martedì 29 aprile 2008

l'Unità 29.4.08
Riorganizziamo la speranza
di Clara Sereni


Dopo alcuni giorni di mutismo da risultato elettorale la sensazione di non aver capito molte cose mi porta a chiedere e discutere di quello che c’è da fare, di come ripartire
Molto prima delle elezioni quella che abbiamo perso è una egemonia culturale
Provare a ricostruirla pezzo dopo pezzo è quel che ci tocca oggi

Era aprile anche sessant’anni fa, nel ’48. È cambiato il mondo, ma il compito che spetta a chi ne ha voglia è quello di allora: organizzare la speranza. Dopo alcuni giorni di mutismo da risultato elettorale, e sotto botta di nuovo per Roma, la persistente sensazione di non aver capito molte cose mi porta a chiedere e discutere.
Chiedo e discuto con chi incontro, e soprattutto con i giovani, di quello che c’è da fare ora, di come ripartire da qui per andare avanti.
Mi colpiscono, nei discorsi di tanti, la tendenza a rimpallarsi le responsabilità, cosa che vediamo anche in sedi pubbliche, e più mi colpisce un aggrapparsi frenetico ad ipotesi organizzativistiche che mi lasciano abbastanza sconcertata. E, con quel che è successo a Roma, temo che tutto questo possa ancora peggiorare.
Se la costruzione del Partito Democratico è ancora in larga parte da fare, infatti, ed ha bisogno del lavoro di molti perché attorno a Veltroni, e poi giù giù per li rami, si costituiscano gruppi dirigenti in grado di condurre una battaglia d’opposizione convincente, credo che quello che è successo con le elezioni chiami in più tutti noi ad una riflessione approfondita su quale cultura sta dietro e sotto quel risultato. C’è bisogno di pensieri nuovi: anche piccoli, anche parziali, anche di quelli che danno risultati chissà quando. Qualcosa di cui c’è bisogno da tempo, e che sarebbe stato molto difficile sperimentare insieme agli impegni di governo: adesso, proprio la sconfitta ci dà la possibilità della pazienza, senza l’acqua alla gola della governabilità (e di elezioni politiche a breve scadenza, ahimé), di sperimentare terreni nuovi di pensiero e anche di attività concrete.
Provo a fare qualche esempio, scaturito da discussioni con amici e compagni.
Come molte donne, non ho più voglia di andare a manifestazioni contro la violenza. Penso che la violenza e il femminicidio siano una questione dei maschi; noi il lavoro di autocoscienza l’abbiamo fatto e in qualche modo continuiamo a farlo, ora tocca a loro interrogarsi, discutere, scavare. Interrogandosi, discutendo, scavando, guardando in faccia il connotato quasi totalmente maschile dell’aggressività violenta, potrebbe forse venir fuori, fra l’altro, uno sguardo un po’ diverso sulla sicurezza, tema che tanto ha condizionato e condiziona le campagne elettorali, in una gara non sempre nobile fra destra e sinistra. E potrebbe venir fuori, magari, anche qualche riflessione più avanzata su cosa significa oggi il tifo calcistico, trasformatosi da sublimatore di violenza in collettore e momento organizzativo della violenza (assalti alle caserme non ne avevamo visti neanche negli anni di piombo). Cosa significhi in termini di spesa, e di nuovo anche in termini di sicurezza generale, quando le forze dell’ordine sono smisuratamente impegnate in contrasto della violenza legata ad avvenimenti sportivi.
Altro esempio: i gruppi di acquisto locali, e più in generale le varie forme di consumo diverso. Al di là del risparmio che si può conseguire, e dell’eventuale migliore qualità dei prodotti, da qui potrebbe scaturire qualche ragionamento più avanzato sull’emergenza rifiuti non in Campania ma ovunque (e anche su questo, mi sembra che nessuno abbia in tasca la soluzione), e più in generale - più in alto - una riflessione su cosa significhi “progresso”, parola che sempre ha connotato la sinistra, in un mondo che dal progresso della produzione e dei consumi rischia di essere distrutto. E se invece, partendo dalla spesa quotidiana, si affrontasse pian piano il ragionamento su un modo diverso di misurare il benessere, non più soltanto in termini di Pil ma anche sotto il profilo del ben-essere vero, fatto di un modo più felice di vivere?
Sento già le obiezioni: anche a crederci, sono tentativi di nicchia, riguarderebbero poche persone, e invece la politica non consente vuoti, ci saranno le elezioni europee e le amministrative e...
Lo so anch’io. Ma visto che scrivo in un giorno fra il 25 aprile e il Primo maggio, date antifasciste per eccellenza, mi viene in mente che anche i resistenti, all’inizio, erano in pochi. Erano tutto sommato pochi anche i troppi condannati dal Tribunale Speciale fascista, che comminò loro anni e anni di confino e galera. Separati dal mondo che avrebbero voluto cambiare, al confino e in galera quei condannati studiavano e studiavano: qualcuno definì la fortezza di Civitavecchia «l’università del carcere», perché lì si formò una parte notevole di quelli che, dopo la Liberazione, sarebbero stati i Padri costituenti, la classe dirigente italiana. L’idea di un’Europa unita nacque nel confino delle isole pontine, proprio mentre l’Europa sembrava destinata a sbranarsi per l’eternità. Resistenza fu anche, insomma, imparare a capire, ad elaborare nuove idee. Nelle condizioni possibili. Consapevoli di essere minoranza, ma convinti di doversi dotare degli strumenti per farsi maggioranza. Egemone.
Prima, molto prima delle elezioni, quella che abbiamo perso è un’egemonia culturale. Provare pazientemente a ricostruirla, pezzetto per pezzetto, credo sia quel che ci tocca oggi. E se poi avremo un Gramsci in grado di mettere insieme i pezzetti e renderli idee-forza, tanto meglio: ma, se non succederà, almeno il nostro pezzetto lo avremo fatto. E un pezzetto è sempre meglio, molto meglio di niente.

l'Unità 29.4.08
Indagine Eurisko Il 62% degli italiani dice sì
La Bibbia nuovo libro da studiare nelle scuole pubbliche?
di Roberto Monteforte


Perché non studiare la Bibbia nelle scuole pubbliche e non nella classica ora di religione, ma «laicamente», come elemento di conoscenza indispensabile per l’uomo contemporaneo? È una richiesta avanzata dal 62% dei cittadini italiani adulti con più di 18 anni interpellati dall’istituto Eurisko che ha condotto una ricerca internazionale sulla lettura delle «Scritture in alcuni paesi» (Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia e Russia europea), promossa dalla Federazione Biblica Cattolica e presentata ieri in Vaticano. Una risposta inattesa che rilancia una proposta avanzata a più riprese da associazioni culturali «laiche» come Biblia e osteggiata da settori della gerarchia cattolica che ha avuto ieri l’esplicito e autorevole avvallo del biblista monsignor Gianfranco Ravasi, posto da papa Benedetto XVI a capo del Pontificio Consiglio della Cultura proprio per la sua capacità di divulgatore e di dialogo con il mondo laico. «È importante che ben il 62% da noi in Italia si dice favorevole a inserire la Bibbia come argomento di studio nelle scuole, prescindendo dall’ora di religione. Dobbiamo chiederci – commenta Ravasi – se non abbia ragione Umberto Eco quando ha posto la questione perché i nostri ragazzi debbano sapere tutto sugli eroi di Omero e nulla sulle vicende di Mosé. Da quest’ultimo infatti è disceso un’ethos che pervade la cultura occidentale e che non è possibile mettere in un angolo». La pensa così anche il filosofo Massimo Cacciari. «Se un intellettuale laico non si confronta con la Bibbia e la tratta con stupida ironia, oppure non presuppone che quel libro è anche Parola di Dio, allora sbaglia mestiere». «È un libro - conclude - con il quale dobbiamo tutti fare i conti».
Che la secolarizzazione avanzi, ma che l’interesse per il sacro e per la Bibbia tenga, anche se in forme diverse da paese a paese, è quanto emerge dall’indagine Eurisko illustrata ieri in Vaticano dal sociologo Luca Diotallevi e dal presidente della Federazione Biblica Cattolica e vescovo di Terni, monsignor Vincenzo Paglia oltre che dallo stesso monsignor Ravasi. L’altro dato è quello della diffusione delle Sacre Scritture: quasi tutti gli statunitensi intervistati (il 93%) nelle loro case hanno una copia della Bibbia, a seguire si collocano la Polonia (85%) l’Italia (75%) e la Germania (74%). All’ultimo posto la «laica» Francia con il 48% e al penultimo la «cattolica» Spagna (61%). Ma quanto e come è effettivamente letta la Bibbia? «Nonostante risultati molto diversi da paese a paese - spiega Diotallevi - ciò che emerge è che la sete di Dio, nonostante la secolarizzazione, non si estingue e la Bibbia contribuisce a dare risposte alle tante domande di senso. La preghiera attraverso la Bibbia infatti rappresenta una pratica molto diffusa in tutti i paesi considerati, non appartiene ad una setta o a una minoranza, ma viene considerata e praticata da una larga maggioranza della popolazione. Questo anche se la gente poi ammette che la Bibbia è un testo difficile e chiede aiuto nella sua interpretazione». Il sociologo osserva pure come i cosiddetti cristiani «fondamentalisti» non conoscano la Bibbia.
Il Sacro testo finora è stato tradotto in 2454 lingue, ci sono ancora 4500 lingue nel mondo che attendono una versione per loro.

l'Unità 29.4.08
Violenza contro le donne: un’insolita attenzione...
di Adele Cambria


Ora io mi domando: in altri momenti non-elettorali ci sarebbe stato tanto volontariato «spontaneo» in difesa delle donne? Mantengo il mio dubbio

Corpi femminili sguainati tra cespugli e rifiuti - un tempo (più felice? ne dubito), per gli approcci amorosi en plein air si usava l’espressione “andare in camporella” - e guardoni politicamente orientati che li spiano, aggirandosi in piena notte per appagare “bisogni fisiologici” o innaffiare, sempre in piena notte, “orticelli” che in un tempo tragicamente remoto, si chiamavano “di guerra”... Noi non ne possiamo più. Mi correggo: io, che come ogni buona vecchia femminista, non ho mai preteso di rappresentare tutte le donne, ebbene io non ne posso più. Non ne posso più di questi corpi offesi, spesso sanguinanti, indagati nei loro recessi più intimi: pare infatti che fosse mestruale il sangue riscontrato dai carabinieri sul corpo della seconda vittima degli stupri di periferia, che in questi giorni di ballottaggio a Roma, sono stati branditi e “sbraitati” a gran voce da una pessima Destra. Una donna bosniaca ubriacata, preventivamente, da qualche bicchiere di infima vodka sarebbe stata stuprata dal suo “gentile” compagno di sventura abitativa, il “solito” rumeno; nell’accampamento attrezzato con una decina di giacigli, e nascosto sotto il viadotto della Tav a Tor Sapienza, c’era rimasta soltanto, il giorno dopo, ad abbaiare ai cronisti, una nidiata di cuccioli e la madre in guardia, una cagna nera. Che la donna bosniaca urlasse contro il tentativo di stupro lo riferisce il testimone, tale Dino, che innaffiava l’orto, al buio, e ha telefonato al 112.
Ora io mi domando: in altri momenti non-elettorali, ci sarebbe stato tanto volontariato “spontaneo” in difesa delle donne? Sono abbastanza vecchia da ricordarmi, lungo i diciassette anni di peregrinazioni e andirivieni tra i due rami del Parlamento della legge contro la violenza sessuale (proposta con una raccolta popolare di firme nel 1979, approvata nel febbraio del 1996) quale era la posizione del Movimento Sociale Italiano(Msi) sull’argomento: «Per ogni donna stuprata e offesa - scandivano tra i banchi, storpiando lo slogan femminista, i parlamentari della Destra - la Nazione è parte lesa». Ma la “loro” Nazione voleva che la violenza carnale (allora si chiamava così) restasse dov’era nel Codice Rocco del 1931: cioè nel capitolo dei «Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume». Ci vollero diciassette anni perché il reato fosse inscritto nel capitolo dei «Delitti contro la persona», e fosse riconosciuto allo stupro la sua definizione esatta di violenza sessuale, e comunque di un atto compiuto contro la volontà del partner.
Resta, senza dubbio, nel paesaggio metropolitano, la “sventura abitativa” di tanti e di tante. Per le donne, poi, che vivono in strada, la possibilità di trovare una sistemazione collettiva al riparo è ancora minore che per gli uomini.

Corriere della Sera 29.4.08
E nella Chiesa si saluta la «voglia di novità»
I segnali da «Avvenire» e «Famiglia cristiana». Don Sciortino: Rutelli paga il sì all'ala radicale
di Gian Guido Vecchi


Telegramma di Alemanno al Papa: «Assicuro piena collaborazione con la comunità cattolica per il bene di tutti i cittadini»
MILANO — Rutelli che a Ciampino si lancia verso la scaletta ad accogliere Benedetto XVI di ritorno dagli Usa, Rutelli che festeggia l'inaugurazione del Campus biomedico dell'Opus Dei, sorridente vicino al cardinale Tarcisio Bertone, Rutelli che va con Prodi a salutare il segretario di Stato vaticano alla nunziatura apostolica. Non si può certo dire che in questi giorni non ce l'abbia messa tutta, il candidato del centrosinistra, per mostrare all'elettorato cattolico i buoni rapporti Oltretevere. Solo che non è servito a niente. Mai come stavolta sia la Santa Sede sia il Vicariato si sono tenuti distanti dalla contesa elettorale, ancora più di quanto non sia accaduto alle Politiche.
Consegna del silenzio, un «silenzio di piombo» dicono alla Cei, che non ha certo aiutato il candidato dato per favorito alla vigilia. Ma soprattutto segnalava come nella Chiesa si fosse avvertito che l'umore di Roma era cambiato. «Una finale con sorpresa? », titolava l'ultimo numero di Famiglia cristiana e Avvenire, sempre la settimana scorsa: «A Roma voglia di scossa». Oggi il quotidiano diretto da Dino Boffo torna sul desiderio di «aria nuova» e titola l'editoriale di prima pagina così: «Il polso della capitale. Quella comune richiesta di tutto il Paese». Veltroni aveva lasciato a Rutelli «un'eredità scintillante, uno scontento crescente e l'ingrato compito di battersi come se avesse già vinto». Ma a Roma «si è chiuso il cerchio » iniziato nel '93 «all'alba della "nuova politica"» e finito ieri con «una domanda di novità assai simile a quella di allora». Il giornale ricorda l'esperienza di Alemanno, dalla «lunga opposizione cittadina» al governo, e il «niente affatto facile e scontato processo di cambiamento dal Msi ad An al Pdl» cominciato giusto nel '93. Del resto sarebbe un «errore» leggere il voto «esclusivamente in chiave politica», è (anche) questione di «coerenza e concretezza», i cittadini richiedono «standard decenti di sicurezza e civiltà».
A quanto si dice, la famosa «scossa» era stata preannunciata dal malumore di molti parroci, specie nelle periferie. Ma non basta. «Quella che per Rutelli doveva essere una passeggiata trionfale si è trasformata in incubo dopo il primo turno e ora in una disfatta», riassume don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia cristiana. «Roma ha un cuore cattolico, è la sede del successore di Pietro, e Rutelli ha finito per pagare ciò che già aveva scontato il Pd, il "pasticcio veltroniano in salsa pannelliana" da noi denunciato, e in misura anche maggiore: l'area laicista, la sinistra radicale che lo appoggiava, per anni ha attaccato frontalmente la Chiesa, il Papa, il Vaticano, cosa che credo abbia spostato molti voti».
Per il Pd potrà essere una sberla salutare, «estromettere Veltroni sarebbe un'idiozia, ha il carisma per preparare la rivincita. Il voto può favorire una riflessione per non ripetere gli stessi errori ». Dopodiché, certo, a Roma ha contato anche un «bisogno reale di sicurezza» che tuttavia in campagna elettorale «è stato un po' esasperato», osserva don Sciortino. E qui ce n'è pure per il vincitore Alemanno: «Mi preoccupa che al problema della sicurezza si diano risposte sbagliate, tipo il repulisti di rom che si è voluto fare a Milano ed è stato criticato dal cardinale Tettamanzi. Il problema è reale ma contano i modi con cui si risponde, il rispetto dei diritti umani, della legalità insieme con solidarietà e giustizia». Il neosindaco ha subito scritto un telegramma a Benedetto XVI, gesto «apprezzato» in Vaticano: «Rivolgo il mio deferente saluto a lei, Santità, Vescovo di questa città, assicurando piena collaborazione con la comunità cattolica per il bene di tutti i cittadini romani». È quanto auspica anche don Sciortino: «Spero che Alemanno sia disposto a lavorare a stretto contatto con le tante realtà cattoliche che operano a Roma, dalla Caritas a Sant'Egidio. Se saprà muoversi in questo spirito, credo che la città non subirà più di tanto il trauma del cambiamento».

Corriere della Sera 29.4.08
Il neurologo-scrittore indaga il rapporto tra mente e musica e parla del nuovo libro
Sacks: c'è un'orchestra nel cervello
Smemorati che suonano tutto Bach, medici che riconoscono solo la Marsigliese
di Livia Manera


Il nuovo libro di Oliver Sacks Musicofilia (in libreria da domani per Adelphi, traduzione di Isabella Blum, pp. 434, e 23) comincia un giorno del 1994 in cui un chirurgo americano di nome Tony Cicoria entra in una cabina telefonica durante un forte temporale e viene trafitto da un fulmine. Cicoria stramazza, è sbalzato all'indietro, ha il tempo di dire a se stesso «Oh, merda, sono morto», entra in un tunnel di velocità estatica in cui rivede tutta la propria vita, poi «Slam!», torna in sé, e da quel momento è un altro uomo. Nel senso che il suo cervello si riempie d'ora in poi di un desiderio irresistibile di musica. Soprattutto Chopin. A quel punto Cicoria si mette a studiare il piano da solo e nel giro di tre mesi non fa più quasi nient'altro che suonare e comporre. «Mi alzavo alle quattro del mattino e suonavo fino al momento di andare al lavoro», racconta al neurologo-scrittore Oliver Sacks. «E poi quando tornavo a casa rimanevo al piano tutta la sera. Mia moglie non era molto contenta. Ero posseduto ».
Sacks sorride versandosi il tè: «Ricordo il primo genio musicale che ho incontrato, era un uomo ritardato che conosceva a memoria duemila opere». Stiamo facendo la prima colazione in un albergo che l'autore di Risvegli sceglie sempre quando va a Londra, perché è vicino a una piscina, e lui ci tiene a nuotare ogni mattina alle sei. «Aveva preso la meningite da piccolo ed era incapacitato in molte cose, eppure aveva questa memoria musicale prodigiosa. Mi ha sempre colpito come la musica s'insinui nel nostro cervello: come un brano musicale ci insegni la sua struttura e i suoi segreti anche quando non ci accorgiamo di avergli prestato ascolto. Forse perché sono cresciuto in una famiglia in cui le forze dominanti erano la musica e la scienza. Mia madre faceva fatica a ricordare un brano musicale, ma mio padre sembrava avesse un'intera orchestra nel cervello».
Se non fossimo soli nella sala da pranzo di quest'albergo, daremmo sicuramente nell'occhio. Perché se nei modi Sacks ha conservato la timidezza di un adolescente malgrado i settantacinque anni, nell'aspetto sembra un astronauta in tenuta tecnica o un architetto molto alla moda, vestito com'è con una maglietta nera a maniche lunghe e pantaloni neri e modernissime scarpe da ginnastica bianche. I capelli e la barba sono bianchi anche loro, e l'accento è rimasto quello dell'Inghilterra in cui è cresciuto, malgrado quarant'anni passati a lavorare nell'ospedale psichiatrico di New York, nel Bronx, prima di approdare lo scorso autunno alla Columbia University, dove gli hanno confezionato due corsi su misura, uno di neuropsichiatria e l'altro di scrittura creativa.
Musicofilia è dunque il suo ultimo libro ed è una raccolta di ventinove saggi in cui Sacks esplora il rapporto tra la musica e la mente concentrandosi su casi neurologici che sono in parte nuovi e in parte derivati da libri precedenti come L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello e Un antropologo su Marte. C'è quello del musicologo inglese Clive Wearing a cui un'infezione cerebrale azzera continuamente la memoria, il quale ogni volta che vede sua moglie la saluta come se fosse il loro primo incontro, ma se si siede al piano riesce a suonare un intero preludio di Bach. Ci sono malati di Alzheimer o persone affette da sindrome di Tourette che trovano pace solo quando suonano o ascoltano brani musicali. Ci sono persone torturate dalla musica come Schumann che da vecchio era tormentato da allucinazioni musicali che degeneravano in una singola nota prolungata. E altre che vengono prese dalle convulsioni come la moglie di un compositore moderno che ha una crisi epilettica ogni qual volta sente una musica simile a quella del marito — e qui magari Freud, anche se era insensibile alla musica, avrebbe qualcosa da dire. Sacks si diletta parecchio con i casi di «amusia». Cita quello di Nabokov, per cui l'alfabeto era colorato come un arcobaleno, ma che pativa qualunque melodia come «una successione arbitraria di suoni più o meno irritanti». E quello di un neurologo francese che di qualsiasi brano musicale gli confessa di saper dire soltanto se sia o non sia la Marsigliese.
«Mio padre si fece un dovere di darci un'istruzione musicale fin da quando eravamo piccoli — sta raccontando Sacks — e ci trovò un insegnante molto focoso, alla Toscanini, che picchiava la testa contro il pianoforte. A cinque anni avrei detto che le cose al mondo che preferivo erano il salmone affumicato e Bach ». A differenza di allora, oggi, spiega Sacks, a uno specialista basta una risonanza magnetica per riconoscere il cervello di un musicista. Ma il rapporto tra musica e cervello rimane ancora pieno di misteri. Un caso che lo incuriosisce e gli sfugge allo stesso tempo è quello delle «infezioni musicali», quei motivetti che improvvisamente ci entrano nella testa e che non riusciamo a scacciare nemmeno se vogliamo. «Mi colpisce moltissimo la frequenza della musica interiore, forse perché c'è sempre un brano che risuona consciamente o inconsciamente nella mia mente. Un anno fa, in occasione della dipartita di un mio fratello, ha cominciato a ronzarmi in testa un capriccio di Bach. Poi pensandoci mi sono accorto che Bach aveva scritto quel brano in occasione della partenza di un suo fratello. Ma aveva diciannove anni, e si trattava di tutt'un altro tipo di viaggio».
Parliamo dell'influenza dell'IPod sulla vita delle persone («A prima vista sembrerebbe una cosa fantastica, se pensa che Darwin doveva viaggiare fino a Londra per sentire un concerto. Ma mi chiedo se questa esposizione costante alla musica non abbia una responsabilità nell'aumento delle allucinazioni musicali»), e parliamo del suo rapporto personale con la musica, oggi. «Per me non esiste una giornata senza musica. Ascolto la radio, vado ai concerti, mi siedo al piano almeno mezz'ora al giorno. Mi piace suonare con la sinistra mentre prendo appunti con la destra. Nietzsche diceva che scrivere ascoltando Bizet lo rendeva un filosofo migliore. Non so se rendo un torto alla musica in questo modo, ma a me è così che piace scrivere le mie cose. Mi aiuta a concentrarmi ».

Repubblica 29.4.08
Lo stupore dei corrispondenti stranieri: è una città accogliente, può diventare razzista e corporativa se si cede alla tentazione neofascista
"Sinistra suicida, e ora si rischia la xenofobia"
di Alberto Mattone


ROMA - Era stato facile profeta l´Independent, ieri mattina: «Sessanta anni dopo la caduta di Mussolini - ha scritto il quotidiano britannico - i post-fascisti sono di nuovo alle porte di Roma». Gianni Alemanno è diventato sindaco della capitale, e la notizia è rimbalzata su molti siti esteri, con grande meraviglia dei giornalisti stranieri che si occupano dell´Italia.
Sì, perché se la stampa internazionale era abituata alle vittorie del "tycoon populista Berlusconi", non aveva mai fatto i conti con un primo cittadino dal passato fascista. «Roma avrà il suo primo sindaco di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale», scrive perplesso l´International Herald Tribune. E adesso, per Liberation «Roma, grande capitale europea, rischia il declino». «La città - riflette il corrispondente del giornale francese, Eric Joszef - potrebbe diventare provinciale e il regno della corporazioni, tassisti e commercianti in testa». «Alemanno - aggiunge - ha fatto con Fini un percorso di distacco dal fascismo, ma c´è la possibilità che, adesso, frange dell´estrema destra si sentano legittimate a compiere azioni di violenza contro sedi della sinistra e gay. E non rassicura - chiude Joszef - la sua vicinanza a Storace».
Il Nouvel Observateur dedica un ritratto al vetriolo del nuovo sindaco di Roma. Ricorda «la condanna a otto mesi ad Alemanno per aver lanciato una molotov all´ambasciata della ex Unione Sovietica», e stigmatizza il fatto che porta al collo una croce celtica.
Peter Popham da anni scrive di cose italiane, ma un sindaco della capitale post-fascista non l´aveva mai visto. «È inquietante - ragiona il corrispondente dell´Independent mentre vede i dati elettorali scorrere sulle agenzie - che Roma, luogo multietnico, abbia votato un candidato che vuole cacciare subito 20 mila tra rom e immigrati. Quest´ondata xenofoba non è una cosa razionale. La città - aggiunge Popham - era famosa per il suo respiro internazionale, ma questo clima è stato preparato da Veltroni, che ha proposto per i rumeni espulsioni senza processi».
Sì, la salita in Campidoglio di Alemanno è anche colpa della sinistra per Le Monde, che titola «sul nuovo rovescio del Partito democratico di Veltroni». «La destra espugna Roma» scrive meravigliato El Pais. E il francese Le Figaro mette l´evento in prima pagina: «Un neofascista conquista la capitale italiana».

Repubblica 29.4.08
Perché l’occidente non va a sinistra
di Giorgio Ruffolo


Francesco Algarotti, umanista insigne, racconta, in una novella bizzarra di quel fischio che si congelò in inverno per rifischiare allegro in primavera. Più di venti anni fa, su Micromega, ripresi quello scherzo come metafora di una sinistra che mi sembrava congelata augurandomi, ma con qualche dubbio, che riprendesse a fischiare in una nuova primavera politica. Quel rifischio non l´abbiamo mai sentito. Anzi, in un libro intitolato Il mostro mite Raffaele Simone, riferendosi proprio a quel mio articolo, ne riprende il tema, sviluppandolo in una analisi rigorosa e impietosa, nella quale si domanda «perché l´Occidente non va a sinistra».
Per rispondere alla domanda è impossibile evitare quella che viene prima, ovvia e abusata. Ha ancora significato quella distinzione tra destra e sinistra? Io credo di sì (e il miglior modo di rivelarla è proprio quello di porre questa domanda. Si può stare sicuri che chi risponde che quella distinzione non ha significato è di destra). Ma credo anche che abbia mutato significato. Per circa due secoli, dalla rivoluzione francese in poi, la destra è stata identificata con la conservazione, la sinistra con l´innovazione.
Da tempo non è più così. Si sarebbe tentati dal pensare che le parti si siano invertite. La destra è carica di spiriti irruenti, sedotta dall´innovazione, votata alla crescita, incline alla competizione, anelante al successo. La sinistra richiama l´osservanza delle regole, la fedeltà alle istituzioni, l´ordine della convivenza, la moderazione degli "animal spirits" in nome dell´eguaglianza. Insomma, la destra è all´attacco, la sinistra è sulla difensiva.
Di solito l´indebolimento politico della sinistra – poiché di questo si tratta – è attribuito ai suoi errori e ai suoi orrori.
Agli orrori del comunismo, certo: mai una rivoluzione emersa come potenza liberatrice si è rovesciata e corrotta nella più tetra e lugubre delle oppressioni. Che qualcuno ne nutra nostalgia è materia non di politica ma di psichiatria. Anche agli errori e agli eccessi di un´invadenza statalistica e sindacale che hanno guastato in parte il successo peraltro grandioso del solo socialismo realizzato: quello delle socialdemocrazie e del welfare state.
Ma né gli orrori né gli errori della sinistra spiegano il vero e proprio "rovesciamento della prassi" politica intervenuto nel recente mezzo secolo. La causa principale del quale sta nella scomparsa della "questione sociale" dal centro della scena politica: del conflitto storico tra capitalisti e operai, dovuta a una rivoluzione del modo di produrre e del modo di pensare.
Il formidabile aumento della produttività ha consentito di ridurre la pressione capitalistica sul lavoro spostandola sulle risorse naturali attraverso un gigantesco aumento dei consumi (Reichlin lo ha ben spiegato in un suo recente articolo). La massa omogenea del proletariato industriale si è articolata in un mondo del lavoro dotato di miriadi di competenze specifiche. L´effetto combinato di queste due correnti pesanti ha causato uno spostamento del fulcro dell´economia dal lavoro al consumo e dal lavoro collettivo al lavoro individuale.
Questa torsione del modo di produrre ha generato nelle grandi masse un nuovo modo di pensare. Mentre l´antagonismo dei rapporti di lavoro si riduceva, aumentava l´interesse comune al consumismo. Mentre nel nuovo mondo di un lavoro eterogeneo si attenuava la spinta alla solidarietà, si accentuava l´attrazione verso la cornucopia permissiva traboccante dai mille specchi della pubblicità. Ciò che la neodestra propone – dice in sostanza Simone – è un patto con un diavolo sorridente, con un "mostro mite", che promette di tutto e di più mentre offre un lavoro che può spingersi fino ai limiti del trastullo; come fa Google quando raccomanda ai suoi "ospiti" (come chiamarli altrimenti? lavoratori?) di dedicare almeno un quinto del tempo di lavoro a sane distrazioni. Tocqueville, che aveva previsto proprio tutto, pronosticò l´avvento di un governo «che vuole che i cittadini se la godano, purché non pensino ad altro che a godersela» un governo; che – aggiunge Simone – «assicuri al maggior numero di persone un fascio di esperienze gradevoli e vitalizzanti, che accrescano il loro benessere fisico e psicologico, ma soprattutto le inducano a consumare». Nel suo immaginario non c´è posto né per il padrone delle ferriere né per l´ingegner Taylor col suo cronometro che scandiva le ore piene e i minuti vuoti, ma per quel tempo preso dal divertimento che è diventato l´essenza del lavoro, un sempre più prolungato e affollato weekend.
In questa economia del consumo, si forma sì, un (sotto) proletariato, ma ai margini della società, come "rifiuto", «non certo come scuola di solidarietà e di fratellanza, ma come fonte di inquinante turbolenza in quelle discariche che sono diventate le periferie metropolitane. La massa del ceto medio, quello che meglio si definirebbe il ceto di massa, condivide con l´élite plutocratica valori privati: il postulato di superiorità (io sono il primo tu non sei nessuno); il postulato di proprietà (questo è mio e nessuno me lo tocca); il postulato di licenza (io faccio quello che voglio e come voglio); il postulato di non intrusione dell´altro (non ti immischiare negli affari miei); il postulato che tutti li riassume, di superiorità del privato sul pubblico (fino all´abuso del pubblico come cosa privata). Non può stupire allora che al centro della scena politica sia subentrata alla questione sociale la questione fiscale: il conflitto tra Stato e contribuenti che pretendono servizi pubblici sempre più costosi (perché a differenza di quelli privati non possono essere fronteggiati con aumenti significativi della produttività) ma non tollerano che siano finanziati "mettendo le mani nelle loro tasche".
Questo privatismo è l´opposto dell´individualismo. Mentre quello è espressione di personalità forti, caratterizzate, aperte alle relazioni con gli altri; questo, incerto e timoroso di contatti interpersonali (come chi evita persino le strette di mano) si esprime politicamente non attraverso la discussione, che aborre, ma in quell´attruppamento infatuato attorno a capi carismatici in cui si riconosce la forma moderna del populismo.
Populismo e privatismo si fondono perfettamente nell´ideologia apolitica della neodestra. Sono l´espressione di una formidabile tendenza alla disgregazione sociale che qualcuno (Bauman) traduce nella metafora della "liquefazione". Marx denunciò per primo la tendenza dissolvente insita nel capitalismo: «Tutto ciò che è solido si disperde nell´aria». Questo è appunto uno dei rischi supremi del nostro tempo: quello di una società polverizzata esposta ai venti delle mobilitazioni irrazionali. L´altro, all´altra estremità di una società privatistica e consumistica, è la distruzione del capitale naturale provocata da una crescita economica illimitata e dissennata.
A questi due supremi rischi cui il mite mostro della nuova destra espone l´umanità del nostro tempo, la sinistra non sa opporre che una sterile contestazione o una mimesi compiacente: un pensiero debole. Fino a quando non saprà costruire in un pensiero forte le fondamenta istituzionali di un nuovo ordine mondiale che sia in grado di reggere e regolare la poderosa complessità della globalizzazione, il campo sarà pericolosamente aperto ai demagoghi del mite inganno.

Repubblica 29.4.08
Si apre oggi a Firenze un convegno sulle donne in rivolta
La passerella delle adultere
di Nadia Fusini


Emma Bovary, Anna Karenina, Nora, Giovanna, Hedda Gabler, Effi Briest sono tutte eroine che muoiono in modi diversi per una grande ingiustizia sociale

Sarà Gae Aulenti ad aprire oggi a Firenze, Palazzo Strozzi, il convegno "Donne in rivolta: tra arte e memoria", organizzato dalla Fondazione Sum - Istituto Italiano di Scienze Umane in collaborazione con il Maggio Fiorentino, che si concluderà domani. Anticipiamo qui parte della relazione di on v´è dubbio che nella seconda metà dell´Ottocento esista una quantità consistente di romanzi con strutture tematiche e compositive ricorrenti, che vanno a comporre un unico, grande romanzo, che potremmo definire «femminista», se non altro perché ne sono protagoniste indiscusse delle donne: Emma Bovary, nell´omonimo romanzo del 1857; Anna Karenina, dell´omonimo romanzo del 1877; Nora, di Casa di Bambola del 1879; Giovanna, di Una Vita del 1883; Hedda Gabler, primadonna dell´omonimo dramma del 1890; Effi Briest, del 1895; Marta nell´Esclusa del 1901.
Donne prese tutte nella posa dell´adultera. E´ altrettanto indubbio che nel corso dell´azione noi lettori assistiamo all´eliminazione fisica delle protagoniste, e dove volessimo, a mo´ di inchiesta, accertare le responsabilità della morte, e comprendere se si tratti, di volta in volta, nei casi specifici, di suicidio, o di omicidio, non potremmo che osservare che sono insieme il marito Karenin e l´amante Wronskji a uccidere Anna; sono il marito barone von Innstetten e il maggiore Crampas a uccidere Effi; il noiosissimo marito Tesmann e il demonico Loevborg e il volgare Brack a uccidere Hedda. Per non parlare delle responsabilità di Charles Bovary, di Torvaldo Helmer, di Giuliano di Lamare e di Leone e di Rodolfo.
Si potrebbe addirittura parlare di ‘morti bianche´, perché a me pare che questi personaggi di donna - sia che si lascino assassinare, o si abbandonino alla morte per asfissia, per assideramento, o anestesia - sono sempre e comunque lì a testimoniare il costo incivile di una enorme ingiustizia sociale.
L´adulterio realizzato di Anna e il suo suicidio; il matrimonio di Effi e il finale aborto di sé, che la trasporta a un´esistenza larvale; il disgusto di Hedda e la morte che si dà, quasi fosse una vendetta che si prende contro la vita; le vicende non dissimili delle altre, tutte insieme compongono oggettivamente un patrimonio romanzesco che vede l´eroe in conflitto aperto con la propria epoca storica, le sue leggi e forme.
Ora, non v´ è dubbio che a definire questo nuovo personaggio concorrano cambiamenti avvertibili nella cultura e nella società.
Ma è anche vero che uno scrittore non sempre segue l´azione, a volte è la letteratura a guidarne il corso, a prefigurare il cambiamento, o perlomeno, a gettarne le basi. Lo scrittore, è stato scritto, «dà voce a tutto ciò che resta soffocato nel mondo com´è, a qualcosa nel cui nome il mondo volta per volta andrebbe cambiato, alle ragioni che non trovano riconoscimento da parte degli ordini conosciuti o grazia di fronte alle opinioni pubbliche». Scriveva così, anni fa, Francesco Orlando a proposito di un´antenata, la Fedra di Racine. Anche lei una ribelle.
Del resto, è sempre stato così: perché la macchina drammatica, o romanzesca scatti, ci deve essere una crisi. Perché si inizi a raccontare si deve aprire una breccia, attraverso la quale applicare lo sguardo a ciò che soltanto superficialmente finora avevamo guardato, o addirittura tralasciato di osservare.
E per fare ciò ci vuole un personaggio che sia capace di sopportare la fatica del nuovo sguardo. Intendo dire: lo scrittore dovrà inventare un personaggio cui affidare tale rottura. Tale rivolta. Nei romanzi di cui parlo, è il personaggio-donna a sostenere il peso di tale azione.
E´, se volete, ancora una volta il discorso aristotelico sul personaggio. Se il romanzo, come la tragedia, ha al suo fondo un conflitto, il suo eroe sarà il rappresentante di un´istanza oppressa, colui, colei che si rifiuta di obbedire alle leggi della città, perché sa che ci sono altre leggi, altre leggi devono essere trovate, inventate. In tale posa troviamo Anna, Emma, Hedda.
Lo scrittore, per riprendere un vecchio stilema marxiano, stilema assai demodé di questi tempi - ma proprio perciò con ancora maggior soddisfazione me ne servo - lo scrittore, dicevo, sa che le istituzioni tendono a presentarsi come assolute, necessarie, naturali. Così anche per il matrimonio. Che cosa c´è di più naturale del matrimonio? Che cosa c´è di più naturale di una famiglia composta da un uomo e una donna, e possibilmente il frutto del loro amore? (Vi prego incidentalmente di notare che tale grazioso quadretto vale tuttora, guai a disturbare il presepe - famiglia.) L´adultera - «ce mystère de la femme en dehors du mariage», come diceva Flaubert - è il personaggio-donna che non si lascia più definire dal matrimonio. Non importa che commetta o meno sensualmente, fisicamente, l´adulterio. Già nella definizione flaubertiana è evidente come allo scrittore non interessa l´interno protetto, lo spazio già conosciuto e perimetrato della passione coniugale, ma piuttosto il mistero, il segreto - indicibile, irrappresentabile come tutti i misteri - di chi si avventura all´esterno.

il Riformista 29.4.08
Era davvero una Waterllo e il loft non l’ha capito
La sinistra californiana sconfitta dalle periferie
di Antonio Polito


S i deve dimettere, Walter Veltroni, dopo la disfatta di Roma? Dopo che Rutelli ha perso la roccaforte del centrosinistra? Dopo che la destra più destra, quella di Alemanno, ha bissato nella capitale il trionfo della Lega al Nord? In casa di Veltroni, nella città che lui ha governato per sette anni, sulle ceneri del modello politico e culturale che è l'essenza stessa del veltronismo? Vedrete che da oggi i giornali non parleranno d'altro. Saranno settimane molto dure per il neonato Partito democratico. Il quale però, ci spiace dirlo, non ha neanche questa soluzione semplice semplice a portata di mano: cambiare l'allenatore come si fa nelle squadre che perdono. Ci spiace dirlo non perché vorremmo vedere Veltroni dimissionario (gli vogliamo bene). Ma perché niente più di questa impossibilità testimonia l'impotenza attuale del gruppo dirigente del Pd: è così fragile, così esposto alla tempesta, così leggero, che non può permettersi neanche di affrontare una discussione su una leadership così recente, così enfaticamente presentata nelle primarie, così presidenzialmente affermata in campagna elettorale.
La disfatta di Roma si spiega con tre ragioni. La prima: l'onda del 13 aprile è davvero lunga, è uno tsunami, ha determinato il distacco più grande di sempre tra Berlusconi e il suo più immediato inseguitore, è un cambio di paradigma politico. Per questo titolammo la nostra prima pagina, dopo il voto politico, «È una Waterloo». Qualcuno ci disse che avevamo esagerato, Veltroni l'ha continuato a dire ancora ieri alla riunione dei gruppi: «Sventurate analisi della stampa, il raffronto va fatto con le provinciali». La sottovalutazione della portata della sconfitta è smentita dalla sconfitta di Roma. Speriamo che più accurate e accorte analisi del voto arrivino, un tempo la sinistra ne era capace.
La seconda ragione: Roma ha bocciato il governo uscente, come sempre fanno i corpi elettorali: questo è il loro mestiere. Come l'Italia ha bocciato il governo Prodi, Roma ha bocciato la giunta Veltroni. A torto o a ragione - secondo noi a torto, ma gli elettori hanno sempre ragione - i romani si sono convinti che le condizioni di sciatteria, degrado e insicurezza della capitale meritavano una svolta politica.
Nicola Zingaretti tiene botta e vince il ballottaggio per la provincia di Roma col 51,5 per cento contro il 48,5 del candidato del Pdl Alfredo Antoniozzi. Al primo turno, il candidato del centrosinistra aveva ottenuto il 46,9 e quello del centrodestra il 37. Ma è un vittoria con l'amaro in bocca: la débâcle di Rutelli al Campidoglio rovina, e non poco, la festa in casa Pd. E mentre il candidato alla provincia sta aspettando lo spoglio dell'ultimissima scheda prima di dichiarare in sala stampa, i suoi si sfogano a microfoni spenti: «Al Comune andava candidato Nicola. Era evidente che Rutelli non tirava». Le prove, a sentire i fedelissimi di Zingaretti, starebbero nel confronto tra il risultato del candidato sindaco e dal candidato presidente della provincia sul Comune di Roma: Zingaretti al 51 per cento, Rutelli attorno al 46, ben cinque punti. Tradotto: ottantamila romani avrebbero votato Alemanno al Comune e Zingaretti alla Provincia. Ma questo, a sentire molti dirigenti del Pd, è un dato che va analizzato a bocce ferme. In molti gettano acqua sul fuoco: «Aspettiamo il conteggio definitivo delle bianche e delle nulle prima di fare analisi politiche su questo scarto» dice l'assessore regionale ai Lavori pubblici Bruno Astorre. Obiettivo: non alimentare polemiche a caldo. E lo stesso Zingaretti prova a rianimare il morale delle truppe e a trasformare una disfatta totale in una mezza vittoria: «Oggi è il momento del brindisi e delle vittorie. A domani i ragionamenti. Un grazie a tutti, ha vinto una squadra bellissima e non soltanto io».
È stato un pomeriggio vissuto col fiato sospeso alla sede del comitato elettorale dell'ex segretario regionale del Pd, in via della Lega Lombarda. Ore 15: il clima, appena chiuse le urne, è più che ottimistico: «Sono sereno» afferma Zingaretti prima di chiudersi con i suoi. Anche il dato sull'affluenza viene letto in positivo: i votanti al secondo turno sono il 59 per cento rispetto al 74,7 del primo turno. «I nostri votano» dicono decine di volontari accorsi al comitato elettorale: «Yes, week end» si lancia qualcuno. Ma, col passare delle ore, si materializza l'incubo. Sono le 17 quando cominciano a uscire i primi dati per la corsa al Campidoglio che vedono Rutelli attorno al 48 per cento contro il 52 di Alemanno. Nel frattempo sembra ridursi anche la forbice tra Zingaretti, che inizia a scendere sotto quota 52, e Antoniozzi. Lo staff del candidato lascia la sala stampa dove i cinque megaschermi mandano continui aggiornamenti sul Campidoglio che non lasciano sperare niente di buono. I dati della provincia sembrano tenere, ma il candidato rimane barricato nel suo ufficio al primo piano, «per scaramanzia», mormora qualcuno. A fargli visita anche Silvio Di Francia, ex assessore comunale alla cultura e impegnato nella campagna elettorale per Rutelli sindaco. «Oggi non mi muovo da qui», dice Di Francia: «Sono scaramantico e due settimane fa, quando ho seguito i risultati del primo turno al comitato Rutelli non è andata come avrei voluto». Insieme a Di Francia anche uno dei "padri" del modello Roma, Gianni Borgna, altro ex assessore alla Cultura di Veltroni e attualmente presidente della Fondazione Musica per Roma.
Alle sei del pomeriggio, mentre si materializza la disfatta per Rutelli, i dati di Zingaretti si stabilizzano: è una vittoria sul filo (51,5) ma è comunque una vittoria. Arriva l'ex presidente della provincia Gasbarra che prova a galvanizzare gli animi («È stata un grande vittoria») e il presidente della regione Marrazzo, che ostenta sorrisi e stringe qualche mano prima di chiudersi nella stanza di Zingaretti.
Il centrosinistra è andato bene in provincia, dove ha prevalso nell'80 per cento dei comuni, in particolare in quelli governati storicamente dal centrodestra come Cerveteri, Nettuno e Velletri. Anche a Civitavecchia, dove governa il centrodestra, ha vinto Zingaretti. E a Subiaco e Pomezia dove il Pdl quindici giorni fa ha doppiato il Pd si è raggiunto un sostanziale pareggio. «È una vittoria di Pirro» dichiara amareggiato Astorre che, di fronte al dato del Campidoglio, non ha voglia di stappare lo spumante. Ma i supporter di «Nicola» hanno voglia di parlare: «Abbiamo vinto perché siamo entrati nel cuore dei problemi e la gente ha capito la scelta. Con un astensionismo così alto siamo riusciti a portare la gente a votare». È il dato su Roma quello destinato ad animare il dibattito nei prossimi giorni. Al quartier generale del neo presidente non ne vuole parlare nessuno a microfoni accesi, ma non sono in pochi a puntare l'indice contro la candidatura di Rutelli. Anche al loft Morando ammette che qualcosa si è sbagliato: «La riproposizione di persone che hanno fatto il sindaco anche molto bene, come Rutelli, non ha funzionato». Ma sui migliaia di cittadini che hanno votato per Alemanno e Zingaretti cala il silenzio. Almeno per ora.

il Riformista 29.4.08
Al loft si affilano i coltelli. Walter anatra zoppa
di Peppino Caldarola


La Grande paura era fondata. Alemanno è riuscito nell'impresa di conquistare il Campidoglio. Il Pd perde e perdono i suoi dirigenti di punta, da Veltroni a Bettini a Rutelli, tutta la cosiddetta «scuola romana». È peggio della sconfitta di Bologna con Guazzaloca. Perché Alemanno non è Guazzaloca. Simbolicamente rappresenta più cose dell'onesto commerciante bolognese, vecchio amico della sinistra e suo improvvisato competitor. Il fortino romano era diventato persino più simbolico di quello felsineo perché sembrava meglio presidiato. Un gruppo dirigente esteso e relativamente giovane, una fusione fra Ds e Margherita largamente anticipata sul territorio, due sindaci, Rutelli e Veltroni, che avevano fatto del mito di sé la propria cifra, ottime relazioni con i poteri forti cittadini, dagli imprenditori edili alla potente curia del Gran Cardinale, salotti di destra, tv di Stato, attori vari. Alla fine a Rutelli è rimasta fedele la Roma del Centro storico e della Garbatella. Lo zoccolo durissimo, probabilmente quel mondo di valorosi che viene dalla storia antica della sinistra romana e in particolare dal vecchio Pci. Dovevamo andare talmente avanti da perdere la memoria del passato e invece c'è rimasto solo quello, impolverato e indecifrabile.
È un colpo duro per il centrosinistra. Il colpo più duro perché rischia di abbattere, in un certo senso, il progetto del partito democratico. Basta riflettere su un solo dato storico. Non è passato neppure un anno da quando, dopo i congressi calorosi di Ds e Margherita, i due nubendi scoprirono di non saper costruire il nuovo partito. La schermaglia sui portavoce nascondeva la difficoltà di procedere nel progetto. Il sano realismo li portò alla candidatura di Veltroni. I gruppi dirigenti Ds e Margherita, che avevano sopportato la fatica dell'impresa, si affidarono al più fresco sindaco di Roma, antico sognatore democratico. E Walter arrivò con il suo carico di fantasie e di promesse.
Lo stile democrat convinse tanti (anche chi scrive), ma soprattutto provocò l'ondata enorme delle primarie. Le difficoltà iniziali sembrarono dimenticate mentre Veltroni procedeva a disegnare un partito svincolato dalle tessere e dai legami correntizi, con i vecchi gruppi dirigenti spaventati ma incapaci di reagire. Veltroni ruppe persino il tabù dell'antiberlusconismo sul quale aveva costruito le fortune politiche tanta parte di quel mondo che, negli anni del «biennio rossiccio», a Walter aveva fatto riferimento. Sembrò, ad un certo punto, che fossero pronti a siglare uno storico armistizio con l'avversario di sempre, Silvio Berlusconi. Poi le elezioni anticipate, il voto nazionale che distrugge la sinistra radicale e ammacca il Pd. Ora Roma, cioè la sconfitta in casa.
Lasciamo perdere le cause immediate di questo colpo al cuore. Le discusse liste al Parlamento, il candidato Rutelli ripresentato, una campagna elettorale partita soft e finita alla solita maniera guerriera. Ragioniamo sulle cose di fondo, intrecciando le cause con gli effetti.
L'effetto principale è che Veltroni è un'anatra zoppa, come si scrive negli States del presidente che non ha più la maggioranza dalla propria parte. Non può essere deposto ma non può governare con la pienezza dei poteri che cercava e che aveva. In un partito normale, largamente insediato nel paese, con un largo sistema di alleanze sociali e politiche, questo scenario sarebbe difficile ma non drammatico. Per il Pd può essere drammatico.
I punti di debolezza sono evidenti. Non c'è stato lo sfondamento nell'elettorato moderato, il voto cattolico non è andato appresso ai popolari, al Nord il nuovo partito non contrasta lo strapotere di Lega e PdL, nel Sud inizia a crollare il sistema di relazioni costruito attorno al potere locale, a sinistra c'è un vero deserto che produrrà una popolazione di rancorosi nemici dei democrats. La gente di centro-sinistra (in politica le emozioni contano moltissimo) vivrà una lunghissima stagione di scoramento senza eguali.
Si può dire che il nuovo partito è stato colpito sia nel primo tentativo di decollo, quello prima di Veltroni, sia quando nella cabina di pilotaggio si è messo Walter. Il decollo è fallito ovvero, per essere più ottimisti, può fallire. In questi giorni il sistema dei media si è ingegnato a immaginare le conseguenze burocratiche della sconfitta romana. Il ridimensionamento di Veltroni, il probabile accantonamento di Bettini e Realacci, la ripresa di ruolo di D'Alema, i dubbi che percorreranno gli ex popolari, la rabbia dei prodiani. Accadrà tutto questo e altro ancora. Sarebbe auspicabile che non ci sia la notte dei lunghi coltelli. Chi ha creduto, votato e perso non lo accetterebbe. Da questa Yugoslavia casalinga uscirebbero solo nuove sconfitte.
È probabile che nel Pd si confronteranno due grandi opzioni e alcune varianti secondarie. La prima opzione prevede una «normalizzazione» del Pd. Nel senso di dire: facciamone un partito normale e plurale, un po' socialdemocratico senza proclamarlo, forte negli insediamenti storici che affida la politica delle alleanze sociali alla creazione di alleati politici, per esempio l'Udc di Casini. E sperando nelle crepe del blocco berlusconiano. È la cultura che viene da più lontano e viene riproposta, rispolverata. La seconda opzione è un nuovo progetto democrat senza il sogno plebiscitario di Veltroni, cioè con un partito meno ossificato, con una cultura più pragmatica e ideali molto forti.
Le due opzioni si scontreranno con un primo ostacolo. Nessuna delle due sembra intenzionata a prendere sul serio la destra, a considerare che la sconfitta è stata di popolo e strategica. La nuova destra non è la marea nera. Ne abbiamo raccontati i difetti, ma solo in pochi di noi ne hanno visto le virtù cioè il fatto che porta con sé (così la vive la gente) una voglia di novità e di sburocratizzazione delle coscienze. Non hanno letto solo la Casta, ma il libro di Ricolfi sulla sinistra geneticamente antipatica.
Molto di quello che accadrà dipenderà da Veltroni. Lo dico con affetto. Questa volta non può andare da un'altra parte. Dovrà affrontare a viso aperto la sconfitta, capire la lezione della sconfitta. Da uomo. E i suoi competitors devono capire che non è tornando allo status quo ante che si risolvono i problemi.

il Riformista 29.4.08
L'antifascismo non porta voti, questa è l'antimarcia di Roma
di Angelo Mellone


Mettetevi addosso, ancora, i vestiti borghesi, di buona sartoria, di chi ha cominciato a scoprire Roma da grande perché da giovane, al tempo buio della militanza di sezione, in certi quartieri non potevi infilare il naso per non trovartelo rotto da qualche martellata d'odio. E mettete che in quegli stessi quartieri, ieri, anche lì, Gianni Alemanno ha dato punti a Francesco Rutelli.
Siamo sinceri, hanno provato in tutti i modi a rovesciare sull'ex segretario del Fronte della Gioventù, il militante che s'è conquistato per strada i gradi del rispetto e sui libri e nei ministeri il sigillo dell'autorevolezza, il peso del suo passato. Un passato stranoto, peraltro, che Alemanno non ha edulcorato nelle sue biografie. Si è però provato a sfruttare la croce celtica che porta al collo, la croce del suo amico Paolo Di Nella, come marchio di una storia off limit per l'ingresso in Campidoglio. E lo stesso Rutelli, negli ultimi giorni, ha cercato di sfoderare il cliché, vetusto ma ritenuto affidabile, della mobilitazione antifascista: non votate me perché sono io, non votate quello perché vuole trasformare Roma in una città cupa, perché sfrutta le paure della gente a fini elettorali. La diga del vecchio antifascismo ha ceduto di schianto, e alla fine la gente ha scelto tra due uomini e due idee della Capitale, senza spaccare il capello di manicheismi consumati nella polvere del tempo.
Ma non si è fatto i conti con un dato: la lunga militanza di Alemanno, mitigata dal suo volto dialogante e dall'affidabilità costruita al Ministero dell'Agricoltura, è esattamente ciò che ha convinto i romani a fidarsi di un ragazzo nato in Puglia che, come tutti gli immigrati risucchiati nell'abbraccio della Grande Meretrice, ha imparato ad amare Roma più di chi ci è nato. Lontano anni luce dal modello puponico o alla Alberto Sordi, epperò romano di certa schiatta. Volendo schematizzare, per vincere a Roma Alemanno ha messo su un pacchetto di mischia, di visione e di programma, simile a quello condensato nell'ultima fatica intellettuale del suo amico Giulio Tremonti o esemplificato nella campagna presidenziale di Nicolas Sakorzy: senza sicurezza non ci può essere speranza, senza identità culturale la modernizzazione è un progetto vuoto d'anima. E l'uomo forgiato nel cantiere ideologico della destra sociale, di una destra portata al dialogo sociale con i sindacati, all'elaborazione di alternative di governo, all'interlocuzione con il cattolicesimo organizzato, di una destra che non strilla sermoni anticomunisti, con l'ossessione della penetrazione nelle periferie, ha cavalcato con agilità il messaggio che i suoi spin doctor gli avevano affidato: rassicurare, rassicurare, rassicurare. Rassicurare la gente spaventata dall'immigrazione clandestina. Rassicurare le burocrazie umide, il milieu imprenditoriale, e la rete di poteri che aveva già decretato la permanenza di Roma nell'orbita di governo del Partito Democratico, impigriti dal quindicennio di centrosinistra e spaventati dalla «calata dei barbari». Rassicurare la destra che, apparentamenti a parte, non avrebbe tradito il mandato sarkozista, e rassicurare tutti gli elettori, come ha ripetuto fino allo spasimo nelle interviste e nelle dirette radiofoniche, che lui non era il candidato del centrodestra ma il candidato di centrodestra, in attesa di sperimentare gli effetti del ricambio democratico. Anche a Roma, con uno scatto inedito della meccanica elettorale, anche a Roma, par di capire, è finito il Novecento.

il Velino 29.4.08
Tv: il criminologo Picozzi varca “La linea d’ombra” su RaiDue


Roma, 29 apr (Velino) - “Il nostro scopo non è soltanto capire ‘chi’ si è reso responsabile di gesti crudeli ed efferati, o ‘come’ ha commesso i suoi crimini. Piuttosto vogliamo varcare ‘la linea d’ombra’, quel confine che sta tra normalità, follia e deliberato desiderio di fare del male, e comprendere ‘perché’. Perché un uomo, oppure una donna, si sia trasformato un giorno da persona apparentemente adeguata a killer spietato”, a parlare è Massimo Picozzi, il criminologo che da martedì 5 maggio in seconda serata su RaiDue conduce “Linea d’ombra”. Saranno otto puntate ognuna delle quali dedicata a un caso di violenza. Si parte da Gianfranco Stevanin, il killer delle prostitute, e si prosegue con Jeffrey Dahmer, il “cannibale” di Millwaukee; Michele Profeta, il “serial killer delle carte da gioco”; Andreij Chikatilo, il “mostro” di Rostov; Sonya Caleffi, l’infermiera “angelo della morte”; Richard Kuklinski, l’uomo “ghiaccio”; Daniela Cecchin, l’erotomane assassina; Harris e Klebold, i massacratori di Colombine. Sono tutti casi nei quali una giuria ha stabilito un verdetto certo, nei quali il colpevole ha un volto, ma le ragioni sono oscure e misteriose. “A nostro avviso – dice Picozzi, che firma il programma con Francesco Cirafici -, questi sono i casi che ci permettono di entrare nella mente criminale, senza correre il rischio inevitabile nei casi aperti di lanciarsi in ipotesi e speculazioni. Le vicende di cui ci occuperemo ne ‘La linea d’ombra’ sono comunque tra le più note e quelle che meglio si prestano a esemplificare tutta una serie di tipi di delitti”.
Il programma, per la regia di Riccardo Grandi, proporrà sempre una doppia lettura del delitto: quella degli investigatori, dei testimoni, degli esperti della scientifica, dei medici legali per comprendere cosa sia successo, caso per caso, delitto per delitto; e quella, più difficile, che porta alle ragioni perverse di un gesto, alla “linea d’ombra” oltre la quale si cela la mente di un assassino. Interrogativi, questi ultimi, ai quali tentano di rispondere filosofi, teologi, criminologi, psichiatri. Il titolo della trasmissione ricalca quello dell’ultimo romanzo scritto da Joseph Conrad, “Linea d’ombra” appunto, ed è a una frase dello scrittore polacco naturalizzato britannico che Picozzi si rifà per spiegare il senso della trasmissione: “Non è necessario credere in una fonte soprannaturale del male; gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità”. Picozzi, milanese di 51 anni, ha incontrato nella sua professione Erika e Omar, Annamaria Franzoni, le bestie di Satana. Tra i casi che affronterà in trasmissione quello che più l’ha colpito è quello di Michele Profeta. “Ognuna di queste storie – afferma il criminologo - mi ha coinvolto, lasciato un’esperienza indelebile, e forse tolto un pezzo di serenità”. Picozzi è consulente per il settore “true crime” per la casa editrice Mondadori e collabora alle riviste “A”, “Gente”, “GQ” e “Mente&Cervello”. Il 6 maggio esce il suo nuovo libro, “Un oscuro bisogno di uccidere”.

Liberazione 29.4.08
Sinistra, non di solo pane...
Ecco cosa non hai visto
di Lea Melandri


Se molti operai non avessero votato Lega, il 13-14 aprile 2008, forse non avremmo mai saputo cosa pensano dei gay, dei migranti, delle donne, dei dirigenti di sinistra, e del loro stesso lavoro. Da questo punto di vista, aver perso le elezioni è una fortuna e un'occasione da cogliere. Peccato che, dopo una rapida comparsa e altrettanto rapide interviste, siano spariti di nuovo dalla scena, per ridiventare l'oggetto delle verbose e perlopiù astratte dissertazioni di politici e intellettuali, che vorrebbero "rifondare" la sinistra, ripensare il "comunismo", ma partendo sempre dalle stesse domande: «che fare?», «con chi?». Con questa premessa, anche la risposta finisce per avere un sapore antico, che è nostalgia del già noto e, insieme, attesa di una miracolosa palingenesi.
Sull'orizzonte famigliare e perduto tornano ad allinearsi ancora una volta il popolo, il territorio, la gente, i lavoratori e le lavoratrici - un femminile d'obbligo dal momento che la questione di genere, rimossa come problema politico, è diventata una vera ossessione di correttezza linguistica.
Di fronte alle parole ricorrenti -"radicarsi nel sociale", "ritorno nei quartieri", "apertura all'esterno" - viene spontaneo chiedersi: «ma dove sono stati finora?». Forse in riunione. Con tutti quegli organismi impalcati l'uno sull'altro, fino alla cima della piramide del partito, l'autoreferenzialità è inevitabile, la schiera dei dirigenti si infoltisce e quando si cerca la "base" ci si accorge che non c'è più.
Nel documento della Conferenza nazionale di organizzazione, approvato il 16-17 dicembre 2006, si diceva che la crisi della politica e della forma partito riguardava anche Rifondazione: separatezza dei gruppi istituzionali, burocratismo, centralismo, personalismi, ingessamento del dibattito democratico. Nel Comitato politico nazionale di circa una settimana fa, convocato a ridosso del terremoto elettorale e dietro la pressione di quanti, dentro e fuori Rifondazione, vorrebbero avviarsi rapidamente verso una nuova sinistra "unita e plurale", l'idea di un possibile scioglimento, reale o immaginaria che sia, ha risvegliato spinte contrarie: la difesa di una "comunità di appartenenza", il rafforzamento di un "corpo collettivo", della sua storia, delle passioni che lo hanno alimentato. Un riflesso noto, prevedibile, che parla del difficile rapporto tra "gruppo chiuso" e "gruppo aperto", tra processi di "accomunamento" e settarizzazione, è venuto a coprire un lutto duplice: la sparizione di elettori fedeli e l'affacciarsi su un vuoto organizzativo, spinto quasi fatalmente verso la figura rassicurante di un leader carismatico. Colpisce il fatto che la minaccia alla propria sopravvivenza, il pericolo di disgregazione, dispersione di qualcosa che è stato conquistato con fatica, si sia così massicciamente spostata sul versante da cui sembrava venire, al contrario, la possibilità di un'apertura e di un potenziamento.
«Se nell'estraneo al gruppo non viene colta l'ostilità ma il suo contrario, vale a dire se nell'estraneo noi troviamo non il diverso ma l'uguale, il comune a noi, che pure esiste, allora tutto il movimento di elaborazione del gruppo si svolge con un senso diverso». La "comunanza stessa", in questo caso, diventa "un bene da estendere" (Elvio Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto? , "Quaderni piacentini", n.36, nov. 1968). Perché i gruppi, le associazioni, l'assemblea che si è riunita a Firenze il 19 aprile per proporre "case comuni della sinistra", sperimentazione di "laboratori di analisi e di pensiero", spazi decisionali aperti a tutti, "fuori da leaderismi e da centralismi democratici", non ha convinto a procedere nel ripensamento della forma partito avviato a Carrara, il 29 marzo-1 aprile 2007 con la nascita della Sinistra europea? Perché si invocano territori, radicamenti, soggetti sociali perduti, e non si vede la terra su cui si mettono i piedi, luoghi e persone che già ci sono? Perché tanto insistenza sull' "ascolto" di interlocutori lontani e distratti, e tanta sordità alla voce del vicino? Perché l'accelerazione verso la "costituente" di un nuovo soggetto della sinistra, capace di "impastare" idealmente lotte sociali e culture politiche diverse, non convince neppure chi, come me, non ha storia di partito né desidera averla, e pensa che questa forma organizzativa sia esaurita, e non da ora? Se a molti oggi appare inadeguata l'idea di partito come "organizzazione di combattimento", centralizzata e gerarchica - una specie di "stato dentro lo stato" - anche il dibattito che dovrebbe aprire la strada a nuove forme organizzative, così come è stato finora, appare molto meno "aperto, ampio, plurale" di quanto prometta.
Al di là delle affermazioni, traspare il rischio, sollevato al Cpn da Franco Russo, che a mettersi insieme siano solo "gruppi dirigenti", e, soprattutto, che si tratti ancora una volta di un ceto politico "neutro", cioè sostanzialmente maschile, tanto da far rimpiangere la consapevolezza nuova che era apparsa nella relazione di Franco Giordano a Carrara: «E per noi maschi c'è un problema che riguarda l'abbandono di ogni universalismo neutro e del riconoscimento della nostra parzialità, di dismettere il narcisismo che è sempre il segno più pubblico del cerimoniale del potere».
Ma non è solo la partecipazione democratica a far difetto in assemblee che dovrebbero far dialogare o confliggere culture diverse, e che si limitano a far sfilare sequenze di interventi "preiscritti", cioè pensati prima e al di fuori della relazione personale che si crea in un incontro, fuori quindi dagli imprevisti e dai cambiamenti che ne possono sortire. Insieme al femminismo, il pesante rimosso che si porta dietro la sinistra è tutto ciò che, connesso al destino femminile, è stato messo al bando dalla politica: il corpo, la persona, l'intelligenza e la sensibilità legati a esperienze fondamentali come la nutrizione, la riproduzione, l'amore, la cura. Di questa "mutilazione" e delle conseguenze che ne sono derivate alla vita politica, scrive con grande lucidità Marco Deriu, nel suo articolo Gli uomini il desiderio e la crisi della politica ("Pedagogika", n.6, dic. 2004):
«Quando si parla della crisi della politica e della partecipazione, si fa riferimento alla crisi dello Stato, delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati. Si fa riferimento cioè alla crisi delle forme, delle strutture, delle organizzazioni. Di conseguenza si propongono riforme, interventi, operazioni di ingegneria politica, nuove aggregazioni politiche nella speranza di colmare il vuoto…La concezione strumentale dell'azione politica, tipica della cultura maschile, tende a deificare i valori e i desideri di cambiamento sociale, trasformandoli in qualcosa di esterno, di oggettivo, di quantificabile. Le persone, in questo tipico modo di agire finalistico, divengono mezzi, strumenti, materia da plasmare per realizzare i nostri progetti razionali. Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sforzo di consapevolezza che riconosca il legame tra sé e il mondo, tra la propria esistenza e l'esistenza di altri esseri. In altre parole, quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, un nuovo soggetto o una nuova formazione. Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri».
Per un'azione politica che voglia tener dentro "unità e pluralità", differenza e condivisione, è necessario il rapporto diretto tra persona e persona, ma anche la disponibilità del singolo a lavorare su di sé, a mettersi in discussione. Quando si constata con sorpresa - come nel caso degli operai che hanno votato a destra - che "identità sociale" e "soggettività politica" sono scisse, si dice indirettamente che l'individuo, non solo non coincide col cittadino - anzi, diceva Tocqueville, è il suo "peggior nemico" - ma non si identifica neppure totalmente con la sua collocazione nei rapporti di lavoro, col suo essere in un territorio, né solo col suo ruolo sessuale nella coppia, nella famiglia.
L'essenza della politica, il motore primo della conflittualità sociale e della trasformazione, si sono venuti spostando, di volta in volta, su questo o quell'aspetto dell'esistenza, facendolo diventare unico e centrale. Dire che nel "sé", nel vissuto del singolo si danno concentrati e amalgamati bisogni, identità, luoghi, rapporti, passioni, fantasie, interessi e desideri diversi, è riconoscere che c'è un "territorio" che sfugge, o esorbita, dai confini storici e geografici, dai luoghi della vita pubblica - e quindi irriducibile al sociale - che è la vita psichica, una terra di confine tra inconscio e coscienza, tra corpo e pensiero, in cui affondano radici ancora in gran parte inesplorate.
Le "viscere" razziste, omofobe, misogine, su cui la destra antipolitica ha fatto breccia per raccogliere consensi, è il sedimento di barbarie, ignoranza e antichi pregiudizi, ma anche sogni e desideri mal riposti, che la sinistra, ancorata al primato del lavoro e della classe operaia, ha sempre trascurato, come se dopo il grande balzo della coscienza operato da Marx non ci fossero stati altri rivolgimenti altrettanto radicali, come la psicanalisi, il femminismo, la non violenza, la biopolitica, l'ambientalismo.
L'individuo, la persona, la soggettività intesa come esperienza del singolo e come corpo pensante, si sono fatti strada con fatica, fuori da vincoli famigliari e comunitari obbligati, e se sono andati assumendo sempre più le forme di un individualismo chiuso alla solidarietà, è anche perché su questo versante partiti e movimenti di sinistra hanno preceduto separati, guardandosi reciprocamente con sospetto. "Il personale è politico", per chi si preoccupava negli anni '70 di salvaguardare la grande "unità di classe", suonava come uno slogan "borghese". Oggi, chi sottolinea la dimensione metropolitana del politico, chi si batte per i diritti civili di conviventi, di gay e lesbiche, per la libertà femminile, per la cittadinanza dei migranti, passa per "radical chic". Eppure è dalla testimonianza diretta dei singoli, voci che si raccolgono fuori dal dibattito pubblico, fuori, soprattutto, dalla cerchia del ceto politico, che il "sociale" tanto invocato prende forma, caricandosi di ragioni e di senso. Non necessariamente quelli che ci aspettiamo, ma che tuttavia non possiamo ignorare, se si vuole davvero costruire un'alternativa meno violenta e alienata di società.
Tatiana Gentilizi, giovane operaia della Zanussi di Forlì, nell'intervista pubblicata dalla rivista "Una città", così descrive il suo lavoro: «L'importante lì è non parlare del tuo lavoro, che è un po' deprimente, ma di tutt'altro. Parli delle vacanze che hai fatto, di quello che ti sei comprata, del Grande fratello . Se non guardi il Grande fratello , là dentro sei un po' tagliata fuori…I giovani che entrano in fabbrica lo fanno probabilmente per bisogno, ognuno ha la sua storia. Però tutti, o almeno la stragrande maggioranza, lo vedono come un momento di transizione, per cui non si interessano più di tanto del loro essere operai…Non c'è più una condivisione profonda del lavoro, l'importante è passare comunque le otto ore nella maniera più tranquilla possibile e poi del domani chissenefrega, si vedrà. Di positivo c'è che ti dà la possibilità di pensare ad altre cose, puoi anche ascoltare la musica: puoi portare il walkman e sentirlo in un solo orecchio..Oggi l'operaio si sente meno operaio e prevalgono le strategie individuali».
«Non si vive di solo pane», dice Bloch, «soprattutto quando non se ne ha». L'insegnante di una scuola per apprendisti commessi e impiegati spinge i suoi alunni a mobilitarsi il 1° maggio sul disagio della loro condizione. Lei porta in corteo il cartello "Viva l'unità delle masse popolari", loro, pochi numericamente, esclamano "basta con la politica". Alla richiesta di quali fossero i loro interessi, le ragazze rispondono: «Le nostre letture sono di tutti i generi, in particolare riviste come Grazia , Gioia , Grand Hotel ». «Il mondo cui tendevano e tendono - commenta l'insegnante sulla rivista "L'erba voglio"
(n.1, luglio 1971) - e che vedono riflesso in tali letture, è un mondo fatto di vita non pressata dal bisogno di guadagno, una vita fatta di cose belle, di automobili sportive, di profondi affetti e storie amorose…vita che non vivono, e a cui pure tendono». In nota all'articolo, la redazione commenta: «Per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni».
Non potevamo accorgercene prima?

lunedì 28 aprile 2008

l'Unità 28.4.08
Le donne della libertà
di Maurizio Chierici


Un giorno nei boschi, Appennino reggiano attorno a Felina. Trecento persone ascoltano Gianluca Foglia. Ricorda a suo modo il 25 aprile. Alle pareti dello chalet quattro ritratti coperti da garze. I suoi disegni. Foglia è autore di fumetti che interrogano la storia per far capire ai ragazzi con quale dignità è possibile affrontare la vita. «Once de septiembre», prigione e torture di una donna sopravvissuta a Pinochet.
Ne «La notte di San Nessuno» illustra l’ingiustizia sociale che sfinisce i popoli schiacciati dalle multinazionali. Si avvicina al ritratto di una donna. Nella sala allungano gli occhi ragazzi sui vent’anni, signori sopra i quaranta, vecchi partigiani. «Giovanna Quadreri aveva la vostra età quando curava i volontari della libertà feriti dai nazisti. Il dottor Marconi di Castelnuovo Monti nascondeva fasce e medicine nella cassetta da idraulico. I fascisti non avrebbero sospettato. “Se la ferita è grave portameli all’ospedale”». Pagine del passato che svegliano la curiosità. Qualcuno vuol sapere: come poteva Giovanna portarli all’ospedale quando fascisti e tedeschi avevano in mano il paese? Foglia sorride. Sessant’anni dopo Giovanna mantiene il segreto. Scopre il quadro di Laura, la sorella, ecco il disegno di Lidia Zafferri, classe 1921. La staffetta Tullia Fontanili aveva 30 anni quando le brigate nere bloccano la sua bici. «Conosci questa?». Non la conosceva ma due pedalate dopo si ferma, cuore in gola. È la sua foto pettinata diversa. Cercano lei e lei va in montagna. In ogni posto del nord tante storie così, ma i ragazzi si distraggono perché le celebrazioni a volte suonano così diverse dalle parole sciolte nelle Tv. Ecco perché Foglia racconta i racconti delle donne partigiane come un cantastorie nel mercato del tempo. Un fumetto, due chitarre, la fisarmonica accompagnano con Bella Ciao, Fischia il Vento, Cosa rimiri mio bel partigiano. Parole che non rimbombano; mai sacrificio, eroismo, coraggio. Solo gli inciampi quotidiani di un impegno che ha liberato la vita di tutti. I ragazzi non perdono una sillaba, i vecchi si commuovono. E quando cade la garza dell’ultimo disegno, Foglia attraversa il pubblico. Prende per mano quattro piccole donne e le porta nella luce del riflettore: «Ecco Giovanna, Ilde, Laura, Tullia. Loro possono raccontarvi di più». Tutti in piedi e attorno per capire dalla tenerezza orgogliosa delle nonne come cercare la speranza. I ragazzi vogliono scoprire in quale modo sono cambiati i giorni delle famiglie nelle quali stanno crescendo anche perché la conoscenza virtuale del passato a volte si smarrisce nei discorsi di chi consacra il 25 aprile. Troppo solenni per le generazioni internet. E il passato lontano e il passato prossimo ingrigiscono nella disattenzione. Non sanno come si viveva 63 anni fa attorno ai banchi dove oggi cercano il futuro. Nelle città o nei paesi che al mattino attraversano in fretta. La grande storia può insegnare qualcosa se misurata sulle abitudini negate. Nonni e padri impauriti nelle stesse strade sulle quali i nipoti sorridono coi telefonini dentro lo zaino. Nonni e padri avevano fame, e un pezzo di pane nero restava sogno proibito, mentre agli adolescenti 2000 si raccomanda «niente carboidrati», lievito dell’obesità. Le paure e i delitti; soprattutto il disprezzo verso chi non si piegava al pensiero unico dell’Italia fascista, restano pagine rimpicciolite da programmi e da troppi insegnanti, eppure i vincitori delle elezioni annunciano di voler sfuocare nei libri di testo i ricordi sopravvissuti. Si vergognano di avere nostalgia dei massacri, e degli ebrei impacchettati nei vagoni merci come bestie da macello, non solo a Varsavia o Praga, come qualche film fa sapere; «bestie» arrestate a Roma, Milano, Ferrara, Firenze. In ogni piccola comunità d’Italia i compagni di classe sparivano e i professori diventavano ombre schiacciate dai passi delle brigate nere. Stivali di Hitler, gagliardetti italiani. Insomma, memorie che a tirarle fuori danno fastidio alle corporazioni del fascismo al quale si aggrappano le corporazioni mercantili che trionfano in questi giorni. Con la stessa determinazione, leghe e popoli della libertà si impegnano a cancellare la memoria. Anche perché qualche vecchio signore che marciava nei battaglioni di Salò domani rientra in Parlamento. I ragazzi non capirebbero un onorevole così. Con la trasformazione della Tv commerciale nell’arma di disattenzione di massa dove le notizie strisciano e i grandi fratelli piangono, manganelli e deportazioni non servono, ormai. L’espianto si può fare a domicilio. Senza prediche o lezioni di retorica: un bel niente allegro aiuta a seppellire il passato prossimo che è ancora presente. Qualche tempo fa ascoltando una ragazza, laurea in architettura, concorrente nei quiz seminati attorno ai Tg, si è capito come l’operazione «non parliamo del passato» stia dando risultati che confortano. Domanda del conduttore: «Quanti ebrei sono morti nei campi di concentramento nazisti?». La dottoressa stringe le labbra. Comincia a fare i conti. «Diecimila?». Silenzio imbarazzato del signore che fa le domande: «Troppi?». La povera si scompone: «Allora dico mille». E se i «bamba» che sono andati in piazza a tener viva la memoria arrossiscono per desolazione, Vittorio Feltri (giornalista) ci ride su: «Ridotti al folklore, non riescono a cambiare». Val la pena insegnare ai giovani come diventare protagonisti del giornalismo lavanderia. Con la stessa femminilità di Maria Giovanna Maglie (ex giornalista Unità), Feltri ha sempre avuto un debole per gli uomini forti. Debutto anni Ottanta: portavoce dei socialisti craxiani alle assemblee del Corriere della Sera. L’impegno era rovesciare Alberto Cavallari chiamato dal presidente Pertini a riconfortare la dignità di un giornale sconvolto dalla mafia in doppiopetto della P2. Purtroppo Cavallari denuncia le cose che Mani Pulite avrebbe scoperto qualche anno dopo. Craxi si arrabbia. Urgente farlo tacere. Feltri è la manovalanza che serve. Oggi la P2 ha solo cambiato nome: i suoi uomini ridono al governo. Feltri marcia al passo di Berlusconi. È successo 30 anni fa; proibito spiegare nelle aule dove si forma la classe dirigente, chi sono, cosa volevano e le belle carriere dei protagonisti P2. Intanto affoghiamo la Resistenza che spaventa le anime dei nuovi ministri. Il «bamba» lombardo del titolone Feltri è un frescone; cretino di campagna. Com’è possibile prendere sul serio i bamba che ricordano il 25 aprile? Marcello Veneziani, intellettuale della nostalgia nera, regala il consiglio decisivo: «Liberiamoci dall’ipocrisia di dire che il popolo italiano sia insorto per liberarsi dell’oppressore. Non è vero». Cicale che nei prossimi mesi sciameranno in ogni Porta a Porta, dal Tg2 ai Tg Mediaset. Raggiungeranno le anime che si incantavano nel bosco dell’Appennino ormai impigrite sulle poltrone dell’inverno Tv. Ieri ascoltavano racconti e canzoni; interrogavano vecchie signore protagoniste di una piccola storia che illumina l’Italia 1945; oppure sfogliavano le lettere di un libro inventato dagli allievi del liceo Ulivi di Parma. Hanno scelto di fermare il tempo per dialogare con un compagno di classe fucilato dai fascisti a Modena nei giorni de «la guerra civile», per dirla con Veneziani: 10 novembre 1944. Giacomo Ulivi, 19 anni, non aveva fatto niente. Niente per modo di dire: le regole del tempo non permettevano di preferire Croce a Gentile e a Mussolini. Delitto imperdonabile. Ulivi costretto a nascondersi per colpe che oggi fanno ridere: qualche libro sgradito al podestà e amici «poco raccomandabili dalle idee liberali». Fucilato per rappresaglia. Plotone italiano. Nelle ore che precedono l’esecuzione, scrive lettere nelle quali sentimenti e rabbia affiorano senza voler graffiare. Con la lucidità di chi si sente rubare la vita, analizza gli errori della pigrizia di una generazione che sopravviveva nella zona grigia. Ulivi disegna le virtù indispensabili al futuro se davvero si vuole voltare pagina «quando sarà caduta la dittatura». Invita i compagni di scuola a evitare «il desiderio invincibile di quiete». Galleggiare e far finta di non capire «è il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione, o di educazione negativa, che martellando da ogni lato è riuscita a inchiodare in molti di noi il pregiudizio». Sessant’anni dopo i ragazzi dello stesso liceo imbucano le risposte: «Caro Giacomo, come faccio a spiegarti che al posto del regime ci pensa la Tv a rendere schiave le nostre menti con la differenza che non ce ne accorgiamo?». Nel bosco dell’Appennino un po’ tutti vogliono sapere cosa è successo alle signore quando è finita la guerra. Medaglie, posti comodi, paghe buone. Insomma, i benefici naturali di chi oggi è tentato di imitare il prossimo ministro dell’Istruzione che si è guadagnato la carriera mettendo in dubbio le stragi delle bande nere sulle quali piangevano i suoi discorsi quand’era sindaco Pci vicino a La Spezia. Bondi, esempio dell’Italia nuova. Le vecchie signore ridono. Sono invecchiate cameriere in Svizzera o nelle mense di fabbrica; mondine con l’acqua a mezza gamba nelle risaie, o nelle fornaci a fare mattoni o a vangare l’orto quando perdevano il lavoro e dovevano tirare giornata. «Abbiamo combattuto per fare ragionare la gente». Ma certa gente si è distratta. I ragazzi che ascoltavano nel bosco, speriamo di no. mchierici2@libero.it

l'Unità 28.4.08
Tutte le donne di monsieur Musil
di Anna Maria Carpi


PERSONAGGI CONTRO Le opere dello scrittore austriaco sono piene di figure femminili. Una in particolare, Agathe, la sorella-amante di Ulrich nell’Uomo senza qualità, è in rivolta contro tutti e spregiudicata fino alla beffa

Nel ’23 Musil dedica a Iside e Osiride, i due dei egiziani fratelli, una poesia in cui leggiamo: «E la sorella pian piano tolse al dormiente/ il sesso e lo mangiò. E gli diede il suo tenero, rosso cuore/ in cambio e glielo mise sopra». La ferita si rimargina. Poi Iside fugge, inseguita dai suoi altri cento fratelli, ma non viene raggiunta. Solo lui, Osiride, rintraccia questa «fragile creatura dalle spalle di uccello», e le mangia il cuore, e lei mangia quello di lui.
Agathe, che vuol dire «la buona», la particolarissima sorella di Ulrich nell’Uomo senza qualità, compie su di lui qualcosa di simile a un’evirazione e nel seguito, nei loro dialoghi senza fine, avviene una sorta di reciproca consumazione: nemmeno l’amore fra le anime sarà più possibile.
Musil è figlio di un’epoca che ancora contrapponeva donna onorata a donna perduta e lui stesso deplora che il discorso sul sesso sia lasciato generalmente alla romanticheria o alla volgarità. Pur respingendo quella che chiama la «scolastica psicoanalitica», Musil riconosce alla psicoanalisi l’enorme merito verso la società di aver infranto quest’arcaica abitudine. Tuttavia, poche donne vi hanno collaborato, dice per bocca di sua moglie Martha nei Diari, e perlopiù come pazienti, e non sarebbe perciò strano che nella scienza freudiana le fantasie femminili fossero fantasie maschili sulla fantasia femminile, o perlomeno «colorate» dalle elaborazioni dell’uomo.
In ogni caso Musil non accetta che il motore di tutto sia la libido (come non accetta che lo siano i marxiani rapporti di produzione, altra scolastica per lui da scansare). Il motore di tutto è la parte appetitiva dei sentimenti. Sappiamo cosa vuole: salvare il concetto metafisico di anima. Io combatto, dice il suo Ulrich, certo non senza qualche autoironia, per la mia salvezza eterna.
L’anima nel romanzo è dapprima retaggio del solitario osservatore Ulrich, di Monsieur le vivisecteur (come chiama se stesso nelle pagine autobiografiche), compagno per certi aspetti del Marcel di Proust, dello Steven Bloom di Joyce e degli uomini della Montagna incantata di Th.Mann - romanzi fondanti dei primi anni Venti. Solo a metà del cammino Ulrich si sdoppia - questa è la speciale invenzione del romanzo - e genera come da sé la sorella Agathe, la «gemella», che in realtà è di cinque anni più giovane.
L’opera di Musil è ricca di donne, che in parte sembrano delle anticipazioni di Agathe. Nei due racconti del 1911, La tentazione della silenziosa Veronica e Il compimento dell’amore, l’una, Veronica, per poter amare il suo Johannes deve immaginarselo morto, l’altra, Claudine, che adora il marito, scivola, ben cosciente della ripugnante alienazione di sé che sta compiendo, fra le braccia di un volgare conoscente casuale: la tesi, assurda, è che l’amore, il sublime amore per il marito, si perfeziona e compie solo nell’«impersonalità» di quest’unione brutalmente carnale. Nella commedia I fanatici del 1921 Regine, fuggita da due mariti, ha il suo legame più autentico con un amico d’infanzia che la chiama «sorella corrotta». D’altra specie sembra essere, ma non è, Tonka nell’omonimo racconto (in Tre donne, 1924), la povera ragazza slava che rimane incinta come la Vergine Maria, senza intervento d’uomo. Invano il suo amante, studente d’ingegneria, ne cerca una spiegazione «razionale»: ma il «razionale» Musil lo schernisce chiamandolo ratioid, razioide - poiché spiegare il mondo è «devastarlo» e «di lì non partirà più alcun sentiero». La silenziosa Tonka, senz’intelletto senz’emozioni visibili, è «un fiocco di neve in un giorno d’estate», «l’infinitudine finita in una goccia», «l’indicibile». È la prima incarnazione - umana, femminile - che Musil dà alla famosa formulazione del Tractatus del coevo Wittgenstein: «In ogni caso c’è l’indicibile. Esso si mostra, è il mistico». Ma anche nel più splendente ed enigmatico dei racconti musiliani, Il merlo (1928), l’indicibile è di nuovo al femminile: nel misterioso uccello (in tedesco di genere femminile) il protagonista identifica alla fine la propria ambigua madre, causa peraltro del suo stato di profonda alienazione dalla realtà (...)
Un accenno alla trama dell’Uomo senza qualità. Nel 1913, senza il minimo sentore della guerra che sta per spazzare via la vecchia Europa, a Vienna, nell’Austria «scesa dal treno della storia», un gruppo di benpensanti e ambiziosi aristocratici prepara per il 1918, 70° di regno di Francesco Giuseppe, un’«azione parallela» ai festeggiamenti per il 30° di regno del Kaiser Guglielmo II. È una sant’alleanza di cultura e patrimoni fondata sul liberalismo borghese: il gruppo crede fermamente nello scambio d’idee, nei comitati, nelle conferenze e nella beneficenza - tutto quanto oggetto d’irrisione da parte di Ulrich.
Ulrich, trentenne, bello, atletico, colto, ricco e privo di qualsiasi vocazione pratica, decide di prendersi un «anno di vacanza dalla vita». La vacanza gli consentirà di condurre una «vita sperimentale» e diventare un osservatore a tempo pieno che da se stesso, dagli altri e dall’ambiente trae nella sua mente, a proprio esclusivo uso, altrettanti saggi di psicologia. È la sua «utopia del saggismo», è il suo progetto di fare un «inventario generale dello spirito». Quello che vorrebbe mettere in piedi, alla faccia delle manifestazioni progettate dal nobile gruppo, sarebbe un paradossale «segretariato terreno dell’esattezza e dell’anima».
Intorno a Ulrich si affollano uomini e donne, figure pubbliche e no: una società dove i personaggi sono - nota bene - tanto più concreti e riusciti quanto più piccoli e lontani dal fulcro del romanzo. Sono la sua amante Leona, la ninfomane Bonadea, il criminale Moosbrugger (alter ego anarchico di Ulrich), il politico Arnheim (che adombra Walter Rathenau, economista poi ministro degli esteri della Repubblica di Weimar), la giovane Gerda col suo clan prenazista, il simpatico generale Von Bordwehr, il molle Walter artista mancato, l’isterica efebica Clarisse seguace di Nietzsche, la gran dama Diotima (vedi cap. 25 Le sofferenze di un’anima coniugata), anima bella che colma «il gran buco che si chiama anima» con idealità e moralismo, i pedagoghi Hagauer e Lindner (...).
In occasione della morte del vecchio ridicolo padre, nella vita di Ulrich compare la sorella Agathe. Cresciuti divisi, salvo qualche fugace incontro intermedio, con solo l’infanzia in comune, ignorano cosa sia diventato l’altro da adulto. Colpo di scena: al primo incontro nel salotto della casa natale, entrambi si presentano in pigiama a quadri alla Pierrot. «Non sapevo che fossimo gemelli», dice Ulrich di fronte a questa «chimerica ripetizione di se stesso». Lei ha appena lasciato il secondo marito e i due si dispongono a una convivenza «tanto intima quanto imprevista». Intima in che senso? «Era come se un naufragio buffo e avventuroso li avesse ributtati sull’isola solitaria della loro fanciullezza». I due dormiranno ognuno nella propria stanzetta della prima infanzia. Il congiungimento, presente negli abbozzi del romanzo, è stato poi eliminato (...).
Agathe ci viene via via ritratta come pigra, inesperta della vita, apatica e sottomessa, poi all’improvviso infantilmente ribelle a ogni autorità - appartiene pur sempre a una generazione (quella del 1880-90, degli espressionisti) che contestava i padri. Ribelle anche al vincolo matrimoniale col disgustoso Hagauer, col quale è rimasta a lungo per indifferenza, scoraggiamento, trepidante labilità. Agathe rifiuta le «piccole felicità» della vita borghese, è spregiudicata fino alla beffa e al reato (vedi la giarrettiera messa in tasca al cadavere e la falsificazione del testamento del padre), è incurante dei beni materiali, è avversa alla maternità (l’orrido ruolo di chioccia), è vitale ma a un certo punto anche sull’orlo del suicidio. È in cerca di un mentore, protettore, confessore, che non può che essere maschio. Nulla a che fare con un’emancipazione femminista, che Musil non perde occasione di deridere se non altro per il suo «dinamismo erotico».
È così che, in preda a una «bufera penitenziale», Agathe si recherà da Lindner, uno dei tanti deprecati professori-burattini del romanzo, uno sciocco portavoce dell’«uomo buono» goethiano che oscuramente, anche nell’errore, resterebbe sempre cosciente del bene. Il cap. 42, sulla visita a Lindner, s’intitola ironicamente Sulla scala degli angeli in una casa sconosciuta. Ma qual è la conclusione? Linder fa solo chiacchiere: «Nessuno poteva aiutarla se non la voragine stessa. La voragine era Dio». Ovvero, come formula Musil nei Diari «il fondo marino solido da cui si sono ritirati i flutti inquieti dell’abituale».
Nel ‘33 (Diari), a quelli che rinfacciavano al romanzo di essere perverso, Musil rispondeva richiamandosi all’arcaico: è vero, dice, il sentimento dei due fratelli può essere perverso ma può essere anche un mito. E tale è nel romanzo.
Agathe cerca nella stessa direzione di quella del mille volte più cosciente e attrezzato Monsieur le vivisecteur, e di fatto non esiste: è la tabula rasa che Ulrich riempirà di se stesso. Si noti che nel romanzo non ci sono monologhi interiori, c’è solo un narratore onnisciente, Ulrich-Musil. Se il romanzo diventa un sequela di dialoghi, prima «profani» poi «sacri», è perché il dialogo è, come sappiamo, la forma più antica, la forma classica del saggio, il saggio filosofico. Ulrich si sdoppia in due voci, ma le due voci si fanno sempre più impersonali (...).
Lungi da questi due miseri modi odierni d’amare, i due vivono dei propri esaudimenti interiori, del loro rimbalzo nell’altro, di sentimenti identici. Un doppio autismo. Ulrich dice ad Agathe: «Tu sei il mio autismo», e anche «tu sei il mio amor proprio» e «ti vedo come ho bisogno che tu sia e tu mi fai vedere ciò di cui ho bisogno». Siamo, dice Ulrich, «una specie di ultimi mohicani dell’amore». «Non amerà un’altra donna dopo di me», pensa Agathe, «perché questa non è più una storia d’amore, è addirittura l’ultima storia d’amore che vi possa mai essere». Così, «anche quel giardino incantato in cui si trovava con Ulrich era più desiderio che realtà». L’unica soluzione è «coordinare gli stati momentanei e farne uno duraturo».
E se dopotutto il motore di questo romanzo fosse la nostra sete esistenziale di durata che prevarica su ogni morale? Tutto il romanzo si pone difatti come amorale e trasgressivo, e non certo a causa dell’amore dei fratelli, che è un’invenzione. Si noti il sottotitolo della III parte: I criminali. «Noi siamo delinquenti potenziali giustificati a ogni specie di delitto» e dei «moralmente deficienti», dice Ulrich.
I due instaurano «l’altro stato», termine preso dalla fisica, dalla teoria quantistica, che dice non realtà ma possibilità, ma Musil lo chiama anche «tageshelle Mystik», mistica chiara come il giorno, o anche «Regno millenario» - espressione presa dalla tradizione cristiana (sono i 1000 anni che Cristo regnerà in terra insieme ai santi prima del Giudizio). Non dimentichiamo certe letture mistiche musiliane, che vanno da S. Agostino (la grazia è per pochi), a Meister Eckart, a Lutero (De servo arbitrio) a Emanuel Swedenborg, a Martin Buber (Exstatische Konfessionen, 1909), e che nel 1941-42, prima della morte, Musil si applica al Tao-te-king di Lao Tse. Filosofia orientale anti-individualistica.
Nel cap. 52 Respiri di una notte d’estate si afferma che ci sono due soli modi «appassionati» di essere - e come altrimenti essere? C’è l’uomo appetitivo cui il mondo è «debitore di tutte le opere, di tutta la bellezza e di tutto il progresso ma anche del suo ciclo insensato», e l’uomo non appetitivo, timido, irresoluto, «pieno di desideri e introverso nelle sue passioni», qual è questo due-uno, astratto non-personaggio, in cui si dissolve il «dolce cuore» - con cui l’Iside della poesia del ‘23 aveva coperto il vuoto lasciato dal sesso maschile da lei strappato e mangiato - e si dissolvono i cuori dei due che se li sono mangiati scambievolmente.

l'Unità 28.4.08
Elaborare la sconfitta per tornare a vincere
di Luigi Cancrini


Caro Cancrini,
la settimana scorsa Cotroneo ha parlato di terapia di sostegno per le persone di sinistra e suggerito diverse tecniche per la depressione: in primis evitare la tv. Ora la questione mi sembra debba affrontarsi anche con competenza clinica, lo dico senz’ironia. Come resistere altri cinque anni all’occupazione sistematica d’ogni spazio visivo, all’esibizione insistita di rancore, vendetta, volgarità? Ci vorrà equilibrio psichico fermissimo per non abbandonarsi alla depressione od alla rabbia dell’impotenza. Né basterà l’analisi razionale per accettare il dato di realtà più sconfortante: che cioè almeno la metà dei nostri concittadini ha scelto questa destra con piena consapevolezza! Noi continuiamo a dire che B. è un venditore di fumo, un bugiardo. Ma quando mai? B. è prevedibile in ogni sua mossa, non ha mai smentito le attese, ha sempre fatto e detto le cose che ci si aspettava da lui! La sue cosiddette bugie null’altro sono che scoperto ed ammiccante artificio retorico! Come dunque convivere con l’altra metà della popolazione, che in B. si riconosce? Come passare i prossimi anni, durante i quali non ci sarà risparmiato nulla e vedremo legittimati e dilagare comportamenti agli antipodi dei nostri orizzonti morali? Insomma, caro Cancrini, suggeriscici le forme per elaborare l’accettazione d’una realtà ingrata.
Con stima profondissima, Giancarlo Rossi

All’interno di una riflessione illuminata e molto attuale, Gramsci scriveva nei suoi Quaderni della differenza sostanziale, nella rivoluzione francese, fra giacobini e sanculotti. Animati i primi, che erano a volte di origine proletaria ma che venivano spesso anche dalla borghesia, dalla nobiltà e dal clero, dall’idea di essere (o di dover essere) i protagonisti di un grande processo della storia e coinvolti, i secondi, invece, da un movimento che sembrava in grado di corrispondere alle loro aspettative immediate: alla possibilità, dopo anni di sofferenza, di liberarsi del giogo cui erano stati a lungo ingiustamente sottomessi. Pronti, i primi, a trasformarsi (i Robespierre ed i Sanjust) in rigidi (ed eventualmente spietati) difensori di un’idea che incarnava i loro ideali. Pronti, i secondi, a modificare le loro posizioni di fronte ad una realtà che suggerisce altri modi di difendere gli interessi che erano meglio difesi, in una certa fase, dalle idee rivoluzionarie. Proposto in modo chiaro dall’esempio di Gramsci, il discorso relativo alla necessità di riflettere sulle motivazioni degli uomini e delle donne che portano avanti un discorso, rivoluzionario o di sinistra, spiega molte cose. Una sinistra forte ha bisogno di una combinazione ampia di motivazioni diverse. Lasciati a sé stessi, privi di un riscontro concreto delle motivazioni terrene dei sanculotti, i giacobini si sono irrigiditi nelle mostruosità del comunismo reale o nelle chiacchiere dei salotti buoni. Privi di rapporto con le idee alla base della loro emancipazione, i sanculotti si sono trasformati facilmente in persone di destra. Come accadde all’inizio degli anni ’80, quando avendo appena ricevuto acqua, gas e luce per l’iniziativa di Luigi Petroselli, un grande sindaco comunista, molti abitanti delle borgate romane smisero di votare il Pci (che a lungo li aveva aiutati nelle lotte per la fontanella e per la fognatura, per la fermata dell’autobus e per la scuola dei figli) e aderirono (cosa che allora ci stupì) a quei movimenti di destra che più facilmente intercettavano il loro bisogno di sentirsi cittadini a pieno titolo di una Città che li aveva a lungo emarginati: riconoscendo il loro bisogno di distinguersi dai nuovi emigranti. Il fascismo e le formazioni politiche che si rifanno alla destra diventano forti, infatti, quando le persone sentono il bisogno di difendere degli interessi, piccoli o grandi, ma personali e consolidati. Il cemento ideologico che ne consente lo sviluppo è soprattutto quello della paura di perdere i loro beni o i loro piccoli grandi privilegi. Una paura suscitata dal Comunismo (ancora oggi!) o dagli emigranti: gli italiani di ieri nell’America di Sacco e Vanzetti o nella Svizzera di "Pane e Cioccolata; gli extracomunitari di oggi nell’Italia di Bossi, Fini e Berlusconi e nella Francia di Sarkozy: i terroristi islamici nella vulgata occidentale partita da George W. Bush e convalidata oggi da un Papa povero di amore per gli altri e di senso della realtà. Sono partito da lontano, caro Giancarlo, per dirti che dovremo riflettere a lungo sulle ragioni di questo trionfo annunciato della destra di Berlusconi. L’idea di Prodi e della sinistra per cui il reddito deve essere redistribuito non piace a chi ha molto e non piace nemmeno a chi ha poco se teme che la redistribuzione cominci da lui. L’idea per cui gli emigranti che vengono nel nostro paese sono bocche in più da sfamare e problemi serii per la sicurezza ed il benessere degli italiani non è realistica ma colpisce le persone che riflettono di meno. Tempi non ideologici, in cui l’antipolitica ha messo in crisi l’immagine dello Stato e delle istituzioni sono tempi in cui la tendenza a richiudersi nel proprio particolare è forte soprattutto se forte è la paura di poter stare peggio e se non si riesce più, da sinistra, a portare avanti un discorso che distingue lo stare bene dal benessere economico. Impostando l’iniziativa politica sul tentativo di gareggiare con Berlusconi sul terreno delle promesse materiali (i bonus per le famiglie, le assicurazioni per le casalinghe, la pace sociale garantita dalla presenza in lista degli industriali e degli operai) Veltroni ha portato avanti una competizione impossibile da vincere perché chi pensa a sé ed al proprio particolare (compresi gli ex sanculotti) si fidava e si fida più di Berlusconi (o di Casini) che di lui e perché chi crede nella forza delle idee si sente deluso da questa sua scelta. Così come deluso si è sentito dai giacobini (di cui anch’io ho fatto parte) che hanno combattuto ugualmente una battaglia impossibile. Le grandi idee fanno presa nelle masse solo se vengono portate avanti da persone capaci di intercettare con intelligenza i bisogni reali dei "sanculotti": una capacità ed una intelligenza che ci sono mancate. Quello cui ci troviamo di fronte è un trauma di cui dobbiamo capire le ragioni. Elaborandolo proprio per evitare la malattia depressiva, quella che si determina quando il dolore resta chiuso dentro di noi. Quando non trova le parole per essere detto ad altri. Quando non trova lo sbocco del ragionamento condiviso necessario per andare avanti in una situazione come questa. L’uomo, diceva Marx, è un animale sociale e il dovere degli uomini è, storicamente, quello di realizzare questa sua caratteristica. Partendo da un’analisi attenta dei problemi. Evitando di irrigidirsi (il rischio di sempre dei giacobini) all’interno di posizioni che contribuiscono più alla reazione che al cambiamento ma senza abbandonare l’idea per cui gli uomini possono stare davvero meglio solo se riescono a stare bene tutti.

Repubblica 28.4.08
Il linguaggio dei vincitori
di Stefano Rodotà


SONO francamente ammirato dall´impassibilità con la quale tanti commentatori analizzano i flussi elettorali, esaltano la radicale semplificazione del sistema parlamentare, assumono la Lega come riferimento, si chiedono se siamo entrati nella Terza Repubblica o se la Seconda Repubblica comincia solo ora. Ma tanti dati di cronaca, e le sollecitazioni della memoria, mi fanno poi sorgere qualche dubbio e mi spingono a chiedere se la vera novità di queste elezioni non consista nell´emersione piena di un modello culturale, sulle cui caratteristiche hanno in questi giorni scritto assai bene su questo giornale Nadia Urbinati e Giuseppe D´Avanzo.
Non giriamo la testa dall´altra parte. Quel che è appena accaduto, e si sta consolidando, riguarda davvero "l´autobiografia della nazione". Non riesco a sottovalutare fatti che troppi si sforzano di considerare minori, che vengono confinati nel folklore, assolti da Berlusconi come simpatiche e innocue forzature del linguaggio da parte degli uomini della Lega. E invece dovremmo sapere (quanto è stato scritto su questo argomento?) che proprio il linguaggio è la prima e rivelatrice spia di mutamenti profondi che investono la società e la politica. L´elenco è lungo, e non riguarda solo la storia recentissima.
Si cominciò da pulpiti altissimi con l´aggressività verbale eretta a comunicazione politica quotidiana, considerata troppe volte come una simpatica bizzarria e dilagata poi in ogni possibile contenitore televisivo, sdoganando ogni becerume anche nei luoghi propriamente istituzionali. E il linguaggio non è solo quello verbale. Si sono fatte le corna nei vertici internazionali e si è mangiata mortadella in Senato, si continuano a disertare le manifestazioni del 25 aprile e si elegge il Bagaglino a rappresentante della cultura nazionale. Commentando il colpo di mano del Presidente della Commissione europea che ha tolto all´Italia le competenze in materia di libertà, sicurezza e giustizia, si è detto che è meglio così, che è preferibile occuparsi di trasporti piuttosto che di "omosessualità". Per fortuna non si è parlato di "culattoni", riprendendo il simpatico linguaggio della Lega: ma, di nuovo, il linguaggio è rivelatore, anche perché rende palese una cultura incapace di comprendere la dimensione dei diritti civili. Sempre scorrendo le cronache, scopriamo che il futuro Presidente della Camera dei deputati apostrofa, sempre simpaticamente, un immigrato come "paraculo" mentre si investe, non si sa a quale titolo, della funzione di controllo dei documenti. Di un futuro ministro leghista ci viene offerto un florilegio di citazioni su stranieri e immigrati, sulle sanzioni da applicare, che non ha nulla da invidiare ai suoi più noti ed estroversi colleghi di partito. Un bel ponte tra passato e futuro, una indicazione eloquente degli spiriti che nutrono la nuova maggioranza, all´interno della quale si fa sentire sempre più forte la voce di chi invoca la pena di morte, raccogliendo un consenso che rischia di vanificare il grande successo internazionale del nostro Paese come promotore della moratoria contro la pena di morte approvata dall´Onu.
Di fronte a tutto questo dobbiamo davvero ripetere che le parole sono pietre. Suscitano umori, li fanno sedimentare, li trasformano in consenso, ne fanno la componente profonda di un modello culturale inevitabilmente destinato ad influenzare le dinamiche politiche.
Parliamo chiaro. Una ventata razzista e forcaiola sta attraversando l´Italia, e rischia di consolidarsi. Ammettiamo pure che grandi siano le responsabilità della sinistra, nelle sue varie declinazioni, per non aver colto il bisogno di rassicurazione di persone e ceti, spaventati dalla criminalità "predatoria" e ancor più dall´insicurezza economica, vittime facili dei costruttori della "fabbrica della paura". Ma questa ammissione può forse diventare una assoluzione, un modo rassegnato di guardare alle cose senza riconoscerle per quello che davvero sono? La reazione può essere quella di chi alza le mani, si arrende culturalmente e politicamente e si consegna al modello messo a punto dagli altri, con un esercizio che vuol essere realista e, invece, è suicida? Doppiamente suicida, anzi. Perché non si compete efficacemente quando si parte dalla premessa che la ragione di fondo sta dall´altra parte: l´imitazione servile, in politica, non rende. E, soprattutto, perché si consoliderebbe proprio il modello che, in nome della civiltà, dev´essere rifiutato e combattuto. Le possibilità di ripresa delle forze di centrosinistra passa proprio dalla piena consapevolezza della necessità di una immediata messa a punto di una strategia diversa.
Aggiungo che vi è un elemento meno appariscente di quel modello che ha lavorato nel profondo, che può apparire meno insidioso e che, quindi, può non suscitare la reazione necessaria. Mi riferisco ad una idea di comunità chiusa, che coltiva distanza e ostilità; che spinge a chiudersi nei ghetti; che fomenta il conflitto tra i gruppi sociali contigui. Anche questa è una lunga storia, perché molte ed esemplari sono le "guerre tra poveri". Che non sono scongiurate elevando muri e neppure predicando una tolleranza che in questi anni si è trasformata in accettazione dell´altro alla sola condizione che faccia ciò che ci serve e che i nostri concittadini rifiutano, alle condizioni che imponiamo: e poi, esaurita questa funzione e calata la sera, quelle persone si allontanino sempre di più, isolandosi nelle loro comunità, lontani dagli occhi e, soprattutto, liberandoci da ogni inquietudine umana e sociale. Dobbiamo affrancarci dalle suggestioni del comunitarismo, che presero Tony Blair, solleticarono anche qualche politico della nostra sinistra e, ora, rischiano di tornare alla ribalta per chi si fa abbagliare dall´esempio leghista.
Di tutto questo non basta parlare. È questa diversa cultura, che ha tanto giocato anche nell´esito elettorale, a dover essere analizzata. Altrimenti, le considerazioni sui comportamenti elettorali rimarranno monche e le stesse proiezioni nella dimensione istituzionali saranno distorte. Non è solo un doveroso esercizio di pulizia intellettuale. Se si pensa che vi sono emergenze che devono essere fronteggiate con forte spirito politico, e il degrado culturale lo è al massimo grado, bisogna essere chiari e necessariamente polemici. Guai a dare una interpretazione del "dialogo" tra maggioranza e opposizione che induca a mettere tra parentesi le questioni più scottanti. Bisogna rendersi conto che ammiccamenti e tatticismi qui non servono a nulla, e dire alla maggioranza che in questa materia, davvero, non si può negoziare. Solo così può nascere una alleanza non strumentale tra politica e cultura, che investa anche schieramenti diversi; e, forse, qualche apertura per uscire da un clima che si è fatto irrespirabile.
Un piccolo, finale esercizio di relativismo culturale. Le cronache ci hanno parlato di un Tony Blair sorpreso senza biglietto sul treno tra l´aeroporto e Londra. Anche i nostri giornali hanno biasimato il fatto, riprendendo le giuste reazioni inglesi. Ma, da noi, doveva essere in primo luogo sottolineato come un potente ex primo ministro di una grande nazione non si servisse di auto di Stato. Questi sono i modelli culturali che ci piacciono.

Repubblica 28.4.08
La ricetta del leghista Gentilini "Fascismo e cattolicesimo"


ROMA - «Io applico il fascismo e il cattolicesimo». Giancarlo Gentilini, il vicesindaco leghista di Treviso, ha svelato al quotidiano spagnolo El Pais a chi s´è ispirato per realizzare la sua politica di «tolleranza zero» verso immigrati, nomadi, prostitute, gay, lavavetri, ambulanti e graffitari che gli ha meritato una certa fama a livello nazionale. Gentilini, che s´è vantato di essere lo «sceriffo d´Italia» (tempo fa propose «la pulizia etnica degli omosessuali»), ha ammesso di «aver imparato dal fascismo l´ordine e la disciplina», insegnamenti che poi «ha applicato durante i suoi due mandati da sindaco». «Fui educato alla mistica fascista - ha confessato - l´amore per il tricolore, le leggi e il prossimo». Il vicesindaco di Treviso, ricordando i suoi 9 anni al collegio San Pio X, ha spiegato di ispirarsi pure «alle leggi del cattolicesimo», rispettando «la religione di Stato ed eliminando gli intenti di costruire moschee». E quindi ha proclamato di «applicare il vangelo secondo Gentilini», ovvero «la tolleranza a doppio zero e il rispetto delle leggi». Dopo aver ricordato «di non essere xenofobo», ha subito precisato, però, di «odiare le prostitute», e di «non tollerare i nomadi».

Repubblica 28.4.08
Riccardo Muti: Io e Abbado
Il maestro italiano prepara per Salisburgo un'opera di Paisiello, seconda tappa del progetto sul '700 napoletano. E celebrerà in Austria il centenario della nascita del divo Karajan
"Porto in Europa il mito di Napoli capitale della musica"
di Leonetta Bentivoglio


Certe rivalità del genere Bartali-Coppi le hanno create fazioni esterne Abbiamo sempre avuto un cordiale rapporto e amiamo il lavoro con i giovani

Prova d´orchestra al Teatro Municipale di Piacenza per la "Cherubini" di Riccardo Muti: in scena giovani musicisti colorati, spettinati, scamiciati e ridenti; sul podio il maestro calza grandi scarpe da footing. La musica vola agile e tersa, così viva che sembra di respirarla. Il clima è di buonumore per più di un motivo. L´orchestra di formazione fondata da Muti ha appena meritato il Premio Abbiati, il più alto riconoscimento della critica musicale. Ed è in partenza per Salisburgo, dove l´attende la seconda tranche del progetto che Muti, al festival di Pentecoste, dedica all´opera del Settecento napoletano. Dopo il Cimarosa dell´anno scorso tocca al Paisiello de Il matrimonio inaspettato (9 maggio), opera buffa che il direttore definisce «fluida e spigliata, con orchestrazione leggera, belle arie, senso esatto dell´adesione della musica alla parola e libretto ricco di arguzia di Pietro Chiari. È un gioco di situazioni paradossali guidate da un testo ammiccante, con doppi sensi erotici come quelli dei libretti mozartiani. Spesso le opere dei compositori partenopei dell´epoca fanno pensare anche musicalmente a Mozart, che nel soggiorno a Napoli assorbì una mediterraneità tipica di quel mondo, da lui trasfusa nei suoi capolavori».
La messa in scena?
«Sarà di Andrea De Rosa, regista napoletano sensibile all´amalgama di estro, vivacità e malinconia che fa l´unicità di quel mondo musicale, e sa trasmettersi al pubblico internazionale. Sarà interessante anche l´oratorio di Johann Adolph Hasse che eseguiremo il 12 a Salisburgo. Musicista sassone che lavorò molto a Napoli, aveva una complessità bachiana e tinte scure che lo differenziano da un compositore d´immediatezza comunicativa come Scarlatti, di cui abbiamo proposto un oratorio nel 2007».
Progetti a lunga scadenza con Salisburgo?
«Grazie al successo dell´anno scorso si è deciso che il progetto sul Settecento napoletano, inizialmente concepito come triennale, durerà cinque anni. Nel 2009 faremo l´opera seria Demofoonte di Jommelli su libretto di Metastasio, che porteremo anche all´Opéra di Parigi. È un libretto importante, al punto che fu musicato da una settantina di compositori, tra cui Galuppi e Paisiello. Persino Mozart scrisse cinque arie sul Demofoonte di Metastasio».
Niente di tutto ciò arriverà a Napoli?
«Se ne sta parlando. Nel frattempo ho scelto Napoli come sede del Concerto per l´Europa che dirigerò con i Berliner Philharmoniker il primo maggio 2009. E in febbraio inaugurerò con un concerto il San Carlo dopo i mesi di chiusura per lavori alla sala e al palcoscenico».
Nel Festival di Salisburgo di quest´estate lei sarà il direttore d´orchestra più presente.
«Riprenderò il Flauto Magico e dirigerò un nuovo Otello con regia dell´inglese Stephen Langridge. E a metà agosto eseguirò il Requiem Tedesco di Brahms per commemorare Karajan, che ricorderò anche a Vienna con un concerto in giugno, per i cent´anni dalla nascita, dirigendo i Wiener nel Requiem di Verdi. Karajan è stato, con Furtwängler e a Toscanini, un pilastro musicale del Novecento».
Era anche un divo pieno di interessi commerciali, pronto a dare Salisburgo in pasto ai discografici...
«Divi non si diventa: si è. E Karajan lo era, come Toscanini. Figure strepitose per carisma, capaci di provocare grandi amori e forti avversioni. Quanto alle case discografiche, ancora oggi usano certi solisti plasmandoli secondo le loro esigenze. Karajan anticipò questo genere di modalità da par suo, cioè lasciandoci prodotti artistici di enorme valore».
In ottobre "presterà" la Cherubini ad Abbado per un concerto a Bologna. In molti hanno trovato sorprendente la vostra collaborazione.
«Abbiamo sempre avuto un rapporto cordiale tra colleghi. Certe assurde immagini di rivalità, tipo Bartali-Coppi, le hanno create gruppi esterni, fazioni di pubblico, e i giornali. D´altra parte si sa che negli anni della Scala provai più volte a invitare Abbado, anche con lettere rese pubbliche dalla stampa. Entrambi ci siamo tanto dedicati ai giovani, e sono sicuro che il lavoro insieme a lui sarà per la Cherubini un´esperienza molto arricchente».
Porterà l´Otello di Salisburgo all´Opera di Roma. Non teme la fama di sindacalizzazione di quel teatro? E perché debuttare proprio il 6 dicembre, a ridosso del Sant´Ambrogio alla Scala?
«Ho accettato l´invito dell´amico Veltroni, che a suo tempo mi chiese di dargli una mano e contribuire alla crescita del teatro. La data è pura coincidenza. Quello è il periodo delle inaugurazioni di tutti i teatri italiani. Mi sono sempre dedicato a un´opera in dicembre, fin dai miei inizi al Maggio Fiorentino. Ridicolo pensare a una mia azione riferita alla Scala. I 19 anni scaligeri sono stati meravigliosi, ma considero la Scala un capitolo definitivamente chiuso».
Ora che cambia il governo, torna a interrogarsi sui destini della cultura musicale? Secondo lei destra e sinistra hanno avuto atteggiamenti diversi nei confronti della musica?
«Certe scelte dipendono dalle persone, non dai partiti. Ci sono stati individui illuminati a destra e a sinistra. Certo non abbiamo avuto mai un ministro della cultura come Malraux. La situazione è stata altalenante, con ministri più o meni aperti, ma tutti si sono confrontati con lo stato di profonda ignoranza musicale del paese. Non si è capito che la musica non è un capriccio, ma un´esigenza basilare e un fondamento della costruzione di una società. In un´Italia che deve alla storia della musica gran parte della sua identità, i politici avrebbero l´obbligo morale di formare il popolo alla consapevolezza del nostro glorioso passato musicale. Il 17 maggio sarò a Firenze per con un concerto che celebra i quarant´anni del mio debutto al Maggio, e mi accorgo che da allora dico invano la stessa cosa».

Corriere della Sera 28.4.08
Retroscena Il ministro degli Esteri: aprire all'Udc, riallacciare con la sinistra
Pressing dalemiano su Walter: ora rompiamo con Di Pietro
di Maria Teresa Meli


ROMA — Non è sul risultato di Roma che Walter Veltroni si gioca il "posto di lavoro". Ma certamente con un successo il leader del Pd avrà maggiore possibilità di far valere la sua proposta sui capigruppo (riconferma di Finocchiaro e Soro fino al 2009) e di contrastare l'offensiva di chi vorrebbe vederlo disoccupato tra un annetto. E allora chissà se ieri anche il segretario del Partito democratico nutriva le stesse speranze dell'onorevole Renzo Lusetti. Il deputato pd per augurare la vittoria a Rutelli ha trasformato lo slogan veltroniano "yes we can", in «yes, week end», puntando sull'assenteismo del centrodestra, grazie al ponte lungo del 25 aprile.
Roma o non Roma, per Veltroni le difficoltà sono molte. Non c'è solo il problema dei capigruppo (di cui si parlerà oggi in un "caminetto", prima, e in un'assemblea dei parlamentari del Pd, dopo). Anche se quella è una grana non da poco. Infatti, se Bersani dovesse spuntarla, il segretario dovrebbe vedersela con Fassino, che aveva accettato la proposta di una riconferma "a tempo determinato" del tandem Soro-Finocchiaro. Ma se i giochi si riaprissero, difficilmente l'ex leader ds farebbe passare sotto silenzio il fatto di non essere stato nemmeno preso in considerazione per il posto di capogruppo. In questo caso solo la vicepresidenza del Senato a Fassino eviterebbe ulteriori tensioni.
Ma capigruppo a parte, in gioco è la strategia di Veltroni, giudicata fallimentare da una parte del Pd. Quel che Fassino dice con pacatezza («Bisogna discutere seriamente per ricostruire la strategia del Pd»), altri ripetono con parole e toni assai più duri. Intanto i dalemiani già all'inizio di questa settimana sferreranno un'offensiva per mettere in dubbio l'opportunità dell'alleanza con il movimento di Antonio Di Pietro. Secondo quest'area del Pd, infatti, il rapporto con l'ex pubblico ministero di Mani Pulite mette a repentaglio la costruzione di un canale di comunicazione con l'Udc. Del resto, è stato lo stesso Di Pietro a dire all'Espresso che non intende certo collaborare con tutti gli esponenti del partito di Casini. E se il Pd la pensasse diversamente, ha aggiunto, questo «sarebbe un colpo mortale per la nostra alleanza».
Ed è sul rapporto con l'Udc (e non solo) che si basa la strategia di Massimo D'Alema. Il che spiega perché certi suoi sostenitori vogliano rompere l'alleanza con Di Pietro. Senza contare il fatto che i "fans" del ministro degli Esteri sono anche convinti che Italia dei Valori abbia preso tutti quei voti grazie all'accordo elettorale stretto con il Pd. Se si fosse presentata da sola, invece, avrebbe ottenuto minori consensi e, magari, com'è capitato ad altre forze, non avrebbe avuto neanche un rappresentante in Parlamento.
Questi sono i discorsi dei dalemiani, naturalmente, perché il leader, invece, guarda ben più in là, al futuro e alle nuove possibili strategie politiche. Il ragionamento che va facendo in questi giorni il ministro degli Esteri è questo: siamo stretti, non abbiamo abbastanza spazio per tessere nuove alleanze e invece è proprio quello che dovremmo fare, con l'Udc, ma sarebbe il caso di riallacciare i rapporti anche con la sinistra. Quella di D'Alema non sarà una critica esplicita alla gestione della linea politica del Pd veltroniano, ma poco ci manca...
Dire che la situazione del Partito democratico è complicata è quindi un eufemismo. Come se non bastasse, i radicali sono in agitazione. Non si sono ancora iscritti al gruppo unico con il Pd (e chissà se Veltroni, per evitare altri guai, non preferisca la loro non adesione). In più nella campagna elettorale romana si sono distinti dal Partito democratico. Lo hanno fatto con un'intervista della segretaria Rita Bernardini al "Secolo d'Italia" in cui si definiva «profondamente sbagliata» la criminalizzazione fatta dal Pd ai danni di Gianni Alemanno e del suo passato fascista.
Insomma, i problemi sembrano affastellarsi l'uno sull'altro. E Veltroni, di fronte all'offensiva dei suo avversari interni, dovrà decidere se siglare l'armistizio con D'Alema o andare allo scontro.

Corriere della Sera 28.4.08
Soldato fa causa all'esercito «Discriminato perché ateo»
Organizzava in Iraq assemblee di «liberi pensatori»
di Michele Farina


Jeremy Hall sostiene che la sua libertà di cittadino, sancita dal Primo Emendamento, è stata violata

Il maggiore Welborn li beccò nel luglio 2007. Nella calura di Camp Speicher, vicino a Tikrit, alcuni soldati «tramavano» contro la Costituzione.
Volevano disertare? Avevano ammazzato civili a sangue freddo? No. Quei soldati prendevano parte a una riunione dell' «Associazione liberi pensatori non credenti». L'ufficiale li attaccò: «La gente come voi non rispetta la Costituzione e va contro a quello che i Padri Fondatori, che erano cristiani, volevano per l'America». Welborn minacciò i soldati di stroncargli la carriera.
Il soldato scelto Jeremy Hall, 23 anni, ha raccontato tutto in una dichiarazione giurata presso una corte federale del Kansas. Ispiratore di quella riunione di atei, Hall ha fatto causa al ministero della Difesa perché ritiene che la sua libertà, sancita dal Primo Emendamento della Costituzione, è stata violata. Dopo lo scontro con il maggiore, Hall dice di aver ricevuto minacce da diversi soldati. Nel novembre 2007 è stato rimpatriato, ora presta servizio a Fort Riley dove un sergente recentemente lo ha affrontato senza motivo («ti spacco la faccia»).
La storia del soldato ateo, raccontata dal New York Times,
può far sorridere di fronte ai 4.000 americani caduti in Iraq. Jeremy Hall è tornato vivo. Ma il suo caso, secondo la «Fondazione per la libertà religiosa nelle Forze Armate» (Mrff), è preoccupante e non isolato. Il Pentagono minimizza: dal 2005 a oggi 50 denunce ufficiali per discriminazione religiosa su oltre un milione di militari in servizio. Mikey Weinstein, il giudice dell'Air Force in pensione che ha fondato l'Mrff, ribatte che le statistiche ufficiali non tengono conto di quanti evitano le denunce per paura. «Più di 5.500 soldati ci hanno contattato a partire dal 2004, quando scoppiò lo scandalo nell'Air Force». Allora i cadetti dell'Accademia protestarono perché gli ufficiali, evangelici «cristiani rinati» come il presidente Bush, «usavano la loro posizione per fare proselitismo». L'Air Force emanò nuove regole per limitare questo fenomeno. Con scarsi risultati, dice Weinstein al New York Times: «Alla fine, quelli che ti promuovono sono i superiori che ti invitano a pregare». E se non preghi possono essere guai. E' l'accusa del soldato Hall. Cristiano battista della Carolina, si arruola e va Bagdad «perché pensava che Dio fosse con noi». Ci ripensa. Si avvicina all'ateismo. Torna in Iraq nel 2006. In mensa, il giorno del Ringraziamento, qualcuno invita alla preghiera. Jeremy dice al sergente che è ateo. Lui s'infuria, Jeremy deve cambiare tavolo. L'estate successiva c'è lo scontrò con il maggiore Welborn. Che oggi è lapidario: «Storia falsa». Ma Timothy Feary, un altro militare che andò all'incontro dei «liberi pensatori», è pronto a testimoniare: «Jeremy dice la verità».

Corriere della Sera 28.4.08
Una nuova sintesi tra emozione e ragione. La lettura tradizionale dell'assoluzione del matricida Oreste e l'esempio del Sudafrica
Il mito che cancella la giustizia maschile
Dalla tragedia classica di Clitennestra l'idea di un diritto in grado di riconciliare uomini e donne
di Eva Cantarella


Crudele, infida, violenta, adultera e assassina: il prototipo dell'infamia femminile. Questa era la fama di Clitennestra presso i greci, consolidata nei secoli dalla messa in scena, ad Atene, nel 458 a.C., dell'Orestea di Eschilo.
La storia è nota: nell'Agamennone,laprima tragedia della trilogia, Clitennestra, durante l'assenza del marito, diventa l'amante di Egisto, e quando Agamennone torna da Troia lo uccide, con la complicità dell'amante. Nella seconda, le Coefore, suo figlio Oreste ordisce, con la sorella Elettra, il piano per uccidere la madre ed Egisto. Nella terza, le Eumenidi, dopo aver realizzato il piano, Oreste è inseguito dalle mostruose Erinni, incitate dallo spettro di Clitennestra, assetato di vendetta. Per risolvere il caso, la dea Atena istituisce il primo tribunale della storia ateniese, l'Areopago, incaricato di giudicarlo: l'era della vendetta è finita per sempre, è nato il mondo del diritto.
Torniamo a Clitennestra: nelle riletture moderne, è molto diversa dall'immagine che i greci ci hanno tramandato. Per le femministe è una donna indomita, dignitosa, capace di opporsi all'infelicità cui le donne sono condannate in quella polis che un grande antichista ha definito «un club di uomini». E a partire dalla sua storia si pongono due domande: continua a esistere, oggi, la violenza di genere che arma la mano di Clitennestra? Quali sono i possibili obiettivi di una politica di riconversione del rapporto uomo/donna? Ma per capire perché Clitennestra diventa il personaggio attorno al quale si organizzano queste riflessioni è necessario andare oltre la sua morte, e seguire gli esiti del processo di Oreste.
La prima sentenza dell'Areopago, infatti, afferma un principio destinato a segnare per secoli il rapporto fra generi: Oreste viene assolto perché «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...».
Inserita nel lungo dibattito greco sulla riproduzione, l'ipotesi del ruolo secondario della madre viene ribadita da Aristotele, al quale dobbiamo una teoria sulla riproduzione che codifica, su basi scientifiche, l'identificazione della donna con la materia e dell'uomo con lo spirito. Anche le donne, spiega Aristotele, hanno un ruolo nella riproduzione: accanto allo sperma, alla formazione dell'embrione concorre il sangue mestruale, ma con un ruolo diverso. Lo sperma è sangue, come quello mestruale, ma più elaborato. Il sangue altro non è che il cibo non espulso dall'organismo, trasformato dal calore: ma la donna, meno calda dell'uomo, non può compiere l'ultima trasformazione, che dà luogo allo sperma. Nella riproduzione, dunque, è il seme maschile che «cuoce» il residuo femminile, trasformandolo in un nuovo essere. Anche se indispensabile, pertanto, il contributo femminile è quello della materia, per sua natura passiva; l'apporto maschile invece è quello dello spirito, attivo e creativo. In Aristotele, insomma, troviamo una teoria delle differenza tra generi destinata a durare per secoli, che traduce la «differenza» in inferiorità: ecco perché la storia di Clitennestra è l'archetipo che consente meglio di ogni altro di interrogarsi sul rapporto uomo/donna. Nel mito in cui la sua storia è inserita la teorizzazione della inferiorità e subalternità femminile è parte integrante ed essenziale del processo che porta alla nascita del diritto e dello Stato.
E veniamo così alle Clitennestre moderne. Le loro storie non sono meno drammatiche di quelle dell'archetipo. Penso a due esempi molto diversi fra loro, e lontani nel tempo: la Clitennestra di Dacia Maraini ( I sogni di Clitennestra, Bompiani 1981) ha perso la forza di ribellarsi, e finisce in un manicomio: la follia, spiega l'autrice in un'intervista del 1984, è la conseguenza della impossibilità delle donne di adattarsi a un mondo che non è fatto per loro. La Clitennestra di Valeria Parrella ( Il verdetto, Bompiani 2007) è vittima-complice di Agamennone, senza speranza alcuna di salvezza: versando il sangue del marito, dichiara, ha versato il suo stesso sangue. Danno molto a pensare, queste Clitennestre, e varrebbe la pena discuterne. Ma ragioni di spazio costringono a rinunziarvi per seguire il discorso sulle strategie di riconversione del rapporto. Oltre alle riflessioni femministe (prevalentemente orientate verso ipotesi di tipo conciliatorio), è importante ricordare alcune recenti riflessioni sul diritto. Lo abbiamo già detto, nell'Orestea la nascita del diritto è legata alla sconfitta della parte femminile e dunque emotiva del mondo. Ma recentemente l'idea che il diritto sia e debba essere solo ragione è stato messo in discussione anche da alcuni giuristi. Osserva ad esempio un esponente di spicco del movimento Law and literature, Paul Gewirtz, che indiscutibilmente, nell'Orestea, le forze della vendetta sono donne (Clitennestra, e le Erinni) mentre il diritto nascente è rappresentato da uomini (Apollo e i giudici, cui si aggiunge Atena, donna-uomo senza madre e senza marito). Ma nella parte finale delle Eumenidi le Erinni, sconfitte, rinunziano al loro lato sanguinario e accettano di entrare nel sistema giudiziario, svolgendovi un ruolo: è la conciliazione dei generi sul piano del diritto. L'interpretazione secondo la quale l'assoluzione di Oreste segna la sconfitta della parte femminile del mondo è da rivedere. Il diritto non può essere solo ragione: per essere giusto, deve dare spazio alle emozioni.
Con le dovute differenze, questa visione del diritto fa pensare al ruolo assegnato alle emozioni dalla «restorative justice», la teoria di una giustizia «riparativa» emersa negli anni Novanta e teorizzata da politici, accademici, lavoratori sociali, gruppi religiosi e nuove figure professionali dette «mediatori di giustizia». Schematizzando all'estremo, per la giustizia riparativa la funzione del diritto è promuovere la riconciliazione tra chi ha commesso e chi ha subito un torto. Per chiarire il concetto può essere utile ricordare che il caso più noto di giustizia riparativa è l'azione della Truth and Reconciliation Commission guidata da Desmond Tutu, incaricata di riportare l'ordine e la riconciliazione nello Stato Sudafricano. E uno degli aspetti fondamentali di questa giustizia è la considerazione data a temi quali le emozioni, negli ultimi anni sempre più al centro delle riflessioni da parte di tutti gli scienziati sociali. Nel 2002, ad esempio, è stato dedicato a questi temi un numero speciale di Theoretical Criminology, ove si legge, tra l'altro, che «per avere un dibattito più razionale sulla giustizia, dobbiamo paradossalmente prestare più attenzione alla loro dimensione emozionale ». Infine, parlando di emozioni, è impossibile non ricordare le indagini a cavallo tra diritto e filosofia di Martha Nussbaum, cui si debbono libri celebri come L'intelligenza delle emozioni (Il Mulino): per comprendere la realtà e per comprendere se stessi, dice Nussbaum, non basta la ragione. Emozioni come l'amore, l'ansia, la vergogna, hanno un ruolo etico nella costruzione della vita sociale, e contribuiscono alla elaborazione di una concezione normativa nella quale le persone sono intese non come mezzi, ma come fini e come agenti.
Rileggendo la storia di Clitennestra, si arriva non solo a mettere in discussione l'opposizione donna-emozione /uomo-ragione. Si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all'interno di nuovi rapporti sociali e politici. Si può arrivare persino a sognare una cultura i cui valori possono cancellare per sempre la necessità della scure.

Corriere della Sera 28.4.08
Riflessioni su pensiero e tecnica
Severino e i valori dell'Occidente
di Leonardo Messinese


La lezione di Parmenide e il confronto con Gentile e Leopardi

Nel suo scritto sul «Corriere» («La filosofia salverà l'Europa », 6 aprile 2008) Emanuele Severino osserva che è «l'essenza del pensiero filosofico» a mostrare come il dispiegamento della «massima potenza» non sia più nelle mani di un «Dio eterno», ma in quelle della scienza e della tecnica. In un precedente intervento («Platone la Tecnica e il Mondo Globale», 22 marzo 2008), egli aveva rilevato che risulta vano appellarsi all'uno o all'altro dei «valori eterni» della civiltà occidentale per assicurare all'Europa la sua «salvezza ». Molto spesso gli scritti politico-culturali di Severino, isolati dal loro contesto teorico-fondativo, corrono il rischio di non essere adeguatamente compresi, mentre quel contesto è di primaria importanza. Propongo due riflessioni.
Quando Severino sottolinea l'estrema «rigorosità» presente nella «distruzione degli immutabili» operata dalla filosofia contemporanea — si pensi a Gentile, a Nietzsche e a Leopardi — non deve essere equivocato. Tale maggiore «verità» è soltanto la maggiore coerenza nell'«errore» che è comune agli «abitatori del tempo», i quali ritengono che sia evidente il «divenire» delle cose. Inoltre, il richiamo a non rapportarsi «ingenuamente» nei confronti della filosofia contemporanea, quando si intende discutere e affrontare praticamente i problemi attuali, in Severino, è accompagnato dall'avvertenza di non lasciare che i «conti della filosofia » siano eseguiti al di fuori della filosofia medesima. La questione essenziale, perciò, riguarda la determinazione del sapere metafisico fondamentale.
Osservo: mentre nella sua opera fondamentale del 1958, La struttura originaria, in nome della «verità dell'essere » era affermata la trascendenza di Dio e la creazione del mondo, a partire dagli scritti raccolti in Essenza del nichilismo (1972), fino al recente Oltrepassare (Adelphi, 2007), tale verità è stata declinata da Severino quale critica della metafisica e dell'antropologia occidentale e anche di quella «cupido mortis » presente in modo sotterraneo nell'agire degli uomini, nel loro affannarsi a «costruire » il mondo e la storia, nel loro preoccuparsi della «salvezza» mondana o della «salvezza eterna». Alla radice di tutto questo vi è la convinzione che ogni cosa nasca e muoia, che l'uomo stesso sia costituito di una natura mortale, che lo spinge ad allontanare da sé, mediante un «fare » artigiano, l'ora della morte.
Ci si deve chiedere: la «verità dell'essere» implica una critica così radicale dell'intera vicenda dei pensieri e delle opere dell'uomo «metafisico »? E, inoltre, qual è l'autentico rapporto di Severino con la tradizione occidentale? In effetti, il suo pensiero si mantiene all'interno dell'eredità della metafisica, per il persistere di una certa dimensione di «trascendenza», che lo distingue da quel superiore e assoluto «empirismo» costituito dall'attualismo immanentista di Giovanni Gentile. Più precisamente, a partire dalla «svolta» inaugurata da Ritornare a Parmenide (1964), Severino afferma una «differenza ontologica» tra l'essere e gli enti nella quale può essere colta una corrispondenza con la «differenza metafisica» tra Dio e il mondo. Si tratta di calibrare, quindi, il significato della «trascendenza » che caratterizza la seconda fase del pensiero severiniano. La «svolta» consiste nel venir meno della «trascendenza» in senso pienamente metafisico, cosicché Dio non è più l'Essere assoluto che crea liberamente il mondo. Nel successivo sviluppo, «dio» è divenuto per Severino la stessa totalità degli enti in quanto se ne sta fuori dell'apparire e, il «mondo », questa stessa totalità di enti in quanto si manifesta.
La discussione con Severino non dovrà mettere in dubbio il valore del Principio di Parmenide, ma dovrà riguardare gli sviluppi di quel Principio, che hanno portato il filosofo a negare la trascendenza metafisica dell'Essere assoluto, a «divinizzare» gli enti del mondo e a giudicare illusoria la fede cristiana sia nella sua dimensione «formale» di fede, sia nei «contenuti» offerti dalla Rivelazione. Tale discussione è di non poco conto, sia per la filosofia, che per la fede cristiana, ma anche per l'interpretazione del corso storico del pensiero occidentale.