il Riformista 24.4.08
Psichiatria parla Massimo Fagioli: «Siamo andati oltre il logos occidentale»
«Il mio Fausto è un "fagiolino", per questo l'hanno crocefisso»
Pane, amore, psiche e tanto Bertinotti. In due parole, Massimo Fagioli. «Mi dicono che Fausto adesso è un po' triste. È anche normale, vista la sconfitta elettorale...», dice al Riformista lo psichiatra o, come dicono in tanti, «il guru». Più che sconfitta, quella del presidente della Camera è stata una disfatta. «Nulla di più falso. Fausto è straordinario, coraggioso, geniale, nuovo. Ha tradotto in politica quello che io avevo teorizzato». Prego? «Stiamo parlando della teoria nuova sulla realtà umana. Il problema è farla capire bene, questa storia che Bertinotti ha avuto il merito di donare alla Sinistra». Quella "Arcobaleno" vale il 3,084 per cento. Un milione e 144mila voti, alla Camera. Un disastro. «Guardi che non è vero», replica Fagioli. «Sta emergendo adesso un'altra visione. Senza l'apporto rivoluzionario che Fausto ha portato alla Sinistra con le nostre teorie, altro che tre per cento: l'Arcobaleno avrebbe preso lo 0,1». Senza Fausto, sotto l'1. Come ha sostenuto anche Gabriele La Porta. «Bravo, ha ragione questo La Porta. Tra l'altro ha un nome che mi pare di aver già sentito ». Infatti è il deus ex machina della Notte Rai. «Ah, ecco chi era... comunque ha ragione lui».
Un passo indietro alla Sinistra trasformata grazie a Bertinotti e alla teoria nuova sulla realtà umana. «Siamo andati oltre il logos occidentale», dice Fagioli. «Siamo andati ben oltre l'illuminismo», insiste Fagioli. Platone? «Superato». Freud? «Lasci perdere Freud. Un signore sopravvalutato». La svolta fagiolina di Bertinotti, in sintesi, «è arrivata col congresso di Rifondazione a Venezia, quando Fausto ha professato la Sinistra della nonviolenza. Lui ha avuto il merito di dire che senza quella svolta la sinistra sarebbe finita. Fi-ni-ta. E aveva ragione».
Prima e dopo, il fu leader del Prc ha partecipato alle grandi adunate di Fagioli e dei suoi tanti "fagiolini". «È proprio per aver sposato la nostra causa che oggi Fausto si ritrova crocifisso», sostiene lo psichiatra. Fuori i nomi. «Marco D'Eramo ha scritto sul manifesto che "se il Pd ha la sua Binetti, la Sinistra arcobaleno si ritrova per ideologo un guru come Massimo Fagioli"». Nemico numero due: «Vauro - replica prontamente il Maestro -. Ha fatto una vignetta scrivendo "Fausto, t'avevo detto spinaci, non fagiolini"». Altro gettone, altro detrattore. «Francesco Merlo, per le cose che ha scritto su la Repubblica ». Il perché di cotanto accanimento è presto detto. «La nostra teoria - insiste Fagioli - vuole andare oltre l'Illuminismo. L'80 per cento della filosofia italiana, invece, è contro di noi. Anche Umberto Galimberti. E pure Eugenio Scalfari». Ma per uno Scalfari recalcitrante, «ci sono - aggiunge il Maestro - Giacomo Marramao e Giulio Giorello che invece prestano ascolto».
Rimane inevasa una domanda. Perché la Sinistra ha perso? «Mistero. Questa disfatta è davvero un mistero», risponde Fagioli. Al danno, poi, s'è aggiunta la beffa di una Rifondazione che ha messo in minoranza il Bertinotti-pensiero. «Non mi pare che sia così», replica lo psicoterapeuta. «Guardi che quelli che stanno con Fausto hanno preso settanta voti al comitato politico nazionale del Prc. Ferrero ne ha presi di meno, solo che poi s'è alleato con Grassi. Ma questo sodalizio tra anti-bertinottiani non durerà anche perché Grassi ha poi spiegato che Ferrero non gli è simpatico. Ci saranno sorprese». Anche se Bertinotti sarà assente? «Chi l'ha detto questo? Stiamo preparando per Fausto un grande rientro. Prima con un'iniziativa alla fiera del libro di Torino, in programma il 10 maggio. Poi c'è sempre il congresso, a luglio».
Nella Sinistra ci sono sans papiers che guardano al Pd. «Veltroni ha buone qualità di amministratore. La grande politica è un'altra cosa», risponde Fagioli. C'è sempre la Lega. «I leghisti sono un problema, vogliono tornare a duecento anni fa. Discriminano le donne, gli stranieri. La verità è che tutti gli esseri umani sono uguali». Diliberto, falce e martello. «Ma non scherziamo», ribatte. A sentire lui, c'è Fausto, Fausto e solo Fausto. «Gli impediremo di ritirarsi perché la Sinistra ha ancora bisogno di lui. Poi, lo consegneremo alla Storia per quello che è stato, è e sarà: un uomo straordinario, coraggioso, geniale, nuovo».
Psichiatria parla Massimo Fagioli: «Siamo andati oltre il logos occidentale»
«Il mio Fausto è un "fagiolino", per questo l'hanno crocefisso»
Pane, amore, psiche e tanto Bertinotti. In due parole, Massimo Fagioli. «Mi dicono che Fausto adesso è un po' triste. È anche normale, vista la sconfitta elettorale...», dice al Riformista lo psichiatra o, come dicono in tanti, «il guru». Più che sconfitta, quella del presidente della Camera è stata una disfatta. «Nulla di più falso. Fausto è straordinario, coraggioso, geniale, nuovo. Ha tradotto in politica quello che io avevo teorizzato». Prego? «Stiamo parlando della teoria nuova sulla realtà umana. Il problema è farla capire bene, questa storia che Bertinotti ha avuto il merito di donare alla Sinistra». Quella "Arcobaleno" vale il 3,084 per cento. Un milione e 144mila voti, alla Camera. Un disastro. «Guardi che non è vero», replica Fagioli. «Sta emergendo adesso un'altra visione. Senza l'apporto rivoluzionario che Fausto ha portato alla Sinistra con le nostre teorie, altro che tre per cento: l'Arcobaleno avrebbe preso lo 0,1». Senza Fausto, sotto l'1. Come ha sostenuto anche Gabriele La Porta. «Bravo, ha ragione questo La Porta. Tra l'altro ha un nome che mi pare di aver già sentito ». Infatti è il deus ex machina della Notte Rai. «Ah, ecco chi era... comunque ha ragione lui».
Un passo indietro alla Sinistra trasformata grazie a Bertinotti e alla teoria nuova sulla realtà umana. «Siamo andati oltre il logos occidentale», dice Fagioli. «Siamo andati ben oltre l'illuminismo», insiste Fagioli. Platone? «Superato». Freud? «Lasci perdere Freud. Un signore sopravvalutato». La svolta fagiolina di Bertinotti, in sintesi, «è arrivata col congresso di Rifondazione a Venezia, quando Fausto ha professato la Sinistra della nonviolenza. Lui ha avuto il merito di dire che senza quella svolta la sinistra sarebbe finita. Fi-ni-ta. E aveva ragione».
Prima e dopo, il fu leader del Prc ha partecipato alle grandi adunate di Fagioli e dei suoi tanti "fagiolini". «È proprio per aver sposato la nostra causa che oggi Fausto si ritrova crocifisso», sostiene lo psichiatra. Fuori i nomi. «Marco D'Eramo ha scritto sul manifesto che "se il Pd ha la sua Binetti, la Sinistra arcobaleno si ritrova per ideologo un guru come Massimo Fagioli"». Nemico numero due: «Vauro - replica prontamente il Maestro -. Ha fatto una vignetta scrivendo "Fausto, t'avevo detto spinaci, non fagiolini"». Altro gettone, altro detrattore. «Francesco Merlo, per le cose che ha scritto su la Repubblica ». Il perché di cotanto accanimento è presto detto. «La nostra teoria - insiste Fagioli - vuole andare oltre l'Illuminismo. L'80 per cento della filosofia italiana, invece, è contro di noi. Anche Umberto Galimberti. E pure Eugenio Scalfari». Ma per uno Scalfari recalcitrante, «ci sono - aggiunge il Maestro - Giacomo Marramao e Giulio Giorello che invece prestano ascolto».
Rimane inevasa una domanda. Perché la Sinistra ha perso? «Mistero. Questa disfatta è davvero un mistero», risponde Fagioli. Al danno, poi, s'è aggiunta la beffa di una Rifondazione che ha messo in minoranza il Bertinotti-pensiero. «Non mi pare che sia così», replica lo psicoterapeuta. «Guardi che quelli che stanno con Fausto hanno preso settanta voti al comitato politico nazionale del Prc. Ferrero ne ha presi di meno, solo che poi s'è alleato con Grassi. Ma questo sodalizio tra anti-bertinottiani non durerà anche perché Grassi ha poi spiegato che Ferrero non gli è simpatico. Ci saranno sorprese». Anche se Bertinotti sarà assente? «Chi l'ha detto questo? Stiamo preparando per Fausto un grande rientro. Prima con un'iniziativa alla fiera del libro di Torino, in programma il 10 maggio. Poi c'è sempre il congresso, a luglio».
Nella Sinistra ci sono sans papiers che guardano al Pd. «Veltroni ha buone qualità di amministratore. La grande politica è un'altra cosa», risponde Fagioli. C'è sempre la Lega. «I leghisti sono un problema, vogliono tornare a duecento anni fa. Discriminano le donne, gli stranieri. La verità è che tutti gli esseri umani sono uguali». Diliberto, falce e martello. «Ma non scherziamo», ribatte. A sentire lui, c'è Fausto, Fausto e solo Fausto. «Gli impediremo di ritirarsi perché la Sinistra ha ancora bisogno di lui. Poi, lo consegneremo alla Storia per quello che è stato, è e sarà: un uomo straordinario, coraggioso, geniale, nuovo».
l'Unità 25 aprile 2008
Festa di libertà
di Furio Colombo
Un fatto nuovo e unico sta verificandosi nel nostro Paese: il tentativo, apertamente sostenuto dai leader della nuova maggioranza che sarà il nuovo governo, di cancellare la Festa della Liberazione che si celebra (si celebrava, temo che dovremo dire fra poco) il 25 Aprile.
Si tratta della più importante festa della Repubblica italiana, la sola che veramente riguarda tutti gli italiani.La ragione è semplice. Un giorno del 1945 è finito per sempre il regime detto nazi-fascismo, ovvero il legame fra fascismo italiano e nazismo tedesco che per cinque anni aveva terrorizzato tutta l’Europa, distrutto la maggior parte delle città, deportato e decimato a decine di milioni le popolazioni europee. Aveva, attraverso la stretta subordinazione del fascismo italiano al nazismo tedesco, realizzato il più grande genocidio della Storia: il tentato sterminio del Popolo ebreo, raggiunto, catturato e rinchiuso in apposite istituzioni di morte fino a raggiungere i 6 milioni di donne, bambini e uomini uccisi a uno a uno durante anni di metodica organizzazione.
Il 25 Aprile è diventato la Festa degli italiani perché quel giorno tutti gli italiani, compresi coloro che avevano preso parte al fascismo, sono tornati liberi, normali, uguali, non più divisi fra persecutori e vittime. Se il 25 Aprile non ci fosse stato, una parte degli italiani avrebbe dovuto continuare a combattere in clandestinità, fino ad essere eliminata, spesso con la tortura o il trasferimento nei campi di sterminio. E un’ altra parte di italiani avrebbe continuato a servire i tedeschi con la missione di catturare, torturare e uccidere dentro una meticolosa organizzazione di morte.
(...)
l'Unità 25 aprile 2008
Noi ebrei contro Alemanno
L’appello
Quello che segue è l’appello firmato da esponenti della Comunità ebraica ed altri in difesa dell’antifascismo in occasione del ballottaggio per l’elezione del Sindaco a Roma
Non si difende così la democrazia, non si costruiscono così le premesse perché i nostri figli, e noi stessi, si possa vivere in una realtà dalla quale sia per sempre bandito l’antisemitismo. Non c’è pensiero di pace che possa posarsi sulle barricate di chi non fa mistero delle proprie nostalgie fasciste, di chi fa di questo rimpianto come pure della tolleranza verso questa atroce cultura un motore politico.
Non ci ha convinto la sceneggiata di Gianni Alemanno che, mentre ribadiva che avrebbe corso da solo al ballottaggio per la poltrona di sindaco di Roma, ha espresso solidarietà a Francesco Storace, rinviando a dopo le elezioni la ricomposizione della destra.
Quel che sappiamo è che Alemanno avrà dalla sua anche i voti di Storace, anche quelli dei naziskin e di tutte le organizzazioni della peggiore destra ben presenti a Roma.
Fermiamo questo gioco al massacro prima che sia troppo tardi: non si difende la democrazia premiando l’antisemitismo e gli eredi morali del fascismo-nazismo.
Dora Anticoli
Antonia Baraldi Sani
Andrea Billau
Fiammetta Bises
Ariela Böhm
Guido Botto
David Calef
Giovanni Cipani
Monica Coen
Lee Colbert
Furio Colombo
Fabrizio Crespi
Alessandro Cresti
Giuseppe Damascelli
Lello Dell'Ariccia
Miriam Dell'Ariccia
Paola Di Cori
Rosella Di Cori
Annalisa Di Nola
Liliana Di Ruscio
Marco Di Porto
Noemi Di Porto
Grazia Di Veroli
Virginia Di Veroli
Donato Di Veroli
Carla Di Veroli
Manuela Dviri Vitali
Luigi Faccini
Antonio Fantoni
Claudia Fellus
Claudia Finzi
Ida Finzi
Bice Foà
Ugo Foà
Boulus Fransis
Fabio Galluccio
Pupa Garribba
Giorgio Gomel
Donatella Greppi
Toni Jop
Iardena Kichelmacher
Anna Kohn
Gisella Kohn
Gad Lerner
Marina Levi Fiorentino
Andrea Levi
Erminia Licitri
Giacometta Limentani
Maurizio Maggiani
Elena Magoia
Mila Manasse
Cereti Maria
Settimio Misano
Enrico Modigliani Norsa
Ernesto Muggia
Ludovica Muntoni
Bruno Nacamulli
Bruno Orvieto
Moni Ovadia
Patrizia Paglia
Aldo Pavia
Roberto Piperno
Marina Piperno
Clotilde Pontecorvo
Micaela Procaccia
Gustavo Reichenbach
Anna Rossi-Doria
Massimo Sani
Delia Sdraffa
Clara Sereni
Erika Silvestri
Letizia Teglio
Piero Terracina
Sandra Terracina
Antonella Tiburzi
Vittoria Vigo
Micaela Vitale
Aldo Zargani
Luca Zevi
l'Unità 25 aprile 2008
Amos Luzzatto: «Voto Rutelli contro il negazionismo»
intervista di Umberto De Giovannangeli
«Non bisogna smarrire
la memoria di quei
valori antifascisti
che hanno dato vita
alla Costituzione»
«ROMA deve restare capitale del dialogo, rafforzare il suo carattere multiculturale e plurietnico, coniugando integrazione e sicurezza. E, al contempo, non deve smarrire memoria di sé e di quei valori antifascisti che ne fanno la capitale di una Repubblica nata
dalla lotta contro il nazifascismo. Una scelta di valori, prim’ancora che di programmi: per questo mi auguro vivamente che Roma continui ad essere governata dal centrosinistra». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane e oggi presidente della Fondazione Primo Levi di Torino.
Professor Luzzatto, Roma si appresta a eleggere il nuovo sindaco. Vista da un uomo del dialogo come lei, qual è la posta in gioco?
«C’è una duplice risposta alla sua domanda. La prima: credo che sia nell’interesse della democrazia e del bilanciamento dei poteri, che in una fase di contrapposizione come questa. la capitale sia amministrata da uno schieramento politico diverso da quello che ha la maggioranza nei due rami del Parlamento...».
Questa è la prima ragione. E l’altra?
«L’altra, non meno importante, è che siamo in un periodo estremamente combattuto e difficile; un periodo in cui si rimette in discussione da più parti quello che è stato un patrimonio di edificazione della Repubblica italiana nel dopoguerra. Questo patrimonio senza ombra di dubbio non può chiamarsi neutralità rispetto al fascismo, ma si chiama antifascismo. È scritto a chiare lettere nella stessa Costituzione, è nell’identità, nei valori, nell’agire di tutte quelle forze che pur nella loro diversità convergevano per dare all’Italia un nuovo ordinamento e una nuova prospettiva nel 1947-’48. Non c’è dubbio che Roma rappresenti la capitale d’Italia orientata in senso democratico e antifascista. In questa fase di revisionismo, di negazionismo, io credo che a Roma faccia bene essere amministrata ancora da quelle forze che l’hanno gestita in questi ultimi anni. Mi lasci aggiungere un’altra cosa che reputo davvero importante...».
Quale, professor Luzzatto?
«Penso che vi sia una stringente necessità, un’attenzione particolare al problema degli immigrati e degli stranieri...».
Un problema di strettissima, e per certi versi, drammatica attualità...
«Non c’è dubbio che per tante persone, a torto o a ragione, la presenza di molti stranieri ed extracomunitari crea dei problemi. Però dobbiamo anche pensare che questi problemi non sono nati nei loro cuori e nei loro geni ma sono in buona parte il risultato di un certo dominio e sfruttamento coloniale al quale noi europei abbiamo sottoposto quelle terre a volte per molte generazioni. Non possiamo chiamarci fuori dicendo che dopo averli dominati, non fatti crescere, se ne stiano a morire a casa loro e “non vengano a romperci le scatole a casa nostra” perché noi gliele abbiamo rotte a casa loro. L’impostazione di tutto il problema deve essere fatta in termini diversi...».
Quali?
«Noi abbiamo l’obbligo di assumerci le nostre responsabilità, di avere preoccupazioni di un certo tipo, di pensare a costruire servizi e modi di integrazione e non squadre o ronde d’espulsione. E credo che questo approccio costruttivo finirebbe per giovare alla stessa società italiana e alla sua economia. Un approccio profondamente diverse da quello propugnato dalla destra...».
A proposito della Destra, intesa come partito. Il suo leader Storace si è schierato nel ballottaggio a sostegno di Alemanno, e ha attaccato la comunità ebraica romana sostenendo che, cito testualmente, «dovrebbe chierderci scusa per la vergognosa campagna fatta contro di noi».
«La comunità ebraica ha raccomandato di non appoggiare chi, direttamente o indirettamente, si presenta con nostalgie per il regime fascista. Se il signor Storace si sente chiamato in causa, evidentemente avrà i suoi motivi. Di certo la comunità ebraica romana non lo ha insultato e dunque non ha davvero nulla di cui chiedere scusa».
Roma andrà al voto dopo il 25 aprile, la Festa della Liberazione: la piazza e le urne. Che significato assume questa ricorrenza oggi?
«Il significato di un impegno civile che non viene meno e che si esplicita anche nel voto; un voto contro una risorgente retorica imperial-romana, un voto per mantenere vivo il discrimine tra antifascismo e fascismo. E questa differenza deve vivere oggi a Roma. Non dimentichiamo che è nella capitale d’Italia che fu assassinato dai fascisti Giacomo Matteotti, e da qua prese le mosse quel tragico capitolo storico che si è concluso con la cancellazione delle libertà statutarie, e con la persecuzione dei cittadini italiani di religione ebraica avviata con la promulgazione delle leggi razziali nel ‘38. Il 25 aprile può e deve deve continuare a rappresentare ancor oggi un monito in questa direzione».
l'Unità 25 aprile 2008
I dirigenti dell’Arci si iscrivono all’Anpi
ROMA Tutti i membri del Consiglio nazionale dell’Arci si iscriveranno oggi all’Anpi (Associazione nazionale partigiani) nella ricorrenza del 25 aprile. Lo ha annunciato il presidente del’Arci, Paolo Beni, che - insieme ad una delegazione dell’associazione - ieri ha visitato la sede dell’Anpi per rendere omaggio ai dirigenti dell’Associazione dei partigiani alla vigilia del 25 aprile. Beni ha spiegato anche che tutte le manifestazioni indette dalla sua associazione per celebrare la Festa della Liberazione saranno dedicate al ricordo di Arrigo Boldrini, l’eroico comandante Bulow.
l'Unità 25 aprile 2008
G8, scontri a Napoli e Genova: assolti tutti i no-global
Accusati di associazione sovversiva. «Il fatto non sussiste»
TUTTI ASSOLTI La Corte d’assise di Cosenza ha impiegato poco più di un’ora e mezzo per fare a pezzi le accuse che hanno portato alla sbarra 13 militanti no global della Rete del Sud ribelle, accusati di associazione sovversiva in relazione agli incidenti ac-
caduti nel corso delle riunioni del G8 di Genova e del Global Forum di Napoli del 2001. Fra loro anche l’ex parlamentare di Rifondazione Comunista Francesco Caruso e il leader dei disobbedienti del nord est Luca Casarini. Quasi sei anni e mezzo dopo gli arresti, scattati il 15 novembre del 2002, gli imputati sono stati tutti assolti perché, secondo il dispositivo letto dalla presidente Maria Antonietta Onorati, «il fatto non sussiste». Una sconfessione totale dell’accusa sostenuta dal pm Domenico Fiordalisi, che alla lettura della sentenza ha lasciato l’aula da una uscita secondaria e scuro in volto. Perché le sue richieste di condanna, formulate tre mesi fa, erano state pesanti, per un totale 50 anni di reclusione e 26 di libertà vigilata. Le condanne più pesanti, sei anni di reclusione e tre di libertà vigilata, Fiordalisi le aveva chieste per Caruso, per Luca Casarini e per Francesco Cirillo.
Dentro e fuori il tribunale, alla lettura della sentenza, è immediatamente scattata la festa, con tanto di spumante e cori contro la Digos. «È la dimostrazione - ha commentato soddisfatto Caruso, il cui legale ha annunciato di voler chiedere un risarcimento per la lentezza del processo iniziato nel dicembre 2004 - che si è trattato di un teorema accusatorio costruito ad arte per aggredire e zittire i movimenti». «Molto contento» si è detto anche Casarini, raggiunto dalla notizia dell’assoluzione lontano da Cosenza. «Finalmente - ha commentato - è stata rovesciata la verità artefatta che su Genova qualcuno voleva costruire. Questo 25 aprile sarà ancora più bello».
Sono trascorsi sei anni da quando, il 15 novembre del 2002, furono arrestate venti persone della Rete meridionale del Sud Ribelle nell'ambito di una inchiesta della Procura di Cosenza sugli scontri avvenuti a Genova e Napoli. L'indagine durò un anno e mezzo e fu avviata dopo il ritrovamento di un volantino fatto pervenire il 27 aprile del 2001 alla Rsu di una azienda di Rende. Nel volantino si rivendicava l’attentato fatto 15 giorni prima a Roma contro la sede dell’Istituto per gli Affari Internazionali. Inizialmente nell’inchiesta furono indagate complessivamente 42 persone nei confronti delle quali gli investigatori effettuarono numerose intercettazioni telefoniche, pedinamenti, riprese filmate ed intercettazioni anche di migliaia di e-mail. La presunta associazione sovversiva, costituita nel maggio 2001 a Cosenza, avrebbe avuto lo scopo, secondo l’accusa, di “sovvertire violentemente” l’ordinamento economico dello Stato, caratterizzando l’organizzazione della “Rete meridionale del sud ribelle” per farla diventare una più vasta e pericolosa associazione sovversiva attraverso l’utilizzo della violenza. A 13 delle persone arrestate era stato anche contestato il reato di attentato contro organi costituzionali per aver turbato l’esercizio delle funzioni svolte dal governo italiano in occasione dei vertici di Napoli e Genova.
g.v.
l'Unità 25 aprile 2008
LINGOTTO Il tema che da sempre attraversa la letteratura e l’arte sarà al centro della prossima edizione. E come previsto Israele farà da ospite d’onore
La bellezza salverà la Fiera del Libro di Torino?
di Mirella Caveggia
Critiche, contestazioni, e un tentativo di boicottaggio non hanno immobilizzato la Fiera del Libro di Torino. L’evento, presentato in una conferenza stampa alla presenza del ministro israeliano Elazar Cohen, si terrà al Lingotto come previsto, dall’8 al 12 maggio e non subirà modifiche la scelta di fare di Israele l’ospite prescelto per la XXI edizione 2008. «Abbiamo affrontato difficoltà e polemiche al di là di ogni ragionevole argomentazione, ha detto il Presidente Rolando Picchioni. Abbiamo proposto possibilità di dialogo, ma un confronto fra un paese e chi ne nega l’esistenza è difficile».
Quest’anno il motivo conduttore sarà la Bellezza, «lo splendore del vero», come la definiva Platone. Il tema denso di mistero e di suggestione, viene proposto con il punto interrogativo di segno dostoevskijano. La bellezza salverà il mondo? Sul perno di questa incantevole qualità, avvinta all’etica, così ben espressa nella letteratura, nell’arte e nella musica, si avvolge un cartellone lussureggiante. Scrittori, filosofi e antropologi, storici dell’arte, artisti, musicisti, scienziati e persino matematici, ci parleranno di un spettacolo della natura o del modo di vivere la bellezza, dell’osservazione estetica o dell’etologia e persino delle armonie nascoste delle scienze esatte. Si scopriranno con illustri relatori i canoni di un romanzo, i connotati della bellezza del mondo greco-romano, ma anche i segni dell’arte e della letteratura islamica, la poetica dell’arte o la tensione verso la verità dell’anima. Si inoltrano su questi e altri avvincenti sentieri noti protagonisti della cultura italiana: Remo Bodei, Giovanni Reale, Luciano Canfora, Raffaele La Capria, Sergio Givone, l’architetto Mario Botta, Erri de Luca. Fra i grandi ospiti della letteratura mondiale, si incontrano Gore Vidal, Luce Irigary, il libanese Youssef Courbage, il francese Philippe Forest, le americane Susan Vreeland e Geraldine Brooks, il tedesco Arno Geiger, l’ultranovantenne sloveno di Trieste Boris Pahor, riconosciuto tardivamente fra i massimi testimoni della Shoa.
A rappresentare la letteratura e la cultura di Israele, che affronta con coraggio i propri conflitti e le contraddizioni che l’affliggono all’interno di una realtà quotidiana drammatica, non saranno presenti gli attesi David Grossman e Amos Oz. Ma arriveranno numerosi altri letterati di diverse generazione: fra loro, Aharon Appelfeld, l’irakeno Sami Michael che da anni vive a Israele, Abraham Yehoshua con il suo nuovo romanzo Fuoco Amico, Meir Shalev, Ron Leshem (autore di Tredici soldati, divenuto anche un film). E fra le tante scrittrici, Zeruya Shalev a Ronny Someck.
Nell’agenda spiccano eventi di grande interesse, come i dieci film israeliani scelti dal Museo del Cinema film israeliani e i dibattiti con interventi autorevoli su temi arroventati: giustizia, mafia, morti bianche. A questi e ad altri incontri da non perdere (Enzo Bianchi, Antonio Stella, Marco Rizzo, Eugenio Scalari, Furio Colombo) si alterneranno momenti di spettacolo e musica, come quella offerta dall’Arab Music Orchestra di Nazareth, composta da cattolici, ebrei e musulmani con la vocalist palestinese Lubna Bass. E infine Terra Madre, un format straordinario, dedicato alla salvaguardia delle diversità culturali e agli incontri. «Siamo qui per capire e cercare insieme spazi di dialogo nello scambio culturale, per trovare nell’altro una parte di noi. Forse si potrà togliere il punto interrogativo del tema» ha detto Ernesto Ferrero, Direttore della Fiera, uscito estenuato, ma sereno dalle polemiche.
Corriere della Sera 25.4.08
Gli studi innovativi di Giovanni Reale e Marie-Dominique Richard sul filosofo greco
Alla ricerca del Platone nascosto
La dimensione esoterica e quelle dottrine «non scritte» nei Dialoghi
di Armando Torno
Le conseguenze
Bisogna ridiscutere il rapporto matematica-metafisica e anche la geometria euclidea
Platone è uno dei pilastri portanti dell'Occidente. Whitehead all'inizio del Novecento amava ripetere che la filosofia è una serie di note in margine al suo pensiero. E Leibniz, tre secoli fa, ricordava che il vero problema dei sapienti è ridurre Platone a sistema: progetto che, a ben guardare, sta ancora nei cieli. In compenso succede sempre qualcosa nel suo nome, tanto che in questi giorni escono in Italia due tomi che contengono la documentazione per mettere sotto processo quanto si è detto e chiosato su Platone. In parole semplici: quel lascito che ha influenzato il cristianesimo, al quale sono legate le nostre idee sull'anima e la verità, su Dio (il termine «teologia» è di sua invenzione), sullo Stato, sul bene e sul bello e su tutti i concetti fondamentali del nostro sapere, va ripensato, rivisto, rimeditato. Il vero Platone, per dirla con una battuta, era come nascosto.
L'annuncio si deve a Giovanni Reale, uno dei massimi esperti del filosofo greco. Traduttore e commentatore di molte sue opere, curatore dell'edizione completa degli scritti («Tutto Platone» in un solo volume, continuamente ristampato da Bompiani), autore di monografie e di saggi sul sommo greco nonché della più grande storia della filosofia antica oggi diffusa nel mondo (cinque lingue, la sesta è in corso), organizzatore tra i molti di un convegno platonico a Tubinga con Gadamer, ha ora deciso di mettere a punto con testi e commenti lo stato della questione. Per tal motivo ha tradotto lui stesso il classico saggio di Marie-Dominique Richard
L'insegnamento orale di Platone,
prefato da Pierre Hadot, quindi ha realizzato espressamente l'opera Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle «Dottrine non scritte» .I due volumi, pubblicati da Bompiani nella collana «Il pensiero occidentale», disponibili anche in cofanetto, contengono appunto tutti i passi e gli approfondimenti necessari per sostenere una precisa tesi che riassumiamo con le parole che Gadamer confidò in due interviste allo stesso Reale, riportate in appendice al suo libro: «Il problema generale dell'interpretazione di Platone quale si presenta a noi oggi si fonda sull'oscuro rapporto esistente tra l'opera dialogica e la sua dottrina non scritta, che conosciamo soltanto mediante una tradizione indiretta». D'altra parte, credere che nei testi a noi pervenuti del filosofo greco ci sia tutto il suo messaggio, contrasta con numerose testimonianze di Platone stesso, a cominciare dal passo della Lettera VII: «Su queste cose non c'è un mio scritto, e non ci sarà mai».
Certo, tale prospettiva causa notevoli conseguenze. A prescindere da quei conservatori, più o meno realisti, per i quali Platone è un monumento archeologico da visitare o da saccheggiare alla bisogna, la prima che viene alla mente possiamo formularla in questo modo: una lettura delle sue opere che non tenga conto degli aspetti esoterici è qualcosa di autarchico o di sterile. La seconda conseguenza, tra le altre possibili: le testimonianze sul «Platone non scritto » devono essere costantemente utilizzate anche per interpretare interi capitoli della tradizione filosofica occidentale.
D'altra parte, Reale presenta una trentina di passi di Platone che rimandano alle dottrine non scritte e lo stesso ruolo della matematica assume un'altra valenza: per il filosofo greco si arriva alla metafisica attraverso di essa; ha dunque uno scopo didattico: non è stata matematizzata la metafisica, ma è avvenuto l'opposto. Di più: se si procede nelle ricerche con questo riferimento, ci si accorge — stiamo riportando l'interpretazione di Reale — che la preminenza dell'angolo retto sull'acuto e sull'ottuso nei testi platonici rispecchia le concezioni non scritte. Ma qui si aprono ulteriori questioni che portano ancora più lontano. Accenniamo soltanto al fatto che ci sono 18 passi di Aristotele che parlano di una geometria non euclidea e che il grande dibattito su questa disciplina si celebrò nell'Accademia, vale a dire la scuola fondata da Platone. Reale suggerisce anche di chiamare quella che solitamente consideriamo «geometria euclidea» con il più appropriato aggettivo «platonica». Non è infine esagerato sottolineare che questi due volumi coronano un progetto a cui l'autore ha atteso da una quarantina d'anni. Dopo essersi confrontato con personalità quali Imre Toth e con la Scuola di Tubinga (in particolare con Konrad Gaiser e Hans Krämer) e aver fondato all'Università Cattolica la Scuola di Milano, che ha dato vita a collane e a ricerche, persino a un
Lessico di Platone curato da Roberto Radice (Edizioni Biblia), Reale ha raccolto, completato e aggiornato le prove per formulare una nuova interpretazione platonica. Se la Richard ha condotto il suo lavoro per dimostrare l'autenticità di questa tesi scavando nelle opere di Aristotele e dei protagonisti dell'Accademia antica (Teofrasto, Ermodoro, Speusippo, Senocrate), egli ha passato al vaglio sistematicamente i dialoghi mettendo in relazione la soluzione dei grandi temi platonici tra le dottrine scritte e quelle non scritte. Nel libro ora pubblicato si trovano, tra l'altro, passi evidenziati e interpretati con prospettive ermeneutiche, la problematica dell'anima, la commedia che avviene in taluni dialoghi e che si può comprendere soltanto attraverso una simile lettura, la stessa questione della scrittura nel pensiero del filosofo. Ma questi sono cenni. L'intento è quello di avviare un'interpretazione aperta di Platone, nella quale i due differenti linguaggi entrino in comunicazione per spiegare una delle filosofie più grandi e importanti della storia.
Platone diventa in tal modo un universo di idee che non muoiono ma vivono dialogando con noi. Mentre continuiamo a scrivere le nostre in margine alle sue pagine, egli ci parla di «verità non comunicabili come le altre conoscenze ».
Corriere della Sera 25.4.08
Biografia Una regia ambiziosa che rifugge dal seguire le semplificazioni delle fiction televisive e che fa riflettere
I demoni di San Pietroburgo
Il lungo duello con la Storia di Dostoevskij Ma l'eleganza di Montaldo frena le emozioni
di Paolo Mereghetti
Mescolando la cronologia con una certa libertà e concentrando nei giorni in cui Dostoevskij scrisse Il giocatore anche una serie di attentati contro i membri della famiglia zarista, il film di Montaldo I demoni di San Pietroburgo rivela da subito le propri ambizioni: usare la Storia, anzi le storie — quella politica e quella letteraria, soprattutto — per riflettere sul ruolo dei «maestri» e sulla influenza che le idee hanno nel formare la gioventù.
Il «maestro» è naturalmente Fëdor Michailovic Dostoevskij (affidato a Miki Manojlovic per gli anni della maturità e a Giordano De Plano per quelli della detenzione in Siberia, entrambi doppiati egregiamente da Sergio Di Stefano): le sue idee, che l'hanno fatto passare dall'adesione giovanile a un socialismo utopistico fino all'accettazione di un umanesimo intriso di religiosità e di messianesimo slavofilo, hanno influito fortemente sulla gioventù russa del secondo Ottocento, infiammata da Bakunin e dal mito socialista e decisa ad abbattere anche col sangue delle bombe l'assolutismo del potere zarista. E proprio questa influenza offre al regista (e ai suoi sceneggiatori Paolo Serbandini e Monica Zapelli, partiti dall'idea che Andrej Konchalovski aveva proposto a Carlo Ponti) lo spunto da cui inizia il plot.
Dostoevskij decide di visitare in manicomio chi gli ha mandato una strana e accorata lettera e così scopre che l'autore — Gusiev (Filippo Timi) — è un rivoluzionario «convertito» dai romanzi e dalle idee dello scrittore e che per non tradire i compagni ma anche per non farsi più coinvolgere nei loro attentati non ha trovato di meglio che fingersi pazzo e farsi internare. La sua speranza, affidata alla lettera per Dostoevskij, è che lo scrittore riesca a far desistere l'amata Aleksandra (Anita Caprioli) dal mettere in pratica l'agguato già preparato contro l'arciduca.
Inizia così una specie di percorso contro il tempo che intreccia diversi piani: c'è quello della ricerca di Aleksandra, sulle cui stracce si è mossa anche la polizia e l'insinuante capo della «terza sezione» Pavlovic (Roberto Herlitzka), che mette a confronto Dostoevskij con gli studenti rivoluzionari che difendono con foga le stesse idee lo avevano affascinato in gioventù. Poi c'è il piano della memoria, che fa riandare il protagonista agli anni in cui fu arrestato per aver aderito a un circolo di intellettuali socialisti, poi condannato e messo davanti a un plotone di esecuzione (per un'atroce messinscena punitiva) e infine «graziato» con la condanna ai lavori forzati in Siberia. Dove lo scrittore di origini aristocratiche (anche se decadute) finì per confrontarsi davvero con il popolo e tutte le sue contraddizioni.
E infine c'è il piano «metaforico» (anche se storicamente realissimo) della scrittura del Giocatore, dettato in pochi giorni a una stenografa che sarebbe diventata la sua seconda moglie (Carolina Crescentini), e che permette di affrontare un'altro corsa contro il tempo (per soldi si è impegnato a consegnare il testo entro una certa data), di descrivere un altro aspetto controverso della propria vita (la passione per il gioco che lo portò sul lastrico) e soprattutto di rendere sempre più complessa e controversa la figura del «maestro», umanissimo quanto vulnerabilissimo nei suoi vizi e nelle sue debolezze.
Montaldo affronta questa materia senza sottolinearne troppo il possibile lato ideologico e soprattutto senza arrivare a stabilire un vincitore certo tra le idee «revisioniste » dello scrittore e quelle «rivoluzionarie » dei giovani (la Storia, invece, ci dirà che gli attentati anarchico-socialisti continuarono: nel 1881, cioè una ventina d'anni dopo i fati raccontati nel film, il gruppo Narodnaja Volja assassinò lo zar Alessandro II), ma non sceglie nemmeno di scavare più a fondo nella psicologia di Dostoevskij e negli abissi di quell'anima umana che i suoi romanzi avrebbero saputo scandagliare in maniera così magistrale.
Sceglie piuttosto una narrazione più tradizionale, «antica» verrebbe quasi da dire, che si ricollega direttamente allo stile delle sue regie anni Settanta e Ottanta e che sarebbe ingeneroso definire tout court «televisiva » (basterebbe il ricercato lavoro sull'illuminazione e la fotografia di Arnaldo Catinari per capire quanto poco il film sia debitore dell'estetica senza profondità in stile fiction), ma che non cancella l'impressione di un cinema fin troppo «pedagogico», fin troppo «equilibrato », più attento alle suggestioni del romanzesco che a quelle del visivo. Una regia che sceglie di non confrontarsi con le scommesse estetiche del cinema contemporaneo e che rivendica con orgoglio il diritto a uno stile «classico», un po' intemporale, signorilmente pittori
Repubblica 25.4.08
La battaglia di Roma
di Edmondo Berselli
Basterebbe la violenza dell´attacco rivolto da Silvio Berlusconi a Francesco Rutelli, «un voltagabbana», «un sindaco con cui sarebbe difficile collaborare», per chiarire l´importanza politica che riveste il ballottaggio per il comune di Roma. Per la verità sarebbero sufficienti anche gli insulti rivolti al candidato del centrosinistra da Gianfranco Fini, che lo ha definito «una salma politica», tentando di fare a pezzi con le male parole il giudizio generale positivo che ha costantemente circondato Rutelli, il sindaco del Giubileo, durante le sue due esperienze in Campidoglio dal 1993 al 2001. E quindi si capisce anche la durezza e insieme l´emotività di alcune risposte, come quella di Massimo D´Alema, «fermiamo la marea nera sulla Capitale». Sono moltissimi gli elementi che mettono in rilievo la posta che si gioca al ballottaggio, a cominciare da quelli simbolici. Siamo nel clima del 25 aprile, anniversario della Liberazione, una data che richiama alla mobilitazione tutti coloro che mantengono una sensibile diffidenza verso il candidato del centrodestra, Gianni Alemanno, per il suo passato da «capobranco missino», come l´ha definito simpateticamente Il Foglio, e guardano con insofferenza all´appoggio elettorale che, pur senza un apparentamento esplicito, gli viene da Francesco Storace.
Sono sentimenti che qualcuno giudica fuori moda, nel momento in cui figure di riferimento del Popolo della libertà come Marcello Dell´Utri propagandano i diari fasulli di Benito Mussolini e invitano nuovamente al repulisti revisionista nei libri di scuola. Ma che mantengono un valore di discrimine, dal momento che riportano la politica a scelte essenziali, di qua o di là, senza terzismi e volteggi più o meno eleganti. Perché in primo luogo c´è il valore non soltanto nazionale della città di Roma, la capitale di un´Italia che rischia di essere spartita e lottizzata a colpi di spesa pubblica fra l´autonomismo leghista di Umberto Bossi e l´autonomismo meridionale di Raffaele Lombardo. Oggi infatti Roma non è soltanto la "ladrona" maledetta dagli slogan nordisti; è anche l´immagine nel mondo di un´Italia che vive e si alimenta di contraddizioni territoriali e politiche profonde.
Si tratta di un´immagine estetica, storica, mitologica, e inevitabilmente di un´immagine politica. Se cade, Roma diventerà lo spot pubblicitario internazionale del centrodestra trionfante. Ma nello stesso tempo la partita per il Campidoglio è, se possibile, ancora più ampia. Si svolge entro un perimetro che racchiude il futuro della politica italiana e implica un giudizio sull´evoluzione del sistema democratico e sui futuri rapporti di forza tra i partiti.
Per il centrodestra, la conquista di Roma costituisce la possibilità di sigillare con un risultato spettacolare l´esito delle elezioni del 13-14 aprile. Basti pensare che solo due anni fa, alle amministrative del 2006, Alemanno aveva raccolto uno scheletrico 37,1 per cento rispetto al sindaco uscente Walter Veltroni, riconfermato d´acchito con il 61,4 per cento. È anche per questo che la nuova sfida di Alemanno viene guardata con un fremito di mondana curiosità dall´ambiente dei circoli e dei salotti della Roma che conta. L´eventuale affermazione del "cristiano celtico" Alemanno, del postmissino portatore di una cultura lontana dai principi liberali classici, rappresenterebbe la prova che l´avanzata della destra, una destra composita culturalmente come un collage arlecchino di ispirazioni politiche, è irresistibile e il suo consolidamento è già in corso. Si dovrebbe quindi assistere al veloce e cinico riallinearsi degli establishment, con l´euforia da "bandwaggoning", la corsa a saltare sul carro del vincitore previsto.
Per il Partito democratico, di cui Rutelli è una delle figure eminenti, l´appuntamento con questo secondo turno di voto rappresenta una prova sul filo del dramma. Dalla tenuta di Roma dipende infatti il giudizio sul risultato ottenuto da Veltroni sul piano nazionale. Nessuno per ora può contestare la ricostruzione secondo cui l´alleanza organizzata dal Pd ha perso, ma nello stesso si è costituito in Italia un "motore riformista" che servirà a ripartire con un assetto competitivo. Ma quel terzo di italiani che ha votato per il Pd può configurare due entità politiche diverse: un giardinetto residuale, destinato a rattrappirsi, oppure una galassia in potenziale espansione. Il voto della Capitale può rivelare quindi la natura vera e non contingente del centrosinistra, assegnargli una prospettiva, in sostanza, illustrare se la scommessa solitaria di Veltroni ha avuto un senso o se invece è stata semplicemente un azzardo.
Naturalmente costituisce un elemento ulteriormente problematico il fatto che a Roma il candidato Rutelli corre con l´appoggio della Sinistra Arcobaleno, il cartello uscito praticamente distrutto dal voto per le politiche, dopo la separazione "consensuale" dal Pd. Fra le molte linee di cui si compone il disegno elettorale di Roma, c´è anche da considerare il fattore psicologico che grava sull´elettorato della sinistra cosiddetta radicale. Può prevalere il senso di rassegnazione dopo la riduzione allo stato extraparlamentare; ma Rutelli e il Pd possono invitare questa sinistra a una mobilitazione che testimoni la volontà di resistere come forza politica, in parte per ragioni immediate, per impedire la conquista da parte della destra, e in parte anche per mantenere aperto il laboratorio istituzionale della sinistra, cioè per predisporre le condizioni di una sua sopravvivenza nel paese.
Che in meno di due anni dalla riconferma a valanga di Veltroni si stia assistendo a un testa a testa rappresenta con chiarezza la sfida a cui è sottoposto il centrosinistra. A Roma si sta disputando la possibilità che nei prossimi anni esso sia in grado di rappresentare un´alternativa politica razionale ed efficace. Chiunque non abbia voglia di assistere al trionfo della destra proteiforme che ha vinto le elezioni politiche, e sia inquieto rispetto al programma di "modernizzazione reazionaria" che essa espone, chi non ami la vocazione corporativa di cui Alemanno è uno strenuo portatore, ha la possibilità di sostenere quell´Italia riformista che altrimenti rischia di essere ridotta a minoranza permanente.
Repubblica 25.4.08
Sessantotto il mio anno di follia
di Paul Auster
Mi diedi da fare per smantellare la recinzione strappando il reticolato e menando colpi insieme a decine di compagni; e devo confessare di aver provato una gran soddisfazione
Correva l´anno della follia, l´Anno con la maiuscola. Quello del fuoco e della morte. Avevo compiuto ventun anni da poco ed ero pazzo come tutti gli altri. Mezzo milione di soldati americani combattevano in Vietnam. Martin Luther King era stato appena assassinato. In tutta l´America le città bruciavano, e il mondo sembrava avviato verso un tracollo apocalittico.
Mi colpiva l´idea che la nostra follia fosse una risposta perfettamente sensata a quanto era toccato in sorte a me e ai ragazzi della mia età in quel 1968. Subito dopo la laurea mi aspettava la chiamata alle armi per una guerra che disprezzavo dal profondo del mio essere. Ero ben deciso a rifiutare di combatterla, quella guerra, e avevo solo due alternative per il futuro: la galera o l´esilio.
Non ero un violento. Se ripenso ora a quegli anni mi vedo come un ragazzo tranquillo, sempre chino sui libri, immerso nei corsi di letteratura e filosofia della Columbia University e nello sforzo di capire come si fa a diventare uno scrittore. Avevo partecipato a qualche marcia contro la guerra, ma non militavo nelle organizzazioni politiche del campus; e pur essendo un simpatizzante dell´Sds (uno dei molti gruppi studenteschi, radicale ma tutt´altro che estremista) non andavo alle riunioni, né avevo mai distribuito volantini o altro materiale propagandistico. Volevo solo leggere i miei libri, scrivere poesie e bere con gli amici al West End Bar.
Ci andai perché ero fuori di testa; il veleno del Vietnam aveva invaso i miei polmoni e mi aveva fatto impazzire. E gli studenti che a centinaia si erano riuniti quel pomeriggio intorno alla meridiana, al centro del campus, in realtà non erano lì per protestare contro il progetto della palestra, ma piuttosto per dare sfogo alla loro follia scagliandosi contro un obiettivo qualunque. E poiché eravamo tutti studenti della Columbia, non trovammo di meglio che lanciare mattoni contro l´università – peraltro impegnata in una serie di lucrosi progetti di ricerca per committenti dell´industria bellica, e quindi coinvolta nello sforzo militare in Vietnam.
I discorsi infuocati si susseguivano, accolti con boati di approvazione dalla folla degli studenti imbufaliti. A un certo punto qualcuno propose un assalto al cantiere, per smantellare la recinzione che impediva l´accesso ai non addetti. Parve a tutti un´idea eccellente, e una marea di studenti urlanti e fuori di testa lasciò il campus della Columbia per dirigersi a passo di carica verso il Morningside Park.
Con mia grande sorpresa mi ritrovai in mezzo a loro. Cos´era successo al giovane ammodo, deciso a passare il resto della sua vita solo in una stanza a scrivere libri? Mi diedi da fare nell´opera di smantellamento della recinzione, strappando il reticolato e menando colpi insieme a decine di compagni; e devo confessare di aver ricavato una gran soddisfazione da quell´attività distruttiva e folle.
Dopo l´assalto alla recinzione del parco la nostra furia si rivolse contro gli edifici del campus, che occupammo per una settimana intera. Ero finito nell´aula di matematica, dove rimasi per tutta la durata del sit-in. Frattanto gli studenti della Columbia erano in sciopero. Mentre noi tenevamo tranquillamente le nostre riunioni all´interno, il campus era sconvolto dal chiasso di bellicosi scontri verbali tra i sostenitori dello sciopero e i contrari, che a volte venivano alle mani abbandonando ogni ritegno. La sera del 30 aprile la direzione dell´università decise che era venuto il momento di farla finita e chiamò la polizia. Seguirono tumulti sanguinosi. Fui arrestato con altri settecento studenti e trascinato per i capelli da un poliziotto verso il furgone della polizia, mentre un altro mi pestava la mano con lo stivale. Ma lungi dall´essere pentito, ero orgoglioso di aver dato il mio piccolo contributo alla causa. Pazzo e orgoglioso. Cos´avevamo ottenuto? Non molto, a dire il vero. Di fatto, il progetto della palestra fu scartato. Il vero problema però era il Vietnam. Ma la guerra continuò per altri sette orribili anni. Non si cambia la politica di un governo attaccando un´istituzione privata. Nel maggio di quell´Anno con la maiuscola gli studenti francesi si ribellarono in un confronto diretto col governo in carica, dato che le loro università erano pubbliche, controllate dal Ministero dell´Educazione. E in Francia quella rivolta diede il via a una serie di cambiamenti. Ma noi della Columbia University non avevamo alcun potere. La nostra piccola rivoluzione era poco più di un gesto simbolico. Eppure, i gesti simbolici non sono gesti vuoti. E dati i tempi, avevamo fatto quello che potevamo.
Esito a fare un paragone col presente. Perciò non concluderò questa breve reminescenza con la parola «Iraq». Oggi ho 61 anni, ma la penso più o meno come allora, in quell´anno di fuoco e di sangue. E stando qui, seduto in una stanza con una penna in mano, mi rendo conto di essere tuttora pazzo – forse più pazzo che mai.
© New York Times Syndicate Traduzione di Elisabetta Horvat
Repubblica 25.4.08
La lezione di Morin. La sfida della complessità
Intervista al filosofo francese
La Francia lo celebra conla riedizionedelle opere e con convegni di studio
"Il cuore del problema è la conoscenza della conoscenza, una caccia all´errore"
PARIGI. Se c´è un intellettuale francese per cui l´espressione maître à penser abbia oggi ancora un senso, questi è Edgar Morin. Un maestro del pensiero rispettato e studiato, che da oltre mezzo secolo affronta con le armi della riflessione la complessità del mondo e le sue contraddizioni. A ottantasei anni, il sociologo approdato alla filosofia è oggi più che mai al centro del dibattito intellettuale: i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo e le sue tesi discusse con grande attenzione in occasione di affollati convegni. L´ultimo qualche giorno fa a Parigi, dove, per due intere giornate, Morin si è confrontato pubblicamente con specialisti di varie discipline.
Non è un caso, dunque, che la casa editrice Seuil abbia deciso di ripubblicare nella sua integralità La Méthode, vale a dire i sei volumi scritti dallo studioso tra il 1977 e il 2004 (in Italia sono stati tradotti da Feltrinelli e Raffaello Cortina), affrontando, grazie al dialogo continuo tra scienze umane e scienze naturali, le molte forme della complessità. Una riflessione che, partendo dalla «conoscenza della natura», si allargata alla «natura della conoscenza», investendo poi il mondo delle idee, i territori dell´antropologia e il continente dell´etica. «Come tutti i pionieri, anch´io all´inizio sono stato incompreso, oggi però l´importanza del concetto di complessità è riconosciuta da tutti», ricorda Morin, al cui pensiero volontariamente aperto la rivista Communications ha appena dedicato un ricco numero monografico. «Quando ho iniziato a scrivere il primo volume del Metodo, non ero certo un profeta. Cercavo solo di capire la realtà che mi stava davanti, confrontandomi con le idee che iniziavano a circolare in certi ambiti di ricerca. In seguito, alcune delle mie intuizioni sono state recepite dal mondo della cultura, altre invece suscitano ancora molte resistenze».
Il Metodo è un lavoro in divenire che si è riorganizzato nel corso del tempo...
«Scrivere per me non è semplicemente redigere un testo a partire da un pensiero già cristallizzato. Al contrario, il momento della scrittura è quello in cui le riflessioni si formano e si trasformano, perché nuove idee modificano continuamente l´economia del lavoro già svolto. Senza dimenticare le letture di alcuni amici che, con le loro critiche, mi hanno mostrato nuovi orizzonti di ricerca, spingendomi a riprendere il lavoro. È un modo di lavorare difficile, ma appassionante, che trasforma di continuo il mio pensiero. Un pensiero, quindi, che non è mai immobile né definito una volta per sempre. Come diceva Nietzsche, il metodo arriva solo alla fine».
Perché il concetto di complessità le è sembrato da subito decisivo?
«I problemi importanti sono sempre complessi e vanno affrontati globalmente. Se voglio comprendere la personalità di un individuo, non posso ridurla a pochi tratti schematici. Devo necessariamente tenere conto di molte sfumature, spesso contraddittorie. Lo stesso vale per la situazione del pianeta, per comprendere la quale si devono tener presenti molti parametri. Insomma, la realtà è complessa e piena di contraddizioni che sono una vera sfida alla conoscenza. Per affrontare tale complessità, non basta semplicemente giustapporre frammenti di saperi diversi. Occorre trovare il modo per farli interagire all´interno di una nuova prospettiva».
È ciò che ha fatto lei nel Metodo?
«In effetti, ho cercato di elaborare alcuni principi in grado di mettere in relazione quelle conoscenze che gli strumenti tradizionali della conoscenza di solito non riescono a collegare. Per questo ho utilizzato l´insegnamento di quei filosofi che non hanno avuto paura di affrontare le contraddizioni, da Eraclito a Marx. Senza dimenticare Pascal, per il quale l´uomo era l´essere più miserabile e grottesco, ma anche il più nobile».
Il terzo volume del Metodo è dedicato alla «conoscenza della conoscenza». Perché?
«Questo è certamente il cuore del problema, giacché dobbiamo conoscere i meccanismi della conoscenza, se vogliamo comprendere i nostri errori. Se le mie idee hanno incontrato il favore di molte persone in ambiti diversi - dalla scienza alla letteratura, dalla filosofia alla pedagogia - è perché costoro erano profondamente insoddisfatti di una cultura dominata dal pensiero binario, fatta di opposizioni manichee che rimuovono ogni contraddizione. Nel mio lavoro hanno trovato una prima risposta ai loro dubbi. Io però ho solo rivelato intuizioni che, sebbene non formulate, erano probabilmente già presenti in molti studiosi. Esiste un´aspirazione diffusa ad un altro modo d´intendere la conoscenza. Per questo, le mie riflessioni hanno potuto diffondersi in molti paesi, tra cui anche l´Italia, dove il mio lavoro è seguito ancor più che in Francia. Di ciò naturalmente sono molto soddisfatto, anche se molto resta ancora da fare».
In quale direzione?
«Occorre occuparsi dell´insegnamento. La riforma della conoscenza e del pensiero potrà concretizzarsi solo attraverso una riforma dell´insegnamento, una problematica a cui ho dedicato La testa ben fatta e I sette saperi necessari all´educazione del futuro. Il nostro sistema d´insegnamento separa le discipline e spezzetta la realtà, rendendo di fatto impossibile la comprensione del mondo e impedendoci di cogliere quei problemi fondamentali che sono sempre globali. L´eccesso di specializzazione è diventato un problema. Esperti molto competenti nel loro settore, non appena il loro ambito specifico è traversato da altre problematiche, non sanno più come reagire. Avrebbero bisogno di affrontare globalmente i problemi, ma non ne sono capaci».
Occorre un´ottica interdisciplinare?
«Certo, purtroppo però l´interdisciplinarietà avanza molto lentamente. Nel mondo della ricerca francese i baroni delle singole discipline non sono assolutamente sensibili a tale prospettiva. C´è però un movimento in corso, che io cerco d´incoraggiare. L´interdisciplinarietà è positiva perché permette a persone che lavorano in campi diversi di dialogare, ma occorrerebbe fare un ulteriore passo in avanti in direzione della transdisciplinarietà, la sola capace di costruire un pensiero globale in grado di articolare i diversi saperi. In fondo, esiste già una scienza che si muove in questo modo e che ci può servire da modello».
Quale sarebbe?
«L´ecologia, che poggia sull´idea di ecosistema. Vale a dire, un´organizzazione complessa, fondata al contempo sul conflitto e la cooperazione, che nasce dalla eco-organizzazione e dall´implicazione reciproca delle diverse componenti del sistema. Facendo interagire molti parametri diversi, l´ecologia è un esempio molto utile, anche se resta una scienza con una dimensione aleatoria, dato che non siamo ancora capaci di rispondere a tutti i grandi interrogativi che essa solleva. Tuttavia, anche le cosiddette scienze esatte sono sempre più spesso costrette ad integrare la dimensione del dubbio e dell´incertezza. Nessuna scienza può vantare esclusivamente certezze. Si pensi alle difficoltà dell´economia di fronte al marasma dei mercati. Insomma, non bisogna mai eliminare il dubbio».
L´ecologia è un modello anche per il sistema della cultura? È per questo che ha parlato di ecologia delle idee?
«È uno dei modelli, dato che anche in ambito culturale agiscono contemporaneamente i principi di conflitto e di cooperazione. Partendo da questo punto di vista, è possibile pensare in termini diversi anche la relazione tra autonomia e indipendenza. In natura non si può essere indipendenti che dipendendo dal proprio ambiente. Ciò che vale per l´ambiente biologico, vale anche per l´ambiente sociale, urbano, culturale, religioso. Comprendere l´interdipendenza dei sistemi culturali e delle idee è oggi più che mai necessario. Ciò contribuirà a cambiare il nostro modo di pensare, dandoci uno strumento in più per sfuggire all´abisso verso cui il pianeta sembra essere destinato».
Repubblica 25.4.08
La storia del campo di concentramento in un libro di Giuseppe Mayda
Mauthausen il lager degli italiani
Vi furono internati 200.000 deportati, 8.000 dall´Italia: ne morì il 60 per cento
di Susanna Nirenstein
Boris Pahor, quando scrive in Necropolis della sua lancinante esperienza a Dachau, cita Mauthausen come uno di quei luoghi dove «lo sterminio è stato ancor più sconvolgente»: con quei 186 gradini della gradinata della morte, dalla cava di granito al campo, su cui «i corpi zebrati dovevano inerpicarsi sei volte al giorno con una pesante pietra sulle spalle lungo l´orlo di un precipizio»; qui stavano kapò e guardie che buttavano giù per la scarpata con un fendente o «uno spintone chi a loro giudizio aveva una pietra troppo piccola sulle spalle», o semplicemente barcollava. «La parete dei paracadutisti» la chiamavano, anche perché molti vi si tuffavano da soli per farla finita.
Mauthausen non era stato creato nel ‘38, a poco più di 20 chilometri da Linz, in Austria, come «campo di sterminio»: la sua funzione nominale era quella di «concentrare» i prigionieri soprattutto "politici" e sfruttarli nel lavoro forzato per la grandezza del Reich. Vogliamo narrarne almeno in parte gli orrori non solo per la violenza, il terrore e il sadismo incontrati, e di cui va dato conto se non altro per riflettere e onorarne le vittime, ma perché, come ora ci racconta Giuseppe Mayda nel suo Mauthausen (il Mulino, pagg. 476, euro 28), fu il campo degli italiani: ce ne finirono 8000, più che in ogni altro lager.
Mayda descrive minuziosamente e appassionatamente la vita e soprattutto la morte che regnava a Mauthausen. La sveglia, l´adunata nell´Appelplatz dove si dovevano portare anche i moribondi e persino i morti nella nottata: l´appello poteva durare ore su ore, essere ripetuto all´infinito con 15 gradi sotto zero.
L´aspetto del lager era quello di una fortezza in pietra dall´aspetto vagamente esotico per le sue torrette: i nazisti vi si muovevano come barbari, spostando masse di persone a scudisciate, verso la cava omicida la cui scala a giorni si inzuppava letteralmente di sangue, spingendo i deportati verso il filo spinato ad alta tensione, facendo azzannare i detenuti dai cani, costringendo con la forza alcuni a soffocarsi con un filo di ferro, nascondendo la valanga di morti sotto la dicitura «fuga», «suicidio». C´era anche un muro per la fucilazione. Ma non si lasciava la vita solo così: a parte la fame che attanagliava tutti, dalle cinque baracche destinate ai malati ogni giorno uscivano da 100 a 170 deceduti, e non di morte naturale. Quelli colpiti da tifo petecchiale (centinaia), per esempio, erano destinati all´iniezione al cuore di benzina, altri al colpo alla nuca, altri ancora, soprattutto i tubercolotici, all´«azione-bagno» (una doccia gelata di mezz´ora, ripetuta più volte se non bastava, in una stanza con gli scoli bloccati: se non si moriva per il freddo, si affogava). Alla maggioranza degli inabili toccava lo Zylon B, o nella fortezza di Hartheim, dove era in funzione una camera a gas usata in un primo momento per il progetto Eutanasia (progetto che aveva ucciso, è bene ricordarlo, 90.000 tedeschi, tra cui 5000 bambini), o nella camera stagna costruita nei sotterranei di Mauthausen, accanto al crematorio.
Degli 8000 italiani imprigionati a Mauthausen, ci dice Mayda (già autore, tra l´altro, di Ebrei sotto Salò o di Storia della deportazione dall´Italia 1943-45) ne morirono da 3750 a 5750, secondo le stime. In totale dei 200.000 deportati a Mauthausen dall´agosto ‘38 al 5 maggio ‘45 (quando fu liberato da una Divisione corazzata statunitense), le fauci di Mauthausen ne inghiottirono circa il 60 per cento: al primo posto i 32.180 scomparsi sovietici, seguiti da 30.203 polacchi, 12.923 ungheresi, 12.890 jugoslavi, 8.203 francesi, 6.502 spagnoli.
Per quel che riguarda l´Italia, dall´8 settembre 1943 alla primavera ‘45 i tedeschi, col preciso obiettivo di stroncare qualsiasi moto di ribellione e protesta, deportarono tutti i cittadini colpevoli, ai loro occhi, di disobbedienza, opposizione e dissenso. I catturati furono i più diversi: quando gli americani liberarono i 209 internati italiani del blocco 22 di Gusen (un sottocampo di Mauthausen), per intenderci, vi trovarono 87 partigiani, 5 renitenti alla leva di Salò, 28 operai scioperanti, 3 ebrei, 4 militari, 2 «liberi lavoratori» in Germania, un accusato di espatrio, uno di porto abusivo d´armi, 4 incriminati di reati annonari (borsa nera), 4 «individui sospetti», 2 indiziati di «favoreggiamento ai partigiani», 2 di favoreggiamento agli ebrei, 13 rastrellati, 5 antifascisti, 6 «antitedeschi», 27 politici, un disertore, un sovversivo, un accusato di spionaggio, uno di rifiuto al lavoro, uno per sabotaggio. Insomma, scrive Mayda, si era colpito nel mucchio, con tipiche azioni intimidatorie, per terrorizzare. Ci fu gente presa al biliardo in maniche di camicia e spedita al lager in pieno gennaio. Quando il carcere di Parma viene colpito da un bombardamento si deportarono tutti i detenuti, e la stessa sorte toccò alle prostitute di una casa di tolleranza ligure.
Una costante, sottolinea Mayda, fu la deportazione dei lavoratori scesi in sciopero nelle grandi fabbriche del Nord nel ‘44: dei 250 portati da La Spezia (soprattutto operai e tecnici), 167 (il 67 per cento) morirono a Mauthausen, nei suoi sottocampi e nel vicino castello di Hartheim. Dei 67 lavoratori rastrellati nelle aziende metalmeccaniche di Savona finiti nello stesso lager se ne salvarono 8. La cattura di chi aveva avuto un ruolo negli scioperi del marzo ‘44 ebbe un forte peso nelle fabbriche di Sesto San Giovanni (43.000 dipendenti soprattutto di Breda, Falck, Pirelli, Magneti Marelli): prima ci furono 1200 arresti preventivi, poi, con le agitazioni, si impose ai capireparto di redigere le «liste nere» dei sovversivi, e scattarono le deportazioni, 215: se non trovavano l´interessato, prendevano, il padre, il fratello, il figlio; a Mauthausen ne morirono 156. L´8 agosto partirono da Firenze 597 rastrellati in Toscana e cui si aggiunsero altri carri con 250-290 prigionieri lombardi e piemontesi. Ad agosto a Mauthausen arrivarono altri 300 lavoratori italiani.
Un´altra razzia straordinaria avvenne allo Stadio San Siro domenica 2 luglio ‘44: alla fine della partita Milan-Juventus, l´altoparlante annunciò ai giovani classe 1916-1926 di radunarsi all´uscita nord: 300 ragazzi furono obbligati a salire su una quindicina di camion. Di loro non si seppe più nulla. Raggiunsero Mauthausen invece 480 prigionieri presi il 2 gennaio ‘45 a Regina Coeli.
Basta, volevamo solo far capire insieme a Mayda, che l´emorragia italiana fu generale. In venti mesi di occupazione nazista i trasporti dei «politici» dall´Italia al Reich ammontarono ad almeno ottanta. Quelli diretti a Mauthausen furono 29 con complessivi 6.871 prigionieri, altri deportati arriveranno nei trasbordi tra un lager e l´altro. Con alcuni treni blindati, giunsero anche degli ebrei italiani. E molti ebrei da altre parti d´Europa, a volte catalogati come politici e non con la stella gialla. Difficilissimo tenere la contabilità: i nazisti prima dell´arrivo degli Alleati distrussero tutti gli archivi, rimasero solo i documenti salvati nei giorni precedenti da alcuni detenuti-impiegati.
Fu morte, e ancora morte. Quando ci si addentra nelle sevizie messe in atto a Mauthausen il cuore, ancora una volta indietreggia. Non furono solo Auschwitz, Treblinka, Sobibor, Belzec, Majdanek i campi dello sterminio, anche se solo a questi cinque spettava la liquidazione industriale, di massa. Meglio ricordare, con Mayda, che l´elenco dei lager ne contiene più di 1600, ognuno con il suo abisso.
Repubblica 25.4.08
Festival di Torino. Presentato ieri il programma
Il ruolo di Israele
Al via La fiera delle polemiche
1.800 relatori, 800 tra convegni e dibattiti, 24 sale per gli incontri, 1.400 editori
TORINO. Chi ha preparato il programma dei dibattiti e dei convegni che scandiranno la presenza di Israele, come ospite d´onore, alla Fiera internazionale del libro di Torino, in calendario dall´8 al 12 maggio e che verrà inaugurata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano? Elazar Cohen, numero due dell´ambasciata in Italia dello Stato ebraico, intervenendo ieri alla presentazione della manifestazione, è stato categorico: «Non abbiamo avuto alcuna parte nella elaborazione delle iniziative del nostro stand. È stato Angelo Pezzana (noto libraio torinese, uno dei fondatori della Fiera e dell´associazione Italia-Israele, ndr) a occuparsene. Ha avuto libertà completa, senza richieste di alcun genere o veti. È un programma che riflette la realtà israeliana».
Le affermazioni del diplomatico, cui si aggiungono quelle analoghe di Rolando Picchioni, presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura, sono una smentita a quanti, finora, hanno sostenuto che la presenza di Israele al Salone sia stata strettamente coordinata e gestita dalle autorità di Tel Aviv, per festeggiare la creazione, l´8 maggio di sessant´anni fa, dello Stato. Non per questo, tuttavia, mettono fine alle polemiche e all´annunciata campagna di boicottaggio. L´associazione Forum Palestina, che critica Fausto Bertinotti per la sua presenza in fiera, ha già dato notizia che durante la kermesse del Lingotto avrà luogo una manifestazione nazionale contro Israele nelle strade della città (sabato 10), oltre ad altri momenti di mobilitazione filopalestinese. È prevista anche una visita del teologo islamico Tariq Ramadan, che però, nei giorni scorsi, ha fatto sapere che non metterà piede alla Fiera del libro.
Picchioni e il direttore Ernesto Ferrero, come si suole dire, incrociano le dita e si augurano che la manifestazione, all´insegna del filo conduttore «Ci salverà la bellezza», possa consumarsi senza problemi di ordine pubblico. E, per stemperare un po´ le preoccupazioni, Ferrero ironizza: «Le polemiche nei nostri confronti, frutto peraltro di disinformazione, ci hanno giovato: prima nessuno ci filava, adesso ci conoscono tutti, da Al Jazeera al New York Times».
La Librolandia vera e propria, tensioni a parte, si presenta nel suo ventunesimo capitolo con qualche contributo finanziario in meno, 75 editori in più (sono circa 1400) e una pantagruelica elencazione di grandi numeri: 18.480 relatori, 800 tra convegni e dibattiti, 24 sale per gli incontri. Si comincia la sera del 7 maggio, con una festa inaugurale alla Reggia di Venaria Reale, nel corso della quale Aharon Appelfeld, decano degli scrittori israeliani, leggerà una prolusione. Si prosegue con Dario Fo e Abraham B. Yehoshua, Meir Shalev e Clive Clusser, Gore Vidal, Elik Shafak (la scrittrice turca minacciata per avere scritto del genocidio armeno), Boris Pahor, Joe Lansdale, Javier Marías, Aarto Paasilinna, Raffaele La Capria, Edoardo Sanguineti, Eugenio Scalfari (che presenterà il suo nuovo libro), Remo Bodei, Luciano Canfora, Danilo Mainardi e tantissimi altri.
Non mancano romanzieri, poeti, intellettuali, del mondo arabo e islamico, ospiti degli spazi di Lingua madre. Dialogheranno con i loro colleghi ebrei ed israeliani? È uno degli interrogativi che potranno avere una risposta soltanto al Lingotto.
Si registra anche, forse per via del clima politico nel nostro Paese, un forte ritorno all´impegno civile. I temi della Costituzione, del lavoro, dei diritti, della mafia, del terrorismo, della corruzione, dominano in numerosi convegni, molto più che negli anni passati. Tra i momenti dedicati alle questioni politiche, civili e sociali, ce n´è uno ancora drammaticamente presente nella memoria dei torinesi e degli italiani: la morte degli operai della Thyssen Krupp. Paola Cortellesi e Claudio Gioè leggeranno il reportage sulla tragedia scritto da Ezio Mauro, direttore de la Repubblica.