giovedì 24 aprile 2008

l’Unità 24.4.08
25 aprile
Ma la storia non si cancella
di Andrea Camilleri

Un senatore, persona assai vicina al presidente Berlusconi, poco prima del voto, ha dichiarato che si sarebbe adoperato perché, nei libri di storia, almeno in quelli a uso scolastico, il «mito» del 25 aprile, cioè della Liberazione, venisse opportunamente ridimensionato.
Non è il primo e, certamente, non sarà l’ultimo a manifestare questo proposito. Che equivale, esattamente, a voler ridimensionare il Risorgimento. Il Risorgimento non è un mito, ma un fatto, come lo sono la Resistenza e la Liberazione.
Gli eventi storici che portarono alla Resistenza sono così semplici da essere assolutamente incontrovertibili, non possono essere né revisionati (la Storia non è un’automobile alla quale rilasciare tagliandi di validità a scadenze stabilite) né ridimensionati. Dopo l’ignominiosa fuga del re e di Badoglio da Roma, gli italiani e le forze armate italiane furono abbandonate a se stesse e il nostro paese venne militarmente occupato dai soldati di Hitler. Allora furono in molti a ribellarsi a questa occupazione diventando partigiani, combattenti per liberare la Patria dallo straniero.
Si trovarono fianco a fianco comunisti, socialisti, cattolici, liberali, uomini del partito d’azione, ufficiali dell’esercito, graduati, soldati, senza partito, reduci dai vari fronti.
Fu un movimento del tutto spontaneo e popolare. Solo dopo, solo quando il fantoccio Mussolini creò la Repubblica di Salò, la guerra di Liberazione divenne anche lotta contro i repubblichini che avevano così entusiasticamente affiancato i nazisti, autori d'innumerevoli stragi contro la popolazione inerme.
Non si trattò di una guerra civile, come affermano alcuni storici, e se lo fu in parte questo avvenne come conseguenza dell’intervento dei fascisti. I partigiani hanno segnato una pagina gloriosa della nostra storia. Hanno permesso che l’Italia si riscattasse dalle colpe del fascismo, prime tra tutte le leggi razziali, e riacquistasse la sua dignità di nazione. Hanno fatto sì che nascesse uno Stato democratico, hanno fatto sì che si potesse scrivere una Costituzione alla stesura della quale hanno contribuito tutti i rappresentanti delle diverse volontà popolari.
Hanno fatto rinascere l’Italia. Che c’è da revisionare?

l’Unità 24.4.08
La lunga liberazione dopo la lunga notte
di Bruno Bongiovanni

DOMANI CON L’UNITÀ il libro di Mirco Dondi su giustizia violenza e Resistenza tra il 1943 e il 1947. Un classico della nuova storiografia di sinistra che gettò luce in anticipo sulle leggende strumentali contro il ruolo liberatore del partigianato

Il libro concludeva del resto un decennio - l’ultimo del secolo scorso - in cui tutti i temi del biennio 1943-45, e anche (ma in misura minore) quelli del periodo immediatamente successivo, erano stati affrontati in modo libero e innovativo dalla storiografia di sinistra.Al centro vi era ora, grazie soprattutto a Dondi, anche il clima di violenza lasciato in eredità a molti da una guerra vissuta senza gloria e senza onore, ma anche dalle brutalità assunte dall’occupazione nazista e dall’intensità del conflitto tra italiani (i partigiani patrioti da una parte e i collaborazionisti di Hitler dall’altra), conflitto che sempre più spesso veniva definito, talora con quieto distacco semantico, e talora con ripetitivi intenti denigratori (nei confronti dei soli partigiani), «guerra civile». A questo proposito va comunque ricordato che nell’ultimo e incompiuto libro di Renzo De Felice (Mussolini l’alleato II La guerra civile 1943-1945, Einaudi 1997) si sosteneva, con franca intelligenza, che la guerra era divenuta «civile» perché i riemersi fascisti, creando la Repubblica Sociale (una sorte di notte dei morti viventi), erano diventati apparentemente sudditi autonomi e in realtà complici sottomessi del Reich. Non esisteva insomma più il fascismo, ma il nazifascismo, realtà politica disordinatamente e ferocemente omogenea.
Nel libro di Dondi si potevano e si possono così trovare il funzionamento e gli esiti della giustizia nel dopoguerra, ma anche la dimensione talora insurrezionale acquisita dalla liberazione. E immediatamente dopo, le statistiche e le cifre (nonché le notizie sui singoli avvenimenti) relative a quell’ «immediatamente dopo», dilatatosi peraltro nel tempo. Infine la dimensione «inerziale» della violenza al momento della smobilitazione e del disarmo normalizzante, senza che venga da Dondi trascurata, di tale violenza, la dimensione per così dire «residuale», spontaneamente diffusasi in varie aree territoriali del centro e del nord, una dimensione, quest’ultima, con velleità parapolitiche, confusamente «di classe» e incontrollate dall’alto. Di violenza intermittente, e nei fatti multiclassistica, si può infatti discorrere per il 1945-47, e non di rivoluzione proletaria organizzata e socialisticamente finalizzata. Né si dimentica ciò che spesso viene pudicamente dimenticato, vale a dire la presenza di una delinquenza comune trasformatasi, tra fame e assenza di ordine tutelato, in banditismo sbandato e in brigantaggio. Nell’Italia già liberata prima della liberazione (il Mezzogiorno) sono del resto già numerose le denunce dei vescovi in merito all’intensificarsi di omicidi, furti, mercato nero, miseria, egoismo padronale, prostituzione. Ma incomparabilmente maggiore, e senza possibilità veruna di confronto, rispetto alla violenza «cinetica» e spesso meccanicamente vendicatrice verificatasi dopo la liberazione, risulta invece la colossale violenza subìta dai militari e dai civili in guerra (compresi i bombardamenti) e nel corso dell’occupazione nazista (comprese le detenzioni nei Lager del duce e le numerosissime deportazioni).
Il decennio concluso dal libro di Dondi era stato ad ogni buon conto iniziato, sul terreno storiografico, dal gran libro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991). Si era, all’inizio degli anni ’90, arrivati a un periodo in cui non esistevano più la cancellazione «centrista» della Resistenza avvenuta negli anni ’50 e l’istituzionalizzazione algidamente avviata negli anni ’60 dai governi di centro-sinistra (quando il documento da consultare diventava irrigidito monumento ufficiale). E non esistevano più neppure i vivaci tentativi di emulazione radicalizzante - implicanti la transizione dalla Resistenza tricolore alla «Resistenza rossa» - effettuati negli anni ’70, così come la normalizzazione marginalizzante degli anni ’80. Con il richiamo alla «guerra civile», Pavone infrangeva un tabù difeso da gran parte degli antifascisti, e con il richiamo alla «moralità» riapriva il discorso su un’Italia nuova che aveva portato a termine quella rivoluzione liberale che Gobetti aveva individuato come disastrosamente tradita dopo (e durante) il Risorgimento e l’unificazione. Tre guerre, d’altra parte, secondo Pavone, avevano segnato e disegnato i venti mesi della lotta partigiana: la guerra patriottica, la guerra civile, la guerra di classe. La complessità multiforme di un periodo intensissimo, cui erano succedute la repubblica e la costituzione democratica (le vere vincitrici del processo), veniva così messa in luce.
Nel 1997 uscivano poi vari libri che collegavano la guerra civile alla guerra ai civili. Penso a La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, a cura di Leonardo Paggi (La Nuova Italia), a Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (Donzelli), a Paolo Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca (il Mulino). E ad altri libri ancora. Fino a quel momento erano mancati lavori sull’occupazione nazista (con fonti tedesche) e sulle cause delle numerose stragi di civili (da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto). Erano mancati anche lavori sui percorsi, non sempre univoci, della memoria delle vittime. Ora si poteva seguire la «comunità» militare nazista, e fascio-collaborazionista, mentre diventava «orda» assassina. La Wehrmacht risultava non meno coinvolta negli eccidi rispetto alle SS. E il fenomeno si disvelava accaduto in concomitanza con la troppo lenta catastrofe del Reich.
Era ormai maturo l’approdo alla lunga liberazione e a quel dopoguerra la cui violenza non fu nuova, ma causata da quel che era accaduto negli anni precedenti. Il libro di Dondi rappresentò al meglio questo approdo. Fu forse inevitabile, nel gran circo mediatico, che dalla storiografia si passasse allo scandalismo appunto mediatico. Arrivò così nel 2003, tra splatter esibito e uso sbagliato di fonti e numeri (i 9364 uccisi diventano 19.801), il libro romanzesco - il primo libro in questa direzione - di Giampaolo Pansa, un prodotto in tutto e per tutto nettissimamente inferiore, anche nello stile, a Sangue chiama sangue (1962) del fascistissimo Giorgio Pisanò, volume che era stato presentato come una lunga ricostruzione, già uscita a puntate su Gente nel 1960 in chiave schiettamente repubblichina, della violenza posta in essere dai partigiani durante e dopo la guerra di liberazione. La storiografia, però, nonostante Pansa, destinato in futuro ad essere dimenticato nonostante la gran mole di copie vendute, ha proseguito il suo lavoro. Ed è la storiografia ciò che, malgrado le grottesche minacce «manualistico-scolastiche» di Dell’Utri (sedotto più da Pansa che da Pisanò), resterà nel tempo e con il tempo. Si veda ora, tra i molti libri usciti nel nuovo secolo, Guido Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia (Donzelli, 2007). Il tragitto indicato da Pavone, da Dondi, e da moltissimi altri, giovani e meno giovani, ci dimostra insomma che la Resistenza, incancellabile, è all’origine della nostra identità repubblicana ed europea. L’unica identità culturalmente solida, e politicamente democratica, che abbiamo e avremo.

l’Unità 24.4.08
I loro obiettivi: 25 aprile e Costituzione
di Giancarlo Ferrero

La libertà è come l’aria: ci si rende conto che è essenziale solo quando manca. Per questo l’anniversario della Liberazione deve essere solennemente celebrato, per non dimenticare mai ciò che avevamo perduto e per rinnovare la nostra gratitudine verso coloro che hanno combattuto per ridarcela. Legato a questo dono è il testamento lasciatoci dai nostri padri della Patria: la Costituzione, cioè le fondamenta della costruzione repubblicana, la casa ideale in cui da oltre mezzo secolo viviamo e che abbiamo il dovere di custodire con cura. Purtroppo in un periodo di grande sciatteria morale, intellettuale e culturale come quello che stiamo attraversando, non sempre si è in grado di coglierne il valore e la bellezza che l’accompagna soprattutto nella prima parte, quella dei principi fondamentali assolutamente intoccabili perché caratterizzano il nostro Stato (se, con un colpo di mano venissero alterati o modificati, cambierebbe il tipo di Stato). Se si leggono i lavori preparatori della Carta Costituzionale si resta sbalorditi dalla profondità di pensiero dei partecipanti, dalla loro onestà intellettuale, dalla capacità di ricercare un linguaggio forbito, ma chiaro, con una proprietà terminologica degna del migliore linguista. Pochi sanno che compiuta la stesura, il testo della Costituzione fu sottoposto all’esame di insigni linguisti, in modo che la Carta fondante il nostro ordinamento giuridico fosse non solo “buona”, ma “bella”.
Con l’incoscienza e la presunzione propria di chi non sa, alcuni improvvisati “restauratori” del passato hanno tentato in pochi, in breve tempo ed in anomalo spazio di modificare quest’opera grandiosa che è la nostra Costituzione, frutto del lavoro congiunto di 556 membri di altissima levatura intellettuale e culturale, con la collaborazione esterna delle università, dei giuristi, degli avvocati, rivelando una straordinaria capacità di conciliare posizioni ideologiche diverse, con la ferma volontà di dettare norme giuridiche sintetiche e facilmente comprensibili.
Non ogni articolo, ma ogni parola dei 139 articoli è pesata, analizzata e vagliata singolarmente e nel suo contesto globale perché possa garantire la massima rispondenza sociale e giuridica al comune intento. Sarebbe impossibile, per l’inadeguatezza di chi scrive e per ovvi motivi di spazio, fornirne un’ampia dimostrazione; è sufficiente richiamare sia pur velocemente i primi tre articoli. Art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Perché l’Italia anziché “lo Stato italiano”? Una differenza tutt’altro che casuale: si è voluto così sottolineare l’identità etnica e l’unità spirituale della nazione quale espressione e punto di arrivo del processo di unificazione che ha portato alla nascita della nazione italiana. Di qui la sua implicita indivisibilità dello Stato, che viene espressamente sancita dall’art. 5 la cui lettura non può essere disgiunta da quella del citato art. 1. Il termine “Stato” è riservato alla designazione della parte dell’ordinamento giuridico che attiene alla complessa struttura centrale dell’apparato a cui è riconosciuta personalità giuridica. Il termine “Repubblica” sta, invece ad indicare un concetto più vasto, lo “stato Comunità” che riguarda tutte le istituzioni pubbliche secondo il criterio pluralistico indicato poi dall’art. 5, quindi non solo gli organi centrali, ma anche quelli periferici in conformità al principio delle autonomie locali e dei servizi decentrati (per cui il nostro ordinamento è quello di uno “Stato composto”).
Art. 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Un articolo il cui altissimo valore morale (il richiamo ai principi del Vangelo è spontaneo) illumina come un faro dalla luce potentissima il porto a cui deve sempre dirigersi il cammino istituzionale e quello dei cittadini. I costituenti hanno voluto appositamente collegare l’aggettivo “inviolabile” dei diritti fondamentali dell’uomo con quello di “inderogabile” dei doveri perché, come è stato autorevolmente scritto «nessuna democrazia può riuscire vitale se non sia sussidiata da un saldo e diffuso spirito civico, da una virtus che alimenti la coscienza dei singoli e ne ispiri i comportamenti secondo un principio di solidarietà». Si badi bene: si parla di “uomo” non di “cittadino” e si richiamano i diritti al plurale tra i quali va certamente incluso anche quello di avere una vita dignitosa che possa consentire a chiunque di realizzare la propria personalità. Sui doveri a cui fa riferimento l’articolo dovremmo tutti fare un onesto e doloroso esame di coscienza, siamo ben lontani dall’esercitare una effettiva solidarietà che troppo spesso anziché concepirla come un preciso dovere di cittadini confondiamo con l’appagante gesto di carità.
L’art. 3 recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzioni. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza». È questo l’articolo più frequentato nelle nostre coscienze e nell’aula della Corte Costituzionale perché più numerose e gravi sono le sue infrazioni che avvengono quotidianamente e di cui siamo diretti ed indifferenti testimoni.
In un agile volumetto «La mia Costituzione» Oscar Luigi Scalfaro dà un’intervista toccante sulle fasi di preparazione della Carta, non mancando di far sentire tutto il suo spirito cristiano ed il suo profondo senso dello Stato e della politica. In un momento come quello attuale contrassegnato da una mancanza di valori, da un’incultura che rasenta e a volte supera la rozzezza, da una politica che ha perso il senso e lo spirito originario di buon governo della cosa pubblica, da un dissennata corsa verso i fuochi fatui del successo e del consumismo, la lettura attenta della nostra bella Costituzione nel suo anniversario può essere un segno di speranza per il futuro, un lenimento per la nostra disaffezione e delusione politica, mentre la sua difesa deve costituire un impegno primario per tutte le persone che ancora credono nell’uomo e vogliono che la politica sia fatta per lui e non viceversa.

l’Unità 24.4.08
«Assumere più non-obiettori per rispettare la 194»
Ignazio Marino: il boom di chi dice «no» agli interventi abortivi?
Gli ospedali devono garantire medici per le Ivg, la legge va applicata
di Cristiana Pulcinelli

SECONDO i dati forniti dal ministero della Salute, i ginecologi obiettori di coscienza sono moltissimi: nel 2007 hanno raggiunto quasi il 70%. Questo vuol dire che la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza è sempre più difficile da applicare. Come si è
giunti a questo punto? Il senatore Ignazio Marino ha una sua interpretazione: «Credo che il dato più rilevante sia l’aumento del numero di obiettori. Questo fenomeno ci indica che anche chi inizialmente non aveva fatto la dichiarazione di obiezione di coscienza, a un certo punto ha deciso di farla»
Perché?
«In alcuni luoghi i medici non obiettori sono davvero pochi. Ci sono grandi ospedali che ne hanno due o tre, i piccoli ospedali possono averne anche solo uno. Un professionista che, per una situazione contingente, si trovi ad essere l’unico non obiettore, dovrà tutti i giorni eseguire solo aborti. Dal punto di vista professionale e umano questa situazione potrebbe spingerlo a dire: faccio anch’io l’obiettore. Io sono dell’opinione che uno stato laico debba avere una legge sull’aborto, ma non posso non immaginare che, così come per la donna l’aborto è sempre una sconfitta, per un medico sia psicologicamente difficile accettare di fare queste procedure tutti i giorni per tutti gli anni della sua vita professionale».
Si può pensare che qualche medico faccia l’obiettore nella struttura pubblica dove lavora e poi pratichi le interruzioni di gravidanza in privato?
«È un discorso delicato. C’è stato un fatto di cronaca che ha messo in evidenza una situazione di questo genere. Ma, in generale, immagino e spero che, se questi fatti esistono, siano marginali».
Che ne pensa dell’ipotesi di istituire un albo dei ginecologi obiettori in modo che sia garantita la trasparenza delle scelte?
«Per la verità, l’informazione è già in parte pubblica. Il medico infatti deve fare la sua dichiarazione all’ordine dei medici. Teoricamente, quindi, un’anagrafe esiste: basta che si risalga ai documenti. Credo però che il problema sia un altro. E cioè organizzare le cose in modo da fornire la garanzia nei confronti dei cittadini che la legge venga rispettata su tutto il territorio nazionale».
Come si può ottenere questo risultato?
«Il problema è che ci troviamo di fronte a una procedura che viene percepita come una sconfitta, ma che, secondo una legge, deve essere garantita. Quindi chi ha compiti istituzionali, come il direttore generale di un ospedale, ha tra i suoi doveri quello di avere il personale per eseguire le interruzioni di gravidanza. E lo deve fare anche programmando le assunzioni».
In sostanza, dovrebbe assumere preferenzialmente chi non è obiettore?
«Mi rendo conto che questa mia affermazione può espormi a delle critiche, ma se è vero che esiste la coscienza individuale esiste anche il problema di far rispettare le leggi di uno stato laico. Ricordo sin troppo bene quando mi trovavo a Roma negli anni Settanta. Ero appena laureato e l’aborto non era legale. In quel periodo ho visto arrivare in ospedale diverse ragazze con l’utero perforato dagli aghi delle mammane. Alcune di esse le ho anche viste morire per emorragia. Chi aveva soldi invece andava a Villa Gina dove l’aborto si praticava a pagamento, ma clandestinamente. Non credo che uno stato possa tornare indietro a quei tempi».

l’Unità 24.4.08
Morire con dignità, la Spagna ha il testamento biologico
Il provvedimento non prevede nessuna forma di eutanasia
I cittadini registreranno le loro volontà presso gli uffici sanitari
di Toni Fontana

DA IERI, in tutta la Spagna, è ammesso, tutelato e aiutato dalle istituzioni locali, il «testamento biologico» che permette a ciascun cittadino di «morire dignitosamente». Ogni spagnolo può compilare, presso gli uffici provinciali della Sanità, un modulo nel quale specifica fino a quando, in caso di grave
malattia, intende avvalersi dei trattamenti medici. Si conclude così un complesso iter legislativo iniziato nel 2002 quando il Parlamento spagnolo approvò la «legge sull’autonomia del malato» che entra in vigore ora perché tutte le regioni non solo l’hanno recepita, ma hanno completato l’istituzione dei «registri regionali». I dati raccolti confluiranno in un registro nazionale che già riunisce le volontà di 35.500 spagnoli che si sono rivolti ai servizi delle 12 regioni che hanno anticipato l’entrata in vigore della legge.
Il provvedimento non va confuso con quelli che giacciono nel parlamento spagnolo, e riguardano il diritto all’eutanasia attiva e passiva. La legge da ieri operativa in Spagna è stata approvata negli anni del governo della destra, è estremamente restrittiva ed è criticata aspramente da associazioni che si battono per i riconoscimento dell’eutanasia. Dmd (Diritto di morire dignitosamente, dmdmadrid@eutanasia.ws) giudica «burocratico e poco pratico» il provvedimento che contiene limitazioni molto evidenti. Il malato può indicare senza censure e limitazioni la propria volontà, ma con due precise restrizioni: non può sollecitare l’eutanasia, né attiva, né passiva, e non può segnalare nel testamento «trattamenti contrari alle buone pratiche mediche». Non solo. Il parere del medico rimane in ogni caso vincolante e prevalente su quello del malato.
Il medico può dunque decidere di proseguire i trattamenti anche se nel testamento biologico è specificata una volontà opposta. Le associazioni fanno per questo notare che «l’esistenza del testamento biologico non garantisce la sua attuazione».
Dmd cita un caso: «Un uomo gravemente malato è stato ricoverato all’ospedale La Paz di Madrid. Una delle due figlie, iscritta all’associazione “morire dignitosamente”, si è espressa per la sospensione dei trattamenti, l’altra si è detta contraria. I medici hanno accolto la volontà di quest’ultima». Da queste considerazioni appare chiaro che è decisivo che il cittadino possa esprimere in modo chiaro e inequivocabile le proprie volontà utilizzando moduli e formulari facili da compilare. Quello definito nella regione delle Asturie lascia ad esempio molti spazi liberi e permette a chi lo compila di scrivere ciò che vuole. Le associazioni ritengono però indispensabile specificare il «grado di infermità mentale e di senilità e i danni cerebrali» e che ciò vada fatto «con l’assistenza del medico curante che deve indicare i trattamenti che vengono somministrati al malato». Dmd tiene un archivio centrale parallelo a Barcellona fin dagli anni 60.
I pareri degli esperti sono discordi sulla legge entrata in vigore ieri. Marsa Iraburu, esperta di bioetica, la ritiene una buona legge «sufficiente nella maggioranza dei casi quando la famiglia si esprime per la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione». Meno favorevole il parere di Marcelo Palacios, presidente della Società Internazionale di Bioetica (Sibi), nominato nel dicembre 2007, membro del Comitato di Bioetica e consulente del governo: «Una persona in stato terminale - afferma - non muore perché viene sospeso il trattamento, ma perché stava in stato terminale. Io rivendico il diritto di poter decidere quando lasciare la vita, quale ultima immagine di me voglio lasciare ai miei amici e ai miei figli». Il tema dell’eutanasia non è stato al centro della campagna elettorale che si è conclusa il 9 marzo con la vittoria di Zapatero. Solo la sinistra radicale (Iu) ne aveva fatto cenno nel suo programma.

l’Unità 24.4.08
Quel che resta dell’Unione
di Luigi Cancrini

L’articolo firmato dal Direttore Antonio Padellaro su l’Unità di sabato 19 Aprile apre un dibattito interessante, a mio avviso, su quello che è accaduto in questi mesi nell’ambito della sinistra. A tale dibattito vorrei dare il mio contributo: da uomo che alla sinistra ha sentito sempre di appartenere oltre che da deputato uscente e ora non rieletto dei Comunisti Italiani.
L’osservazione di Padellaro su cui concordo è quella di partenza. Nel momento in cui valutiamo questo risultato elettorale, il confronto più utile non è quello che riguarda la forza relativa dei singoli partiti. Nel 2006 l’Unione guidata da Prodi superò di poco (molti parlarono di sostanziale pareggio) la Casa della Libertà guidata da Berlusconi. Due anni dopo i partiti che si riconoscevano nel programma dell’Unione hanno il 14% in meno di quelli che si riconoscevano nelle posizioni della Casa della Libertà. Quello cui siamo di fronte è un vero e proprio rovesciamento della situazione. Il fatto che si sia verificato in soli due anni ne rende ancora più evidente la criticità. Spiegarlo è fondamentale, soprattutto per chi ha perso.
Il primo elemento da considerare è quello legato all’impressione destata negli elettori dal Governo Prodi. Padellaro ha ragione notando che le divaricazioni fra le forze che lo sostenevano hanno determinato un clima di sfiducia, un sentimento di precarietà, l’immagine di un esecutivo messo in difficoltà dalle polemiche fra i ministri e i leader dei partiti. La discussione era inevitabile, tuttavia, all’interno di un’alleanza fra forze che rappresentavano cultura e interessi a tratti divergenti e il miracolo di Prodi è stato quello di trovare sintesi costruttive fra posizioni diverse. Quando si votò (febbraio 2007) il rinnovo delle missioni estere, per esempio, la richiesta nostra di una Conferenza internazionale sull’Afghanistan e di una limitazione del nostro impegno come “costruttori di pace” vennero accolte volentieri da D’Alema e migliorarono il testo di legge varato dal Governo. L’idea, in linea con la Costituzione, era quella per cui un dibattito parlamentare può modificare in meglio un provvedimento governativo. Stampa e televisioni ne parlarono tuttavia (con l’eccezione proprio de l’Unità) come di una prova di debolezza del Governo e del suo andare avanti per compromessi: come costantemente hanno fatto per due anni, del resto, nel bene (perché questa maggioranza ha fatto cose buone come la legge sulla sicurezza del lavoro) e nel male (perché gli errori ci sono sempre: soprattutto se si corre sul filo di un equilibrio continuamente a rischio). Con una tendenza sempre più forte a criticare in modo violento e sarcastico, aggressivo e irridente, tutto quello che veniva proposto da Prodi: un uomo politico diverso dagli altri perché capace di pensare e di problematizzarsi anche in diretta televisiva, senza preoccuparsi del fatto che in televisione si dovrebbe essere (o fingere di essere) sicuri e rassicuranti. Comunque lo si giudichi, tutto questo ha contribuito a far perdere voti all’Unione favorendo il ritorno di Berlusconi: come ben dimostrato dai sondaggi che, per tutto il 2007, hanno segnalato, per l’Unione, una diminuzione di consensi vicina all’8-10%. Cosa è accaduto dopo, tuttavia?
La mia analisi differisce, su questo punto, da quella di Padellaro perché quella che a me sembra più importante, nella storia di questi ultimi mesi, è la breccia aperta, sul fronte dell’Unione, dalle posizioni della sua componente più forte, quella del Pd. Da quando è stato eletto segretario, Veltroni ha salvato sì Prodi ma ha criticato impietosamente e quotidianamente Governo e maggioranza: legittimamente ma con conseguenze forti sulla compattezza di un fronte che si è dissolto, non è esistito più, dal momento in cui, dopo l’incontro “istituzionale” con il leader dell’opposizione, Veltroni ha proposto quello slogan maledetto, quel «noi correremo comunque da soli» che da solo è stato sufficiente a dire che l’Unione non aveva più ragione di esistere. Nulla c’era in realtà se non la presa di posizione di un leader dietro questa dichiarazione che tanto profondamente innovava sulle strategie congressuali dei Ds e della Margherita e degli altri partiti dell’Unione ma la debolezza delle reazioni degli altri (dalla Bindi a D’Alema, da Fassino a Letta) e il silenzio malinconico di Prodi (che ha visto chiudersi in quel momento la fase della sua leadership morale nel nuovo partito) hanno fatto sì che quella frase diventasse l’ostacolo decisivo, insieme alle bizze di Dini, per la sopravvivenza di un Governo (da cui Mastella si dissociò per questo motivo prima che per la mossa incauta dei giudici di Santa Maria Capua Vetere) e di una legislatura comunque troppo breve.
Le responsabilità non sono solo di Veltroni e del Pd ovviamente. Errori importanti sono stati compiuti anche al centro e a sinistra. Il punto su cui dobbiamo riflettere, tuttavia, è se il Pd vorrà davvero continuare a “correre da solo”, considerando inutile o controproducente il pensiero e il voto di chi crede ancora nei partiti della sinistra. Usato all’interno di una fase elettorale convulsa, il tema del “voto utile” ha permesso a Veltroni ed ai suoi di limitare i danni sostituendo i voti persi al centro con quelli di questi partiti. Poiché il voto non è stato davvero “utile” per vincere, tuttavia, molti sono oggi quelli che avendoci creduto, si sentono ingannati.
Partiamo da qui dunque, dall’idea per cui tutti, in modi diversi, abbiamo contribuito al disastro del 13 e del 14 aprile. La domanda che dobbiamo porci oggi e nei prossimi mesi, caro Direttore, resta quella che riguarda il futuro della sinistra considerata nel suo complesso. Insisterà ancora il Pd, preparando le Europee del 2009 e le regionali del 2010 sul tentativo di presentare come irrilevanti e fuori della storia gli alleati con cui ha governato fino a ieri l’intero Paese e con cui ancora oggi governa Regioni, Comuni e Province in tutta Italia? L’Unione in cui in tanti tanto abbiamo investito in questi ultimi anni scommettendo, da posizioni diverse, su Prodi e sulla sua strategia politica, esiste ancora o è definitivamente tramontata? A domande come questa sarebbe opportuno, a mio avviso, che anche il Pd rispondesse interrogando tutti i suoi elettori ed i suoi iscritti nell’ambito di un vero Congresso.

Repubblica 24.4-08
La Lega e Carlo Marx
di Nadia Urbinati

Le analisi via via più puntuali dei risultati elettorali dimostrano che operai e casalinghe hanno votato per il partito più radicale e populista della coalizione di centrodestra, premiando un messaggio a un tempo liberista e razzista.
Questi dati hanno provocato una giustificata cascata di commenti e interpretazioni. Autorevoli opinion maker e uomini pubblici si sono improvvisati filosofi della storia per dare un tono di fatale verità alle loro dichiarazioni: il mercato ha sconfessato Karl Marx dimostrando che imprenditori e operai hanno gli stessi interessi perché hanno gli stessi avversari; gli avversari sono lo stato che tassa e mette regole ma che nel contempo non riesce a controllare le frontiere.
E nemmeno a tener fuori prodotti e manovalanza a basso costo; e infine e soprattutto lo stato sociale che con le sue politiche dei servizi sociali è reso colpevole di debilitare la solidarietà locale e le reti comunitarie di sostegno ai bisognosi. Il messaggio che viene dalla cascata di voti rastrellati dalla Lega Nord anche in regioni di consolidata tradizione socialdemocratica come l´Emilia-Romagna, sarebbe dunque questo: il mercato deve riportare lo stato alla sua vocazione originaria, quella che aveva prima della formazione dello stato-nazione e della conversione bismarkiana dei governi europei; deve tornare ad essere un sistema coercitivo che si occupa esclusivamente di difendere diritti civili di base e che investe le proprie risorse nella sicurezza dei cittadini e nella difesa delle frontiere. Lo stato non deve più occuparsi di giustizia sociale e di ridistribuzione della ricchezza tra i "figli uguali della nazione", come èstato costretto a fare negli anni della ricostruzione del dopo guerra. Non deve più essere ostaggio delle illusioni socialdemocratiche per la ragione assai semplice che non c´è alcun problema di ingiustizia sociale a cui rimediare, ma solo la sfortuna e la disgrazia del bisogno: piaghe fatali che l´umanità ha ereditato dalla caduta di Adamo ed Eva e che la carità del buon samaritano può curare molto più umanamente di uno stato dispensatore di servizi di cittadinanza. Questa è la lezione filosofica che ci viene dalle recenti elezioni.
Comunitarismo e liberismo sono naturalmente alleati, soprattutto quando, come in questo scorcio di modernità, le coordinate tradizionali della politica (gli stati nazione) non sono in grado di far fronte ai rischi e alle sfide della mondializzazione. Ma contrariamente ai vaticini dei filosofi d´occasione, Marx aveva visto giusto. Il suo Manifesto è l´earthlink del nostro tempo, una lente che zumma dal pianeta alle sue periferie e viceversa, dandoci immagini nitide di come siamo. Ci fa vedere come l´integrazione globale dei mercati stia insieme a un ricompattamento comunitario locale; come l´espansione a macchia d´olio delle metropoli si affianchi a periferie selettive e chiuse (i sobborghi americani creati ex novo e protetti come cittadelle medievali, con cancelli, guardiani e visti d´ingresso); come la diffusione planetaria di una cultura di massa e di una lingua (quella inglese) si integri alla rinascita di linguaggi e culture locali, spesso permeabili solo a chi li pratica quotidianamente (come molti cartelli stradali nei villaggi e nelle campagne del Nord-Est). In questa schizofrenia le solidarietà trasversali, per intenderci quella cultura etica universalista sulla quale la "classe operaia" aveva definito la propria identità e lo stato sociale le proprie politiche di giustizia, appaiono inattuali, inefficaci, e perfino tirannici. La libertà contro lo stato sociale (non contro lo stato gendarme) è la sola forte libertà che le destre liberiste-comunitarie esaltano e vogliono proteggere.
Se le questioni sociali sono questioni di povertà e carità volontaria non più di giustizia sociale, la classe operaia non ha più senso di esistere. Essa non è altro che una fascia di basso reddito misurata dalle statistiche, l´insieme delle famiglie povere o a rischio di povertà, gente (non classe) che arranca a fine mese su bollette e debiti, che si ciba a costo quasi zero della cultura pop-global televisiva, che si sente pericolosamente tallonata dall´immigrato low-cost e si fa razzista. Si fa alleata di quegli imprenditori che vogliono le frontiere chiuse ai beni cinesi e indiani. Una prova di questa trasformazione ci viene ancora una volta dagli Stati Uniti, che per la loro enorme geografia sono stati a buon diritto un laboratorio del globale-locale fin dai primi del Novecento; qui la classe operaia non è mai riuscita a costruire una solidarietà universale-nazionale proprio perché l´immigrazione permanente ha reso impossibile conquistare e difendere regole e diritti sociali a protezione dei lavoratori. Il mercato del lavoro come uno stato di natura dove il vicino è un potenziale nemico, non un alleato di classe.
Dunque, una storia globale, non italiana. Una storia globale che mostra però i propri effetti laddove le persone vivono: nelle città e nei paesi, non nel generico globo. La politica dei "muri" che la caduta del muro di Berlino ha generato esemplifica molto bene questa storia. Muri sono in costruzioni in molti luoghi del mondo: per dividere stati e popoli, ma anche quartieri di una stessa città come a Padova, dove gli italiani hanno in questo modo cercato di "proteggere e separare" se stessi dai vicini residenti di origine extra-Europea. Se il muro di Berlino doveva bloccare il diritto di uscita ai sudditi della Germania comunista, questi nuovi muri protezionistici dovrebbero ostruire l´entrata ai migranti o rendere la loro vicinanza invisibile o meno visibile.

I muri anti-immigrazione, come quello spettacolare che la California ha costruito sui confini con il Messico, sono un modo molto concreto per dire che coloro che li innalzano pensano che potranno preservare i loro piccoli e grandi privilegi se e fino a quando solo loro ne godranno. Mettono in evidenza una delle più stridenti contraddizioni che affliggono le nostre affluenti società democratiche: quella tra una cultura raffinata che condivide valori universalistici e cosmopolitici e che resta comunque una minoranza (spesso snob), e una diffusa cultura popolare che mentre si appaga del consumismo globale è atterrita dalla globalizzazione, teme fortemente l´incertezza economica e sviluppa un attaccamento parossistico ad un benessere che appare sempre più risicato, fragile e temporaneo. Come si legge nel troppo poco letto Manifesto di Marx, alla crescita inarrestabile di un´uniformità globale si affianca la crescita di un´evidente resistenza del locale: nascono nuovi nazionalismi, il razzismo, la nostalgia per comunità pre-moderne come il borgo e le chiese. E a questi parossismi una parte dell´impresa capitalistica (quella piccola e media) ha un naturale interesse ad allearsi perché il mercato globale è una bestia selvaggia contro la quale trova altro rimedio se non il vecchio stato poliziotto. La classe operaia è un anacronismo, dunque, ma non perché non c´è più diseguaglianza di potere e c´è comunanza di interessi, ma perché questa diseguaglianza è stata tradotta in termini morali e apocalittici: una questione di sfortuna, di migrazioni bibliche, di scenari finanziari in permanente rischio di crollo. In questo panorama, il linguaggio della politica e del riformismo appare inefficace e fuori posto mentre quello populista avvince e unisce. Eppure, gli esseri umani non dispongono che di ragione pubblica e linguaggio politico per governare le loro società in modi civili e senza rinunciare a limitare le ragioni di sofferenza e dare a tutti la possibilità di vivere con umana decenza e dignità.

Corriere della Sera 24.4.08
Sicurezza. L'ordine del giorno firmato anche dalla cognata di Casini
Vigili con manganelli e spray Il via libera di Bologna
Intesa tra il Pd e l'Udc. Il no di Rifondazione
di Elsa Muschella


Il Pdl: traditori, quando l'abbiamo proposto noi la maggioranza ci rispose che non c'erano le condizioni politiche
MILANO — Se nella «rossa» Bologna la giunta comunale sta sperimentando nuovi orizzonti politici, è tutto dovuto a spray al peperoncino e manganello (o meglio «bastone distanziatore», per non incorrere in questioni ideologiche). Il legame tra Pd e Udc — auspicato da Veltroni e accolto finora con cautela da Casini — a Palazzo Accursio ha già l'ufficialità di un vero e proprio asse: il via libera alle misure di sicurezza supplementari per i vigili urbani, infatti, porta in calce a un ordine del giorno le firme di Claudio Merighi, capogruppo del Pd in Comune, e di Silvia Noè, consigliera comunale e regionale dell'Udc nonché cognata del leader nazionale Pier Ferdinando.
La decisione è riuscita a far infuriare praticamente mezza giunta. Intanto perché la Noè ha incassato sì il benestare del suo partito ma fa formalmente parte del gruppo «La tua Bologna», la lista civica legata all'ex sindaco Guazzaloca che invece di appoggiare la scelta ci tiene a prendere le distanze: «Quei due vogliono affossarci — dice il capogruppo Alberto Vannini — ma io non voglio fare la testa di legno: non sarò per forza a capo di un lista civica che poi si trasforma in partito».
In più, proprio sulla questione sicurezza, il vecchio scontro con il centrodestra non si è mai sanato. A luglio, un pacchetto simile era stato trattato dal Pd con An e aveva persino ricevuto il benestare di Fini. Alla fine però Cofferati non firmò l'intesa. Ecco perché oggi molti sputano veleno sull'accordo ma non disdegnano, in linea di principio, spray e bastoni distanziatori: «Qui si sta parlando di ipocriti e traditori — dice l'onorevole Enzo Raisi, presidente di An in consiglio comunale —: quando abbiamo proposto la stessa cosa, il Pd ci rispose che non c'erano le condizioni politiche per portare avanti la proposta e l'Udc gridò allo scandalo solo perché c'eravamo seduti davvero, al tavolo sulla sicurezza con Cofferati». Per questo il centrodestra è intenzionato a votare contro il documento, a meno che — concede Raisi — «Pd e Udc non approvino un mio emendamento in cui ci riconoscano la paternità del progetto e ci chiedano scusa per averlo rifiutato 9 mesi fa. Ma tanto l'Udc ormai è persa alla causa, voglio proprio vedere quanto durerà questo idillio».
Insomma, a Bologna è tutta una questione di priorità e riposizionamenti strategici. Anche il guazzalochiano Vannini, infatti, dice «assolutamente sì a spray e manganello» ma ciò che proprio non concepisce sono «i teatrini della politica»: «Una volta di qua, una volta di là e si finisce con un ordine del giorno che non porterà mai a nessun provvedimento. Perché ai vigili invece non ci pensa Cofferati con una bella delibera? Passerebbe di certo».
Al riflesso che l'intera vicenda potrebbe avere a livello nazionale sembra non pensarci nessuno. Ma dopo le pattuglie di «assistenti civici» presentate dall'assessore alla Sicurezza Libero Mancuso, è rimasto solo il Prc a denunciare la «pericolosissima rincorsa a destra » di Bologna: per il capogruppo Roberto Sconciaforni «gli spray, i manganelli, le ronde di studenti e pensionati, dimostrano solo il misero tentativo del Pd di inseguire la Lega. Faremo di tutto perché non passino».

Corriere della Sera 24.4.08
Una tappa fondamentale della nostra storia: dai divieti del Concilio tridentino alle aperture di Pio XII
Così i filologi conquistarono la libertà
Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture
di Luciano Canfora

È una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l'autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle «scritture» dette appunto «sacre»: un aggettivo che di per sé scoraggia la critica. E l'antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di tale libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» a fronte del rigoglio di narrazioni biografiche sulla persona dell'iniziatore della setta (Gesù) alla «stretta» tridentina che sancì l'assoluta prevalenza della Vulgata di Girolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede imbarazzata il passo all'irresistibilità della critica testuale, dopo circa quattro secoli, con l'enciclica di Pio XII, Divino afflante spiritu, del 30 settembre 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l'esercizio della critica testuale sul
corpus antico e neotestamentario.
Il cammino fu molto accidentato e il riconoscimento di aver sbagliato non fu mai esplicito. Le parole pronunciate dal dotto e facondo pontefice il 30 settembre 1943 furono: «Oggi dunque, poiché quest'arte (cioè la critica testuale, nda) è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Libri sacri, sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme». E subito precisava: «(edizioni) tali cioè che con una somma riverenza al sacro testo congiungano una rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Precisazione sintomatica, oltre che imbarazzante. Per coglierne l'assurdità, basta immaginarla applicata ad altri testi che abbiano anch'essi dato origine, via via nel tempo, a «scuole», seguaci, esegeti, ortodossi e non. Si pensi per esempio al corpus platonico e al suo più che millenario sviluppo, e ben si comprenderà l'effetto insensatamente contraddittorio dell'invito a coniugare «riverenza al sacro testo » e «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». O si dovrà pensare che un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al «verbo» del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista
già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico).
Ovviamente c'è un sofisma cui affidarsi per cercare di tamponare la contraddizione. Che cioè solo quei testi (sacri, com'è noto: quelli inclusi nel canone cattolico) contengono «la verità», in ogni loro parte; il che dovrebbe comportare che perfetta ricostruzione del testo e perfetta aderenza al verbo rivelato, a rigore, coincidano. Infatti è assioma che la verità si esprime in un unico modo. Ma è evidente la petitio principii. Solo dopo aver ricostruito il testo si dovrebbe approdare (eventualmente) a scoprire quale verità esso contenga, e, successivamente, alla conclusione che esso — ed esso soltanto — contiene la verità. Invece qui c'è, sottintesa, la pretesa aprioristica che lì (e non altrove) ci sia la verità. Una «verità» data e precostituita e testualmente compiuta già prima della ricostruzione del testo. Oltre alla petitio principii ci sono poi difficoltà di ordine storico. Quei testi infatti: a) sono stati spiegati in modi vari dalle differenti confessioni e sette staccatesi via via dal ceppo «cattolico» (il che di per sé dimostra che essi potenzialmente contengono diverse verità e non di rado in contrasto tra loro); b) sono stati accompagnati, nel corso della tradizione, da numerosi altri testi consimili ma non coincidenti con quelli proclamati poi «canonici ». Alcuni, e non altri, a un certo punto furono espulsi dal «canone». Il che — oltre a rappresentare un'ulteriore petitio principii — per giunta accadde in un'epoca in cui già non esisteva più univocità testuale nemmeno dei libri inclusi nel «canone ». In tali condizioni, a maggior ragione, il richiamarsi a una prestabilita, unica, «verità» testuale racchiusa in quei libri appare immetodico.
Ma forse è superfluo insistere su questo punto così vulnerabile. Esso è inevitabilmente presente fintanto che quei testi vengono gravati di un peso e di un significato superiore rispetto a quello di tutti gli altri. Una pretesa di superiorità che automaticamente impaccia la libertà di critica (testuale).
Quando si ricostruisce questa vicenda, si comprende che essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se «invecchiato», come potrebbe deplorare qualche fumatore di oppio bibliografico): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra, con semplicità densa a ogni frase di dottrina non ostentata, come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l'autenticità dei testi — una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda — si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel costante sforzo di ricostruire la formazione — e quindi la lettera — del Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantistici su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti che, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e, al tempo stesso, il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia.

Il diritto alla verità dopo i veti della Chiesa
Il saggio che pubblichiamo in questa pagina è il secondo capitolo del nuovo libro di Luciano Canfora, Filologia e libertà, appena edito da Mondadori (pagine 149, e 13). Come dice il sottotitolo, la filologia è «la più eversiva delle discipline», attraverso cui passano «l'indipendenza di pensiero e il diritto alla verità». Canfora, docente di Filologia greca e latina all'università di Bari, passa in rassegna i grandi momenti della critica testuale, dalle proibizioni del Concilio di Trento, alle concessioni di Pio XII, e racconta delle battaglie ingaggiate da giganti del pensiero, come Erasmo da Rotterdam, Baruch Spinoza, Giordano Bruno, per applicare la libertà di ricerca anche ai testi sacri.


Liberazione 24.4.08
Se i poveri cancellano la sinistra
di Ritanna Armeni


Perchè gli operai e gli strati poveri della popolazione non votano a sinistra? Perché votano in misura non trascurabile a destra? Queste sono le domande semplici e fondamentali a cui dovrebbe rispondere la sinistra sconfitta. Credo che solo dalla risposta ad esse possa iniziare la sua ricostruzione. Perché - come ha efficacemente detto Mario Tronti - una sinistra incapace di riscuotere la fiducia degli operai non è una sinistra. E lo è tanto meno se si vede rifiutata dalla parte più povera del popolo.
Cominciamo col dire che i poveri e gli operai che votano a destra non sono un fenomeno nuovo e non sono solo italiano. L'attuale presidente americano George Bush, la cui presidenza ha visto un consistente aumento del numero dei poveri, da questi è stato tuttavia votato. In un'intervista al Corriere della sera il politologo americano Michael Walzer ricordava che il voto italiano del 13 e 14 aprile fa venire in mente che nel 1980 per eleggere Reagan "decisivi furono i cosiddetti Reagan Democrats , elettori della classe operaia bianchi, spesso cattolici che avevano deciso di lasciare il loro partito e votare repubblicano". La crisi della sinistra francese è stata plasticamente evidente nel passaggio delle periferie proletarie tradizionalmente di sinistra alla destra e anche alla destra xenofoba di Le Pen. E si potrebbe continuare.
Nulla di nuovo sotto il sole quindi. Non è nuova neppure l'incapacità di rispondere a questa domanda che la sinistra finora ha dimostrato. Come lo struzzo che, di fronte al pericolo, non lo affronta ma nasconde la testa sotto la sabbia. Ma essa nelle elezioni italiane è apparsa più che mai grande.
Ha portato non al suo ridimensionamento, ma alla sua scomparsa, E soprattutto, osservando il dibattito che si è aperto, è rimasta anche dopo i disastrosi risultati elettorali.
Un tentativo di rispondere a questa domanda è venuta da Barack Obama il sei aprile a San Francisco. Nelle piccole citta colpite dalla crisi - ha detto il candidato democratico - l'amarezza è tale che la persona si sente perduta ed è a quel punto che s'aggrappa non alle reali soluzioni del disagio economico, ma a valori e stili di vita culturalmente consolatori: l'uso delle armi o della religione, la ripugnanza del diverso, dello straniero. E lo stesso Walzer ricorda che i "Reagan Democrats" avevano cambiato schieramento perché erano diventati sensibili a questioni - aborto immigrazione , pena di morte - che fin lì erano rimaste nello sfondo.
«Sono decenni - ha scritto di recente Barbara Spinelli sulla Stampa , affrontando il problema con la consueta profondità - che le cosiddette questioni culturali sono invocate in America per occultare difficoltà e misfatti economici».
Il meccanismo al quale in questi anni abbiamo assistito (anche se abbiamo evitato di affrontarlo) è pressochè identico. Di fronte alla sfiducia nella capacità di chi storicamente si è posto questo compito, cioè la sinistra, di risolvere i problemi sociali, problemi che la globalizzazione rende ancora più grandi, più gravi e più impellenti le classi popolari si rifugiano in un sistema valoriale, identità, territorio, sicurezza. E qui incontrano la destra che di quei valori o di quei disvalori è portatrice mentre la sinistra è drammaticamente assente. Insomma alla incapacità di affrontare questioni sociali che stanno modificando - e in peggio - le condizioni dei più poveri si somma l'assenza nel dibattito sui sistemi valoriali o sulle modalità etiche che dovrebbero guidare la società. Anzi la sinistra quelle questioni le teme, cerca di tenerle lontane dal dibattito politico, invocando nei casi migliori la libertà di coscienza, o rimanendo staticamente legata a vecchie discussioni e a vecchie conclusioni.
In questo rapporto fra incapacità di affrontare i temi sociali e garantire realmente la difesa del lavoro e dei salari ed assenza dai temi etici si è formata ed è cresciuta l'estraneità dei poveri nei confronti della sinistra e si è definito il nuovo comportamento elettorale. Determinante la paura di perdere, dopo essere stato privato delle conquiste e i diritti sociali, quel poco che ai poveri rimane: la famiglia, i valori della propria comunità, la propria religione, le proprie tradizioni.
Il libro di Giulio Tremonti "La paura e la speranza" racconta questo passaggio, lo teorizza, ne fa la base della cultura della destra oggi al governo del paese.
Il nemico individuato è la globalizzazione e il modo in cui essa si esprime, cioè mercatismo, il mercato senza regole e norme, lasciato a se stesso che sta distruggendo il pianeta e la vita delle donne e degli uomini che non riescono più ad avere livello di vita decente. Per Tremonti il mercatismo è un meccanismo neutro che non ha alcun rapporto con la destra anzi se mai ha un legame con il comunismo (pensiero unico e uomo a taglia unica), ma a questo occorre opporsi. Come?
La speranza non viene da un nuovo sviluppo economico, dalla lotta alla globalizzazione e al mercato senza regole in nome di una regolazione del mercato che salvaguardi nuovi livelli di giustizia sociale e di eguaglianza fra i popoli della terra ma dalla riproposizione dell'identità dell'Europa cristiana. Dalle sette parole d'ordine che Tremonti elenca: valori, famiglia, identità, autorità, ordine, responsabilità, federalismo.
Ecco Tremonti ha teorizzato e ha proposto ciò che la destra nel mondo ha fatto, la linea politica e culturale su cui i neocon hanno egemonizzato l'amministrazione americana.
A questo bisogna opporsi. Il modo è tutto da elaborare e su questo la sinistra che ha perso dovrebbe applicare le sue risorse e le sue energie intellettuali. Per quanto mi riguarda penso che la capacità di modificare la condizione sociale non possa essere disgiunta da un intervento altrettanto coraggioso ed energico sulla costruzione di nuovi valori. In una società fluida e disgregata, vita, lavoro, socialità sono strettamente, se pur disordinatamente, intrecciate. La destra ha vinto perché ha saputo fornire una narrazione, ha saputo offrire una esposizione di un sistema di valori e di speranze che hanno avuto più forza di qualunque singola proposta di miglioramento sociale ed economico.
Di recente Nichi Vendola, governatore della Puglia, ha raccontato ad Otto e mezzo un episodio che mi ha colpito. Ha detto di essersi adoperato concretamente e con serietà amministrativa perché un gruppo di lavoratori ricevesse dei benefici che fino ad allora erano stati negati. Ha ricevuto molti ringraziamenti e una sincera gratitudine, ma - ha detto - ho avuto la netta sensazione che al momento del voto altri sarebbero stati i loro percorsi.
Insomma anche Nichi Vendola ha verificato quel divorzio fra il discorso delle pratiche e il simbolico di cui ha recentemente parlato Giacomo Marramao. Ma tutti lo verifichiamo ogni giorno nella nostra esperienza quotidiana. E allora da qui dobbiamo cominciare per avere dalla nostra parte i poveri. O meglio, per stare noi, di sinistra, dalla loro parte.

il manifesto 23.4.08
Una costituente per riavere radici
di Luciana Castellina

Che a Firenze ci fosse molta gente non meraviglia: il lutto è più mite se si elabora collettivamente. Ma l'interessante di questa assemblea promossa dall'Associazione per la sinistra unita e plurale, non sta tanto nella vastissima partecipazione, quanto nel fatto che non è stata lamentosa (incazzata sì, ma è un'altra cosa), bensì propositiva. E' vero che erano convenuti soprattutto quelli d'accordo per procedere alla costruzione di un altro soggetto politico post Arcobaleno.

Mentre poche ore dopo la maggioranza di Rifondazione comunista decideva invece di procedere in senso inverso; e però non è di poco conto che tanti compagni abbiano mandato un messaggio in questo senso a chi lo vorrà ascoltare. Se poi si riuscirà nei prossimi mesi a avviare una riflessione e un lavoro comune, senza limitarsi a attendere quanto decideranno i congressi delle tre (il Pcdi si è già tirato fuori) componenti che hanno dato vita alla disgraziata lista elettorale, allora c'è forse qualche speranza.
Nessuna di queste componenti, io credo, può infatti ripartire da sola: per insufficienza propria; perché ciascuna aspramente divisa al proprio interno; perché tutte accorpamento dei frantumi prodotti dai terremoti di questi ultimi due decenni; perché - soprattutto - il grosso delle forze potenziali - e proprio per questo - sono fuori dalle organizzazioni date. Il loro percorso non è da buttare, è anzi esperienza preziosa, ma inadeguata. Riflettere ora separati su quanto accaduto sarebbe assurdo, e è per questo che - come ha detto a Firenze Fulvia Bandoli - si chiede ora ai partiti di cedere un po' della loro sovranità.
E tuttavia capisco le preoccupazioni di Paolo Ferrero e di chi teme di perdere qualcosa senza guadagnare niente se si ripete tale e quale l'esperimento disgraziato di Arcobaleno. Se dico che deve esser avviato un processo costituente di una nuova forza politica non è perché penso si possa nel breve periodo dar vita a una nuova e compiuta organizzazione che si limiti a raccogliere in modo necessariamente confuso gli stimoli che vengono dal basso. Il percorso è più lungo. Per costituente intendo un processo, da avviare subito, con la partecipazione più larga possibile e in forme organizzate, che innanzitutto conduca un'analisi della fase storica in cui viviamo; delle novità stravolgenti che sta producendo; dell'incanaglimento della società italiana; delle ragioni profonde, non contingenti, della nostra sconfitta e del perché il disagio sociale e persino la protesta non si sono raccolte attorno a noi ma hanno preso altre strade. E che prenda atto che si è ormai spezzato il nesso tradizionale fra rappresentanza politica di sinistra e ceti sfruttati.
Guai se ci nascondessimo dietro il dito di spiegare che abbiamo perduto solo per via del simbolo (ancorché pessimo); solo per via del «voto utile» (i flussi ci dicono che ha contato ma non moltissimo); e neppure solo per via del governo Prodi e dell'iniziativa di Veltroni. E neppure solo per via del protocollo sul welfare.
Anche per tutto questo, certo. Ma non solo.
Prendiamo l'accordo firmato con i sindacati, per fare un esempio. Si poteva ottenere di più, ovviamente. Ma se abbiamo perduto è perché non abbiamo saputo costruire nel paese i rapporti di forza, l'egemonia politica e culturale, che sole potevano consentirci di ottenere di più. Una grande manifestazione, di per sé, non basta a vincere se non è accompagnata da un'indicazione praticabile e chiara, dalla rete di alleanze e mediazioni indispensabili a operare quando si è minoranza.
I limiti, e le colpe, di quell'accordo, per altro, non sono solo del governo e dei sindacati, ma anche nostre. Perché neppure noi abbiamo saputo prendere in conto le trasformazioni in atto e l'esaurimento del modello di sviluppo produttivo che hanno provocato; non siamo stati capaci di indicarne uno diverso, che dicesse cosa, come con chi e per chi produrre, sicché non si è affrontato in radice il problema del precariato e tutti gli altri connessi. L'ambientalismo è stato un fiore all'occhiello, ragione di proteste frammentate, non l'asse di un nuovo modo di pensare al mondo.
Ho fatto l'esempio dell'accordo sindacale per dire che, innanzitutto, dobbiamo metterci d'accordo sull'odg stesso della riflessione da avviare, se vogliamo davvero ripartire. Una riflessione che deve partire da più lontano, che deve investire tutti questi 18 anni ormai trascorsi da quando - nel 1990 - l'Italia e il mondo sono cambiati non per tornare indietro ma per andare avanti e non sulla base di un fragilissimo e superficiale accordo.
A questo proposito vorrei dire che a me la parola «arcobaleno» non piace affatto. Se non credo più a partiti fondati su vecchie identità ormai svuotate, non credo neppure a partiti che siano la mera e non digerita somma di tutte le possibili culture. Ognuna di queste culture è una risorsa critica per l'altro, ma bisogna poi che questa critica e autocritica ci sia, se no resta solo un'accozzaglia. Non credo, insomma, in un'alternativa che sia la somma delle ribellioni della moltitudine. Per esser davvero diversi dal partito democratico c'è bisogno di un partito che non si limiti a raccogliere consensi, ma sia capace di costruire senso, che è cosa del tutto diversa. E non solo di dire, ma anche di fare cose diverse.
E allora: costituente sì, ma senza precipitare subito in forme definite che servirebbero solo a riproporre vecchi gruppi dirigenti pesati col bilancino, e a perpetuare l'esistenza di una contenitore di cose disparate come è stato l'Arcobaleno. Per fortuna - o per sfortuna - non abbiamo scadenze elettorali immediate che ci ingiungono di assemblarci come sia. Costituente, invece, per reimparare a avere radici, a riproporre la politica come abitudine di tutti e non riservata solo a quelli che vanno nelle istituzioni, per mettere le fondamenta di una nuova cultura comune. Si tratta di un processo più lungo e faticoso di quello che, con fretta generosa, molti hanno chiesto a Firenze, ma - a questo punto - il solo adeguato alle dimensioni della nostra inconsistenza. Ai compagni di Rifondazione comunista, ai quali dobbiamo riconoscenza per essersi assunti il peso maggiore della recente avventura, così come allo stesso compagno Bertinotti che (pur con lucido pessimismo, mi è sembrato) si è preso l'impegno di rappresentarla, vorrei chiedessimo ora di accompagnare la preparazione del loro congresso a un parallelo impegno di discussione e di lavoro comune, partecipando alle modalità unitarie che riusciremo a darci in questo tentativo realmente rifondativo.





CARCERI: L'ESPERTO, AL CENTRO-NORD SONO DIVENTATE 'RAZZIALI'
(AGI) - Roma, 23 apr. - "Le nostre prigioni si stanno riempiendo a tassi crescenti, con 1.200 detenuti in piu' ogni mese, soprattutto immigrati clandestini. Oggi siamo a 52.000 presenze, quando la situazione di sovraffollamento e' a quota 44.000. A fine 2008 saremo a 60.000 e i detenuti saranno di piu' di quelli pre-indulto. Visto che le carceri sono sempre 204, staranno come sardine e dato il clima politico e il nuovo governo, difficilmente arrivera' un nuovo provvedimento clemenziale". E' questa l'analisi (a tinte fosche) sulla situazione delle carceri italiane fatta da Massimo Pavarini, docente di diritto penitenziario all'Universita' di Bologna, in un'intervista a 'Left'. Paravini parla di istituti penitenziari che si stanno riempiendo in maniera esponenziale di "proletari dei mercati illegali", gente che passera' la vita ad entrare e uscire di prigione, soprattutto immigrati clandestini e tossicodipendenti, che ormai costituiscono il 70% della popolazione carceraria. "Oggi il 58% dei nuovi ingressi in carcere e' fatto da stranieri - afferma ancora Paravini - e le case circondariali delle grandi citta' del centro-nord sono ormai carceri razziali". (AGI) Red

25 APRILE: FORMICA, SOS COSTITUZIONE E' DEMOCRAZIA CONSOLARE
(AGI) - Roma, 23 apr. - Mi chiedo se dobbiamo piangere per la Costituzione Italiana, se ha ancora un senso il 2 giugno 1946, l'anno che vide la nascita della Costituente: siamo passati dalla democrazia rappresentativa alla democrazia consolare e di questa rottura istituzionale nessuno ne parla. A lanciare l'allarme istituzionale e' in una intervista per il settimanale 'Left' domani in edicola l'81enne socialista Rino Formica, per il quale "i consoli sono Berlusconi e Veltroni, tra questi due e' aperta una guerra ad eliminazione". L'allarme di Formica parte dal risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile. "E' spaventosa l'incultura che c'e in giro e soprattutto nel giornalismo - attacca Formica - e' avvenuta una catastrofe delle regole democratiche del paese, per cui ben 15 milioni e mezzo di cittadini, un terzo dell'elettorato attivo, non sono rappresentati in Parlamento, e nessuno ne parla. Siamo in presenza di una rottura cosi' traumatica del sistema istituzionale da liberare tutto il peggio e tutto il meglio del passato: se vincera' l'uno o l'altro lo si capira' solo dal grado di consapevolezza e coscienza che si acquisira' per controllare e guidare la situazione". Tutto il peggio e tutto il meglio passato, e' qualcosa che evoca, fa pensare al fascismo. "Un tumore non puo' esser scambiato e quindi curato come fosse una polmonite: qui siamo passati da una democrazia rappresentativa - precisa Formica - a una democrazia consolare che ha cambiato qualita' e natura della nostra vita democratica. E' questo il punto di partenza: o si ha un sussulto di presa di coscienza della gravita' della situazione oppure controllare il peggio del passato sara' difficilissimo". Non rispolvera affermazioni come "la politica e' sangue e merda", altro che, "corte di nani e ballerine", ma il tono e' sempre quello. "La politica non e' un supermercato dove uno entra quando vuole per prendere o lasciare a proprio piacimento una cosa o l'altra: la politica e' la costruzione di occasioni e la sinistra tragicamente riflette - osserva - solo quando e' sconfitta ed e' troppo tardi". Insomma, "ognuno si faccia la sua costituente, comunista o socialista, si faccia il pianto che vuole, il Muro dove piangere i suoi morti, io mi chiedo se dobbiamo piangere la Costituzione Italiana, se ha ancora un senso il 2 giugno 1946, l'anno che vide la nascita della Costituente". Un'analisi impietosa, la sua, e anche un po' angosciante. "Mi appello agli uomini e donne di buona volonta' perche' tutti insieme partendo da questo dato, un terzo degli elettori non sono rappresentati nel Parlamento mentre l'altro terzo ha vinto per effetto di un premio straordinario che gli attribuisce il 55% della rappresentanza parlamentare, si affronti serenamente la rottura, la rivoluzione istituzionale per controllare e gestire il grosso cambiamento che libera tutto il peggio e tutto il meglio del passato". Lei e' pessimista o ottimista? "Mi limito ad osservare e raccontare quanto successo: di idee e di uomini per ora non se ne vedono ma e' naturale perche' le idee verranno e gli uomini non mancheranno solo con vent'anni di ritardo: ne riparleremo, anzi ne riparleranno tra vent'anni e la sinistra - conclude Formica nell'intervista a 'Left' - continui imperterrita a vivere nel suo frazionismo continuo". (AGI) Pat


IMMIGRAZIONE: TRUFFA A MAROCCHINI, 5.000 EURO PER LAVORO FALSO
(AGI) - Roma, 17 apr. - Cinquemila euro per un lavoro sicuro in Italia, per coronare il sogno dell'espatrio in un paese "avanzato" e far vivere dignitosamente la propria famiglia. Peccato che il lavoro, il piu' delle volte, non c'e'. Il "business" della truffa al marocchino frutta solo nel salernitano cinque milioni di euro, ed e' al centro della denuncia della Cgil da cui e' partita un'inchiesta che verra' pubblicata sulla rivista 'Left' in edicola domani. Fantomatici imprenditori italiani setacciano le citta' del Marocco, promettendo ai giovani del luogo un lavoro stagionale nel nostro paese. Con qualche migliaio di euro il giovane speranzoso riceve il nulla osta, e un numero di telefono con cui, dopo il volo Casablanca-Malpensa, contattare il datore di lavoro di Salerno. Solo che il numero e' falso, dall'altro lato del filo non risponde nessuno. La direzione provinciale di Salerno non ci ha messo molto a scoprire la truffa: su 3.000 posti disponibili nel salernitano, le domande presentate dagli imprenditori sono state 7.500. Dalla verifica a tutto campo e' emerso che aziende piccolissime hanno chiesto un numero enorme di lavoratori, cosi' come aziende che non esistono affatto. Il meccanismo della truffa e' semplice: il lavoratore marocchino viene in Italia, ma senza trovare immediati punti di riferimento lascia passare i giorni, non sapendo che se dopo otto giorni non si presenta in Prefettura con il datore di lavoro a stipulare il contratto diventa automaticamente irregolare. E i soldi che ha versato restano a chi li ha presi come "anticipo". In tutto, una truffa che solo nel 2007 ha ammontato a 5 milioni di euro. (AGI) Pgi

mercoledì 23 aprile 2008

l’Unità 23.4.08
La destra al potere. Negare il 25 aprile
di Eduardo Di Blasi

Dal Giornale di Berlusconi parte l’attacco. Veltroni: festa di tutti gli italiani
Prima il sindaco (Pdl) di Alghero che vieta “Bella Ciao”. Poi l’attacco del “Giornale” di famiglia che bolla il 25 Aprile come ricorrenza che divide e la sindaca Letizia Moratti che fa sapere che alla manifestazione di venerdì a Milano non ci sarà. Infine Gustavo Selva (Pdl) che ne propone l’abolizione. La Destra ha rimesso nel mirino la festa della Liberazione dell’Italia dall’oppressione nazista e fascista. Proprio nel 60esimo anniversario della Costituzione e 70 anni dopo che il fascismo emise le leggi razziali per sterminare gli ebrei. «Il 25 Aprile - ricorda Veltroni - è la festa di tutti gli italiani»

LA LIBERAZIONE vista da destra diventa una «festa di parte», una data «che divide». Il nuovo epigono è un sindaco di Alghero che non vuol sentire «Bella ciao» (anche questa «canzone che divide») e che considera «estremista di sinistra» chi, durante la manifestazione alzi «i pugni al cielo»
Titolo: «Il 25 aprile che divide». Primo svolgimento, a cura di Giordano Bruno Guerri: «Un italiano su due non la considera una festa nazionale» (articolo a commento di un sondaggio somministrato a mille persone). Seguono intervista al sindaco di Alghero «che ha vietato Bella Ciao», e non da ora (e per questo si appunta una medaglia sul petto), un altro pezzo sul sindaco di Milano che quest’anno diserta il corteo («e anche il primo maggio» perché non sarà in città, ma, assicura, ci sarà una rappresentanza della giunta), e due articoli contro l’Anpi, l’associazione dei partigiani. Nel primo l’attacco è al manifesto unitario delle associazioni combattentistiche e partigiane, reo di contenere l’appello: «A sessant’anni dal 1° gennaio 1948, da quando essa entrò in vigore, l’Italia sta correndo nuovi pericoli. Emergono sempre più i rischi per la tenuta del sistema democratico, come evidenti si manifestano le difficoltà per il suo indispensabile rinnovamento. Permangono, d’altro canto, i tentativi di sminuire e infangare la storia della Resistenza, cercando di equiparare i “repubblichini”, sostenitori dei nazisti, ai partigiani e ai combattenti degli eserciti alleati». Il secondo descrive i circoli dell’Anpi come «circoli ricreativi, veri e propri dopolavori con annessi ristoranti, club sportivi, scuole di arti orientali», e annota, mentre spiega il tesseramento dei ragazzi che tengano alta la memoria della Resistenza una volta che i partigiani non ci saranno più: «Salvare l’Anpi significa salvare i fiumi di euro che arrivano dalle casse pubbliche».
Sono due pagine de «Il Giornale», il quotidiano di Paolo Berlusconi (il fratello del primo ministro che mai si è visto ai festeggiamenti del 25 aprile), andato in edicola ieri. Due pagine che andavano sotto l’ambiguo titoletto: «L’Italia degli irriducibili». Dove non si comprendeva se fossero «irriducibili» (termine terroristico-curvaiolo) coloro che si ostinano a festeggiare la Liberazione o il sindaco di Alghero che alla domanda: «E se qualcuno nel corteo intona Bella Ciao?», risponde: «Non succede assolutamente nulla, a meno che non ci sia qualche estremista di sinistra che cominci ad alzare i pugni al cielo. Ma non sono io a giudicare, se ci sono gli estremi della provocazione interverranno le forze dell’ordine». Intanto Gustavo Selva, senatore uscente del Pdl (quello che ha adoperato un’ambulanza per presenziare in una trasmissione tv in un giorno di blocco del traffico), propone «l’abolizione della festa nazionale del 25 aprile» in quanto, dal suo punto di osservazione “privilegiato” («ho vissuto dal 1943 al 1945 a Riolo Terme in provincia di Ravenna dove è finita la seconda guerra mondiale») osserva: «L’attività dei partigiani è emersa solo dopo il 25, ma sul piano militare hanno fatto solo dei danni. Per esempio l’uccisione di un soldato tedesco che stava magari pascolando qualche animale, ucciso da quelli che dopo il 25 aprile sono stati definiti eroi della Resistenza, a cominciare da Arrigo Boldrini che io ho conosciuto nella sua attività». È la stessa riscrittura della storia di cui parla l’appello dell’Anpi. Confondere la Liberazione con qualcosa di diverso dalla fine della guerra mondiale e del giogo fascista sull’Italia. Lo afferma chiaro il segretario del Pd Walter Veltroni: «Il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani, per ricordare il giorno in cui è stata restituita la libertà di dire ciò che si pensa, la libertà di votare, la libertà di stare in un partito, di fare un sindacato e di essere ebrei senza finire in un campo di sterminio. Non ci deve essere nessun italiano che considera questo giorno altro che una festa di tutti gli italiani, la festa della Liberazione».

l’Unità 23.4.08
I 99 anni della Montalcini: il male mi ha portato il bene
Compleanno del Premio Nobel che ricorda le persecuzioni razziali: giovani, abbiate fiducia

Compleanno del Premio Nobel che ricorda le persecuzioni razziali: giovani, abbiate fiducia
All’età non ha «mai dato importanza», così come ai festeggiamenti di compleanno, dichiarava lo scorso anno al traguardo dei suoi 98 anni. E anche ieri, che di candeline ne ha spente 99, il Premio Nobel per la Medicina e senatrice Rita Levi Montalcini non ha smentito il suo credo: è andata a lavorare in laboratorio, come tutti i giorni, per poi proseguire con un impegno pubblico, mentre dalla mattinata numerosi auguri giungevano da più parti.
Nella sede della Fondazione European Brain Research Institute (Ebri) da lei creata tre anni, ha ricevuto gli auguri di Francesco Rutelli. «Se guardo indietro, penso di avere avuto una vita fortunata», gli ha detto. «Il male - ha proseguito la Montalcini - mi ha portato il bene» e il suo pensiero è andato ai giorni delle persecuzioni razziali, quando era costretta a stare nascosta in camera da letto. Poi ha ricordato le ricerche che, con la scoperta del 1986, l’hanno portata al Premio Nobel per la Medicina. «Per prima cosa - ha detto - voglio dire ai giovani disinteressatevi di voi stessi e pensate agli altri. Ma la cosa più importante è: abbiate sempre fiducia, non abbiate paura neanche nei momenti difficili, perchè, come è successo anche a me, dopo, verranno tempi migliori».
«Vorrei essere viva, per poter assistere allo sviluppo fondamentale delle scoperte da me fatte 50 anni fa», ha confidato al candidato del centrosinistra a sindaco di Roma Rutelli. Il clima dell’incontro è stato quello di due vecchi amici, che si sono tenuti per tutto il tempo mano nella mano. Rutelli, che le ha fatto dono di una composizione di fiori e del catalogo appena edito della Galleria nazionale di Arte antica, l’ha ringraziata perchè, ha detto, «fin dall’inizio sei stata amabilissima con me e tanto importante anche nella precedente esperienza di sindaco». La Montalcini si è informata su come stesse andando la campagna elettorale e Rutelli non ha nascosto che si tratta di «una battaglia impegnativa».
Alla Premio Nobel sono arrivati, tra gli altri, gli auguri del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano («per una ricorrenza che la vede sempre così fervidamente e operosamente impegnata per la scienza e per il paese»), di Prodi, che l’ha ricevuta a Palazzo Chigi dove hanno festeggiato con un brindisi. Auguri anche da Veltroni, Bertinotti, Marini. Una calorosa lettera di auguri è stata inviata alla Montalcini da Michail Gorbaciov, presidente della Croce Verde internazionale, che ricopre anche il ruolo di presidente d’onore di Green Cross Italia e di consigliere dello stesso Gorbaciov.

l’Unità 23.4.08
Sinistra, il doloroso addio di Mussi
Con una lettera le dimissioni da coordinatore di Sd. «Necessario un ricambio generazionale»
di Simone Collini

AVEVA FATTO INTUIRE le sue intenzioni all’indomani della sconfitta elettorale, dichiarandosi «politicamente corresponsabile del disastro» e annunciando: «Ne trarrò le conseguenze». Ieri Fabio Mussi ha ufficializzato la decisione di dimettersi da coordi-
natore di Sinistra democratica, con una lettera inviata al direttivo del movimento, riunito a Roma per analizzare il voto di dieci giorni fa e per pianificare le strategie future. La riunione, nove ore a porte chiuse all’ex hotel Bologna, si è aperta proprio con la lettura delle righe scritte dal ministro uscente, lontano per via di accertamenti medici dovuti al trapianto di reni di pochi mesi fa. Nella lettera, Mussi ha sottolineato la coincidenza tra la sua delicata situazione personale e la débâcle elettorale: «In questo momento la sinistra ha bisogno del massimo impegno e di un vero rinnovamento», è il messaggio dell’ex leader del Correntone ai suoi. «Non potendo garantire, per motivi indipendenti dalla mia volontà, il contributo necessario e volendo favorire un rinnovamento anche generazionale, lascio l’incarico di coordinatore».
Un passo indietro, che però Mussi accompagna a un’esortazione: bisogna rilanciare il percorso costituente a sinistra e si deve andare «comunque» verso un ricambio generazionale di tutti gli organismi dirigenti. Posizione condivisa dalla maggior parte degli interventi che sono seguiti, e che è stata poi ribadita in un documento approvato alla fine dei lavori. Nel testo si legge che impegno di Sinistra democratica, in prospettiva, è quello di dar vita a «una sinistra unita e rinnovata» che un domani porti a «un centrosinistra nuovo». E che per far questo, nell’immediato, bisogna avviare una campagna d’ascolto sui territori. Perché, come è stato sottolineato in più di un intervento, una delle lezioni da trarre da questo voto è che non si può pretendere di rappresentare istanze e bisogni per intuizione, senza passare per l’ascolto.
Ma non è solo questa la causa sconfitta. Marco Fumagalli, che insieme ai capigruppo uscenti Titti Di Salvo e Cesare Salvi traghetterà sinistra democratica fino all’elezione del successore di Mussi, punta il dito contro il fatto di non essere riuscita a comunicare il progetto politico di una sinistra di governo e di essere apparsa un semplice cartello elettorale. Concetto su cui ha insistito anche Salvi, per il quale alla lista rosso-verde «è mancata la capacità di persuadere e di presentarsi con parole d’ordine chiare». Il capogruppo uscente di Sd al Senato ritiene che il lavoro da fare nelle prossime settimane sia quello di lavorare con le altre forze di sinistra, socialisti compresi. Ma c’è anche altro da fare. La sua convinzione è infatti che in Sd «è necessario un percorso democratico che finora non c’è stato». Posizione tornata in vari interventi, anche se poi, quanto alle soluzioni prospettate, non è emerso un univoco orientamento.
La prima prova in questo senso sarà comunque la scelta del successore di Mussi. L’intenzione prevalente è di farlo eleggere già alla riunione del comitato promotore di Sinistra democratica, convocato per il 10 maggio. Candidature non sono venute alla luce e ogni ipotesi al momento è prematura. Quanto a una più ampia consultazione di iscritti e anche simpatizzanti, Sd dovrebbe darsi appuntamento dopo il congresso di Rifondazione comunista. L’auspicio è che a ottenere la maggioranza sia l’asse Bertinotti-Vendola, favorevole a una costituente della sinistra, e non quello Ferrero-Grassi, per i quali va rilanciato il carattere identitario del Prc. Carlo Leoni non fa mistero che il percorso che dovrà dispiegarsi nelle prossime settimane «porta alla costituente della sinistra al fianco di Rifondazione e quanti ci stanno». Altre prospettive, riguardanti una confluenza nel Pd, vengono invece escluse dal vicepresidente della Camera: «Noi ci siamo, siamo qui». E anche Fumagalli smentisce voci di un avvicinamento al Pd: «Noi investiamo sulla nuova sinistra». Intanto, però, oggi si riuniscono a Roma Cialente, Nerozzi, Crucianelli e altri fuoriusciti recentemente da Sd. Spiega Vincenzo Vita che presto l’associazione “Sinistra per il paese” potrebbe varare una Fondazione, che sia «parte costitutiva del Pd e che sappia però anche dialogare con l’esterno». Un ponte lanciato verso gli ex compagni? Dice Giulia Rodano: «Per il momento non se ne parla».

l’Unità 23.4.08
Aborto, meno interventi ma è boom di obiettori
La relazione del ministero della Salute: Ivg in calo del 3%, il 70% dei ginecologi dice «no»

CONTINUA A CALARE il numero degli aborti in Italia (-3% nel 2007 rispetto al 2006), e in particolare tra le donne italiane. Tuttavia il fronte del no all’aborto tra i
medici ha segnato un vero e proprio boom: i ginecologi obiettori nel 2007 hanno raggiunto quasi il 70% (69,2%), contro il 58,7% del 2003: su 5462 ginecologi che lavorano in strutture in cui si effettuano aborti, solo 1682 non sono obiettori. Sono i dati contenuti nella relazione annuale 2006-2007 sull’applicazione della legge 194, inviata ieri al Parlamento dal ministro della Salute Livia Turco, che ha definito la legge 194 «efficace, saggia e lungimirante», ricordando che «la sua applicazione può essere ulteriormente migliorata». Il ministro ha sottolineato la necessità di potenziare i consultori, che sono solo 0,7 ogni 20mila abitanti, mentre la legge ne prevede 1 ogni 20mila. La Turco raccomanda anche di «monitorare» l’offerta della prestazioni in relazione all’aumento delle obiezioni, al fine di garantire in tutte le Regioni l’accesso al servizio, anche attraverso «la mobilità del personale». La crescita delle obiezioni, infatti, è stata molto marcata in particolare nel Sud, con punte in alcune regioni come la Campania (dal 44,1% di obiettori all’83%), e la Sicilia (dal 44,1% al 84,2%). A porre ostacoli alle donne, sono però anche gli anestesisti (dal 45,7% al 50,4% di obiettori), e il personale non medico (dal 38,6% al 42,6%). Secondo Giorgio Vettori, presidente della Sigo (Società italiana di ginecologia), i medici operativi «sono sufficienti» per far fronte alla domanda. «Il problema semmai è organizzativo, faremo un’indagine attenta per verificare se c’è la necessaria copertura in tutto il Paese». Più critico Silvio Viale, ginecologo ed esponente radicale, secondo cui ormai la legge 194 è «a rischio». Giovanni Monni, presidente dell’Associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi), spiega così l’impennata delle obiezioni: «I ginecologi preferiscono fare un parto rispetto ad un aborto, non solo per le implicazioni etiche, ma anche perché nei concorsi questo intervento dà meno punteggio». E poi, dice Monni, «possono aver influito tutte le campagne contro l’aborto: i ginecologi spesso seguono le mode». Infine, pesano le dichiarazioni pro-vita «di molti direttori generali e assessori alla Sanità». Nel 2007 gli aborti sono stati 127.038 contro i 131.018 casi del 2006 (-3%); rispetto al 1982, anno in cui ci sono stati 234.801 casi, il decremento è del 45,9%. Tuttavia il calo è da imputare soprattutto alle donne italiane (- 3,7% rispetto al 2005), soprattutto se istruite, occupate o coniugate, mentre tra le straniere il ricorso all’aborto continua a salire (+ 4,5% rispetto al 2005). Corretta al ribasso la stima degli aborti clandestini: nel 2005 sono stati 15mila e non 20mila. Stabile il numero degli aborti terapeutici effettuati dopo il 90° giorno di gravidanza, nel 2006 pari al 2,9% del totale. Rimane invece sul terreno della sperimentazione l’aborto farmacologico con la pillola RU486: dal 2005 al 2007 ci sono stati solo 2353 casi. Sei le regioni coinvolte: Piemonte, Trentino, Toscana, Emilia Romagna, Marche, Puglia.

l’Unità 23.4.08
Yael Dayan. La scrittrice ed ex parlamentare laburista: Meshaal non riconoscerà Israele ma ammette il referendum su un accordo, è già un primo risultato
«Da israeliana sto con Carter: trattare anche con Hamas»
di Umberto De Giovannangeli

«Da israeliana sto con Carter: trattare anche con Hamas»
di Umberto De Giovannangeli
«Conosco molto bene Jimmy Carter e so quanto gli stia a cuore il futuro di israeliani e palestinesi, e so che ogni sua iniziativa è volta a dare un contributo per il raggiungimento della pace. Per questo reputo ingenerose sul piano personale e sbagliate su quello politico, le chiusure del governo Olmert al suo tentativo di aprire uno spazio di dialogo con Hamas». A parlare è Yael Dayan, scrittrice israeliana, più volte parlamentare laburista, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei Giorni (1967): il generale Moshe Dayan.
Il «viaggio di studio» in Medio Oriente dell’ex presidente Usa Jimmy Carter ha suscitato, specie in Israele, dibattito e polemiche.
«Reputo le accuse rivolte al presidente Carter ingenerose sul piano personale e sbagliate su quello politico. Alla base dell’iniziativa generosa di Carter c’è una presa d’atto che condivido pienamente: può piacere o no, e a me certo non fa piacere da israeliana, da donna, e da laica, ma è indubbio che Hamas è parte del popolo palestinese con la quale Israele deve fare i conti politicamente, smettendo di illudersi che esistano scorciatoie militari per la soluzione del problema. Carter ha il merito di aver costruito su questo assunto una iniziativa politica che sembra aver dato dei primi risultati».
A cosa si riferisce?
«All’accettazione da parte dei leader di Hamas di un referendum popolare cui sottoporre un eventuale accordo di pace raggiunto da Israele e dall’Autorità nazionale palestinese del presidente Abu Mazen. A me pare un fatto politico significativo che Israele farebbe bene a non sottovalutare».
Il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, ha ribadito che Hamas non intende riconoscere lo Stato d’Israele…
«È vero, ma è altrettanto vero che in quella stessa dichiarazione Meshaal ha affermato che Hamas accetta la costituzione di uno Stato indipendente palestinese sui territori occupati nel 1967: una affermazione che confligge apertamente con il dettato jihadista, riproposto dal presidente iraniano Ahmadinejad e dai capi di Al Qaeda, che esplicita l’obiettivo della cancellazione di Israele dalla cartina del Medio Oriente».
C’è chi le ribatterebbe che quella di Meshaal è solo una mossa tattica.
«Se è così perché non verificarlo? La mia non è un’apertura di credito "al buio" ad Hamas. Ciò che sostengo è che Hamas va affrontata e sconfitta sul piano politico, agendo sulle sue contraddizioni interne, sapendo peraltro che se si vuole raggiungere almeno un cessate il fuoco, esso va negoziato con il nemico».
Un negoziato che preveda anche la fine del blocco di Gaza?
«Quel blocco dovrebbe essere quantomeno allentato unilateralmente da Israele per due buone ragioni: perché le punizioni collettive inflitte alla popolazione civile della Striscia sono in sé inaccettabili, sul piano etico oltre che politico, e anche perché questa politica di chiusura totale ha finito solo per rafforzare Hamas. Israele ha altri mezzi, anche militari, per fare pressione su Hamas. Va da sé che un negoziato con Hamas deve prevdere la fine del lancio dei razzi contro Sderot e il Sud d’Israele; quei lanci che Jimmy Carter ha bollato senza mezzi termini come “atti criminali”. Mi lasci aggiungere che una tregua negoziata con Hamas e l’Anp, non indebolirebbe la leadership del presidente Abu Mazen ma al contrario al rafforzerebbe perché è sulla sofferenza, la rabbia, la frustrazione e l’assenza di speranza che crescono le forze estremiste».
La pace per Yael Dayan...
«Non è una concessione ai palestinesi ma è l’unico modo perché Israele preservi, oltre la sua sicurezza, i due pilastri della nostra identità nazionale: democrazia e ebraicità dello Stato».

l’Unità 23.4.08
Il Marx magico di Scalfari
di Bruno Gravagnuolo

Il Pd «centripeto» È la ricetta che il direttore del Corsera Paolo Mieli consiglia al Pd dopo la botta elettorale. Che significa «centripeto»? Significa partito di centro. Che non si limita ad allearsi con Casini, ma occupa stabilmente quella zona, fino a «strutturarsi per occupare da sé il centro» (così Mieli domenica nel suo editoriale). Bene, sarebbe una falsa e non una «vera partenza», come titolava il quotidiano. Anzi sarebbe una catastrofe (un’altra!). Premesso che il Pd ha già fatto di tutto e di più per qualificarsi al centro con imprenditori e generali - per nulla nascosti in lista come dice Mieli - resta il fatto che un Pd post-identitario e di centro verrebbe devastato al suo interno. Tra «opposizionisti» e «volenterosi». Sicché, invece di agganciare Casini, sulla riforma elettorale e altro, finirebbe per agganciare... Berlusconi da posizioni subalterne. Oltre a perdere tutti gli elettori in fuga dalla Sinistra Arcobaleno (alle Europee, per cominciare) . La strada semmai è quella opposta ai consigli di Mieli: un moderno partito di sinistra. Radicato nei territori e di massa. Con una sua idea dello stato e dell’economia, né decisionista né liberal-mercatista. E con sfondo e contorno di alleanze: al centro, in società, in Europa e in Parlamento. Ci vuole un Partito insomma. Una specie di più ampio e innovativo Pds. Con quella «s» (che sta per sinistra) ben dentro, se non nel nome. Altrimenti è la fine.
Marxismo magico Spargeva lenimenti Eugenio Scalfari domenica su Repubblica: «più o meno 4 punti tra Pd e Pdl». Ma in realtà al Senato sono 4,5, e tra i due «poli» ci sono 9 punti! Quel che però non convince è il «ragionamento» scalfariano: destra e sinistra parole superate. Se non nel senso di sinistra come «modernità» e «innovazione». E destra come «identità» e «sicurezza», pur tra scambi e «dosaggi» alternati. Troppo generico: che modernità e che innovazione? E poi, chi ha detto che «identità» e «sicurezza» siano ipso facto o in partenza di destra? Infine è semplicistica l’idea della fine della «classe» - la «struttura» - con relativa scomparsa dell’ideologia di sinistra (la «sovrastruttura»). Questo è marxismo magico... Gli operai sono un terzo del lavoro dipendente e con esso hanno bisogno di sinistra. Sennò spariscono davvero, come s’è visto. Ma ricompaiono a destra!

l’Unità 23.4.08
Natoli: «Io e gli altri copiati da Galimberti»
di Marco Innocente Furina

«Se citi Galimberti, fai attenzione, rischi di citare qualcun’altro». Per essere una battuta lascia il segno, e non molto spazio all’immaginazione. Se poi a pronunciarla è il filosofo Salvatore Natoli, collega e compagno di studi di Umberto Galimberti, la questione si fa seria. Insomma, altro che caso isolato, altro che errore, Galimberti le virgolette le scorderebbe spesso e volentieri. Troppo volentieri.
Il caso questa volta lo solleva Avvenire, dopo che dalle pagine de Il Giornale Roberto Farneti il 17 aprile scorso, aveva dimostrato che alcuni brani de L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani edito da Feltrinelli, l’ultimo libro di Umberto Galimberti, sono «pericolosamente» somiglianti a passi de Il piacere e il male, testo del 1999, sempre edito da Feltrinelli, della storica Giulia Sissa. Il giornale dei vescovi in un articolo a firma di Edoardo Castagna, apparso martedì scorso, accusa Galimberti di esser stato «precoce» nel «vizietto» del copia incolla. Il libro all’indice è Gli equivoci dell’anima del 1987, in cui Galimberti «riassume» parecchie riflessioni di Natoli già apparse su riviste specializzate. Natoli conferma.
«Quando mi accorsi dei plagi dei miei articoli - spiega il filosofo - la mia reazione immediata fu di tristezza e dispiacere, non di aggressività». Il docente di filosofia teoretica all’università Bicocca di Milano preferì lasciar correre: «C’erano anche ragioni personali: eravamo stati compagni di studi, era un fatto che mi feriva. Mi sentii tradito, più che offeso. Nella professoressa Sissa ha prevalso un altro sentimento, forse operando nel mondo anglosassone (Giulia Sissa è ricercatrice all’Ucla di Los Angeles, ndr), è abituata a maggior rigore. Ma a indurmi a non reagire è stato anche un altro motivo. Sono convinto che dispute del genere devono essere risolte all’interno della comunità scientifica. Noi studiosi dobbiamo essere autoimmuni da fenomeni di questo genere. Altrimenti il rischio è che i non addetti ai lavori, vedendo due accademici litigare, pensino che siano soltanto gelosie e ripicche e finiscano col convincersi che abbiano torto entrambi. Come accade per le polemiche politiche».
Intanto per gettare acqua sul fuoco è intervenuto anche l’editore Feltrinelli, che in un comunicato ha definito i passi incriminati una «riproduzione» della recensione a suo tempo fatta da Galimberti del lavoro della Sissa. Una tesi sostanzialmente ribadita anche dal filosofo che, da parte sua, in un’intervista a Il Giornale, ha riconosciuto i debiti nei confronti della ricercatrice, ma ha difeso la sua buona fede: «Quelle pagine sono una rielaborazione di una recensione del 23 aprile del 1999 che io scrissi parlando de Il piacere e il male di Giulia Sissa. Nella recensione io riassumevo ciò che diceva la professoressa Sissa... Io lavoro così, leggo il libro e poi scrivo. Non faccio mai virgolettati, racconto. È stato questo il mio errore». Una spiegazione che non ha convinto la studiosa italiana («Nel libro di Galimberti ci sono note riprese dal mio Il piacere e il male che non esistevano nella recensione del 23 aprile 1999 e che, quindi, devono essere cercate e trovate nel mio libro. Più che delle scuse, è un cercare delle scuse, un arrampicarsi sugli specchi») e che non convince del tutto neppure Natoli. «Galimberti non è nuovo a episodi di questo genere. Ricordo che fin da tempi in cui scriveva per il Sole 24 ore c’erano lettori che mi contattavano per segnalarmi dei plagi dei miei scritti. E anche successivamente, in alcuni articoli su Repubblica, è avvenuta la stessa cosa. Avrei dovuto creare delle cartelle, ma ho lasciato stare».
Per Natoli il caso venuto alla luce in questi giorni dunque non è che la punta dell’iceberg di un certo modus operandi. «Una volta ho citato una frase di Galimberti, o almeno credevo fosse sua; invece era di Foucault, un brano tratto da La nascita della clinica».
Parole pesanti quelle di Natoli, che troverebbero conferma anche in un altro episodio denunciato dalla stessa Sissa. L’antichista ha raccontato al Corsera di aver ricevuto una mail da una studiosa fiorentina, Alida Cresti, che segnalava una sentenza del Tribunale di Roma che in data 30/5/2006 condannava Galimberti per aver pubblicato su Repubblica un articolo a sua firma, in realtà copiato da una saggio della stessa Cresti. Sul perché nessuno abbia mai detto niente, Natoli ha un’idea precisa: «Galimberti ha avuto grande successo televisivo, è un personaggio conosciuto e la comunità scientifica ha una forte soggezione del successo mediatico». Le comparsate in tv - Galimberti è stato spesso ospite del Maurizio Costanzo Show - e la collaborazione coi grandi giornali conterebbero più della affidabilità accademica. Un deriva inquietante, se fosse vera. Contro cui Natoli ha un’unica soluzione: «Si deve tornare a un’etica della scrittura, a una responsabilità del pensiero».
Etica e responsabilità, due concetti centrali nella riflessione di Galimberti...


IL FILOSOFO, dopo le accuse di plagio rivolte dalla storica Sissa al celebre psicoanalista, spiega che quella della «riproduzione» di brani altrui non è una novità: «Lo faceva già ai tempi del Sole 24 ore...»

Repubblica 24.4.08
A chi serve la versione edulcorata del fascismo
di Mario Pirani

Una poesia può contenere in pochi versi più verità e chiarezza di un saggio storico. L´idea mi è suggerita dalla lettura di una breve lirica (da "Gente sul ponte", ed. Scheiwiller) di una grande poetessa polacca, Wislawa Szymborska, poco conosciuta in Italia, malgrado il Nobel.
Intitolata "Figli dell´epoca" ne riporto qui poco più di una strofa: «Siamo figli dell´epoca,/ l´epoca è politica./ ... Ciò di cui parli ha una risonanza, / ciò di cui taci ha una valenza/ in un modo o nell´altro politica./.... Intanto la gente moriva, / gli animali crepavano,/ le case bruciavano/ e i campi inselvatichivano/ come in epoche remote/ e meno politiche». L´analogia nasce dal paragone con una polemica tra storici – Giovanni De Luna sulla "Stampa" e Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere"–, il primo preoccupato dal fatto che la natura totalitaria del fascismo venga ormai derubricata solo alla persecuzione razziale anti ebraica, il secondo, come d´abitudine, impegnato ad incolpare di ciò gli storici di sinistra, i quali, per alleviare le responsabilità del comunismo, avrebbero appiattito tutta l´esperienza fascista su quella hitleriana. A tal fine, quindi, «dopo l´equiparazione del fascismo al nazismo, l´accento sull´antisemitismo serviva a ristabilire l´incrinata supremazia del comunismo sull´uno e sull´altro». Alla base della riduzione del fascismo «all´archetipo di totalitarismo diabolico-omicida che è stato il regime hitleriano» vi sarebbe, inoltre, il vecchio rifiuto delle ricerche di Renzo De Felice che smentivano «l´immagine del Ventennio in contrapposizione alla quale la sinistra ha costruito il mito dell´antifascismo e della Resistenza».
Stanca polemica, in verità, sol che essa conferma ancora una volta come l´uso politico della storia risorga dalle sue ceneri ogni qualvolta si delinea un mutamento di scenario - come ora con l´alternanza destra-sinistra - contribuendo a confondere sia la storia che la politica.
Se, infatti, guardiamo, da cronisti attenti ai fatti e non da cattedratici innamorati delle loro tesi, il calendario degli anni più recenti, possiamo facilmente constatare che l´amalgama delle più generali responsabilità fasciste solo alle leggi razziali, è andata via via affermandosi con l´evoluzione democratica dell´estrema destra, la trasformazione del Msi in An e, da ultimo, l´approdo al Pdl, accompagnati dalle visite di Fini ad Auschwitz, a Gerusalemme, alla Sinagoga di Roma, al suo sostegno sincero ad Israele, alle sue affermazioni contro le leggi razziali, alla condanna senza mezzi termini della Shoah. Tutto ciò, oltre ad essere in sé ottima cosa, ha contribuito a sdoganare anche sul piano internazionale, a dare un profilo nuovo al vecchio movimento post-repubblichino e ad inserirlo a pieno diritto nel quadro costituzionale, pagando solo lo scotto della scissione dell´ala estremista.
D´altro canto l´accentuazione posta sul ripudio dell´antisemitismo come simbolo unico di un passato, inaccettabile, invece, anche per tanti altri versi, ha permesso alla destra di non confrontarsi con la sua storia reale. Si è finito per ricoprire di un oblio quasi nostalgico gli anni di una dittatura in primo luogo antiliberale, che soffocò la libertà di stampa, di parola, di associazione, di sciopero; soppresse la democrazia rappresentativa; istituì tribunali speciali, incarcerò e talora assassinò gli oppositori; infine trascinò l´Italia in una guerra rovinosa contro le più grandi potenze del mondo. Non aver fatto i conti culturali - ribadisco culturali - col passato, attraverso la vulgata detta revisionista, ha portato non solo la destra ma una parte non piccola dell´opinione pubblica a recepire una versione edulcorata e distorta del Ventennio, ad accettare per buona una «condivisione» strumentale di una storia falsificata, culminata nella par condicio tra ragazzi di Salò e Resistenza, ad accettare la ricorrente richiesta di rivedere i testi scolastici a seconda di chi vinca le elezioni.
La storiografia di sinistra porta in tutto ciò le sue responsabilità ma non nella «reductio» del fascismo alla sua svolta razzista. Le colpe più gravi, che si sono trascinate a lungo, riguardano piuttosto il giudizio sul comunismo e sull´Urss. Così anche sull´uso strumentale dell´accusa di fascismo contro chi condannava la dittatura staliniana. In questo seguendo la propaganda sovietica che, ad esempio, giustificò, tra l´altro, l´invasione della Cecoslovacchia inventandosi la minaccia del riarmo tedesco alle frontiere orientali (ma in proposito non va dimenticato che il governo centrista Dc-Liberali nascose nell´armadio della vergogna le carte sull´eccidio di Cefalonia per non mettere in difficoltà la Repubblica federale tedesca al momento della sua adesione alla Nato).
Infine anche la polemica su De Felice «vittima», è in gran parte viziata. Non solo perché Giorgio Amendola in un impegnato libro-intervista dette subito una interpretazione largamente positiva della riscoperta defeliciana (che non vuol dire rivalutazione) delle ragioni del consenso popolare al regime mussoliniano, ma anche perché quella riscoperta in realtà coincideva con le analisi togliattiane sul carattere di massa del fascismo, sulla opportunità, sia pure strumentale, che i giovani comunisti entrassero nei Guf, partecipassero ai Littoriali, cogliessero le esigenze di rinnovamento che provenivano dall´interno del fascismo.
Una linea che trovò una sua conferma subito dopo la Liberazione con l´apertura senza veti ideologici alle nuove generazioni educate dal regime. Quel che gli storici di sinistra non intravidero neppure era la insania, al termine autodistruttiva, come infatti avvenne, del nucleo centrale del pensiero e dell´azione dei partiti comunisti, quel finalismo assoluto che tutto giustificava in nome di una costruzione sociale e politica senza contraddizioni, basata su un´etica costrittiva capace di sfociare nel gulag e nel crimine di massa. Il non aver mai affrontato la negatività insita nell´utopia comunista ha portato il Pci e, poi, il post-Pci (nelle sue susseguenti trasformazioni) a smarrire identità, ad arrivare sempre in ritardo agli appuntamenti col rinnovamento riformista, a lasciare alla sua sinistra, specularmente alla destra post fascista, i brandelli radioattivi e dannosi di scorie storiche che ancora si richiamano al comunismo.
Peraltro le afone e invecchiate sirene degli opposti estremismi non appaiono più in grado di influenzare l´agenda del Paese. Non sarebbe allora giunto il momento per separare finalmente l´operare politico dall´analisi storica? Non è venuto il giorno per spogliare le date epocali della vicenda repubblicana dall´affronto riduttivo delle polemiche contingenti? Se il 14 luglio è la festa di tutti i francesi, degli eredi dei giacobini come dei vandeani, dei laici come dei cattolici, di chi si richiama alla Comune e dei gollisti che inalberano Giovanna d´Arco perché tutti gli italiani non debbono finalmente ritrovarsi nel 25 aprile e nel 2 giugno? Se Berlusconi e Fini, pur non essendo ancora in carica, promuovessero una iniziativa in tal senso, non sarebbe davvero questo un buon inizio, al di là della validità di ogni restante giudizio politico?

Repubblica 24.4.08
Appello per il 25 aprile: "Scendiamo in piazza"
Torino, mobilitazione da Zagrebelsky a Grosso. Napolitano a Genova. Polemica sulla Moratti
di Silvio Buzzanca

Giorgio Napolitano festeggerà il 25 aprile a Genova, città simbolo della Resistenza e della lotta contro il nazifascismo. Una scelta simbolica che vuole ricordare come il mito della Resistenza come movimento di popolo sia fondato su basi molto concrete. Ma l´impegno del presidente della Repubblica nelle celebrazioni inizierà già domani quando riceverà al Quirinale le Associazione d´Arma e Combattentistiche. La mattina del 25 Napolitano deporrà una corona d´allora all´Altare della Patria in onore dei caduti della guerra di Liberazione. E in quella sede consegnerà alcune medaglie al merito civile dedicate alla Resistenza. Poi volerà a Genova.
A Torino è di ieri un appello a scendere in piazza firmato da un gruppo di intellettuali tra cui spiccano Gustavo Zagrebelsky, Guido Neppi Modona e Carlo Federico Grosso. L´appello ricorda «il sacrificio della parte migliore di questo paese che permise alle generazioni che seguirono di vivere in una nazione libera e democratica». All´iniziativa del deputato Ds Stefano Esposito hanno già aderito una quarantina di intellettuali di Torino, chiaramente in contrapposizione con il W-day che Beppe Grillo organizza nel capoluogo piemontese proprio quel giorno. «Tre generazioni, tante ne sono passate da quando l´Italia è stata liberata dall´occupazione nazista e dal fascismo - si legge nell´appello - sarebbe questa una ragione sufficiente per festeggiare il 25 Aprile, ma crediamo vi sia di più del semplice ricordo. Il 25 Aprile ci parla dell´oggi, della necessità di non dare mai per scontati quei valori per i quali combatterono i nostri padri e i nostri nonni.»
Letizia Moratti, sindaco di Milano, invece conferma che altri impegni la portano lontano dal capoluogo meneghino e non potrà parteciperà alle manifestazioni. Il primo cittadino, accusa Alfio Nicotra, di Rifondazione, «per la prima volta nella storia repubblicana Milano non sarà rappresentata alle celebrazioni del 25 aprile dal suo sindaco. Sindaco che sarà assente anche dalle manifestazioni del Primo maggio nella storica capitale del lavoro salariato e del movimento operaio». Non è vero, replica la Moratti, «normalmente i sindaci non erano presenti. - spiega - Io sono stata presente, non solo da candidato ma anche da sindaco, quest´anno non posso. Ma la giunta sarà rappresentata». Roberto Formigoni, presidente della Lombardia, si schiera con la Moratti. Quella del 25 aprile, dice il governatore, «è una festa che va celebrata. Se il sindaco non può essere presente, che so per impegni personali già presi, non facciamo inutili polemiche. Non è che fisicamente il sindaco debba essere presente, l´importante è che sia rappresentata l´istituzione».
Ma più si avvicina la data, più le polemiche crescono. Perché il centrodestra non esita ad attaccare una celebrazione che considera monopolio della sinistra. Gustavo Selva, senatore uscente del Pdl, arriva a proporre «l´abolizione della festa nazionale del 25 aprile». Secondo Selva «per la retorica e i falsi che sono stati fatti, viene attribuito alla Resistenza e alla vittoria dei partigiani un merito che non c´è stato». Replica Walter Veltroni, leader del Pd: «Il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani perché è il giorno in cui è stata restituita a ciascuno la libertà di dire ciò che pensa». Le parole di Selva suscitano anche la reazione di Pino Sgobio, Pdci: «Selva propone di attuare un golpe.» Nella sinistra, scottata dal risultato elettorale, c´è aria di mobilitazione. Un po´ come nel 1994, subito dopo la prima vittoria elettorale di Berlusconi.

Repubblica 24.4.08
Se questa è una sinistra
Intervista allo storico Perry Anderson

«Dalla fine della Guerra Fredda le idee della destra hanno guadagnato ulteriore terreno; il centro si è adattato, in modo crescente, a quelle idee; la sinistra resta, in una visione globale, in ritirata». Nel suo ultimo libro Spectrum (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 471, euro 21) Perry Anderson - eminente storico britannico, professore a Ucla ed ex direttore della New Left Review - affronta senza pregiudizi l´intero spettro ideologico che anima il dibattito politico contemporaneo, attraverso le opere di alcuni dei più rappresentativi intellettuali del nostro tempo: Michael Oakeshott, Leo Strauss, Carl Schmitt e Friedrich von Hayek (la destra intransigente); John Rawls, Jürgen Habermas e Norberto Bobbio (il centro liberale e socialdemocratico); Edward Thompson, Robert Brenner ed Eric Hobsbawm (la sinistra marxista eterodossa). Con una suggestiva incursione anche nel campo del romanzo (Gabriel García Márquez) e della filologia (Sebastiano Timpanaro).
Come è nato Spectrum?
«Dal desiderio di adottare un approccio alla vita intellettuale relativamente raro, non solo nella sinistra ma anche nella destra e nel centro. Partendo da due punti: il primo è quello di mostrare rispetto e curiosità per intellettuali del campo avverso e oppositori politici, senza tentare di appropriarsi delle loro idee; il secondo è quello di essere realmente critici verso la propria parte, in modo leale ma senza alcuno spirito di autoflagellazione. Le posizioni politiche della sinistra che ho scelto di difendere sono quelle che definisco con il termine uncompromising realism. Con cui intendo dire due cose: la prima è che l´essere realistici senza compromessi significa non minimizzare la portata di una sconfitta storica, quella della sinistra nel Ventesimo Secolo, cosa che molti fanno. La seconda è che occorre guardare al sistema che ha vinto in modo lucido, senza nascondere la sua forza ma evitando il compromesso ad ogni costo, come invece è successo. Con una ulteriore distinzione: che puoi essere sconfitto ma non piegato».
Qual è lo stato della sinistra?
«La storia della sinistra nel secolo scorso è stata la storia del socialismo, del riformismo e della rivoluzione che ne è l´aspetto più importante perché prevedeva la costruzione di un sistema totalmente alternativo. Se analizziamo la storia del socialismo, o comunismo, con gli occhi delle generazioni future - e da storico voglio usare analogie storiche - penso a quattro possibili esiti. Si potrebbe guardare alla storia del socialismo nel Ventesimo Secolo nello stesso modo con cui noi oggi consideriamo l´esperimento dei gesuiti in Paraguay. Una sorta di esotico ed isolato tentativo di costruire una società nuova basata sulla fede, qualcosa di innaturale cui guardiamo con semplice curiosità. La si potrebbe poi considerare nello stesso modo in cui pensiamo ai Levellers, l´ala più radicale della rivoluzione inglese. I Levellers posero richieste estremamente avanzate - suffragio universale per gli uomini, costituzione scritta, separazione dei poteri, elezione del parlamento, addirittura elezione dei comandanti militari - richieste che nel Diciassettesimo Secolo erano rivoluzionarie, impossibili da realizzare e che in alcuni casi non sono realizzate neanche oggi. Al contrario dei Levellers - e questo è un altro esito ancora - i giacobini raggiunsero il potere, trasformarono la Francia e brevemente anche l´Europa e furono poi sconfitti dalla Restaurazione. La loro tradizione molto rapidamente, in un paio di generazioni, si trasformò nel movimento socialista tanto che nel 1848 giacobinismo e socialismo sono fianco a fianco. Questa terza possibilità non è una transvaluation, ma una mutazione in cui anche il linguaggio - libertà, eguaglianza, fratellanza - sono simili. Un´analogia potrebbe essere fatta - e questo è l´ultimo esito possibile - anche con il liberalismo del diciannovesimo secolo, quello economico di Adam Smith e quello politico essenzialmente francese. Sono due aspetti che si fondono; agli inizi del Novecento il liberalismo nel suo duplice senso di libero mercato, libero commercio, minimo governo ma anche di libertà civili e rules of law diventa l´ideologia dominante ed egemone. La storia ci dice che questa civiltà liberale crolla nella barbarie della Prima Guerra Mondiale, nella Grande Depressione, un crollo economico ma anche morale che ha tra le sue conseguenze la nascita del fascismo in Italia e Germania, iniziata con una vittoria parlamentare. Verso la fine degli Anni Trenta si poteva pensare, molte persone intelligenti lo pensavano, che il liberalismo fosse finito: economicamente, politicamente e moralmente. Invece con la Seconda Guerra Mondiale, con il keynesismo, il liberalismo è risorto ancora più forte fino a diventare, con il neo-liberalismo, l´ideologia ovunque predominante».
E oggi?
«Viviamo per la prima volta in un mondo che può essere definito di "pancapitalismo", una parola che può riassumere il nuovo ordine mondiale. Come ha spesso osservato un brillante pensatore americano, Fredric Jameson, è diventato per la gente più facile immaginare la fine della terra che la fine del capitalismo. Comunque, dobbiamo meditare la parola profonda di un altro teorico della posmodernità, Jean Baudrillard, in un suo breve saggio pubblicato dopo l´11 settembre: "L´allergia ad ogni ordine definitivo, ad ogni potere concludente, è fortunatamente universale"».
L´Europa può rappresentare un´alternativa?
«L´idea dei padri fondatori dell´Europa come Jean Monnet era quella di creare l´unità in un´Europa indipendente dalle due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. Indipendente nell´azione ma anche nella creazione di un modello sociale differente. Se guardiamo all´Europa di oggi da una parte vediamo che il successo è andato oltre le aspettative - Monnet e gli altri avevano immaginato un´Europa occidentale, mentre oggi arriva fino a Brest - dall´altra che è molto più indietro: oggi tutti i principali Stati europei sono meno indipendenti in politica estera dagli Stati Uniti di quanto non lo fossero ai tempi di Monnet, Adenauer e de Gaulle e anche rispetto ai tempi della signora Thatcher. L´Europa unita doveva essere più forte ma non è così: se pensiamo al modello sociale, quello del lavoro, al welfare, vediamo che ci sono ancora differenze rilevanti, ma che diminuiscono in modo costante. La dottrina neo-liberista è più forte anche in Europa, manca una politica estera europea, sul Medio Oriente siamo a rimorchio degli Stati Uniti».
Lei insegna negli Stati Uniti: cosa pensa della sfida elettorale?
«Penso che Obama sarà il candidato, anche se la Clinton è ancora in gara, e che vincerà a novembre. È una figura politica inusuale per gli standard americani, per il suo essere mezzo africano. Ha una grande capacità nel ragionamento. Questa campagna mi ricorda quella del 1968 quando, dopo il ritiro di Lyndon Johnson c´erano due candidati, Eugene McCarthy e Robert Kennedy, tutti e due capaci di mobilitare e di appassionare. McCarthy era un intellettuale, Kennedy una star carismatica, tutti e due rappresentavano l´antitesi al Vietnam dell´amministrazione Johnson. Sappiamo come è andata. Kennedy vince le primarie in California e il giorno stesso viene assassinato, Humphrey domina la Convention di Chicago, ma viene battuto a novembre da Nixon. Fu un vero dramma. Oggi ci sono delle somiglianze. La Clinton è l´Humphrey del 2008, Obama in qualche modo racchiude in sé i differenti magnetismi di McCarthy e Kennedy».
Con Obama presidente che America sarebbe?
«Dalla seconda guerra mondiale tutti i presidenti americani hanno avuto grandi difficoltà nel cambiare il paese all´interno, perché il potere legislativo del presidente è limitato dai poteri del Congresso anche quando il partito del presidente ha la maggioranza. Però ha campo libero in politica estera, dove gode di un potere quasi illimitato. Certo, ci sono stati i diritti civili con Johnson o i tagli alle tasse di Reagan, ma anche questi due presidenti vengono ricordati più per il Vietnam e per il crollo del comunismo. Come Bush lo sarà per l´Iraq. Con Obama questa tradizione può essere invertita. All´estero lo spazio per una politica imperiale, in Medio Oriente o altrove, sta diventando più limitato, mentre all´interno cominicia a delinearsi una grande crisi economica e molti elettori chiedono che vengano affrontate le disuguaglianze sociali cosa che le precedenti amministrazioni - sia democratiche che repubblicane - non hanno fatto. Credo sia possibile che Obama diventi un presidente capace di cambiare più cose all´interno che in politica estera».
Si è votato anche in Italia, paese che lei conosce bene. Cosa pensa dei risultati?
«Come storico mi è impossibile non guardare senza una certa nostalgia alla prima repubblica, nata della Resistenza: un sistema politico ricco e sofisticato, con grandi partiti sia della destra e della sinistra, alti livelli di partecipazione, anni di inventività e successo economico, una cultura straordinariamente dinamica; basta pensare al cinema italiano di quel periodo. La svolta negativa avviene a metà degli anni Settanta con il compromesso storico e le sue conseguenze: il terrorismo, il conformismo, la strana carriera di Bettino Craxi in grado di bloccare la vita politica con un piccolo partito, e poi a seguire la corruzione e la criminalità. Oggi, dopo 16 anni di Seconda Repubblica, possiamo veramente dire che le cose siano - politicamente, economicamente, giuridicamente, intellettualmente - migliori? Adesso c´è l´Italia che vuole diventare un "paese normale", slogan di D´Alema e altri, cioè simile agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna. Ma chi ha inventato il termine normalizzazione? Breznev con la Cecoslovacchia. Quella ovviamente era una normalità alla sovietica, ma perché l´Italia dovrebbe diventare un simulacro mediocre degli Stati Uniti? Invece di una vera ambizione si mostra un complesso di inferiorità. Una sindrome che si è ostentata anche nella campagna elettorale con gli shows che Berlusconi ha adottato da Reagan e gli slogan che Veltroni ha ereditato da Obama, con una mancanza di immaginazione desolante. Naturalmente questa Repubblica, dove l´identità collettiva si è ridotta più o meno al campo di calcio, non è tutta l´Italia. Speriamo che la sua vita sia breve».

Corriere della Sera 23.4.08
Via ai «cittadini vigilanti» Bologna e Firenze in campo
In Emilia e Toscana si «arruolano» giovani e pensionati
di Francesca Basso

Nella città di Cofferati i volontari dovranno superare un concorso Per i vigili urbani arrivano i «bastoni distanziatori»
MILANO — Rotto il tabù della sicurezza, tema sdoganato ormai anche a sinistra, specie in campagna elettorale, ora tocca alle «scandalose» ronde padane, nuova frontiera bipartisan dei Comuni (rossi compresi) alle prese con il problema del degrado. Anche in questo caso a fare da apripista — come in altre battaglie scomode (due esempi: sgomberi e accattonaggio) — sono Bologna e Firenze. Certo, il nome è cambiato e non c'è la divisa, ma se ne parla. E si comincia pure a discutere di dotare i vigili urbani di spray urticante al peperoncino e bastoni distanziatori (definizione di sinistra) o manganelli (definizione di destra).
A Bologna preferiscono chiamarli «assistenti civici»: «Una ventina di studenti avrà il compito di vigilare sulla zona universitaria — spiega l'assessore alla Sicurezza Libero Mancuso —. Per diventare assistenti civici dovranno vincere un concorso. Saranno poi educati a garantire la loro sicurezza personale e dotati di telefonino per le emergenze». Guai, però, a ricordare le "sorelle" padane. «Non sono delle ronde e non vanno definite come tali — puntualizza Mancuso —. Non hanno un orientamento repressivo, dovranno con il dialogo coinvolgere e sensibilizzare gli altri giovani al rispetto della città». Intanto a Bologna, da meno di un mese sono in azione squadre di pensionati che controllano il Villaggio Ina, nel quartiere Borgo Panigale. Anche in questo caso il Gruppo Primavera preferisce definirsi «cittadinanza attiva». Il nome ronda lo usano ancora quelli della Lega, che vogliono arruolare volontari «per partecipare all'attività di controllo della città». Comunque, qualcosa sta cambiando a Bologna. Proprio ieri il Partito democratico ha annunciato l'ordine del giorno per la modifica del regolamento comunale per dotare i vigili di spray e bastoni distanziatori, «non manganelli » come tiene a sottolineare il capogruppo del Pd in Comune Claudio Merighi: «Il primo fa pensare alla difesa personale — argomenta —, la parola manganello al bastone fascista. Oggi abbiamo incontrato il comandante dei Vigili di Modena, dove sono già in uso, e ci ha raccontato la sua esperienza. «È ora di togliere dall'oggetto la velleità ideologica: spray e bastone sono strumenti che aiutano i vigili a difendersi ». È probabile che i consiglieri di An e FI voteranno a favore. Del resto anche ieri il leader di An Gianfranco Fini, pur prendendo le distanze dalle ronde di Maroni, ha dato la sua benedizione «ai cittadini che si organizzano per difendere il proprio quartiere, a patto che non sostituiscano le forze dell'ordine».
Un po' quello che accade a Firenze dal 2002, cioè da tempi non sospetti: i vigili urbani con il Comune hanno lanciato il progetto di «Marketing della sicurezza », che coinvolge circa seicento cittadini, selezionati, impegnati a segnalare alla polizia locale situazioni di degrado nei quartieri e a seguire progetti di rilancio, come spiega oggi il Corriere fiorentino.
«La politica delle ronde non mi convince — risponde al telefono l'assessore alla Sicurezza, Graziano Cioni —. La percezione di insicurezza dipende spesso da elementi di degrado, come scritte sui muri, lampade rotte, atti vandalici. La polizia municipale ha nei quartieri dei "partner": possono essere il barista, il parroco, il barbiere o il pensionato, che fanno rapporto e segnalano quello che non va». L'informatore dei telefilm americani? «Non sono un gruppo di spie sul territorio — mette le mani avanti Cioni —. Si tratta di una collaborazione civile». La conferma arriva da Patrizia Verrusio, vicecomandante vicario della Polizia locale di Firenze: «Dei 21 progetti avviati, come il rifacimento di piazze o il recupero di alcune aree, il 90% è stato portato a termine. La logica di invertire il meccanismo, sentendo i cittadini prima di agire ha funzionato».

Corriere della Sera 23.4.08
Scienza e morale, l'utopia del dialogo
Boncinelli: «La ricerca punta ai risultati, non ai valori». Severino:«Ma impone la sua verità»

dialogo tra EDOARDO BONCINELLI ed EMANUELE SEVERINO
Boncinelli: Credo che da nessun punto di vista possa sussistere un contrasto tra scienza ed etica, perché si tratta di discipline che si occupano di problemi diversi. Ciò che di norma viene definito come contrasto tra scienza ed etica è in realtà il contrasto tra etiche diverse, ovvero tra portatori di etiche diverse, dove la scienza non è che il fornitore degli argomenti. Cinquant'anni fa non si poteva discutere di alcune cose per il semplice motivo che non erano possibili; prendiamo l'esempio della fecondazione assistita. La scienza ha messo sul tavolo opportunità che prima non esistevano e che hanno fatto discutere; ma a discuterne non sono gli scienziati con gli eticisti: a discuterne sono i portatori di un'etica con i portatori di un'altra etica. O, per meglio dire, i portatori di un'etica con i portatori di molte altre etiche, perché ci troviamo di fronte, da una parte, a una sorta di monolite che è l'etica cattolica, e dall'altra a tutto un ventaglio di posizioni abbastanza diverse, giacché la cosiddetta etica laica in realtà è unificata solo da una maggiore tolleranza per il progresso, una maggiore attenzione agli interessi dell'individuo e da un richiamo ridotto al magistero della tradizione. Da parte laica, e non solo in Italia, ma in tutto il mondo, c'è una vastissima gamma di posizioni, tanto che la contrapposizione fatta da Giovanni Fornero nel suo bellissimo libro, Bioetica cattolica e bioetica laica, pubblicato da Bruno Mondadori, è utile ma leggermente forzata. La scienza in tutto questo non c'entra, se non, lo ripeto, come fornitrice di occasioni.
Severino: Certo, si tende ad avere questa immagine della scienza come semplice fornitrice di occasioni, o come semplice strumento in vista della realizzazione di scopi che non appartengono allo strumento ma, al contrario, vedo una profonda solidarietà tra etica e scienza. Bisogna cominciare a chiedersi il significato di queste parole. Etica è una parola greca. Non che prima dei Greci non vi fossero problemi di carattere morale, sebbene, col pensiero greco, l'etica acquista una connotazione che potremmo dire inaudita. Allora, che cos'è l'etica prima e dopo questa connotazione inaudita? I popoli vivono, e credono di poter vivere meglio se si alleano con ciò che essi ritengono sia per loro la potenza suprema, e questo è abbastanza naturale, poiché per vivere mi appoggio a ciò che ritengo stabile, capace di reggere. Allora, questo agganciarsi a ciò che si ritiene la potenza suprema è il vivere in un ambiente rassicurante. La parola etica indica appunto il luogo in cui si vive, la consuetudine. Etica vuol dire: vivere in un luogo rassicurante perché ci si trova in accordo e non in contrapposizione con la potenza. Se vivo in un luogo e so che è minacciato, e so di non avere strumenti per difendermi, vado altrove. Invece ethos in greco indica la consuetudine, che è insieme l'ambiente in cui ci si può difendere.
Ma difendersi da che cosa? Dal dolore, dalla morte, dall'angoscia, dalla sofferenza, dai pericoli. Ora, con il pensiero greco, questo atteggiamento assume una radicalità che qualificavo come inaudita: la potenza con la quale ci si allea per sopravvivere e per difendersi dal pericolo è cio che il pensiero greco chiama «verità ». Se ci si allea con una finta potenza, allora l'alleanza è insicura; è quindi inevitabile che emerga l'esigenza di allearsi con ciò che è la vera potenza, che l'ethos sia l'alleanza con la vera potenza. Ma per fare questo bisogna che cominci a esserci l'idea o il significato della parola verità. È solo perché il pensiero greco porta alla luce il significato radicale della verità, che ci può essere un'alleanza con la potenza vera.
Ora, tutto quello che abbiamo detto dell'etica dobbiamo dirlo anche per la scienza, che non è affatto quella semplice occasione di opportunità, quella neutralità rispetto agli scopi di cui tu parli. No, anche la scienza merita che si dica di essa ciò che già aveva detto Nietzsche: la scienza nasce dalla paura, così come l'etica, perché difendersi alleandosi alla potenza vuole dire cercare di andare oltre la paura.
Cio che noi oggi diciamo «scienza » è lo sviluppo di tutte le tecniche messe in atto dagli uomini per non avere paura e per riuscire a sopravvivere. Qual è l'etica della scienza? La scienza ha ed è di per sé un'etica. E perché? Perché ha quell'insieme di procedure che, soprattutto oggi, dà agli uomini la fede, la convinzione che essa sia lo strumento che più efficacemente di altri consente di allontanare la paura. Allora etica significa difendersi dalla paura alleandosi alla potenza, che oggi viene dalla scienza identificata con la potenza soprattutto tecnologica; in questo senso non c'è scissione tra etica e scienza.
Nella tradizione, la vera potenza è quella verità il cui contenuto è soprattutto il Dio, quindi la potenza di una conoscenza indiscutibile che dice in modo indiscutibile:
il vero potente è Dio. Oggi non si dice piu così, anche se si dice una cosa simile; è cambiato il protagonista, è cambiata la qualifica del potente. Oggi il vero potente è la tecnica. La tecnica è l'erede della funzione di rassicurazione che nella tradizione veniva compiuta da Dio.
***
Boncinelli: Oggi si parla tanto di dialogare. Ma un vero dialogo, non formale e con pieno intendimento delle ragioni dell'uno da parte dell'altro, è raro e difficile. Forse appartiene alle tante favole della modernità. Si parla in particolare di dialogo fra scienza e filosofia. Non so se la scienza possa dialogare con la filosofia, ma certo io non posso dialogare con i filosofi, anche i più vicini a me per formazione e convinzione, almeno con quelli che conosco, salvo pochissime eccezioni.
La spiegazione che mi sono dato invoca la diversa natura della vocazione di chi si dedica alla scienza e di chi si dedica alla filosofia. Lo scienziato vuole raggiungere qualche conclusione, anche se provvisoria e incompleta, su temi che possono essere considerati di nessuna rilevanza (a parte il fatto che la scienza, e non le elucubrazioni teoriche, ha cambiato il mondo, anche se questo non piace a tutti). Al contrario, il filosofo vuole mettere tutto in discussione, vuole trovare il pelo nell'uovo — che c'è sempre, perché la conoscenza perfetta non è di questo mondo — e in definitiva non lasciare più niente in piedi. D'altra parte, non c'è concetto che, discusso a lungo, non perda ogni significato. Volendo, si può completare il quadro con un altro elemento di distinzione. Lo scienziato sperimentale sa fin dall'inizio che da solo non potrà mai fare niente. Al massimo potrà aspirare a dare un contributo che, unito a quello di tanti altri, porterà a qualche risultato, teorico o pratico. Di conseguenza, costui può anche essere un mediocre, anche se nessuno ammetterà mai di buon cuore di esserlo. Il filosofo, invece, o si limita a fare lo storico della filosofia, o pensa di dare un suo contributo. Ogni filosofo aspira a essere un grande filosofo. Aggiungerei infine che, a differenza di quella del filosofo, la visione dello scienziato sui fenomeni da studiare è intrinsecamente e irrimediabilmente locale. Quando aspira alla globalità, in genere in tarda età, fa quasi sempre della cattiva filosofia, anche se si chiama Albert Einstein. È chiaro che il modo di porsi davanti a tutte le questioni, risulta molto diverso nei due casi.
Severino: Da sempre, ma soprattutto nell'età moderna, ciò che si dice «scienza» è specializzazione, che separa un certo campo di oggetti, o di cose, da tutti gli altri e lo analizza in base a precisi criteri e metodi. Per lo più, l'analisi del significato della specializzazione — cioè del separare e dell'isolare — non rientra nello stesso campo. Non vi rientra quindi nemmeno l'analisi del senso della totalità, dalla quale la specializzazione isola il proprio campo. Queste analisi appartengono, da sempre, alla filosofia. Quando uno scienziato considera i rapporti tra il proprio campo e la filosofia, non parla dunque in nome della propria disciplina. Si porta sul piano della filosofia, con maggiore o minore coscienza; vi si porta inevitabilmente — e, d'altra parte, anche quando si chiude nel proprio terreno, si appoggia pur sempre a qualcosa che gli è esterno, cioè al senso che il pensiero filosofico ha attribuito alla «cosa», all'oggetto.
Anche gli individui seguono (e tradiscono) certe specifiche regole di comportamento. In questo senso delimitano a loro volta un dominio particolare di cose, sono essi stessi, gli individui, specializzazioni. Si muovono però sempre, volenti o nolenti, all'interno delle grandi regole etiche seguite (e tradite) dai popoli a cui appartengono. Anche quando danno risalto alle proprie regole di comportamento, in qualche modo percepiscono la scacchiera greca su cui giocano la vita e su cui ormai tutte le vite si avviano a essere giocate.
Ma se oggi nemmeno a uno scienziato è consentito dominare l'intera ricchezza della propria disciplina, come può pretendere la filosofia di comprendere addirittura il fenomeno scienza nel suo insieme? O di comprendere la «storia dell'Occidente»? La filosofia del nostro tempo tende a rispondere che questo è impossibile. E, infatti, se le cose vengono dal nulla e vi ritornano, sono essenzialmente estranee le une alle altre, cioè non può esistere né essere conosciuto alcun principio che le unifichi. Il senso greco della «cosa» sta al fondamento di ogni separare, isolare, specializzarsi dell'Occidente. Oggi quel senso si esprime nell'affermazione che il mondo intero è un insieme di frammenti e che la conoscenza autentica è specializzazione. Senonché, anche questa affermazione getta uno sguardo sul mondo; e non su una parte di esso, ma sul mondo intero e pertanto è anch'essa uno sguardo unificante: scorge l'essenza unificante del mondo e vede che questa essenza è la frammentarietà stessa del mondo, la stessa divisione delle cose. Ciò significa che, in qualche modo, la manifestazione del senso unitario del mondo è inevitabile; e che tale manifestazione continua a essere il compito della filosofia.

Corriere della Sera 23.4.08
Controversie Un antropologo contro tre mostri sacri: in Asia e Cina non regnò soltanto l'immobilismo
La storia rubata dagli europei
Jack Goody accusa: Needham, Elias e Braudel malati di etnocentrismo
di Dino Messina

Abbiamo rubato la storia. Ma il furto, il più colossale che si possa commettere, non è stato mai scoperto, anche perché a cancellare le tracce hanno contribuito i più grandi pensatori dell'Occidente. È questa la tesi che espone l'antropologo inglese Jack Goody, nel saggio appena uscito da Feltrinelli, che si intitola appunto Il furto della storia (pagine 416, e 38), in cui il professore emerito dell'Università di Cambridge cerca di smontare la presunzione etnocentrica degli europei. Perché è l'eurocentrismo, secondo Goody, la malattia cronica della nostra cultura. Un morbo che, in virtù del grado di sviluppo acquisito dal vecchio continente a partire dal Rinascimento, ci fa ridimensionare il passato delle altre civiltà, in primis quelle asiatiche. Un errore prospettico che ci porta a considerare la nostra civiltà come superiore e ci fa sottovalutare il pericolo di declino e la concreta possibilità che l'egemonia culturale ed economica del mondo possa avere un altro baricentro.
All'origine del pregiudizio moderno, troviamo una serie di grandi personalità: Johann Winckelmann, che esaltò «la tradizione artistica della Grecia come l'unica capace di esprimere il vero ideale della bellezza»; il linguista Karl Wilhelm von Humboldt, «che giudicò la lingua dei cinesi inferiore»; Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il quale pensava «che la Cina rappresentasse il livello evolutivo più basso del mondo».
Ma la parte più stimolante del saggio è quella in cui Goody sottopone a dura critica le tesi di tre grandi storici: tre maestri del Novecento che rappresentano l'apice della cultura e del politicamente corretto. Invece, secondo l'impertinente decano dell'antropologia britannica (Goody è del 1919), anche personalità come Joseph Needham, Norbert Elias e Fernand Braudel hanno partecipato al «furto della storia» ai danni di altre civiltà in nome dell'eurocentrismo. L'unico peccato è che i tre grandi non possano rispondere, perché sono scomparsi.
Joseph Needham (1900-1995), il biologo inglese che più di ogni altro ha contribuito alla conoscenza della cultura cinese con la sua opera enciclopedica,
Scienza e civiltà in Cina, ricade tuttavia secondo Goody «nei luoghi comuni storiografici sull'unicità del Rinascimento e sulla nascita della borghesia, della modernizzazione, del capitalismo e della scienza, appunto, "moderna"». Needham è lo studioso che ci ha fatto capire, scrive Goody, quanto la Cina sia arrivata prima dell'Europa a molte scoperte tecnico-scientifiche, tuttavia condivide il pregiudizio dell'euromarxismo «sull'assenza di una borghesia in Cina» e vede «il capitalismo come un fenomeno specificamente europeo». Per Goody invece «la borghesia era un fenomeno internazionale » e la straordinarietà del Rinascimento europeo, reso possibile anche e soprattutto grazie agli scambi internazionali, non ci deve far sottovalutare le altre civiltà e la possibilità di assistere a «rinascenze» future che potrebbero sorprenderci.
Più diretto e sorprendente è l'attacco a Norbert Elias (1897-1990), il raffinato autore del Processo di civilizzazione e della Civiltà delle buone maniere. Al centro della discussione, anche in questo caso, il periodo del Rinascimento e dell'assolutismo, in cui, secondo il sociologo tedesco, accanto allo Stato sovrano, alla borghesia e all'economia di mercato si sono affermati i valori della bellezza, ma anche dell'igiene e dell'ordine. Per Goody, uno dei limiti dell'analisi di Elias sta nel non prendere in considerazione la storia di nessun'altra parte del mondo. Perché così avrebbe scoperto che alcune conquiste delle buone maniere si affermarono anche in altre parti del mondo: l'uso dei bastoncini a tavola, la cerimonia del tè, ma anche l'uso della carta per fini igienici, quando nel romanzo di Rabelais Gargantua raccontava di essersi pulito «con la salvia, il finocchio, l'aneto, la maggiorana, le rose, le foglie di zucca». Per non dire che fra il XV e il XVII secolo l'Occidente ha conosciuto anche per motivi religiosi una diminuzione dei bagni di pulizia, considerati peccaminosi. Invece, per fare un esempio, nella città persiana Isfahan alla fine del XVI secolo si contavano 273 bagni pubblici. Il furto della storia non riguarda tuttavia soltanto le società asiatiche, ma anche quelle africane, quando Elias parla di «senso di colpa» per la società borghese occidentale e di semplice «sentimento di vergogna» per le società primitive del Ghana, allo scopo di sottolineare il diverso grado di sviluppo che avrebbe ripercussioni anche sulla psiche degli individui.
Il compito più arduo Goody se lo assume nella contestazione di Fernard Braudel (1902-1985), il gigante della storiografia francese, fondatore delle Annales, che nei tre volumi del suo lavoro più importante, Civiltà materiale, economia e capitalismo, commette secondo il suo critico l'errore di annettere all'Europa il capitalismo. Intendiamoci, Goody esprime tutta la sua ammirazione per il genio di Braudel, ma non si può non notare che le sue fonti siano «inevitabilmente soprattutto europee » e portatrici di un pregiudizio eurocentrico. L'Europa viene considerata dal francese al centro di tutte le innovazioni anche quando scopriva bevande eccitanti che in realtà provenivano da altri mondi: il caffé arabo, il tè cinese, il cioccolato messicano. Un pregiudizio simile a quello di Elias si riscontra quando Braudel parla delle abitudini quotidiane, considerando per esempio il monotono abbigliamento cinese un sintomo dell'immutabilità sociale. Ancor più grave, secondo Goody, l'errore di Braudel quando questi attribuisce il capitalismo finanziario alla sola Europa, trascurando alcuni periodi della storia asiatica.
La visione antropologica è parte essenziale della critica storica di Jack Goody, che nella migliore tradizione britannica ha un grande gusto per la controversia intellettuale.

Corriere della Sera 23.4.08
Polemiche Il padre del pensiero debole difende il collega accusato di plagio: anche San Tommaso riprende Aristotele
Vattimo: «Che torto ha Galimberti? Filosofare è copiare»
di Pierluigi Panza

F ilosofare è un po' copiare: Averroé e San Tommaso copiavano da Aristotele; Plotino da Platone e così via. «Che male c'è?», che novità è se Umberto Galimberti ha preso frasi da altri studiosi, come Giulia Sissa? O da Salvatore Natoli (come denunciato ieri dall'Avvenire), e li ha inseriti in un suo testo? Già Harold Bloom, in un libro intitolato La Cabbala e la tradizione critica
aveva sostenuto che ogni pensiero è il travisamento di un precedente; ora lo sostiene Gianni Vattimo come estrema forma di difesa del collega filosofo Umberto Galimberti. «Capisco se fossimo scienziati in corsa per il Nobel e ci rubassimo i brevetti per curare il cancro… ma i nostri sono solo pensieri». Robetta, insomma.
Eppure i passi pubblicati da Natoli su Il sapere antropologico nell'86 e finiti in Gli equivoci dell'anima di Galimberti nell'87 sembrano copiati... «Molti dei passi citati su Avvenire ieri mi sembrano poco probanti. Solo la prima comparazione è un po' scandalosa», afferma Vattimo. Leggiamola: «Rivolgendosi alla propria interiorità, l'anima guadagna profondità. Ma la profondità è l'insieme l'estremamente distante dal sensibile » (Natoli). «Rivolgendosi alla propria interiorità, l'anima guadagna in profondità che è insieme l'estremamente distante dal sensibile» (Galimberti). Insomma, sembra copiato. «Ma bisogna vedere se il progetto del libro di Galimberti è identico a quello di Natoli. Io spero di non aver mai fatto così. Ma non mi stupirei». Cioè, nella sua opera omnia che sta pubblicando in 40 volumi c'è qualcosa di copiato? «Non so. Sono commenti a Nietzsche e Heidegger, ma sono miei e non condivisibili. Guardi che colleghi di Filosofia, presidenti di commissioni, hanno passato la vita a copiare se stessi». Beh, lo diceva anche Sartre che i professori «ripetono tutta la vita la propria tesi di laurea». «Si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione di Galimberti è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle».
Ma la citazione delle fonti? «Il sapere umanistico è retorico. Non dico che sia aria fritta, ma è tutto argomentativo. Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nei saperi umanistici, dal diritto e alla teologia, è tutto un un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da se stesso». Almeno i primi leggono… L'ermeneutica ha accentuato questi atteggiamenti? «Nelle scienze empiriche uno parte da Lavoisier e va avanti per accumulo. Le scienze dello spirito sono volatili. Odifreddi ci accusava di dire sciocchezze, ma poi confessò che i matematici le dicevano meglio».
Forse anche il «pensiero debole» ha spinto verso questa filosofia? «No il "pensiero debole" non si prende nemmeno la briga di copiare. Nel romanzo è più facile notare il plagio. Ma nel caso della riflessione filosofica non ha senso». Infatti la Mazzucco venne beccata copiare da Tolstoj; in filosofia il plagio è derubricato. Conclusione di Vattimo: «Magari la mia difesa è anche politica, ma non è così scandaloso. Tesi di laurea simili non mi farebbero né caldo né freddo ».






il Riformista 23.4.08
SANS-PAPIERS. TRA GLI ORFANI DEL BERTINOTTISMO C'È ANCHE L'UOMO DELLA NOTTE RAI
La Porta se la prende con la sinistra ingrata e dialoga con la Lega
di Tommaso Labate

Gabriele La Porta. L'uomo della notte Rai e la notte della sinistra. La sua amicizia con Fausto Bertinotti. «È vero, io sono un grande amico di Fausto. Sa che le dico? Che senza di lui, la Sinistra avrebbe preso l'1 per cento. Naturalmente, è un'opinione personale», dice La Porta al Riformista . Fausto, adesso, se n'è andato. S'è ritirato. «Secondo me, purtroppo, la sua è una decisione definitiva. Senza di lui la Sinistra sarà senz'altro più povera e molto meno colta». Dentro Rifondazione volano gli stracci. La linea di Bertinotti è stata sconfessata dal comitato politico nazionale. La maggioranza, per adesso, ce l'hanno Paolo Ferrero e i suoi. «E secondo me è una maggioranza di carta. Si vedrà al congresso... E comunque Vendola è uno che ha i numeri per sostituire Fausto. Lo sa com'è Nichi, no? Emozionato ed emozionante».
Intanto, però, Bertinotti non viene considerato più il padre nobile. Di più, il presidente della Camera è sul banco degli imputati. «In questo momento - sottolinea La Porta - vedo in giro molta ingratitudine. Quanti ingrati... Le ripeto: se non c'era Fausto questi stavano sotto l'1 per cento». Il rischio di una guerra civile a Sinistra è uno spettro ancor peggiore della sconfitta, forse. «Condivido pienamente», replica La Porta.
Le ragioni della batosta elettorale? L'uomo della notte Rai mette in fila, «il governo Prodi che non ha migliorato le condizioni delle fasce medio-basse della popolazione, il rigore eccessivo, magari anche l'inchiesta su Pecoraro Scanio». Già, Pecoraro Scanio. «Per carità - spiega - io sono un garantista e ho grande fiducia nella giustizia. È anche possibile che queste inchieste si concludano con un nulla di fatto, com'è capitato anche a Mastella. Di certo, qualche voto ce l'hanno fatto perdere». Poi c'è la sicurezza. «A Sinistra, nessuno ci ha capito niente. Me compreso», dice La Porta. «I cittadini a rischio sono i più poveri, non i ricchi. Quelli che vivono in periferia, non in centro».
E intanto la Lega è passata all'incasso. Voto operaio, voto popolare. Il Carroccio, poi, è un antico pallino di La Porta, che ebbe una fase "leghista". «Ho lavorato a Milano e Torino. Ho imparato a conoscerli bene, loro». Loro sono quelli in camicia verde. «Quando li vedi da vicino, capisci che sono molto diversi da come sembrano». Forse la Tv deforma. A sentire l'uomo della notte Rai, «è il linguaggio televisivo che cambia la realtà. In politica, molti pensano che basta stare in televisione. E invece, oltre a frequentare gli studi televisivi, bisogna andare tra la gente. L'esempio del Carroccio è perfetto: stanno poco in tv e prendono un sacco di voti». Al contrario di Bertinotti, direbbero i maligni. «Non è vero. Fausto è uno dei pochi che a Sinistra sa stare ancora tra la gente. Certo, va spesso anche in Tv. Ma non ha mai trascurato il popolo».
I sans-papiers della Sinistra si dividono. «Io non mi sento un sans-papier», ribatte La Porta. Nel fuggi fuggi generale, c'è chi guarda al Pd come a un miraggio. «Il Pd è senz'altro un partito progressista. E per me non è un nemico», risponde l'uomo della notte Rai. Che vorrebbe una sinistra dialogante con la Lega. «Io non sono un politico né voglio farlo. A mio avviso, però, bisognerebbe dialogare con tutti. Se vogliamo il bene delle fasce deboli della popolazione, la Lega è senz'altro un ottimo interlocutore». Costola della sinistra? «Lo è già stata - insiste La Porta -. Se lo ricorda il '95?». Berlusconi torna a palazzo Chigi. E quelli di viale Mazzini col cuore a sinistra che fanno? Tremano? Così La Porta: «Io faccio il direttore da quattordici anni. I governi sono cambiati e io sono sempre rimasto al mio posto. E giuro che nessuno mi ha mai detto quello che dovevo o non dovevo fare».
Gabriele La Porta. L'uomo della notte Rai e la notte della sinistra. «Io seguo il popolo della notte e sono uno storico della filosofia. In alchimia la notte è un elemento importantissimo. La nigredo che porta all'albedo. La notte porta all'alba. Non c'è alba se non c'è notte. Tutte le trasformazioni più importanti arrivano durante la notte. La Notte, per la Sinistra, può essere una grande occasione». Applausi. Cala il sipario.