Pd e che sappia però anche dialogare con l’esterno». Un ponte lanciato verso gli ex compagni? Dice Giulia Rodano: «Per il momento non se ne parla».

l’Unità 23.4.08
Aborto, meno interventi ma è boom di obiettori
La relazione del ministero della Salute: Ivg in calo del 3%, il 70% dei ginecologi dice «no»

CONTINUA A CALARE il numero degli aborti in Italia (-3% nel 2007 rispetto al 2006), e in particolare tra le donne italiane. Tuttavia il fronte del no all’aborto tra i
medici ha segnato un vero e proprio boom: i ginecologi obiettori nel 2007 hanno raggiunto quasi il 70% (69,2%), contro il 58,7% del 2003: su 5462 ginecologi che lavorano in strutture in cui si effettuano aborti, solo 1682 non sono obiettori. Sono i dati contenuti nella relazione annuale 2006-2007 sull’applicazione della legge 194, inviata ieri al Parlamento dal ministro della Salute Livia Turco, che ha definito la legge 194 «efficace, saggia e lungimirante», ricordando che «la sua applicazione può essere ulteriormente migliorata». Il ministro ha sottolineato la necessità di potenziare i consultori, che sono solo 0,7 ogni 20mila abitanti, mentre la legge ne prevede 1 ogni 20mila. La Turco raccomanda anche di «monitorare» l’offerta della prestazioni in relazione all’aumento delle obiezioni, al fine di garantire in tutte le Regioni l’accesso al servizio, anche attraverso «la mobilità del personale». La crescita delle obiezioni, infatti, è stata molto marcata in particolare nel Sud, con punte in alcune regioni come la Campania (dal 44,1% di obiettori all’83%), e la Sicilia (dal 44,1% al 84,2%). A porre ostacoli alle donne, sono però anche gli anestesisti (dal 45,7% al 50,4% di obiettori), e il personale non medico (dal 38,6% al 42,6%). Secondo Giorgio Vettori, presidente della Sigo (Società italiana di ginecologia), i medici operativi «sono sufficienti» per far fronte alla domanda. «Il problema semmai è organizzativo, faremo un’indagine attenta per verificare se c’è la necessaria copertura in tutto il Paese». Più critico Silvio Viale, ginecologo ed esponente radicale, secondo cui ormai la legge 194 è «a rischio». Giovanni Monni, presidente dell’Associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi), spiega così l’impennata delle obiezioni: «I ginecologi preferiscono fare un parto rispetto ad un aborto, non solo per le implicazioni etiche, ma anche perché nei concorsi questo intervento dà meno punteggio». E poi, dice Monni, «possono aver influito tutte le campagne contro l’aborto: i ginecologi spesso seguono le mode». Infine, pesano le dichiarazioni pro-vita «di molti direttori generali e assessori alla Sanità». Nel 2007 gli aborti sono stati 127.038 contro i 131.018 casi del 2006 (-3%); rispetto al 1982, anno in cui ci sono stati 234.801 casi, il decremento è del 45,9%. Tuttavia il calo è da imputare soprattutto alle donne italiane (- 3,7% rispetto al 2005), soprattutto se istruite, occupate o coniugate, mentre tra le straniere il ricorso all’aborto continua a salire (+ 4,5% rispetto al 2005). Corretta al ribasso la stima degli aborti clandestini: nel 2005 sono stati 15mila e non 20mila. Stabile il numero degli aborti terapeutici effettuati dopo il 90° giorno di gravidanza, nel 2006 pari al 2,9% del totale. Rimane invece sul terreno della sperimentazione l’aborto farmacologico con la pillola RU486: dal 2005 al 2007 ci sono stati solo 2353 casi. Sei le regioni coinvolte: Piemonte, Trentino, Toscana, Emilia Romagna, Marche, Puglia.

l’Unità 23.4.08
Yael Dayan. La scrittrice ed ex parlamentare laburista: Meshaal non riconoscerà Israele ma ammette il referendum su un accordo, è già un primo risultato
«Da israeliana sto con Carter: trattare anche con Hamas»
di Umberto De Giovannangeli

«Da israeliana sto con Carter: trattare anche con Hamas»
di Umberto De Giovannangeli
«Conosco molto bene Jimmy Carter e so quanto gli stia a cuore il futuro di israeliani e palestinesi, e so che ogni sua iniziativa è volta a dare un contributo per il raggiungimento della pace. Per questo reputo ingenerose sul piano personale e sbagliate su quello politico, le chiusure del governo Olmert al suo tentativo di aprire uno spazio di dialogo con Hamas». A parlare è Yael Dayan, scrittrice israeliana, più volte parlamentare laburista, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei Giorni (1967): il generale Moshe Dayan.
Il «viaggio di studio» in Medio Oriente dell’ex presidente Usa Jimmy Carter ha suscitato, specie in Israele, dibattito e polemiche.
«Reputo le accuse rivolte al presidente Carter ingenerose sul piano personale e sbagliate su quello politico. Alla base dell’iniziativa generosa di Carter c’è una presa d’atto che condivido pienamente: può piacere o no, e a me certo non fa piacere da israeliana, da donna, e da laica, ma è indubbio che Hamas è parte del popolo palestinese con la quale Israele deve fare i conti politicamente, smettendo di illudersi che esistano scorciatoie militari per la soluzione del problema. Carter ha il merito di aver costruito su questo assunto una iniziativa politica che sembra aver dato dei primi risultati».
A cosa si riferisce?
«All’accettazione da parte dei leader di Hamas di un referendum popolare cui sottoporre un eventuale accordo di pace raggiunto da Israele e dall’Autorità nazionale palestinese del presidente Abu Mazen. A me pare un fatto politico significativo che Israele farebbe bene a non sottovalutare».
Il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, ha ribadito che Hamas non intende riconoscere lo Stato d’Israele…
«È vero, ma è altrettanto vero che in quella stessa dichiarazione Meshaal ha affermato che Hamas accetta la costituzione di uno Stato indipendente palestinese sui territori occupati nel 1967: una affermazione che confligge apertamente con il dettato jihadista, riproposto dal presidente iraniano Ahmadinejad e dai capi di Al Qaeda, che esplicita l’obiettivo della cancellazione di Israele dalla cartina del Medio Oriente».
C’è chi le ribatterebbe che quella di Meshaal è solo una mossa tattica.
«Se è così perché non verificarlo? La mia non è un’apertura di credito "al buio" ad Hamas. Ciò che sostengo è che Hamas va affrontata e sconfitta sul piano politico, agendo sulle sue contraddizioni interne, sapendo peraltro che se si vuole raggiungere almeno un cessate il fuoco, esso va negoziato con il nemico».
Un negoziato che preveda anche la fine del blocco di Gaza?
«Quel blocco dovrebbe essere quantomeno allentato unilateralmente da Israele per due buone ragioni: perché le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile della Striscia sono in sé inaccettabili, sul piano etico oltre che politico, e anche perché questa politica di chiusura totale ha finito solo per rafforzare Hamas. Israele ha altri mezzi, anche militari, per fare pressione su Hamas. Va da sé che un negoziato con Hamas deve prevdere la fine del lancio dei razzi contro Sderot e il Sud d’Israele; quei lanci che Jimmy Carter ha bollato senza mezzi termini come “atti criminali”. Mi lasci aggiungere che una tregua negoziata con Hamas e l’Anp, non indebolirebbe la leadership del presidente Abu Mazen ma al contrario al rafforzerebbe perché è sulla sofferenza, la rabbia, la frustrazione e l’assenza di speranza che crescono le forze estremiste».
La pace per Yael Dayan...
«Non è una concessione ai palestinesi ma è l’unico modo perché Israele preservi, oltre la sua sicurezza, i due pilastri della nostra identità nazionale: democrazia e ebraicità dello Stato».

l’Unità 23.4.08
Il Marx magico di Scalfari
di Bruno Gravagnuolo

Il Pd «centripeto» È la ricetta che il direttore del Corsera Paolo Mieli consiglia al Pd dopo la botta elettorale. Che significa «centripeto»? Significa partito di centro. Che non si limita ad allearsi con Casini, ma occupa stabilmente quella zona, fino a «strutturarsi per occupare da sé il centro» (così Mieli domenica nel suo editoriale). Bene, sarebbe una falsa e non una «vera partenza», come titolava il quotidiano. Anzi sarebbe una catastrofe (un’altra!). Premesso che il Pd ha già fatto di tutto e di più per qualificarsi al centro con imprenditori e generali - per nulla nascosti in lista come dice Mieli - resta il fatto che un Pd post-identitario e di centro verrebbe devastato al suo interno. Tra «opposizionisti» e «volenterosi». Sicché, invece di agganciare Casini, sulla riforma elettorale e altro, finirebbe per agganciare... Berlusconi da posizioni subalterne. Oltre a perdere tutti gli elettori in fuga dalla Sinistra Arcobaleno (alle Europee, per cominciare) . La strada semmai è quella opposta ai consigli di Mieli: un moderno partito di sinistra. Radicato nei territori e di massa. Con una sua idea dello stato e dell’economia, né decisionista né liberal-mercatista. E con sfondo e contorno di alleanze: al centro, in società, in Europa e in Parlamento. Ci vuole un Partito insomma. Una specie di più ampio e innovativo Pds. Con quella «s» (che sta per sinistra) ben dentro, se non nel nome. Altrimenti è la fine.
Marxismo magico Spargeva lenimenti Eugenio Scalfari domenica su Repubblica: «più o meno 4 punti tra Pd e Pdl». Ma in realtà al Senato sono 4,5, e tra i due «poli» ci sono 9 punti! Quel che però non convince è il «ragionamento» scalfariano: destra e sinistra parole superate. Se non nel senso di sinistra come «modernità» e «innovazione». E destra come «identità» e «sicurezza», pur tra scambi e «dosaggi» alternati. Troppo generico: che modernità e che innovazione? E poi, chi ha detto che «identità» e «sicurezza» siano ipso facto o in partenza di destra? Infine è semplicistica l’idea della fine della «classe» - la «struttura» - con relativa scomparsa dell’ideologia di sinistra (la «sovrastruttura»). Questo è marxismo magico... Gli operai sono un terzo del lavoro dipendente e con esso hanno bisogno di sinistra. Sennò spariscono davvero, come s’è visto. Ma ricompaiono a destra!

l’Unità 23.4.08
Natoli: «Io e gli altri copiati da Galimberti»
di Marco Innocente Furina

«Se citi Galimberti, fai attenzione, rischi di citare qualcun’altro». Per essere una battuta lascia il segno, e non molto spazio all’immaginazione. Se poi a pronunciarla è il filosofo Salvatore Natoli, collega e compagno di studi di Umberto Galimberti, la questione si fa seria. Insomma, altro che caso isolato, altro che errore, Galimberti le virgolette le scorderebbe spesso e volentieri. Troppo volentieri.
Il caso questa volta lo solleva Avvenire, dopo che dalle pagine de Il Giornale Roberto Farneti il 17 aprile scorso, aveva dimostrato che alcuni brani de L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani edito da Feltrinelli, l’ultimo libro di Umberto Galimberti, sono «pericolosamente» somiglianti a passi de Il piacere e il male, testo del 1999, sempre edito da Feltrinelli, della storica Giulia Sissa. Il giornale dei vescovi in un articolo a firma di Edoardo Castagna, apparso martedì scorso, accusa Galimberti di esser stato «precoce» nel «vizietto» del copia incolla. Il libro all’indice è Gli equivoci dell’anima del 1987, in cui Galimberti «riassume» parecchie riflessioni di Natoli già apparse su riviste specializzate. Natoli conferma.
«Quando mi accorsi dei plagi dei miei articoli - spiega il filosofo - la mia reazione immediata fu di tristezza e dispiacere, non di aggressività». Il docente di filosofia teoretica all’università Bicocca di Milano preferì lasciar correre: «C’erano anche ragioni personali: eravamo stati compagni di studi, era un fatto che mi feriva. Mi sentii tradito, più che offeso. Nella professoressa Sissa ha prevalso un altro sentimento, forse operando nel mondo anglosassone (Giulia Sissa è ricercatrice all’Ucla di Los Angeles, ndr), è abituata a maggior rigore. Ma a indurmi a non reagire è stato anche un altro motivo. Sono convinto che dispute del genere devono essere risolte all’interno della comunità scientifica. Noi studiosi dobbiamo essere autoimmuni da fenomeni di questo genere. Altrimenti il rischio è che i non addetti ai lavori, vedendo due accademici litigare, pensino che siano soltanto gelosie e ripicche e finiscano col convincersi che abbiano torto entrambi. Come accade per le polemiche politiche».
Intanto per gettare acqua sul fuoco è intervenuto anche l’editore Feltrinelli, che in un comunicato ha definito i passi incriminati una «riproduzione» della recensione a suo tempo fatta da Galimberti del lavoro della Sissa. Una tesi sostanzialmente ribadita anche dal filosofo che, da parte sua, in un’intervista a Il Giornale, ha riconosciuto i debiti nei confronti della ricercatrice, ma ha difeso la sua buona fede: «Quelle pagine sono una rielaborazione di una recensione del 23 aprile del 1999 che io scrissi parlando de Il piacere e il male di Giulia Sissa. Nella recensione io riassumevo ciò che diceva la professoressa Sissa... Io lavoro così, leggo il libro e poi scrivo. Non faccio mai virgolettati, racconto. È stato questo il mio errore». Una spiegazione che non ha convinto la studiosa italiana («Nel libro di Galimberti ci sono note riprese dal mio Il piacere e il male che non esistevano nella recensione del 23 aprile 1999 e che, quindi, devono essere cercate e trovate nel mio libro. Più che delle scuse, è un cercare delle scuse, un arrampicarsi sugli specchi») e che non convince del tutto neppure Natoli. «Galimberti non è nuovo a episodi di questo genere. Ricordo che fin da tempi in cui scriveva per il Sole 24 ore c’erano lettori che mi contattavano per segnalarmi dei plagi dei miei scritti. E anche successivamente, in alcuni articoli su Repubblica, è avvenuta la stessa cosa. Avrei dovuto creare delle cartelle, ma ho lasciato stare».
Per Natoli il caso venuto alla luce in questi giorni dunque non è che la punta dell’iceberg di un certo modus operandi. «Una volta ho citato una frase di Galimberti, o almeno credevo fosse sua; invece era di Foucault, un brano tratto da La nascita della clinica».
Parole pesanti quelle di Natoli, che troverebbero conferma anche in un altro episodio denunciato dalla stessa Sissa. L’antichista ha raccontato al Corsera di aver ricevuto una mail da una studiosa fiorentina, Alida Cresti, che segnalava una sentenza del Tribunale di Roma che in data 30/5/2006 condannava Galimberti per aver pubblicato su Repubblica un articolo a sua firma, in realtà copiato da una saggio della stessa Cresti. Sul perché nessuno abbia mai detto niente, Natoli ha un’idea precisa: «Galimberti ha avuto grande successo televisivo, è un personaggio conosciuto e la comunità scientifica ha una forte soggezione del successo mediatico». Le comparsate in tv - Galimberti è stato spesso ospite del Maurizio Costanzo Show - e la collaborazione coi grandi giornali conterebbero più della affidabilità accademica. Un deriva inquietante, se fosse vera. Contro cui Natoli ha un’unica soluzione: «Si deve tornare a un’etica della scrittura, a una responsabilità del pensiero».
Etica e responsabilità, due concetti centrali nella riflessione di Galimberti...


IL FILOSOFO, dopo le accuse di plagio rivolte dalla storica Sissa al celebre psicoanalista, spiega che quella della «riproduzione» di brani altrui non è una novità: «Lo faceva già ai tempi del Sole 24 ore...»

Repubblica 24.4.08
A chi serve la versione edulcorata del fascismo
di Mario Pirani

Una poesia può contenere in pochi versi più verità e chiarezza di un saggio storico. L´idea mi è suggerita dalla lettura di una breve lirica (da "Gente sul ponte", ed. Scheiwiller) di una grande poetessa polacca, Wislawa Szymborska, poco conosciuta in Italia, malgrado il Nobel.
Intitolata "Figli dell´epoca" ne riporto qui poco più di una strofa: «Siamo figli dell´epoca,/ l´epoca è politica./ ... Ciò di cui parli ha una risonanza, / ciò di cui taci ha una valenza/ in un modo o nell´altro politica./.... Intanto la gente moriva, / gli animali crepavano,/ le case bruciavano/ e i campi inselvatichivano/ come in epoche remote/ e meno politiche». L´analogia nasce dal paragone con una polemica tra storici – Giovanni De Luna sulla "Stampa" e Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere"–, il primo preoccupato dal fatto che la natura totalitaria del fascismo venga ormai derubricata solo alla persecuzione razziale anti ebraica, il secondo, come d´abitudine, impegnato ad incolpare di ciò gli storici di sinistra, i quali, per alleviare le responsabilità del comunismo, avrebbero appiattito tutta l´esperienza fascista su quella hitleriana. A tal fine, quindi, «dopo l´equiparazione del fascismo al nazismo, l´accento sull´antisemitismo serviva a ristabilire l´incrinata supremazia del comunismo sull´uno e sull´altro». Alla base della riduzione del fascismo «all´archetipo di totalitarismo diabolico-omicida che è stato il regime hitleriano» vi sarebbe, inoltre, il vecchio rifiuto delle ricerche di Renzo De Felice che smentivano «l´immagine del Ventennio in contrapposizione alla quale la sinistra ha costruito il mito dell´antifascismo e della Resistenza».
Stanca polemica, in verità, sol che essa conferma ancora una volta come l´uso politico della storia risorga dalle sue ceneri ogni qualvolta si delinea un mutamento di scenario - come ora con l´alternanza destra-sinistra - contribuendo a confondere sia la storia che la politica.
Se, infatti, guardiamo, da cronisti attenti ai fatti e non da cattedratici innamorati delle loro tesi, il calendario degli anni più recenti, possiamo facilmente constatare che l´amalgama delle più generali responsabilità fasciste solo alle leggi razziali, è andata via via affermandosi con l´evoluzione democratica dell´estrema destra, la trasformazione del Msi in An e, da ultimo, l´approdo al Pdl, accompagnati dalle visite di Fini ad Auschwitz, a Gerusalemme, alla Sinagoga di Roma, al suo sostegno sincero ad Israele, alle sue affermazioni contro le leggi razziali, alla condanna senza mezzi termini della Shoah. Tutto ciò, oltre ad essere in sé ottima cosa, ha contribuito a sdoganare anche sul piano internazionale, a dare un profilo nuovo al vecchio movimento post-repubblichino e ad inserirlo a pieno diritto nel quadro costituzionale, pagando solo lo scotto della scissione dell´ala estremista.
D´altro canto l´accentuazione posta sul ripudio dell´antisemitismo come simbolo unico di un passato, inaccettabile, invece, anche per tanti altri versi, ha permesso alla destra di non confrontarsi con la sua storia reale. Si è finito per ricoprire di un oblio quasi nostalgico gli anni di una dittatura in primo luogo antiliberale, che soffocò la libertà di stampa, di parola, di associazione, di sciopero; soppresse la democrazia rappresentativa; istituì tribunali speciali, incarcerò e talora assassinò gli oppositori; infine trascinò l´Italia in una guerra rovinosa contro le più grandi potenze del mondo. Non aver fatto i conti culturali - ribadisco culturali - col passato, attraverso la vulgata detta revisionista, ha portato non solo la destra ma una parte non piccola dell´opinione pubblica a recepire una versione edulcorata e distorta del Ventennio, ad accettare per buona una «condivisione» strumentale di una storia falsificata, culminata nella par condicio tra ragazzi di Salò e Resistenza, ad accettare la ricorrente richiesta di rivedere i testi scolastici a seconda di chi vinca le elezioni.
La storiografia di sinistra porta in tutto ciò le sue responsabilità ma non nella «reductio» del fascismo alla sua svolta razzista. Le colpe più gravi, che si sono trascinate a lungo, riguardano piuttosto il giudizio sul comunismo e sull´Urss. Così anche sull´uso strumentale dell´accusa di fascismo contro chi condannava la dittatura staliniana. In questo seguendo la propaganda sovietica che, ad esempio, giustificò, tra l´altro, l´invasione della Cecoslovacchia inventandosi la minaccia del riarmo tedesco alle frontiere orientali (ma in proposito non va dimenticato che il governo centrista Dc-Liberali nascose nell´armadio della vergogna le carte sull´eccidio di Cefalonia per non mettere in difficoltà la Repubblica federale tedesca al momento della sua adesione alla Nato).
Infine anche la polemica su De Felice «vittima», è in gran parte viziata. Non solo perché Giorgio Amendola in un impegnato libro-intervista dette subito una interpretazione largamente positiva della riscoperta defeliciana (che non vuol dire rivalutazione) delle ragioni del consenso popolare al regime mussoliniano, ma anche perché quella riscoperta in realtà coincideva con le analisi togliattiane sul carattere di massa del fascismo, sulla opportunità, sia pure strumentale, che i giovani comunisti entrassero nei Guf, partecipassero ai Littoriali, cogliessero le esigenze di rinnovamento che provenivano dall´interno del fascismo.
Una linea che trovò una sua conferma subito dopo la Liberazione con l´apertura senza veti ideologici alle nuove generazioni educate dal regime. Quel che gli storici di sinistra non intravidero neppure era la insania, al termine autodistruttiva, come infatti avvenne, del nucleo centrale del pensiero e dell´azione dei partiti comunisti, quel finalismo assoluto che tutto giustificava in nome di una costruzione sociale e politica senza contraddizioni, basata su un´etica costrittiva capace di sfociare nel gulag e nel crimine di massa. Il non aver mai affrontato la negatività insita nell´utopia comunista ha portato il Pci e, poi, il post-Pci (nelle sue susseguenti trasformazioni) a smarrire identità, ad arrivare sempre in ritardo agli appuntamenti col rinnovamento riformista, a lasciare alla sua sinistra, specularmente alla destra post fascista, i brandelli radioattivi e dannosi di scorie storiche che ancora si richiamano al comunismo.
Peraltro le afone e invecchiate sirene degli opposti estremismi non appaiono più in grado di influenzare l´agenda del Paese. Non sarebbe allora giunto il momento per separare finalmente l´operare politico dall´analisi storica? Non è venuto il giorno per spogliare le date epocali della vicenda repubblicana dall´affronto riduttivo delle polemiche contingenti? Se il 14 luglio è la festa di tutti i francesi, degli eredi dei giacobini come dei vandeani, dei laici come dei cattolici, di chi si richiama alla Comune e dei gollisti che inalberano Giovanna d´Arco perché tutti gli italiani non debbono finalmente ritrovarsi nel 25 aprile e nel 2 giugno? Se Berlusconi e Fini, pur non essendo ancora in carica, promuovessero una iniziativa in tal senso, non sarebbe davvero questo un buon inizio, al di là della validità di ogni restante giudizio politico?

Repubblica 24.4.08
Appello per il 25 aprile: "Scendiamo in piazza"
Torino, mobilitazione da Zagrebelsky a Grosso. Napolitano a Genova. Polemica sulla Moratti
di Silvio Buzzanca

Giorgio Napolitano festeggerà il 25 aprile a Genova, città simbolo della Resistenza e della lotta contro il nazifascismo. Una scelta simbolica che vuole ricordare come il mito della Resistenza come movimento di popolo sia fondato su basi molto concrete. Ma l´impegno del presidente della Repubblica nelle celebrazioni inizierà già domani quando riceverà al Quirinale le Associazione d´Arma e Combattentistiche. La mattina del 25 Napolitano deporrà una corona d´allora all´Altare della Patria in onore dei caduti della guerra di Liberazione. E in quella sede consegnerà alcune medaglie al merito civile dedicate alla Resistenza. Poi volerà a Genova.
A Torino è di ieri un appello a scendere in piazza firmato da un gruppo di intellettuali tra cui spiccano Gustavo Zagrebelsky, Guido Neppi Modona e Carlo Federico Grosso. L´appello ricorda «il sacrificio della parte migliore di questo paese che permise alle generazioni che seguirono di vivere in una nazione libera e democratica». All´iniziativa del deputato Ds Stefano Esposito hanno già aderito una quarantina di intellettuali di Torino, chiaramente in contrapposizione con il W-day che Beppe Grillo organizza nel capoluogo piemontese proprio quel giorno. «Tre generazioni, tante ne sono passate da quando l´Italia è stata liberata dall´occupazione nazista e dal fascismo - si legge nell´appello - sarebbe questa una ragione sufficiente per festeggiare il 25 Aprile, ma crediamo vi sia di più del semplice ricordo. Il 25 Aprile ci parla dell´oggi, della necessità di non dare mai per scontati quei valori per i quali combatterono i nostri padri e i nostri nonni.»
Letizia Moratti, sindaco di Milano, invece conferma che altri impegni la portano lontano dal capoluogo meneghino e non potrà parteciperà alle manifestazioni. Il primo cittadino, accusa Alfio Nicotra, di Rifondazione, «per la prima volta nella storia repubblicana Milano non sarà rappresentata alle celebrazioni del 25 aprile dal suo sindaco. Sindaco che sarà assente anche dalle manifestazioni del Primo maggio nella storica capitale del lavoro salariato e del movimento operaio». Non è vero, replica la Moratti, «normalmente i sindaci non erano presenti. - spiega - Io sono stata presente, non solo da candidato ma anche da sindaco, quest´anno non posso. Ma la giunta sarà rappresentata». Roberto Formigoni, presidente della Lombardia, si schiera con la Moratti. Quella del 25 aprile, dice il governatore, «è una festa che va celebrata. Se il sindaco non può essere presente, che so per impegni personali già presi, non facciamo inutili polemiche. Non è che fisicamente il sindaco debba essere presente, l´importante è che sia rappresentata l´istituzione».
Ma più si avvicina la data, più le polemiche crescono. Perché il centrodestra non esita ad attaccare una celebrazione che considera monopolio della sinistra. Gustavo Selva, senatore uscente del Pdl, arriva a proporre «l´abolizione della festa nazionale del 25 aprile». Secondo Selva «per la retorica e i falsi che sono stati fatti, viene attribuito alla Resistenza e alla vittoria dei partigiani un merito che non c´è stato». Replica Walter Veltroni, leader del Pd: «Il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani perché è il giorno in cui è stata restituita a ciascuno la libertà di dire ciò che pensa». Le parole di Selva suscitano anche la reazione di Pino Sgobio, Pdci: «Selva propone di attuare un golpe.» Nella sinistra, scottata dal risultato elettorale, c´è aria di mobilitazione. Un po´ come nel 1994, subito dopo la prima vittoria elettorale di Berlusconi.

Repubblica 24.4.08
Se questa è una sinistra
Intervista allo storico Perry Anderson

«Dalla fine della Guerra Fredda le idee della destra hanno guadagnato ulteriore terreno; il centro si è adattato, in modo crescente, a quelle idee; la sinistra resta, in una visione globale, in ritirata». Nel suo ultimo libro Spectrum (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 471, euro 21) Perry Anderson - eminente storico britannico, professore a Ucla ed ex direttore della New Left Review - affronta senza pregiudizi l´intero spettro ideologico che anima il dibattito politico contemporaneo, attraverso le opere di alcuni dei più rappresentativi intellettuali del nostro tempo: Michael Oakeshott, Leo Strauss, Carl Schmitt e Friedrich von Hayek (la destra intransigente); John Rawls, Jürgen Habermas e Norberto Bobbio (il centro liberale e socialdemocratico); Edward Thompson, Robert Brenner ed Eric Hobsbawm (la sinistra marxista eterodossa). Con una suggestiva incursione anche nel campo del romanzo (Gabriel García Márquez) e della filologia (Sebastiano Timpanaro).
Come è nato Spectrum?
«Dal desiderio di adottare un approccio alla vita intellettuale relativamente raro, non solo nella sinistra ma anche nella destra e nel centro. Partendo da due punti: il primo è quello di mostrare rispetto e curiosità per intellettuali del campo avverso e oppositori politici, senza tentare di appropriarsi delle loro idee; il secondo è quello di essere realmente critici verso la propria parte, in modo leale ma senza alcuno spirito di autoflagellazione. Le posizioni politiche della sinistra che ho scelto di difendere sono quelle che definisco con il termine uncompromising realism. Con cui intendo dire due cose: la prima è che l´essere realistici senza compromessi significa non minimizzare la portata di una sconfitta storica, quella della sinistra nel Ventesimo Secolo, cosa che molti fanno. La seconda è che occorre guardare al sistema che ha vinto in modo lucido, senza nascondere la sua forza ma evitando il compromesso ad ogni costo, come invece è successo. Con una ulteriore distinzione: che puoi essere sconfitto ma non piegato».
Qual è lo stato della sinistra?
«La storia della sinistra nel secolo scorso è stata la storia del socialismo, del riformismo e della rivoluzione che ne è l´aspetto più importante perché prevedeva la costruzione di un sistema totalmente alternativo. Se analizziamo la storia del socialismo, o comunismo, con gli occhi delle generazioni future - e da storico voglio usare analogie storiche - penso a quattro possibili esiti. Si potrebbe guardare alla storia del socialismo nel Ventesimo Secolo nello stesso modo con cui noi oggi consideriamo l´esperimento dei gesuiti in Paraguay. Una sorta di esotico ed isolato tentativo di costruire una società nuova basata sulla fede, qualcosa di innaturale cui guardiamo con semplice curiosità. La si potrebbe poi considerare nello stesso modo in cui pensiamo ai Levellers, l´ala più radicale della rivoluzione inglese. I Levellers posero richieste estremamente avanzate - suffragio universale per gli uomini, costituzione scritta, separazione dei poteri, elezione del parlamento, addirittura elezione dei comandanti militari - richieste che nel Diciassettesimo Secolo erano rivoluzionarie, impossibili da realizzare e che in alcuni casi non sono realizzate neanche oggi. Al contrario dei Levellers - e questo è un altro esito ancora - i giacobini raggiunsero il potere, trasformarono la Francia e brevemente anche l´Europa e furono poi sconfitti dalla Restaurazione. La loro tradizione molto rapidamente, in un paio di generazioni, si trasformò nel movimento socialista tanto che nel 1848 giacobinismo e socialismo sono fianco a fianco. Questa terza possibilità non è una transvaluation, ma una mutazione in cui anche il linguaggio - libertà, eguaglianza, fratellanza - sono simili. Un´analogia potrebbe essere fatta - e questo è l´ultimo esito possibile - anche con il liberalismo del diciannovesimo secolo, quello economico di Adam Smith e quello politico essenzialmente francese. Sono due aspetti che si fondono; agli inizi del Novecento il liberalismo nel suo duplice senso di libero mercato, libero commercio, minimo governo ma anche di libertà civili e rules of law diventa l´ideologia dominante ed egemone. La storia ci dice che questa civiltà liberale crolla nella barbarie della Prima Guerra Mondiale, nella Grande Depressione, un crollo economico ma anche morale che ha tra le sue conseguenze la nascita del fascismo in Italia e Germania, iniziata con una vittoria parlamentare. Verso la fine degli Anni Trenta si poteva pensare, molte persone intelligenti lo pensavano, che il liberalismo fosse finito: economicamente, politicamente e moralmente. Invece con la Seconda Guerra Mondiale, con il keynesismo, il liberalismo è risorto ancora più forte fino a diventare, con il neo-liberalismo, l´ideologia ovunque predominante».
E oggi?
«Viviamo per la prima volta in un mondo che può essere definito di "pancapitalismo", una parola che può riassumere il nuovo ordine mondiale. Come ha spesso osservato un brillante pensatore americano, Fredric Jameson, è diventato per la gente più facile immaginare la fine della terra che la fine del capitalismo. Comunque, dobbiamo meditare la parola profonda di un altro teorico della posmodernità, Jean Baudrillard, in un suo breve saggio pubblicato dopo l´11 settembre: "L´allergia ad ogni ordine definitivo, ad ogni potere concludente, è fortunatamente universale"».
L´Europa può rappresentare un´alternativa?
«L´idea dei padri fondatori dell´Europa come Jean Monnet era quella di creare l´unità in un´Europa indipendente dalle due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. Indipendente nell´azione ma anche nella creazione di un modello sociale differente. Se guardiamo all´Europa di oggi da una parte vediamo che il successo è andato oltre le aspettative - Monnet e gli altri avevano immaginato un´Europa occidentale, mentre oggi arriva fino a Brest - dall´altra che è molto più indietro: oggi tutti i principali Stati europei sono meno indipendenti in politica estera dagli Stati Uniti di quanto non lo fossero ai tempi di Monnet, Adenauer e de Gaulle e anche rispetto ai tempi della signora Thatcher. L´Europa unita doveva essere più forte ma non è così: se pensiamo al modello sociale, quello del lavoro, al welfare, vediamo che ci sono ancora differenze rilevanti, ma che diminuiscono in modo costante. La dottrina neo-liberista è più forte anche in Europa, manca una politica estera europea, sul Medio Oriente siamo a rimorchio degli Stati Uniti».
Lei insegna negli Stati Uniti: cosa pensa della sfida elettorale?
«Penso che Obama sarà il candidato, anche se la Clinton è ancora in gara, e che vincerà a novembre. È una figura politica inusuale per gli standard americani, per il suo essere mezzo africano. Ha una grande capacità nel ragionamento. Questa campagna mi ricorda quella del 1968 quando, dopo il ritiro di Lyndon Johnson c´erano due candidati, Eugene McCarthy e Robert Kennedy, tutti e due capaci di mobilitare e di appassionare. McCarthy era un intellettuale, Kennedy una star carismatica, tutti e due rappresentavano l´antitesi al Vietnam dell´amministrazione Johnson. Sappiamo come è andata. Kennedy vince le primarie in California e il giorno stesso viene assassinato, Humphrey domina la Convention di Chicago, ma viene battuto a novembre da Nixon. Fu un vero dramma. Oggi ci sono delle somiglianze. La Clinton è l´Humphrey del 2008, Obama in qualche modo racchiude in sé i differenti magnetismi di McCarthy e Kennedy».
Con Obama presidente che America sarebbe?
«Dalla seconda guerra mondiale tutti i presidenti americani hanno avuto grandi difficoltà nel cambiare il paese all´interno, perché il potere legislativo del presidente è limitato dai poteri del Congresso anche quando il partito del presidente ha la maggioranza. Però ha campo libero in politica estera, dove gode di un potere quasi illimitato. Certo, ci sono stati i diritti civili con Johnson o i tagli alle tasse di Reagan, ma anche questi due presidenti vengono ricordati più per il Vietnam e per il crollo del comunismo. Come Bush lo sarà per l´Iraq. Con Obama questa tradizione può essere invertita. All´estero lo spazio per una politica imperiale, in Medio Oriente o altrove, sta diventando più limitato, mentre all´interno cominicia a delinearsi una grande crisi economica e molti elettori chiedono che vengano affrontate le disuguaglianze sociali cosa che le precedenti amministrazioni - sia democratiche che repubblicane - non hanno fatto. Credo sia possibile che Obama diventi un presidente capace di cambiare più cose all´interno che in politica estera».
Si è votato anche in Italia, paese che lei conosce bene. Cosa pensa dei risultati?
«Come storico mi è impossibile non guardare senza una certa nostalgia alla prima repubblica, nata della Resistenza: un sistema politico ricco e sofisticato, con grandi partiti sia della destra e della sinistra, alti livelli di partecipazione, anni di inventività e successo economico, una cultura straordinariamente dinamica; basta pensare al cinema italiano di quel periodo. La svolta negativa avviene a metà degli anni Settanta con il compromesso storico e le sue conseguenze: il terrorismo, il conformismo, la strana carriera di Bettino Craxi in grado di bloccare la vita politica con un piccolo partito, e poi a seguire la corruzione e la criminalità. Oggi, dopo 16 anni di Seconda Repubblica, possiamo veramente dire che le cose siano - politicamente, economicamente, giuridicamente, intellettualmente - migliori? Adesso c´è l´Italia che vuole diventare un "paese normale", slogan di D´Alema e altri, cioè simile agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna. Ma chi ha inventato il termine normalizzazione? Breznev con la Cecoslovacchia. Quella ovviamente era una normalità alla sovietica, ma perché l´Italia dovrebbe diventare un simulacro mediocre degli Stati Uniti? Invece di una vera ambizione si mostra un complesso di inferiorità. Una sindrome che si è ostentata anche nella campagna elettorale con gli shows che Berlusconi ha adottato da Reagan e gli slogan che Veltroni ha ereditato da Obama, con una mancanza di immaginazione desolante. Naturalmente questa Repubblica, dove l´identità collettiva si è ridotta più o meno al campo di calcio, non è tutta l´Italia. Speriamo che la sua vita sia breve».

Corriere della Sera 23.4.08
Via ai «cittadini vigilanti» Bologna e Firenze in campo
In Emilia e Toscana si «arruolano» giovani e pensionati
di Francesca Basso

Nella città di Cofferati i volontari dovranno superare un concorso Per i vigili urbani arrivano i «bastoni distanziatori»
MILANO — Rotto il tabù della sicurezza, tema sdoganato ormai anche a sinistra, specie in campagna elettorale, ora tocca alle «scandalose» ronde padane, nuova frontiera bipartisan dei Comuni (rossi compresi) alle prese con il problema del degrado. Anche in questo caso a fare da apripista — come in altre battaglie scomode (due esempi: sgomberi e accattonaggio) — sono Bologna e Firenze. Certo, il nome è cambiato e non c'è la divisa, ma se ne parla. E si comincia pure a discutere di dotare i vigili urbani di spray urticante al peperoncino e bastoni distanziatori (definizione di sinistra) o manganelli (definizione di destra).
A Bologna preferiscono chiamarli «assistenti civici»: «Una ventina di studenti avrà il compito di vigilare sulla zona universitaria — spiega l'assessore alla Sicurezza Libero Mancuso —. Per diventare assistenti civici dovranno vincere un concorso. Saranno poi educati a garantire la loro sicurezza personale e dotati di telefonino per le emergenze». Guai, però, a ricordare le "sorelle" padane. «Non sono delle ronde e non vanno definite come tali — puntualizza Mancuso —. Non hanno un orientamento repressivo, dovranno con il dialogo coinvolgere e sensibilizzare gli altri giovani al rispetto della città». Intanto a Bologna, da meno di un mese sono in azione squadre di pensionati che controllano il Villaggio Ina, nel quartiere Borgo Panigale. Anche in questo caso il Gruppo Primavera preferisce definirsi «cittadinanza attiva». Il nome ronda lo usano ancora quelli della Lega, che vogliono arruolare volontari «per partecipare all'attività di controllo della città». Comunque, qualcosa sta cambiando a Bologna. Proprio ieri il Partito democratico ha annunciato l'ordine del giorno per la modifica del regolamento comunale per dotare i vigili di spray e bastoni distanziatori, «non manganelli » come tiene a sottolineare il capogruppo del Pd in Comune Claudio Merighi: «Il primo fa pensare alla difesa personale — argomenta —, la parola manganello al bastone fascista. Oggi abbiamo incontrato il comandante dei Vigili di Modena, dove sono già in uso, e ci ha raccontato la sua esperienza. «È ora di togliere dall'oggetto la velleità ideologica: spray e bastone sono strumenti che aiutano i vigili a difendersi ». È probabile che i consiglieri di An e FI voteranno a favore. Del resto anche ieri il leader di An Gianfranco Fini, pur prendendo le distanze dalle ronde di Maroni, ha dato la sua benedizione «ai cittadini che si organizzano per difendere il proprio quartiere, a patto che non sostituiscano le forze dell'ordine».
Un po' quello che accade a Firenze dal 2002, cioè da tempi non sospetti: i vigili urbani con il Comune hanno lanciato il progetto di «Marketing della sicurezza », che coinvolge circa seicento cittadini, selezionati, impegnati a segnalare alla polizia locale situazioni di degrado nei quartieri e a seguire progetti di rilancio, come spiega oggi il Corriere fiorentino.
«La politica delle ronde non mi convince — risponde al telefono l'assessore alla Sicurezza, Graziano Cioni —. La percezione di insicurezza dipende spesso da elementi di degrado, come scritte sui muri, lampade rotte, atti vandalici. La polizia municipale ha nei quartieri dei "partner": possono essere il barista, il parroco, il barbiere o il pensionato, che fanno rapporto e segnalano quello che non va». L'informatore dei telefilm americani? «Non sono un gruppo di spie sul territorio — mette le mani avanti Cioni —. Si tratta di una collaborazione civile». La conferma arriva da Patrizia Verrusio, vicecomandante vicario della Polizia locale di Firenze: «Dei 21 progetti avviati, come il rifacimento di piazze o il recupero di alcune aree, il 90% è stato portato a termine. La logica di invertire il meccanismo, sentendo i cittadini prima di agire ha funzionato».

Corriere della Sera 23.4.08
Scienza e morale, l'utopia del dialogo
Boncinelli: «La ricerca punta ai risultati, non ai valori». Severino:«Ma impone la sua verità»

dialogo tra EDOARDO BONCINELLI ed EMANUELE SEVERINO
Boncinelli: Credo che da nessun punto di vista possa sussistere un contrasto tra scienza ed etica, perché si tratta di discipline che si occupano di problemi diversi. Ciò che di norma viene definito come contrasto tra scienza ed etica è in realtà il contrasto tra etiche diverse, ovvero tra portatori di etiche diverse, dove la scienza non è che il fornitore degli argomenti. Cinquant'anni fa non si poteva discutere di alcune cose per il semplice motivo che non erano possibili; prendiamo l'esempio della fecondazione assistita. La scienza ha messo sul tavolo opportunità che prima non esistevano e che hanno fatto discutere; ma a discuterne non sono gli scienziati con gli eticisti: a discuterne sono i portatori di un'etica con i portatori di un'altra etica. O, per meglio dire, i portatori di un'etica con i portatori di molte altre etiche, perché ci troviamo di fronte, da una parte, a una sorta di monolite che è l'etica cattolica, e dall'altra a tutto un ventaglio di posizioni abbastanza diverse, giacché la cosiddetta etica laica in realtà è unificata solo da una maggiore tolleranza per il progresso, una maggiore attenzione agli interessi dell'individuo e da un richiamo ridotto al magistero della tradizione. Da parte laica, e non solo in Italia, ma in tutto il mondo, c'è una vastissima gamma di posizioni, tanto che la contrapposizione fatta da Giovanni Fornero nel suo bellissimo libro, Bioetica cattolica e bioetica laica, pubblicato da Bruno Mondadori, è utile ma leggermente forzata. La scienza in tutto questo non c'entra, se non, lo ripeto, come fornitrice di occasioni.
Severino: Certo, si tende ad avere questa immagine della scienza come semplice fornitrice di occasioni, o come semplice strumento in vista della realizzazione di scopi che non appartengono allo strumento ma, al contrario, vedo una profonda solidarietà tra etica e scienza. Bisogna cominciare a chiedersi il significato di queste parole. Etica è una parola greca. Non che prima dei Greci non vi fossero problemi di carattere morale, sebbene, col pensiero greco, l'etica acquista una connotazione che potremmo dire inaudita. Allora, che cos'è l'etica prima e dopo questa connotazione inaudita? I popoli vivono, e credono di poter vivere meglio se si alleano con ciò che essi ritengono sia per loro la potenza suprema, e questo è abbastanza naturale, poiché per vivere mi appoggio a ciò che ritengo stabile, capace di reggere. Allora, questo agganciarsi a ciò che si ritiene la potenza suprema è il vivere in un ambiente rassicurante. La parola etica indica appunto il luogo in cui si vive, la consuetudine. Etica vuol dire: vivere in un luogo rassicurante perché ci si trova in accordo e non in contrapposizione con la potenza. Se vivo in un luogo e so che è minacciato, e so di non avere strumenti per difendermi, vado altrove. Invece ethos in greco indica la consuetudine, che è insieme l'ambiente in cui ci si può difendere.
Ma difendersi da che cosa? Dal dolore, dalla morte, dall'angoscia, dalla sofferenza, dai pericoli. Ora, con il pensiero greco, questo atteggiamento assume una radicalità che qualificavo come inaudita: la potenza con la quale ci si allea per sopravvivere e per difendersi dal pericolo è cio che il pensiero greco chiama «verità ». Se ci si allea con una finta potenza, allora l'alleanza è insicura; è quindi inevitabile che emerga l'esigenza di allearsi con ciò che è la vera potenza, che l'ethos sia l'alleanza con la vera potenza. Ma per fare questo bisogna che cominci a esserci l'idea o il significato della parola verità. È solo perché il pensiero greco porta alla luce il significato radicale della verità, che ci può essere un'alleanza con la potenza vera.
Ora, tutto quello che abbiamo detto dell'etica dobbiamo dirlo anche per la scienza, che non è affatto quella semplice occasione di opportunità, quella neutralità rispetto agli scopi di cui tu parli. No, anche la scienza merita che si dica di essa ciò che già aveva detto Nietzsche: la scienza nasce dalla paura, così come l'etica, perché difendersi alleandosi alla potenza vuole dire cercare di andare oltre la paura.
Cio che noi oggi diciamo «scienza » è lo sviluppo di tutte le tecniche messe in atto dagli uomini per non avere paura e per riuscire a sopravvivere. Qual è l'etica della scienza? La scienza ha ed è di per sé un'etica. E perché? Perché ha quell'insieme di procedure che, soprattutto oggi, dà agli uomini la fede, la convinzione che essa sia lo strumento che più efficacemente di altri consente di allontanare la paura. Allora etica significa difendersi dalla paura alleandosi alla potenza, che oggi viene dalla scienza identificata con la potenza soprattutto tecnologica; in questo senso non c'è scissione tra etica e scienza.
Nella tradizione, la vera potenza è quella verità il cui contenuto è soprattutto il Dio, quindi la potenza di una conoscenza indiscutibile che dice in modo indiscutibile:
il vero potente è Dio. Oggi non si dice piu così, anche se si dice una cosa simile; è cambiato il protagonista, è cambiata la qualifica del potente. Oggi il vero potente è la tecnica. La tecnica è l'erede della funzione di rassicurazione che nella tradizione veniva compiuta da Dio.
***
Boncinelli: Oggi si parla tanto di dialogare. Ma un vero dialogo, non formale e con pieno intendimento delle ragioni dell'uno da parte dell'altro, è raro e difficile. Forse appartiene alle tante favole della modernità. Si parla in particolare di dialogo fra scienza e filosofia. Non so se la scienza possa dialogare con la filosofia, ma certo io non posso dialogare con i filosofi, anche i più vicini a me per formazione e convinzione, almeno con quelli che conosco, salvo pochissime eccezioni.
La spiegazione che mi sono dato invoca la diversa natura della vocazione di chi si dedica alla scienza e di chi si dedica alla filosofia. Lo scienziato vuole raggiungere qualche conclusione, anche se provvisoria e incompleta, su temi che possono essere considerati di nessuna rilevanza (a parte il fatto che la scienza, e non le elucubrazioni teoriche, ha cambiato il mondo, anche se questo non piace a tutti). Al contrario, il filosofo vuole mettere tutto in discussione, vuole trovare il pelo nell'uovo — che c'è sempre, perché la conoscenza perfetta non è di questo mondo — e in definitiva non lasciare più niente in piedi. D'altra parte, non c'è concetto che, discusso a lungo, non perda ogni significato. Volendo, si può completare il quadro con un altro elemento di distinzione. Lo scienziato sperimentale sa fin dall'inizio che da solo non potrà mai fare niente. Al massimo potrà aspirare a dare un contributo che, unito a quello di tanti altri, porterà a qualche risultato, teorico o pratico. Di conseguenza, costui può anche essere un mediocre, anche se nessuno ammetterà mai di buon cuore di esserlo. Il filosofo, invece, o si limita a fare lo storico della filosofia, o pensa di dare un suo contributo. Ogni filosofo aspira a essere un grande filosofo. Aggiungerei infine che, a differenza di quella del filosofo, la visione dello scienziato sui fenomeni da studiare è intrinsecamente e irrimediabilmente locale. Quando aspira alla globalità, in genere in tarda età, fa quasi sempre della cattiva filosofia, anche se si chiama Albert Einstein. È chiaro che il modo di porsi davanti a tutte le questioni, risulta molto diverso nei due casi.
Severino: Da sempre, ma soprattutto nell'età moderna, ciò che si dice «scienza» è specializzazione, che separa un certo campo di oggetti, o di cose, da tutti gli altri e lo analizza in base a precisi criteri e metodi. Per lo più, l'analisi del significato della specializzazione — cioè del separare e dell'isolare — non rientra nello stesso campo. Non vi rientra quindi nemmeno l'analisi del senso della totalità, dalla quale la specializzazione isola il proprio campo. Queste analisi appartengono, da sempre, alla filosofia. Quando uno scienziato considera i rapporti tra il proprio campo e la filosofia, non parla dunque in nome della propria disciplina. Si porta sul piano della filosofia, con maggiore o minore coscienza; vi si porta inevitabilmente — e, d'altra parte, anche quando si chiude nel proprio terreno, si appoggia pur sempre a qualcosa che gli è esterno, cioè al senso che il pensiero filosofico ha attribuito alla «cosa», all'oggetto.
Anche gli individui seguono (e tradiscono) certe specifiche regole di comportamento. In questo senso delimitano a loro volta un dominio particolare di cose, sono essi stessi, gli individui, specializzazioni. Si muovono però sempre, volenti o nolenti, all'interno delle grandi regole etiche seguite (e tradite) dai popoli a cui appartengono. Anche quando danno risalto alle proprie regole di comportamento, in qualche modo percepiscono la scacchiera greca su cui giocano la vita e su cui ormai tutte le vite si avviano a essere giocate.
Ma se oggi nemmeno a uno scienziato è consentito dominare l'intera ricchezza della propria disciplina, come può pretendere la filosofia di comprendere addirittura il fenomeno scienza nel suo insieme? O di comprendere la «storia dell'Occidente»? La filosofia del nostro tempo tende a rispondere che questo è impossibile. E, infatti, se le cose vengono dal nulla e vi ritornano, sono essenzialmente estranee le une alle altre, cioè non può esistere né essere conosciuto alcun principio che le unifichi. Il senso greco della «cosa» sta al fondamento di ogni separare, isolare, specializzarsi dell'Occidente. Oggi quel senso si esprime nell'affermazione che il mondo intero è un insieme di frammenti e che la conoscenza autentica è specializzazione. Senonché, anche questa affermazione getta uno sguardo sul mondo; e non su una parte di esso, ma sul mondo intero e pertanto è anch'essa uno sguardo unificante: scorge l'essenza unificante del mondo e vede che questa essenza è la frammentarietà stessa del mondo, la stessa divisione delle cose. Ciò significa che, in qualche modo, la manifestazione del senso unitario del mondo è inevitabile; e che tale manifestazione continua a essere il compito della filosofia.

Corriere della Sera 23.4.08
Controversie Un antropologo contro tre mostri sacri: in Asia e Cina non regnò soltanto l'immobilismo
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Jack Goody accusa: Needham, Elias e Braudel malati di etnocentrismo
di Dino Messina

Abbiamo rubato la storia. Ma il furto, il più colossale che si possa commettere, non è stato mai scoperto, anche perché a cancellare le tracce hanno contribuito i più grandi pensatori dell'Occidente. È questa la tesi che espone l'antropologo inglese Jack Goody, nel saggio appena uscito da Feltrinelli, che si intitola appunto Il furto della storia (pagine 416, e 38), in cui il professore emerito dell'Università di Cambridge cerca di smontare la presunzione etnocentrica degli europei. Perché è l'eurocentrismo, secondo Goody, la malattia cronica della nostra cultura. Un morbo che, in virtù del grado di sviluppo acquisito dal vecchio continente a partire dal Rinascimento, ci fa ridimensionare il passato delle altre civiltà, in primis quelle asiatiche. Un errore prospettico che ci porta a considerare la nostra civiltà come superiore e ci fa sottovalutare il pericolo di declino e la concreta possibilità che l'egemonia culturale ed economica del mondo possa avere un altro baricentro.
All'origine del pregiudizio moderno, troviamo una serie di grandi personalità: Johann Winckelmann, che esaltò «la tradizione artistica della Grecia come l'unica capace di esprimere il vero ideale della bellezza»; il linguista Karl Wilhelm von Humboldt, «che giudicò la lingua dei cinesi inferiore»; Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il quale pensava «che la Cina rappresentasse il livello evolutivo più basso del mondo».
Ma la parte più stimolante del saggio è quella in cui Goody sottopone a dura critica le tesi di tre grandi storici: tre maestri del Novecento che rappresentano l'apice della cultura e del politicamente corretto. Invece, secondo l'impertinente decano dell'antropologia britannica (Goody è del 1919), anche personalità come Joseph Needham, Norbert Elias e Fernand Braudel hanno partecipato al «furto della storia» ai danni di altre civiltà in nome dell'eurocentrismo. L'unico peccato è che i tre grandi non possano rispondere, perché sono scomparsi.
Joseph Needham (1900-1995), il biologo inglese che più di ogni altro ha contribuito alla conoscenza della cultura cinese con la sua opera enciclopedica,
Scienza e civiltà in Cina, ricade tuttavia secondo Goody «nei luoghi comuni storiografici sull'unicità del Rinascimento e sulla nascita della borghesia, della modernizzazione, del capitalismo e della scienza, appunto, "moderna"». Needham è lo studioso che ci ha fatto capire, scrive Goody, quanto la Cina sia arrivata prima dell'Europa a molte scoperte tecnico-scientifiche, tuttavia condivide il pregiudizio dell'euromarxismo «sull'assenza di una borghesia in Cina» e vede «il capitalismo come un fenomeno specificamente europeo». Per Goody invece «la borghesia era un fenomeno internazionale » e la straordinarietà del Rinascimento europeo, reso possibile anche e soprattutto grazie agli scambi internazionali, non ci deve far sottovalutare le altre civiltà e la possibilità di assistere a «rinascenze» future che potrebbero sorprenderci.
Più diretto e sorprendente è l'attacco a Norbert Elias (1897-1990), il raffinato autore del Processo di civilizzazione e della Civiltà delle buone maniere. Al centro della discussione, anche in questo caso, il periodo del Rinascimento e dell'assolutismo, in cui, secondo il sociologo tedesco, accanto allo Stato sovrano, alla borghesia e all'economia di mercato si sono affermati i valori della bellezza, ma anche dell'igiene e dell'ordine. Per Goody, uno dei limiti dell'analisi di Elias sta nel non prendere in considerazione la storia di nessun'altra parte del mondo. Perché così avrebbe scoperto che alcune conquiste delle buone maniere si affermarono anche in altre parti del mondo: l'uso dei bastoncini a tavola, la cerimonia del tè, ma anche l'uso della carta per fini igienici, quando nel romanzo di Rabelais Gargantua raccontava di essersi pulito «con la salvia, il finocchio, l'aneto, la maggiorana, le rose, le foglie di zucca». Per non dire che fra il XV e il XVII secolo l'Occidente ha conosciuto anche per motivi religiosi una diminuzione dei bagni di pulizia, considerati peccaminosi. Invece, per fare un esempio, nella città persiana Isfahan alla fine del XVI secolo si contavano 273 bagni pubblici. Il furto della storia non riguarda tuttavia soltanto le società asiatiche, ma anche quelle africane, quando Elias parla di «senso di colpa» per la società borghese occidentale e di semplice «sentimento di vergogna» per le società primitive del Ghana, allo scopo di sottolineare il diverso grado di sviluppo che avrebbe ripercussioni anche sulla psiche degli individui.
Il compito più arduo Goody se lo assume nella contestazione di Fernard Braudel (1902-1985), il gigante della storiografia francese, fondatore delle Annales, che nei tre volumi del suo lavoro più importante, Civiltà materiale, economia e capitalismo, commette secondo il suo critico l'errore di annettere all'Europa il capitalismo. Intendiamoci, Goody esprime tutta la sua ammirazione per il genio di Braudel, ma non si può non notare che le sue fonti siano «inevitabilmente soprattutto europee » e portatrici di un pregiudizio eurocentrico. L'Europa viene considerata dal francese al centro di tutte le innovazioni anche quando scopriva bevande eccitanti che in realtà provenivano da altri mondi: il caffé arabo, il tè cinese, il cioccolato messicano. Un pregiudizio simile a quello di Elias si riscontra quando Braudel parla delle abitudini quotidiane, considerando per esempio il monotono abbigliamento cinese un sintomo dell'immutabilità sociale. Ancor più grave, secondo Goody, l'errore di Braudel quando questi attribuisce il capitalismo finanziario alla sola Europa, trascurando alcuni periodi della storia asiatica.
La visione antropologica è parte essenziale della critica storica di Jack Goody, che nella migliore tradizione britannica ha un grande gusto per la controversia intellettuale.

Corriere della Sera 23.4.08
Polemiche Il padre del pensiero debole difende il collega accusato di plagio: anche San Tommaso riprende Aristotele
Vattimo: «Che torto ha Galimberti? Filosofare è copiare»
di Pierluigi Panza

F ilosofare è un po' copiare: Averroé e San Tommaso copiavano da Aristotele; Plotino da Platone e così via. «Che male c'è?», che novità è se Umberto Galimberti ha preso frasi da altri studiosi, come Giulia Sissa? O da Salvatore Natoli (come denunciato ieri dall'Avvenire), e li ha inseriti in un suo testo? Già Harold Bloom, in un libro intitolato La Cabbala e la tradizione critica
aveva sostenuto che ogni pensiero è il travisamento di un precedente; ora lo sostiene Gianni Vattimo come estrema forma di difesa del collega filosofo Umberto Galimberti. «Capisco se fossimo scienziati in corsa per il Nobel e ci rubassimo i brevetti per curare il cancro… ma i nostri sono solo pensieri». Robetta, insomma.
Eppure i passi pubblicati da Natoli su Il sapere antropologico nell'86 e finiti in Gli equivoci dell'anima di Galimberti nell'87 sembrano copiati... «Molti dei passi citati su Avvenire ieri mi sembrano poco probanti. Solo la prima comparazione è un po' scandalosa», afferma Vattimo. Leggiamola: «Rivolgendosi alla propria interiorità, l'anima guadagna profondità. Ma la profondità è l'insieme l'estremamente distante dal sensibile » (Natoli). «Rivolgendosi alla propria interiorità, l'anima guadagna in profondità che è insieme l'estremamente distante dal sensibile» (Galimberti). Insomma, sembra copiato. «Ma bisogna vedere se il progetto del libro di Galimberti è identico a quello di Natoli. Io spero di non aver mai fatto così. Ma non mi stupirei». Cioè, nella sua opera omnia che sta pubblicando in 40 volumi c'è qualcosa di copiato? «Non so. Sono commenti a Nietzsche e Heidegger, ma sono miei e non condivisibili. Guardi che colleghi di Filosofia, presidenti di commissioni, hanno passato la vita a copiare se stessi». Beh, lo diceva anche Sartre che i professori «ripetono tutta la vita la propria tesi di laurea». «Si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione di Galimberti è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle».
Ma la citazione delle fonti? «Il sapere umanistico è retorico. Non dico che sia aria fritta, ma è tutto argomentativo. Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nei saperi umanistici, dal diritto e alla teologia, è tutto un un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da se stesso». Almeno i primi leggono… L'ermeneutica ha accentuato questi atteggiamenti? «Nelle scienze empiriche uno parte da Lavoisier e va avanti per accumulo. Le scienze dello spirito sono volatili. Odifreddi ci accusava di dire sciocchezze, ma poi confessò che i matematici le dicevano meglio».
Forse anche il «pensiero debole» ha spinto verso questa filosofia? «No il "pensiero debole" non si prende nemmeno la briga di copiare. Nel romanzo è più facile notare il plagio. Ma nel caso della riflessione filosofica non ha senso». Infatti la Mazzucco venne beccata copiare da Tolstoj; in filosofia il plagio è derubricato. Conclusione di Vattimo: «Magari la mia difesa è anche politica, ma non è così scandaloso. Tesi di laurea simili non mi farebbero né caldo né freddo ».






il Riformista 23.4.08
SANS-PAPIERS. TRA GLI ORFANI DEL BERTINOTTISMO C'È ANCHE L'UOMO DELLA NOTTE RAI
La Porta se la prende con la sinistra ingrata e dialoga con la Lega
di Tommaso Labate

Gabriele La Porta. L'uomo della notte Rai e la notte della sinistra. La sua amicizia con Fausto Bertinotti. «È vero, io sono un grande amico di Fausto. Sa che le dico? Che senza di lui, la Sinistra avrebbe preso l'1 per cento. Naturalmente, è un'opinione personale», dice La Porta al Riformista . Fausto, adesso, se n'è andato. S'è ritirato. «Secondo me, purtroppo, la sua è una decisione definitiva. Senza di lui la Sinistra sarà senz'altro più povera e molto meno colta». Dentro Rifondazione volano gli stracci. La linea di Bertinotti è stata sconfessata dal comitato politico nazionale. La maggioranza, per adesso, ce l'hanno Paolo Ferrero e i suoi. «E secondo me è una maggioranza di carta. Si vedrà al congresso... E comunque Vendola è uno che ha i numeri per sostituire Fausto. Lo sa com'è Nichi, no? Emozionato ed emozionante».
Intanto, però, Bertinotti non viene considerato più il padre nobile. Di più, il presidente della Camera è sul banco degli imputati. «In questo momento - sottolinea La Porta - vedo in giro molta ingratitudine. Quanti ingrati... Le ripeto: se non c'era Fausto questi stavano sotto l'1 per cento». Il rischio di una guerra civile a Sinistra è uno spettro ancor peggiore della sconfitta, forse. «Condivido pienamente», replica La Porta.
Le ragioni della batosta elettorale? L'uomo della notte Rai mette in fila, «il governo Prodi che non ha migliorato le condizioni delle fasce medio-basse della popolazione, il rigore eccessivo, magari anche l'inchiesta su Pecoraro Scanio». Già, Pecoraro Scanio. «Per carità - spiega - io sono un garantista e ho grande fiducia nella giustizia. È anche possibile che queste inchieste si concludano con un nulla di fatto, com'è capitato anche a Mastella. Di certo, qualche voto ce l'hanno fatto perdere». Poi c'è la sicurezza. «A Sinistra, nessuno ci ha capito niente. Me compreso», dice La Porta. «I cittadini a rischio sono i più poveri, non i ricchi. Quelli che vivono in periferia, non in centro».
E intanto la Lega è passata all'incasso. Voto operaio, voto popolare. Il Carroccio, poi, è un antico pallino di La Porta, che ebbe una fase "leghista". «Ho lavorato a Milano e Torino. Ho imparato a conoscerli bene, loro». Loro sono quelli in camicia verde. «Quando li vedi da vicino, capisci che sono molto diversi da come sembrano». Forse la Tv deforma. A sentire l'uomo della notte Rai, «è il linguaggio televisivo che cambia la realtà. In politica, molti pensano che basta stare in televisione. E invece, oltre a frequentare gli studi televisivi, bisogna andare tra la gente. L'esempio del Carroccio è perfetto: stanno poco in tv e prendono un sacco di voti». Al contrario di Bertinotti, direbbero i maligni. «Non è vero. Fausto è uno dei pochi che a Sinistra sa stare ancora tra la gente. Certo, va spesso anche in Tv. Ma non ha mai trascurato il popolo».
I sans-papiers della Sinistra si dividono. «Io non mi sento un sans-papier», ribatte La Porta. Nel fuggi fuggi generale, c'è chi guarda al Pd come a un miraggio. «Il Pd è senz'altro un partito progressista. E per me non è un nemico», risponde l'uomo della notte Rai. Che vorrebbe una sinistra dialogante con la Lega. «Io non sono un politico né voglio farlo. A mio avviso, però, bisognerebbe dialogare con tutti. Se vogliamo il bene delle fasce deboli della popolazione, la Lega è senz'altro un ottimo interlocutore». Costola della sinistra? «Lo è già stata - insiste La Porta -. Se lo ricorda il '95?». Berlusconi torna a palazzo Chigi. E quelli di viale Mazzini col cuore a sinistra che fanno? Tremano? Così La Porta: «Io faccio il direttore da quattordici anni. I governi sono cambiati e io sono sempre rimasto al mio posto. E giuro che nessuno mi ha mai detto quello che dovevo o non dovevo fare».
Gabriele La Porta. L'uomo della notte Rai e la notte della sinistra. «Io seguo il popolo della notte e sono uno storico della filosofia. In alchimia la notte è un elemento importantissimo. La nigredo che porta all'albedo. La notte porta all'alba. Non c'è alba se non c'è notte. Tutte le trasformazioni più importanti arrivano durante la notte. La Notte, per la Sinistra, può essere una grande occasione». Applausi. Cala il sipario.

martedì 22 aprile 2008

l’Unità 22.4.08
Ingrao: guai a rassegnarsi. È la destra peggiore dobbiamo salvare Roma
di Simone Collini


Pietro Ingrao confessa di vivere «con rabbia e con dolore» la situazione politica che si è venuta a creare dopo il 14 aprile. «C’è stata una vittoria delle forze reazionarie raccolte intorno a Silvio Berlusconi e di questo successo di una brutta destra, e delle sue fonti, bisognerà fare un’analisi cruda e approfondita», dice lo storico leader comunista. «Ma guai a rassegnarsi o a considerare la partita conclusa».

«Ci sono questioni brucianti tutt’ora aperte - sottolinea Ingrao - prima fra tutte la lotta per la guida di Roma».
È questa secondo lei la priorità, ora?
«Sono necessarie, contemporaneamente, un’analisi approfondita e di massa delle cause della sconfitta e un tornare in campo, un rilancio della lotta, innanzitutto per le elezioni del sindaco della Capitale. Roma è città simbolo, e oggi la scelta di chi dovrà dirigere il Campidoglio assume una doppia valenza: per il domani di questa metropoli così radicata nella storia d’Italia e del mondo, e per gli sviluppi dell’aspro scontro aperto con la destra berlusconiana».
Una destra diversa da quella che vinse nel 2001, con una Lega più forte. Una destra peggiore sostiene la sinistra.
«Sì, è peggiore. E del resto a questa deriva reazionaria non ha resistito nemmeno la relazione con un moderato come Casini».
È preoccupato per quello che potrà fare il prossimo governo?
«Purtroppo sì. E mi sembra che sia non abbastanza forte l’allarme per questa deriva autoritaria di schietta marca berlusconiana. Forse non tutti, nella sponda democratica, hanno capito bene tutto il rischio di questo blocco reazionario a cui hanno dato vita Berlusconi e Bossi».
Per alcuni commentatori la Lega abbandona i tratti a cui ci ha abituato nel passato e ne assume di più istituzionali. Lei che dice?
«A me sembra di cogliere anche nelle file democratiche una tendenza a leggere la Lega come un buffo folklore. Sarà che ho una chiusura paesana, perché invece io sono colpito dall’intensità con cui si è allargata la connotazione reazionaria dei bossiani».
Che risposta va data a questa destra?
«Noi, forze dell’opposizione, siamo chiamati in questi giorni, direi in queste ore, a sviluppare una doppia azione: capire e rendere chiare le cause della nostra sconfitta e contemporaneamente impegnare compattamente tutte le nostre forze per la prova di Roma e per quelle delle altre città in cui si torna subito a votare. Non ci sono consentiti ritardi o esitazioni».
Parla col “noi”: per la prima volta nella storia repubblicana, in Parlamento non ci saranno esponenti di partiti comunisti e socialisti.
«È un dato su cui non c’è stata finora un’adeguata riflessione. Eppure io mi ricordo che svolta e che emozione per noi quando, cacciati i tedeschi da Roma, nelle nuove assemblee elettive entrarono finalmente anche i “rossi”, quelli che venivano da Gramsci...».
Nelle forze della Sinistra arcobaleno si è aperto un vero e proprio scontro sulle cause della sconfitta. Secondo lei è ciò di cui c’è bisogno, adesso?
«Non propongo né a me né ai miei compagni e amici il silenzio sulle cause e le responsabilità della sconfitta. Vengo da una storia di aspre battaglie anche interne alla mia parte, forse c’era anche una pesante inclinazione a “punizioni” pesanti e affrettate. Ma io credo, spero, che noi della sinistra abbiamo anche imparato qualche cosa dai nostri errori del passato».
Cosa vuole dire?
«Ho una formazione leninista-stalinista. Ho vissuto in Italia le vicende straordinarie e talvolta eroiche con cui la componente comunista ha animato nel mio Paese, ma più largamente nel vasto mondo, una lotta epica per i diritti dei lavoratori. E tuttavia quella lettura e pratica del mondo, che chiamammo leninismo, è stata sconfitta. E oggi io e tanti altri miei compagni sappiamo bene per quali errori pesanti si determinò il crollo».
Tornando alla sinistra e applicando il suo ragionamento all’oggi?
«Lo scontro con la destra reazionaria è tutt’ora in corso, e anche il confronto elettorale è ancora in atto in molte città italiane. Per me questo passa avanti a tutto. Può anche darsi che dentro di me ciò sia radicato nell’antica, ostinata tensione che avevamo per realizzare l’unità, quella parola scelta addirittura a nome e simbolo del nostro giornale...»
Però è innegabile che errori a sinistra sono stati commessi, non c’è da stupirsi se ora si avverte la necessità e l’urgenza di capire...
«Ripeto, non sto chiedendo il silenzio. Anzi. La stessa battaglia aperta per Roma e altre città italiane chiede una iniziativa fresca e rapida per realizzare ciò che ci è mancato per la vittoria. Seppure da lontano, riesco a vedere le carenze, le divisioni, i silenzi che ci hanno fatto male. Ma dico un duro no alla rissa interna nelle nostre file».
Insiste molto sul ballottaggio di domenica: che ne è delle questioni di più ampio respiro a cui si è dedicato?
«Questo è il primo passo, necessario, ma è chiaro che l’amara vicenda italiana non cancella per nulla - non deve cancellare - lo scontro che continua nel vasto mondo: scontro a mano armata. In luoghi cruciali del globo tuttora si spara: nei modi della moderna “uccisione di massa”. Sembra incerto persino il luogo in cui si terranno le Olimpiadi. Le dimensioni della lotta hanno questi connotati. È viva in me l’amarezza per la scomparsa di quella nozione solenne e dimenticata che usammo chiamare: pace. Chi spera ancora nella pace?».
È la cosa che più la turba?
«Questa, sì. Ma resto turbato anche da questioni - come dire? - più semplici. Ostinatamente (forse ottusamente...) non riesco a capire perché siano ancora in campo istituzioni umane (chiamiamole così...) come la pena di morte, o anche l’ergastolo. Non le capisco nemmeno quando vengono usate contro gli assassini o i massacratori come quel tale Saddam Hussein...».
I difensori della pena di morte sostengono che sia per scoraggiare gli assassini.
«Scoraggiare uccidendo... Che straordinaria invenzione. Quante ne sappiamo inventare noi esseri umani».

l’Unità 22.4.08
I Demoni di Montaldo, 20 anni dopo
di Gabriella Gallozzi


CINEMA Nasce dalla vita di Dostoevskij e fa riflettere su violenza e intolleranza il nuovo film di Giuliano Montaldo «I demoni di San Pietroburgo». Il regista qui condanna le bombe dei terroristi, quelle Usa, e vede la distanza della sinistra dal «popolo»

«La violenza causa solo morte e distruzione, non accetto i crimini. E se i miei film toccano l’attualità è perché è la Storia che ricorre»

«Ogni intolleranza mi fa soffrire terribilmente ma con l’egoismo non si vive: quindi conservo un po’ di ottimismo per offrirlo ai giovani»

C’è un demone che ha riportato Giuliano Montaldo dietro alla macchina da presa dopo quasi vent’anni (è del 1989 Tempo di uccidere): l’intolleranza nei confronti dell’intolleranza. Come sempre nel suo cinema, da Sacco e Vanzetti a Giordano Bruno, tanto per citarne alcuni, il tema è ricorrente.
E non poteva essere da meno anche I demoni di San Pietroburgo, stralcio di grande impatto visivo dalla vita di Fjodor Mikhajlovic Dostoevskij - in sala da giovedì per RaiCinema che lo produce con la Jean Vigo.

Come progetto (Paolo Serbandini firma il soggetto e poi a sei mani la sceneggiatura con Monica Zapelli e lo stesso regista) il film del regista 78enne risale addirittura agli «anni di piombo», il cui riferimento è il punto di partenza per uno sguardo incredibilmente «contemporaneo». Dostoevskij, anziano e malato, dopo essere scampato al plotone di esecuzione, dopo la detenzione in Siberia, riflette sul suo impegno da rivoluzionario, in preda al demone del dubbio e del rimorso per poter essere stato un cattivo maestro.
«Che ne sapete voi del popolo?» rimprovera Dostoevskij ai giovani rivoluzionari borghesi che vivono nell’agio. Sembra quasi una riflessione messa lì all’indomani della débâcle elettorale e alla scomparsa della sinistra in parlamento....
«Tante volte nei miei film mi è capitato di toccare l’attualità ancor prima che le cose accadessero. Come la scena in Sacco e Vanzetti: ricorda il caso Pinelli per cui mi hanno detto che l’avevo aggiunta in seguito, ma non è stato così... Oppure che tutto il film sia tornato di attualità per la moratoria sulla pena di morte. È che la storia è ricorrente. Nel caso de I demoni, poi, stiamo parlando di Dostoevskij, un autore che ha sempre cercato di capire il popolo, la gente, andando a scavare nel “sottosuolo”. Durante la prigionia in Siberia ha dovuto convivere con l’arroganza e la violenza del popolo. La colpa che rimprovera ai terroristi è quella di vivere nella ricchezza, totalmente scollati dalla realtà delle persone comuni. E invece bisognerebbe tornare davvero a stare fra la gente. Come diceva Zavattini: bisogna prendere l’autobus per capire davvero quello che ci circonda. Dostoevskij usava la penna e non la telecamera. Che questo, all’indomani delle elezioni, tornasse di così grande attualità davvero non potevamo saperlo. Come anche la coerenza, la professione di “libero pensiero” per le quali Dostoevskij rischia il plotone d’esecuzione. Quanti scrittori ancora oggi sono condannati a morte per le loro idee?»
Altra immagine, altro squarcio d’attualità: la donna che vede morire la sua bambina nell’attentato all’alto graduato zarista...
«Quella scena è un’immagine chiave del film. La bomba del terrorismo, la violenza idiota che causa morte e distruzione. Qui racconto tutta la mia intolleranza per le bombe, per la violenza, per quelli che credono si possa cambiare il mondo uccidendo degli innocenti. Sono contro questi crimini nascosti dietro falsi ideali».
L’immagine delle bombe dei «terroristi» porta anche a quelle Usa sull’Iraq, sull’Afghanistan... giusto per citare le più recenti.
«Certo, sono sempre espressione di violenza e terrorismo. Oggi si chiama bomba intelligente, ma come si può definire tale? Sicuramente non voglio conoscere chi l’ha inventata. Sono tutte forme di intolleranza, cosa di cui soffro terribilmente e che ho raccontato in tanti film...».
Ma dunque quale può essere la strada per un cambiamento?
«Se la rivoluzione si potesse fare soltanto con le idee allora sì. Io sono della generazione che c’era nel 1945. Eravamo pieni di speranza e di ottimismo. Poi ci sono stati rubati sia l’una che l’altro: ce li hanno portati via la storia e gli eventi. Ma soltanto con l’egoismo e senza ottimismo non si può vivere. Per questo mi conservo gelosamente quel po’ di ottimismo che mi resta per offrirlo alle giovani generazioni».

l’Unità 22.4.08
Un film sull’oggi dove rintracciare la battaglia tibetana o il tracollo a sinistra
Attenti ai cattivi maestri. Dostoevskij ci avvisa
di Alberto Crespi


Fjodor Michajlovic, io sono convinto che prima o poi la rivoluzione vincerà. Ma sono pagato perché questo accada il più tardi possibile». Sono profetiche, le parole che l’inquisitore Pavlovic rivolge allo scrittore Dostoevskij; ha letto attentamente Proudhon, Marx e Bakunin e sa che c’è del buono nelle loro parole, ma un burocrate di Stato deve fare prima di tutto il suo dovere. Quando poi la rivoluzione, in Russia, vincerà, l’utopia sfocerà in un bagno di sangue che continua, in forme diverse, ancora oggi.
I demoni di San Pietroburgo, nuovo film di Giuliano Montaldo a 19 anni di distanza dal precedente Tempo di uccidere, comunica tutta la vertigine della Storia con la «S» maiuscola. Parla di Dostoevskij, dei nichilisti, degli attentati contro la famiglia dello Zar che insanguinano San Pietroburgo nel 1860. Ma parla del futuro di quel paese, e soprattutto parla di noi italiani: si rivolge a una generazione che ascoltando i «cattivi maestri» ha creduto di interpretare i desideri del «popolo» e di realizzarli con la violenza. Il Dostoevskij di Montaldo - brillantemente interpretato dall’attore jugoslavo Miki Manojlovic - da giovane ha corteggiato l’ideologia rivoluzionaria, ma dopo esser stato condannato a morte e aver ricevuto la grazia davanti al plotone d’esecuzione ha trascorso dieci anni in Siberia e lì ha conosciuto il popolo vero, e ora può dire che la violenza non serve a nulla. Ma gli ex discepoli non sono più disposti ad ascoltarlo e fermarli è forse impossibile...
I demoni di San Pietroburgo si muove su due livelli, narrativi e filosofici. Il «presente» del 1865-66, che vede Dostoevskij impegnato nell’affannosa stesura del Giocatore, si mescola ai flash-back sulla prigionia in Siberia; lo stile solenne della messinscena storica si fa parabola contro l’uso della violenza a fini politici, in ogni tempo e in ogni luogo. È la forza di Dostoevskij, che non era solo uno scrittore immenso, ma anche un uomo nella cui vita si riflette, come in un ologramma, l’intero mistero dell’umanità (anche qui ha ragione il Pavlovic del solito, grande Roberto Herlitzka: «La sua vita, Fjodor Michajlovic, è più affascinante dei suoi romanzi»). Una forza che Montaldo, già capace di confrontarsi con il genio ribelle di Giordano Bruno e con la curiosità umanistica di Marco Polo, ci ridà sullo schermo al 100%. I demoni di San Pietroburgo è leggibile a mille livelli. Oggi - il nostro «oggi» di questo aprile 2008 - può sembrare un film sulla resistenza non violenta dei tibetani, sulla bizzarra amicizia Putin-Berlusconi o sul tracollo elettorale della sinistra radicale. Domani, chissà.

l’Unità 22.4.08
C’era una volta il Novecento
di Adolfo Di Maio


Diciamoci la verità: a sinistra si sentono, tutti, un po’ più orfani, dopo il terremoto politico, un vero e proprio tsunami, che ha spazzato via la Sinistra Arcobaleno e cioè l’ala sinistra della “sinistra”.
E, in realtà, quanti di coloro che albergano a sinistra misuravano se stessi, il proprio modo di essere e di manifestarsi, di fare politica, sul metro di coloro che, nell’area, si professavano comunisti e/o post-comunisti, rifondatori del comunismo, socialisti democratici, nenniani o craxiani, verdi ambientalisti e quant’altro! E ora, come ci si fa a definirsi tout court “democratici”, senza i compagni di strada?
Il passato, più o meno presente, e/o meglio il “maledetto” Novecento, sembra diventato d’improvviso “storia” e lo è, in realtà, diventata, così come ha osservato con la consueta lucidità Aldo Schiavone nella Repubblica di questi giorni.
Freddi interpreti dei risultati elettorali si sono già affrettati a proferire giudizi, nel riconoscere ad esempio che è stato un po’ uscire dai sogni del Novecento, entrare nel XXI secolo, acquistare coscienza che questa è la scommessa posta dalla “modernità” e che, al di là di questa, non v’era che immaginare di stare in compagnia di gogoliane “anime morte”.
Il Walter nazionale aveva ben visto nel fondo, a voler camminare “da solo”, senza più la compagnia, ingombrante, degli amici di strada. E non è un caso che i circa due milioni di voti persi dalla sinistra sono entrati nella unica realtà che, per essi, allo stato era proponibile e cioè nel Partito Democratico. E, a ben considerare, la mancata vittoria non è dunque dovuta agli errori della sinistra ma al fatto che essa, aprendo gli occhi sulla realtà, doveva constatare che questa era ben più seria di quanto essa stessa fosse indotta a pensare. E chiamiamola “destra” o “popolo della libertà” o con altra espressione, la denominazione poco conta: nietzsciana volontà di potenza, ri-appropriazione del territorio in forme inconsuete, periferia, in salsa federalista, che si ribella al centro “ladrone”, ma poi sovratutto antipolitica. Fattori, umori, tutti presenti, senza esclusione alcuna, in una società indistinta, ove etichette, quella di destra e/o di sinistra, rischiano di non essere in grado di rappresentare mutamenti, trasformazioni, precarietà in certa di padroni, professionalità emergenti, non più leggibili con il linguaggio, politichese, del Novecento.
Il leniniano “che fare”, si pone dunque in termini nuovi! Ma la ragione può indurre a dire che i problemi non sono sogni, ma dura realtà, e continuano ad essere più complicati e ingarbugliati di prima e che la “politica”, pur sempre, è l’unica, deputata in prima persona a risolverli. Di qui la convinzione che le forme della politica siano destinate, pur sempre, a sopravvivere ai terremoti e la “storia” può continuare ad essere ancora presente nell’agire e nella memoria degli uomini. È questa anche una forma di ottimismo della volontà!
Università Roma Tre

l’Unità Roma 22.4.08
Fritz Lang l’«inesorabile»
Così veniva definito da Truffaut il regista al quale la Sala Trevi dedica una rassegna
di Federico Pedroni


«UNA PAROLA SOLA per qualificarlo: inesorabile. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina, ogni taglio, ogni spostamento degli attori, ogni gesto ha qualcosa di decisivo, di inimitabile». Con queste parole François Truffaut definiva Fritz Lang, uno dei giganti del cinema mondiale che la Sala Trevi omaggia oggi e domani con otto film. Lang è uno dei registi che meglio ha saputo mescolare la forza stilistica tipica del cinema espressionista tedesco con una feroce tensione morale anche quando, dopo la fuga dalla Germania nazista, si è trovato a lavorare nel meccanismo produttivo degli studios americani. Negli anni ’40 e ’50 Lang ha saputo riscrivere come pochi il cinema noir realizzando veri e propri capolavori che hanno fatto la storia del cinema di genere americano, da "La donna del ritratto" a "Il grande caldo". E proprio "La donna del ritratto" chiuderà i due giorni di programmazione domani sera alle 21.20, presentato da Vieri Razzini, distributore cinefilo che al grande cinema classico americano dedica da anni una bellissima collana di DVD. Il film racconta la discesa agli inferi di un tranquillo professore di criminologia, interpretato da Edward G. Robinson. Il film indaga, come molte delle opere di Lang, sul filo sottile che lega colpevolezza e innocenza, sul lato più oscuro dell’animo umano, sul torbido vero che giace sotto le apparenze più accettabili. A questa tensione etica sono riconducibili anche, in maniera più o meno marcata, anche altri due film presentati domani: il classico "Gardenia blu" e il meno conosciuto, bellissimo, "Bassa marea" mentre all’impegno antinazista di Lang è da ascrivere "Maschere e pugnali", interpretato da Gary Cooper e censurato per la violenta requisitoria antiatomica del finale originale. La giornata di oggi ci dà invece la possibilità di scoprire, accanto a un capolavoro celebre come "M - Il mostro di Dusseldorf", tre rarità di grande fascino: "Harakiri", presentato in versione restaurata, e "L’inafferrabile" - entrambi del periodo tedesco - e il bellissimo "Il vendicatore di Jess il bandito", primo film a colori di Lang e sua rara incursione nel western che l’autore viennese arricchisce con i suoi interrogativi etici e con una riflessione non banale che lo porta a confrontarsi con i miti fondanti dell’America e della sua epopea.

Repubblica 22.4.08
Simboli e passato
Il candidato di An dal Fronte della Gioventù alle stanze del potere
Gianni, crociato eclettico tra Evola e Santo Sepolcro
L’ex ministro e quella celtica fatta benedire
di Filippo Ceccarelli


Arrivato al ministero fece benedire la stanza che era stata di Pecoraro
Il candidato sindaco: la celtica per me ha valore religioso, era di Paolo Di Nella
Da ministro ha celebrato il solstizio d´inverno e scalato il K2

Ballottaggi: a ciascuno la sua croce. Quella che porta appesa al collo Gianni Alemanno è una croce celtica. Poco amichevolmente, in verità, l´ha ricordato nei giorni scorsi l´ex sodale Storace, ma si sapeva dal maggio del 2006, quando alle Invasioni barbariche Daria Bignardi in pratica costrinse l´esponente di An a sbottonarsi il colletto della camica mostrando quel ciondolo alle telecamente, in una specie di outing a sfondo politico, identitario e confessionale.
«Per me - disse in quell´occasione - è un simbolo religioso e rappresenta un modo d´essere del cristianesimo celtico. Lo porto anche in ricordo dei miei amici persi». Quella croce, in particolare, apparteneva a un giovane di destra trucidato dai «rossi» negli anni di piombo, Paolo Di Nella - a cui nel 2005 l´amministrazione Veltroni ha dedicato una strada.
C´è pure da dire che il simbolico spogliarello allora non piacque affatto ad Alemanno: «Lei mi fa una violenza - disse - perché certe cose è meglio non metterle in campo». Ma da due anni a questa parte, grazie anche a spettacoli politici di questo genere, «certe cose» hanno ampiamente guadagnato il campo della vita pubblica. Tanto che ieri il candidato sindaco del centrodestra non solo ha insistito sulla natura religiosa della sua croce celtica, ma ha rivelato di averla anche fatta benedire «al Santo Sepolcro», nell´anno 2003, «durante il viaggio che ho fatto in Israele».
Ora. Posto che gli elementi devozionali, ancorché privati, sono definitivamente entrati nell´agone, converrà qui esprimere qualche serio dubbio sul valore esclusivamente sacro di ciò che l´ex ministro Alemanno porta al collo. Perché si tratta certo di un simbolo del cattolicesimo irlandese, come ha ricordato ieri anche il presidente emerito Cossiga, ma nelle sue radici indoeuropee la croce celtica si trova connessa alle iscrizioni rupestri, all´esoterismo solare, ai graffiti bretoni ed etruschi, alla cultura druidica dei celti e poi ancora ai cimiteri gotici, alla divisione «Charlemagne» delle Ss, fino all´universo di Tolkien.
Secondo un classico, ormai, come «Fascisti immaginari», di Luciano Lanna e Filippo Rossi (Vallecchi, 2003) la croce celtica risulta molto poco santa e assai estremistica, introdotta da Jean Thiriart, l´«orologiaio di Bruxelles», leader di Jeune Europe. Messa al bando da Almirante nel 1978, mantenuta in vita dai rautiani della tradizione evoliana, allora in odore di magia e paganesimo; e quindi, una volta approdata fra gli ultrà del calcio, dichiarata illegale dalla legge Mancino (1993). Infine - se di fine si tratta - ri-santificata da Alemanno, ieri camerata certamente oltranzista, oggi crociato parecchio eclettico.
Nel senso che è di sicuro cattolico, ma per sua ammissione ha praticato la meditazione Zen. Va a messa con una certa regolarità, ma è stato scritto che si fa fare le carte dalla maga Luana. Non che tutto questo sia motivo di scandalo, gli osservatori anzi ne traggono spunti di un certo interesse sulla trasformazione del ceto politico e della destra in particolare. Nel 2001, appena preso possesso del ministero dell´Agricoltura, «a scanso di equivoci», come poi spiegò con quella che parve una allusione ai costumi dei predecessori, Alemanno fece benedire da un sacerdote le stanze fino a quel momento occupate da Pecoraro Scanio e dal suo staff. Poi sì certo con il leader dei verdi fece anche pace, partecipando a una sorta di incredibile gara di free-climbing, entrambi imbracati dentro il cratere del Vesuvio.
Ma quello che qui vale forse la pena di sottolineare è che un paio d´anni dopo, per la precisione la notte del 21 dicembre del 2003, il ministro dell´Agricoltura volò con l´elicottero in un paesino delle Marche, Campodonico, per celebrare all´aperto con alcuni amici e un grande falò quello che al locale parroco parve «il rito pagano del solstizio d´inverno». E vai a sapere se di questo si trattava, o di un «seminario» come tempestivamente spiegarono al ministero.
Nel frattempo, è possibile che il potere abbia molto cambiato «Lupomanno», com´era detto nel Fronte della Gioventù, quando l´ardore politico e la tempesta di quegli anni più di una volta lo portarono in situazioni estreme, scontri, fermi, arresti. Si sa come vanno queste cose: questuanti, auto, riviste, foto, feste, interviste di Anna La Rosa, applausi, codazzi, vacanze esotiche, pranzetti sullo Yacht di Diego Della Valle, immersioni e scalate anche impegnative tipo il K2, ma proprio per questo con i giornalisti dei tg al seguito.
La secolarizzazione nera. Al punto che ad Alemanno è ispirata la figura del ministro di An - Manlio Germano - che nel film di Virzì Caterina va in città si vergogna ormai dei vecchi camerati. Non si sapeva però che intanto il vero Alemanno, il futuro candidato che promette di regalare a Roma due stadi e il casinò, faceva benedire la celtica. E in questa trasfigurazione di simboli, in questo carosello di croci disvelate ed estremismi rimossi si misura tutto il senso di un passaggio che anche solo cinque anni fa nessuno avrebbe mai potuto immaginare.

Repubblica 22.4.08
Jorge Luis Borges. Perché amo il labirinto
di Achille Bonito Oliva


Una antica conversazione con l'autore di "Finzioni" apre una sorta di enciclopedia dedicata all´arte nostra contemporanea
"Il mio amico de Chirico è un grande pittore ma ho perso la vista non so più nulla"
"Ariosto è come un fiume con tanti meandri, non è come leggere Kafka o James"

Di uscirà nei prossimi giorni l´"Enciclopedia della parola" (sottotitolo: Dialoghi d´artista. 1968-2008, Skira, pagg. 504, euro 34). Qui pubblichiamo parte della "Prefazione in forma di dialogo sul labirinto dell´arte" con Jorge Luis Borges. L´incontro con lo scrittore si è svolto a Buenos Aires nel 1981.
«Noi scriviamo delle commedie che non si assomigliano... commedie in assoluto... è impossibile che abbiamo scelto... Orlando, ad esempio».
E´ curioso che a lei piacciano sempre grandi scrittori che non sono labirintici.
«Bene Ariosto... è un poco... sì, però è un labirinto felice, è come un fiume con tanti meandri, non è un labirinto nel senso, diciamo, di Henry James o Kafka... sono labirinti quelli di Piranesi, è vero, carceri... dimensioni; però Ariosto è un´altra cosa, è un labirinto felice, nel senso di una selva, tutto il mondo è un labirinto. Una volta ho immaginato».
Ha immaginato che cosa?
«La cosa più impossibile, impossibile pronunciarla al sole... credo che l´idea sia questa... nell´ultimo viaggio, Dante è stato a Venezia, vero?... Andiamo a supporre, se questo è supporre, che egli si sia proposto di scrivere un altro libro dopo la Commedia, che libro poteva proporsi... che fosse un altro racconto... salvo che non si sia proposto niente, perché la Commedia era tutto. Una bella storia... c´era un soliloquio, un monologo di Dante: scriverò tale libro, non è necessario che lo scriva, perché immaginarlo sarebbe moltissimo, no? Dopo muore senza scriverlo, è un racconto impossibile, no? Perché uno si immagina, nel periodo d´oro della Commedia... Però potrebbe essere un racconto fantastico, troppo fantastico... e uno lo interpreta in diversi modi, tutti permessi dal testo. In generale, quando uno traduce, sceglie un´interpretazione e la accentua, però l´ambiguità, o l´oscurità, può essere una ricchezza, anche... è così misteriosa la letteratura che non si sa cosa è chiaro e cosa è oscuro... è un´arte tanto misteriosa. tanto difficile da realizzare».
Esiste una contraddizione tra la chiarezza e il labirinto?
«Sì, soltanto che il labirinto è stato ideato con chiarezza. Vuol dire che al labirinto, al caos, non si arriva col caos, si arriva col cosmo. S´intende che il labirinto ha un ordine segreto. E´ disposto per l´ordine e per essere compreso... può darsi».
Qual è il primo labirinto che ha visto in vita sua?
«Il primo l´ho visto su un´incisione; dopo sono stato a Cnossos, a Creta; poi a Hampton Court, che è un maze, diverso, è un labirinto un poco frivolo, un poco scherzoso; però tante volte il labirinto è un simbolo per la felicità... e tu, e tu hai vissuto per questo, perché ci sentiamo smarriti nel mondo, e il simbolo evidente è essere smarriti nel labirinto... e questa parola "labirinto" è così bella!».
Cosa significa per lei la parola "labirinto"?
«Suggerisce qualcosa di terribile. Anticamente si riferiva alle gallerie delle miniere, il labirinto... E´ curioso, in Chaucer nel XIV secolo, il "labirinto" è un labirinto che si muove, fatto di giunchi, circolare, molto strano; e ho letto che il labirinto, Dürer se lo immaginava girevole, ma Dürer si era perso nel labirinto che gira, ma dal labirinto si entra e si esce rapidamente, una specie di circolo mobile, "Laborintus" scriviamo, che bella parola, inventa figure... il Minotauro...».
Secondo lei, i gironi dell´inferno possono essere considerati una specie di labirinto?
«Forse sì».
Il labirinto fino al Rinascimento era una struttura in cui si arrivava sempre al centro; dopo il Rinascimento, col manierismo, invece, il labirinto diventa il luogo della perdita, quindi esiste un labirinto che è più vicino alla nostra sensibilità e che comincia col manierismo e col barocco.
«Chesterton ha detto: "Noi siamo quello che noi tutti temiamo, un labirinto senza centro". Lui ha usato un´espressione di timore cosmico, no?».
Il suo labirinto, quello della sua letteratura, Borges, ha un centro o no?
«Sì, ha un centro, un racconto fantastico di significati senza spiegazioni; è un apparente labirinto, e dopo si vede che no, che è un cosmo, che c´è un ordine, che c´è una spiegazione ragionevole. Io non so perché ho usato tanto "labirinto"; mi ha richiamato tanto l´attenzione l´idea del labirinto, l´idea del Minotauro, da quando ero piccolo, e io non saprei spiegarmelo. Quell´ossessione è stata notata dai lettori, io non la conoscevo, la esercitavo o ero vittima sua, però non ho mai cercato di spiegarmela. Lo sa che io non ho mai letto niente di scritto su di me, io non ho mai letto un libro scritto su di me, o perché m´interessava poco il tema, o perché m´interessava troppo. Si è scritta una biblioteca su di me, io non ho mai letto niente; a casa mia non ci sono neanche libri miei, ci sono degli autori, non i miei libri».
Borges, il suo labirinto, il labirinto dei suoi racconti, delle sue poesie, ha un centro...
«Io credo di capire che abbiano un centro, ma tante volte no, per incapacità mia. Io non cerco di essere oscuro, io cerco di essere classico, però sembra di no, sembra che io sia disgraziatamente moderno. Un mio amico, de Chirico, quando diceva che qualcosa era brutto, diceva: "E´ moderno, è brutto"».
Lei cosa ne pensa della pittura di de Chirico?
«E´ un grande pittore; non posso vedere le sue opere, perché ho perso la vista. La mia opinione non vale niente, perché ho perso la vista come lettore. Nell´anno 1955 ho potuto vedere qualche film, dopo... ho potuto vedere dei volti, e adesso no, adesso vivo nel centro di una nebbia, di una nebbia luminosa, più o meno grigiastra o verde. Ho perso due colori, che sono il rosso e il nero; li vedo come il pardo (indica un colore che va dal grigio al verdastro, spesso attribuito alla pelle dei meticci, n.d.t.) e come azzurro ora verdastro. Quello che ora mi fa nostalgia è il nero; io avevo l´abitudine di dormire nell´oscurità, adesso non c´è oscurità per me, adesso è tutto vagamente luminoso e non vedo forma, non vedo movimento. Se muovo la mano, la vedo che si muove, però non vedo che è la mia mano; e quando muovo las tontas (in gauchesco: "gamboni", "piedoni", n.d.t.) mi sembra di vederli, e m´incattivisco di non vederli. Però non è terribile, perché è stato un processo così lento che non c´è stato nessun momento tragico; se fosse stato brusco, sarebbe stato, sì, tragico, e uno può suicidarsi. Siccome io ho visto i miei genitori morire ciechi, mia nonna morire cieca, il mio nonno inglese morire cieco, e più indietro... non lo so».
Si può dire che nella sua letteratura...
«Io conosco molto poco della letteratura, io la scrivo e la dimentico, voi la conoscete di più perché l´avete letta. Io l´ho letta per correggere le bozze, e ultimamente neanche, perché non potevo correggere le bozze. Io cerco tanto di dimenticare quello che ho scritto e di pensare a ciò che scriverò; credo che sia malsano guardare indietro. Franco Maria Ricci mi ha detto: "Pubblichiamo per non passare la vita a correggere i manoscritti". Se si pubblica un libro, ci si libera di lui; io pubblico un libro e non so se sia venduto, se sia tradotto, se ha avuto successo, se hanno scritto su di esso, se non hanno scritto. Io giudico attraverso i miei amici; se i miei amici non me ne parlano è perché non è loro piaciuto, e se me ne parlano sono molto generosi di particolari. Però molte volte se pubblico un libro, non dicono una parola; io capisco che non è loro piaciuto e cambio tema... e cerco un altro tema. Non ho mai cercato di essere famoso. E´ questione di generazioni; quando io ero giovane non si pensava al successo».

Corriere della Sera 22.4.08
L'intervento di Giovanni De Luna: il Ventennio non significò solo le leggi del '38, ma anche la fine della libertà
L'interpretazione Equiparare regime mussoliniano e nazismo serve anche a salvare almeno un merito storico del comunismo
Se la Shoah oscura l'antifascismo
L'uso strumentale del razzismo: un errore che la sinistra paga oggi
di Ernesto Galli Della Loggia


Le tesi di De Felice avrebbero avuto lo scopo di attenuare il carattere totalitario del regime

Se «per decenni la memoria della Resistenza, dell'antifascismo e della deportazione politica era così straripante da annettersi anche quella della Shoah, oggi la situazione si è capovolta, e nel segno della Shoah a rischiare di sparire dal discorso pubblico e dalla nostra memoria collettiva è proprio l'antifascismo». Con queste parole, qualche settimana fa, sulla Stampa («Il fascismo derubricato») Giovanni De Luna ha voluto unire il proprio grido d'allarme a quello dell'Associazione degli ex deportati politici (Aned) per la decisione del governo Prodi di affidare il nuovo allestimento del Padiglione italiano del Museo di Auschwitz esclusivamente a organizzazioni ebraiche come il Cdec e l'Ucei. Dunque con la virtuale esclusione dell'Aned la quale, invece, aveva avuto l'incarico in questione per l'allestimento precedente, eseguito negli anni Settanta. Ecco la prova per l'appunto, secondo De Luna, che la memoria della Shoah ha inghiottito quella dell'antifascismo, sicché oggi, egli lamenta, «per prendere le distanze dal fascismo basta condannare l'infamia delle leggi razziali del 1938» — cosa che anche a Fini e al suo partito non è stato difficile fare — «quasi che quelle leggi esaurissero per intero la dimensione totalitaria del regime e possano costituire un ottimo pretesto per chi vuole dimenticare che il fascismo prima uccise la libertà e la democrazia e poi perseguitò gli ebrei».
In quello che dice De Luna c'è senz'altro qualcosa di vero che non riguarda certo solo l'Italia. Dietro lo spostamento d'ottica che egli in qualche modo denuncia c'è, infatti, un grande fenomeno, storiografico ma in generale culturale che ha investito tutto l'Occidente a partire dagli anni Sessanta. Si tratta, per così dire, della «riscoperta» dell'Olocausto dopo la parentesi di relativo oblio in cui esso era caduto negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Riscoperta a sua volta decisiva per dare vita a quell'altro importantissimo fenomeno che è stato il progressivo emergere, in tempi a noi vicini, di una vera e propria «cultura della vittima» e dell'idea connessa di una giustizia cosmopolitica.
Ma sicuramente c'è anche dell'altro nello spostamento di ottica dal fascismo nel suo insieme al singolo aspetto dell'antisemitismo quale suo supposto tratto onnicomprensivo e determinante. E questo altro, mi pare, è molto italiano, molto roba di casa nostra, perché legato a quella componente essenziale della scena pubblica italiana che è stata la «cultura di sinistra», di cui non a caso la storiografia dell'età contemporanea — soprattutto quella del fascismo — è stata e continua ad essere una parte così importante. In questo senso, come adesso dirò, al lamento di De Luna, il quale nella cultura suddetta si è sempre riconosciuto, non sarebbe affatto improprio replicare «chi è causa del suo mal» con quel che segue. Per capire che cosa intendo bisogna rifarsi a quel momento cruciale della contesa storiografico- politica intorno all'interpretazione del fascismo che furono in Italia gli anni Settanta- Ottanta. Gli anni in cui si afferma nel nostro panorama degli studi e ancor di più presso il grande pubblico l'opera di Renzo De Felice: alla quale però una gran parte della «cultura di sinistra» risponde con l'accusa di «revisionismo ». Cioè con l'accusa di voler programmaticamente attenuare il carattere totalitario del regime, di non nasconderne certe ispirazioni moderne e popolari, di volerne mostrare l'effettiva base di consenso, e così in certo senso di riabilitarlo. Oltre che storiografica l'accusa ha anche un esplicito contenuto politico: la ricostruzione di De Felice, infatti, smentisce nella sostanza l'immagine del Ventennio in contrapposizione alla quale la sinistra ha costruito il mito dell'antifascismo e della Resistenza, di cui ha così ampiamente beneficiato. È precisamente nell'ambito di questa contesa (e in sintonia con quanto nel frattempo stava accadendo all'estero, specie negli Stati Uniti, e di cui parlavo sopra) che la storiografia della sinistra, che fino allora non aveva prestato quasi alcuna attenzione al tema (basti vedere i diversi volumi di «lezioni» sul fascismo che i maggiori editori italiani, da Laterza a Einaudi, pubblicano dall'inizio degli anni Sessanta agli inizi dei Settanta), comincia a mettere sempre più l'accento sull'antisemitismo e sulle leggi razziali quale tratto assolutamente caratterizzante della storia e dell'ideologia del fascismo. Lo fa con l'intento di equiparare in qualche modo la legislazione razzista del '38 alla «soluzione finale» hitleriana, il fascismo pre-25 luglio a quello di Salò, e di stabilire così un legame decisivo tra il regime fascista e quello nazista. In tal modo lo statuto storico del fascismo è dedotto in misura decisiva dall'antisemitismo; è l'antisemitismo che ne definisce la vera natura, omologandolo sostanzialmente a quell'archetipo di totalitarismo diabolico-omicida che è stato il regime hitleriano. Di modo che, come si capisce, ogni distinzione o disamina defeliciana è destinata a lasciare il tempo che trova, mentre resta ben salda l'immagine del Ventennio elaborata dall'antifascismo politico tradizionale.
Ma non basta. Alle pur importanti ragioni difensive di questo impianto storiografico la cultura di sinistra ne ha aggiunto alla fine degli anni Ottanta un'altra ancora, non meno importante: la difesa della memoria del comunismo, quel comunismo con cui la sua vicenda, specie in Italia, era stata fino allora tanto strettamente intrecciata. La fine dell'Unione Sovietica e ciò che anche dai suoi archivi cominciava a venir fuori gettavano, infatti, un'ombra sempre più cupa su quell'ideologia, sui suoi regimi e i suoi partiti, minacciando di relegare l'una e gli altri tra gli orrori del Novecento. Dunque per un'intera esperienza vissuta anche in Italia da milioni e milioni di persone, tra cui molti intellettuali, il passato rischiava di diventare un vissuto ideologicamente indifendibile, costellato solo da errori. Anche l'esperienza dell'antifascismo politico tradizionale perdeva ogni efficacia compensatrice e redentrice, nel momento in cui bisognava ammettere che quell'esperienza implicava molto spesso l'adesione a un'ideologia e a un regime, quelli comunisti, rivelatisi altrettanto se non più oppressivi del fascismo (si ricordi: sto parlando sempre del fascismo italiano, del regime di Mussolini). Tutto cambiava però se tra i due attori, il fascismo e il comunismo, ne veniva introdotto un terzo, l'antisemitismo. Se dopo l'89, agli occhi di molti, il comunismo in quanto tale non bastava più, infatti, ad assicurare una posizione di superiorità etico-politica rispetto al fascismo; se l'uno e l'altro potevano addirittura essere considerati due totalitarismi più o meno equivalenti, tutto però cambiava e ritornava al suo posto se sul conto del ventennio ducesco poteva essere messo il carico dell'Olocausto e sul conto del comunismo il merito — almeno quello, ma di quale peso! — di avere aperto i cancelli di Auschwitz. La Shoah, insomma, era chiamata a salvare indirettamente l'onore del comunismo o quel ne restava. Dopo l'equiparazione del fascismo al nazismo, l'accento sull'antisemitismo serviva ora a ristabilire l'incrinata primazia del comunismo sull'uno e sull'altro.
Anche per questa via, dunque, si è affermata, nell'interpretazione del fascismo fatta propria da molta storiografia e cultura di sinistra italiane (ma non solo) un'inedita centralità della categoria dell'antisemitismo. Chi, come Giovanni De Luna, si rammarica oggi che ciò abbia alla fine condotto ad una «derubricazione » del fascismo (e dell'antifascismo) dovrebbe forse pensare alle tante occasioni in cui in passato avrebbe potuto far sentire la propria voce contro l'uso forzato e strumentale della storia, ma non lo ha fatto.

Corriere della Sera 22.4.08
Editoria. Un'iniziativa della Sellerio, curata da Gianni Puglisi, indaga i nuovi saperi
«Le parole e le cose»: Foucault diventa una collana
di Pierluigi Panza


Dalla più teoretica tra le opera del filosofo francese Michel Foucault, Le parole e le cose (un'analisi epistemologica del sapere nell'età classica che mostra il dominio del linguaggio sull'individuo) prende nome e spunto una collana di saggi della casa editrice Sellerio, curata da Gianni Puglisi, rettore dello Iulm.
La collana, viene presentata oggi a Milano (ore 18, libreria Feltrinelli di piazza del Duomo, con Daniel-Henri Pageaux dell'Università Paris III e Luca Maria Scarantino dell'Ecole des Hautes Etudes di Parigi) nell'occasione di due nuove uscite:
Il grado zero dell'immagine. Rispecchiamenti dell'io nell'Altro di Puglisi e Paolo Proietti (pagine 68, e 12) e Specchi del Letterario: l'imagologia di Proietti (pp. 168, e 14).
La collana si prefigge di tratteggiare statuti disciplinari di materie tradizionali e di nuove «scienze umane» che vanno definendosi, come la «narratologia», la «imagologia» o la «tematologia» in un quadro di sapere interdisciplinare che va dagli studi sociologici a quelli della comunicazione.
Tra tutti questi argomenti accenniamo a due aspetti. Nel libro di Puglisi-Proietti emerge l'idea di conoscenza come performance, ovvero oggi ogni sapere è — come già in Richard Rorty ( Le conseguenze del pragmatismo) — costruzione di un modello che resiste al tempo in ragione della sua efficacia. In un altro testo della collana, Addio all'estetica di Jean-Marie Schaeffer (pp. 84, e 12) si mette sotto accusa il pan-estetismo, ovvero l'estendere all'infinito il campo d'indagine di questa disciplina fondata a metà Settecento da Baumgarten, transitata da un piano gnoseologico inferiore e di indagine artistica a quella di una soggettivazione di ogni fenomeno mondano.

il Riformista 22.4.08
Loft, si lavora al ballottaggio, va in soffitta il Pd autarchico
Se salva Roma, c'è un piano B
Autodifesa del leader. L'offerta all'Udc e quella alla Sinistra
di Stefano Cappellini


Il partito del nord, il ruolo dell'opposizione, le riforme istituzionali, la costruzione del Pd. Ma intanto Tor Bella Monaca e la Borghesiana. Nell'agenda di Walter Veltroni, prima delle grandi trame nazionali, viene il tour che lo vedrà impegnato oggi pomeriggio all'estrema periferia di una Roma sempre più in bilico tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno, e da qui a domenica a passeggio per tutti i quartieri più a rischio astensione, «perché il ballottagio - spiegano i veltroniani - non si vince con gli apparentamenti, ma portando la gente a votare». Veltroni ha ben chiaro il significato del secondo turno romano. Una sconfitta di Rutelli avrebbe conseguenze devastanti sulla leadership nazionale e sul Pd tutto. E per questo su Roma si stanno mobilitando anche gli altri leader, da Massimo D'Alema, sponsor del candidato democrat al consiglio comunale più votato (Umberto Marroni), a Franco Marini, impegnato a blindare i voti di area Cisl.
Solo conservando Roma la «nuova stagione» può ripartire. E ieri l'ex sindaco, approfittando della prima riunione post-voto dei segretari regionali, ha gettato le basi dell'autodifesa davanti alle contestazioni che comunque arriveranno sul deludente risultato del Pd. «Le parole d'ordine della campagna elettorale erano giuste ma la credibilità non si costruisce in quattro mesi», ha spiegato Veltroni, prima di fare muro su tutte le critiche. La Waterloo del 14 aprile? «Abbiamo avviato una rivoluzione dolce e segnato una discontinuità nel rapporto tra il Pd e la parte produttiva del Paese così come con la povera gente». La mancata rimonta su Berlusconi? «C'erano 22 punti di distanza, e questo è dimostrato anche dalle elezioni amministrative. Quei dati confrontati con quelli di oggi evidenziano un incremento del nostro elettorato di circa un terzo. Un recupero gigantesco». Il Pd fermo ai voti dell'Ulivo? «Il raffronto elettorale tra i dati del 2008 e quelli del 2006 è statisticamente corretto ma politicamente scorretto». Morale: «L'errore più grande che potremmo commettere ora è quello di tornare indietro», ha arringato il segretario.
Ma si sbaglia a pensare che Veltroni voglia barricarsi sulla linea con cui ha perso le elezioni. Le critiche che arrivano dal mondo dalemiano sul fallimento dell'autarchia, gli ammonimenti da quello popolare (ultimo il ministro Beppe Fioroni, che vuole «ridiscutere») e i mal di pancia dal fronte dei sindaci "padani" prefigurano già, archiviati i ballottaggi, un quadro di acceso confronto. L'assemblea dei segretari ha bocciato l'idea di un partito autonomo del nord. Nessuna specificità: nascerà un coordinamento del nord così come uno del sud. Ma di cambiamenti ne sono in arrivo altri e più importanti. Il Pd a vocazione maggioritaria sta lasciando il posto ad altre e meno solitarie soluzioni. Un primo cambiamento di rotta è già chiaro sul tema delle alleanze. Tra un anno c'è una importante tornata amministrativa, e tra due anni le regionali: come si tengono quelle città, province e regioni dove il Pd oggi governa con la sinistra? L'incubo generale dei dirigenti locali è il ripetersi su scala nazionale di un caso Roma, ovvero candidati costretti a remare controcorrente rispetto al quadro nazionale. Veltroni ha raccolto il tema. E per la prima volta, oltre a dolersi della scomparsa in Parlamento dell'Arcobaleno, ha condiviso una parte delle responsabilità sul disastro rosso-verde: «Alcune contraddizioni del centrosinistra - ha detto - si sono scaricate su quell'elettorato». Una mano tesa all'asse Bertinotti-Vendola-Mussi, che già lavora per una nuova Sinistra unita e alleata del Loft. Quindi è arrivata un'offerta politica ufficiale a Pieferdinando Casini: «Se il Pd costruirà un rapporto con le altre forze politiche, penso all'Udc, c'è la possibilità di far partire una sfida riformista che il paese non ha mai riconosciuto». Basterà la nuova linea, insieme alla difesa di Roma, a sopire le tensioni interne?
Per ora l'assalto al gruppo dirigente veltroniano avanza sottotraccia. Marini non vuol parlare di un suo approdo alla presidenza, più che probabile, ma intanto ha prenotato una stanza al Loft e ha opzionato il futuro capogruppo al Senato: vuole a tutti i costi Luigi Zanda. Alla Camera s'avanza Pierluigi Bersani, uno dei più critici verso la gestione attuale. Veltroni riuscirà a stoppare il commissariamento di fatto della sua leadership? Fonti vicine al segretario spiegano che la sua contromossa potrebbe essere un'altra. Lasciare che i detrattori si tolgano qualche soddisfazione sull'organigramma e puntare tutte le carte sull'apertura del tavolo delle riforme. Goffredo Bettini ha un mandato chiaro. E Veltroni non ha cambiato idea da quando, a Natale, disse che dopo le elezioni si sarebbe dovuto puntare sul modello francese per la Grande Riforma. La preoccupazione del leader è accorciare i tempi della traversata nel deserto: cinque anni di attesa potrebbero rivelarsi un logorio insostenibile, mentre invece il varo della Terza Repubblica, semipresidenziale, mischierebbe non poco tempi e attori della rivincita sul Pdl. Un piano non privo di rischi e incognite (Berlusconi è pronto davvero a sedersi al tavolo? Come si porrà la Lega?), ma sul quale intanto la prima parola spetta a Tor Bella Monaca e Borghesiana.

il Riformista 22.4.08
Tsunami. Citto tradisce, La Porta abiura, il manifesto si divide
I sans-papiers della Sinistra in cerca di casa
di Tommaso Labate


O con noi o contro di noi. I nemici dentro il partito, gli avversari fuori. O stai con Fausto&Nichi o con Ferrero. Per un pezzo autorevole di sinistra-sinistra, la guerra che si è aperta col comitato politico nazionale (Cpn) di Rifondazione - che molto probabilmente si concluderà con una scissione al congresso - rischia di avere effetti ancor più devastanti rispetto alla batosta elettorale. C'è chi rimane per vedere l'effetto che fa, chi medita di scappare, chi s'aggrappa al miraggio veltroniano, chi addirittura medita di intraprendere - parafrasando Zangrandi - un lungo viaggio attraverso il leghismo.
Col Fausto silente, la claque del presidente della Camera si è sciolta o quasi. Citto Maselli e la di lui compagna Stefania Brai, bertinottiani di antico conio, hanno votato il documento di Ferrero. Gabriele La Porta aveva fatto un salto a salutare i compagni nel pomeriggio del 14 aprile; dopo la prima proiezione se n'è andato e i pochi che l'hanno sentito recentemente giurano che l'uomo della notte Rai è pronto a riabbracciare la vecchia fede leghista. Dei fantasmi che turbano Piero Sansonetti e la direzione di Liberazione si sa più o meno tutto. Al manifesto, i senatori Valentino Parlato e Rossana Rossanda sostengono la linea-Fausto e stanno con Nichi Vendola; Gabriele Polo, invece, pende nettamente dalla parte opposta. Qualche mese fa, narra una leggenda che proprio leggenda non è, fu proprio a Polo, durante una segretissima cena, che Ferrero confidò i suoi piani per la conquista del partito.
Tutto questo è peggio dell'uscita dal Palazzo. Perché una sconfitta elettorale toglie potere. Una guerra civile, invece, alimenta le schiere di profughi. I sans-papiers della sinistra. «Ma è mai possibile?», ripete da giorni Sandro Curzi, rivendicando orgogliosamente la scelta di disertare il Cpn del week-end. «La settimana scorsa c'è stata una disfatta. Invece di ragionare sulle cause, c'è chi preferisce ripiegare sull'orticello interno. Diliberto con la falce e il martello, Rifondazione con lo scontro interno...». Già, lo scontro. La violenza si nasconde nei dettagli. «Non vogliamo un partito monosessuato», hanno scritto Imma Barbarossa, Loredana Fraleone e Roberta Fantozzi in un documento votato dalla maggioranza dalle donne del Prc. Documento anti-Vendola in cui si rilevava, tra le altre cose, il rischio «di un match tra maschi» per la segreteria.
E le cause della débâcle elettorale? Come derubricate, in secondo piano. Ancora Curzi: «Ho rivisto in Toscana un mio vecchio compagno dei tempi della Fgci. Mi ha detto: "Sandro, te abiti a Roma, sopra i Fori. Ma noi che stiamo qui sappiamo cosa vuol dire avere a che fare con quelli là..."». I Rom. Il caos sicurezza. «Non possiamo restare fermi - aggiunge il consigliere Rai -. Nel '47, quando a Roma c'era il grande campo nomadi ai Parioli, il Pci ci fece andare all'interno e aprire una sotto-sezione. Ci impose di capire. Oggi, niente di niente. La sinistra medita su sé stessa e la Lega trionfa. Magari poi fai un salto nei campi Rom, tutti in periferia, e ci trovi le Mercedes».
Di queste cose si discute fuori. «Per ora aspetto. Poi andrò al congresso e dirò la mia, sempre che interessi», spiega Curzi. C'è il Pd di Veltroni, in lontananza. «Se contestano o cacciano Walter dopo il ballottaggio di Roma, sarà un altra sconfitta per la democrazia», sottolinea l'ex direttore di Telekabul. Agnoletto è sempre più lontano. «Paghiamo tutti il grande prezzo di aver sostenuto un governo che è rimasto in Afghanistan e ha alzato le spese militari. Dobbiamo riallacciare il cordone coi movimenti», insiste mister no-global da Bruxelles.
Il resto della galassia è sempre più slacciato. Sinistra democratica si riunisce: Fabio Mussi si dimetterà per motivi di salute, Cesare Salvi guarderà (anzi, guarda già) ai socialisti. Più complicata la vita di Pietro Folena, che continua a coltivare l'amicizia personale con Veltroni: per mettere attorno a un tavolo la sua Uniti a sinistra , dovrà stare a sentire le ragioni dell'Associazione per il rinnovamento della sinistra (Tortorella), il Cantiere fu Occhetto (oggi Falomi) e i Rossoverdi (Ersilia Salvato). Dove si va? «Per adesso concentriamoci sul ballottaggio di Roma e sul 25 aprile», insiste Giovanni Russo Spena. «Con Alemanno e i suoi che puntano al Campidoglio, quest'anno la Liberazione assumerà un significato particolare. Non sarà semplice liturgia, vedrete». Il sindaco forzista di Alghero ha già vietato Bella ciao . Mario D'Urso è irreperibile. La traversata nel deserto della sinistra-sinistra è appena iniziata.

Giovedì 17 aprile
Festival della filosofia all'auditorium Parco della musica, sala Sinopoli
“Dalla critica alle armi? Il '68 e il problema della violenza”.
Conduce Giacomo Marramao, sono presenti Roberto Esposito, Toni Negri, Oskar Negt, Peter Schneider, Pere Vilanova.
(assenti Giuliano Ferrara e Massimiliano Fuksas, benché annunciati dal programma. Dal pubblico Oreste Scalzone alla fine interviene polemicamente rivolto a Negri)
il dibattito in una scheda di Noemi Ghetti


G. Marramao apre con la frase di E. Hobswan: “Non sa che la storia è storia della violenza?” . Ricorda che nel ‘68 in fase ascendente non c’era distinzione tra partecipanti di formazione liberale e marxista. A questa logica inclusiva delle differenze si è sostituita negli anni 70 una logica identitaria, fonte di violenza.
Roberto Esposito non crede che la violenza fosse insita nel ‘68, pensa che sia stata indotta dallo sterminio della differenza, dalla strategia della tensione.
Toni Negri afferma che il ‘68 americano o europeo in Italia non c’è stato. Qui è stata la classe operaia ad avere l’egemonia della lotta (agosto ‘69, Mirafiori) e ad aprire la strada a studenti e femministe. La violenza, che Spinoza considera comunque necessaria, nasce alla fine del ‘69 col compromesso storico, quando si determina un’asimmetria tra sviluppo delle lotte e reazione del potere. Il ‘68 segna la fine della lotta operaia, con il processo della modernità capitalista. Allora la critica e le armi ricominciano a lavorare insieme, come voleva Machiavelli. Quando non si incontrano, si ha il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, cioè il terrorismo. A ragione - conclude - parlando del ‘68 si torna a San Paolo: “Ero giudeo, son diventato cristiano. Non è una conversione, è il mio essere che è cambiato”. Il dopo è stato triste per chi non sa riconoscere nel ‘68 un’origine che è un avvenire (applausi).
Peter Schneider (autore di Lenz, all’epoca colpito dal provvedimento in Germania che escludeva dall’insegnamento gli insegnanti radicali) replica che la violenza del ‘68 fa parte della teoria della sinistra, e non è stata, come dicono Negri ed Esposito, solo una reazione alla violenza di destra. Un nuovo vocabolario ha dominato le menti: “classe operaia” invece di “operaio”, “sistema” invece che “politico corrotto”, “lotta di classe” sono termini che per logica di gruppo si sono imposti abbattendo ogni resistenza personale, con punizioni psicologiche per chi non si adeguava ai misteri del pensiero “giusto”. Il terrorismo è un movimento aberrante che ha distrutto il ‘68. Non è stata la polizia, siamo stati noi a distruggere le istanze migliori del ‘68. Ci voleva coraggio per combattere gli scandali del capitalismo, ma ci voleva più coraggio ancora per opporsi ai maestri dei nostri gruppi quando impazzivano. Questo secondo coraggio è mancato.
Marramao concorda che il ‘68 è fallito anche per colpa dei suoi protagonisti, ma ricorda che la generazione del ‘68 è diventata classe dirigente in Germania e in Francia, mentre in Italia è stata tagliata fuori, cosa che ha limitato la nostra democrazia.
Schneider precisa che tuttavia la marcia dentro le istituzioni dei sessantottini tedeschi non ha mostrato di avere idee molto chiare. Il ‘68 ha comunque portato una generale civilizzazione della società ora messa in pericolo, in Italia, da Berlusconi e da un papa tedesco che fa di tutto per annullare la separazione tra religione e stato.
Oskar Negt, che fu allievo di Adorno della scuola di Francoforte, si associa all’allarme.
Pere Vilanova, militante comunista durante il franchismo, riferendosi all’ETA e ad altre forme di terrorismo, precisa di avere sempre pensato che, per quanto riguarda la violenza, deve comunque esistere uno spartiacque: ci sono cose che il nemico fa e che io non vorrò mai fare. E’ una questione di etica politica. Altrimenti ogni differenza rispetto al nemico cade. Osserva inoltre che l’internazionalismo è stato rappresentato per l’ultima volta dal ‘68, ora ogni gruppo sta a sé. Neri coi neri, protestanti coi protestatnti, omesessuali con gli omosessuali. I palestinesi allora erano maoisti come noi, ora sono fondamentalisti.

Repubblica 21.4.08
I due Benedetto contro l'Illuminismo
di Mario Pirani


La vittoria della destra contiene in sé tutte le premesse per l´accentuarsi dell´interferenza religiosa sull´ordinamento laico della Repubblica. E´ facile, infatti, prefigurarsi lo zelo privo di remore ideali di Berlusconi e associati di fronte alle prescrizioni del Pontefice e della Conferenza episcopale sia che si tratti di coppie di fatto, di concepimento assistito o di aborto, di sovvenzioni alle scuole cattoliche o di convenzioni favorevoli alle cliniche di Ordini e Congregazioni. Ma tutto ciò si inquadrerà ancor più di quanto non avvenga in una complessa azione ideologica per ridurre la cultura laica ad una funzione ancillare e di servizio nei confronti della trascendenza e della verità come rivelazione. E´ un´offensiva che ha come teatro l´Europa cattolica con l´Italia da epicentro.
Lo "Standard" di Vienna tracciando un quadro sulla ripresa in forza del cattolicesimo militante scrive: «L´ora sembra essere quella di una Riconquista politica... Un clero senza complessi si autoinvita oggi nello spazio pubblico... con una arroganza che non si era più vista da molto tempo nella vecchia Europa». Potrei proseguire con una miriade di citazioni internazionali ma quel che m´interessa è proporre ai lettori una riflessione sul carattere dell´offensiva clericale.
Molti affermano che essa sgorga dall´emergere delle questioni "eticamente sensibili", ma a me pare che alla radice vi sia l´antica avversione per l´Illuminismo, per il libero pensiero, per la piena autonomia dell´individuo, per un´etica pubblica sottratta all´imperativo religioso. Siamo di fronte ad un grande balzo culturale all´indietro, a prima della Rivoluzione francese. Mi conforta in questa tesi un bel libro appena uscito, «Il governo della lettura. Chiesa e libri nell´Italia del Settecento» (ed. Il Mulino, Bologna 1908) di Patrizia Delpiano, che analizza e rende di impressionante attualità il conflitto tra la Chiesa e l´Illuminismo e, cioè, quella filosofia della Ragione, banalmente declassata al livello dell´incerto laicismo dei nostri giorni. L´oggetto della ricerca ha, anzitutto, la particolarità di concentrarsi sul XVIII secolo, il "secolo dei Lumi", quando la Chiesa appare sulla difensiva, dopo il periodo trionfante delle Congregazioni dell´Indice e dell´Inquisizione nei due secoli precedenti. Mentre declina la pratica dei roghi la Chiesa «sposta il baricentro dalle tecniche repressive a quelle persuasive». La materia del contendere è il controllo della cultura che allora voleva dire il controllo sui libri e sulla lettura, e la gerarchia ecclesiastica individua il nemico in «categorie culturali che andavano ben oltre l´eresia protestante.... Proponendo una morale laica, del tutto aliena dalla fede dogmatica tridentina, l´Illuminismo pareva travolgere l´ordine costituito e attaccare in nome dell´universalismo cosmopolitico, la stessa identità cattolica e cristiana della penisola». Anche il romanzo e la lettura d´intrattenimento «sono guardati con sospetto in quanto capaci di raggiungere un pubblico più ampio della tradizionale élite di lettori. Furono i due fenomeni (come non paragonarli alla Tv di oggi?, ndr) strettamente intrecciati nell´immaginario ecclesiastico a sollevare... una ricca riflessione sui danni della lettura... uno dei pericoli assoluti cui sembrava esposto quel popolo che la Chiesa in passato aveva cercato di proteggere dai veleni del protestantesimo».
Artefice di quella «controrivoluzione attiva» fu il celebre cardinal Lambertini, bolognese, assurto al Soglio come papa Benedetto XIV. Parso a molti il papa della tolleranza, «seppe in realtà trasformare l´Indice (che venne soppresso solo nel 1960 dopo il Vaticanio II) in uno strumento adeguato... a incoraggiare tra i letterati la pratica dell´autocorrezione e dunque dell´autocensura. Nel corso del secolo furono condannati tutti i classici dell´Illuminismo italiano ed europeo... In tal senso la resistenza della Chiesa ai Lumi ha oltrepassato il Settecento, sopravvivendo al tramonto dell´Illuminismo storicamente inteso... Non è soltanto nel breve periodo che bisogna valutare gli effetti di censura e propaganda svolta dalla Chiesa nel Settecento. In quella fase consegnò al futuro indicazioni preziose, seppe approntare un apparato teorico compatto, costituito in gran parte contro il mondo dei Lumi, basato sul ruolo centrale del cattolicesimo nella vita pubblica... sulla difesa dei doveri contro la rivendicazione dei diritti dell´uomo».
Nel cancellare le conquiste del Concilio il Benedetto bavarese raccoglie, dunque, l´eredità del Benedetto bolognese. Ecco con cosa i laici debbono confrontarsi.