domenica 27 aprile 2008

l'Unità 27.4.08
La posta in gioco

di Furio Colombo


Oggi, mentre vado a votare per Rutelli, mi rendo conto che la posta in gioco è molto alta, forse estrema. Ho fiducia in Rutelli per il modo in cui ha già fatto il sindaco di Roma (si vedano in proposito i grandi settimanali americani nell’anno del Giubileo).
Ma questa volta, in questo caso la scena si apre a una prospettiva molto più vasta. E con il punto di riferimento spostato. Rutelli non è tutta la sinistra ma piuttosto tutta la normalità. È la motivazione a fare un buon lavoro misurato sul piano professionale. Alemanno invece è tutta la destra, dal conservatore al naziskin, dalla svolta di Fiuggi al rito mussoliniano.
E questo non dipende dal carattere, vita o predisposizioni del candidato. Dipende dal simbolo che è diventato. Se vince, non si realizza una semplice alternativa destra-sinistra. Se vince, passa con lui un vento furioso di destra che va molto al di là dei contenitori-partito e dei confronti tradizionali. Passa un vento che abbatte limiti e moderazioni e qualunque incentivo a trattenere impeti, eccessi, smottamenti pericolosi del pezzo di terreno democratico su cui siamo accampati tutti.
Non occorre un grande approfondimento per affermare che qualunque folla (o opinione pubblica) si abbandona più facilmente a comportamenti estremi in mancanza di riferimenti anche solo simbolici. Questa volta la scelta non è fra un sindaco o un altro ma fra convivenza e vendetta, fra futuro e passato, fra lavoro insieme e provocazione squadristica. Non è necessaria l’analogia meteorologica per ricordare che le aree di bassa pressione, quando sono troppo grandi e durano troppo a lungo, trasformano i temporali in devastanti uragani.
Il senso di ciò che sto dicendo è che l’esito delle elezioni di Roma, una volta dette “amministrative” e - in questo caso - decisamente politiche, farà pesare il suo effetto più grande non (non solo) su Roma ma soprattutto in Italia.
Sarà una scossa capace di cambiare o riassestare alcuni pezzi e alcuni equilibri del governo ancora non nato. Sarà un modo di sapere in anticipo se il peggio elettorale della destra italiana diventerà regola di comportamento per governo e maggioranza, oppure se finiranno per prevalere alcuni segni di “mitezza” di cui parla un editoriale de La Stampa il 23 aprile.
Alemanno non è Attila, è solo un leader deciso a rivendicare e imporre alla sua città tutti i “valori” di destra che lo hanno formato e di cui è coerente erede.
Rutelli non è San Francesco. È un politico-organizzatore di tradizione democratica europea che - persino sotto attacco e ricatto di voti - non riesce a immaginare (come nessun suo collega dell’Ue) deportazioni di massa.
Ma il peso simbolico delle rispettive elezioni è molto grande, prima di tutto per il Paese.
Rutelli sindaco significa: c’è un’Italia saldamente democratica e rispettosa di tutti di cui tenere conto. Alemanno sindaco è il messaggio opposto (e questo non è un tratto per descrivere Alemanno ma il fatto che potrebbe accadere): non c’è nessuna altra Italia di cui tenere conto, non è necessario interpellare o ascoltare nessuno o tenere conto della storia democratica italiana. Alemanno sindaco sarebbe un drammatico e risoluto abbandonarsi al vento di una destra senza remore, senza limiti, senza controlli. Una destra che - già adesso - si permette di chiedere «le scuse della comunità ebraica romana», una vicenda che fino a poco tempo fa sarebbe stata impossibile nella città che ricorda ancora il 16 ottobre 1943.
* * *
Come si divertiva il tassista di Roma (ore 14.00, 22 aprile, taxi 3570) ad ascoltare in diretta su Radio 105, volume altissimo, un collegamento fra giovani conduttori entusiasti e Beppe Grillo. Il tassista gridava con loro, ripeteva “vaffanculo” con Grillo, era travolto dal ridere, ad ogni battuta come «le fedine penali sporche erano una trentina. Adesso sono 73, nuovo record», «tanto se non hai la fedina penale sporca non entri» e «chi ce l’ha ancora pulita adesso si affretta, non vi preoccupate».
Il tassista, del tutto coinvolto ha alzato ancora di più il volume della radio «Le piace Beppe Grillo? a me moltissimo!». Mi gridava sovrapponendo la sua voce alla radio. «Sono d’accordo su tutto! Ordine dei giornalisti? Certo che è da abolire, sono tutti puttane, i giornalisti». «Finanziamento ai giornali di partito? Facciano come me, se li guadagnino i soldi, altro che pagarli noi». E alla fine un urlo quando ha sentito Grillo nominare la Legge Gasparri «abolire, stracciare!», gridava.
La scena mi sembrava insolita per un guidatore di taxi di Roma, dove la partecipazione gridata a un programma radio avviene - se avviene - con le radio che trasmettono discussioni sul calcio. E comunque mi pareva insolito tanto militantismo, quasi a sinistra. È stato inevitabile chiedere: «Scusi, lei per chi ha votato?». «Berlusconi, ma le pare? Berlusconi! Finalmente ci divertiamo! Finalmente si cambia!». Lascia un istante il volante per sfregarsi le mani. Mi è sembrato crudele fargli notare che la Legge Gasparri era il gioiello della corona (in senso tecnico, letterale) di Berlusconi. Tanto più che il mio guidatore era impegnato a spiegarmi la vergogna di una legge elettorale come quella con cui abbiamo votato. «Comodo passare in carrozza dentro una lista blindata, roba da comunisti. Vedrà adesso Berlusconi come gli cambia il gioco!».
Troppo tardi per spiegargli che stava denigrando la legge Berlusconi-Calderoli. Il vento in quel taxi soffiava furioso. Quel vento che in aree di bassa pressione rischia di diventare l’uragano Kathrina. E peggio per chi aveva pensato a un temporale qualunque.
Lo stesso vento disordinato e impetuoso che ho visto soffiare lungo il percorso di una intervista volante del Tg 3, la sera del 22 aprile.
Il tema è: «Perché ha votato la Lega?», con questa domanda la giornalista del Tg 3 insegue una signora bionda e stanca di qualche borgo vicino a Brescia, che si ferma, si volta e dice esasperata: «Perché ci trattano come loro». «Cioè?», vuol sapere la giornalista. «Cioè ci fanno lavorare come loro, otto ore di seguito senza mangiare e mi vergogno a dire la paga». «Loro chi?» chiede per sicurezza la collega del Tg 3, «loro i negri, ha capito? Ci trattano come i negri. È per causa loro che ci fanno lavorare troppo e non ci pagano».
* * *
Un mondo a rovescio ti si presenta come se “Alice nel Paese delle Meraviglie” fosse stato scritto con cattivo umore e cattive intenzioni, da un autore dedito alla confusione. Il Cappellaio Matto fa e dice tutto, smentisce tutto, e poi il contrario di tutto, e spinge gli uni contro gli altri senza pensarci due volte.
La rissa nel saloon sembra essere il clima desiderato. La pistola sarà sfoderata dallo sceriffo al momento giusto.
Ecco dunque che cosa è in gioco nelle elezioni di Roma. È in gioco il freno a mano di un veicolo che sbanda, affollato di una destra festosa, convinta di incontrare il sole che sorge, senza notare, o fingendo di non notare che la Lega è intenta a spingere a colpi furiosi il “nuovo” veicolo lungo una discesa pericolosa di cui si intravede appena il punto di arrivo disastroso.
È in gioco il mettersi al riparo da un vento di confusione in cui le stesse persone (così sembra ascoltando nomi, nazionalità, narrazione dei fatti) appaiono come pericolosi alieni da cacciare in massa, ma sono anche coloro che muoiono accecati dalla stanchezza, mentre, dopo dodici ore di turno e chissà quante ore di di straordinario, attraversando, nel punto e nel momento sbagliato. Muoiono cadendo dai tetti, dalle impalcature, schiacciati dai carrelli della fabbrica, da tubi che rotolano, da camion scaricati in fretta, come capita, dall’aver toccato il cavo sbagliato ad alta tensione. Esseri umani da cacciare e da assumere, da incarcerare e a cui affidare la fabbrica, da accusare di tutto mentre si occupano dei vecchi che nessuno accudisce.
Qualcuno in qualche punto del Paese deve poter governare in modo civile e diverso, un punto di Italia che è anche un simbolo, come Roma.
Per capire quanto stia soffiando forte il vento di una destra che crede di non avere più limiti, neppure nel buonsenso, sentite questa. Jan Fisher, corrispondente del New York Times, dedica mezza pagina di quel giornale, che influenza l’opinione del mondo (dunque anche il turismo) per dire: «Roma è la città più sicura, anche di notte. Roma è una città di festa». È un lancio affettuoso che vale - dato il giornalista e il giornale - la famosa mela che rappresenta New York e l’ha resa simpatica nel mondo. Vale il cuore rosso di “I love N.Y.”. Sentite ora che cosa risponde il capo della destra italiana che governerà fra poco: «Tutte bugie. Tutte invenzioni. I giornalisti americani frequentano troppo la sinistra. Roma è un disastro!».
Lo sanno in molti nel mondo che Berlusconi spesso non controlla quello che dice. Ma lo dice lui, futuro primo ministro d’Italia. E ogni negoziante, ogni artigiano, ogni imprenditore di ristoranti, di alberghi vede dov’è il disastro: nelle parole irresponsabili di Berlusconi che, per beghe elettorali (e forse anche per obbedire alla Lega di Bossi) calunnia Roma come modo per aprire la stagione turistica.
Fate in modo che si senta, ben chiara, una voce diversa. Anche per far sapere che la salute mentale non è perduta del tutto in Italia. Votate Roma.
furiocolombo@unita.it

l'Unità 27.4.08
La marea nera di Alemanno. I voti di Rauti e Storace
di Eduardo Di Blasi


Che ci siano anche i volontari della Rsi a votare per Gianni Alemanno, così come promesso dal suocero Pino Rauti (l’ex ministro ha sposato la figlia di lui Isabella), numericamente non sarà un grande acquisto per il candidato sindaco della destra, vista l’esiguità del numero di quelli che tra costoro sono rimasti in vita, militanti.
E certo che questi voti si vadano a sommare a quelli provenienti da parte della Comunità ebraica di Roma sarà comunque un’interessante questione di sociologia politica da tenere a mente.
Che i nuovi fascisti, quelli un po’ meno attempati e che a Salò ci vanno in gita con pranzo a sacco, votino per Alemanno, pare però questione ormai fuori di dubbio. Di certo, come detto, voterà per lui Rauti. Ha in testa l’idea «innovativa» di far mettere Roma a coltura dai pensionati. Produttori-consumatori-venditori: un progetto a metà tra economia di guerra e autarchia che spera possa essere appoggiato da un ex ministro dell’Agricoltura. Anche l’anziano esponente del Mis (Movimento idea sociale), però, non peserà numericamente più di tanto. Reduci e nostalgici legati alla figura dell’ex leader ordinovista non ne circolano più tanti.
Poi ci sono gli altri, quelli che qualche numero possono metterlo in campo. Sono quelli de «La Destra», in prima battuta. Cinquantacinquemila preferenze al primo turno che Francesco Storace vorrebbe portare in dote all’ex sodale della Destra sociale di An. Nessun apparentamento ufficiale, ma l’appoggio di Storace, Buontempo e Luca Romagnoli ad Alemanno è stata a più riprese dichiarata. I primi due, certo, dopo il naufragio elettorale delle politiche (nessun candidato eletto), restano con le antenne dritte. Il primo neanche con una bella nomea dal punto di vista dell’amministrazione locale. L’ultima polemica tra i candidati al Campidoglio è una schermaglia dialettica su quanti e quali siano gli assessori della sua giunta alla Regione Lazio (che data a soli quattro anni fa) ad essere stati inquisiti.
Luca Romagnoli, neofascista coriaceo, nel giorno della Liberazione si è lanciato in un suo classico revisionista (dopo il galileiano «Se le camere a gas sono mai esistite? Francamente non ho nessun mezzo per poter affermare o negare»). Tema il 25 aprile, ribattezzata «giornata dell’odio civile». Svolgimento. «Siamo convinti che una memoria accettata potrà nascere soltanto quando vecchi tromboni, peraltro assistiti a suon di denaro nelle loro stanche liturgie, riconosceranno che non fu un fazzoletto rosso e una cioccolata americana a liberare l’Italia ma furono invece le armi e le violenze degli Angloamericani». È lo stesso che due giorni fa faceva pervenire ad Alemanno (e anche al candidato alla Provincia di Roma Alfredo Antoniozzi) il proprio appoggio: «Il nostro sostegno non è incondizionato ma l’obiettivo è che Roma non riveda Rutelli eletto sindaco. La Sala Giulio Cesare merita di essere presieduta da ben altra fascia tricolore».
Ma non solo. Il sostegno ad Alemanno ha aperto anche una frattura all’interno dell’area più movimentista della Fiamma Tricolore, quella che a Roma e provincia si riconosce nelle figure di Gianluca Iannone e Maurizio Boccacci.
Il primo è il maggiore animatore della nuova destra squadrista capitolina: è il cantante di un gruppo identitario (Zetazeroalfa), è il fondatore di Casa Pound (il centro sociale che occupa uno stabile del Demanio, ex Invalsi, in piazza Vittorio), di Radio Bandiera Nera ed è tra gli organizzatori del Blocco Studentesco (il movimento di Ft attivo nelle scuole romane, i cui esponenti sono anche stati accusati di pestaggi). È anche coinvolto negli incidenti a Casalbertone del luglio scorso e nell’assalto alla bolla del Grande Fratello. Nell’ultima settimana Iannone si è reso protagonista di un’ultima occupazione. Una stazione ferroviaria alla Farnesina, costruita per i mondiali di Italia ‘90. Proprio nell’occasione ha voluto ribadire come, secondo lui «Roma sia stata al centro di clamorose speculazioni il cui solo scopo è stato quello di consolidare l’apparato di potere che oggi sostiene la candidatura di Rutelli a sindaco della Capitale. Anche per questo ci auguriamo che ci sia un cambio nella guida della città e che i nuovi amministratori siano attenti alle esigenze di quella gioventù che rivendica ruoli e lotta politica, non poltrone e vita comoda». Di diverso avviso il suo vecchio maestro Boccacci, che con livore antisemita attacca gli ex colleghi di partito: «Attendiamo ora con ansia solamente di vedere il teatrino dei nuovi servi, agghindati con kippah alla nuca, versare lacrime di coccodrillo innanzi al muro del pianto, magari speranzosi di poter sostituire la loro attuale primadonna con una eletta come la signora Nirenstein, sicuramente più consona all’insolenza dei Pacifici e dei suoi sodali dalla doppia morale, pretenziosi di rivendicare i propri privilegi a scapito di Roma e dei suoi cittadini».

l'Unità 27.4.08
Lasciarsi
di Vincenzo Cerami


«Lasciarsi», non c’è parola più attuale, per via di partiti che si accommiatano, si ingoiano vicendevolmente, se ne vanno a spasso, si separano, si riaccoppiano altrove in copule impossibili. Ci si lascia in mille modi. Il più comune comincia così: «Ti devo parlare!»
Quando si è in due e si resta soli per decisione dell’altro, e neanche le bugie servono più a nulla, quando non c’è altro da fare che arrampicarsi sugli specchi, in amore talvolta le lacrime possono fare molto.
«E se le lacrime - come scriveva Ovidio - mancano perché non vengono sempre a tempo, tu allora toccati gli occhi con la mano umida».
Il lasciato che vuol giocare l’ultima carta deve saper piangere nel momento giusto, se non vuole andare in giro con la cipolla in tasca. Nei tempi felici, quando il lasciante e il lasciato stavano bene assieme, non dovevano dimenticare che il cuore è barbaro, barbaro, barbaro.
Dice il saggio che diamo l’arrivederci a qualcuno quando speriamo di non vederlo più. E che siamo felici di rincontrarlo dopo che gli abbiamo detto addio. Questo significa che in amore e in amicizia c’è sempre qualcosa di beffardo: si sta insieme tra un arrivederci e l’altro, sperando nell’addio. Tutto a nostra insaputa. Si sa, la verità è una menzogna che non è stata ancora scoperta.
Un aspetto allegro comunque c’è nel «lasciarsi». Quando ripensiamo a ciò che abbiamo detto nel momento di abbandonare qualcuno, ci sbellichiamo spesso dal ridere. La scempiaggine e il patetismo sono d’obbligo. Ecco ad esempio l’ultimo saluto di Celentano alla ragazza francese: «Michelle, ma belle, tu cucini come un grande chef. Mia Michelle io ti amo, ma tu sei un po’ troppo francese per me!» Forse era una scusa per lasciarla.

l'Unità 27.4.08
La Storta, troppe ombre su quella violenza. A partire dalla data
Mercoledì 16 aprile, ore 21 circa. Non più quindi la sera del giovedì 17 come affermavano i carabinieri
di Massimiliano Di Dio


DI CERTO per ora c’è solo che la studentessa africana è stata accoltellata, violentata e ha rischiato di morire in un campo nella periferia nord di Roma. Per mano di Ioan Rus, romeno di 37 anni. Ma la vicenda de La Storta si arricchisce ogni giorno di nuovi elementi. L’ultimo sposta indietro di ventiquattr’ore le lancette dell’orribile violenza: mercoledì 16 aprile, ore 21 circa. Non più quindi la sera del giovedì 17 come affermavano i carabinieri esattamente il 19 aprile scorso, quando la notizia è stata diffusa. Tre giorni dopo quindi. E come scrivevano quotidiani e agenzie mai rettificate ("Era l’ultima corsa intorno alla mezzanotte tra giovedì e venerdì scorso...", Repubblica.it del 19 aprile, “...i due romani che con la loro segnalazione hanno posto fine allo stupro di cui è stata vittima giovedì sera la studentessa...”, Ansa del 20 aprile ore 21.43, "Studentessa originaria del Lesotho, violentata e accoltellata la sera del 17 aprile scorso", Corriere della Sera del 25 aprile).
Per chiarire cos’è davvero accaduto quella sera la Procura di Roma, che ha secretato gli atti e nei prossimi giorni farà un sopralluogo nella zona dell’aggressione e ascolterà la vittima, ieri ha sentito per oltre tre ore Massimiliano Crepas. È il secondo soccorritore che ha salvato la vita alla ragazza insieme a Bruno Musci, meccanico di 53 anni, già interrogato dai magistrati capitolini alcuni giorni fa. Gli inquirenti lo avrebbero voluto sentire già prima ma era malato. Ieri si è recato nell’ufficio del pm Maria Monteleone, chiamata dalla Procura ad affiancare il collega Erminio Amelio nelle indagini. All’uomo, un informatico di 31 anni, è stato chiesto di ricostruire i fatti del 16 aprile scorso e il motivo per cui i due si trovavano a quell’ora lungo via La Storta, una zona buia e fuori mano della capitale. Dalle indagini è emerso che i due “angeli”, uno dei quali ha poi fatto da testimonial alla campagna elettorale di Alemanno, hanno incontrato soltanto per caso la pattuglia dei carabinieri a cui hanno denunciato l’aggressione. Intanto emergono ulteriori elementi, come i precedenti per furto di Ioan Rus (alla domanda sul suo passato il 19 aprile i carabinieri avevano risposto negando ogni precedente) e quelli di Bruno Musci per spaccio di stupefacenti e rissa. Ma anche nuove ombre. L’ultima riguarda la data del rientro in Romania della compagna di Rus, Delia, partita in autobus proprio la mattina del 16 aprile. Poche ore prima della violenza. La donna, che avrebbe avuto un impiego in una struttura sanitaria romana, potrebbe essere ascoltata nei prossimi giorni dai magistrati insieme ad altri parenti del romeno che vivono nella capitale. E la Procura sta cercando riscontri anche sulla testimonianza di una commerciante romena della Storta che avrebbe riferito di alcuni voci interne alla comunità romena. Dubbi, contraddizioni e scenari inquietanti da verificare dunque. Almeno stando all’attività della Procura. Per i carabinieri la vicenda sembra essersi conclusa. Anzi, per i militari era già conclusa nel comunicato stampa diffuso tre giorni dopo l’aggressione: «Solo il tempestivo intervento dei militari della locale Stazione Carabinieri - si legge - impegnati in servizio di prevenzione proprio in quella zona, richiamati da due giovani in transito che avevano notato i movimenti del malfattore, consentiva di interrompere l’azione delittuosa e catturare il romeno, il quale, vistosi scoperto, tentava un’ormai vana fuga nelle campagne circostanti».
Unico neo nel documento, l’insolita conclusione del testo da parte di un’Arma da sempre attenta a possibili strumentalizzazioni: «Un episodio la cui dinamica ricalca fedelmente la drammatica vicenda dell’ottobre del 2007, in cui, nella zona di Tor di Quinto a Roma, perse la vita Giovanna Reggiani».

l'Unità 27.4.08
Rifondazione comunista, è «guerra permanente» tra Giordano e Ferrero
Battaglia su tutto: dalla data del congresso alle modalità di svolgimento. Dal ruolo dell’ufficio stampa a quello dei portavoce. Sansonetti salvo per poco
di Simone Collini


La maggioranza del ministro preme per fare il congresso dopo l’estate

L’ULTIMO barlume di unità è legato ai ballottaggi e soprattutto all’impegno per non consegnare Roma alla destra. Per il resto, i rapporti tra la ex e la nuova maggioranza di Rifondazione comunista sono di puro conflitto, con accuse reciproche di impedire il confronto democratico o voler chiudere il congresso prima ancora che cominci. In queste ore si sta discutendo se procedere per mozioni o per tesi. Ma anche sulla data del congresso c’è chi non dà per scontato che si manterrà l’appuntamento per la metà di luglio. Entrambi i punti sono tutt’altro che puramente tecnici e rientrano invece nella lotta in corso.
La settimana che si apre è decisiva per le sorti del partito. Domani si riunisce il comitato di gestione, l’organismo che ha preso il posto della dimissionata segreteria e che si sta però rivelando l’epicentro delle tensioni tra l’ex maggioranza di Franco Giordano, favorevole alla costituente della sinistra, e la componente costruita attorno all’asse tra il ministro uscente Paolo Ferrero e il leader della minoranza “Essere comunisti” Claudio Grassi, decisi a rilanciare il ruolo autonomo del Prc. A fare da detonatore è stata, alla prima riunione, la proposta di dotare l’organismo di un portavoce (nella persona di Maurizio Acerbo), passata a maggioranza con i voti dei ferreriani (sono sei, nel comitato) e con il no dei bertinottiani (sono in cinque): «È una forzatura», hanno scritto in una nota accusando Ferrero di voler dare al comitato di gestione i connotati di una vera e propria segreteria. «Polemica paradossale», è stata la risposta del ferreriano Alfio Nicotra, che ha attaccato «la pretesa che l’immagine del partito sia gestita da figure esterne all’organo deciso democraticamente».
Ma questo è stato solo l’assaggio. Le «figure esterne» prese di mira dalla nuova maggioranza sono anche il direttore di “Liberazione” Piero Sansonetti e l’ufficio stampa del Prc, gli ex “manifesto” Andrea Colombo e Cosimo Rossi. E se Sansonetti può per ora stare tranquillo, visto che a nominare il direttore della testata del Prc è la Direzione del partito (dove i bertinottiani sono ancora maggioranza) lo stesso non si può dire per gli altri due giornalisti, soprattutto dopo che si sono rifiutati di mandare alle redazioni giornalistiche una lettera contenente la raccomandazione ad avere contatti soltanto con il portavoce del comitato di gestione.
Domani l’organismo tornerà a riunirsi e riprenderà in mano la questione. Ma discuterà anche un altro argomento. Ferrero e Grassi spingono infatti per svolgere un congresso a tesi. «Per salvaguardare l’unità del partito», spiegano. Ma Giordano e gli altri sospettano che si tratti soltanto di una mossa per ottenere alla fine l’elezione a segretario di Ferrero. Cosa che non avverrebbe, sostengono i bertinottiani, se si andasse a un congresso per mozioni, e non solo perché allora scenderebbe in campo Nichi Vendola: Ferrero all’ultimo congresso Prc aveva sostenuto le posizioni di Bertinotti e, viene spiegato, non può che presentare una mozione che contenga un riferimento alla nonviolenza. Il che però gli impedirebbe di incassare i voti di Grassi.
Se l’operazione non dovesse riuscire e si andasse a un congresso per mozioni, i ferreriani potrebbero allora proporre uno slittamento delle assise a dopo l’estate. Il tempo a disposizione per discutere e scrivere i documenti è poco, hanno già iniziato a far notare. Ma anche in questo caso i bertinottiani sospettano che Ferrero e gli altri vogliano soltanto avere più tempo a disposizione per riuscire a controllare attraverso il comitato di gestione tutti i punti nevralgici del partito. Quale che sia la decisione che verrà assunta alla riunione di domani, a decidere sarà il Comitato politico nazionale convocato per sabato e domenica. In confronto al quale, già prevedono nel Prc a prescindere dallo schieramento, quello dello scorso fine settimana era soltanto un tè tra amici.

l'Unità 27.4.08
Giovani, un futuro alla sinistra. Ma la politica è ipocrita
di Andrea Carugati


Sei su dieci si dicono interessati alla politica, è già questa è una notizia. E tuttavia solo 7 su 100 si definiscono «impegnati politicamente», mentre la stragrande maggioranza (62%) si limita a tenersi al corrente, il 13% si dice addirittura «disgustato» e il 6% indifferente. Perché? La risposta è semplice: la politica, per i giovani italiani tra 16 e 35 anni intervistati dalla Swg (un campione di 600 persone sondate in marzo), è assai diversa da quello che «dovrebbe essere»: la parola fa pensare innanzitutto a «corruzione», «potere», «ipocrisia» mentre dovrebbe essere collegata, dicono gli intervistati, a concetti come «giustizia», «democrazia», «ideale» e «partecipazione».
Protagonisti e anche causa di questo scollamento tra essere e dover essere sono i politici italiani: solo l’1% degli under 35 ha molta fiducia nei politici, il 10% abbastanza, il 54% poca e il 32% nessuna. Dunque, più di 8 ragazzi su dieci non si fidano della “casta” politica italiana. E non fa grande differenza se gli intervistati si autocollochino a sinistra, al centro o a destra: la sfiducia è assolutamente trasversale, con una leggera prevalenza di “fiduciosi” (15%) tra i giovani di centrodestra. Il politico, a parere degli intervistati, dovrebbe essere anzitutto «onesto» (53%), conoscitore dei problemi (34%) e dei bisogni dei cittadini (25%), dotato di carisma (23%). Ma come si collocano questi giovani sull’asse destra-sinistra? Il 16% di sinistra, il 25% di centrosinistra, il 23% di centrodestra, e il 15% di destra. Leggero vantaggio per il centrosinistra, dunque, ma per il 61% degli intervistati destra e sinistra sono categorie superate, non più adatte a interpretare la realtà contemporanea. Se cambiano le categorie, i giovani italiani si definiscono in maggioranza (51%) moderati e tradizionali, più un 9% di conservatori. Mentre il 19% si dice progressista, il 13% riformista e l’8% rivoluzionario.
Quanto al concetto di «sinistra», secondo il campione si identifica soprattutto con la difesa delle fasce più deboli, dei lavoratori, con il pacifismo e la parità tra i sessi; meno con concetti come laicità, giustizia, solidarietà, democrazia e lotta al capitalismo. Tra chi si colloca nel centrosinistra, invece, tutti gli indicatori sono largamente prevalenti (tra il 70 e l’80% del campione), anche laicità, giustizia, solidarietà. L’unico indicatore che rimane indietro è la lotta al capitalismo, percepito assai meno degli altri (ma comunque dal 46% degli intervistati di centrosinistra) come concetto assimilabile a quello di sinistra.
Secondo il 46% degli intervistati la sinistra è un valore positivo, mentre per il 40% negativo. Nel futuro, lo stesso 46% sostiene che la sinistra avrà in Italia un peso importante o determinante, mentre per il 44% sarà poco importante o addirittura marginale.
E il Pd che effetto fa? Il campione si divide esattamente a metà: secondo il 44% è un partito di sinistra, per l’altro 44% invece è un partito poco o per niente di sinistra.
Gli under 35, secondo la Swg, vivono al 61% in famiglia (solo il 22% con il partner e il 12% da solo), e mostrano una forte consonanza politico-ideologica con i genitori: il 74% si definisce molto o abbastanza vicino alle idee politiche di casa. In famiglia si parla di politica spesso (29%) o talvolta (40%): più si alza il ceto sociale, più frequenti sono le discussioni politiche.
Infine, se i valori più importanti per gli under 35 sono i classici famiglia, amore, amicizia e salute, seguiti da libertà, rispetto, lavoro, onestà e giustizia, allo Stato i ragazzi chiedono di investire soprattutto in questi settori: lavoro (63%), sanità, scuola e formazione (49%), sostegno ai giovani, sostegno alle famiglie e sicurezza. All’ultimo posto, tra i settori su cui puntare, le pari opportunità: e questo vale per tutto il campione, comprese le ragazze.

l'Unità 27.4.08
Dati ISTAT: Italiani, sempre meno figli
Uno su 10 è di immigrati


Le più recenti statistiche collocano il nostro Paese agli ultimi posti tra i paesi per tasso di fertilità, con un valore per il 2007 pari a 1,29 figli per donna. Il bilancio demografico nazionale, però, è in positivo, un dato reso possibile dall’alto tasso di natalità dei cittadini stranieri. È, infatti, figlio di immigrati un bambino su 10 (10%), mentre, paradossalmente, gli stranieri rappresentano il 5% della popolazione italiana. È quanto emerge da uno studio del Centro Artes di Torino, specializzato nella diagnosi e nel trattamento della sterilità di coppia. Il tasso di fertilità nei 15 paesi dell’Unione Europea fra il 1960 e il 2007 è sceso da 2,59 a 1,50 figli per donna, mentre in Italia si è quasi dimezzato (dal 2,41 all’1,29).
L’aumento demografico, invece, cresce grazie ai cittadini stranieri. Al 1° gennaio 2007 gli immigrati residenti in Italia sono 2.938.922; rispetto al 2006 gli iscritti in anagrafe aumentano del 10,1%. La popolazione italiana, a gennaio del 2007 è pari a 59.157.091 persone (dati Istat). Gli immigrati regolari sono quindi quasi il 5% della popolazione. La crescita della popolazione straniera residente nel nostro paese non è dovuta al saldo migratorio, costante secondo l’Istat, ma all’aumento dei nati di cittadinanza straniera: il saldo naturale (differenza tra nascite e decessi) risulta in attivo per 57.765 unità.

l'Unità 27.4.08
Zingari e barboni, gli altri siamo noi
di Marco Revelli


I loro corpi sono ben percepibili ma restano all’esterno di ogni relazione
Eppure ci parlano di una verità indicibile
Forse in uno spazio pubblico come il teatro queste figure possono uscire dal cono d’ombra e rompere l’isolamento

NELLA CITTÀ FRAGILE di inizio millennio nomadi, clochard e prostitute ricordano le «sculture senza casa» di Rodin. Il libro di Beppe Rosso e Filippo Taricco è un viaggio alla scoperta di questi mondi sommersi delle nostre metropoli

Dinge. «Cose». Con questa parola, insieme scandalosa e magica, intrinsecamente legata alla sua poetica, Rainer Maria Rilke aveva iniziato, nel 1907, il suo celebre discorso su Auguste Rodin e sulle sue sculture, la cui incollocabilità nel paesaggio urbano del «nuovo tempo» - nel mondo delle cose ridotte alla loro funzione di utilità -, denunciava nel linguaggio muto dell’arte figurativa l’alienazione contemporanea: la metamorfosi della città in universo totale di macchine e beni di mercato.
Erano, quelle di Rodin, «sculture senza casa», come ricorda Günther Anders nel primo dei suoi suoi Saggi dall’esilio americano, commentando il «grandioso fallimento» del celebre scultore costretto a collocare i suoi prodotti artistici «fuori dal mondo», in una terra (socialmente) di nessuno (in un museo, appunto, o nello spazio astratto di una mostra), perché nella città «di tutti» non avevano più un posto. Anders pensava al celebre Torso di Adele, per il quale è davvero difficile, quasi impensabile, «immaginare un posto socialmente accettabile... Una chiesa? Un edificio del Governo? Una casa borghese? Una piazza pubblica? Tutti egualmente impossibili. Un giardino? A stento. La natura? Forse». E, soprattutto a Les citoyens de Calais, nella concezione del progetto originario: figure sparse su un suolo loro negato, private della loro monumentalità dall’assenza di ogni supporto. «Intrusi» di pietra abbandonati in uno spazio che rifiuta ospitalità.
In quell’«essere senza casa» - in quel «nascere senza casa», cioè senza una destinazione propria, senza una collocazione - delle statue di fine Ottocento e d’inizio Novecento c’era senza dubbio, sintetizzato, lo smarrimento della scultura che ha perso l’architettura. Il segno di «un’epoca che non dispone (più) di un’architettura o di uno spazio per lo scultore», cosicché questo è costretto a fare «cose isolate». Oggetti senza raccordo col mondo. Ma c’era anche qualcosa di più complesso. E forse di più attuale che, per una bizzarra associazione mentale, mi ha fatto riconnettere le «cose» randage di Rodin con le figure che popolano la «città fragile» di Beppe Rosso e Filippo Taricco. Sradicate entrambe, ed entrambe in cerca di un contesto che nel mondo di tutti non c’è (più).
La «città fragile» d’inizio millennio condivide con la homeless sculpture di fine ottocento una strana sorta di extra-territorialità corporea. Sta tra noi, si accampa nella «città forte» - nella città-organismo produttivo e macchina vertiginosa di consumo -, con tutta la plasticità dei suoi corpi: «vita nuda», esistenza ridotta alla dimensione fisiologica, al codice naturale della sopravvivenza, spogliata com’è di ogni protesi formale. Abita il nostro stesso spazio. E tuttavia non lo «condivide». È come se non ci fosse. Le sue figure le incrociamo, le sfioriamo, le scansiamo, le urtiamo, in qualche loro parte le usiamo anche, ma non le «riconosciamo». Anche quando ci toccano, le teniamo a distanza, in uno spazio «altro» che non ammette condivisione. Oltre un confine invisibile ma invalicabile del tutto simile a quello che separa, appunto, gli oggetti dai soggetti.
Stanno nel paesaggio urbano, con una presenza «pesante» come quella della pietra o del bronzo, fisicamente percepibili, fin troppo percepibili, forse gli unici corpi percepibili per differenza con l’indifferenza di tutti gli altri: il corpo degradato del barbone steso sui gradini della chiesa del centro o sulla panchina del parco, il corpo materno della zingara con il lattante al seno al semaforo, il corpo ostentato della puttana sul viale urbano... Ma restano all’esterno di ogni relazione. Non ci «parlano» di sé. Non «fanno racconto» perché non stanno in un racconto, senza un prima né un dopo biografico, né un «essere per» né un «essere con» di cui, e per cui, appunto, «dire».
Le loro storie personali, la vicende del loro esistere, il loro «vissuto» rimane irrimediabilmente afono, inudibile, perché la «città forte» non possiede il codice linguistico capace di decifrare il linguaggio della «vita nuda» (per la verità non possiede neppure il tempo, né la voglia, per ascoltarla). Sa solo decrittare il lessico della «vita vestita», decodificabile secondo la logica lineare delle funzioni d'utilità e dello scambio tra equivalenti generali, in base agli «abiti» professionali e ai simboli dei ruoli. Il resto, quelli che non «funzionano» secondo questo statuto formale, restano corpi senza la parola - e dunque «cose isolate», senza relazione perché manca loro quell’elemento fondante di ogni relazione tra persone che è il «riconoscimento», la materia indispensabile per «essere insieme» in uno spazio condiviso. E il «riconoscimento» altro non è, nel suo nucleo originario, che un «dire» dell’Io sull’Altro. Un accogliere la presenza dell’Altro nel proprio ordine del discorso.
Cosicché l’afonia della «città fragile» - la sua assenza da ogni discorso possibile nel contesto urbano ormai interamente colonizzato dalla funzionalità strumentale - rivela la simmetrica mutilazione della «città forte», la sua sordità patologica. Le lingue mozzate degli abitanti dell’una denunciano l’ascolto assente di quelli dell’altra. E nello stesso tempo ci mettono di fronte al paradosso per cui nel gioco di specchi tra le due città, le vite delle persone ridotte a «cose» della città fragile sono, a ben guardare, in effetti, gli ultimi residui della vita non riducibile a «cosa» - della vita «nuda», appunto, sans phrase - sopravvissuta nello spazio asettico della città forte. Di quella «sostanza» genericamente umana non riducibile integralmente al grande «gioco di ruolo» della città-mercato, invisibile - evidentemente - allo sguardo unidimensionale e selettivo dei suoi abitanti.
Per coglierle, quelle tracce fantasmatiche di vita annidate tra i flussi meccanici della folla dei produttori-consumatori, dentro involucri apparentemente «vuoti», occorrerebbe uno sguardo diverso, «circolare», prismatico, un po’ come quello di Rodin, appunto, che si dice girasse ossessivamente intorno ai propri «modelli», non disegnando mai un solo bozzetto, ma una successione di «schizzi», nel tentativo, spesso vano, di cogliere la totalità della figura e il suo incatturabile movimento (...).
Come le statue di Rodin, dunque, anche le figure della «città fragile» devono essere interpellate da molti lati, per poterci dire qualcosa. E come quelle, il cui posto perduto nel paesaggio urbano (dopo il divorzio tra scultura e architettura) doveva essere «costruito» per via artistica, come una sorta di protesi della statua - i tre Genies de la Poesie posti a fare da nicchia protettiva alla figura di Victor Hugo, la Gate of Hell destinata a ospitare le homeless sculptures delle Ombre e del Pensatore, la Tour du Travail concepita come «una scultura per riporvi sculture» -, anche queste hanno bisogno di un luogo artistico dove essere «messe in scena». Di uno spazio ritagliato per differenza dall'indifferenziato paesaggio sociale della «città forte», o della città tout court. Di una «casa», insomma, dove l’uso della parola possa ritornare a possedere un senso. E dove il racconto inascoltabile possa essere ascoltato.
La trilogia di Beppe Rosso e di Filippo Taricco ci dice che per alcune di quelle «figure senza casa» - per gli Osman e i Karfin di Seppellitemi in piedi, per le Soraya de La fortezza di Rozafat, per i tanti «Sandokan» di Senza - quella «casa» può essere trovata nello «spazio artistico» del teatro. Lì - e forse solo lì - in fondo, le «cose» in cui erano stati trasformati, possono ritornare «persone», prendere la parola trovando ascolto. Solo tra le tre pareti «artificiali» della scena, chiamate non a chiudere lo spazio, ma ad aprirlo all’invisibile e all’inudibile nel «fuori» indifferenziato - solo nella nicchia scavata «ad arte» nella spazialità meccanica dell’esterno urbano -, possono rompere il proprio isolamento e «ritornare in relazione» (...).
Parlano di noi, senza dubbio, gli zingari eternamente sotto sfratto di via della Fortuna: loro nomadi radicatissimi in una cultura millenaria, dicono a noi, stanziali, sedentari, catafratti nei nostri territori dichiarati a loro interdetti, del nostro sradicamento. E del nostro nomadismo mentale, spezzata la catena delle generazioni. Smarrito il senso del luogo, mentre la nostra furia del fare ci muta il paesaggio intorno, e ci rende stranieri a noi stessi. E parlano di noi i barboni in coda per i buoni mensa - o forse per il sussidio, o per i vestiti... -, loro, già oltre quel muro stretto, sempre più stretto, che separa chi è fuori da chi è dentro. I sommersi dai salvati, che tuttavia non sanno se, e fino a quando resteranno tali. Ci parlano di ciò che non vorremmo mai ascoltare: dell’incertezza diventata sistema. Della natura sempre più liquida della terra su cui posiamo i piedi. Della possibilità sempre aperta di cader fuori, nella società fattasi liquida, dove si può, ad ogni passaggio, essere risucchiati sotto. In fondo. Nello «sfondo».
E, non c’è dubbio, ci parlano di noi anche le ragazze della Via Lattea, «due chilometri di lampioni, borsette e tacchi a spillo, nei due sensi di marcia»: parlano della nostra solitudine inscatolata nei gusci di latta dei nostri pulmini Peugeot grigi e delle nostre Audi blu. E dell’illusione di romperla, quella solitudine - quella nostra condizione di «cose isolate» - con l’eterna illusione dell’«equivalente generale», dell’acquisto dei simulacri di vita altrui (...). Ci dicono, insomma, una verità inascoltata - e inascoltabile - non tanto su di loro, ma su noi stessi. Raccontano la città - tutta la città, non solo il suo retroverso «fragile» - con quel racconto di sé che la città non sa fare per incapacità di sguardo, prima che di parola. Ne portano in primo piano l’«indicibile». O comunque il non detto, l’«incomunicato», nell’epoca della comunicazione totale e dell’informazione permanente. Riempiono i buchi neri della politica e dell’amministrazione, inerti e impotenti - «inoperose» - davanti alla vita quando essa si esprime nella sua «nudità». Cioè nel suo carattere universale. E lo fanno «in pubblico» (...).
Nell’epoca in cui la politica istituzionale vede il proprio principio di «rappresentanza» - la propria capacità di traduzione in veste pubblica di segmenti di vita collettiva - estenuarsi e scadere in «rappresentazione» nel gioco dei simboli e dei messaggi mediatici, spetta al luogo deputato della rappresentazione - al teatro, appunto, e ai suoi «attori» - supplire a quel deficit. Fare opera di rappresentanza effettiva. Ridare voce pubblica a quella parte di Polis che non l’ha. Ma le epoche di passaggio e di transizione, lo si sa, sono per loro natura tempi di paradossi. E le figura «senza casa» de La città fragile lo testimoniano.

l'Unità 27.4.08
Il tempo? È la sua forma
di Bruno Gravagnuolo


La «temporalità» è un classico rompicapo filosofico. Impossibile concettualizzarla logicamente, perché l’essere e il non essere di qualcosa è irriducibile all’identico. Ci hanno provato in tanti, dopo Parmenide che la negava, ma con risultati disperanti. E in arte? Banalmente si dice che l’arte è il proprio tempo in forma estetica. Raffigurazione, espressione del tempo, in intuizione. Ma sarebbe pur sempre una descrittiva del passato, straniata. Archeologia destinata a sfuggirci, se non è rivissuta dall’interno delle emozioni che hanno generato «quelle» raffigurazioni. La strada allora è un’altra nell’arte, posto che in arte le cose siano più «facili». E cioè: rifare, riprodurre l’intimo del fluire. È quanto ci propongono due artisti in mostra alla Galleria romana di Maria Grazia del Prete in Via Monserrato 21 (fino al 17 maggio), Carlo Guaita e Maria Morganti. Mostra e artisti annessi a un progetto del critico Mauro Panzera: La forma confligge col tempo. Sottosezione della rassegna Nel formare. E che dopo Kounellis, Bashiri e Nagasawa, già vide come protagonisti mesi fa Emanuele Becheri, Flavio De Marco e Massimo Uberti. Qual è l’approdo? Proprio il tentativo di riprodurre la temporalità dell’accadere, nel flusso del «formare». Guaita, artista classe 1954 che vive e lavora a Palermo (nella foto), lavora sulla tela per gesti variati e impercettibili. Esibendo all’indietro i segni della processualità artistica, e inseguendo il tempo alla moviola del vissuto. Maria Morganti, classe 1965, milanese a Venezia, sceglie lo spazio dei monocromi, con tinteggiature bizantine. Imprimendo sulla superficie piana leggere curvature ai bordi che piegano la superficie, e suggerendo l’idea di altri spazi e tempi possibili, oltre e dietro il quadro. Quasi al modo di Fontana. Ma in entrambi gli artisti il rovello è lo stesso. Ridare il tempo al tempo.

Corriere della Sera 27.4.08
Retroscena: Walter, Il Riformista e le manovre nel Pd
Il leader punge il «Riformista» per rispondere ai dalemiani
Intanto lo scontro è totale: su alleanze, capigruppo e presidenza
di Maria Teresa Meli


Smussare gli angoli, minimizzare, addirittura far finta di niente. Finora, di fronte a una critica rivoltagli tra le «pareti domestiche» del centrosinistra, Walter Veltroni ha sempre seguito questa linea di condotta. Ma ieri, sull'Unità,ha attaccato il Riformista, quotidiano in odor di dalemismo.
«Vende 2.000 copie e fa la spiega a noi che abbiamo preso 12 milioni di voti. Mi verrebbe da dire: per prima cosa pensa a vendere più tu», è stata la replica del leader Pd al quotidiano diretto da Antonio Polito, che ultimamente sta facendo le bucce al Partito democratico di rito veltroniano. E, en passant, l'ex sindaco di Roma ha pure ricordato che il Riformista
è di «proprietà di un parlamentare eletto dal Pdl», ossia Tonino Angelucci (editore anche di
Libero) in buoni rapporti con D'Alema. Insomma, Veltroni ha deciso di rispondere all'offensiva che una parte del Pd ha mosso contro di lui.
Polito, che si ripromette di rispondere al segretario del Pd nel suo editoriale di domani, è piuttosto stupito per il tono del-l'attacco: «Nessuno vuole intaccare la leadership di Veltroni, ma non si può fare finta di niente. Di questo passo il rischio è quello di arrivare alle europee con un Pd sotto il livello delle politiche perché lì il voto utile non c'è. Magari, invece di inalberarsi bisognerebbe riflettere sui motivi della sconfitta».
Già, le europee. E qui Polito sembra rigirare il coltello nella piaga. Secondo un tam tam che si è propagato nel Pd, infatti, dopo quel test elettorale Veltroni verrà messo da parte e sostituito dal duo Bersani-Letta. Invenzioni o malizie non prive di un fondo di verità? Chissà... Ma ora le elezioni che premono maggiormente al Pd sono assai più ravvicinate. Negli ultimi sondaggi sul tasso di credibilità dei leader politici Rutelli è calato di dieci punti in percentuale. E' alla pari con Bertinotti e Casini, un punto sopra D'Alema e Bersani. Al Loft sono convinti di vincere lo stesso a Roma, sebbene abbiano preparato a Rutelli un paracadute: la vicepresidenza del Senato.
Comunque, anche in caso di sconfitta, Veltroni resterà al suo posto. Ma rimarrà in sella anche il suo braccio destro Goffredo Bettini, che nella battaglia romana ha giocato un ruolo importante? Lui ha spiegato agli amici: «Intanto mi occupo delle elezioni, poi valuterò, a prescindere dal risultato, se restare o meno». D'altra parte, Bettini, notoriamente non è attaccato alla poltrona: si dimise da senatore nell'altra legislatura e in questa non ha voluto ricandidarsi. Quel che pensa sull'attacco alla dirigenza del Pd, il coordinatore del partito, lo spiega, ironia della sorte, sul giornale bersagliato da Veltroni: il Riformista.
Bettini, replica al dalemiano Roberto Gualtieri, che sollecitava la creazione di nuove alleanze e l'abbandono del mito del partito «autosufficiente». Bettini boccia questa idea: «C'è alle nostre spalle l'epoca del bricolage delle alleanze. Abbiamo visto come è andata a finire. Coalizioni infinite e sfarinate, tatticismi sapienti, furbizie mirabolanti, ma egemonia nella società italiana sempre più labile». Ogni riferimento a leader passati è, naturalmente, più che voluto.
Con Bettini si schierano tutti i giovani dirigenti del Pd da Andrea Martella ad Andrea Orlando, stufi delle lotte intestine al centrosinistra. Difendono Veltroni, il quale si difende anche da solo, perché assicura che pure in caso di sconfitta a Roma lui non farà un passo indietro: «Se dovessimo perdere, per risalire l'onda serve più determinazione, non meno».
Ed è senz'altro vero che Veltroni non rischia. Ma è innegabile che il Pd sia nel caos. C'è Bersani che sfida il segretario per candidarsi a capogruppo di Montecitorio. C'è Anna Finocchiaro che litiga con il suo (ex) leader D'Alema alla quarta telefonata in cui lui le chiede «ritirati» dalla corsa alla presidenza del gruppo del Senato in favore di Follini. Ma ci sono i mariniani, che su quella poltrona vorrebbero Zanda, e i «liberal», che invece ci vedrebbero bene Morando. Poi c'è Franceschini che non vuole Franco Marini alla presidenza del Pd e gli preferisce Sergio Mattarella, politicamente meno ingombrante. Senza contare Beppe Fioroni, che vorrebbe fare il coordinatore del Pd al posto di Bettini. E chissà che altro accadrà di qui a qualche giorno, quando si arriverà alla stretta finale sui capigruppo...

Corriere della Sera 27.4.08
Totalitarismi Un pamphlet del saggista inglese e un'opera musicale di Lorin Maazel rilanciano il dibattito sul capolavoro più equivocato
Orwell, il vero Grande Fratello
La denuncia di Hitchens e la lezione anticomunista oscurata di «1984»
di Pierluigi Battista


Il capolavoro di George Orwell, 1984, è il romanzo più frainteso, equivocato, male interpretato, sottoposto a letture ingiuste e fuorvianti della storia letteraria del Novecento. Se il tempo ha sì decretato La vittoria di Orwell, come recita il titolo di un libro di Christopher Hitchens tradotto e pubblicato in questi giorni in Italia dall'editore Scheiwiller, nondimeno
1984 attende ancora un risarcimento per le manipolazioni semantiche cui è stato incessantemente sottoposto: la restituzione del suo significato originario, il riconoscimento del suo valore esemplare di testo fondamentale per la critica dei totalitarismi moderni.
Il misconoscimento di Orwell, come spiega Hitchens, non è il frutto di un accecamento collettivo, ma fa tutt'uno con il fastidio per una corrente anomala e irregolare nella storia ideologica del Novecento, giacché presuppone la preventiva cancellazione di un pensiero di sinistra, minoritario e messo ai margini, che proprio nel nome dei valori della sinistra seppe essere e dirsi con coraggio tanto antifascista quanto anticomunista.
Critico della boria di cui l'imperialismo britannico era permeato, vicino alle traversie dei ceti popolari più colpiti dalla «distruzione creatrice» della modernità e del capitalismo, ciò nonostante Orwell sfidò la sordità degli intellettuali del suo tempo che potevano ma non volevano vedere il Gulag, i massacri degli anarchici e dei trotskisti per opera degli agenti del comunismo stalinista nella Barcellona della guerra civile spagnola, i meccanismi implacabili del terrore poliziesco che imperversava nella patria del socialismo realizzato. «La colpa di tutte le persone di sinistra dal 1933 in avanti», ha scritto Orwell nel Ventre della balena, «è di aver voluto essere antifasciste senza essere antitotalitarie ». Questo è il tema di 1984. E questa è la radice del suo rifiuto. La testimonianza che si poteva capire in tempo, riconoscere la natura totalitaria dell'utopia comunista ben prima del crollo del muro di Berlino. Perciò, per annichilire o anestetizzare questo passato compromettente di indifferenza, si è fatto di Winston Smith una vittima della invadenza tecnologica e non piuttosto dello Stato di polizia onnipotente. Un burattino nelle mani di un Leviatano mediatico ribattezzato Grande Fratello e non della tirannia del partito unico che uccide l'anima e il pensiero, riscrive impunemente il passato, tiene i sudditi al guinzaglio di una divinità ideologica. Una vittima del potere politico illimitato, non di una mera violazione della privacy.
Questo rovesciamento della realtà orwelliana ha prevalso a lungo. Ancora nel 1984 un supplemento dell'Unità pubblicava un'intervista a Enrico Berlinguer in cui il segretario del Pci si diceva convinto che Orwell avesse voluto alludere a un capitalismo abnorme e ipertecnologizzato e non alla sua antitesi incarnata nel dispotismo comunista. Oggi lo stesso Lorin Maazel, che ha l'immenso merito di aver fatto di 1984 un'opera lirica la cui prima italiana verrà presentata il 2 maggio alla Scala di Milano, si dice convinto che il romanzo di Orwell «sembrava solo una metafora del totalitarismo sovietico ma ora è dilagata anche nel libero mondo occidentale». Ma perché nel «libero mondo occidentale» il romanzo di Orwell non ha mai subito limitazioni nella sua circolazione, mentre in Urss quel testo è stato vietatissimo fino all'ultimo? Forse perché, a differenza di tanti esegeti occidentali, chi doveva capire aveva perfettamente colto il valore eversivo contenuto nelle pagine di Orwell. Hitchens riprende una testimonianza di Czeslaw Milosz, in cui il poeta polacco, scappato dalla prigione ideologica comunista, racconta: «Perfino coloro che conoscono Orwell per sentito dire si stupiscono che uno scrittore che non ha mai messo piede in Unione Sovietica abbia una visione tanto nitida di come vanno le cose». Gustaw Herling, autore con Un mondo a parte di uno dei classici della letteratura concentrazionaria in largo anticipo su Arcipelago Gulag, ha raccontato a Silvio Perrella quale fosse lo stupore dei suoi connazionali polacchi nel leggere 1984.
«Ma questa è la mia vita», esclamavano come riconoscimento della geniale perspicacia di Orwell nel descrivere il «loro» totalitarismo.
Chi doveva capire, aveva perfettamente capito. E perciò tra i difensori ideologici del «socialismo reale» non si tardò molto a rovesciare su Orwell un torrente di insulti, di invettive, di insinuazioni. Palmiro Togliatti, un po' di anni prima della rilettura berlingueriana di 1984, ne liquidava l'autore con un epiteto sprezzante: «poliziotto coloniale». Isaac Deutscher, impegnato nella costruzione di una frontiera morale di stampo manicheo che avrebbe dovuto separare per sempre gli «eretici» del comunismo, pur meritevoli di salvezza, dai «rinnegati» (cioè i famigerati «ex») condannati alla dannazione eterna, apostrofò 1984 come il delirio malato di uno scrittore agli sgoccioli della vita ossessionato dal «misticismo della crudeltà» e che rispecchiava nella sua utopia totalitaria il frutto di una mentalità prigioniera della paranoia: un incubo personale di Orwell, dunque, non un incubo della storia dolorosamente sperimentato in corpore vili da milioni di vittime. Persino Italo Calvino descriveva Orwell come «un libellista di second'ordine» e rimproverò aspramente l'amico Geno Pampaloni, colpevole di aver recensito favorevolmente 1984, dimostrando così inappellabilmente di non essersi «premunito dall'infezione di uno dei mali più tristi e triti della nostra epoca: l'anticomunismo». Ancora nel 1971, Raymond Williams, a suo tempo autore con Eric J. Hobsbawm, come ricorda Hitchens, di un pamphlet in cui si «lodava l'invasione della Finlandia da parte dell'Unione Sovietica all'epoca del patto Hitler-Stalin», affermava che con la sua distruttiva visione del «socialismo reale » Orwell aveva «creato le condizioni per la sconfitta e la disperazione».
Ecco perché, sepolta l'utopia realizzata descritta con dettagliata precisione da Orwell, il recupero di 1984 attraverso una lettura ecumenica ed equivoca del Grande Fratello rischia di configurarsi come l'annullamento del senso stesso della battaglia culturale orwelliana: l'idea che il totalitarismo moderno avesse due volti, e non uno soltanto. Due colori, e non uno. L'Unione Sovietica, e non solo la Germania nazista. Un'idea che per decenni non è mai stata accettata dai sacerdoti dell'ortodossia antifascista incapace, come diceva lo stesso Orwell, di essere coerentemente e coraggiosamente antitotalitaria. Una differenza radicale tra due atteggiamenti inconciliabili: proprio questo voleva dire, diffamato o ridotto al silenzio, George Orwell.

Corriere della Sera 27.4.08
Il caso Lo scrittore triestino-sloveno pone il problema delle responsabilità per la pulizia etnica
Pahor riapre la polemica sulle foibe
«Silenzi sugli eccidi del Duce: potrei dire no a un'onorificenza della Repubblica»
di Marisa Fumagalli


L'iniziativa. Un appello per conferirgli dopo la Legion d'Onore una menzione speciale al premio Strega Il recupero di corpi da una foiba.

TRIESTE — La reazione «politicamente scorretta» di un grande vecchio della letteratura di confine, scoperto e acclamato in tempi troppo recenti, resuscita i fantasmi del passato e crea un «caso imprevisto », mettendo perfino in imbarazzo le istituzioni.
Succede, dunque, che Boris Pahor, nato a Trieste nel 1913, sloveno ma di cittadinanza italiana («me la imposero, durante la dittatura di Mussolini»), sulla cresta dell'onda perché il suo libro Necropoli, scritto quarant'anni fa nella lingua madre, è stato tradotto, rivelandoci l'esperienza più drammatica della sua vita (la detenzione nel lager nazista di Natweller- Struthof) oltre alle sue qualità di letterato, abbia quasi preventivamente rifiutato una proposta di onorificenza. «Stenterei ad accettarla — ha detto — da un presidente della Repubblica che ricorda soltanto le barbarie commesse dagli sloveni alla fine della Seconda guerra mondiale, ma non cita le precedenti atrocità dell'Italia fascista contro di noi». L'amarezza di Pahor nasce dal fatto che il capo dello Stato, nel Giorno del ricordo del 2007 ed anche nel febbraio scorso, non citò «le fucilazioni degli ostaggi sloveni e i crimini dei campi di concentramento italiani». Sottacendo così una parte di storia.
«Il suo mi sembra un giudizio eccessivo, uno sguardo troppo stretto sulle parole di Napolitano», commenta, con un certo disagio, colui che ha avuto l'idea di premiare Pahor. È il sottosegretario (uscente) agli Interni, Ettore Rosato (Pd), che, durante la cerimonia del 25 Aprile, alla Risiera di San Sabba, ha pensato di compiere un bel gesto annunciando l'iter per il riconoscimento onorifico. Aggiunge: «Il Giorno del ricordo è dedicato alle foibe, su quella tragedia mise l'accento il Presidente. Di antifascismo si è parlato tante volte». E il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza (Pdl), pur apprezzando lo spirito libero di Pahor, «intellettuale onesto», invita a superare il passato, forte del processo di pacificazione tra sloveni e italiani.
Il grande vecchio è d'accordo, ma nel merito della polemica non arretra di un millimetro. «Qui, nella Venezia Giulia, il clima, certo, è rasserenato — osserva —. Ciò mi sta bene. Ma la storia è storia. E non è accettabile che il capo dello Stato pronunci, come ha fatto, a proposito della tragedia delle foibe, parole che rievocano "i delinquenti sanguinari slavi" senza dar conto dell'oppressione fascista, della barbarie etnica, che la precedettero. Inoltre — continua — Napolitano sa bene che i comunisti italiani, allora, erano complici. Che furono loro a dare ai partigiani jugoslavi i nomi di coloro che andavano eliminati ».
Espressioni forti, nette. «Non posso distruggere metà della mia gioventù», riflette Pahor. Poi torna sulle ombre del passato che, oggi, la politica tenta di dissipare: «Ricordo bene quando, tempo fa, vennero a Trieste Luciano Violante e Gianfranco Fini. Si misero d'accordo, nel non attaccarsi a vicenda... Comunque sia, le mie condizioni per un'eventuale onorificenza sono queste: dev'essere citato non solo il mio libro Necropoli, ma anche le altre opere letterarie. Il rogo nel porto, per esempio. Dove si raccontano i crimini fascisti. Chiedo — conclude — che l'espressione crimini fascisti venga scritta, nero su bianco». Arriverà o no per Pahor il cavalierato della Repubblica? Vedremo. Candidato al Nobel, lo scrittore triestino l'anno scorso fu insignito della Legion d'Onore di Francia, Paese dove, da tempo, è una celebrità. Ora è il suo momento italiano: per lui si prospetta un'altra onorificenza. Elido Fazi, editore di Necropoli, ha promosso una raccolta di firme, affinché gli venga attribuita, nell'ambito dello Strega, la «menzione d'onore». Il premio non potrebbe vincerlo. Il regolamento prevede che le opere in concorso siano scritte in lingua italiana.

Corriere della Sera 27.4.08
Alle origini della tragedia
I fascisti inventarono le fosse poi le vittime furono italiane
di Predrag Matvejevic


La proposta
Sarebbe meglio che il giorno del ricordo si trasformasse in quello dei ricordi

Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho avuto modo di sostenere gli esuli italiani dell'Istria e della Dalmazia (detti con un neologismo caratteristico «esodati »). L'ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via «fra asilo ed esilio».
Condivido il cordoglio italiano, nazionale e umano, per le vittime innocenti, espresso giustamente e senza ambiguità dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Sì, le foibe sono un crimine grave. Sì, la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell'«infoibamento».
La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre del 1920 Benito Mussolini tiene un discorso a Pola (e non è stata certo casuale la scelta della località). E in quell'occasione dichiara: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l'Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla «pulizia etnica». Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell'Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, li si costringe a emigrare...
Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della «foiba». È il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di «Giulio Italico», a scrivere già nel 1927: «La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d'Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell'Istria» (da Gerarchia, IX, 1927). Affermazione alla quale lo stesso ministro aggiungerà anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: A Pola xe l'Arena, la Foiba xe a Pisin.
Le foibe sono dunque un'invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L'ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai «lavori coatti» in questa zona durante la Seconda guerra mondiale testimonia nel giornale triestino Il Piccolo (5 novembre 2001): «Sono stati i fascisti i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari». La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone, cittadino italiano, fa venire brividi.
Le camicie nere hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e di singoli individui. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. A ciò bisogna aggiungere una catena di campi di concentramento, di varia dimensione, dall'isoletta di Mamula all'estremo sud dell'Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si transitava in questi luoghi per raggiungere la risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva anche ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun Paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano immediatamente sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine delle guerra accaniti: «infoibarono » gli innocenti, non solo d'origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto. La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Abbiamo comunque cercato di parlarne. Purtroppo, oggi ne parlano a loro modo soprattutto i nostri ultranazionalisti, una specie di «neo-missini » slavi.
Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su altre esperienze. Ad esempio culturali… Non mi sembra giusto proclamare solo un «giorno del ricordo», sarebbe meglio il giorno dei ricordi. Aggiungo infine che capisco bene Boris Pahor. Lui, da slavo e sloveno, come anche Zoran Music, un caro amico defunto, grandissimo pittore ad un tempo sloveno e veneziano, ci sono stati nei campi di sterminio fascisti...
(traduzione di Silvio Ferrari)

Corriere della Sera 27.4.08
Vienna: 167 fra dipinti, disegni e una decina di grafiche all'Accademia Albertina
Tornare da esule al Paese del padre
Nel '34 Kokoschka va a Praga. Una mostra lo racconta
di Sebastiano Grasso


Estate 1934. Oskar Kokoschka lascia Vienna e va in esilio a Praga, dove rimane sino al '38, quando arrivano le truppe tedesche («Al mercato comprai un carico di ortiche, note come rimedio per i reumatismi, di cui soffrivo dai tempi di Parigi. Al mattino presto, le stendevo sul pavimento e mi ci rotolavo sopra, nudo, finché ero coperto di bolle. Dopo due settimane non sentivo più l'irritazione e le ortiche non mi facevamo più effetto. Ero guarito» scriverà nella sua autobiografia).
In realtà, l'artista, nato a Pöchlarn, sul Danubio, a 48 anni ha alle spalle una lunga esperienza di scrittore teatrale ( Assassino, speranza delle donne è stata rappresentata nel 1909), ritrattista (magnifico quello di Adolf Loos) e paesaggista, docente all'Accademia, illustratore, viaggiatore (Germania, Svizzera, Spagna, Portogallo, Francia, Olanda, Tunisia, Irlanda, Scozia, Egitto, Turchia. E Italia, dove, nel '22, espone per la prima volta alla Biennale di Venezia). E di amante: la sua relazione, a 26 anni, con Alma Schindler, vedova di Mahler, di 33, dura quattro anni e finisce male; innamoratissimo («Dormo nel tuo cappotto, per respirare il tuo odore»), il pittore fugge, volontario in guerra, e viene ferito (i giornali viennesi scrivono che è morto).
Praga, dove era nato il padre, orafo, gli appare come una città cosmopolita («Qui, per l'ultima volta, si poteva incontrare l'Europa intera»). Dipinge sedici paesaggi col fiume Moldava, esegue alcune acqueforti per il dottor Palkovsky, conosce la figlia Olga, frequenta i teatri, fa il ritratto al presidente Thomas Masaryk («Ogni mattina la sua automobile di servizio veniva a prendermi, aveva la targa con il numero 1 e le sentinelle scattavano sull'attenti. Mi veniva da ridere»). Nascono qui le prime composizioni «allegoriche».
Ecco, parte proprio da qui (e dal 1934) la mostra di 167 opere fra dipinti, disegni e una decina di grafiche, a cura di Klaus Albrecht Scröder e Antonia Hoerschelmann, che Vienna dedica a Oskar Kokoschka (1886-1980). Comprende i lavori di Praga, del periodo inglese e di quello svizzero (dal '56 il pittore si trasferisce a Villeneuve, sul lago di Ginevra, dove resta sino alla fine).
Kokoschka e Olga lasciano Praga col bagaglio a mano e dieci sterline (vietato portarne di più). In Germania vengono sequestrati 415 suoi dipinti («arte degenerata»). Inizi difficili a Londra («Poco dopo il nostro arrivo, lasciai il mio biglietto da visita a John Rothenstein, direttore della Tate Gallery, che mi telefonò il giorno stesso e mi invitò per il tè. Veramente avevo sperato in una cena, perché avevo fame»). Vive in una pensione, con emigranti di colore. Poi, comincia a dipingere ritratti su commissione. Sposa Olga; per festeggiare, vanno al cinema coi testimoni.
Se agli esordi, essendosi formato nel clima della Secessione viennese e sotto l'influenza di Klimt, Kokoschka dipinge «probabilmente in maniera troppo personale», per cui alla sua prima mostra l'arciduca Francesco Ferdinando dice che «bisogna rompergli le ossa» e i giornali gli si scatenano contro, col tempo la sua tavolozza recupera il tardo barocco austriaco, si avvicina ai fauves, al gruppo Die Brücke, acquista toni sempre più chiari e luminosi, si riempie di rossi, di azzurri, di bianchi. Soggetti? Al solito, ritratti e paesaggi. Ma è il loro taglio che è diverso, l'impostazione, lo scandaglio psicologico. Certo i colori sono sempre forti, violenti persino. Ma è questa la strada che lo porterà ad una sorta di neoespressionismo sui generis.
Quello che, coi suoi occhi chiarissimi, ironici su un grande naso a clava, spalle larghe, corpo asciutto, capelli di stoppa, lo faceva assomigliare ad un bellissimo clown.

Oskar Kokoschka: «Praga, ponte Carlo» (1934), uno dei dipinti esposti a Vienna
OSKAR KOKOSCHKA. Vienna, Accademia Albertina, sino al 13 luglio. Tel. +431/534830

Corriere della Sera 27.4.08
L'inaugurazione della rassegna curata da Zubin Mehta
Rampling: «La mia voce contro le guerre di oggi»
Madrina del Maggio Fiorentino, narra Schönberg
di Emilia Costantini


Spettacolo multimediale diretto da Peter Greenaway per «Un sopravvissuto di Varsavia»

FIRENZE — «Non tutto ricordo. Troppo a lungo restai privo di sensi... non so più, ora, come finii sotto terra, nelle fogne di Varsavia e per quanto tempo ci vissi». È con voce sgranata, grave, stentorea che Charlotte Rampling interpreta Un sopravvissuto di Varsavia, la drammatica composizione su testo inglese, scritta da Arnold Schönberg nel 1947 durante l'esilio negli Stati Uniti, in cui si rievoca lo sterminio nazista nel ghetto della città polacca. Otto minuti di memoria intensa, dolorosa, che ieri al Teatro Comunale di Firenze hanno concluso, tra gli applausi commossi della platea gremita, la serata d'apertura della 71ª edizione del Maggio Musicale Fiorentino. Sul podio il maestro Zubin Mehta e al touch- screen il regista gallese Peter Greenaway che, nell'inedito ruolo di «vj multimediale», ha commentato le parole del testo recitato dalla Rampling con immagini tratte dallo sconfinato album della shoah.
«Mai più. Il Maggio contro tutte le guerre» è il titolo del concerto inaugurale, eseguito dall'Orchestra e dal Coro del Maggio Musicale Fiorentino, che comprendeva anche la Missa in tempore belli di Haydn e la Sinfonia da Requiem op. 20 di Britten, dando il via al Festival dedicato quest'anno, dal sovrintendente Francesco Giambrone e dal direttore artistico Paolo Arcà, al tema «Donne Contro».
L'ex protagonista del Portiere di notte sale in palcoscenico come «narratore» dell'opera di Schönberg, che per la prima volta viene affidata a una voce femminile: «Ha stupito anche me, l'essere richiesta per questo ruolo — ammette l'attrice inglese —. Forse sapevano della mia preparazione in campo musicale: da ragazza il mio sogno era di fare la cantante e ho studiato canto, ma la mia famiglia era contraria».
La Rampling non è nuova ad affrontare il tema del nazismo: proprio nel film di Liliana Cavani, interpretava il personaggio di una ex deportata nei lager, moglie di un direttore d'orchestra, che nel portiere di un albergo, dove viene ospitata alla fine della guerra, riconosce il suo aguzzino. Una storia che ha qualche coincidenza con Un sopravvissuto di Varsavia: l'opera, commissionata a Schönberg dalla «Koussevitzky Music Foundation» di Boston, era infatti dedicata alla memoria di Natalie Koussevitzky, moglie del famoso direttore d'orchestra russo. Riprende l'attrice sessantaduenne: «Quando interpretai il film della Cavani, nel 1974, ancora non si parlava tanto del genocidio degli ebrei. Nella mia carriera cinematografica, resta una delle esperienze più importanti, un punto di riferimento che non ho mai abbandonato. Io non ho vissuto quelle vicende, ma immedesimarmi in quelle atrocità mi dà una scossa emotiva fortissima ». E uno dei film che, secondo la Rampling, ha meglio raccontato la shoah è La scelta di Sophie: «Un'indimenticabile interpretazione, quella di Meryl Streep — osserva — ma quelle atrocità continuano tuttora in tante altre guerre».
Sui megaschermi in palcoscenico, pilotati da Greenaway, scorrono infatti le immagini dell'olocausto di ieri e di oggi: dal Rwanda al Darfur, dall'Iraq all'Afghanistan. Vittime prescelte soprattutto i bambini e le donne. Quelle «Donne Contro » cui la manifestazione fiorentina vuole rendere omaggio, ricordando anche Benazir Bhutto, il coraggio delle madri di Plaza de Mayo e Ingrid Betancourt. Conclude la Rampling: «Sono delle martiri assurte a simbolo di lotta contro la violenza».

Corriere della Sera Salute 27.4.08
Supermercati Dopo il farmacista, arriva lo psicologo
La psiche nel carrello
di Antonella Sparvoli


Richieste. Tra i «clienti» dello sportello psicologico, molte le mamme e le coppie

Nei supermercati italiani dopo il farmacista arriva anche lo psicologo. Apripista la Coop di piazza Lodi a Milano, dove ogni venerdì una psicologa è a disposizione dei clienti: le sedute, gratuite (basta essere soci Coop), durano un'ora e si prenotano di persona o al telefono. Un'idea originale, suggerita da casalinghe, mamme con bimbo in carrozzina, pensionati: insomma dai maggiori «frequentatori » dei supermercati. Rispondendo a un questionario sui nuovi bisogni sono stati proprio i clienti a chiedere due tipi consulenza: legale e psicologica.
«Si tratta di un'iniziativa sperimentale che funziona un po' come i centri di ascolto presenti in molte scuole pubbliche — spiega Francesca Colomo, la psicologa del supermercato milanese —. Chi è interessato, ed è socio Coop può fare fino a tre incontri, necessari per inquadrare il problema e cercare di mettere in atto delle strategie per risolverlo. Non si tratta di però psicoterapia ma solo di uno sportello di orientamento. E se si capisce che la persona ha bisogno di maggiore supporto la si indirizza al Servizio pubblico».
I maggiori fruitori: donne, coppie e qualche anziano che, in genere, ha solo bisogno di sfogarsi e di un po' di compagnia. I problemi più diffusi riguardano il rapporto coi figli o col partner.
«Favorire nei supermercati un punto di incontro tra la figura dello psicologo e le persone che possono avere bisogno di un sostegno non è di per sé sbagliato — commenta Massimo Gubinelli, coordinatore della Società italiana di psicologia del Lazio —. Anzi può avere risvolti positivi purché questo momento di ascolto si realizzi in un contesto discreto che dia il senso della protezione».

Repubblica 27.4.08
Lo specchio d'Italia è sempre più rotto
di Eugenio Scalfari


Ho ascoltato venerdì sera Alemanno e Rutelli a «Matrix» come li avevo ascoltati pochi giorni prima da «Ballarò». Più o meno ripetevano le stesse cose come in tanti altri comizi e trasmissioni. Del resto sarebbe ingeneroso pretendere che ogni sera cambino battute e repertorio, accade anche in teatro, se vai a vedere una commedia, una tragedia, un «musical», il copione è quello, non può subire variazioni di rilievo.
Alemanno ha battuto e ribattuto sull´insicurezza e la paura della gente e ce l´ha messa tutta per farla aumentare.
Rutelli ha denunciato quella tecnica allarmistica e ha descritto i modi per risolvere un problema che affligge le metropoli di tutto il mondo da New York a Parigi, da Londra a Rio, da Amburgo a Canton, a Shanghai, a Mosca, a Washington e naturalmente a Milano e a Roma.
Ma venerdì sera Alemanno ad un certo punto un´improvvisazione l´ha fatta: ha detto che in sedici anni di centrosinistra al Campidoglio, Rutelli prima e Veltroni poi non sono riusciti a cambiare il volto della città come invece hanno fatto i francesi a Parigi e i tedeschi a Berlino. «Berlino – ha detto Alemanno – era ancora pochi anni fa una città di rovine, oggi è splendidamente risorta diventando una grande metropoli moderna. Perché voi non siete riusciti a cambiare Roma?».
Rutelli gli ha risposto mostrando fotografie di lavori importanti che sia lui sia Veltroni hanno promosso, il piano regolatore che hanno varato, le brutture che hanno eliminato, ma il suo contraddittore continuava a scuotere la testa e a denunciare l´assenza d´una nuova identità della nostra «caput mundi».
Per fortuna, dico io, che Roma non è stata cambiata. Per fortuna. E come poteva esserlo?
La secessione del Nord è un altro segnale di indebolimento del paese. E la conseguenza più vistosa è l´affondamento di Alitalia
La nazione è più sconnessa che mai, vive soltanto nella mente d´una minoranza e la speranza di recuperarne l´unità è diventato un pallido miraggio
A Roma convivono almeno cinque diverse metropoli: quella dei ruderi e delle rovine dell´impero di Cesare e di Adriano, quella rinascimentale e papalina, quella barocca, quella dei quartieri piemontesi del nuovo regno, quella moderna da Piacentini all´«Ara Pacis» di Meier. Queste città si sono aggiunte e intrecciate l´una con l´altra.
Certo hanno creato problemi: di traffico, di adattabilità, di struttura urbanistica, ma hanno creato e mantenuto un esempio irripetibile di storia, di estetica, di multipresenza che non ha eguali nel mondo, dai Fori Imperiali all´Auditorium, lungo venti secoli di continua evoluzione.
Ad Alemanno non piace? Vorrebbe metterci le mani? In nome del cemento palazzinaro?
* * *
Oggi e domani si concluderà questa lunghissima gara elettorale con gli ultimi ballottaggi. Sei milioni di elettori ancora alle urne, ma il senso e il risultato politico ci sono già stati due settimane fa: Berlusconi ha vinto, la Lega soprattutto tiene in mano la partita e ha posto il suo sigillo sui prossimi cinque anni.
Molti hanno scritto e detto che dalle urne del 14 aprile è uscito un elemento apprezzabile di maggiore semplificazione parlamentare e di più solida stabilità. Lo specchio rotto è stato almeno in parte ricomposto e ne emerge una visione del paese che può piacere ad alcuni e dispiacere ad altri ma è comunque percepibile e meno magmatica di prima.
L´ho detto anch´io ma sono bastati quindici giorni per smentire quest´unica e timida speranza: lo specchio in cui il paese dovrebbe riflettersi è più frammentato e sconnesso di prima, la riduzione da trenta a quattro o cinque partiti è una chimera, la nazione italiana è più sconnessa che mai, vive soltanto nella mente d´una minoranza e la speranza di recuperarne l´unità è diventata un pallido e lontano miraggio.
Lo si vede da molti segnali: la secessione del Nord ne è il dato più appariscente, l´affondamento dell´Alitalia ne è la conseguenza più vistosa, la regressione missina del centrodestra ne rappresenta l´inevitabile contraccolpo cui fa da controcanto il sussulto identitario dell´estrema sinistra.
Le rauche invettive di Beppe Grillo completano il quadro d´una società che sembra avere smarrito ogni bussola, ogni orientamento, ogni immagine di sé, ogni memoria del suo passato ed ogni progettualità del suo futuro. Si va avanti alla giornata senza timone e senza stelle.
* * *
Berlusconi – non il governo Prodi che non c´è più – ha buttato nella fornace Alitalia 300 milioni presi dalle casse pubbliche per guadagnare tre o quattro mesi di tempo.
In attesa di chi e di che cosa? Alitalia non può esser rimessa in piedi da sola. Non è una questione di soldi ma di imprenditorialità e di dimensioni. Non esiste neppure una remota probabilità di una compagnia aerea italiana che abbia da sola un ruolo internazionale.
Aeroflot è una compagnia regionale e statale ancor più piccola del rottame Alitalia. Lufthansa pone condizioni ancora più severe di quelle di Air France.
Gli italiani chiamati da Berlusconi a contribuire alla cordata patriottica si riducono a Ligresti e forse a Tronchetti Provera. Se tra tutti e due metteranno insieme 150 milioni sarà un miracolo. Le banche tireranno fuori un finanziamento solo se ci sarà un piano industriale.
Bruxelles non accetterà mai un aiuto di Stato per rianimare un moribondo, l´ha già concesso una volta e non è servito a niente. Londra, Berlino, Parigi son lì a vigilare perché una violazione delle regole europee in un settore strategico come l´aeronautica non avvenga.
Tutta questa incredibile storia è la degna inaugurazione del Berlusconi-ter. Bossi se ne frega, il Nord secessionista vola benissimo con i suoi aeroporti padani.
Da lui Berlusconi non avrà nessun aiuto per Alitalia ladrona.
* * *
Ho letto con interesse l´intervista alla «Stampa» di Veronica Lario in Berlusconi. Abbiamo scoperto che la signora è leghista nell´animo anche se il 14 aprile ha votato, come era logico, per il marito. Abbiamo anche appreso che il figlio Luigi se ne infischia della politica, si occupa di finanza e gli basta. La politica è solo imbroglio. Valeva la pena, signora Berlusconi, di mandarlo alla scuola steineriana? Che la politica fosse solo imbroglio poteva tranquillamente impararlo in famiglia, gli esempi domestici erano ampiamente sufficienti. Almeno, così ci sembra ed è lei stessa che più d´una volta ce l´ha fatto capire.
* * *
La signora Marcegaglia, nuovo presidente di Confindustra, si è già guadagnata diversi Oscar: è donna, è tosta, anzi virile, ha le idee chiare in tema di rapporti con i sindacati con il governo e soprattutto con i suoi associati.
Non mi ha affatto scandalizzato la sua colazione a Palazzo Grazioli con il futuro presidente del Consiglio insieme a Luca Montezemolo officiato per un ministero. Perché no? Non c´è niente di male che un industriale diventi ministro, in Usa accade spesso ed anche in Europa. L´ipotesi non piacerebbe affatto ai colonnelli di Forza Italia e di An. A Bossi invece, anche su questo terreno, non gliene importa niente: lui i suoi ministri li avrà e nessuno glieli può levare.
C´è una sola cosa che non mi è piaciuta della Marcegaglia: ha dichiarato che la Confindustria non si occuperà più di legge elettorale né di altre questioni istituzionali, ma soltanto della sua missione di sindacato degli industriali.
Mi sbaglierò, ma è una dichiarazione grave per chi, come me, ha sperato che prima o poi gli imprenditori italiani diventassero una borghesia.
Diventare borghesia significa avere un´idea di Paese entro la quale collocare i propri legittimi interessi di azienda e di categoria.
Bossi ha una sua idea di Paese nord e di tutto il resto si disinteressa. Ma gli industriali italiani non sono solo al Nord. La Confindustria di Montezemolo sembrò avere una sua idea di Paese e si interessò di legge elettorale e di altre questioni istituzionali.
La signora Marcegaglia cambia rotta? Vuol dire che non ha un´idea di Paese o quanto meno non ce l´ha come presidente di Confindustria. Non crede che sia una questione riguardante la rappresentanza degli industriali.
Il suo dirimpettaio Bonanni, segretario della Cisl, la pensa allo stesso modo. Quelli della Fiom anche. Epifani sembra di no, lui un´idea di Paese ce l´ha come tutti i suoi predecessori da Di Vittorio a Trentin a Lama e a Cofferati. Ma anche la Cgil sta diventando una minoranza, la sua gente nel Nord le preferisce Maroni e Calderoli.
Ecco perché dico che lo specchio è più rotto di prima.

Repubblica 27.4.08
La questione della sinistra
di Massimo L. Salvadori


In questo periodo post-elettorale si fa un gran guardare, ciascuno naturalmente dal suo punto di vista, alle qualità personali dimostrate dai leader: di Berlusconi, il gatto dalle sette vite; di Bossi, il padano che non molla; di Veltroni, che non si sa se abbia fatto bene o male a non attaccare più decisamente l´avversario; di Bertinotti, che, dopo aver vestito i panni del rinnovatore della sua sinistra, è stato messo sotto accusa da coloro che pensano di aver perso così rovinosamente anche per non aver riproposto il simbolo di falce e martello. Ma nel dibattito ciò che domina e abbaglia è il successo della Lega. Ecco – si è detto da commentatori e ammesso anche da avversari - l´unico vero partito, che ha un forte legame con la gente, che è saldamente insediato nel territorio, che ha capito la questione settentrionale, che ha persino imparato la lezione del vecchio Pci. Molti di quanti fino a ieri consideravano tale partito un pericolo pubblico, xenofobo, una minaccia per l´unità nazionale, l´incarnazione di un tradizionalismo arcaico, lo considerano ora quasi un modello di intelligente lettura della modernità, da cui bisogna imparare e col quale necessita dialogare.
Si discute di chi ha saputo meglio manovrare e conseguire il risultato di conquistare Parlamento e governo. Ma non occorrerebbe ragionare molto di più su ciò che significa la vittoria di questa maggioranza uscita dalle urne in termini di "autobiografia della nazione"? Si dimentica tanto in fretta che, se la volontà della maggioranza va accettata, la coscienza che la sorregge non è un idolo al quale inchinarsi e che il suo metro non sono i numeri ma il grado di maturità civile e sociale di un popolo e che è qui che bisogna in primo luogo guardare?
Il paese che ha dato la maggioranza a Berlusconi e a Bossi è in crisi profonda. La sua economia si colloca agli ultimi posti in Europa; i lavoratori italiani sono tra i peggio pagati; la distribuzione del reddito è caratterizzata da una diseguaglianza crescente (secondo i dati resi noti da Draghi, che stranamente non sono stati oggetto di dibattito elettorale, il 10 per cento possiede una quota del 45 per cento); la rete dei servizi è quanto mai carente; la ricerca scientifica e tecnologica è molto inadeguata e il sistema di istruzione in gravi difficoltà; l´esercizio della giustizia fa acqua da tutte le parti; privilegi corporativi che paiono inamovibili avvolgono il Paese nella loro rete; l´informazione televisiva è nello stato ben noto; le organizzazioni criminali – che costituiscono esse, e non gli extracomunitari, il primo elemento che attenta alla sicurezza dei cittadini - stringono nella loro morsa anzitutto il Mezzogiorno e ne umiliano le possibilità di sviluppo; la legislazione sui diritti civili è una delle più restrittive tra quelle dei Paesi dell´Unione europea; la legge elettorale vigente, che ha avuto il solo merito di fermare l´intollerabile frammentazione dei partiti, ha lasciato mano libera alle oligarchie di partito di imporre i candidati da loro scelti ai votanti. L´autobiografia della nazione sta tutta nel fatto che i più hanno creduto che Berlusconi e Bossi fossero i medici giusti per curare la crisi.
In un Paese che deve affrontare tanti gravi problemi è naturale che la gente chieda un governo forte. A fronte di questa esigenza il governo Prodi, al di là di quanto ha pur fatto di positivo, è apparso per la sua conflittualità interna strutturalmente inadeguato, lasciando così allo schieramento antiberlusconiano un´eredità decisamente negativa con cui fare i conti. Per dare al Partito democratico un´immagine di vigore e di rinnovamento Veltroni gli ha fatto compiere una corsa (quasi) solitaria promettendo una futura maggioranza e un futuro governo compatti, puntando ad ottenere un sostanzioso consenso al centro e recidendo i legami con le variegate forze dell´Arcobaleno e con i socialisti. Sennonché il disegno non ha avuto successo, perché il Pd, mentre non ha ottenuto l´auspicata penetrazione al centro, ha invece pescato alla sua sinistra nel bacino di coloro i quali lo hanno ritenuto il male minore e non ha ricevuto il voto di quanti ritenendolo troppo "morbido" verso gli avversari si sono astenuti. Di qui lo scacco del Pd, a cui si è accompagnata la disfatta dei socialisti e dell´Arcobaleno, rimasti isolati anche in conseguenza dell´atteggiamento di critica aspra, comunque se ne valutino i motivi, nei confronti del progetto e della strategia veltroniani.
Questi ultimi hanno pagato la logica del "voto utile", la stanchezza e l´avversione crescenti verso piccoli partiti cui le "rendite di posizione" attribuivano loro un potere sproporzionato, ma soprattutto la loro inettitudine. Quanto al Partito socialista, è da dire che la sua Costituente non aveva certo trasmesso un messaggio di convincente rinnovamento. La sua campagna elettorale centrata in primo luogo sulla pur sacrosanta difesa della laicità dello Stato, senza la capacità di dire nulla di incisivo e persuasivo sui temi stringenti di carattere sociale, è stata prova di una grande debolezza. Quanto alla Sinistra Arcobaleno, i propositi bertinottiani di nuova Sinistra, sempre volta a costruire un´indefinita "società alternativa", non hanno sciolto il problema di fondo: ma insomma volete restare comunisti o diventare socialisti e in tal caso di quale tipo? Ora nelle file degli sconfitti sembra prevalere la convinzione che l´arma della riscossa stia nel rifondare Rifondazione comunista. Se così è, allora davvero bisogna dire che la storia è maestra, ma non trova allievi.
La costituzione del Pd aveva già decretato la fine dell´esistenza in Italia di un grande soggetto autonomo della sinistra. Ora la débâcle subita riduce sia il Partito socialista sia l´ex-Arcobaleno ad entità trascurabili e li mette alla prova più dura. Lo stato di confusione al loro interno è massimo. Ma il Pd a sua volta deve decidere che fare con una "questione della sinistra" la quale rimane aperta al di là degli esiti elettorali, si presenta irrisolta al suo stesso interno e attende perciò anche da esso risposte. Può voltarle le spalle?

Repubblica 27.4.08
Praga '68, La primavera di Koudelka
Un fotografo contro i tank
di Mario Calabresi


A quarant´anni dall´invasione dei carri armati sovietici un libro raccoglie lo straordinario reportage del grande fotografo ceco. Ecco le immagini mai viste che costarono al loro autore vent´anni di esilio

È l´alba del 21 agosto 1968 A Josef Koudelka telefona un´amica: "Sono arrivati i russi"
Comincia così, nelle strade di Praga invasa, uno dei più grandi reportage della storia della fotografia

«Il telefono squilla alle quattro del mattino; rispondo; un´amica grida: "Sono arrivati i russi". Penso ad uno scherzo e abbasso. Suona una seconda volta, non ci credo e riattacco di nuovo. Alla terza telefonata la voce urla: "Apri la finestra e ascolta". Mi alzo, metto la testa fuori per due minuti e sento il rumore degli aerei militari. Capisco che sta succedendo qualcosa. Mi vesto in fretta, prendo la macchina fotografica e tutte le pellicole che mi sono rimaste, ero tornato il giorno prima dalla Romania dov´ero stato a fotografare gli zingari. Scendo in strada, comincia appena ad albeggiare, istintivamente mi dirigo verso la sede della radio, a meno di un quarto d´ora da casa. I russi erano andati alla radio anche nel 1945. Ma allora erano venuti per liberarci».
«La prima cosa che vedo è un automobile d´epoca con il tetto scoperto che suona senza sosta il clacson per svegliare la città, a bordo ci sono tre ragazzi e una ragazza con una bandiera ceca. Gridano la stessa frase che ho sentito al telefono: "I russi sono arrivati"».
La foto della macchina in corsa, che percorre Avenue Stalin, è la prima che Josef Koudelka, trent´anni, scatta quel 21 agosto del 1968. La prima di duecento rullini. La prima di uno dei più grandi reportage della storia della fotografia: la testimonianza della repressione della Primavera di Praga nel sangue. Duecento pellicole che costeranno al suo autore vent´anni di esilio.
Sono passati quarant´anni, Koudelka è diventato uno dei più famosi fotografi del mondo, ha la barba e i capelli bianchi, occhialini rotondi, tiene tra le mani la prima copia del libro che raccoglie molte delle foto inedite di quei giorni. Uscirà in otto paesi d´Europa alla fine di aprile e negli Stati Uniti quest´estate. Lo sfoglia con cura, come fosse cosa viva, è un pezzo della sua vita e si accende in continuazione mentre lo racconta. Siamo nella stanza dei fotografi nella sede dell´agenzia Magnum, nel quartiere di Chelsea a New York. Due tavoli, due sedie, una catasta di libri e fogli sparsi ovunque. Ci si aspetterebbe un luogo grandioso e autocelebrativo come sede dell´agenzia che raccoglie l´elite dei fotografi, invece sembra la redazione di una rivista di provincia, se non fosse che le ragazze riordinano gli scatti di Cartier-Bresson e stanno rimettendo a posto le immagini di Martin Luther King mentre pronuncia il suo discorso più noto: «I Have a Dream», Washington 1963.
Josef Koudelka parlerà senza sosta per novanta minuti, alternando tre lingue: inglese, spagnolo e italiano. È normale per un uomo che non ha mai avuto una casa, o meglio che non si è mai sentito a casa in nessun luogo.
«La ragazza che mi ha svegliato si chiama Marie Lakatošova, lavorava in una rivista di teatro, suo padre era un grande musicista gitano. Ci sentiamo ancora: le porterò il libro non appena torno a Praga. Se sono stato il primo ad arrivare, lo devo a lei».
Raggiunge la sede della Radio che i russi non ci sono ancora. «Erano atterrati all´aeroporto e stavano muovendo verso il centro con dei veicoli leggeri, solo più tardi sarebbero apparsi i blindati e i carri armati». Una piccola folla riesce ad anticipare i soldati del Patto di Varsavia e blocca l´accesso alla Radio: «I soldati all´inizio erano confusi e disorientati, non sapevano dove fossero, erano sorpresi che non li volessimo. Erano giovani come me e ho pensato che vivevamo sotto lo stesso sistema e un giorno poteva toccarmi la stessa sorte: trovarmi su un blindato da qualche parte a Varsavia o a Budapest». Li si vede che fumano, discutono e scrutano i volti delle persone nelle strade e sentono ripetere lo slogan: «Vai a casa, o Ivan, ti aspetta Natasha».
Le foto sono sfocate, mosse, frutto della poca luce e della concitazione. «La gente non li lasciava passare, li inseguiva, riuscì a fermarli, intanto la folla cresceva». Koudelka mette a fuoco l´uomo che dirige l´operazione, poi si arrampica sul blindato e comincia a scattare immagini della popolazione: «Le foto diventano come un film, in cui la storia adesso è vista dal punto di vista opposto, con lo sguardo di un soldato russo. Sono stato fortunato che non mi hanno fatto niente, ma all´inizio c´era grande confusione e nessuno era preparato».
Koudelka racconta soltanto quello che ricorda con certezza, e prima di parlare controlla il libro: «Sono passati quarant´anni e non ti puoi fidare della memoria, ma delle foto sì, ti puoi fidare». E le foto in bianco e nero mostrano la sproporzione tra i carri armati del Patto di Varsavia e quelle che la Pravda il 21 agosto definiva «le forze controrivoluzionarie che minacciano l´ordine socialista». Ma si vedono soltanto ragazzi che gridano, anziani che si mettono le mani sulla bocca, donne che piangono, persone che cantano l´inno nazionale e una scritta tracciata con il gessetto sul muro: «Russi, tornate a casa».
Poi i paracadutisti occupano la Radio e per farsi strada i blindati sparano i primi colpi. Una donna viene schiacciata dai cingoli. Ci sono sparatorie. Arrivano le notizie dei primi morti. Le foto scandiscono ogni attimo. Bruciano automobili e il cielo si riempie di fumo. Gruppi di giovani disegnano svastiche sui carri armati, poi li attaccano. Alcuni prendono fuoco. Un vecchio con il basco e la cartella di pelle tira un sampietrino. La sera gli incendi bruciano alcuni palazzi già distrutti dai proiettili. Poi arriva il coprifuoco. Koudelka entra in una casa accanto alla sede della Radio e trova alcuni cadaveri, un ragazzo con gli occhi spalancati e il sangue che cola dal naso. Per tre giorni testimonia la repressione, i funerali delle vittime, la protesta che si fa sempre più silenziosa. Qualcuno ha l´idea di distruggere la segnaletica: scompaiono improvvisamente i nomi delle vie e delle piazze, i numeri civici, perfino le targhette sui citofoni, la città diventa anonima. Praga è una città morta per gli ospiti indesiderati e il motto diventa: «Il postino trova l´indirizzo, il bastardo no».
«Il secondo giorno i russi mi hanno visto che fotografavo i tank da una finestra, hanno pensato che ero un cecchino e allora sono entrati nel palazzo per venirmi a prendere. Mi sono salvato scappando dai tetti ma prima ho consegnato tutti i rullini a un ragazzo perché li mettesse in salvo». Koudelka scatta senza sosta ma non sviluppa nulla, non c´è tempo, comincerà a farlo solo un mese dopo. Quando tornerà dal ragazzo per recuperare le pellicole scoprirà che quello le ha mandate a Vienna a Radio Free Europe. «Mi arrabbiai. Non volevo, non mi interessava. Fotografavo per me stesso e per la memoria, non per un giornale, non avevo scattato per pubblicare».
«Non ho mai fatto foto d´attualità, prima dell´agosto del 1968 mi ero occupato solo di zingari e teatro, dopo avrei fotografato solo paesaggi e persone. Non mi sono mai interessate le news, non avevo mai visto Life o Paris Match, ma penso di essermi comportato bene. Quella mattina quando sono stato svegliato mi sono trovato davanti a qualcosa più grande di me. Era una situazione straordinaria, in cui non c´era tempo di ragionare, ma quella era la mia vita, la mia storia, il mio Paese, il mio problema».
Due settimane dopo riesce ad andare a Vienna - «avevo un passaporto ottenuto durante la Primavera di Praga» - recupera le foto e se le riporta a casa. Solo un mese più tardi, dopo averle stampate, si farà convincere da un´amica a darne cinque a Eugene Ostroff, curatore dello Smithsonian di Washington che le porterà al presidente di Magnum Eliott Erwitt. Gli fanno sapere che vogliono i negativi: «Non avevo nessuna voglia di consegnare tutto il mio lavoro ad altri, ma la mia amica, che era la critica d´arte Anna Farova, mi convinse che erano delle persone serie. I negativi arrivarono in America nella valigia di un medico che era venuto a Praga per un congresso». Per anni rimasero anonime, sul retro delle stampe nell´archivio di Magnum c´è un timbro con scritto: «Photograph by P.P». P.P. significa fotografo praghese, poi solo nel 1984, a penna, è stato aggiunto il nome.
«Ho visto le mie foto pubblicate a Londra nel primo anniversario dell´invasione, nell´agosto del 1969. Era una domenica, ero a Londra per seguire e fotografare un gruppo teatrale del mio Paese. Uno di loro comprò il Sunday Times e cominciò a sfogliarlo, io riconobbi i miei scatti, l´emozione era grandissima ma non potevo dire niente. Rimasi in silenzio cercando di non tradirmi. Dovevo tornare a casa e non potevo rischiare. Ma il giorno dopo riuscii a contattare l´Agenzia Magnum e loro ebbero l´idea di farmi una lettera con cui mi invitavano a fotografare gli zingari dell´Europa occidentale». Tornò a Praga, dove grazie a un amico al ministero della Cultura riuscì ad avere il permesso di espatriare per tre mesi.
Lasciò la Cecoslovacchia il 20 maggio del 1970. «Me ne sono andato perché avevo paura che la polizia scoprisse che ero io l´anonimo fotografo praghese. Non avevo voglia di finire in galera e sarebbe successo perché le mie immagini sono la testimonianza di quello che è successo, sconfessavano le falsificazioni, mostravano i morti, smentivano il racconto di quanto fossero contenti i cechi nel vedere arrivare i russi. Ci sono le foto delle persone uccise in mezzo alla strada e quello proprio non andava bene».
Koudelka era l´unico fotografo che non si nascondeva: «Correvo da una parte all´altra, volevo testimoniare tutto, non restare fermo in un solo posto. Mi mettevo davanti ai russi e cominciavo a scattare, gli amici mi dicevano che sarei stato ammazzato, i soldati pensavano che fossi pazzo o particolarmente coraggioso. Ma il coraggio è un´altra cosa, è quello che hanno avuto quei sette russi che sono andati sulla Piazza Rossa per protestare per l´invasione della Cecoslovacchia. Dopo tre minuti li hanno arrestati e alcuni si sono fatti sette anni di galera. Uno di loro molto tempo dopo ha detto: "Ne è valsa la pena: quei tre minuti sono stati gli unici nella mia vita in cui mi sono sentito libero"».
Koudelka avrebbe rivisto Praga soltanto nel 1991 quando i genitori erano già morti: «Mio padre aveva capito che non sarei tornato, era bastato che gli dicessi: "Ho fotografato i russi", e a lui fu chiaro tutto. Faceva il sarto, cuciva le uniformi, mi guardò e mi disse: "Se fossi giovane, io me ne andrei". Partii per la Camargue per fotografare i gitani. Novanta giorni dopo avrei chiesto asilo politico a Londra».
Koudelka era diventato un uomo libero, le foto invece sarebbero rimaste senza padre, anonime, per altri quattordici anni per evitare guai alla famiglia. La dedica del libro recita: «Ai miei genitori che non hanno mai visto queste fotografie». «Ci siamo incontrati una sola volta, a Parigi nel 1977: avevano avuto il permesso di uscire per qualche giorno ed erano venuti a trovarmi. Avevo pubblicato da un paio di anni il libro sugli zingari e glielo regalai con una dedica molto lunga e affettuosa. Ma quando sono partiti il libro era rimasto sul tavolo. Mio padre si giustificò dicendo che era troppo pesante, la verità è che vivevano nella paura e quella poteva essere la prova che il fotografo ero io».
L´esilio ha lasciato il segno e cambiato una vita: «Oggi vivo dove sono: una settimana fa ero in Spagna, ieri a Parigi, adesso per sei settimane negli Stati Uniti. Per quindici anni non ho pagato un affitto, ho due abitazioni, una nel centro di Praga e una nella periferia di Parigi, però non sono case ma luoghi di lavoro dove c´è un grande tavolo e tutto quello che mi serve».
«L´esilio però ti fa due regali: il primo è che ti costringe a costruirti una nuova vita e ti dà la possibilità di farlo in un ambiente nuovo dove nessuno ti conosce e ha pregiudizi su di te; il secondo è che quando torni a vedere il tuo Paese lo fai con occhi diversi. Nel 1991 a Praga è stato formidabile: ogni mattina mi svegliavo prestissimo e cominciavo a camminare per guardare più cose possibile. Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco».
Josef Koudelka ha un figlio di tredici anni che vive a Torino. «Quando ho visto che disegnava gli aerei come facevo io da ragazzo mi sono commosso e mi è venuto da pensare che l´invasione mi ha regalato una cosa bellissima: se non fossero arrivati i russi, io non sarei scappato e questo mio figlio non esisterebbero. La prima copia di questo libro sarà per lui».

Repubblica 27.4.08
La Primavera insanguinata
di Bernardo Valli


L´invasione sovietica schiacciò il tentativo di rinnovare il sistema comunista dall´interno
Ma la fine di quel mondo cominciò proprio allora: vent´anni dopo le idee di Praga riaffioreranno a Mosca

Parigi. Erano circa le tre, nella notte tra martedì 20 e mercoledì 21 agosto 1968, quando i praghesi furono svegliati da un rumore grave e forte, sempre più intenso. Un brontolio sordo. Sulle loro teste si muoveva il ponte aereo più importante organizzato nel cuore dell´Europa dalla Seconda guerra mondiale. Vibravano le vetrine di piazza San Venceslao, lunga come un ippodromo e dominata dall´imponente Museo nazionale che poche ore dopo sarebbe stato scalfito dai proiettili dell´Armata Rossa. Quello che sembrava un interminabile tuono echeggiava nei cortili dei solenni palazzi di Mala Strana, ai piedi del Castello di Hradcany. E investiva le facciate liberty allineate sulla Moldava e sulla stravagante via Parigi, tra il fiume e il ghetto defunto.
Forse faceva fremere anche i moschettieri di terracotta appollaiati su un tetto di via Parigi, come se dovessero proteggere dall´alto l´indimenticabile cimitero ebraico che è li a due passi. In quelle ore la preziosa città mitteleuropea, resa ancor più romantica, evanescente dalla ventennale trascuratezza del regime, era un antico, magico lampadario di cristallo, sbrecciato e polveroso, scrollato da una forza misteriosa, senz´altro infida.
Provati dalle emozioni delle ultime settimane, non pochi praghesi, i meno decisi, si rigirarono nel letto e cercarono di riaddormentarsi. Era evidente che la capitale era sorvolata da ondate di aerei a bassa quota, ma per loro doveva trattarsi di una manovra. Era comodo pensarlo. E non mancavano gli spunti che potevano rassicurare. La controversa, contrastata Primavera di Praga, il processo di rinnovamento comunista iniziato (o accelerato) il 5 gennaio con la nomina del riformatore Alexander Dubcek alla testa del partito, al posto dell´ortodosso Antonin Novotny, era arrivata al 204esimo giorno. E le minacce sembravano per il momento sospese se non proprio svanite del tutto. Il vertice di Bratislava del 3 agosto aveva fatto tirare un sospiro di sollievo. Riuniti a congresso, come un tribunale di ultima istanza, i capi di cinque Paesi comunisti (Urss, Bulgaria, Germania orientale, Ungheria e Polonia) avevano emesso una sentenza in apparenza assolutoria: avevano dato l´impressione di tollerare l´esperimento cecoslovacco e di non volerlo schiacciare come era accaduto dodici anni prima con lo scisma ungherese. A una sola condizione: che esso confermasse la sottomissione totale al Patto di Varsavia, ossia all´alleanza militare comunista, dominata dai sovietici.
Questa condizione annessa all´apparente assoluzione creava un´equazione irrisolvibile. Quindi esplosiva. Bratislava aveva acceso una breve illusione. Alla stessa ora, mentre i praghesi meno sensibili si agitavano nei loro letti infastiditi e impensieriti dal passaggio degli aerei, Dubcek e i suoi compagni venivano catturati dai paracadutisti sovietici nella sede del Comitato centrale. Dopo le cinque, quel mattino di mercoledì 21 agosto, al rumore del ponte aereo se ne aggiunsero altri più allarmanti. All´Hotel Esplanade, all´angolo di piazza San Venceslao, un giornalista straniero non ancora del tutto emerso dal sonno pensò a un martello pneumatico in funzione nei paraggi. Ma a quell´ora non potevano esserci lavori stradali in corso.
Quei tonfi ritmati, lenti erano quelli di una mitragliatrice pesante, attutiti dalla distanza. Quando il cronista assonnato si affacciò sulla piazza San Venceslao scoprì che era affollata come in un giorno di festa. La gente era tanta che traboccava nelle strade adiacenti. C´erano molte bandiere. Bandiere ceche di tutte le dimensioni, sventolate dalle automobili, appese alle finestre, in testa a cortei che si incrociavano, diretti verso il Museo, all´estremità alta della piazza, o nella direzione opposta, verso il fiume.
Si avvertiva una disperata esaltazione. I giovani, ragazzi e ragazze, ma anche gli anziani, uomini e donne, tutti a mani nude, avevano voglia di confrontarsi con gli invasori.
La maggioranza dei praghesi non si era illusa. Era saltata giù dal letto. Non era stata tanto ottimista da pensare a una manovra militare. L´invasione era un incubo che accompagnava il Paese da mesi. Il tuono nella notte d´agosto già un po´ autunnale non aveva lasciato dubbi: l´invasione era cominciata. E subito masse di praghesi si erano rovesciate per le strade, prima ancora dell´alba, mentre si accendevano sparatorie sulle due sponde del fiume, e nella parte alta, verso Hradcany. Più che scontri armati erano spari sovietici di intimidazione. Non era la resistenza delle milizie del partito o dell´esercito nazionale che poteva fermare l´invasore.
La storia e la cultura hanno insegnato a un piccolo Paese ritagliato tra imperi prepotenti, dei quali non può contrastare la forza, quali sono le forme di resistenza consentitegli dalla ragione: l´ironia, il sarcasmo, il dialogo, la polemica. Armi spuntate quando prevale la violenza, ma che salvano la dignità e lasciano tracce ricche di sviluppi nell´attesa di tempi migliori.
Piazza San Venceslao era diventato il punto di raccolta dei manifestanti. Era in quelle ore il cuore di Praga. Clacson e voci esasperate rimbalzavano tra gli edifici dell´ampia spianata rettangolare, mentre le finestre via via si illuminavano, avvertendo che ormai tutti avevano abbandonato i loro letti, e con i letti l´illusione. Gli Ilyushin erano ormai ben visibili nel cielo, stanati dalle prime luci. E all´alba la gente scagliava le sue maledizioni alzando lo sguardo. Alcuni accompagnavano le imprecazioni con degli sputi.
L´Armata Rossa si era impossessata della città «con la rapidità di una piovra che stende i tentacoli» (si leggerà più tardi in uno dei tanti racconti anonimi di quelle ore). I russi erano sul Ponte Carlo, davanti a San Nicola, sulla piazza della Città Vecchia, davanti al monumento di Jan Hus, il teologo riformista bruciato vivo (nel Quattrocento), al quale un praghese avrebbe poi bendato gli occhi affinché non vedesse quello spettacolo vergognoso. I carri armati, i T55 e i più moderni T62, si aggiravano per la città con le torrette chiuse, senza che gli equipaggi mostrassero le facce, subendo gli insulti e gli sputi della folla. Non reagivano neppure quando alcuni giovani, rassicurati da quell´inerzia, si arrampicavano sui carri e sventolavano la bandiere cecoslovacche, come se esibissero un trofeo di guerra catturato a mani nude. L´Armata Rossa aveva l´ordine di evitare il più possibile l´uso delle armi. Ma qualche comandante perse le staffe o ricevette l´ordine di reagire. Tre autoblindo aprirono il fuoco, prendendo di infilata piazza San Venceslao. Scaricarono le loro mitragliatrici, tenendo però alto il tiro, mirando al primo piano del Museo nazionale. Anche quello era un fuoco di intimidazione ma sul selciato, quando la piazza si vuotò, c´erano tracce di sangue.
La folla si disperse nelle strade vicine inseguita dall´odore aspro di polvere e di grasso bruciato e dai frammenti di pietra strappati dalla facciata del Museo. Al panico, alle urla di paura, alle imprecazioni, segui un silenzio non tanto lungo. Poi la gente riempì di nuovo la piazza occupata dai carri armati. E lentamente si spalancò una scena destinata a durare alcuni giorni.
Giovani e anziani, uomini e donne, inermi, avevano accerchiato i carri armati, dai quali adesso spuntavano le facce stralunate di soldati per lo più imberbi. I cecoslovacchi parlavano il russo. L´avevano imparato a scuola. Era la lingua obbligatoria. La lingua dell´impero. La lingua dei liberatori del ‘45 diventati invasori nel ‘68. Più di vent´anni dopo la lingua imperiale serviva a polemizzare con i nuovi occupanti, a insultarli; a invitarli a tornare a casa, ad andarsene al più presto. C´era chi strappava la tessera del partito davanti ai cingoli e gettava i frammenti in faccia agli ufficiali che spuntavano a mezzo busto dalla torretta. Le ragazze boeme dicevano, senza sorridere: «Ritornate dalle vostre Natasha, con noi non combinerete mai niente. Neanche se ci minacciate con i vostri cannoni».
I sovietici erano esterrefatti. Non tutti sapevano in che Paese fossero capitati. I loro padri, nel ‘45, avevano avuto un´accoglienza diversa. Le donne di Praga li avevano presi sottobraccio, strappandoli dai ranghi, mentre sfilavano vincitori per le strade appena sgombrate dalle truppe naziste sconfitte.
Neppure un quarto di secolo dopo le ragazze cecoslovacche chiamavano i figli o i nipoti dei liberatori di un tempo con lo stesso nome. Per loro erano tutti «Ivan» senza distinzione. Affibbiavano a tutti lo stesso nome, come se fossero stati fabbricati in serie, uguali, ubbidienti. Non individui, ma elementi senza identità di un´unica massa umana.
La Primavera di Praga era stata un tentativo di recuperare gli individui, schiacciati da un collettivismo inefficace e umiliante. Quegli «Ivan», spesso inconsapevoli, cancellavano con i loro carri armati quel tentativo, quella speranza, quell´illusione. Gli storici ci dicono che la fine del mondo comunista è cominciata nell´agosto 1968 a Praga. Altri risalgono alla Budapest del ‘56. È un fatto che per evitare il contagio politico, o la depressione, i soldati russi vennero spesso sostituiti, durante l´invasione della Cecoslovacchia. E le idee della Primavera di Praga sarebbero riaffiorate a Mosca, vent´anni dopo, e avrebbero contribuito all´autoaffondamento, al suicidio, dell´Unione Sovietica. Le armi spuntate dei giovani cechi sulla piazza San Venceslao, il sarcasmo, l´ironia, la polemica, servirono poco nell´agosto ‘68. Ma fa piacere pensare che abbiano poi dato dei frutti, proprio nel cuore dell´impero degli «Ivan», favorendone il crollo.
Stupito che l´avvenimento fosse ufficialmente ignorato, dieci anni fa, trovandomi a Praga per il trentesimo anniversario dell´invasione, scrissi che dopo essere stata condannata e sepolta nel 1968 dall´Unione Sovietica, la Primavera di Praga era stata condannata e sepolta nel 1993 dal Parlamento ceco liberamente eletto. L´Urss aveva usato i carri armati. La democrazia ceca usava una legge. In quest´ultima, nella legge ceca, si definiva senza distinzione il periodo dal 1948 al novembre 1989, vale a dire gli anni in cui il Paese fu governato dal partito comunista, una fase durante la quale la società fu violentata da un´organizzazione criminale. Nel presentare questa legge un esponente del governo aveva precisato che neppure i promotori dell´effimera Primavera, durata 204 giorni, potevano sfuggire a quel giudizio. Anche loro erano stati in definitiva guardiani del campo di concentramento: guardiani buoni rispetto ai loro predecessori e ai loro successori, ma pur sempre guardiani.
Ricavai questa scarna, un po´ brutale, interpretazione dell´atteggiamento cecoclovacco ufficiale nei confronti della Primavera dal discorso del filosofo Karel Kosic, un coraggioso intellettuale e protagonista della Primavera, che mi aveva aiutato a capire gli avvenimenti nella Praga del ‘68, prima e durante l´occupazione sovietica. E che per me era stato anche un amico. Un amico per il quale avevo una grande ammirazione. Adesso, nella Praga democratica, il giudizio sulla Primavera sta cambiando. È cambiato, poiché si valuta la Primavera con rispettosa attenzione. Era tempo. Karel Kosic e tanti suoi amici lo meritavano da un pezzo.
In quei mesi del ‘68 facevo la spola tra Parigi e Praga. Seguivo il Maggio francese e la Primavera cecoslovacca. Sulla diversità dei due avvenimenti simultanei vale la pena citare la laconica analisi di Milan Kundera (nella prefazione a Miracolo in Boemia di Josef Skvorecky). Tra l´altro Milan Kundera, non comunista, era un amico di Karel Kosic, filosofo critico marxista. Per Kundera, dunque, sulle rive della Senna ci fu un´esplosione di lirismo rivoluzionario, mentre sulle rive della Moldava ci fu l´esplosione di uno scetticismo postrivoluzionario.

Repubblica 27.4.08
L'occhio. Quel cuore che guarda e ci fa conoscere il mondo
di Daniele del Giudice


Ha rappresentato la divinità e la conoscenza; è una metafora, un simbolo, un´ossessione. Mentre il libro di un famoso archeologo, per la prima volta tradotto, ci trasporta attraverso i millenni per ripercorrere l´uso culturale che è stato fatto di questo meraviglioso organo del nostro corpo, uno scrittore ci invita a sperimentare "il sentimento del vedere"

Sguardo penetrante, un tempo, non era un modo di dire, ma corrispondeva, per esempio in Marsilio Ficino e nei neoplatonici, all´idea che dall´occhio di chi guardava si dipartisse qualcosa che raggiungeva l´occhio del guardato, o della guardata, lo toccava, lo colpiva, lo impressionava, lo penetrava. Per questo, forse, le figure femminili in Dante e Petrarca tengono gli occhi bassi, non soltanto per pudore o riserbo della propria "anima", ma per non essere penetrate da ciò che muove dall´occhio altrui, preservando così un´ulteriore verginità. Il vedere non è dunque sempre vissuto come un atto incorporeo, né come una mancata relazione fisica con l´oggetto della visione. Piuttosto l´occhio governa e fa premio su tutte le percezioni, concentra tutto con un solo organo e un solo senso, escludendo gli altri. Nel nostro tempo il vedere, più che un atto, è diventato una azione, talvolta la nostra azione principale, spesso merce e lavoro: non si è mai guardato tanto e visto tanto, e mai così forte è stata l´illusione che non esista più alcun mistero, alcun invisibile.
Quando c´è l´immagine, non c´è la cosa. È un´eventualità che la filosofia stoica conosceva perfettamente, sebbene ritenesse che la cosa o la persona si fossero momentaneamente allontanate. Oggi, al contrario, le cose sembrano sparite sempre più, ed è l´immagine che è diventata indubbiamente cosa, oggetto di mestiere e di commercio. È difficile dire se tutto questo vedere consumi l´occhio. È possibile però che consumi i sentimenti. Le nostre emozioni davanti alle immagini, così come le opinioni che ci formiamo all´istante e poi lasciamo subito cadere, si accendono e bruciano in un attimo, totalmente intransitive, e incontrollabili come una salivazione. Non so da quando, ma le immagini hanno preso a scorrere come una specie di ritmo visivo, un ritmo di sottofondo, o meglio di rumore visivo di fondo, seguendo in questo il destino che fu già della musica e dell´ascolto. Vedere è un´azione, e ci sono le buone azioni e le cattive azioni. Cos´è un "buon" vedere? E cosa un "cattivo" vedere? Non posso pensare che dipenda dall´oggetto della visione; l´osceno, credo, non esiste, non c´è nulla di avverso, nulla che si "ponga contro" il nostro occhio. Dipende da noi, dal nostro modo di vedere che resta segreto, una questione del tutto privata.
A differenza delle altre azioni, non c´è nessuno a cui dobbiamo rendere conto del nostro occhio che vede, nessuno (se non un oculista, il quale tuttavia non cura l´anima e giudica solo in termini di metropia) che possa domandare: il suo occhio com´è? lei come vede? Per costruire un sentimento del vedere - poiché di questo si tratta - non c´è autorità di insegnamento né ci sono prove da superare, non precetti né consigli. Eppure è solo un sentimento del vedere, un cuore che guarda, che può redimere, se non noi stessi almeno le immagini che il nostro occhio percepisce.
René Guénon nel suo Simboli della scienza sacra dedica un paragrafo all´occhio che vede tutto, nel capitolo sul simbolismo del cuore. Uno dei simboli comuni al cristianesimo e alla massoneria, ricorda, è il triangolo nel quale è inscritto il Tetragramma ebraico oppure lo iod che può esserne considerato un´abbreviazione, sorta di "terzo occhio", né destro né sinistro, un occhio frontale come quello di Shiva, né solare né lunare, corrispondente al fuoco, il cui sguardo riduce tutto in cenere perché esprime il presente senza dimensioni, cioè la simultaneità, e così distrugge ogni manifestazione.
L´occhio unico e senza palpebra è il simbolo dell´essenza della conoscenza divina. L´occhio unico del ciclope indica al contrario una condizione subumana. Come subumana è la condizione di Argo, Argo Panoptes, «che tutto vede», gigante con un solo grande occhio secondo alcuni miti, ma secondo altri con quattro, due davanti e due dietro, e secondo altri ancora con cento occhi (dormiva chiudendone cinquanta per volta) oppure con un´infinità di occhi disseminati sull´intero corpo, che non si chiudevano mai tutti insieme, una vigilanza rivolta esclusivamente all´esterno. Di una persona molto accorta i Greci dicevano che era un Argo oppure che aveva più occhi di Argo.
L´occhio umano è un simbolo universale di conoscenza, l´apertura degli occhi è un rito di apertura alla conoscenza, un rito di iniziazione. Ma l´occhio ha colpito l´immaginario comune innanzitutto per la sua forma ovale e per la sua condizione di luogo aperto/chiuso, da cui qualcosa può entrare e qualcosa può uscire. Nella lingua italiana l´occhio ha infinite declinazioni. Oltre che l´organo della vista e l´apparato visivo o anche la capacità di leggere bene, vuol dire, ad esempio, il foro aperto in una porta o una parete per spiare di nascosto, oppure la toppa della serratura, oppure i buchi nella mollica del pane ben lievitato, o ancora, in architettura, ogni apertura circolare o ellittica. Anche le chiazze naturali sulle piume, il pelo o la pelle di certi animali si chiamano occhi, come le macchie azzurre sulla coda del pavone, e anche le macchie evidenti sulla superficie di marmi o pietre. Occhi sono i dischi del capolino di una margherita o di un girasole, o i cerchi su una superficie liquida agitata. Alcune cose escono dagli occhi, e qualcuno può andare per occhio, cioè colare a picco con la sua nave.
L´occhio pineale è l´ossessione di Georges Bataille. Come lui stesso ricorda nella Critica dell´occhio, quest´idea risale al 1927 e risponde probabilmente alla sua concezione anale, cioè notturna, del disco solare. Scrive: «Mi raffiguravo l´occhio in cima al cranio come un orribile vulcano in eruzione, proprio con il carattere losco e comico che si attribuisce al di dietro e alle sue escrezioni. Ora l´occhio è senza alcun dubbio il simbolo del sole abbagliante, e quello che io immaginavo in cima al mio cranio era necessariamente infuocato, essendo votato alla contemplazione del sole al sommo del suo splendore». Scrive ancora: «Io non esitavo a pensare seriamente alla possibilità che quest´occhio straordinario finisse per farsi strada attraverso la parete ossea della testa, perché credevo necessario che dopo un lungo periodo di servilità gli esseri umani avessero un occhio speciale per il sole (mentre i due occhi che sono nelle orbite se ne allontanano con una specie di ostinazione stupida). Non ero pazzo ma davo senza dubbio eccessiva importanza alla necessità di uscire in una maniera o nell´altra dai limiti della nostra esperienza umana […]».
Buono o malvagio, qualunque sia il sentimento del suo vedere, l´occhio è sempre oggetto di acute inquietudini e suscita comunque emozioni contrastanti. Ancora Bataille, scrive che non c´è nulla di più seducente dell´occhio, nulla di più attraente nel corpo degli uomini e degli animali, e in questo appeal è simile al filo della lama. D´altra parte, la seduzione estrema è al limite dell´orrore, ed è forse quello che ha ispirato Salvador Dalì e Luis Buñuel nel film Chien andalou, dove un rasoio incideva l´occhio di una donna giovane e affascinante sotto lo sguardo di un uomo, ammirato fino alla follia, che tiene in mano un cucchiaino da caffè e improvvisamente ha voglia di prendersi un occhio nel cucchiaino. Voglia piuttosto singolare per un occidentale la cui cultura gli impedisce di mangiare l´occhio dei buoi, degli agnelli o dei maiali. È golosità cannibale, secondo l´espressione di Robert Louis Stevenson. Nessuno di noi morderebbe mai un occhio.
Ci sono quelli che non danno troppa importanza all´occhio e al suo vedere, e preferiscono sentire. Era appunto il caso di Stevenson nella sua ultima e appassionata discussione letteraria. Quando l´amico Henry James gli lamentò di non vedere nulla nel romanzo Catriona - «ho l´impressione di trovarmi in presenza di voci nell´oscurità, voci tanto più distinte e vivaci […] quanto lo sguardo resta occultato» - Stevenson gli rispose con una frase memorabile: «Ascolto le persone parlare e le sento agire, il racconto mi sembra questo. I miei due obbiettivi possono essere descritti così: 1. guerra all´aggettivo e 2. morte al nervo ottico». Secondo Stevenson «la letteratura è scritta per e da due sensi: una specie di orecchio interno, lesto a percepire melodie silenti, e l´occhio che - semplicemente - guida la penna e decifra la frase stampata. Ebbene, proprio come vi sono rime per l´occhio, così noterete che esistono assonanze e allitterazioni».
E poi ci sono quelli che preferiscono l´assenza dell´occhio, come José Saramago che ha scritto uno dei suoi migliori romanzi, Cecità, straordinaria metafora di una perdita del vedere nei nostri tempi. Quanto all´"occhio della coscienza", poco prima di morire, nel 1847, l´illustratore fantastico e caricaturista francese Jean-Ignace-Isidore Gérard, detto Grandville, sognò quest´occhio ossessionante e lugubre, occhio vivente e totalmente vigile. Lo raccontò in Crime et expiation, e Victor Hugo lo riprese.
L´aspetto assolutamente negativo dello sguardo invidioso, pieno di cattive intenzioni, l´occhio malevolo, cioè il malocchio, mal d´occhio, è ancora molto vivo nella cultura mediterranea. Ci sarebbero occhi particolarmente pericolosi, come quelli delle donne anziane, ma anche delle vipere o dei gechi, perché l´intero mondo animato partecipa di questa presa di potere su altro e altri. E particolarmente sensibili al malocchio sarebbero i bambini, le puerpere, il latte, il grano ma anche cavalli, cani e il bestiame in generale, perché il malocchio può uccidere gli animali. Come difendersi dal malocchio: con veli che nascondono allo sguardo, fumigazioni profumate, ferro rosso, sale, corni, mezzelune, ferri di cavallo, mani di Fatima.
Per la posizione nel corpo, e nella preminenza sulle percezioni del nostro mondo, l´occhio, il suo simbolo, la sua parola stessa si adeguano all´infinito: occhio del ciclone, occhiolino, occhiello, occhio di bue, occhio di gatto, locuzioni tutte riguardanti tutt´altro.

il Riformista 27.4.08
Kentucky. avrà 500.000 visitatori annui, 160 impiegati e un cappellano
Il museo creazionista, dove la storia è sprannaturale
di Enrico Buonanno

Il 2009, l'anno mondiale di Charles Darwin, si sta avvicinando con falcate da dinosauro, ma nell'America in cui ben tre candidati repubblicani su dieci hanno affermato di credere al disegno intelligente, le celebrazioni del caso rischiano di essere messe in ombra dall'ultimo stadio evolutivo delle teorie creazioniste. A Petersburg, nel Kentucky, sorge da meno di un anno, tra mille squilli di trombe mediatiche, il nuovo Creation Museum, lo sfavillante supermuseo di storia naturale - ovvero un museo di storia sovrannaturale - costato 27 milioni di dollari per una previsione di 500.000 visitatori annuali. 160 impiegati, e un cappellano sempre a disposizione del pubblico, dovessero esserci domande o crisi improvvise tra chi ha pagato il biglietto. La base teorica è presto spiegata. Ken Ham, fondatore del gruppo «Answes in Genesis» e patron dell'istituzione, non scende a troppi compromessi: la Genesi è cosa da interpretare alla lettera; e se la lettera in questione contrasta praticamente con tutto il sapere scientifico moderno, significa, chiaro, che la scienza si sbaglia. «Preparatevi a credere!» recita il motto: il Creation Museum vi aprirà finalmente gli occhi.
Gli eroi votati alla dimostrazione che l'Universo, la Terra, gli umani non sono più vecchi di seimila anni - con qualche giorno di differenza gli uni dagli altri, ovviamente; si legga l'incipit dell'unico testo di riferimento e quindi si visiti l'apposito planetarium a sette dollari d'ingresso -, sono tutt'altro che retrogradi. Scientifica pretende di essere l'impostazione, e all'avanguardia sono i monitor, i modellini, le strabilianti ricostruzioni animate e le sale di proiezione con sedili vibranti ed effetti olfattivi. Il punto non è un ritorno all'ordine, ma un passo avanti clamoroso di zoologia, geologia, fisica, astronomia, il tutto al costo di un biglietto. Nessuna predica e nessun attacco. Lo scopo? Fornire prove e controprove per dimostrare scientificamente una serie di dati inoppugnabili: «Secondo gli ultimi dati raccolti» il Gran Canyon è stato creato dal Diluvio Universale; le stelle e i pianeti sono nati dal nulla nell'arco di appena sei giorni; i dinosauri hanno convissuto beatamente con l'uomo, che è sempre stato homo sapiens sapiens e, chiaramente, ha caricato i fratelli rettili a bordo dell'Arca di Noè. Va da sé che Caino, rimasto solo dopo la morte di Abele, sposò sua sorella per generare tutti noi. All'apparenza non tornano i calcoli, ma niente paura: gli esperti vicini ad «Answer in Genesis» forniscono al visitatore tabelle e salti mortali statistici per dimostrare che è tutto possibile. E certo non manca la nobile branca della sociologia: in una sala vengono mostrati in video un adolescente intento a guardarsi le donnine nude su internet, e una ragazza in procinto di avere un aborto. Come ci spiega in modo amorevole la voce guida, entrambi gli atteggiamenti sono dovuti alla convinzione diffusa che il nostro pianeta abbia milioni di anni.
I commenti sul sito www.creationmuseum.org sono semplicemente entusiastici: insegnanti di scuole cristiane ringraziano sentitamente per le verità fornite ai loro studenti in visita. «La Bibbia dice il vero. - ha affermato convintissimo mister Ham - Su questo non vi è alcun dubbio. Chiunque respinga le storie che Dio ci ha raccontato è un completo ignorante». E a quanto pare più di un giornale gli ha dato ragione, elogiando il realismo dei modellini, l'appropriatissima distinzione tra i "fatti" della scienza e le interpretazioni, e la squisita cortesia del direttore del museo ed evitando di domandarsi cosa mai capiranno i bambini, che a scuola imparano che l'Universo ha quattordici miliardi di anni e quindi vengono portati in gita al Creation. Non è una questione di libertà religiosa, né dei mostruosi passi a gambero del pensiero che ormai non fanno più scalpore. Nel Cinquecento umanisti puntuali pretendevano di stabilire l'età della Terra facendo il conto degli anni di vita dei patriarchi; qualcuno riusciva ad arrivare persino all'ora della Creazione. Duecento anni dopo lo studio dei fossili costrinse alla svolta, seimila anni non bastavano. Scriveva Isaac de la Peyrère, teorizzatore dei Predeamiti: «Anche la più piccola parte del passato oltrepassa di gran lunga l'epoca della creazione che comunemente viene fatta coincidere con Adamo». Ed era il 1655. Oggi, a distanza di tre secoli e mezzo, una ricerca Gallupp ha stabilito che almeno una buona metà degli americani ritiene che gli esseri umani non evolvano e siano stati creati così come sono poche migliaia di anni fa. Tant'è.
La vera questione è tutt'altra: il denaro non compra la felicità, ma può comprare la verità? I 27 milioni di finanziamenti raccolti dal Creation Museum non sono messi al servizio di un catechismo o di una blanda associazione religiosa, ma di un istituto coscientemente e programmaticamente mirato alla falsificazione dei dati e a un'opera di disinformazione su larghissima scala. La «Answer in Genesis» non tiene sermoni e non gioca nel campo della fede: è vero, alla fine del percorso di visita si può assistere a un filmino che spiega come il sangue del Cristo abbia lavato il peccato di Adamo (scientificamente, s'intende), ma la vera missione è diffondere "prove", certezze, nozioni, tutte ovviamente manipolate a bella posta.
Il giorno dell'inaugurazione, tra le proteste del mondo accademico e raccolte di firme, tutto ciò che si è potuto fare è stato perciò sorvolare Petersbug con un aereo da turismo munito di un piccolo striscione: «Thou Shalt Not Lie», «Non mentirai», «Non rendere falsa testimonianza». Il comandamento del Signore, lì, troppo in alto tra le nuvole perché un'umanità bambina, nel suo universo di seimila anni, vi possa evidentemente far caso.