venerdì 25 aprile 2008

il Riformista 24.4.08
Psichiatria parla Massimo Fagioli: «Siamo andati oltre il logos occidentale»
«Il mio Fausto è un "fagiolino", per questo l'hanno crocefisso»


Pane, amore, psiche e tanto Bertinotti. In due parole, Massimo Fagioli. «Mi dicono che Fausto adesso è un po' triste. È anche normale, vista la sconfitta elettorale...», dice al Riformista lo psichiatra o, come dicono in tanti, «il guru». Più che sconfitta, quella del presidente della Camera è stata una disfatta. «Nulla di più falso. Fausto è straordinario, coraggioso, geniale, nuovo. Ha tradotto in politica quello che io avevo teorizzato». Prego? «Stiamo parlando della teoria nuova sulla realtà umana. Il problema è farla capire bene, questa storia che Bertinotti ha avuto il merito di donare alla Sinistra». Quella "Arcobaleno" vale il 3,084 per cento. Un milione e 144mila voti, alla Camera. Un disastro. «Guardi che non è vero», replica Fagioli. «Sta emergendo adesso un'altra visione. Senza l'apporto rivoluzionario che Fausto ha portato alla Sinistra con le nostre teorie, altro che tre per cento: l'Arcobaleno avrebbe preso lo 0,1». Senza Fausto, sotto l'1. Come ha sostenuto anche Gabriele La Porta. «Bravo, ha ragione questo La Porta. Tra l'altro ha un nome che mi pare di aver già sentito ». Infatti è il deus ex machina della Notte Rai. «Ah, ecco chi era... comunque ha ragione lui».
Un passo indietro alla Sinistra trasformata grazie a Bertinotti e alla teoria nuova sulla realtà umana. «Siamo andati oltre il logos occidentale», dice Fagioli. «Siamo andati ben oltre l'illuminismo», insiste Fagioli. Platone? «Superato». Freud? «Lasci perdere Freud. Un signore sopravvalutato». La svolta fagiolina di Bertinotti, in sintesi, «è arrivata col congresso di Rifondazione a Venezia, quando Fausto ha professato la Sinistra della nonviolenza. Lui ha avuto il merito di dire che senza quella svolta la sinistra sarebbe finita. Fi-ni-ta. E aveva ragione».
Prima e dopo, il fu leader del Prc ha partecipato alle grandi adunate di Fagioli e dei suoi tanti "fagiolini". «È proprio per aver sposato la nostra causa che oggi Fausto si ritrova crocifisso», sostiene lo psichiatra. Fuori i nomi. «Marco D'Eramo ha scritto sul manifesto che "se il Pd ha la sua Binetti, la Sinistra arcobaleno si ritrova per ideologo un guru come Massimo Fagioli"». Nemico numero due: «Vauro - replica prontamente il Maestro -. Ha fatto una vignetta scrivendo "Fausto, t'avevo detto spinaci, non fagiolini"». Altro gettone, altro detrattore. «Francesco Merlo, per le cose che ha scritto su la Repubblica ». Il perché di cotanto accanimento è presto detto. «La nostra teoria - insiste Fagioli - vuole andare oltre l'Illuminismo. L'80 per cento della filosofia italiana, invece, è contro di noi. Anche Umberto Galimberti. E pure Eugenio Scalfari». Ma per uno Scalfari recalcitrante, «ci sono - aggiunge il Maestro - Giacomo Marramao e Giulio Giorello che invece prestano ascolto».
Rimane inevasa una domanda. Perché la Sinistra ha perso? «Mistero. Questa disfatta è davvero un mistero», risponde Fagioli. Al danno, poi, s'è aggiunta la beffa di una Rifondazione che ha messo in minoranza il Bertinotti-pensiero. «Non mi pare che sia così», replica lo psicoterapeuta. «Guardi che quelli che stanno con Fausto hanno preso settanta voti al comitato politico nazionale del Prc. Ferrero ne ha presi di meno, solo che poi s'è alleato con Grassi. Ma questo sodalizio tra anti-bertinottiani non durerà anche perché Grassi ha poi spiegato che Ferrero non gli è simpatico. Ci saranno sorprese». Anche se Bertinotti sarà assente? «Chi l'ha detto questo? Stiamo preparando per Fausto un grande rientro. Prima con un'iniziativa alla fiera del libro di Torino, in programma il 10 maggio. Poi c'è sempre il congresso, a luglio».
Nella Sinistra ci sono sans papiers che guardano al Pd. «Veltroni ha buone qualità di amministratore. La grande politica è un'altra cosa», risponde Fagioli. C'è sempre la Lega. «I leghisti sono un problema, vogliono tornare a duecento anni fa. Discriminano le donne, gli stranieri. La verità è che tutti gli esseri umani sono uguali». Diliberto, falce e martello. «Ma non scherziamo», ribatte. A sentire lui, c'è Fausto, Fausto e solo Fausto. «Gli impediremo di ritirarsi perché la Sinistra ha ancora bisogno di lui. Poi, lo consegneremo alla Storia per quello che è stato, è e sarà: un uomo straordinario, coraggioso, geniale, nuovo».


l'Unità 25 aprile 2008
Festa di libertà
di Furio Colombo


Un fatto nuovo e unico sta verificandosi nel nostro Paese: il tentativo, apertamente sostenuto dai leader della nuova maggioranza che sarà il nuovo governo, di cancellare la Festa della Liberazione che si celebra (si celebrava, temo che dovremo dire fra poco) il 25 Aprile.
Si tratta della più importante festa della Repubblica italiana, la sola che veramente riguarda tutti gli italiani.La ragione è semplice. Un giorno del 1945 è finito per sempre il regime detto nazi-fascismo, ovvero il legame fra fascismo italiano e nazismo tedesco che per cinque anni aveva terrorizzato tutta l’Europa, distrutto la maggior parte delle città, deportato e decimato a decine di milioni le popolazioni europee. Aveva, attraverso la stretta subordinazione del fascismo italiano al nazismo tedesco, realizzato il più grande genocidio della Storia: il tentato sterminio del Popolo ebreo, raggiunto, catturato e rinchiuso in apposite istituzioni di morte fino a raggiungere i 6 milioni di donne, bambini e uomini uccisi a uno a uno durante anni di metodica organizzazione.
Il 25 Aprile è diventato la Festa degli italiani perché quel giorno tutti gli italiani, compresi coloro che avevano preso parte al fascismo, sono tornati liberi, normali, uguali, non più divisi fra persecutori e vittime. Se il 25 Aprile non ci fosse stato, una parte degli italiani avrebbe dovuto continuare a combattere in clandestinità, fino ad essere eliminata, spesso con la tortura o il trasferimento nei campi di sterminio. E un’ altra parte di italiani avrebbe continuato a servire i tedeschi con la missione di catturare, torturare e uccidere dentro una meticolosa organizzazione di morte.
(...)

l'Unità 25 aprile 2008
Noi ebrei contro Alemanno
L’appello


Quello che segue è l’appello firmato da esponenti della Comunità ebraica ed altri in difesa dell’antifascismo in occasione del ballottaggio per l’elezione del Sindaco a Roma

Non si difende così la democrazia, non si costruiscono così le premesse perché i nostri figli, e noi stessi, si possa vivere in una realtà dalla quale sia per sempre bandito l’antisemitismo. Non c’è pensiero di pace che possa posarsi sulle barricate di chi non fa mistero delle proprie nostalgie fasciste, di chi fa di questo rimpianto come pure della tolleranza verso questa atroce cultura un motore politico.
Non ci ha convinto la sceneggiata di Gianni Alemanno che, mentre ribadiva che avrebbe corso da solo al ballottaggio per la poltrona di sindaco di Roma, ha espresso solidarietà a Francesco Storace, rinviando a dopo le elezioni la ricomposizione della destra.
Quel che sappiamo è che Alemanno avrà dalla sua anche i voti di Storace, anche quelli dei naziskin e di tutte le organizzazioni della peggiore destra ben presenti a Roma.
Fermiamo questo gioco al massacro prima che sia troppo tardi: non si difende la democrazia premiando l’antisemitismo e gli eredi morali del fascismo-nazismo.
Dora Anticoli
Antonia Baraldi Sani
Andrea Billau
Fiammetta Bises
Ariela Böhm
Guido Botto
David Calef
Giovanni Cipani
Monica Coen
Lee Colbert
Furio Colombo
Fabrizio Crespi
Alessandro Cresti
Giuseppe Damascelli
Lello Dell'Ariccia
Miriam Dell'Ariccia
Paola Di Cori
Rosella Di Cori
Annalisa Di Nola
Liliana Di Ruscio
Marco Di Porto
Noemi Di Porto
Grazia Di Veroli
Virginia Di Veroli
Donato Di Veroli
Carla Di Veroli
Manuela Dviri Vitali
Luigi Faccini
Antonio Fantoni
Claudia Fellus
Claudia Finzi
Ida Finzi
Bice Foà
Ugo Foà
Boulus Fransis
Fabio Galluccio
Pupa Garribba
Giorgio Gomel
Donatella Greppi
Toni Jop
Iardena Kichelmacher
Anna Kohn
Gisella Kohn
Gad Lerner
Marina Levi Fiorentino
Andrea Levi
Erminia Licitri
Giacometta Limentani
Maurizio Maggiani
Elena Magoia
Mila Manasse
Cereti Maria
Settimio Misano
Enrico Modigliani Norsa
Ernesto Muggia
Ludovica Muntoni
Bruno Nacamulli
Bruno Orvieto
Moni Ovadia
Patrizia Paglia
Aldo Pavia
Roberto Piperno
Marina Piperno
Clotilde Pontecorvo
Micaela Procaccia
Gustavo Reichenbach
Anna Rossi-Doria
Massimo Sani
Delia Sdraffa
Clara Sereni
Erika Silvestri
Letizia Teglio
Piero Terracina
Sandra Terracina
Antonella Tiburzi
Vittoria Vigo
Micaela Vitale
Aldo Zargani
Luca Zevi

l'Unità 25 aprile 2008
Amos Luzzatto: «Voto Rutelli contro il negazionismo»
intervista di Umberto De Giovannangeli


«Non bisogna smarrire
la memoria di quei
valori antifascisti
che hanno dato vita
alla Costituzione»

«ROMA deve restare capitale del dialogo, rafforzare il suo carattere multiculturale e plurietnico, coniugando integrazione e sicurezza. E, al contempo, non deve smarrire memoria di sé e di quei valori antifascisti che ne fanno la capitale di una Repubblica nata
dalla lotta contro il nazifascismo. Una scelta di valori, prim’ancora che di programmi: per questo mi auguro vivamente che Roma continui ad essere governata dal centrosinistra». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane e oggi presidente della Fondazione Primo Levi di Torino.
Professor Luzzatto, Roma si appresta a eleggere il nuovo sindaco. Vista da un uomo del dialogo come lei, qual è la posta in gioco?
«C’è una duplice risposta alla sua domanda. La prima: credo che sia nell’interesse della democrazia e del bilanciamento dei poteri, che in una fase di contrapposizione come questa. la capitale sia amministrata da uno schieramento politico diverso da quello che ha la maggioranza nei due rami del Parlamento...».
Questa è la prima ragione. E l’altra?
«L’altra, non meno importante, è che siamo in un periodo estremamente combattuto e difficile; un periodo in cui si rimette in discussione da più parti quello che è stato un patrimonio di edificazione della Repubblica italiana nel dopoguerra. Questo patrimonio senza ombra di dubbio non può chiamarsi neutralità rispetto al fascismo, ma si chiama antifascismo. È scritto a chiare lettere nella stessa Costituzione, è nell’identità, nei valori, nell’agire di tutte quelle forze che pur nella loro diversità convergevano per dare all’Italia un nuovo ordinamento e una nuova prospettiva nel 1947-’48. Non c’è dubbio che Roma rappresenti la capitale d’Italia orientata in senso democratico e antifascista. In questa fase di revisionismo, di negazionismo, io credo che a Roma faccia bene essere amministrata ancora da quelle forze che l’hanno gestita in questi ultimi anni. Mi lasci aggiungere un’altra cosa che reputo davvero importante...».
Quale, professor Luzzatto?
«Penso che vi sia una stringente necessità, un’attenzione particolare al problema degli immigrati e degli stranieri...».
Un problema di strettissima, e per certi versi, drammatica attualità...
«Non c’è dubbio che per tante persone, a torto o a ragione, la presenza di molti stranieri ed extracomunitari crea dei problemi. Però dobbiamo anche pensare che questi problemi non sono nati nei loro cuori e nei loro geni ma sono in buona parte il risultato di un certo dominio e sfruttamento coloniale al quale noi europei abbiamo sottoposto quelle terre a volte per molte generazioni. Non possiamo chiamarci fuori dicendo che dopo averli dominati, non fatti crescere, se ne stiano a morire a casa loro e “non vengano a romperci le scatole a casa nostra” perché noi gliele abbiamo rotte a casa loro. L’impostazione di tutto il problema deve essere fatta in termini diversi...».
Quali?
«Noi abbiamo l’obbligo di assumerci le nostre responsabilità, di avere preoccupazioni di un certo tipo, di pensare a costruire servizi e modi di integrazione e non squadre o ronde d’espulsione. E credo che questo approccio costruttivo finirebbe per giovare alla stessa società italiana e alla sua economia. Un approccio profondamente diverse da quello propugnato dalla destra...».
A proposito della Destra, intesa come partito. Il suo leader Storace si è schierato nel ballottaggio a sostegno di Alemanno, e ha attaccato la comunità ebraica romana sostenendo che, cito testualmente, «dovrebbe chierderci scusa per la vergognosa campagna fatta contro di noi».
«La comunità ebraica ha raccomandato di non appoggiare chi, direttamente o indirettamente, si presenta con nostalgie per il regime fascista. Se il signor Storace si sente chiamato in causa, evidentemente avrà i suoi motivi. Di certo la comunità ebraica romana non lo ha insultato e dunque non ha davvero nulla di cui chiedere scusa».
Roma andrà al voto dopo il 25 aprile, la Festa della Liberazione: la piazza e le urne. Che significato assume questa ricorrenza oggi?
«Il significato di un impegno civile che non viene meno e che si esplicita anche nel voto; un voto contro una risorgente retorica imperial-romana, un voto per mantenere vivo il discrimine tra antifascismo e fascismo. E questa differenza deve vivere oggi a Roma. Non dimentichiamo che è nella capitale d’Italia che fu assassinato dai fascisti Giacomo Matteotti, e da qua prese le mosse quel tragico capitolo storico che si è concluso con la cancellazione delle libertà statutarie, e con la persecuzione dei cittadini italiani di religione ebraica avviata con la promulgazione delle leggi razziali nel ‘38. Il 25 aprile può e deve deve continuare a rappresentare ancor oggi un monito in questa direzione».

l'Unità 25 aprile 2008
I dirigenti dell’Arci si iscrivono all’Anpi


ROMA Tutti i membri del Consiglio nazionale dell’Arci si iscriveranno oggi all’Anpi (Associazione nazionale partigiani) nella ricorrenza del 25 aprile. Lo ha annunciato il presidente del’Arci, Paolo Beni, che - insieme ad una delegazione dell’associazione - ieri ha visitato la sede dell’Anpi per rendere omaggio ai dirigenti dell’Associazione dei partigiani alla vigilia del 25 aprile. Beni ha spiegato anche che tutte le manifestazioni indette dalla sua associazione per celebrare la Festa della Liberazione saranno dedicate al ricordo di Arrigo Boldrini, l’eroico comandante Bulow.

l'Unità 25 aprile 2008
G8, scontri a Napoli e Genova: assolti tutti i no-global
Accusati di associazione sovversiva. «Il fatto non sussiste»


TUTTI ASSOLTI La Corte d’assise di Cosenza ha impiegato poco più di un’ora e mezzo per fare a pezzi le accuse che hanno portato alla sbarra 13 militanti no global della Rete del Sud ribelle, accusati di associazione sovversiva in relazione agli incidenti ac-
caduti nel corso delle riunioni del G8 di Genova e del Global Forum di Napoli del 2001. Fra loro anche l’ex parlamentare di Rifondazione Comunista Francesco Caruso e il leader dei disobbedienti del nord est Luca Casarini. Quasi sei anni e mezzo dopo gli arresti, scattati il 15 novembre del 2002, gli imputati sono stati tutti assolti perché, secondo il dispositivo letto dalla presidente Maria Antonietta Onorati, «il fatto non sussiste». Una sconfessione totale dell’accusa sostenuta dal pm Domenico Fiordalisi, che alla lettura della sentenza ha lasciato l’aula da una uscita secondaria e scuro in volto. Perché le sue richieste di condanna, formulate tre mesi fa, erano state pesanti, per un totale 50 anni di reclusione e 26 di libertà vigilata. Le condanne più pesanti, sei anni di reclusione e tre di libertà vigilata, Fiordalisi le aveva chieste per Caruso, per Luca Casarini e per Francesco Cirillo.
Dentro e fuori il tribunale, alla lettura della sentenza, è immediatamente scattata la festa, con tanto di spumante e cori contro la Digos. «È la dimostrazione - ha commentato soddisfatto Caruso, il cui legale ha annunciato di voler chiedere un risarcimento per la lentezza del processo iniziato nel dicembre 2004 - che si è trattato di un teorema accusatorio costruito ad arte per aggredire e zittire i movimenti». «Molto contento» si è detto anche Casarini, raggiunto dalla notizia dell’assoluzione lontano da Cosenza. «Finalmente - ha commentato - è stata rovesciata la verità artefatta che su Genova qualcuno voleva costruire. Questo 25 aprile sarà ancora più bello».
Sono trascorsi sei anni da quando, il 15 novembre del 2002, furono arrestate venti persone della Rete meridionale del Sud Ribelle nell'ambito di una inchiesta della Procura di Cosenza sugli scontri avvenuti a Genova e Napoli. L'indagine durò un anno e mezzo e fu avviata dopo il ritrovamento di un volantino fatto pervenire il 27 aprile del 2001 alla Rsu di una azienda di Rende. Nel volantino si rivendicava l’attentato fatto 15 giorni prima a Roma contro la sede dell’Istituto per gli Affari Internazionali. Inizialmente nell’inchiesta furono indagate complessivamente 42 persone nei confronti delle quali gli investigatori effettuarono numerose intercettazioni telefoniche, pedinamenti, riprese filmate ed intercettazioni anche di migliaia di e-mail. La presunta associazione sovversiva, costituita nel maggio 2001 a Cosenza, avrebbe avuto lo scopo, secondo l’accusa, di “sovvertire violentemente” l’ordinamento economico dello Stato, caratterizzando l’organizzazione della “Rete meridionale del sud ribelle” per farla diventare una più vasta e pericolosa associazione sovversiva attraverso l’utilizzo della violenza. A 13 delle persone arrestate era stato anche contestato il reato di attentato contro organi costituzionali per aver turbato l’esercizio delle funzioni svolte dal governo italiano in occasione dei vertici di Napoli e Genova.
g.v.

l'Unità 25 aprile 2008
LINGOTTO Il tema che da sempre attraversa la letteratura e l’arte sarà al centro della prossima edizione. E come previsto Israele farà da ospite d’onore
La bellezza salverà la Fiera del Libro di Torino?
di Mirella Caveggia


Critiche, contestazioni, e un tentativo di boicottaggio non hanno immobilizzato la Fiera del Libro di Torino. L’evento, presentato in una conferenza stampa alla presenza del ministro israeliano Elazar Cohen, si terrà al Lingotto come previsto, dall’8 al 12 maggio e non subirà modifiche la scelta di fare di Israele l’ospite prescelto per la XXI edizione 2008. «Abbiamo affrontato difficoltà e polemiche al di là di ogni ragionevole argomentazione, ha detto il Presidente Rolando Picchioni. Abbiamo proposto possibilità di dialogo, ma un confronto fra un paese e chi ne nega l’esistenza è difficile».
Quest’anno il motivo conduttore sarà la Bellezza, «lo splendore del vero», come la definiva Platone. Il tema denso di mistero e di suggestione, viene proposto con il punto interrogativo di segno dostoevskijano. La bellezza salverà il mondo? Sul perno di questa incantevole qualità, avvinta all’etica, così ben espressa nella letteratura, nell’arte e nella musica, si avvolge un cartellone lussureggiante. Scrittori, filosofi e antropologi, storici dell’arte, artisti, musicisti, scienziati e persino matematici, ci parleranno di un spettacolo della natura o del modo di vivere la bellezza, dell’osservazione estetica o dell’etologia e persino delle armonie nascoste delle scienze esatte. Si scopriranno con illustri relatori i canoni di un romanzo, i connotati della bellezza del mondo greco-romano, ma anche i segni dell’arte e della letteratura islamica, la poetica dell’arte o la tensione verso la verità dell’anima. Si inoltrano su questi e altri avvincenti sentieri noti protagonisti della cultura italiana: Remo Bodei, Giovanni Reale, Luciano Canfora, Raffaele La Capria, Sergio Givone, l’architetto Mario Botta, Erri de Luca. Fra i grandi ospiti della letteratura mondiale, si incontrano Gore Vidal, Luce Irigary, il libanese Youssef Courbage, il francese Philippe Forest, le americane Susan Vreeland e Geraldine Brooks, il tedesco Arno Geiger, l’ultranovantenne sloveno di Trieste Boris Pahor, riconosciuto tardivamente fra i massimi testimoni della Shoa.
A rappresentare la letteratura e la cultura di Israele, che affronta con coraggio i propri conflitti e le contraddizioni che l’affliggono all’interno di una realtà quotidiana drammatica, non saranno presenti gli attesi David Grossman e Amos Oz. Ma arriveranno numerosi altri letterati di diverse generazione: fra loro, Aharon Appelfeld, l’irakeno Sami Michael che da anni vive a Israele, Abraham Yehoshua con il suo nuovo romanzo Fuoco Amico, Meir Shalev, Ron Leshem (autore di Tredici soldati, divenuto anche un film). E fra le tante scrittrici, Zeruya Shalev a Ronny Someck.
Nell’agenda spiccano eventi di grande interesse, come i dieci film israeliani scelti dal Museo del Cinema film israeliani e i dibattiti con interventi autorevoli su temi arroventati: giustizia, mafia, morti bianche. A questi e ad altri incontri da non perdere (Enzo Bianchi, Antonio Stella, Marco Rizzo, Eugenio Scalari, Furio Colombo) si alterneranno momenti di spettacolo e musica, come quella offerta dall’Arab Music Orchestra di Nazareth, composta da cattolici, ebrei e musulmani con la vocalist palestinese Lubna Bass. E infine Terra Madre, un format straordinario, dedicato alla salvaguardia delle diversità culturali e agli incontri. «Siamo qui per capire e cercare insieme spazi di dialogo nello scambio culturale, per trovare nell’altro una parte di noi. Forse si potrà togliere il punto interrogativo del tema» ha detto Ernesto Ferrero, Direttore della Fiera, uscito estenuato, ma sereno dalle polemiche.

Corriere della Sera 25.4.08
Gli studi innovativi di Giovanni Reale e Marie-Dominique Richard sul filosofo greco
Alla ricerca del Platone nascosto
La dimensione esoterica e quelle dottrine «non scritte» nei Dialoghi
di Armando Torno


Le conseguenze
Bisogna ridiscutere il rapporto matematica-metafisica e anche la geometria euclidea

Platone è uno dei pilastri portanti dell'Occidente. Whitehead all'inizio del Novecento amava ripetere che la filosofia è una serie di note in margine al suo pensiero. E Leibniz, tre secoli fa, ricordava che il vero problema dei sapienti è ridurre Platone a sistema: progetto che, a ben guardare, sta ancora nei cieli. In compenso succede sempre qualcosa nel suo nome, tanto che in questi giorni escono in Italia due tomi che contengono la documentazione per mettere sotto processo quanto si è detto e chiosato su Platone. In parole semplici: quel lascito che ha influenzato il cristianesimo, al quale sono legate le nostre idee sull'anima e la verità, su Dio (il termine «teologia» è di sua invenzione), sullo Stato, sul bene e sul bello e su tutti i concetti fondamentali del nostro sapere, va ripensato, rivisto, rimeditato. Il vero Platone, per dirla con una battuta, era come nascosto.
L'annuncio si deve a Giovanni Reale, uno dei massimi esperti del filosofo greco. Traduttore e commentatore di molte sue opere, curatore dell'edizione completa degli scritti («Tutto Platone» in un solo volume, continuamente ristampato da Bompiani), autore di monografie e di saggi sul sommo greco nonché della più grande storia della filosofia antica oggi diffusa nel mondo (cinque lingue, la sesta è in corso), organizzatore tra i molti di un convegno platonico a Tubinga con Gadamer, ha ora deciso di mettere a punto con testi e commenti lo stato della questione. Per tal motivo ha tradotto lui stesso il classico saggio di Marie-Dominique Richard
L'insegnamento orale di Platone,
prefato da Pierre Hadot, quindi ha realizzato espressamente l'opera Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle «Dottrine non scritte» .I due volumi, pubblicati da Bompiani nella collana «Il pensiero occidentale», disponibili anche in cofanetto, contengono appunto tutti i passi e gli approfondimenti necessari per sostenere una precisa tesi che riassumiamo con le parole che Gadamer confidò in due interviste allo stesso Reale, riportate in appendice al suo libro: «Il problema generale dell'interpretazione di Platone quale si presenta a noi oggi si fonda sull'oscuro rapporto esistente tra l'opera dialogica e la sua dottrina non scritta, che conosciamo soltanto mediante una tradizione indiretta». D'altra parte, credere che nei testi a noi pervenuti del filosofo greco ci sia tutto il suo messaggio, contrasta con numerose testimonianze di Platone stesso, a cominciare dal passo della Lettera VII: «Su queste cose non c'è un mio scritto, e non ci sarà mai».
Certo, tale prospettiva causa notevoli conseguenze. A prescindere da quei conservatori, più o meno realisti, per i quali Platone è un monumento archeologico da visitare o da saccheggiare alla bisogna, la prima che viene alla mente possiamo formularla in questo modo: una lettura delle sue opere che non tenga conto degli aspetti esoterici è qualcosa di autarchico o di sterile. La seconda conseguenza, tra le altre possibili: le testimonianze sul «Platone non scritto » devono essere costantemente utilizzate anche per interpretare interi capitoli della tradizione filosofica occidentale.
D'altra parte, Reale presenta una trentina di passi di Platone che rimandano alle dottrine non scritte e lo stesso ruolo della matematica assume un'altra valenza: per il filosofo greco si arriva alla metafisica attraverso di essa; ha dunque uno scopo didattico: non è stata matematizzata la metafisica, ma è avvenuto l'opposto. Di più: se si procede nelle ricerche con questo riferimento, ci si accorge — stiamo riportando l'interpretazione di Reale — che la preminenza dell'angolo retto sull'acuto e sull'ottuso nei testi platonici rispecchia le concezioni non scritte. Ma qui si aprono ulteriori questioni che portano ancora più lontano. Accenniamo soltanto al fatto che ci sono 18 passi di Aristotele che parlano di una geometria non euclidea e che il grande dibattito su questa disciplina si celebrò nell'Accademia, vale a dire la scuola fondata da Platone. Reale suggerisce anche di chiamare quella che solitamente consideriamo «geometria euclidea» con il più appropriato aggettivo «platonica». Non è infine esagerato sottolineare che questi due volumi coronano un progetto a cui l'autore ha atteso da una quarantina d'anni. Dopo essersi confrontato con personalità quali Imre Toth e con la Scuola di Tubinga (in particolare con Konrad Gaiser e Hans Krämer) e aver fondato all'Università Cattolica la Scuola di Milano, che ha dato vita a collane e a ricerche, persino a un
Lessico di Platone curato da Roberto Radice (Edizioni Biblia), Reale ha raccolto, completato e aggiornato le prove per formulare una nuova interpretazione platonica. Se la Richard ha condotto il suo lavoro per dimostrare l'autenticità di questa tesi scavando nelle opere di Aristotele e dei protagonisti dell'Accademia antica (Teofrasto, Ermodoro, Speusippo, Senocrate), egli ha passato al vaglio sistematicamente i dialoghi mettendo in relazione la soluzione dei grandi temi platonici tra le dottrine scritte e quelle non scritte. Nel libro ora pubblicato si trovano, tra l'altro, passi evidenziati e interpretati con prospettive ermeneutiche, la problematica dell'anima, la commedia che avviene in taluni dialoghi e che si può comprendere soltanto attraverso una simile lettura, la stessa questione della scrittura nel pensiero del filosofo. Ma questi sono cenni. L'intento è quello di avviare un'interpretazione aperta di Platone, nella quale i due differenti linguaggi entrino in comunicazione per spiegare una delle filosofie più grandi e importanti della storia.
Platone diventa in tal modo un universo di idee che non muoiono ma vivono dialogando con noi. Mentre continuiamo a scrivere le nostre in margine alle sue pagine, egli ci parla di «verità non comunicabili come le altre conoscenze ».

Corriere della Sera 25.4.08
Biografia Una regia ambiziosa che rifugge dal seguire le semplificazioni delle fiction televisive e che fa riflettere
I demoni di San Pietroburgo
Il lungo duello con la Storia di Dostoevskij Ma l'eleganza di Montaldo frena le emozioni
di Paolo Mereghetti


Mescolando la cronologia con una certa libertà e concentrando nei giorni in cui Dostoevskij scrisse Il giocatore anche una serie di attentati contro i membri della famiglia zarista, il film di Montaldo I demoni di San Pietroburgo rivela da subito le propri ambizioni: usare la Storia, anzi le storie — quella politica e quella letteraria, soprattutto — per riflettere sul ruolo dei «maestri» e sulla influenza che le idee hanno nel formare la gioventù.
Il «maestro» è naturalmente Fëdor Michailovic Dostoevskij (affidato a Miki Manojlovic per gli anni della maturità e a Giordano De Plano per quelli della detenzione in Siberia, entrambi doppiati egregiamente da Sergio Di Stefano): le sue idee, che l'hanno fatto passare dall'adesione giovanile a un socialismo utopistico fino all'accettazione di un umanesimo intriso di religiosità e di messianesimo slavofilo, hanno influito fortemente sulla gioventù russa del secondo Ottocento, infiammata da Bakunin e dal mito socialista e decisa ad abbattere anche col sangue delle bombe l'assolutismo del potere zarista. E proprio questa influenza offre al regista (e ai suoi sceneggiatori Paolo Serbandini e Monica Zapelli, partiti dall'idea che Andrej Konchalovski aveva proposto a Carlo Ponti) lo spunto da cui inizia il plot.
Dostoevskij decide di visitare in manicomio chi gli ha mandato una strana e accorata lettera e così scopre che l'autore — Gusiev (Filippo Timi) — è un rivoluzionario «convertito» dai romanzi e dalle idee dello scrittore e che per non tradire i compagni ma anche per non farsi più coinvolgere nei loro attentati non ha trovato di meglio che fingersi pazzo e farsi internare. La sua speranza, affidata alla lettera per Dostoevskij, è che lo scrittore riesca a far desistere l'amata Aleksandra (Anita Caprioli) dal mettere in pratica l'agguato già preparato contro l'arciduca.
Inizia così una specie di percorso contro il tempo che intreccia diversi piani: c'è quello della ricerca di Aleksandra, sulle cui stracce si è mossa anche la polizia e l'insinuante capo della «terza sezione» Pavlovic (Roberto Herlitzka), che mette a confronto Dostoevskij con gli studenti rivoluzionari che difendono con foga le stesse idee lo avevano affascinato in gioventù. Poi c'è il piano della memoria, che fa riandare il protagonista agli anni in cui fu arrestato per aver aderito a un circolo di intellettuali socialisti, poi condannato e messo davanti a un plotone di esecuzione (per un'atroce messinscena punitiva) e infine «graziato» con la condanna ai lavori forzati in Siberia. Dove lo scrittore di origini aristocratiche (anche se decadute) finì per confrontarsi davvero con il popolo e tutte le sue contraddizioni.
E infine c'è il piano «metaforico» (anche se storicamente realissimo) della scrittura del Giocatore, dettato in pochi giorni a una stenografa che sarebbe diventata la sua seconda moglie (Carolina Crescentini), e che permette di affrontare un'altro corsa contro il tempo (per soldi si è impegnato a consegnare il testo entro una certa data), di descrivere un altro aspetto controverso della propria vita (la passione per il gioco che lo portò sul lastrico) e soprattutto di rendere sempre più complessa e controversa la figura del «maestro», umanissimo quanto vulnerabilissimo nei suoi vizi e nelle sue debolezze.
Montaldo affronta questa materia senza sottolinearne troppo il possibile lato ideologico e soprattutto senza arrivare a stabilire un vincitore certo tra le idee «revisioniste » dello scrittore e quelle «rivoluzionarie » dei giovani (la Storia, invece, ci dirà che gli attentati anarchico-socialisti continuarono: nel 1881, cioè una ventina d'anni dopo i fati raccontati nel film, il gruppo Narodnaja Volja assassinò lo zar Alessandro II), ma non sceglie nemmeno di scavare più a fondo nella psicologia di Dostoevskij e negli abissi di quell'anima umana che i suoi romanzi avrebbero saputo scandagliare in maniera così magistrale.
Sceglie piuttosto una narrazione più tradizionale, «antica» verrebbe quasi da dire, che si ricollega direttamente allo stile delle sue regie anni Settanta e Ottanta e che sarebbe ingeneroso definire tout court «televisiva » (basterebbe il ricercato lavoro sull'illuminazione e la fotografia di Arnaldo Catinari per capire quanto poco il film sia debitore dell'estetica senza profondità in stile fiction), ma che non cancella l'impressione di un cinema fin troppo «pedagogico», fin troppo «equilibrato », più attento alle suggestioni del romanzesco che a quelle del visivo. Una regia che sceglie di non confrontarsi con le scommesse estetiche del cinema contemporaneo e che rivendica con orgoglio il diritto a uno stile «classico», un po' intemporale, signorilmente pittori

Repubblica 25.4.08
La battaglia di Roma
di Edmondo Berselli


Basterebbe la violenza dell´attacco rivolto da Silvio Berlusconi a Francesco Rutelli, «un voltagabbana», «un sindaco con cui sarebbe difficile collaborare», per chiarire l´importanza politica che riveste il ballottaggio per il comune di Roma. Per la verità sarebbero sufficienti anche gli insulti rivolti al candidato del centrosinistra da Gianfranco Fini, che lo ha definito «una salma politica», tentando di fare a pezzi con le male parole il giudizio generale positivo che ha costantemente circondato Rutelli, il sindaco del Giubileo, durante le sue due esperienze in Campidoglio dal 1993 al 2001. E quindi si capisce anche la durezza e insieme l´emotività di alcune risposte, come quella di Massimo D´Alema, «fermiamo la marea nera sulla Capitale». Sono moltissimi gli elementi che mettono in rilievo la posta che si gioca al ballottaggio, a cominciare da quelli simbolici. Siamo nel clima del 25 aprile, anniversario della Liberazione, una data che richiama alla mobilitazione tutti coloro che mantengono una sensibile diffidenza verso il candidato del centrodestra, Gianni Alemanno, per il suo passato da «capobranco missino», come l´ha definito simpateticamente Il Foglio, e guardano con insofferenza all´appoggio elettorale che, pur senza un apparentamento esplicito, gli viene da Francesco Storace.
Sono sentimenti che qualcuno giudica fuori moda, nel momento in cui figure di riferimento del Popolo della libertà come Marcello Dell´Utri propagandano i diari fasulli di Benito Mussolini e invitano nuovamente al repulisti revisionista nei libri di scuola. Ma che mantengono un valore di discrimine, dal momento che riportano la politica a scelte essenziali, di qua o di là, senza terzismi e volteggi più o meno eleganti. Perché in primo luogo c´è il valore non soltanto nazionale della città di Roma, la capitale di un´Italia che rischia di essere spartita e lottizzata a colpi di spesa pubblica fra l´autonomismo leghista di Umberto Bossi e l´autonomismo meridionale di Raffaele Lombardo. Oggi infatti Roma non è soltanto la "ladrona" maledetta dagli slogan nordisti; è anche l´immagine nel mondo di un´Italia che vive e si alimenta di contraddizioni territoriali e politiche profonde.
Si tratta di un´immagine estetica, storica, mitologica, e inevitabilmente di un´immagine politica. Se cade, Roma diventerà lo spot pubblicitario internazionale del centrodestra trionfante. Ma nello stesso tempo la partita per il Campidoglio è, se possibile, ancora più ampia. Si svolge entro un perimetro che racchiude il futuro della politica italiana e implica un giudizio sull´evoluzione del sistema democratico e sui futuri rapporti di forza tra i partiti.
Per il centrodestra, la conquista di Roma costituisce la possibilità di sigillare con un risultato spettacolare l´esito delle elezioni del 13-14 aprile. Basti pensare che solo due anni fa, alle amministrative del 2006, Alemanno aveva raccolto uno scheletrico 37,1 per cento rispetto al sindaco uscente Walter Veltroni, riconfermato d´acchito con il 61,4 per cento. È anche per questo che la nuova sfida di Alemanno viene guardata con un fremito di mondana curiosità dall´ambiente dei circoli e dei salotti della Roma che conta. L´eventuale affermazione del "cristiano celtico" Alemanno, del postmissino portatore di una cultura lontana dai principi liberali classici, rappresenterebbe la prova che l´avanzata della destra, una destra composita culturalmente come un collage arlecchino di ispirazioni politiche, è irresistibile e il suo consolidamento è già in corso. Si dovrebbe quindi assistere al veloce e cinico riallinearsi degli establishment, con l´euforia da "bandwaggoning", la corsa a saltare sul carro del vincitore previsto.
Per il Partito democratico, di cui Rutelli è una delle figure eminenti, l´appuntamento con questo secondo turno di voto rappresenta una prova sul filo del dramma. Dalla tenuta di Roma dipende infatti il giudizio sul risultato ottenuto da Veltroni sul piano nazionale. Nessuno per ora può contestare la ricostruzione secondo cui l´alleanza organizzata dal Pd ha perso, ma nello stesso si è costituito in Italia un "motore riformista" che servirà a ripartire con un assetto competitivo. Ma quel terzo di italiani che ha votato per il Pd può configurare due entità politiche diverse: un giardinetto residuale, destinato a rattrappirsi, oppure una galassia in potenziale espansione. Il voto della Capitale può rivelare quindi la natura vera e non contingente del centrosinistra, assegnargli una prospettiva, in sostanza, illustrare se la scommessa solitaria di Veltroni ha avuto un senso o se invece è stata semplicemente un azzardo.
Naturalmente costituisce un elemento ulteriormente problematico il fatto che a Roma il candidato Rutelli corre con l´appoggio della Sinistra Arcobaleno, il cartello uscito praticamente distrutto dal voto per le politiche, dopo la separazione "consensuale" dal Pd. Fra le molte linee di cui si compone il disegno elettorale di Roma, c´è anche da considerare il fattore psicologico che grava sull´elettorato della sinistra cosiddetta radicale. Può prevalere il senso di rassegnazione dopo la riduzione allo stato extraparlamentare; ma Rutelli e il Pd possono invitare questa sinistra a una mobilitazione che testimoni la volontà di resistere come forza politica, in parte per ragioni immediate, per impedire la conquista da parte della destra, e in parte anche per mantenere aperto il laboratorio istituzionale della sinistra, cioè per predisporre le condizioni di una sua sopravvivenza nel paese.
Che in meno di due anni dalla riconferma a valanga di Veltroni si stia assistendo a un testa a testa rappresenta con chiarezza la sfida a cui è sottoposto il centrosinistra. A Roma si sta disputando la possibilità che nei prossimi anni esso sia in grado di rappresentare un´alternativa politica razionale ed efficace. Chiunque non abbia voglia di assistere al trionfo della destra proteiforme che ha vinto le elezioni politiche, e sia inquieto rispetto al programma di "modernizzazione reazionaria" che essa espone, chi non ami la vocazione corporativa di cui Alemanno è uno strenuo portatore, ha la possibilità di sostenere quell´Italia riformista che altrimenti rischia di essere ridotta a minoranza permanente.

Repubblica 25.4.08
Sessantotto il mio anno di follia
di Paul Auster


Mi diedi da fare per smantellare la recinzione strappando il reticolato e menando colpi insieme a decine di compagni; e devo confessare di aver provato una gran soddisfazione

Correva l´anno della follia, l´Anno con la maiuscola. Quello del fuoco e della morte. Avevo compiuto ventun anni da poco ed ero pazzo come tutti gli altri. Mezzo milione di soldati americani combattevano in Vietnam. Martin Luther King era stato appena assassinato. In tutta l´America le città bruciavano, e il mondo sembrava avviato verso un tracollo apocalittico.
Mi colpiva l´idea che la nostra follia fosse una risposta perfettamente sensata a quanto era toccato in sorte a me e ai ragazzi della mia età in quel 1968. Subito dopo la laurea mi aspettava la chiamata alle armi per una guerra che disprezzavo dal profondo del mio essere. Ero ben deciso a rifiutare di combatterla, quella guerra, e avevo solo due alternative per il futuro: la galera o l´esilio.
Non ero un violento. Se ripenso ora a quegli anni mi vedo come un ragazzo tranquillo, sempre chino sui libri, immerso nei corsi di letteratura e filosofia della Columbia University e nello sforzo di capire come si fa a diventare uno scrittore. Avevo partecipato a qualche marcia contro la guerra, ma non militavo nelle organizzazioni politiche del campus; e pur essendo un simpatizzante dell´Sds (uno dei molti gruppi studenteschi, radicale ma tutt´altro che estremista) non andavo alle riunioni, né avevo mai distribuito volantini o altro materiale propagandistico. Volevo solo leggere i miei libri, scrivere poesie e bere con gli amici al West End Bar.
Ci andai perché ero fuori di testa; il veleno del Vietnam aveva invaso i miei polmoni e mi aveva fatto impazzire. E gli studenti che a centinaia si erano riuniti quel pomeriggio intorno alla meridiana, al centro del campus, in realtà non erano lì per protestare contro il progetto della palestra, ma piuttosto per dare sfogo alla loro follia scagliandosi contro un obiettivo qualunque. E poiché eravamo tutti studenti della Columbia, non trovammo di meglio che lanciare mattoni contro l´università – peraltro impegnata in una serie di lucrosi progetti di ricerca per committenti dell´industria bellica, e quindi coinvolta nello sforzo militare in Vietnam.
I discorsi infuocati si susseguivano, accolti con boati di approvazione dalla folla degli studenti imbufaliti. A un certo punto qualcuno propose un assalto al cantiere, per smantellare la recinzione che impediva l´accesso ai non addetti. Parve a tutti un´idea eccellente, e una marea di studenti urlanti e fuori di testa lasciò il campus della Columbia per dirigersi a passo di carica verso il Morningside Park.
Con mia grande sorpresa mi ritrovai in mezzo a loro. Cos´era successo al giovane ammodo, deciso a passare il resto della sua vita solo in una stanza a scrivere libri? Mi diedi da fare nell´opera di smantellamento della recinzione, strappando il reticolato e menando colpi insieme a decine di compagni; e devo confessare di aver ricavato una gran soddisfazione da quell´attività distruttiva e folle.
Dopo l´assalto alla recinzione del parco la nostra furia si rivolse contro gli edifici del campus, che occupammo per una settimana intera. Ero finito nell´aula di matematica, dove rimasi per tutta la durata del sit-in. Frattanto gli studenti della Columbia erano in sciopero. Mentre noi tenevamo tranquillamente le nostre riunioni all´interno, il campus era sconvolto dal chiasso di bellicosi scontri verbali tra i sostenitori dello sciopero e i contrari, che a volte venivano alle mani abbandonando ogni ritegno. La sera del 30 aprile la direzione dell´università decise che era venuto il momento di farla finita e chiamò la polizia. Seguirono tumulti sanguinosi. Fui arrestato con altri settecento studenti e trascinato per i capelli da un poliziotto verso il furgone della polizia, mentre un altro mi pestava la mano con lo stivale. Ma lungi dall´essere pentito, ero orgoglioso di aver dato il mio piccolo contributo alla causa. Pazzo e orgoglioso. Cos´avevamo ottenuto? Non molto, a dire il vero. Di fatto, il progetto della palestra fu scartato. Il vero problema però era il Vietnam. Ma la guerra continuò per altri sette orribili anni. Non si cambia la politica di un governo attaccando un´istituzione privata. Nel maggio di quell´Anno con la maiuscola gli studenti francesi si ribellarono in un confronto diretto col governo in carica, dato che le loro università erano pubbliche, controllate dal Ministero dell´Educazione. E in Francia quella rivolta diede il via a una serie di cambiamenti. Ma noi della Columbia University non avevamo alcun potere. La nostra piccola rivoluzione era poco più di un gesto simbolico. Eppure, i gesti simbolici non sono gesti vuoti. E dati i tempi, avevamo fatto quello che potevamo.
Esito a fare un paragone col presente. Perciò non concluderò questa breve reminescenza con la parola «Iraq». Oggi ho 61 anni, ma la penso più o meno come allora, in quell´anno di fuoco e di sangue. E stando qui, seduto in una stanza con una penna in mano, mi rendo conto di essere tuttora pazzo – forse più pazzo che mai.

© New York Times Syndicate Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 25.4.08
La lezione di Morin. La sfida della complessità
Intervista al filosofo francese


La Francia lo celebra conla riedizionedelle opere e con convegni di studio
"Il cuore del problema è la conoscenza della conoscenza, una caccia all´errore"

PARIGI. Se c´è un intellettuale francese per cui l´espressione maître à penser abbia oggi ancora un senso, questi è Edgar Morin. Un maestro del pensiero rispettato e studiato, che da oltre mezzo secolo affronta con le armi della riflessione la complessità del mondo e le sue contraddizioni. A ottantasei anni, il sociologo approdato alla filosofia è oggi più che mai al centro del dibattito intellettuale: i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo e le sue tesi discusse con grande attenzione in occasione di affollati convegni. L´ultimo qualche giorno fa a Parigi, dove, per due intere giornate, Morin si è confrontato pubblicamente con specialisti di varie discipline.
Non è un caso, dunque, che la casa editrice Seuil abbia deciso di ripubblicare nella sua integralità La Méthode, vale a dire i sei volumi scritti dallo studioso tra il 1977 e il 2004 (in Italia sono stati tradotti da Feltrinelli e Raffaello Cortina), affrontando, grazie al dialogo continuo tra scienze umane e scienze naturali, le molte forme della complessità. Una riflessione che, partendo dalla «conoscenza della natura», si allargata alla «natura della conoscenza», investendo poi il mondo delle idee, i territori dell´antropologia e il continente dell´etica. «Come tutti i pionieri, anch´io all´inizio sono stato incompreso, oggi però l´importanza del concetto di complessità è riconosciuta da tutti», ricorda Morin, al cui pensiero volontariamente aperto la rivista Communications ha appena dedicato un ricco numero monografico. «Quando ho iniziato a scrivere il primo volume del Metodo, non ero certo un profeta. Cercavo solo di capire la realtà che mi stava davanti, confrontandomi con le idee che iniziavano a circolare in certi ambiti di ricerca. In seguito, alcune delle mie intuizioni sono state recepite dal mondo della cultura, altre invece suscitano ancora molte resistenze».
Il Metodo è un lavoro in divenire che si è riorganizzato nel corso del tempo...
«Scrivere per me non è semplicemente redigere un testo a partire da un pensiero già cristallizzato. Al contrario, il momento della scrittura è quello in cui le riflessioni si formano e si trasformano, perché nuove idee modificano continuamente l´economia del lavoro già svolto. Senza dimenticare le letture di alcuni amici che, con le loro critiche, mi hanno mostrato nuovi orizzonti di ricerca, spingendomi a riprendere il lavoro. È un modo di lavorare difficile, ma appassionante, che trasforma di continuo il mio pensiero. Un pensiero, quindi, che non è mai immobile né definito una volta per sempre. Come diceva Nietzsche, il metodo arriva solo alla fine».
Perché il concetto di complessità le è sembrato da subito decisivo?
«I problemi importanti sono sempre complessi e vanno affrontati globalmente. Se voglio comprendere la personalità di un individuo, non posso ridurla a pochi tratti schematici. Devo necessariamente tenere conto di molte sfumature, spesso contraddittorie. Lo stesso vale per la situazione del pianeta, per comprendere la quale si devono tener presenti molti parametri. Insomma, la realtà è complessa e piena di contraddizioni che sono una vera sfida alla conoscenza. Per affrontare tale complessità, non basta semplicemente giustapporre frammenti di saperi diversi. Occorre trovare il modo per farli interagire all´interno di una nuova prospettiva».
È ciò che ha fatto lei nel Metodo?
«In effetti, ho cercato di elaborare alcuni principi in grado di mettere in relazione quelle conoscenze che gli strumenti tradizionali della conoscenza di solito non riescono a collegare. Per questo ho utilizzato l´insegnamento di quei filosofi che non hanno avuto paura di affrontare le contraddizioni, da Eraclito a Marx. Senza dimenticare Pascal, per il quale l´uomo era l´essere più miserabile e grottesco, ma anche il più nobile».
Il terzo volume del Metodo è dedicato alla «conoscenza della conoscenza». Perché?
«Questo è certamente il cuore del problema, giacché dobbiamo conoscere i meccanismi della conoscenza, se vogliamo comprendere i nostri errori. Se le mie idee hanno incontrato il favore di molte persone in ambiti diversi - dalla scienza alla letteratura, dalla filosofia alla pedagogia - è perché costoro erano profondamente insoddisfatti di una cultura dominata dal pensiero binario, fatta di opposizioni manichee che rimuovono ogni contraddizione. Nel mio lavoro hanno trovato una prima risposta ai loro dubbi. Io però ho solo rivelato intuizioni che, sebbene non formulate, erano probabilmente già presenti in molti studiosi. Esiste un´aspirazione diffusa ad un altro modo d´intendere la conoscenza. Per questo, le mie riflessioni hanno potuto diffondersi in molti paesi, tra cui anche l´Italia, dove il mio lavoro è seguito ancor più che in Francia. Di ciò naturalmente sono molto soddisfatto, anche se molto resta ancora da fare».
In quale direzione?
«Occorre occuparsi dell´insegnamento. La riforma della conoscenza e del pensiero potrà concretizzarsi solo attraverso una riforma dell´insegnamento, una problematica a cui ho dedicato La testa ben fatta e I sette saperi necessari all´educazione del futuro. Il nostro sistema d´insegnamento separa le discipline e spezzetta la realtà, rendendo di fatto impossibile la comprensione del mondo e impedendoci di cogliere quei problemi fondamentali che sono sempre globali. L´eccesso di specializzazione è diventato un problema. Esperti molto competenti nel loro settore, non appena il loro ambito specifico è traversato da altre problematiche, non sanno più come reagire. Avrebbero bisogno di affrontare globalmente i problemi, ma non ne sono capaci».
Occorre un´ottica interdisciplinare?
«Certo, purtroppo però l´interdisciplinarietà avanza molto lentamente. Nel mondo della ricerca francese i baroni delle singole discipline non sono assolutamente sensibili a tale prospettiva. C´è però un movimento in corso, che io cerco d´incoraggiare. L´interdisciplinarietà è positiva perché permette a persone che lavorano in campi diversi di dialogare, ma occorrerebbe fare un ulteriore passo in avanti in direzione della transdisciplinarietà, la sola capace di costruire un pensiero globale in grado di articolare i diversi saperi. In fondo, esiste già una scienza che si muove in questo modo e che ci può servire da modello».
Quale sarebbe?
«L´ecologia, che poggia sull´idea di ecosistema. Vale a dire, un´organizzazione complessa, fondata al contempo sul conflitto e la cooperazione, che nasce dalla eco-organizzazione e dall´implicazione reciproca delle diverse componenti del sistema. Facendo interagire molti parametri diversi, l´ecologia è un esempio molto utile, anche se resta una scienza con una dimensione aleatoria, dato che non siamo ancora capaci di rispondere a tutti i grandi interrogativi che essa solleva. Tuttavia, anche le cosiddette scienze esatte sono sempre più spesso costrette ad integrare la dimensione del dubbio e dell´incertezza. Nessuna scienza può vantare esclusivamente certezze. Si pensi alle difficoltà dell´economia di fronte al marasma dei mercati. Insomma, non bisogna mai eliminare il dubbio».
L´ecologia è un modello anche per il sistema della cultura? È per questo che ha parlato di ecologia delle idee?
«È uno dei modelli, dato che anche in ambito culturale agiscono contemporaneamente i principi di conflitto e di cooperazione. Partendo da questo punto di vista, è possibile pensare in termini diversi anche la relazione tra autonomia e indipendenza. In natura non si può essere indipendenti che dipendendo dal proprio ambiente. Ciò che vale per l´ambiente biologico, vale anche per l´ambiente sociale, urbano, culturale, religioso. Comprendere l´interdipendenza dei sistemi culturali e delle idee è oggi più che mai necessario. Ciò contribuirà a cambiare il nostro modo di pensare, dandoci uno strumento in più per sfuggire all´abisso verso cui il pianeta sembra essere destinato».

Repubblica 25.4.08
La storia del campo di concentramento in un libro di Giuseppe Mayda
Mauthausen il lager degli italiani
Vi furono internati 200.000 deportati, 8.000 dall´Italia: ne morì il 60 per cento
di Susanna Nirenstein


Boris Pahor, quando scrive in Necropolis della sua lancinante esperienza a Dachau, cita Mauthausen come uno di quei luoghi dove «lo sterminio è stato ancor più sconvolgente»: con quei 186 gradini della gradinata della morte, dalla cava di granito al campo, su cui «i corpi zebrati dovevano inerpicarsi sei volte al giorno con una pesante pietra sulle spalle lungo l´orlo di un precipizio»; qui stavano kapò e guardie che buttavano giù per la scarpata con un fendente o «uno spintone chi a loro giudizio aveva una pietra troppo piccola sulle spalle», o semplicemente barcollava. «La parete dei paracadutisti» la chiamavano, anche perché molti vi si tuffavano da soli per farla finita.
Mauthausen non era stato creato nel ‘38, a poco più di 20 chilometri da Linz, in Austria, come «campo di sterminio»: la sua funzione nominale era quella di «concentrare» i prigionieri soprattutto "politici" e sfruttarli nel lavoro forzato per la grandezza del Reich. Vogliamo narrarne almeno in parte gli orrori non solo per la violenza, il terrore e il sadismo incontrati, e di cui va dato conto se non altro per riflettere e onorarne le vittime, ma perché, come ora ci racconta Giuseppe Mayda nel suo Mauthausen (il Mulino, pagg. 476, euro 28), fu il campo degli italiani: ce ne finirono 8000, più che in ogni altro lager.
Mayda descrive minuziosamente e appassionatamente la vita e soprattutto la morte che regnava a Mauthausen. La sveglia, l´adunata nell´Appelplatz dove si dovevano portare anche i moribondi e persino i morti nella nottata: l´appello poteva durare ore su ore, essere ripetuto all´infinito con 15 gradi sotto zero.
L´aspetto del lager era quello di una fortezza in pietra dall´aspetto vagamente esotico per le sue torrette: i nazisti vi si muovevano come barbari, spostando masse di persone a scudisciate, verso la cava omicida la cui scala a giorni si inzuppava letteralmente di sangue, spingendo i deportati verso il filo spinato ad alta tensione, facendo azzannare i detenuti dai cani, costringendo con la forza alcuni a soffocarsi con un filo di ferro, nascondendo la valanga di morti sotto la dicitura «fuga», «suicidio». C´era anche un muro per la fucilazione. Ma non si lasciava la vita solo così: a parte la fame che attanagliava tutti, dalle cinque baracche destinate ai malati ogni giorno uscivano da 100 a 170 deceduti, e non di morte naturale. Quelli colpiti da tifo petecchiale (centinaia), per esempio, erano destinati all´iniezione al cuore di benzina, altri al colpo alla nuca, altri ancora, soprattutto i tubercolotici, all´«azione-bagno» (una doccia gelata di mezz´ora, ripetuta più volte se non bastava, in una stanza con gli scoli bloccati: se non si moriva per il freddo, si affogava). Alla maggioranza degli inabili toccava lo Zylon B, o nella fortezza di Hartheim, dove era in funzione una camera a gas usata in un primo momento per il progetto Eutanasia (progetto che aveva ucciso, è bene ricordarlo, 90.000 tedeschi, tra cui 5000 bambini), o nella camera stagna costruita nei sotterranei di Mauthausen, accanto al crematorio.
Degli 8000 italiani imprigionati a Mauthausen, ci dice Mayda (già autore, tra l´altro, di Ebrei sotto Salò o di Storia della deportazione dall´Italia 1943-45) ne morirono da 3750 a 5750, secondo le stime. In totale dei 200.000 deportati a Mauthausen dall´agosto ‘38 al 5 maggio ‘45 (quando fu liberato da una Divisione corazzata statunitense), le fauci di Mauthausen ne inghiottirono circa il 60 per cento: al primo posto i 32.180 scomparsi sovietici, seguiti da 30.203 polacchi, 12.923 ungheresi, 12.890 jugoslavi, 8.203 francesi, 6.502 spagnoli.
Per quel che riguarda l´Italia, dall´8 settembre 1943 alla primavera ‘45 i tedeschi, col preciso obiettivo di stroncare qualsiasi moto di ribellione e protesta, deportarono tutti i cittadini colpevoli, ai loro occhi, di disobbedienza, opposizione e dissenso. I catturati furono i più diversi: quando gli americani liberarono i 209 internati italiani del blocco 22 di Gusen (un sottocampo di Mauthausen), per intenderci, vi trovarono 87 partigiani, 5 renitenti alla leva di Salò, 28 operai scioperanti, 3 ebrei, 4 militari, 2 «liberi lavoratori» in Germania, un accusato di espatrio, uno di porto abusivo d´armi, 4 incriminati di reati annonari (borsa nera), 4 «individui sospetti», 2 indiziati di «favoreggiamento ai partigiani», 2 di favoreggiamento agli ebrei, 13 rastrellati, 5 antifascisti, 6 «antitedeschi», 27 politici, un disertore, un sovversivo, un accusato di spionaggio, uno di rifiuto al lavoro, uno per sabotaggio. Insomma, scrive Mayda, si era colpito nel mucchio, con tipiche azioni intimidatorie, per terrorizzare. Ci fu gente presa al biliardo in maniche di camicia e spedita al lager in pieno gennaio. Quando il carcere di Parma viene colpito da un bombardamento si deportarono tutti i detenuti, e la stessa sorte toccò alle prostitute di una casa di tolleranza ligure.
Una costante, sottolinea Mayda, fu la deportazione dei lavoratori scesi in sciopero nelle grandi fabbriche del Nord nel ‘44: dei 250 portati da La Spezia (soprattutto operai e tecnici), 167 (il 67 per cento) morirono a Mauthausen, nei suoi sottocampi e nel vicino castello di Hartheim. Dei 67 lavoratori rastrellati nelle aziende metalmeccaniche di Savona finiti nello stesso lager se ne salvarono 8. La cattura di chi aveva avuto un ruolo negli scioperi del marzo ‘44 ebbe un forte peso nelle fabbriche di Sesto San Giovanni (43.000 dipendenti soprattutto di Breda, Falck, Pirelli, Magneti Marelli): prima ci furono 1200 arresti preventivi, poi, con le agitazioni, si impose ai capireparto di redigere le «liste nere» dei sovversivi, e scattarono le deportazioni, 215: se non trovavano l´interessato, prendevano, il padre, il fratello, il figlio; a Mauthausen ne morirono 156. L´8 agosto partirono da Firenze 597 rastrellati in Toscana e cui si aggiunsero altri carri con 250-290 prigionieri lombardi e piemontesi. Ad agosto a Mauthausen arrivarono altri 300 lavoratori italiani.
Un´altra razzia straordinaria avvenne allo Stadio San Siro domenica 2 luglio ‘44: alla fine della partita Milan-Juventus, l´altoparlante annunciò ai giovani classe 1916-1926 di radunarsi all´uscita nord: 300 ragazzi furono obbligati a salire su una quindicina di camion. Di loro non si seppe più nulla. Raggiunsero Mauthausen invece 480 prigionieri presi il 2 gennaio ‘45 a Regina Coeli.
Basta, volevamo solo far capire insieme a Mayda, che l´emorragia italiana fu generale. In venti mesi di occupazione nazista i trasporti dei «politici» dall´Italia al Reich ammontarono ad almeno ottanta. Quelli diretti a Mauthausen furono 29 con complessivi 6.871 prigionieri, altri deportati arriveranno nei trasbordi tra un lager e l´altro. Con alcuni treni blindati, giunsero anche degli ebrei italiani. E molti ebrei da altre parti d´Europa, a volte catalogati come politici e non con la stella gialla. Difficilissimo tenere la contabilità: i nazisti prima dell´arrivo degli Alleati distrussero tutti gli archivi, rimasero solo i documenti salvati nei giorni precedenti da alcuni detenuti-impiegati.
Fu morte, e ancora morte. Quando ci si addentra nelle sevizie messe in atto a Mauthausen il cuore, ancora una volta indietreggia. Non furono solo Auschwitz, Treblinka, Sobibor, Belzec, Majdanek i campi dello sterminio, anche se solo a questi cinque spettava la liquidazione industriale, di massa. Meglio ricordare, con Mayda, che l´elenco dei lager ne contiene più di 1600, ognuno con il suo abisso.

Repubblica 25.4.08
Festival di Torino. Presentato ieri il programma
Il ruolo di Israele
Al via La fiera delle polemiche
1.800 relatori, 800 tra convegni e dibattiti, 24 sale per gli incontri, 1.400 editori

TORINO. Chi ha preparato il programma dei dibattiti e dei convegni che scandiranno la presenza di Israele, come ospite d´onore, alla Fiera internazionale del libro di Torino, in calendario dall´8 al 12 maggio e che verrà inaugurata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano? Elazar Cohen, numero due dell´ambasciata in Italia dello Stato ebraico, intervenendo ieri alla presentazione della manifestazione, è stato categorico: «Non abbiamo avuto alcuna parte nella elaborazione delle iniziative del nostro stand. È stato Angelo Pezzana (noto libraio torinese, uno dei fondatori della Fiera e dell´associazione Italia-Israele, ndr) a occuparsene. Ha avuto libertà completa, senza richieste di alcun genere o veti. È un programma che riflette la realtà israeliana».
Le affermazioni del diplomatico, cui si aggiungono quelle analoghe di Rolando Picchioni, presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura, sono una smentita a quanti, finora, hanno sostenuto che la presenza di Israele al Salone sia stata strettamente coordinata e gestita dalle autorità di Tel Aviv, per festeggiare la creazione, l´8 maggio di sessant´anni fa, dello Stato. Non per questo, tuttavia, mettono fine alle polemiche e all´annunciata campagna di boicottaggio. L´associazione Forum Palestina, che critica Fausto Bertinotti per la sua presenza in fiera, ha già dato notizia che durante la kermesse del Lingotto avrà luogo una manifestazione nazionale contro Israele nelle strade della città (sabato 10), oltre ad altri momenti di mobilitazione filopalestinese. È prevista anche una visita del teologo islamico Tariq Ramadan, che però, nei giorni scorsi, ha fatto sapere che non metterà piede alla Fiera del libro.
Picchioni e il direttore Ernesto Ferrero, come si suole dire, incrociano le dita e si augurano che la manifestazione, all´insegna del filo conduttore «Ci salverà la bellezza», possa consumarsi senza problemi di ordine pubblico. E, per stemperare un po´ le preoccupazioni, Ferrero ironizza: «Le polemiche nei nostri confronti, frutto peraltro di disinformazione, ci hanno giovato: prima nessuno ci filava, adesso ci conoscono tutti, da Al Jazeera al New York Times».
La Librolandia vera e propria, tensioni a parte, si presenta nel suo ventunesimo capitolo con qualche contributo finanziario in meno, 75 editori in più (sono circa 1400) e una pantagruelica elencazione di grandi numeri: 18.480 relatori, 800 tra convegni e dibattiti, 24 sale per gli incontri. Si comincia la sera del 7 maggio, con una festa inaugurale alla Reggia di Venaria Reale, nel corso della quale Aharon Appelfeld, decano degli scrittori israeliani, leggerà una prolusione. Si prosegue con Dario Fo e Abraham B. Yehoshua, Meir Shalev e Clive Clusser, Gore Vidal, Elik Shafak (la scrittrice turca minacciata per avere scritto del genocidio armeno), Boris Pahor, Joe Lansdale, Javier Marías, Aarto Paasilinna, Raffaele La Capria, Edoardo Sanguineti, Eugenio Scalfari (che presenterà il suo nuovo libro), Remo Bodei, Luciano Canfora, Danilo Mainardi e tantissimi altri.
Non mancano romanzieri, poeti, intellettuali, del mondo arabo e islamico, ospiti degli spazi di Lingua madre. Dialogheranno con i loro colleghi ebrei ed israeliani? È uno degli interrogativi che potranno avere una risposta soltanto al Lingotto.
Si registra anche, forse per via del clima politico nel nostro Paese, un forte ritorno all´impegno civile. I temi della Costituzione, del lavoro, dei diritti, della mafia, del terrorismo, della corruzione, dominano in numerosi convegni, molto più che negli anni passati. Tra i momenti dedicati alle questioni politiche, civili e sociali, ce n´è uno ancora drammaticamente presente nella memoria dei torinesi e degli italiani: la morte degli operai della Thyssen Krupp. Paola Cortellesi e Claudio Gioè leggeranno il reportage sulla tragedia scritto da Ezio Mauro, direttore de la Repubblica.

giovedì 24 aprile 2008

l’Unità 24.4.08
25 aprile
Ma la storia non si cancella
di Andrea Camilleri

Un senatore, persona assai vicina al presidente Berlusconi, poco prima del voto, ha dichiarato che si sarebbe adoperato perché, nei libri di storia, almeno in quelli a uso scolastico, il «mito» del 25 aprile, cioè della Liberazione, venisse opportunamente ridimensionato.
Non è il primo e, certamente, non sarà l’ultimo a manifestare questo proposito. Che equivale, esattamente, a voler ridimensionare il Risorgimento. Il Risorgimento non è un mito, ma un fatto, come lo sono la Resistenza e la Liberazione.
Gli eventi storici che portarono alla Resistenza sono così semplici da essere assolutamente incontrovertibili, non possono essere né revisionati (la Storia non è un’automobile alla quale rilasciare tagliandi di validità a scadenze stabilite) né ridimensionati. Dopo l’ignominiosa fuga del re e di Badoglio da Roma, gli italiani e le forze armate italiane furono abbandonate a se stesse e il nostro paese venne militarmente occupato dai soldati di Hitler. Allora furono in molti a ribellarsi a questa occupazione diventando partigiani, combattenti per liberare la Patria dallo straniero.
Si trovarono fianco a fianco comunisti, socialisti, cattolici, liberali, uomini del partito d’azione, ufficiali dell’esercito, graduati, soldati, senza partito, reduci dai vari fronti.
Fu un movimento del tutto spontaneo e popolare. Solo dopo, solo quando il fantoccio Mussolini creò la Repubblica di Salò, la guerra di Liberazione divenne anche lotta contro i repubblichini che avevano così entusiasticamente affiancato i nazisti, autori d'innumerevoli stragi contro la popolazione inerme.
Non si trattò di una guerra civile, come affermano alcuni storici, e se lo fu in parte questo avvenne come conseguenza dell’intervento dei fascisti. I partigiani hanno segnato una pagina gloriosa della nostra storia. Hanno permesso che l’Italia si riscattasse dalle colpe del fascismo, prime tra tutte le leggi razziali, e riacquistasse la sua dignità di nazione. Hanno fatto sì che nascesse uno Stato democratico, hanno fatto sì che si potesse scrivere una Costituzione alla stesura della quale hanno contribuito tutti i rappresentanti delle diverse volontà popolari.
Hanno fatto rinascere l’Italia. Che c’è da revisionare?

l’Unità 24.4.08
La lunga liberazione dopo la lunga notte
di Bruno Bongiovanni

DOMANI CON L’UNITÀ il libro di Mirco Dondi su giustizia violenza e Resistenza tra il 1943 e il 1947. Un classico della nuova storiografia di sinistra che gettò luce in anticipo sulle leggende strumentali contro il ruolo liberatore del partigianato

Il libro concludeva del resto un decennio - l’ultimo del secolo scorso - in cui tutti i temi del biennio 1943-45, e anche (ma in misura minore) quelli del periodo immediatamente successivo, erano stati affrontati in modo libero e innovativo dalla storiografia di sinistra.Al centro vi era ora, grazie soprattutto a Dondi, anche il clima di violenza lasciato in eredità a molti da una guerra vissuta senza gloria e senza onore, ma anche dalle brutalità assunte dall’occupazione nazista e dall’intensità del conflitto tra italiani (i partigiani patrioti da una parte e i collaborazionisti di Hitler dall’altra), conflitto che sempre più spesso veniva definito, talora con quieto distacco semantico, e talora con ripetitivi intenti denigratori (nei confronti dei soli partigiani), «guerra civile». A questo proposito va comunque ricordato che nell’ultimo e incompiuto libro di Renzo De Felice (Mussolini l’alleato II La guerra civile 1943-1945, Einaudi 1997) si sosteneva, con franca intelligenza, che la guerra era divenuta «civile» perché i riemersi fascisti, creando la Repubblica Sociale (una sorte di notte dei morti viventi), erano diventati apparentemente sudditi autonomi e in realtà complici sottomessi del Reich. Non esisteva insomma più il fascismo, ma il nazifascismo, realtà politica disordinatamente e ferocemente omogenea.
Nel libro di Dondi si potevano e si possono così trovare il funzionamento e gli esiti della giustizia nel dopoguerra, ma anche la dimensione talora insurrezionale acquisita dalla liberazione. E immediatamente dopo, le statistiche e le cifre (nonché le notizie sui singoli avvenimenti) relative a quell’ «immediatamente dopo», dilatatosi peraltro nel tempo. Infine la dimensione «inerziale» della violenza al momento della smobilitazione e del disarmo normalizzante, senza che venga da Dondi trascurata, di tale violenza, la dimensione per così dire «residuale», spontaneamente diffusasi in varie aree territoriali del centro e del nord, una dimensione, quest’ultima, con velleità parapolitiche, confusamente «di classe» e incontrollate dall’alto. Di violenza intermittente, e nei fatti multiclassistica, si può infatti discorrere per il 1945-47, e non di rivoluzione proletaria organizzata e socialisticamente finalizzata. Né si dimentica ciò che spesso viene pudicamente dimenticato, vale a dire la presenza di una delinquenza comune trasformatasi, tra fame e assenza di ordine tutelato, in banditismo sbandato e in brigantaggio. Nell’Italia già liberata prima della liberazione (il Mezzogiorno) sono del resto già numerose le denunce dei vescovi in merito all’intensificarsi di omicidi, furti, mercato nero, miseria, egoismo padronale, prostituzione. Ma incomparabilmente maggiore, e senza possibilità veruna di confronto, rispetto alla violenza «cinetica» e spesso meccanicamente vendicatrice verificatasi dopo la liberazione, risulta invece la colossale violenza subìta dai militari e dai civili in guerra (compresi i bombardamenti) e nel corso dell’occupazione nazista (comprese le detenzioni nei Lager del duce e le numerosissime deportazioni).
Il decennio concluso dal libro di Dondi era stato ad ogni buon conto iniziato, sul terreno storiografico, dal gran libro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991). Si era, all’inizio degli anni ’90, arrivati a un periodo in cui non esistevano più la cancellazione «centrista» della Resistenza avvenuta negli anni ’50 e l’istituzionalizzazione algidamente avviata negli anni ’60 dai governi di centro-sinistra (quando il documento da consultare diventava irrigidito monumento ufficiale). E non esistevano più neppure i vivaci tentativi di emulazione radicalizzante - implicanti la transizione dalla Resistenza tricolore alla «Resistenza rossa» - effettuati negli anni ’70, così come la normalizzazione marginalizzante degli anni ’80. Con il richiamo alla «guerra civile», Pavone infrangeva un tabù difeso da gran parte degli antifascisti, e con il richiamo alla «moralità» riapriva il discorso su un’Italia nuova che aveva portato a termine quella rivoluzione liberale che Gobetti aveva individuato come disastrosamente tradita dopo (e durante) il Risorgimento e l’unificazione. Tre guerre, d’altra parte, secondo Pavone, avevano segnato e disegnato i venti mesi della lotta partigiana: la guerra patriottica, la guerra civile, la guerra di classe. La complessità multiforme di un periodo intensissimo, cui erano succedute la repubblica e la costituzione democratica (le vere vincitrici del processo), veniva così messa in luce.
Nel 1997 uscivano poi vari libri che collegavano la guerra civile alla guerra ai civili. Penso a La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, a cura di Leonardo Paggi (La Nuova Italia), a Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (Donzelli), a Paolo Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca (il Mulino). E ad altri libri ancora. Fino a quel momento erano mancati lavori sull’occupazione nazista (con fonti tedesche) e sulle cause delle numerose stragi di civili (da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto). Erano mancati anche lavori sui percorsi, non sempre univoci, della memoria delle vittime. Ora si poteva seguire la «comunità» militare nazista, e fascio-collaborazionista, mentre diventava «orda» assassina. La Wehrmacht risultava non meno coinvolta negli eccidi rispetto alle SS. E il fenomeno si disvelava accaduto in concomitanza con la troppo lenta catastrofe del Reich.
Era ormai maturo l’approdo alla lunga liberazione e a quel dopoguerra la cui violenza non fu nuova, ma causata da quel che era accaduto negli anni precedenti. Il libro di Dondi rappresentò al meglio questo approdo. Fu forse inevitabile, nel gran circo mediatico, che dalla storiografia si passasse allo scandalismo appunto mediatico. Arrivò così nel 2003, tra splatter esibito e uso sbagliato di fonti e numeri (i 9364 uccisi diventano 19.801), il libro romanzesco - il primo libro in questa direzione - di Giampaolo Pansa, un prodotto in tutto e per tutto nettissimamente inferiore, anche nello stile, a Sangue chiama sangue (1962) del fascistissimo Giorgio Pisanò, volume che era stato presentato come una lunga ricostruzione, già uscita a puntate su Gente nel 1960 in chiave schiettamente repubblichina, della violenza posta in essere dai partigiani durante e dopo la guerra di liberazione. La storiografia, però, nonostante Pansa, destinato in futuro ad essere dimenticato nonostante la gran mole di copie vendute, ha proseguito il suo lavoro. Ed è la storiografia ciò che, malgrado le grottesche minacce «manualistico-scolastiche» di Dell’Utri (sedotto più da Pansa che da Pisanò), resterà nel tempo e con il tempo. Si veda ora, tra i molti libri usciti nel nuovo secolo, Guido Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia (Donzelli, 2007). Il tragitto indicato da Pavone, da Dondi, e da moltissimi altri, giovani e meno giovani, ci dimostra insomma che la Resistenza, incancellabile, è all’origine della nostra identità repubblicana ed europea. L’unica identità culturalmente solida, e politicamente democratica, che abbiamo e avremo.

l’Unità 24.4.08
I loro obiettivi: 25 aprile e Costituzione
di Giancarlo Ferrero

La libertà è come l’aria: ci si rende conto che è essenziale solo quando manca. Per questo l’anniversario della Liberazione deve essere solennemente celebrato, per non dimenticare mai ciò che avevamo perduto e per rinnovare la nostra gratitudine verso coloro che hanno combattuto per ridarcela. Legato a questo dono è il testamento lasciatoci dai nostri padri della Patria: la Costituzione, cioè le fondamenta della costruzione repubblicana, la casa ideale in cui da oltre mezzo secolo viviamo e che abbiamo il dovere di custodire con cura. Purtroppo in un periodo di grande sciatteria morale, intellettuale e culturale come quello che stiamo attraversando, non sempre si è in grado di coglierne il valore e la bellezza che l’accompagna soprattutto nella prima parte, quella dei principi fondamentali assolutamente intoccabili perché caratterizzano il nostro Stato (se, con un colpo di mano venissero alterati o modificati, cambierebbe il tipo di Stato). Se si leggono i lavori preparatori della Carta Costituzionale si resta sbalorditi dalla profondità di pensiero dei partecipanti, dalla loro onestà intellettuale, dalla capacità di ricercare un linguaggio forbito, ma chiaro, con una proprietà terminologica degna del migliore linguista. Pochi sanno che compiuta la stesura, il testo della Costituzione fu sottoposto all’esame di insigni linguisti, in modo che la Carta fondante il nostro ordinamento giuridico fosse non solo “buona”, ma “bella”.
Con l’incoscienza e la presunzione propria di chi non sa, alcuni improvvisati “restauratori” del passato hanno tentato in pochi, in breve tempo ed in anomalo spazio di modificare quest’opera grandiosa che è la nostra Costituzione, frutto del lavoro congiunto di 556 membri di altissima levatura intellettuale e culturale, con la collaborazione esterna delle università, dei giuristi, degli avvocati, rivelando una straordinaria capacità di conciliare posizioni ideologiche diverse, con la ferma volontà di dettare norme giuridiche sintetiche e facilmente comprensibili.
Non ogni articolo, ma ogni parola dei 139 articoli è pesata, analizzata e vagliata singolarmente e nel suo contesto globale perché possa garantire la massima rispondenza sociale e giuridica al comune intento. Sarebbe impossibile, per l’inadeguatezza di chi scrive e per ovvi motivi di spazio, fornirne un’ampia dimostrazione; è sufficiente richiamare sia pur velocemente i primi tre articoli. Art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Perché l’Italia anziché “lo Stato italiano”? Una differenza tutt’altro che casuale: si è voluto così sottolineare l’identità etnica e l’unità spirituale della nazione quale espressione e punto di arrivo del processo di unificazione che ha portato alla nascita della nazione italiana. Di qui la sua implicita indivisibilità dello Stato, che viene espressamente sancita dall’art. 5 la cui lettura non può essere disgiunta da quella del citato art. 1. Il termine “Stato” è riservato alla designazione della parte dell’ordinamento giuridico che attiene alla complessa struttura centrale dell’apparato a cui è riconosciuta personalità giuridica. Il termine “Repubblica” sta, invece ad indicare un concetto più vasto, lo “stato Comunità” che riguarda tutte le istituzioni pubbliche secondo il criterio pluralistico indicato poi dall’art. 5, quindi non solo gli organi centrali, ma anche quelli periferici in conformità al principio delle autonomie locali e dei servizi decentrati (per cui il nostro ordinamento è quello di uno “Stato composto”).
Art. 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Un articolo il cui altissimo valore morale (il richiamo ai principi del Vangelo è spontaneo) illumina come un faro dalla luce potentissima il porto a cui deve sempre dirigersi il cammino istituzionale e quello dei cittadini. I costituenti hanno voluto appositamente collegare l’aggettivo “inviolabile” dei diritti fondamentali dell’uomo con quello di “inderogabile” dei doveri perché, come è stato autorevolmente scritto «nessuna democrazia può riuscire vitale se non sia sussidiata da un saldo e diffuso spirito civico, da una virtus che alimenti la coscienza dei singoli e ne ispiri i comportamenti secondo un principio di solidarietà». Si badi bene: si parla di “uomo” non di “cittadino” e si richiamano i diritti al plurale tra i quali va certamente incluso anche quello di avere una vita dignitosa che possa consentire a chiunque di realizzare la propria personalità. Sui doveri a cui fa riferimento l’articolo dovremmo tutti fare un onesto e doloroso esame di coscienza, siamo ben lontani dall’esercitare una effettiva solidarietà che troppo spesso anziché concepirla come un preciso dovere di cittadini confondiamo con l’appagante gesto di carità.
L’art. 3 recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzioni. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza». È questo l’articolo più frequentato nelle nostre coscienze e nell’aula della Corte Costituzionale perché più numerose e gravi sono le sue infrazioni che avvengono quotidianamente e di cui siamo diretti ed indifferenti testimoni.
In un agile volumetto «La mia Costituzione» Oscar Luigi Scalfaro dà un’intervista toccante sulle fasi di preparazione della Carta, non mancando di far sentire tutto il suo spirito cristiano ed il suo profondo senso dello Stato e della politica. In un momento come quello attuale contrassegnato da una mancanza di valori, da un’incultura che rasenta e a volte supera la rozzezza, da una politica che ha perso il senso e lo spirito originario di buon governo della cosa pubblica, da un dissennata corsa verso i fuochi fatui del successo e del consumismo, la lettura attenta della nostra bella Costituzione nel suo anniversario può essere un segno di speranza per il futuro, un lenimento per la nostra disaffezione e delusione politica, mentre la sua difesa deve costituire un impegno primario per tutte le persone che ancora credono nell’uomo e vogliono che la politica sia fatta per lui e non viceversa.

l’Unità 24.4.08
«Assumere più non-obiettori per rispettare la 194»
Ignazio Marino: il boom di chi dice «no» agli interventi abortivi?
Gli ospedali devono garantire medici per le Ivg, la legge va applicata
di Cristiana Pulcinelli

SECONDO i dati forniti dal ministero della Salute, i ginecologi obiettori di coscienza sono moltissimi: nel 2007 hanno raggiunto quasi il 70%. Questo vuol dire che la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza è sempre più difficile da applicare. Come si è
giunti a questo punto? Il senatore Ignazio Marino ha una sua interpretazione: «Credo che il dato più rilevante sia l’aumento del numero di obiettori. Questo fenomeno ci indica che anche chi inizialmente non aveva fatto la dichiarazione di obiezione di coscienza, a un certo punto ha deciso di farla»
Perché?
«In alcuni luoghi i medici non obiettori sono davvero pochi. Ci sono grandi ospedali che ne hanno due o tre, i piccoli ospedali possono averne anche solo uno. Un professionista che, per una situazione contingente, si trovi ad essere l’unico non obiettore, dovrà tutti i giorni eseguire solo aborti. Dal punto di vista professionale e umano questa situazione potrebbe spingerlo a dire: faccio anch’io l’obiettore. Io sono dell’opinione che uno stato laico debba avere una legge sull’aborto, ma non posso non immaginare che, così come per la donna l’aborto è sempre una sconfitta, per un medico sia psicologicamente difficile accettare di fare queste procedure tutti i giorni per tutti gli anni della sua vita professionale».
Si può pensare che qualche medico faccia l’obiettore nella struttura pubblica dove lavora e poi pratichi le interruzioni di gravidanza in privato?
«È un discorso delicato. C’è stato un fatto di cronaca che ha messo in evidenza una situazione di questo genere. Ma, in generale, immagino e spero che, se questi fatti esistono, siano marginali».
Che ne pensa dell’ipotesi di istituire un albo dei ginecologi obiettori in modo che sia garantita la trasparenza delle scelte?
«Per la verità, l’informazione è già in parte pubblica. Il medico infatti deve fare la sua dichiarazione all’ordine dei medici. Teoricamente, quindi, un’anagrafe esiste: basta che si risalga ai documenti. Credo però che il problema sia un altro. E cioè organizzare le cose in modo da fornire la garanzia nei confronti dei cittadini che la legge venga rispettata su tutto il territorio nazionale».
Come si può ottenere questo risultato?
«Il problema è che ci troviamo di fronte a una procedura che viene percepita come una sconfitta, ma che, secondo una legge, deve essere garantita. Quindi chi ha compiti istituzionali, come il direttore generale di un ospedale, ha tra i suoi doveri quello di avere il personale per eseguire le interruzioni di gravidanza. E lo deve fare anche programmando le assunzioni».
In sostanza, dovrebbe assumere preferenzialmente chi non è obiettore?
«Mi rendo conto che questa mia affermazione può espormi a delle critiche, ma se è vero che esiste la coscienza individuale esiste anche il problema di far rispettare le leggi di uno stato laico. Ricordo sin troppo bene quando mi trovavo a Roma negli anni Settanta. Ero appena laureato e l’aborto non era legale. In quel periodo ho visto arrivare in ospedale diverse ragazze con l’utero perforato dagli aghi delle mammane. Alcune di esse le ho anche viste morire per emorragia. Chi aveva soldi invece andava a Villa Gina dove l’aborto si praticava a pagamento, ma clandestinamente. Non credo che uno stato possa tornare indietro a quei tempi».

l’Unità 24.4.08
Morire con dignità, la Spagna ha il testamento biologico
Il provvedimento non prevede nessuna forma di eutanasia
I cittadini registreranno le loro volontà presso gli uffici sanitari
di Toni Fontana

DA IERI, in tutta la Spagna, è ammesso, tutelato e aiutato dalle istituzioni locali, il «testamento biologico» che permette a ciascun cittadino di «morire dignitosamente». Ogni spagnolo può compilare, presso gli uffici provinciali della Sanità, un modulo nel quale specifica fino a quando, in caso di grave
malattia, intende avvalersi dei trattamenti medici. Si conclude così un complesso iter legislativo iniziato nel 2002 quando il Parlamento spagnolo approvò la «legge sull’autonomia del malato» che entra in vigore ora perché tutte le regioni non solo l’hanno recepita, ma hanno completato l’istituzione dei «registri regionali». I dati raccolti confluiranno in un registro nazionale che già riunisce le volontà di 35.500 spagnoli che si sono rivolti ai servizi delle 12 regioni che hanno anticipato l’entrata in vigore della legge.
Il provvedimento non va confuso con quelli che giacciono nel parlamento spagnolo, e riguardano il diritto all’eutanasia attiva e passiva. La legge da ieri operativa in Spagna è stata approvata negli anni del governo della destra, è estremamente restrittiva ed è criticata aspramente da associazioni che si battono per i riconoscimento dell’eutanasia. Dmd (Diritto di morire dignitosamente, dmdmadrid@eutanasia.ws) giudica «burocratico e poco pratico» il provvedimento che contiene limitazioni molto evidenti. Il malato può indicare senza censure e limitazioni la propria volontà, ma con due precise restrizioni: non può sollecitare l’eutanasia, né attiva, né passiva, e non può segnalare nel testamento «trattamenti contrari alle buone pratiche mediche». Non solo. Il parere del medico rimane in ogni caso vincolante e prevalente su quello del malato.
Il medico può dunque decidere di proseguire i trattamenti anche se nel testamento biologico è specificata una volontà opposta. Le associazioni fanno per questo notare che «l’esistenza del testamento biologico non garantisce la sua attuazione».
Dmd cita un caso: «Un uomo gravemente malato è stato ricoverato all’ospedale La Paz di Madrid. Una delle due figlie, iscritta all’associazione “morire dignitosamente”, si è espressa per la sospensione dei trattamenti, l’altra si è detta contraria. I medici hanno accolto la volontà di quest’ultima». Da queste considerazioni appare chiaro che è decisivo che il cittadino possa esprimere in modo chiaro e inequivocabile le proprie volontà utilizzando moduli e formulari facili da compilare. Quello definito nella regione delle Asturie lascia ad esempio molti spazi liberi e permette a chi lo compila di scrivere ciò che vuole. Le associazioni ritengono però indispensabile specificare il «grado di infermità mentale e di senilità e i danni cerebrali» e che ciò vada fatto «con l’assistenza del medico curante che deve indicare i trattamenti che vengono somministrati al malato». Dmd tiene un archivio centrale parallelo a Barcellona fin dagli anni 60.
I pareri degli esperti sono discordi sulla legge entrata in vigore ieri. Marsa Iraburu, esperta di bioetica, la ritiene una buona legge «sufficiente nella maggioranza dei casi quando la famiglia si esprime per la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione». Meno favorevole il parere di Marcelo Palacios, presidente della Società Internazionale di Bioetica (Sibi), nominato nel dicembre 2007, membro del Comitato di Bioetica e consulente del governo: «Una persona in stato terminale - afferma - non muore perché viene sospeso il trattamento, ma perché stava in stato terminale. Io rivendico il diritto di poter decidere quando lasciare la vita, quale ultima immagine di me voglio lasciare ai miei amici e ai miei figli». Il tema dell’eutanasia non è stato al centro della campagna elettorale che si è conclusa il 9 marzo con la vittoria di Zapatero. Solo la sinistra radicale (Iu) ne aveva fatto cenno nel suo programma.

l’Unità 24.4.08
Quel che resta dell’Unione
di Luigi Cancrini

L’articolo firmato dal Direttore Antonio Padellaro su l’Unità di sabato 19 Aprile apre un dibattito interessante, a mio avviso, su quello che è accaduto in questi mesi nell’ambito della sinistra. A tale dibattito vorrei dare il mio contributo: da uomo che alla sinistra ha sentito sempre di appartenere oltre che da deputato uscente e ora non rieletto dei Comunisti Italiani.
L’osservazione di Padellaro su cui concordo è quella di partenza. Nel momento in cui valutiamo questo risultato elettorale, il confronto più utile non è quello che riguarda la forza relativa dei singoli partiti. Nel 2006 l’Unione guidata da Prodi superò di poco (molti parlarono di sostanziale pareggio) la Casa della Libertà guidata da Berlusconi. Due anni dopo i partiti che si riconoscevano nel programma dell’Unione hanno il 14% in meno di quelli che si riconoscevano nelle posizioni della Casa della Libertà. Quello cui siamo di fronte è un vero e proprio rovesciamento della situazione. Il fatto che si sia verificato in soli due anni ne rende ancora più evidente la criticità. Spiegarlo è fondamentale, soprattutto per chi ha perso.
Il primo elemento da considerare è quello legato all’impressione destata negli elettori dal Governo Prodi. Padellaro ha ragione notando che le divaricazioni fra le forze che lo sostenevano hanno determinato un clima di sfiducia, un sentimento di precarietà, l’immagine di un esecutivo messo in difficoltà dalle polemiche fra i ministri e i leader dei partiti. La discussione era inevitabile, tuttavia, all’interno di un’alleanza fra forze che rappresentavano cultura e interessi a tratti divergenti e il miracolo di Prodi è stato quello di trovare sintesi costruttive fra posizioni diverse. Quando si votò (febbraio 2007) il rinnovo delle missioni estere, per esempio, la richiesta nostra di una Conferenza internazionale sull’Afghanistan e di una limitazione del nostro impegno come “costruttori di pace” vennero accolte volentieri da D’Alema e migliorarono il testo di legge varato dal Governo. L’idea, in linea con la Costituzione, era quella per cui un dibattito parlamentare può modificare in meglio un provvedimento governativo. Stampa e televisioni ne parlarono tuttavia (con l’eccezione proprio de l’Unità) come di una prova di debolezza del Governo e del suo andare avanti per compromessi: come costantemente hanno fatto per due anni, del resto, nel bene (perché questa maggioranza ha fatto cose buone come la legge sulla sicurezza del lavoro) e nel male (perché gli errori ci sono sempre: soprattutto se si corre sul filo di un equilibrio continuamente a rischio). Con una tendenza sempre più forte a criticare in modo violento e sarcastico, aggressivo e irridente, tutto quello che veniva proposto da Prodi: un uomo politico diverso dagli altri perché capace di pensare e di problematizzarsi anche in diretta televisiva, senza preoccuparsi del fatto che in televisione si dovrebbe essere (o fingere di essere) sicuri e rassicuranti. Comunque lo si giudichi, tutto questo ha contribuito a far perdere voti all’Unione favorendo il ritorno di Berlusconi: come ben dimostrato dai sondaggi che, per tutto il 2007, hanno segnalato, per l’Unione, una diminuzione di consensi vicina all’8-10%. Cosa è accaduto dopo, tuttavia?
La mia analisi differisce, su questo punto, da quella di Padellaro perché quella che a me sembra più importante, nella storia di questi ultimi mesi, è la breccia aperta, sul fronte dell’Unione, dalle posizioni della sua componente più forte, quella del Pd. Da quando è stato eletto segretario, Veltroni ha salvato sì Prodi ma ha criticato impietosamente e quotidianamente Governo e maggioranza: legittimamente ma con conseguenze forti sulla compattezza di un fronte che si è dissolto, non è esistito più, dal momento in cui, dopo l’incontro “istituzionale” con il leader dell’opposizione, Veltroni ha proposto quello slogan maledetto, quel «noi correremo comunque da soli» che da solo è stato sufficiente a dire che l’Unione non aveva più ragione di esistere. Nulla c’era in realtà se non la presa di posizione di un leader dietro questa dichiarazione che tanto profondamente innovava sulle strategie congressuali dei Ds e della Margherita e degli altri partiti dell’Unione ma la debolezza delle reazioni degli altri (dalla Bindi a D’Alema, da Fassino a Letta) e il silenzio malinconico di Prodi (che ha visto chiudersi in quel momento la fase della sua leadership morale nel nuovo partito) hanno fatto sì che quella frase diventasse l’ostacolo decisivo, insieme alle bizze di Dini, per la sopravvivenza di un Governo (da cui Mastella si dissociò per questo motivo prima che per la mossa incauta dei giudici di Santa Maria Capua Vetere) e di una legislatura comunque troppo breve.
Le responsabilità non sono solo di Veltroni e del Pd ovviamente. Errori importanti sono stati compiuti anche al centro e a sinistra. Il punto su cui dobbiamo riflettere, tuttavia, è se il Pd vorrà davvero continuare a “correre da solo”, considerando inutile o controproducente il pensiero e il voto di chi crede ancora nei partiti della sinistra. Usato all’interno di una fase elettorale convulsa, il tema del “voto utile” ha permesso a Veltroni ed ai suoi di limitare i danni sostituendo i voti persi al centro con quelli di questi partiti. Poiché il voto non è stato davvero “utile” per vincere, tuttavia, molti sono oggi quelli che avendoci creduto, si sentono ingannati.
Partiamo da qui dunque, dall’idea per cui tutti, in modi diversi, abbiamo contribuito al disastro del 13 e del 14 aprile. La domanda che dobbiamo porci oggi e nei prossimi mesi, caro Direttore, resta quella che riguarda il futuro della sinistra considerata nel suo complesso. Insisterà ancora il Pd, preparando le Europee del 2009 e le regionali del 2010 sul tentativo di presentare come irrilevanti e fuori della storia gli alleati con cui ha governato fino a ieri l’intero Paese e con cui ancora oggi governa Regioni, Comuni e Province in tutta Italia? L’Unione in cui in tanti tanto abbiamo investito in questi ultimi anni scommettendo, da posizioni diverse, su Prodi e sulla sua strategia politica, esiste ancora o è definitivamente tramontata? A domande come questa sarebbe opportuno, a mio avviso, che anche il Pd rispondesse interrogando tutti i suoi elettori ed i suoi iscritti nell’ambito di un vero Congresso.

Repubblica 24.4-08
La Lega e Carlo Marx
di Nadia Urbinati

Le analisi via via più puntuali dei risultati elettorali dimostrano che operai e casalinghe hanno votato per il partito più radicale e populista della coalizione di centrodestra, premiando un messaggio a un tempo liberista e razzista.
Questi dati hanno provocato una giustificata cascata di commenti e interpretazioni. Autorevoli opinion maker e uomini pubblici si sono improvvisati filosofi della storia per dare un tono di fatale verità alle loro dichiarazioni: il mercato ha sconfessato Karl Marx dimostrando che imprenditori e operai hanno gli stessi interessi perché hanno gli stessi avversari; gli avversari sono lo stato che tassa e mette regole ma che nel contempo non riesce a controllare le frontiere.
E nemmeno a tener fuori prodotti e manovalanza a basso costo; e infine e soprattutto lo stato sociale che con le sue politiche dei servizi sociali è reso colpevole di debilitare la solidarietà locale e le reti comunitarie di sostegno ai bisognosi. Il messaggio che viene dalla cascata di voti rastrellati dalla Lega Nord anche in regioni di consolidata tradizione socialdemocratica come l´Emilia-Romagna, sarebbe dunque questo: il mercato deve riportare lo stato alla sua vocazione originaria, quella che aveva prima della formazione dello stato-nazione e della conversione bismarkiana dei governi europei; deve tornare ad essere un sistema coercitivo che si occupa esclusivamente di difendere diritti civili di base e che investe le proprie risorse nella sicurezza dei cittadini e nella difesa delle frontiere. Lo stato non deve più occuparsi di giustizia sociale e di ridistribuzione della ricchezza tra i "figli uguali della nazione", come èstato costretto a fare negli anni della ricostruzione del dopo guerra. Non deve più essere ostaggio delle illusioni socialdemocratiche per la ragione assai semplice che non c´è alcun problema di ingiustizia sociale a cui rimediare, ma solo la sfortuna e la disgrazia del bisogno: piaghe fatali che l´umanità ha ereditato dalla caduta di Adamo ed Eva e che la carità del buon samaritano può curare molto più umanamente di uno stato dispensatore di servizi di cittadinanza. Questa è la lezione filosofica che ci viene dalle recenti elezioni.
Comunitarismo e liberismo sono naturalmente alleati, soprattutto quando, come in questo scorcio di modernità, le coordinate tradizionali della politica (gli stati nazione) non sono in grado di far fronte ai rischi e alle sfide della mondializzazione. Ma contrariamente ai vaticini dei filosofi d´occasione, Marx aveva visto giusto. Il suo Manifesto è l´earthlink del nostro tempo, una lente che zumma dal pianeta alle sue periferie e viceversa, dandoci immagini nitide di come siamo. Ci fa vedere come l´integrazione globale dei mercati stia insieme a un ricompattamento comunitario locale; come l´espansione a macchia d´olio delle metropoli si affianchi a periferie selettive e chiuse (i sobborghi americani creati ex novo e protetti come cittadelle medievali, con cancelli, guardiani e visti d´ingresso); come la diffusione planetaria di una cultura di massa e di una lingua (quella inglese) si integri alla rinascita di linguaggi e culture locali, spesso permeabili solo a chi li pratica quotidianamente (come molti cartelli stradali nei villaggi e nelle campagne del Nord-Est). In questa schizofrenia le solidarietà trasversali, per intenderci quella cultura etica universalista sulla quale la "classe operaia" aveva definito la propria identità e lo stato sociale le proprie politiche di giustizia, appaiono inattuali, inefficaci, e perfino tirannici. La libertà contro lo stato sociale (non contro lo stato gendarme) è la sola forte libertà che le destre liberiste-comunitarie esaltano e vogliono proteggere.
Se le questioni sociali sono questioni di povertà e carità volontaria non più di giustizia sociale, la classe operaia non ha più senso di esistere. Essa non è altro che una fascia di basso reddito misurata dalle statistiche, l´insieme delle famiglie povere o a rischio di povertà, gente (non classe) che arranca a fine mese su bollette e debiti, che si ciba a costo quasi zero della cultura pop-global televisiva, che si sente pericolosamente tallonata dall´immigrato low-cost e si fa razzista. Si fa alleata di quegli imprenditori che vogliono le frontiere chiuse ai beni cinesi e indiani. Una prova di questa trasformazione ci viene ancora una volta dagli Stati Uniti, che per la loro enorme geografia sono stati a buon diritto un laboratorio del globale-locale fin dai primi del Novecento; qui la classe operaia non è mai riuscita a costruire una solidarietà universale-nazionale proprio perché l´immigrazione permanente ha reso impossibile conquistare e difendere regole e diritti sociali a protezione dei lavoratori. Il mercato del lavoro come uno stato di natura dove il vicino è un potenziale nemico, non un alleato di classe.
Dunque, una storia globale, non italiana. Una storia globale che mostra però i propri effetti laddove le persone vivono: nelle città e nei paesi, non nel generico globo. La politica dei "muri" che la caduta del muro di Berlino ha generato esemplifica molto bene questa storia. Muri sono in costruzioni in molti luoghi del mondo: per dividere stati e popoli, ma anche quartieri di una stessa città come a Padova, dove gli italiani hanno in questo modo cercato di "proteggere e separare" se stessi dai vicini residenti di origine extra-Europea. Se il muro di Berlino doveva bloccare il diritto di uscita ai sudditi della Germania comunista, questi nuovi muri protezionistici dovrebbero ostruire l´entrata ai migranti o rendere la loro vicinanza invisibile o meno visibile.

I muri anti-immigrazione, come quello spettacolare che la California ha costruito sui confini con il Messico, sono un modo molto concreto per dire che coloro che li innalzano pensano che potranno preservare i loro piccoli e grandi privilegi se e fino a quando solo loro ne godranno. Mettono in evidenza una delle più stridenti contraddizioni che affliggono le nostre affluenti società democratiche: quella tra una cultura raffinata che condivide valori universalistici e cosmopolitici e che resta comunque una minoranza (spesso snob), e una diffusa cultura popolare che mentre si appaga del consumismo globale è atterrita dalla globalizzazione, teme fortemente l´incertezza economica e sviluppa un attaccamento parossistico ad un benessere che appare sempre più risicato, fragile e temporaneo. Come si legge nel troppo poco letto Manifesto di Marx, alla crescita inarrestabile di un´uniformità globale si affianca la crescita di un´evidente resistenza del locale: nascono nuovi nazionalismi, il razzismo, la nostalgia per comunità pre-moderne come il borgo e le chiese. E a questi parossismi una parte dell´impresa capitalistica (quella piccola e media) ha un naturale interesse ad allearsi perché il mercato globale è una bestia selvaggia contro la quale trova altro rimedio se non il vecchio stato poliziotto. La classe operaia è un anacronismo, dunque, ma non perché non c´è più diseguaglianza di potere e c´è comunanza di interessi, ma perché questa diseguaglianza è stata tradotta in termini morali e apocalittici: una questione di sfortuna, di migrazioni bibliche, di scenari finanziari in permanente rischio di crollo. In questo panorama, il linguaggio della politica e del riformismo appare inefficace e fuori posto mentre quello populista avvince e unisce. Eppure, gli esseri umani non dispongono che di ragione pubblica e linguaggio politico per governare le loro società in modi civili e senza rinunciare a limitare le ragioni di sofferenza e dare a tutti la possibilità di vivere con umana decenza e dignità.

Corriere della Sera 24.4.08
Sicurezza. L'ordine del giorno firmato anche dalla cognata di Casini
Vigili con manganelli e spray Il via libera di Bologna
Intesa tra il Pd e l'Udc. Il no di Rifondazione
di Elsa Muschella


Il Pdl: traditori, quando l'abbiamo proposto noi la maggioranza ci rispose che non c'erano le condizioni politiche
MILANO — Se nella «rossa» Bologna la giunta comunale sta sperimentando nuovi orizzonti politici, è tutto dovuto a spray al peperoncino e manganello (o meglio «bastone distanziatore», per non incorrere in questioni ideologiche). Il legame tra Pd e Udc — auspicato da Veltroni e accolto finora con cautela da Casini — a Palazzo Accursio ha già l'ufficialità di un vero e proprio asse: il via libera alle misure di sicurezza supplementari per i vigili urbani, infatti, porta in calce a un ordine del giorno le firme di Claudio Merighi, capogruppo del Pd in Comune, e di Silvia Noè, consigliera comunale e regionale dell'Udc nonché cognata del leader nazionale Pier Ferdinando.
La decisione è riuscita a far infuriare praticamente mezza giunta. Intanto perché la Noè ha incassato sì il benestare del suo partito ma fa formalmente parte del gruppo «La tua Bologna», la lista civica legata all'ex sindaco Guazzaloca che invece di appoggiare la scelta ci tiene a prendere le distanze: «Quei due vogliono affossarci — dice il capogruppo Alberto Vannini — ma io non voglio fare la testa di legno: non sarò per forza a capo di un lista civica che poi si trasforma in partito».
In più, proprio sulla questione sicurezza, il vecchio scontro con il centrodestra non si è mai sanato. A luglio, un pacchetto simile era stato trattato dal Pd con An e aveva persino ricevuto il benestare di Fini. Alla fine però Cofferati non firmò l'intesa. Ecco perché oggi molti sputano veleno sull'accordo ma non disdegnano, in linea di principio, spray e bastoni distanziatori: «Qui si sta parlando di ipocriti e traditori — dice l'onorevole Enzo Raisi, presidente di An in consiglio comunale —: quando abbiamo proposto la stessa cosa, il Pd ci rispose che non c'erano le condizioni politiche per portare avanti la proposta e l'Udc gridò allo scandalo solo perché c'eravamo seduti davvero, al tavolo sulla sicurezza con Cofferati». Per questo il centrodestra è intenzionato a votare contro il documento, a meno che — concede Raisi — «Pd e Udc non approvino un mio emendamento in cui ci riconoscano la paternità del progetto e ci chiedano scusa per averlo rifiutato 9 mesi fa. Ma tanto l'Udc ormai è persa alla causa, voglio proprio vedere quanto durerà questo idillio».
Insomma, a Bologna è tutta una questione di priorità e riposizionamenti strategici. Anche il guazzalochiano Vannini, infatti, dice «assolutamente sì a spray e manganello» ma ciò che proprio non concepisce sono «i teatrini della politica»: «Una volta di qua, una volta di là e si finisce con un ordine del giorno che non porterà mai a nessun provvedimento. Perché ai vigili invece non ci pensa Cofferati con una bella delibera? Passerebbe di certo».
Al riflesso che l'intera vicenda potrebbe avere a livello nazionale sembra non pensarci nessuno. Ma dopo le pattuglie di «assistenti civici» presentate dall'assessore alla Sicurezza Libero Mancuso, è rimasto solo il Prc a denunciare la «pericolosissima rincorsa a destra » di Bologna: per il capogruppo Roberto Sconciaforni «gli spray, i manganelli, le ronde di studenti e pensionati, dimostrano solo il misero tentativo del Pd di inseguire la Lega. Faremo di tutto perché non passino».

Corriere della Sera 24.4.08
Una tappa fondamentale della nostra storia: dai divieti del Concilio tridentino alle aperture di Pio XII
Così i filologi conquistarono la libertà
Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture
di Luciano Canfora

È una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l'autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle «scritture» dette appunto «sacre»: un aggettivo che di per sé scoraggia la critica. E l'antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di tale libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» a fronte del rigoglio di narrazioni biografiche sulla persona dell'iniziatore della setta (Gesù) alla «stretta» tridentina che sancì l'assoluta prevalenza della Vulgata di Girolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede imbarazzata il passo all'irresistibilità della critica testuale, dopo circa quattro secoli, con l'enciclica di Pio XII, Divino afflante spiritu, del 30 settembre 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l'esercizio della critica testuale sul
corpus antico e neotestamentario.
Il cammino fu molto accidentato e il riconoscimento di aver sbagliato non fu mai esplicito. Le parole pronunciate dal dotto e facondo pontefice il 30 settembre 1943 furono: «Oggi dunque, poiché quest'arte (cioè la critica testuale, nda) è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Libri sacri, sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme». E subito precisava: «(edizioni) tali cioè che con una somma riverenza al sacro testo congiungano una rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Precisazione sintomatica, oltre che imbarazzante. Per coglierne l'assurdità, basta immaginarla applicata ad altri testi che abbiano anch'essi dato origine, via via nel tempo, a «scuole», seguaci, esegeti, ortodossi e non. Si pensi per esempio al corpus platonico e al suo più che millenario sviluppo, e ben si comprenderà l'effetto insensatamente contraddittorio dell'invito a coniugare «riverenza al sacro testo » e «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». O si dovrà pensare che un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al «verbo» del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista
già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico).
Ovviamente c'è un sofisma cui affidarsi per cercare di tamponare la contraddizione. Che cioè solo quei testi (sacri, com'è noto: quelli inclusi nel canone cattolico) contengono «la verità», in ogni loro parte; il che dovrebbe comportare che perfetta ricostruzione del testo e perfetta aderenza al verbo rivelato, a rigore, coincidano. Infatti è assioma che la verità si esprime in un unico modo. Ma è evidente la petitio principii. Solo dopo aver ricostruito il testo si dovrebbe approdare (eventualmente) a scoprire quale verità esso contenga, e, successivamente, alla conclusione che esso — ed esso soltanto — contiene la verità. Invece qui c'è, sottintesa, la pretesa aprioristica che lì (e non altrove) ci sia la verità. Una «verità» data e precostituita e testualmente compiuta già prima della ricostruzione del testo. Oltre alla petitio principii ci sono poi difficoltà di ordine storico. Quei testi infatti: a) sono stati spiegati in modi vari dalle differenti confessioni e sette staccatesi via via dal ceppo «cattolico» (il che di per sé dimostra che essi potenzialmente contengono diverse verità e non di rado in contrasto tra loro); b) sono stati accompagnati, nel corso della tradizione, da numerosi altri testi consimili ma non coincidenti con quelli proclamati poi «canonici ». Alcuni, e non altri, a un certo punto furono espulsi dal «canone». Il che — oltre a rappresentare un'ulteriore petitio principii — per giunta accadde in un'epoca in cui già non esisteva più univocità testuale nemmeno dei libri inclusi nel «canone ». In tali condizioni, a maggior ragione, il richiamarsi a una prestabilita, unica, «verità» testuale racchiusa in quei libri appare immetodico.
Ma forse è superfluo insistere su questo punto così vulnerabile. Esso è inevitabilmente presente fintanto che quei testi vengono gravati di un peso e di un significato superiore rispetto a quello di tutti gli altri. Una pretesa di superiorità che automaticamente impaccia la libertà di critica (testuale).
Quando si ricostruisce questa vicenda, si comprende che essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se «invecchiato», come potrebbe deplorare qualche fumatore di oppio bibliografico): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra, con semplicità densa a ogni frase di dottrina non ostentata, come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l'autenticità dei testi — una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda — si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel costante sforzo di ricostruire la formazione — e quindi la lettera — del Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantistici su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti che, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e, al tempo stesso, il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia.

Il diritto alla verità dopo i veti della Chiesa
Il saggio che pubblichiamo in questa pagina è il secondo capitolo del nuovo libro di Luciano Canfora, Filologia e libertà, appena edito da Mondadori (pagine 149, e 13). Come dice il sottotitolo, la filologia è «la più eversiva delle discipline», attraverso cui passano «l'indipendenza di pensiero e il diritto alla verità». Canfora, docente di Filologia greca e latina all'università di Bari, passa in rassegna i grandi momenti della critica testuale, dalle proibizioni del Concilio di Trento, alle concessioni di Pio XII, e racconta delle battaglie ingaggiate da giganti del pensiero, come Erasmo da Rotterdam, Baruch Spinoza, Giordano Bruno, per applicare la libertà di ricerca anche ai testi sacri.


Liberazione 24.4.08
Se i poveri cancellano la sinistra
di Ritanna Armeni


Perchè gli operai e gli strati poveri della popolazione non votano a sinistra? Perché votano in misura non trascurabile a destra? Queste sono le domande semplici e fondamentali a cui dovrebbe rispondere la sinistra sconfitta. Credo che solo dalla risposta ad esse possa iniziare la sua ricostruzione. Perché - come ha efficacemente detto Mario Tronti - una sinistra incapace di riscuotere la fiducia degli operai non è una sinistra. E lo è tanto meno se si vede rifiutata dalla parte più povera del popolo.
Cominciamo col dire che i poveri e gli operai che votano a destra non sono un fenomeno nuovo e non sono solo italiano. L'attuale presidente americano George Bush, la cui presidenza ha visto un consistente aumento del numero dei poveri, da questi è stato tuttavia votato. In un'intervista al Corriere della sera il politologo americano Michael Walzer ricordava che il voto italiano del 13 e 14 aprile fa venire in mente che nel 1980 per eleggere Reagan "decisivi furono i cosiddetti Reagan Democrats , elettori della classe operaia bianchi, spesso cattolici che avevano deciso di lasciare il loro partito e votare repubblicano". La crisi della sinistra francese è stata plasticamente evidente nel passaggio delle periferie proletarie tradizionalmente di sinistra alla destra e anche alla destra xenofoba di Le Pen. E si potrebbe continuare.
Nulla di nuovo sotto il sole quindi. Non è nuova neppure l'incapacità di rispondere a questa domanda che la sinistra finora ha dimostrato. Come lo struzzo che, di fronte al pericolo, non lo affronta ma nasconde la testa sotto la sabbia. Ma essa nelle elezioni italiane è apparsa più che mai grande.
Ha portato non al suo ridimensionamento, ma alla sua scomparsa, E soprattutto, osservando il dibattito che si è aperto, è rimasta anche dopo i disastrosi risultati elettorali.
Un tentativo di rispondere a questa domanda è venuta da Barack Obama il sei aprile a San Francisco. Nelle piccole citta colpite dalla crisi - ha detto il candidato democratico - l'amarezza è tale che la persona si sente perduta ed è a quel punto che s'aggrappa non alle reali soluzioni del disagio economico, ma a valori e stili di vita culturalmente consolatori: l'uso delle armi o della religione, la ripugnanza del diverso, dello straniero. E lo stesso Walzer ricorda che i "Reagan Democrats" avevano cambiato schieramento perché erano diventati sensibili a questioni - aborto immigrazione , pena di morte - che fin lì erano rimaste nello sfondo.
«Sono decenni - ha scritto di recente Barbara Spinelli sulla Stampa , affrontando il problema con la consueta profondità - che le cosiddette questioni culturali sono invocate in America per occultare difficoltà e misfatti economici».
Il meccanismo al quale in questi anni abbiamo assistito (anche se abbiamo evitato di affrontarlo) è pressochè identico. Di fronte alla sfiducia nella capacità di chi storicamente si è posto questo compito, cioè la sinistra, di risolvere i problemi sociali, problemi che la globalizzazione rende ancora più grandi, più gravi e più impellenti le classi popolari si rifugiano in un sistema valoriale, identità, territorio, sicurezza. E qui incontrano la destra che di quei valori o di quei disvalori è portatrice mentre la sinistra è drammaticamente assente. Insomma alla incapacità di affrontare questioni sociali che stanno modificando - e in peggio - le condizioni dei più poveri si somma l'assenza nel dibattito sui sistemi valoriali o sulle modalità etiche che dovrebbero guidare la società. Anzi la sinistra quelle questioni le teme, cerca di tenerle lontane dal dibattito politico, invocando nei casi migliori la libertà di coscienza, o rimanendo staticamente legata a vecchie discussioni e a vecchie conclusioni.
In questo rapporto fra incapacità di affrontare i temi sociali e garantire realmente la difesa del lavoro e dei salari ed assenza dai temi etici si è formata ed è cresciuta l'estraneità dei poveri nei confronti della sinistra e si è definito il nuovo comportamento elettorale. Determinante la paura di perdere, dopo essere stato privato delle conquiste e i diritti sociali, quel poco che ai poveri rimane: la famiglia, i valori della propria comunità, la propria religione, le proprie tradizioni.
Il libro di Giulio Tremonti "La paura e la speranza" racconta questo passaggio, lo teorizza, ne fa la base della cultura della destra oggi al governo del paese.
Il nemico individuato è la globalizzazione e il modo in cui essa si esprime, cioè mercatismo, il mercato senza regole e norme, lasciato a se stesso che sta distruggendo il pianeta e la vita delle donne e degli uomini che non riescono più ad avere livello di vita decente. Per Tremonti il mercatismo è un meccanismo neutro che non ha alcun rapporto con la destra anzi se mai ha un legame con il comunismo (pensiero unico e uomo a taglia unica), ma a questo occorre opporsi. Come?
La speranza non viene da un nuovo sviluppo economico, dalla lotta alla globalizzazione e al mercato senza regole in nome di una regolazione del mercato che salvaguardi nuovi livelli di giustizia sociale e di eguaglianza fra i popoli della terra ma dalla riproposizione dell'identità dell'Europa cristiana. Dalle sette parole d'ordine che Tremonti elenca: valori, famiglia, identità, autorità, ordine, responsabilità, federalismo.
Ecco Tremonti ha teorizzato e ha proposto ciò che la destra nel mondo ha fatto, la linea politica e culturale su cui i neocon hanno egemonizzato l'amministrazione americana.
A questo bisogna opporsi. Il modo è tutto da elaborare e su questo la sinistra che ha perso dovrebbe applicare le sue risorse e le sue energie intellettuali. Per quanto mi riguarda penso che la capacità di modificare la condizione sociale non possa essere disgiunta da un intervento altrettanto coraggioso ed energico sulla costruzione di nuovi valori. In una società fluida e disgregata, vita, lavoro, socialità sono strettamente, se pur disordinatamente, intrecciate. La destra ha vinto perché ha saputo fornire una narrazione, ha saputo offrire una esposizione di un sistema di valori e di speranze che hanno avuto più forza di qualunque singola proposta di miglioramento sociale ed economico.
Di recente Nichi Vendola, governatore della Puglia, ha raccontato ad Otto e mezzo un episodio che mi ha colpito. Ha detto di essersi adoperato concretamente e con serietà amministrativa perché un gruppo di lavoratori ricevesse dei benefici che fino ad allora erano stati negati. Ha ricevuto molti ringraziamenti e una sincera gratitudine, ma - ha detto - ho avuto la netta sensazione che al momento del voto altri sarebbero stati i loro percorsi.
Insomma anche Nichi Vendola ha verificato quel divorzio fra il discorso delle pratiche e il simbolico di cui ha recentemente parlato Giacomo Marramao. Ma tutti lo verifichiamo ogni giorno nella nostra esperienza quotidiana. E allora da qui dobbiamo cominciare per avere dalla nostra parte i poveri. O meglio, per stare noi, di sinistra, dalla loro parte.

il manifesto 23.4.08
Una costituente per riavere radici
di Luciana Castellina

Che a Firenze ci fosse molta gente non meraviglia: il lutto è più mite se si elabora collettivamente. Ma l'interessante di questa assemblea promossa dall'Associazione per la sinistra unita e plurale, non sta tanto nella vastissima partecipazione, quanto nel fatto che non è stata lamentosa (incazzata sì, ma è un'altra cosa), bensì propositiva. E' vero che erano convenuti soprattutto quelli d'accordo per procedere alla costruzione di un altro soggetto politico post Arcobaleno.

Mentre poche ore dopo la maggioranza di Rifondazione comunista decideva invece di procedere in senso inverso; e però non è di poco conto che tanti compagni abbiano mandato un messaggio in questo senso a chi lo vorrà ascoltare. Se poi si riuscirà nei prossimi mesi a avviare una riflessione e un lavoro comune, senza limitarsi a attendere quanto decideranno i congressi delle tre (il Pcdi si è già tirato fuori) componenti che hanno dato vita alla disgraziata lista elettorale, allora c'è forse qualche speranza.
Nessuna di queste componenti, io credo, può infatti ripartire da sola: per insufficienza propria; perché ciascuna aspramente divisa al proprio interno; perché tutte accorpamento dei frantumi prodotti dai terremoti di questi ultimi due decenni; perché - soprattutto - il grosso delle forze potenziali - e proprio per questo - sono fuori dalle organizzazioni date. Il loro percorso non è da buttare, è anzi esperienza preziosa, ma inadeguata. Riflettere ora separati su quanto accaduto sarebbe assurdo, e è per questo che - come ha detto a Firenze Fulvia Bandoli - si chiede ora ai partiti di cedere un po' della loro sovranità.
E tuttavia capisco le preoccupazioni di Paolo Ferrero e di chi teme di perdere qualcosa senza guadagnare niente se si ripete tale e quale l'esperimento disgraziato di Arcobaleno. Se dico che deve esser avviato un processo costituente di una nuova forza politica non è perché penso si possa nel breve periodo dar vita a una nuova e compiuta organizzazione che si limiti a raccogliere in modo necessariamente confuso gli stimoli che vengono dal basso. Il percorso è più lungo. Per costituente intendo un processo, da avviare subito, con la partecipazione più larga possibile e in forme organizzate, che innanzitutto conduca un'analisi della fase storica in cui viviamo; delle novità stravolgenti che sta producendo; dell'incanaglimento della società italiana; delle ragioni profonde, non contingenti, della nostra sconfitta e del perché il disagio sociale e persino la protesta non si sono raccolte attorno a noi ma hanno preso altre strade. E che prenda atto che si è ormai spezzato il nesso tradizionale fra rappresentanza politica di sinistra e ceti sfruttati.
Guai se ci nascondessimo dietro il dito di spiegare che abbiamo perduto solo per via del simbolo (ancorché pessimo); solo per via del «voto utile» (i flussi ci dicono che ha contato ma non moltissimo); e neppure solo per via del governo Prodi e dell'iniziativa di Veltroni. E neppure solo per via del protocollo sul welfare.
Anche per tutto questo, certo. Ma non solo.
Prendiamo l'accordo firmato con i sindacati, per fare un esempio. Si poteva ottenere di più, ovviamente. Ma se abbiamo perduto è perché non abbiamo saputo costruire nel paese i rapporti di forza, l'egemonia politica e culturale, che sole potevano consentirci di ottenere di più. Una grande manifestazione, di per sé, non basta a vincere se non è accompagnata da un'indicazione praticabile e chiara, dalla rete di alleanze e mediazioni indispensabili a operare quando si è minoranza.
I limiti, e le colpe, di quell'accordo, per altro, non sono solo del governo e dei sindacati, ma anche nostre. Perché neppure noi abbiamo saputo prendere in conto le trasformazioni in atto e l'esaurimento del modello di sviluppo produttivo che hanno provocato; non siamo stati capaci di indicarne uno diverso, che dicesse cosa, come con chi e per chi produrre, sicché non si è affrontato in radice il problema del precariato e tutti gli altri connessi. L'ambientalismo è stato un fiore all'occhiello, ragione di proteste frammentate, non l'asse di un nuovo modo di pensare al mondo.
Ho fatto l'esempio dell'accordo sindacale per dire che, innanzitutto, dobbiamo metterci d'accordo sull'odg stesso della riflessione da avviare, se vogliamo davvero ripartire. Una riflessione che deve partire da più lontano, che deve investire tutti questi 18 anni ormai trascorsi da quando - nel 1990 - l'Italia e il mondo sono cambiati non per tornare indietro ma per andare avanti e non sulla base di un fragilissimo e superficiale accordo.
A questo proposito vorrei dire che a me la parola «arcobaleno» non piace affatto. Se non credo più a partiti fondati su vecchie identità ormai svuotate, non credo neppure a partiti che siano la mera e non digerita somma di tutte le possibili culture. Ognuna di queste culture è una risorsa critica per l'altro, ma bisogna poi che questa critica e autocritica ci sia, se no resta solo un'accozzaglia. Non credo, insomma, in un'alternativa che sia la somma delle ribellioni della moltitudine. Per esser davvero diversi dal partito democratico c'è bisogno di un partito che non si limiti a raccogliere consensi, ma sia capace di costruire senso, che è cosa del tutto diversa. E non solo di dire, ma anche di fare cose diverse.
E allora: costituente sì, ma senza precipitare subito in forme definite che servirebbero solo a riproporre vecchi gruppi dirigenti pesati col bilancino, e a perpetuare l'esistenza di una contenitore di cose disparate come è stato l'Arcobaleno. Per fortuna - o per sfortuna - non abbiamo scadenze elettorali immediate che ci ingiungono di assemblarci come sia. Costituente, invece, per reimparare a avere radici, a riproporre la politica come abitudine di tutti e non riservata solo a quelli che vanno nelle istituzioni, per mettere le fondamenta di una nuova cultura comune. Si tratta di un processo più lungo e faticoso di quello che, con fretta generosa, molti hanno chiesto a Firenze, ma - a questo punto - il solo adeguato alle dimensioni della nostra inconsistenza. Ai compagni di Rifondazione comunista, ai quali dobbiamo riconoscenza per essersi assunti il peso maggiore della recente avventura, così come allo stesso compagno Bertinotti che (pur con lucido pessimismo, mi è sembrato) si è preso l'impegno di rappresentarla, vorrei chiedessimo ora di accompagnare la preparazione del loro congresso a un parallelo impegno di discussione e di lavoro comune, partecipando alle modalità unitarie che riusciremo a darci in questo tentativo realmente rifondativo.





CARCERI: L'ESPERTO, AL CENTRO-NORD SONO DIVENTATE 'RAZZIALI'
(AGI) - Roma, 23 apr. - "Le nostre prigioni si stanno riempiendo a tassi crescenti, con 1.200 detenuti in piu' ogni mese, soprattutto immigrati clandestini. Oggi siamo a 52.000 presenze, quando la situazione di sovraffollamento e' a quota 44.000. A fine 2008 saremo a 60.000 e i detenuti saranno di piu' di quelli pre-indulto. Visto che le carceri sono sempre 204, staranno come sardine e dato il clima politico e il nuovo governo, difficilmente arrivera' un nuovo provvedimento clemenziale". E' questa l'analisi (a tinte fosche) sulla situazione delle carceri italiane fatta da Massimo Pavarini, docente di diritto penitenziario all'Universita' di Bologna, in un'intervista a 'Left'. Paravini parla di istituti penitenziari che si stanno riempiendo in maniera esponenziale di "proletari dei mercati illegali", gente che passera' la vita ad entrare e uscire di prigione, soprattutto immigrati clandestini e tossicodipendenti, che ormai costituiscono il 70% della popolazione carceraria. "Oggi il 58% dei nuovi ingressi in carcere e' fatto da stranieri - afferma ancora Paravini - e le case circondariali delle grandi citta' del centro-nord sono ormai carceri razziali". (AGI) Red

25 APRILE: FORMICA, SOS COSTITUZIONE E' DEMOCRAZIA CONSOLARE
(AGI) - Roma, 23 apr. - Mi chiedo se dobbiamo piangere per la Costituzione Italiana, se ha ancora un senso il 2 giugno 1946, l'anno che vide la nascita della Costituente: siamo passati dalla democrazia rappresentativa alla democrazia consolare e di questa rottura istituzionale nessuno ne parla. A lanciare l'allarme istituzionale e' in una intervista per il settimanale 'Left' domani in edicola l'81enne socialista Rino Formica, per il quale "i consoli sono Berlusconi e Veltroni, tra questi due e' aperta una guerra ad eliminazione". L'allarme di Formica parte dal risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile. "E' spaventosa l'incultura che c'e in giro e soprattutto nel giornalismo - attacca Formica - e' avvenuta una catastrofe delle regole democratiche del paese, per cui ben 15 milioni e mezzo di cittadini, un terzo dell'elettorato attivo, non sono rappresentati in Parlamento, e nessuno ne parla. Siamo in presenza di una rottura cosi' traumatica del sistema istituzionale da liberare tutto il peggio e tutto il meglio del passato: se vincera' l'uno o l'altro lo si capira' solo dal grado di consapevolezza e coscienza che si acquisira' per controllare e guidare la situazione". Tutto il peggio e tutto il meglio passato, e' qualcosa che evoca, fa pensare al fascismo. "Un tumore non puo' esser scambiato e quindi curato come fosse una polmonite: qui siamo passati da una democrazia rappresentativa - precisa Formica - a una democrazia consolare che ha cambiato qualita' e natura della nostra vita democratica. E' questo il punto di partenza: o si ha un sussulto di presa di coscienza della gravita' della situazione oppure controllare il peggio del passato sara' difficilissimo". Non rispolvera affermazioni come "la politica e' sangue e merda", altro che, "corte di nani e ballerine", ma il tono e' sempre quello. "La politica non e' un supermercato dove uno entra quando vuole per prendere o lasciare a proprio piacimento una cosa o l'altra: la politica e' la costruzione di occasioni e la sinistra tragicamente riflette - osserva - solo quando e' sconfitta ed e' troppo tardi". Insomma, "ognuno si faccia la sua costituente, comunista o socialista, si faccia il pianto che vuole, il Muro dove piangere i suoi morti, io mi chiedo se dobbiamo piangere la Costituzione Italiana, se ha ancora un senso il 2 giugno 1946, l'anno che vide la nascita della Costituente". Un'analisi impietosa, la sua, e anche un po' angosciante. "Mi appello agli uomini e donne di buona volonta' perche' tutti insieme partendo da questo dato, un terzo degli elettori non sono rappresentati nel Parlamento mentre l'altro terzo ha vinto per effetto di un premio straordinario che gli attribuisce il 55% della rappresentanza parlamentare, si affronti serenamente la rottura, la rivoluzione istituzionale per controllare e gestire il grosso cambiamento che libera tutto il peggio e tutto il meglio del passato". Lei e' pessimista o ottimista? "Mi limito ad osservare e raccontare quanto successo: di idee e di uomini per ora non se ne vedono ma e' naturale perche' le idee verranno e gli uomini non mancheranno solo con vent'anni di ritardo: ne riparleremo, anzi ne riparleranno tra vent'anni e la sinistra - conclude Formica nell'intervista a 'Left' - continui imperterrita a vivere nel suo frazionismo continuo". (AGI) Pat


IMMIGRAZIONE: TRUFFA A MAROCCHINI, 5.000 EURO PER LAVORO FALSO
(AGI) - Roma, 17 apr. - Cinquemila euro per un lavoro sicuro in Italia, per coronare il sogno dell'espatrio in un paese "avanzato" e far vivere dignitosamente la propria famiglia. Peccato che il lavoro, il piu' delle volte, non c'e'. Il "business" della truffa al marocchino frutta solo nel salernitano cinque milioni di euro, ed e' al centro della denuncia della Cgil da cui e' partita un'inchiesta che verra' pubblicata sulla rivista 'Left' in edicola domani. Fantomatici imprenditori italiani setacciano le citta' del Marocco, promettendo ai giovani del luogo un lavoro stagionale nel nostro paese. Con qualche migliaio di euro il giovane speranzoso riceve il nulla osta, e un numero di telefono con cui, dopo il volo Casablanca-Malpensa, contattare il datore di lavoro di Salerno. Solo che il numero e' falso, dall'altro lato del filo non risponde nessuno. La direzione provinciale di Salerno non ci ha messo molto a scoprire la truffa: su 3.000 posti disponibili nel salernitano, le domande presentate dagli imprenditori sono state 7.500. Dalla verifica a tutto campo e' emerso che aziende piccolissime hanno chiesto un numero enorme di lavoratori, cosi' come aziende che non esistono affatto. Il meccanismo della truffa e' semplice: il lavoratore marocchino viene in Italia, ma senza trovare immediati punti di riferimento lascia passare i giorni, non sapendo che se dopo otto giorni non si presenta in Prefettura con il datore di lavoro a stipulare il contratto diventa automaticamente irregolare. E i soldi che ha versato restano a chi li ha presi come "anticipo". In tutto, una truffa che solo nel 2007 ha ammontato a 5 milioni di euro. (AGI) Pgi