mercoledì 30 aprile 2008

l’Unità 29.4.08
Tutti in piazza, per il lavoro e la sicurezza
di Laura Matteucci


FESTA«Più reddito, più sicurezza». È centrato sulla sicurezza nei luoghi di lavoro il Primo Maggio di quest’anno, passerà per Ravenna con la manifestazione nazionale, e sarà anche il primo giorno di otto mesi di campagna straordinaria e unitaria di sensibilizzazione su sicurezza e diritti dei lavoratori. Ravenna perchè teatro della più drammatica tragedia del dopoguerra: la morte di 13 operai tra i 18 e i 60 anni all’interno del cantiere navale Mecnavi, il 13 marzo 1987. Quella nave, la «Elisabetta Montanari», ferma per lavori, si trasformò in un momento in una trappola: un incendio divampato nella stiva colse di sorpresa e uccise di asfissia gli operai che stavano lavorando in cunicoli alti appena una novantina di centimetri, nei quali si potevano muovere solo strisciando. Uomini ridotti a topi, come disse allora in una dura omelia l’arcivescovo Ersilio Tonini.
La situazione, oggi, non è migliore: 1.300 morti l’anno, 1 milione di infortuni, cifre penosamente stabili. Mentre il «Testo unico sulla sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro», ultima eredità del governo Prodi, ancora non è stato applicato e già Confindustria, in questo alleata del nuovo governo, pensa di modificarne interi passaggi. Dalla Cgil risponde il segretario confederale Fulvio Fammoni: «Non possiamo certo permetterci fasi di incertezza. Il Testo va applicato il prima possibile. Se qualcosa non funziona, se ne discuterà dopo l’applicazione».
E poi, i temi dei salari e del fisco, anch’essi drammaticamente attuali. Saranno più di cento le manifestazioni per la Festa del Lavoro anno 2008, a Ravenna quella nazionale: alle 9,45 partiranno due cortei, da piazzale Baracca e dalla zona stadio, che si snoderanno fino ai giardini pubblici. E proprio dal palco ai giardini alle 11,30 prenderanno la parola i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti.
La festa del Primo Maggio sarà all’insegna dell’unità sindacale, lo dice Fammoni, lo ribadisce Angeletti («saremo compatti»), lo conferma Bonanni «a dispetto dei profeti di sventura, appollaiati sui rami secchi di un Paese che vuole invece rinverdire, anche attraverso la concertazione». «Sarà davvero unitario», aggiunge il leader Cisl scagliandosi anche contro «lobby e circoli esclusivi» che remano contro il sindacato. Sugli attacchi più recenti interviene anche Fammoni: «Veniamo accusati di non essere rappresentativi. Ebbene, noi chiediamo regole precise, una certificazione della rappresentanza presso il Cnel o l’Inps per i pensionati, e su questa base avvieremo una vera discussione». Questo, insieme alla riforma della contrattazione, i primi temi che il sindacato metterà sul tappeto della legislatura prossima ventura.
Per la Cgil, Fammoni sarà a Salerno, Mauro Guzzonato a La Spezia, Maurigia Maulucci ad Empoli, Nicoletta Rocchi a Cerignola. Oltre cento città tra feste e cortei, si diceva. A Torino, teatro di un’altra tragedia recente, quella della ThyssenKrupp, sfileranno anche diversi esponenti del centrosinistra, per il Pd Piero Fassino e Luciano Violante, e poi l’ex ministro Paolo Ferrero, Diliberto e Bertinotti.
La Fillea, la categoria Cgil degli edili, porterà uno striscione che raffigura un muro con in rilievo gli elmetti e, su ogni mattone, il nome e l’età (tra i 17 e i 68 anni) dei 37 morti sul lavoro in provincia di Torino solo fra il 2007 e i primi mesi del 2008.
A Milano, oltre al tradizionale corteo, in programma un pomeriggio di divertimento, tra musica, animazione, solidarietà e cibo.
In Toscana sono previste 54 iniziative, cortei e comizi, e anche feste popolari e concerti. Corteo dall’Electrolux al parco fluviale di Lastra a Signa (Firenze) per ricordare la crisi industriale, con ritrovo alle 9,45 davanti ai cancelli dello stabilimento, a Scandicci. Manifestazioni anche in tutta la Sicilia.

l’Unità 29.4.08
Sinistra democratica, che fare?
di Cesare Salvi e Massimo Villone


Dopo la pesante sconfitta del 13 e 14 aprile, è ineludibile la domanda: serve ancora Sinistra democratica? Noi pensiamo che possa servire, perché c’è in Italia uno spazio politico, sociale e culturale a sinistra del Pd, e perché in campagna elettorale i quadri e i militanti di Sd hanno mostrato di esserci, numerosi e combattivi. Per rilanciare l’iniziativa di Sd, bisogna però recuperare due elementi centrali nella nostra originaria proposta, - la cultura di governo e l’identità socialista - abbandonati nei successivi drammatici mesi, e bisogna dare una struttura, leggera e democratica, al nostro movimento.
Il 5 maggio dell’anno scorso parlammo (tra l’altro) di una «sinistra di governo». Questa non c’è stata nell’ultimo biennio, e non per nostra responsabilità. Sia ben chiaro, non parliamo di una sinistra che voglia governare ad ogni costo, e che subordini tutto alla conquista e al mantenimento del potere. Questa è stata la strada seguita dalla maggioranza dei Ds prima e dal Pd poi. Ha portato anche loro a una pesante sconfitta. Parliamo di una sinistra che parta dai suoi ideali e dai suoi valori, e da una cultura critica del mondo in cui viviamo. Ma che sappia tradurre gli uni e l’altra anzitutto nel radicamento nella società, in secondo luogo in concrete indicazioni per il cambiamento, infine in una credibile proposta politica, a partire dalle alleanze (politiche e sociali). E si ponga quindi l’obiettivo di costruire un nuovo centro-sinistra.
Seconda questione. Ci siamo chiamati «Sinistra democratica per il socialismo europeo». Ma la seconda parte del nostro nome è scomparsa. Va ripresa e rilanciata. Anche perché esiste in Italia un mondo socialista (una cultura politica, e un elettorato potenziale) certamente non limitato allo zero virgola qualcosa per cento. È possibile che affermare la nostra identità socialista ponga un problema a una parte delle forze con cui va costruito il nuovo partito della sinistra. Ma questa difficoltà non è una ragione sufficiente per rimuovere il tema. Anche perché sarebbe riduttivo chiamarsi socialisti solo per definire un’identità o un’appartenenza organizzativa. Socialismo oggi vuol dire porre il tema del governo, nei termini che abbiamo cercato prima di indicare sommariamente. Del resto, se stessimo in un altro paese europeo saremmo nel partito socialista di quel paese, e ne costituiremmo l’ala sinistra.
Infine, il percorso delle prossime settimane. Dobbiamo assumere scelte politiche di fondo, e le conseguenti iniziative nel Paese e verso gli altri partiti della sinistra; decidere il necessario rinnovamento del gruppo dirigente; assicurare la presenza nel territorio.
L’idea che sarebbe stato inutile, anzi dannoso, darsi un minimo di regole e di struttura (per evitare di fondare un nuovo «partitino») si è rivelata alla prova dei fatti un’illusione. L’illusione di avere più tempo, e l’illusione che comunque il nuovo soggetto politico della sinistra (unitario e plurale) era a portata di mano. Così non è stato e non è.
Per questo riteniamo che Sinistra democratica deve darsi da subito una struttura, leggera e democratica. Come farlo?
Fra le molte promesse mancate di Sinistra Democratica troviamo di certo quella di un nuovo modo di far politica. La critica alla riduzione oligarchica dei processi democratici, alla mancanza di partecipazione da parte di iscritti e militanti, alla assunzione di decisioni in sedi ristrette e poco trasparenti era stata per molti decisiva nella scelta di uscire dai Ds con l’ultimo congresso. Pensavamo che nel Pd non sarebbe andata meglio. Anche per questo abbiamo scelto un’altra strada. Ma quella che abbiamo preso non ha realizzato le speranze.
Pensiamo che, dopo la catastrofe del voto, la musica debba cambiare. Abbiamo affrontato una campagna elettorale difficilissima. Compagne e compagni in tutto il paese si sono battuti fino all’ultimo, per un risultato che diventava ogni giorno più difficile. Ora, dopo il terremoto, a loro dobbiamo rivolgerci perché indichino la strada da seguire e scelgano il nuovo gruppo dirigente.
Per questo non ci persuade l’idea di tornare al Comitato promotore, perché elegga un altro coordinatore, che formi una nuova presidenza, che apra un dibattito dai contorni e delle modalità imprecisate. Il Comitato promotore era ed è in buona parte diretta filiazione del congresso Ds. Doveva avere una funzione transitoria, e per questo il nostro Statuto provvisorio - consultabile sul sito - gli assegna esclusivamente il compito di «lanciare la fase di adesione al Movimento». Quella fase è alle nostre spalle. È giusto e corretto che a partecipare e a decidere le scelte di oggi siano le compagne e i compagni che oggi, qui ed ora, hanno fatto o confermato le loro scelte e sono scesi in campo.
Proponiamo un altro percorso per Sd. Un percorso innovativo, un pezzo di riforma della politica. Convocare al più presto assemblee territoriali, per esempio a livello provinciale, di tutte le compagne e i compagni che hanno aderito a Sd, hanno partecipato alla campagna elettorale, e intendono proseguire il loro impegno nel nostro Movimento. Assemblee aperte a tutti quelli che a sinistra volessero partecipare e contribuire. Assemblee che sarebbero per noi l’equivalente di una grande primaria democratica sul progetto, perché convocate per discutere di politica, e non per l’elezione plebiscitaria di un leader. E che, sulla base della discussione politica, eleggano i propri rappresentanti per una grande Assemblea nazionale chiamata a decidere, entro giugno, sulla linea politica e sul nuovo gruppo dirigente nazionale.
Noi e la sinistra abbiamo bisogno di cambiamento vero. E non possiamo consentirci altri errori. Il primo errore sarebbe non dare la parola, per decidere davvero, a tutti coloro che si sono guadagnati sul campo tale diritto.

l’Unità 29.4.08
Nella periferia povera che ha scelto Alemanno
Il tradimento di Tor Bella Monaca «Veltroni passi, ma Rutelli... »
di Toni Jop


E, scusi, sa anche dov’è la piazza? «Che piazza?», quella principale della zona, dove magari si va la domenica a mangiare le paste dolci. «Beh, duecento metri avanti, c’è una piazzetta...». Bugia: non c’è piazzetta, solo una stradona sporca degna di una Las Vegas abbandonata mille anni fa dalle case da gioco e dai papponi; ai lati, due quinte, molto Berlino Est, di palazzoni; a sinistra alti alti, a destra uno solo, basso e lungo lungo. Graffiato dalle ingiurie di un tempo ridicolmente breve, quello che serve per far sbracare una miscela di materiali poveri, la stessa che ha disegnato e degradato le nostre periferie battezzate in fretta e furia negli anni 60.A pian terreno, per due-trecento metri, negozi, scarpe a valanga, «liste di nozze», profumi, glabre boutique per bambini, bar al neon, gelaterie, scarpe, jeans, magliette, scarpe, ricambi per elettrodomestici e uno sciame pressocché immobile di pensionati in cento pose diverse sfiorati da signore e bimbi che fanno la spesa. Comprano soprattutto scarpe offerte dai banchetti, tanti, gestiti lungo la «main street» da una piccola comunità di marocchini che esercita di fronte alle vetrine di portapiedi made in Italy.
Questa è Tor Bella Monaca, la zona del «peccato»: niente sesso, almeno non visibile, qui la gente ha deciso di virare il rosso antico della rappresentanza politica in un nero denso di incognite e nel farlo ha voltato le spalle a Rutelli, che avrebbe dovuto battere senza patemi Alemanno il Breve e che, anche per questo tradimento, ha fallito. Ferma la gente e chiedile: è contenta di com’è andato il voto? Così bisogna fare.
Primo contatto, un pensionato, a lungo dipendente di Cinecittà, calabrese d’origine; cerco il cuore nero della pimpante destra di Tor Bella Monaca e il destino mi mette di fronte a uno che ha sempre votato a sinistra, a cominciare dal Pci, e che «voterà sempre a sinistra» perché «solo gli ignoranti votano a destra». Lo lascio perdere perché è «in linea» con la tradizione sbeffeggiata? Ma lui macina pensieri interessanti: «Ce l’ho a morte con tutti, con i miei del quartiere che hanno votato Alemanno e Berlusconi, non sanno quel che fanno. Ma qui è come vedi, qui il lavoro non c’è ma hanno messo in piedi un sistema di protezione per gli immigrati che nemmeno noi abbiamo. E gli zingari che rubano finiscono dentro e poi tornano fuori in due giorni. Se sei ignorante, se sai poco delle cose del mondo prima o poi voti per quelli, così hanno fatto, anche te, disgraziato, hai votato per loro...», ma non parla con me, sta dicendo a un suo conoscente che ondeggia a un paio di metri, fuori dalle serranda di un bar. «Te», confessa, non ha votato per niente.
Ha una storia da raccontare: «Mio padre aveva una trentina di tessere del Pci. Io devo andare a lavorare, mi porta da quelli del Pci e chiede: bisogna sistemare questo ragazzo. Gli rispondono: spiacenti, compagno, noi non facciamo queste cose. Vado da uno della Dc, mi spiega: iscriviti subito al partito e giura che sei iscritto da dieci anni. Lo faccio: assunto. Tanti anni dopo devo andare in pensione, vado alla Cgil e chiedo: mi aiutate? Non si può fare, rispondono. Busso alla Cisl, dopo un mese ero in pensione. Tutta la vita fuori binario, chemmefrega di dare ancora il voto a qualcuno? La mia vita è stata: nessuno mi tolga la sedia da sotto il culo e così ho fatto. Mi dispiace per mio padre che ci credeva».
C’è un’altra storia di padri che si rivoltano nella tomba, qui a Tor Bella Monaca. Ecco una gentile proprietaria di un bar gentile, alla cassa, contenta di come sono andate le cose nell’urna. «Sempre stata berlusconiana, felicemente»; ci vuole un po’ a farle dire la verità, «veramente votavo a sinistra, di famiglia, sa. Poi ho capito e mi son detta: adesso basta, qua non succede niente di buono, Berlusconi promette e mi sta bene lui; nessuno conosce questo posto come me: ci sto dagli anni ‘50, non c’era niente». Le piace per via degli immigrati che «se ne devono andare»? «Sì. Troppi, non si sa più dove metterli, poveretti. Per esempio, ieri hanno fatto una retata, han portato via ai marocchini non sai quante scarpe - rieccole ndr -, poveracci. Non puoi farli entrare e poi togliergli le scarpe, sennò che fanno? Rubano, vendono droga...che cattiveria quella retata». Mi sfugge la logica, soffia forte il sentimento e la praxis si ingarbuglia. «Se mio padre sapesse cosa voto - sospira - ...soffrirebbe», tranquilla: lo facciamo noi al posto suo.
Due ragazze, morette e vivaci, stan tirando su una serranda, vestiario per bimbi. Contente? «Sììììì!» «Hanno vinto i nostri, li abbiamo votati», brave, ma ditemi una cosa buona fatta da Berlusconi che la sinistra non ha mai fatto...«Boh! Le nostre famiglie sono di destra, allora...», auguri. Bimba-con-gelato, mamma graziosa, nonna curata: tutto bene? «Per niente, abbiamo votato Veltroni tutte e due, però...», però? «Ho votato Veltroni, sì, chissà che resista, ma davanti alla scheda di Rutelli l’ho lasciata bianca, non ce l’ho fatta...», e perché? «Non potevo, non mi fido, è consumato, un po’ ruffiano, sbagliato. Lui, invece è contento», lui chi? Il marito è arrivato, un fan di Fini e Alemanno e spiega: «Fini e Veltroni sono due brave persone, gli altri son tutti dei rottinculo, pensano solo agli affari loro», anche Berlusconi pensa ai fatti suoi? «Certo. Ce la racconta ma pazienza, è simpatico». Questo conta: è simpatico soprattutto ai ragazzi. «Ho votato a sinistra, prima. Ma stavolta mi sono decisa per Berlusconi, dovrebbe pensare anche a noi che viviamo oltre il Raccordo, qua è troppo brutto, insicuro e gli altri non han fatto niente»: ventuno anni, lavora.
Fin qui, tutto bene, al di là del voto choc. Ma è sulla ringhiera dello stradone che non va bene: quattro, cinque ragazzetti chiusi nel cosmo di Tor Bella Monaca, duri e puri, nessun lavoro, ridono, lumano le pupe che passano, capelli rasati, volti indifesi e arroganti insieme che si scontrano con quei faccioni da Rotary appesi ai manifesti elettorali di una destra pasciuta e rubizza. «Nessuno di noi ha votato, non ce ne frega niente, ci dessero un lavoro e votiamo...». Possibile che non sappiate niente di politica? «E che dobbiamo sapere? Nessuno ci dice niente, ci spiega niente, ci spiegassero». Furbi? Da quella ringhiera al centro di Roma ci vuole più tempo che, con l’aereo, da Fiumicino a Tunisi. Ha ragione Verdone: non è più tempo di favole per le periferie. Ho rivolto a tutti una domanda standard: siete al corrente del fatto che Berlusconi ha definito «eroe» un pluriomicida di mafia? Nessuno lo sapeva. Qualcuno vuol parlare a questa gente?

l’Unità 29.4.08
Giornali rumeni: l’uomo di An ha vinto sulle nostre spalle


Le agenzie e i giornali di ieri in Romania hanno commentato la vittoria di Alemanno al Comune di Roma. «Alemanno ha conquistato i romani sulle spalle dei romeni», scrive il quotidiano Cotidianul on-line: «per la prima volta in 15 anni la sinistra perde il Comune di Roma e i delinquenti romeni sembrano aver avuto un’influenza importante in questa svolta». Riprendendo le dichiarazioni del ministro degli esteri in pectore Franco Frattini sull’obbligatorietà di «un reddito minimo di 900 euro al mese per una coppia di immigranti, pena l’espulsione», il quotidiano Gandul riporta anche la notizia sulll’arresto a Napoli del romeno Ion Elvis Nita mentre picchiava un bimbo, con l’accusa di riduzione in schiavitù, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Adevarul riporta l’intervista rilasciata da Alemanno a Il Giornale, in cui afferma che la priorità è espellere i delinquenti dalla capitale. Romania libera dice che «il nuovo sindaco di Roma promette misure severe perché non si ripeta più il caso Mailat».
I due giornali israeliani più diffusi sono allarmati. «Un fascista in testa» titola Yediot Ahronot, che ha scelto una immagine di Alemanno mentre saluta i sostenitori con un braccio teso. Maariv scrive che «La Destra ha riconquistato la capitale italiana» sottolinea che c’è timore tra i 18 mila ebrei romani e accompagna il servizio con due immagini: quella di Alemanno, circondato dai sostenitori, e quella di Benito Mussolini. Haaretz si limita a un trafiletto: «per la prima volta da 60 anni la Destra controlla Roma». Maariv precisa che il Rabbino Capo Riccardo di Segni ha un atteggiamento prudente e cheAlemanno ha annunciato la prossima costruzione di una nuova sinagoga.

l’Unità 29.4.08
Alemanno si mette l’elmetto «Caccerò 20mila nomadi»
Il neosindaco annuncia le prime mosse: armi ai vigili e via dalla città gli immigrati che hanno violato la legge
di Eduardo Di Blasi


SICUREZZA Gianni Alemanno, neosindaco di Roma, si insedierà ufficialmente in Campidoglio questo pomeriggio ma già ha chiaro quale sarà il segno del suo mandato. Ritiene di aver vinto per aver dato una risposta programmatica migliore sul tema della «sicurezza», ed è su quella che batte da subito. Annuncia che andrà a trovare il vedovo della signora Giovanna Reggiani, uccisa a Tor di Quinto da uno sbandato di nazionalità rumena, che terrà fede al proprio programma armando la polizia municipale, cacciando dalla città «20mila nomadi e immigrati» che abbiano violato la legge e i campi rom irregolari. Ritiene ancora indispensabile un «Commissario straordinario con poteri speciali». Al programma di Canale 5 condotto da Maurizio Belpietro annuncia anche una Commissione Attali: «Vorrei coinvolgere qualche tecnico, qualche personalità che rappresenti anche i tanti elettori di sinistra che mi hanno votato». È ancora la coda della campagna elettorale. Le promesse che devono rimanere a sedimentare mentre non si disbrigano le pratiche amministrative.
Il dato politico è un altro. Ieri, quando il deputato Alemanno è entrato nell’emiciclo di Montecitorio i colleghi del Pdl si sono alzati ad applaudirlo. Ecco. Secondo il «partito romano», che è un pezzo della spina dorsale di Alleanza Nazionale, è da qui che An deve partire per darsi un ruolo funzionale all’interno del Pdl e del «nuovo» governo del Paese.
Andrea Augello, senatore di An e coordinatore della campagna elettorale per il Campidoglio, questo ruolo lo immagina così: «Sul sindaco di Roma bisogna costruire un credibile reticolo di riferimento nel governo nazionale e nelle Commissioni. Le vite e i destini delle esperienze amministrative che vogliono avere una profondità e produrre conseguenze misurabili necessitano di un rapporto adeguato nel parlamento, nei presidenti di commissione e nell’esecutivo. Senza questo si rischia una vita grama tra l’incudine dell’opposizione e il martello del governo. Specialmente in tempi di finanziarie poco divertenti». Tradotto: An dovrebbe presidiare nel Governo e nel Parlamento i luoghi «sensibili» al governo della città di Roma. Evitando, si dirà, che la Lega possa ostacolarne l’azione.
Questo modello funzionale è indispensabile, a detta di Augello, anche nel tema che è stato il cuore della campagna vincente della destra: la sicurezza. Passata la campagna elettorale il senatore non ha timore di affermare: «Si ha un bel dire, ma se non entra nell’agenda del governo una pianificazione di obiettivi da perseguire, noi non siamo in grado nelle aree metropolitane di promettere alcunché. Certo il decreto nei primi cento giorni si può fare, ma poi i decreti vanno attuati, seguiti. E questo richiede un’azione costante, non episodica». Cita anche un dato ignoto ai più: «Nel mese successivo all’omicidio Reggiani, a Roma c’è stato un calo evidente dei reati. Mentre è aumentato nelle altre province laziali. Perché è successo questo? Perché si è creata una condizione di pressione psicologica per la quale i delinquenti si erano convinti che a Roma stesse per accadere non si sa bene quale evento repressivo, per cui sono scappati fuori città. Dopo un mesetto sono tornati». Insomma, la «vittoria epocale», An vuole farla pesare così all’interno delle istituzioni nazionali: «Noi dobbiamo capire che è successa una cosa che cambia la strategia dei prossimi cinque anni di governo. Il ruolo di An in questi cinque anni di governo è un ruolo fortemente vocato su Roma». La questione resta: An ha la forza di ottenere questo «governo verticale» su Roma? La vittoria nella Capitale può veramente funzionare da volano per il partito di Fini? «Dovrei rispondere di sì, anche se dico che se fino a oggi non ce l’ha avuto nessuno questa forza, evidentemente non si tratta di materia agevole», afferma Augello, che però, almeno una soluzione condivisa con il centrosinistra la propone: «Noi abbiamo avuto un problema a Roma, e cioè che c’è un “generone” politico amministrativo trasversale che è rappresentato spesso da terze e quarte file del vecchio pentapartito, che come Tarzan passano con una liana da una maggioranza all’altra... Forse la situazione migliorerebbe se si smettesse la contesa di questo prezioso materiale umano».

Repubblica 30.4.08
"Quei neri più a sinistra dei rossi così Roma ha scelto i fascio-comunisti"
Prima proletari, poi intruppati nel Msi, oggi sovrastati dalla destra vera di Bossi e Berlusconi
"Anche Alemanno è più a sinistra di Rutelli. Ma si salva solo se fedele alla sua tradizione"
di Francesco Erbani


I fascisti o ex fascisti li ha conosciuti bene. Uno, Accio Benassi, l´ha raccontato nel romanzo Il fasciocomunista, che Daniele Lucchetti ha portato sullo schermo intitolandolo Mio fratello è figlio unico. Accio è lui, Antonio Pennacchi, scrittore, iscritto al Msi e poi espulso nel ´68, approdato a Servire il Popolo, al Psi, alla Cgil, alla Uil, al Pci e poi di nuovo alla Cgil, ed espulso anche da lì. Si dichiara stalinista, leninista e marxista. «Alemanno non lo conosco, ma ho conosciuto quelli come lui, che per convenzione si chiamavano fascisti di sinistra».
Per esempio?
«Luciano Lanna, attuale direttore del Secolo d´Italia, Umberto Croppi, anche lui, come me, cacciato dal Msi».
Che tipo di fascisti erano?
«Erano gli eredi dell´anima rivoluzionaria del fascismo. Anima proletaria. Psicologia dei perdenti, quelli che non tradiscono la squadra, anche se vinta. Antiamericani, anticapitalisti. Le dico una cosa forte?».
Proviamo.
«Alemanno è più a sinistra di Rutelli».
Opinioni personali. Si spieghi meglio.
«Una delle mitologie coltivate in quegli ambienti era la bonifica delle paludi pontine attuata dal fascismo. Che modificò i rapporti di classe, avviò riforme strutturali nel mondo contadino. Poi quei ragazzi si intrupparono nel Msi e la linfa si esaurì».
Lo racconta nel Fasciocomunista. Dove c´è anche la storia, che lei giura vera, di Stefano Delle Chiaie che a Valle Giulia guidava i militanti di Avanguardia nazionale contro la polizia.
«Fu allora che il Msi impedì che fraternizzassimo con i rossi. O di qua o di là. E così nel partito si ritrovarono i fascisti conservatori e quelli rivoluzionari. Purtroppo il collante era alimentato dal fatto che la sinistra li relegò tutti insieme in un ghetto».
Accio Benassi, cioè Antonio Pennacchi, viene espulso allora.
«Sì, ed è la sua salvezza. Rischiava di diventare un terrorista».
Agli altri cosa succede?
«Molti restano nel Msi. Ma quando, anni dopo, Berlusconi fa uscire dal ghetto il partito di Fini, io speravo che il loro vitalismo riemergesse. E invece sono stati sovrastati dalla destra vera, Berlusconi stesso e Bossi. Posso parlare di Latina, la mia città?».
Dica.
«Negli anni 90 fu eletto sindaco Ajmone Finestra, soldato nella Rsi, vero fascista di sinistra. Finché ha governato da solo, ha governato bene. Al secondo mandato si è alleato con Forza Italia. Poi è arrivato Vincenzo Zaccheo, sempre An, che è stato peggio della peggiore Dc».
Che cosa ha fatto?
«Ha oltraggiato la sua storia. Sotto Piazza del Popolo, simbolo della Littoria fascista, vuol scavare un parcheggio».
È un consiglio per Alemanno?
«Alemanno si salva solo se resta fedele alla sua tradizione».

Repubblica 30.4.08
Cinecittà, così la borgata rossa ha voltato le spalle alla sinistra
Qui si rifugiavano i partigiani, qui i nazisti rastrellarono 917 uomini: la metà non tornò a casa. Ma lunedì in 19 seggi su 20 il postfascista Alemanno ha avuto la meglio su Rutelli
di Giuseppe D’Avanzo


C´erano due modi a Roma per farla in barba ai tedeschi durante la guerra. O ti rifugiavi in Vaticano o al Quadraro. I partigiani si nascondevano al Quadraro nelle vecchie cave di pozzolana o, meno precariamente, al Sanatorio Ramazzini. Si sentivano sicuri: in quelle strade non s´era mai visto un fascista, figurarsi un tedesco.
La convinzione durò fino alle 4 del mattino del 17 aprile del 1944. Per ordine di Herbert Kappler, gli uomini della Gestapo, delle SS, della Wehrmacht, della banda Koch sbarrarono ogni strada di accesso e di fuga. Rastrellarono 917 uomini e li deportarono in Germania. Solo la metà ritornò a casa. I morti del Quadraro, come i martiri delle Fosse Ardeatine, sono il passato non rimosso di Roma, le ragioni di un convinto antifascismo e in quella borgata – tra le palazzine liberty del primo novecento e le deformi lottizzazione urbanistiche degli anni ottanta – il ricordo vivo che ha sempre connesso l´esperienza dei contemporanei alle generazioni precedenti; una memoria collettiva che è diventata di generazione in generazione genius loci, identità, opzione politica. Fino a lunedì, quando il voto ha reciso il filo lungo e forte di quel passato storico e, nei venti seggi del Quadraro, il postfascista Gianni Alemanno l´ha avuta vinta in diciannove contro Rutelli.
Il successo ha clamorosamente trascinato verso destra l´intera municipalità – la X, Tuscolano, Cinecittà, Capannelle, IV Miglio, Appio Claudio, Romanina, Anagnina, Nuova Tor Vergata, 200 mila abitanti. Dove al primo turno "passava" il presidente del municipio Sandro Medici con quasi 59 mila voti, Rutelli si fermava a 55.379 contro i 42.787 di Alemanno. Al ballottaggio c´è stato un improvviso capovolgimento. Rutelli perde settemila voti, Alemanno ne guadagna quasi diecimila (51.409). Sandro Medici – un passato di direttore del Manifesto – dice: «Perdere qui replica la lontana, prima sconfitta della Quercia a Mirafiori a vantaggio di Forza Italia; duplica il voto operaio del Nord alla Lega. Se l´esito è lo stesso, i perché sono diversi». Il perché di Massimo Perifano, gelataio, è custodito in una sola parola: «Menzogna». Raccontavano, dice, di una Roma luci e paillettes; una città felice, allegra, che se la godeva. Una città serena, accogliente, solare, senza ombre e problemi. «Sì, magari qualche problemino presto risolvibile qui e là, ma nulla da impensierirsi. Bene, quelle parole ascoltate da queste borgate erano menzogne che non ingannavano nessuno. Che facevano soltanto incazzare, molto incazzare perché erano bugie che lasciavano capire come al Campidoglio non importasse nulla delle borgate; che non avevano bisogno di noi; che il nostro destino gli era indifferente; che potevano fare a meno di noi, di quel che pensavamo o soffrivamo o chiedevamo».
Il popolo di Roma sa essere entusiasta e appassionato. Risentito, se imbrogliato. Feroce, se pensi di trattarlo con sfrontatezza e arroganza. Le storie che si raccolgono a Cinecittà svelano «una superbia» che il voto ha voluto punire. Non è che qui non abbiano capito quale pensiero strategico ha convinto Walter Veltroni, nella sua seconda sindacatura, a convogliare gran parte delle risorse comunali e della legge "Roma Capitale" in grandi opere infrastrutturali come la linea C della metropolitana. Quel che non buttano giù è perché quell´ambizione ha dovuto riservare alle borgate soltanto negligenza, il progressivo abbandono dei servizi sociali, della piccola manutenzione. C´è qui il Parco degli Acquedotti. È bellissimo. Al centro c´è un laghetto. Lo si è lasciato inaridire. Sono stati eliminati gli orti abusivi. Si doveva riqualificare l´area. Non se n´è fatto nulla. Soltanto per sciatteria non si sono eliminate le buche nelle strade, le piccole discariche abusive «che anche soltanto in una sola notte ti appaiono davanti a casa». Non è stato ristrutturato quel rudere che doveva ospitare il centro anziani a Largo Spartaco. Per disattenzione non si sono completati i marciapiedi, non sono state aperte – e soltanto per stupidi intoppi burocratici, eliminabili con un atto di volontà – una decina di piccole opere già pronte, un sottopasso, una "bretella", un parcheggio, una scuola. Soltanto per disinteresse non si è voluto porre limite al degrado del terminal dell´Anagnina, come se il destino della città e l´abitare si potessero declinare soltanto con le categorie del simbolico, dell´immaginario, della comunicazione e queste fossero capaci di rendere invisibile la realtà. Ti ci accompagnano al terminal perché, dicono, «vedrai, non puoi immaginarlo». E non lo si può immaginare, infatti, quel suk.
Il piazzale della metro all´Anagnina è immenso come tre o quattro campi di calcio. Ospita il terminal dei bus delle linee cittadine (verso il centro), interprovinciali (Castelli), interregionali (Calabria), internazionali (Romania). I venditori ambulanti autorizzati dovrebbero essere soltanto quindici. Sono centinaia e centinaia e centinaia. Ogni settore merceologico ha il suo banco, piccolo o grandissimo. Ogni etnia, il suo angolo. Quando la domenica arriva sul piazzale il pullman da Timisoara, i rumeni fanno festa. Hanno a disposizione, quel giorno, anche il loro barbiere, un ristorante improvvisato, la musica, i bar e, dicono, «spesso bevono troppo e litigano». Quel piazzale era la porta di casa della borgata, l´uscio di un territorio circoscritto, riconoscibile. Con la sua umanità, i suoi odori nuovi e indefinibili, il suo disordine, le illegalità piccole e grandi, è diventato un vuoto che non ospita, che non si può abitare, un brulicante vuoto minaccioso che ha cancellato ogni significato accettato e comune nel dirsi «sono di Cinecittà, del Quadraro, del Tuscolano». La predicazione "buonista", l´inerzia ipocrita che lascia le cose così come sono – e soddisfatti soltanto chi non ne paga le conseguenze ogni giorno – produce qui furia, rabbia, la secrezione infausta di un´impotenza, la convinzione di non essere ascoltati, «di non contare nulla».
«La sinistra non ha le culture e il sapere per affrontare la percezione dell´insicurezza – ammette Sandro Medici – Qui non abbiamo grandi problemi di sicurezza nel senso che, se guardi le statistiche, vedrai che non ci sono criticità e i vecchi del quartiere ti spiegheranno che negli anni Ottanta, con la guerra tra la banda della Magliana e i napoletani, era molto più pericoloso girare di notte da queste parti. Voglio dire che non è minacciata l´incolumità delle persone, ma la loro familiarità con il luogo che abitano. Trovano la spazzatura davanti alla loro porta. Vedono gente che non conoscono. Sono invasi dal fumo dei fili di rame bruciati negli improvvisati campi rom. Questo spaesamento ha provocato l´incertezza e l´insoddisfazione che in Campidoglio non hanno voluto comprendere fino alla bocciatura di Rutelli, oggi. I municipi più popolosi ci hanno voltato le spalle e si sono rivolti a chi ha promesso sgomberi e deportazioni».
Messe così le cose, sembrerebbe che il peso della sconfitta della sinistra a Roma, in questa municipalità "rossa" per tradizione e convinzione, sia da scaricare per intero sulle spalle di Walter Veltroni, responsabile di aver dimenticato le borgate a vantaggio del glamour dei concerti al Colosseo, delle Feste del Cinema, della Città dello Spettacolo. Sarebbe un errore. Anche l´investitura di Rutelli, dicono, ha avuto il prezzo da scontare. Il come si è scelto quel nome. Il perché lo si è scelto. È parsa soltanto la mossa di un´oligarchia, la ricerca di un nuovo equilibrio all´interno di «una cricca di potere». Un altro segno che la distanza tra la politica e la società civile rende le scelte indipendenti dai gruppi sociali, dalle loro aspirazioni, dalle loro necessità o interessi. Il processo politico riproduce soltanto se stesso. Pensa di poter trascendere gli umori di chi vota, il sostegno attivo della società che pure rappresenta. Una filosofia del potere che, dicono, «non ha fatto i conti con il carattere e il temperamento del popolo di Roma che chiede di essere rispettato oltre che rappresentato, coinvolto e non soltanto usato e che, se non rispettato e coinvolto, ti liquida con un vaffanculo».
La prova è nei numeri. Se Alemanno, al Quadraro, ha sconfitto Rutelli diciannove a uno, Nicola Zingaretti, candidato della sinistra alle provinciali, ha battuto il suo avversario per venti a zero. Vuol dire, ti spiegano, che un´altra candidatura e un altro metodo avrebbero potuto anche attenuare gli errori del passato e ottenere con margini contenuti un altro mandato, un´altra fiducia. Sarà. Resta un ultimo argomento da mettere in piazza. Come è possibile che una borgata per storia e tradizione antifascista ha votato un postfascista? Le risposte che si raccolgono sono un coro: «Quei pregiudizi ideologici non contano più. Non funzionano. È roba del passato. Alemanno, un Alemanno ripulito, è apparso credibile, affidabile, concreto anche ai vecchi che, alla bocciofila del Quadraro, ancora possono raccontare quel 17 aprile del 1944».

Repubblica 30.4.08
Le uova della violenza
Esce oggi un saggio-testimonianza di Luigi Manconi. Un'idea del terrorismo
"Com'è potuto accadere", si chiede l'autore, "che sia venuto meno il principio dell'intangibilità della vita umana?"
di Simonetta Fiori


L´auspicio del libro è che si arrivi a una sorta di prescrizione politica del passato
Un articolo imbarazzante pubblicato su "Quaderni Piacentini"

È un tema rimosso, ricacciato nel fondo delle coscienze, liquidato soprattutto da coloro che ne furono corresponsabili. Forse una parte di sé inconfessabile, un vissuto tortuoso con il quale si fanno i conti privatamente, più difficile farne diario in pubblico, specie quando si ricoprono ruoli di responsabilità. È quel sentimento di prossimità al terrorismo che negli anni Settanta spinse parte del movimento e dell´opinione pubblica - se non ad aderire - a comprendere e giustificare il brigatismo rosso, una zona grigia impastata - se non di atti direttamente violenti - d´un´idea sbagliata di "violenza giusta". Il merito di questo nuovo libro di Luigi Manconi - Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 1970-2008 - è proprio quello di strappare il velo di reticenze che nel tempo è andato ispessendosi sul furore dei Settanta, anche se il taglio interpretativo e la proposta politica non mancheranno di far discutere (Rizzoli, pagg. 186, euro 18,50). Tanto più significativo appare l´intervento di Manconi, senatore dell´Ulivo per due legislature e sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi, quanto più colpisce a destra l´afasia di coloro i quali in quegli stessi anni civettarono con la violenza o ne furono rabbiosi artefici, una promiscuità mai dibattuta tra i dirigenti postfascisti di Alleanza Nazionale.
Altalenante tra saggio sociologico e testimonianza, la riflessione di Manconi appare segnata dal vissuto dell´autore, professore di Sociologia dei fenomeni politici presso l´Università Iulm di Milano e responsabile del servizio d´ordine di Lotta Continua nella stagione in cui venne ucciso Luigi Calabresi. Sull´approccio scientifico dei primi capitoli prevale ben presto l´autobiografia, con l´adozione della prima persona plurale e un´intonazione che non è certo rivendicativa – come potrebbe esserlo? – ma neppure sconfessione nitida, piuttosto un´accettazione "compassionevole" e "non indulgente" della propria personale dissociazione tra la vita di allora e quella di oggi. Quel che ne scaturisce – forse al di là delle stesse intenzioni dell´autore – è un saggio di riscatto generazionale, sintetizzabile nella massima di Joschka Fischer, l´ex ministro tedesco finito sotto accusa per aver ospitato in casa negli anni Settanta terroristi armati della Raf (inchiesta conclusa con un´archiviazione): «Questa è la mia biografia, questo sono io. Senza di essa sarei qualcun altro (e non mi piacerebbe per nulla)». Con quali costi per la collettività è sottinteso.
La tesi del libro è che il terrorismo sia tuttora dentro la società italiana, seppure in dimensioni assai ridotte e in condizioni diversificate rispetto alla matrice brigatista di quarant´anni fa. In nessun´altra democrazia occidentale il fenomeno è durato così a lungo, con tale intensità di potenza militare e con altrettante vittime. Questa offerta terroristica che corre ancora sottotraccia presenta significativi elementi di continuità rispetto alle vecchie Br, anche grazie al persistere di subculture di sinistra e di un alto tasso di ideologizzazione del senso comune che induce perfino le tifoserie calcistiche a ricavare simboli e legittimità dai codici della politica. Compito delle classi dirigenti è disinnescare "questa indistinta disponibilità alla violenza" intervenendo là dove prevalgono l´esclusione e la precarietà de lavoro. Ma accanto a questo c´è un altro lavoro da compiere, forse ancora più arduo: fare definitivamente i conti con gli anni di piombo, con quello "scialo di morte" che trentacinque anni fa precipitò nella notte la democrazia italiana. Una riflessione mancata, impedita da reticenze o semplificazioni, paure e ipocrisie. Un bilancio difficile e doloroso, al quale ha contribuito di recente l´importante libro di Mario Calabresi, accolto dall´autore come un notevole passo in avanti nella "testimonianza civile" e nel "monito morale". «Alla tragedia del terrorismo», scrive Manconi, «s´è sommata la tragedia culturale dell´incapacità di "comprenderlo" e "pensarlo"». Forse anche di assumersene la responsabilità.
In Terroristi italiani Manconi si fa carico della sua parte, quella della generazione che è approdata alla democrazia attraverso un tirocinio assai poco democratico. Spietate ed efficaci le pagine in cui viene descritta l´euforia collettiva che al principio degli anni Settanta azzerò ogni forma di ritrosia morale e autocontrollo, l´impetuosa scelta della violenza come forma di lotta, l´adozione di modelli marziali e virilisti, l´icona di Che Guevara e dell´epopea guerrigliera declinata con il gappismo resistenziale, quel mito della Resistenza tradita denunziato di recente dal presidente Napolitano. «Com´è potuto accadere che per migliaia di giovani uomini e donne», si domanda Manconi, «sia venuto meno il principio della intangibilità della vita umana?».
Eppure quel valore assoluto venne sciaguratamente ridimensionato, la "violenza giusta" teorizzata e spesso praticata, la violazione della legge sempre legittimata. Ma era proprio necessario che andasse così? Secondo la storica Anna Bravo, ex militante di Lotta Continua ed autrice di A colpi di cuore, le cose potevano andare anche diversamente. La violenza fu una scelta, non il risultato di un processo ineludibile. Fu una scelta di pochi, accecati da una tradizione combattentista maschile.
Manconi non evita il confronto con la propria storia complicata. «In quegli anni», scrive, «militai nell´organizzazione Lotta Continua: conobbi direttamente, e direttamente ne feci esperienza e ne fui corresponsabile, quell´intreccio tra mezzi legali, extralegali e illegali, e quel crinale tra uso della forza a carattere difensivo e uso della forza con finalità offensiva. A distanza di quasi quarant´anni, la cosa mi viene frequentemente ricordata e rimproverata. Nello stesso periodo scrissi e discussi con altri militanti un articolo, torvo fino all´idiozia e sostanzialmente filoterroristico, pubblicato sui Quaderni Piacentini con la firma parzialmente pseudonimica. Anche questo a distanza di decenni mi viene ricordato con solerzia. Non me ne lamento affatto. Lo ritengo inevitabile». Ma fino a quando? Fino a quando, insiste Manconi, saremo costretti a dar conto di queste nostre "parole ignobili"? E in un paragone un po´ troppo disinvolto, raffronta la sua generazione ai ventenni che sotto Mussolini scrivevano parole filofasciste: anche loro ripetutamente costretti a giustificarsi. L´accostamento non regge, ma restituisce lo stato d´animo dell´autore, come incalzato da una richiesta estenuante di confessione e pentimento.
Da qui "la chiamata in correità" nei confronti d´una zona dell´opinione pubblica che in quegli infiammati anni affiancò Lotta Continua nella sciagurata campagna contro il commissario Calabresi. Ecco sfilare i più bei nomi del diritto e della filosofia, dell´editoria e della letteratura, Manconi pesca a piene mani dagli appelli contro "il torturatore di Pinelli", "non per rivalsa" ma per restituire lo spirito del tempo. Un comune sentire, un "Maelstrom esistenziale-culturale" che finisce per legittimare la violenza e nel quale vengono risucchiati gruppi sociali e ambienti intellettuali, non estesi ma culturalmente egemoni. Tutti - sembra dire Manconi - tutti pur con responsabilità diverse dobbiamo fare i conti con quella stagione.
La reticenza – è la tesi di Terroristi italiani – non annida solo nelle zone di complicità morale con le azioni terroristiche. È anche di chi non ha voluto riflettere «sul tema della violenza in alcune tradizioni politiche culturali, da quella marxista alla cattolica all´azionista». A questa "mancata esplorazione sulla violenza rivoluzionaria" Manconi affianca la "mancata esplorazione sulla violenza reazionaria". La definitiva resa dei conti appare ostacolata soprattutto da quella parte di classe dirigente che non si è assunta la responsabilità politico-morale dei comportamenti dello Stato nel torbido decennio dei Settanta. Dalla madre di tutte le stragi Piazza Fontana, tuttora senza colpevoli, alle carneficine successive, le istituzioni sono apparse sideralmente distanti e ostili, minacciate da aspiranti golpisti, colpevoli di depistaggi e mancate verità. Se prima non si riconoscono queste ombre e incompiutezze - è la chiave più condivisibile di Manconi - sembra difficile voltar pagina.
Quel che in fondo auspica Terroristi italiani è una sorta di "pacificazione nazionale", "una prescrizione politica del passato", nel "presupposto ineludibile della tutela delle vittime e dell´accertamento giudiziario delle responsabilità". Un´operazione-verità alla quale possano partecipare tutti, vittime e terroristi, senza esclusioni di sorta. Come in tutte le guerre, commenta Manconi, l´epilogo si suggella con "la restituzione dei prigionieri". Prevale qui verso i detenuti politici la cifra simpatetica, incalzano gli interrogativi se l´esperienza del male sia un passaggio necessario per operare nel bene. Forse sono queste le pagine meno convincenti di tutto il volume, che danno come acquisita la categoria di "guerra civile simulata". Una percezione bellica che stava nella testa di chi sparava, non in chi rimaneva sul selciato, disarmato e senza vita.

Corriere della Sera 30.4.08
Torino, vietate le bandiere d'Israele
Fiera del Libro, la questura nega il permesso per tutte le manifestazioni
di Vera Schiavazzi


Lunedì un seminario all'Università. Ospiti: da Vattimo agli intellettuali arabi contro la presenza di Israele Scritte contro Le scritte comparse sui muri del Lingotto lo scorso febbraio, per protestare contro la presenza di Israele alla Fiera

Misure speciali di sicurezza: il saluto di Napolitano avverrà prima dell'apertura al pubblico

TORINO — La Questura di Torino vieta ogni manifestazione per l'8 maggio, giorno di inaugurazione della XXI Fiera del Libro. Non sarà autorizzato il previsto corteo dei centri sociali e di chi boicotta la Fiera per protesta contro la presenza di Israele come Paese ospite, ma neppure il presidio con le bandiere israeliane promosso dal gruppo romano «Appuntamento a Gerusalemme», lo stesso che aveva chiesto e ottenuto la presenza del Capo dello Stato in segno di solidarietà con la manifestazione libraria. «È un divieto assurdo, noi vogliamo soltanto salutare gioiosamente Napolitano con le bandiere del Paese ospite», la replica. Più prudente la posizione dell'Unione delle Comunità Ebraiche, che attende l'esito di un incontro fissato per oggi tra il suo presidente Renzo Gattegna e il Viminale. Già nei giorni scorsi, e in via informale, la Questura aveva «sconsigliato » a chi all'interno delle Comunità voleva enfatizzare il momento dell'apertura ogni iniziativa pubblica. Ora però il divieto totale potrebbe assumere il sapore di un'imposizione che rischia di mettere sullo stesso piano qualunque iniziativa, dai saluti con le bandierine ai cortei per il boicottaggio. «La cosa più importante per noi — spiega con diplomazia Claudia De Benedetti, che l'Ucei ha delegato alle vicende che riguardano la Fiera di Torino — è la gratitudine che vogliamo esprimere a Napolitano per la sua presenza. Ma siamo fiduciosi che si potranno vedere tante bandiere, portate dalle singole persone, sventolare alla Fiera nel giorno dell' inaugurazione».
Il sentiero della trattativa è stretto, strettissimo, e si gioca tutto sulle parole di ieri sera del questore Stefano Berrettoni: «Per esclusive ragioni di ordine pubblico saranno vietate tutte le manifestazioni fuori dal perimetro della Fiera. Ciò che accade all'interno non è di mia competenza e mi limiterò a prenderne atto per predisporre le misure opportune». Le bandiere con la stella di David vietate all'esterno, dunque, potrebbero ricomparire, magari più piccole, all'interno del Lingotto. Ma la tensione crescente a Torino ha suggerito anche alla presidenza della Repubblica una linea di estrema prudenza: il saluto inaugurale di Napolitano e la sua successiva visita ad alcuni padiglioni avverranno in una Fiera non ancora aperta al pubblico, alla sola presenza delle (pur numerose) autorità invitate per l'occasione, compresi naturalmente i rappresentanti dello Stato di Israele e delle Comunità ebraiche.
Polemiche e confronti ravvicinati tra amici e nemici di Israele potrebbero giungere però anche prima dell'8 maggio. Per lunedì e martedì prossimi, infatti, è in programma all'Università di Torino — nella sala lauree di Scienze Politiche — un seminario internazionale, «Le democrazie occidentali e la pulizia etnica in Palestina », che fin dal titolo dichiara in quale filone di pensiero politico e culturale intenda collocarsi. Il programma spiega il resto: da un lato intellettuali e docenti universitari come lo storico Sergio D'Orsi e il filosofo Gianni Vattimo (che ieri era all'Università di Bologna per un'altra iniziativa anti- Fiera), dall'altro esponenti del mondo arabo contrari alla presenza di Israele a Torino, come Tariq Ramadan. E per concludere, nel pomeriggio di martedì, una tavola rotonda con i vari comitati del «no»: No War, no Tav, no Dal Molin, no Fiera Libro. «Come Università, la nostra filosofia è quella della massima apertura al confronto — chiarisce il rettore Ezio Pelizzetti —. È un seminario a carattere scientifico. Del resto, siamo stati gli unici in Italia a ospitare insieme, ben due volte quest'anno, l'Università ebraica e quella palestinese di Gerusalemme».

Corriere della Sera 30.4.08
Il sindaco Delanoë ha imposto nuove didascalie per chiarire il contesto storico
Caffè, belle ragazze e nazisti La mostra che divide Parigi
Bufera sulle foto esposte dal Comune: «Erano di propaganda»
di Alessandra Coppola


L'esposizione non spiegava bene che la spensieratezza degli scatti era ricercata: l'autore era pagato dagli occupanti

PARIGI — Sugli Champs- Élysées il caffè Le Colisée brulica di avventori, seduti all' aperto, indifferenti al passaggio dei militari tedeschi. Una ragazza regge lo specchio per non sbagliare la linea del rossetto. Un'altra esibisce un cappellino lilla con fiore e veletta. A Ménilmontant una coppia mangia ciliegie, il neonato nella carrozzina.
Tutto normale a Parigi. Se non fosse occupata dai nazisti. Ogni tanto una parata, il cinema Marignan trasformato in «Deutsches Soldatenkino », qualche bandiera con la croce uncinata. Segnali di una presenza aliena. Sapientemente mescolati, però, a facce sorridenti e spensierate donne in occhiali da sole. Di fatto, fotografie di propaganda. Le ha scattate André Zucca, tra il '40 e il '44, per la rivista Signal,
che poi non le ha pubblicate e ha lasciato inedita fino ad oggi una testimonianza eccezionale della Parigi degli anni Quaranta. Le uniche foto a colori fatte da un francese nel periodo dell'Occupazione.
Ora, fino al primo luglio, 270 di quelle immagini sono esposte alla Biblioteca dell' Hôtel-de-Ville. Con corredo di polemiche. Il titolo, «I parigini sotto l'Occupazione», adesso suona «Des Parisiens sous l'Occupation», a sottolineare che non erano tutti supini e contenti alla presenza dei nazisti e alla deportazione degli ebrei. La campagna pubblicitaria prevista per tre settimane è stata ridotta a una. I visitatori sono accolti da un'«Avvertenza»: Zucca possedeva una rara pellicola a colori in virtù «della sua assunzione nel giornale Signal, organo tedesco di propaganda nazista che esaltava la potenza della Wehrmacht». A maggio sono previsti incontri di approfondimento. Da oggi 27 fotografie saranno accompagnate da didascalie di colore diverso curate dallo storico Jean-Pierre Azéma, contattato personalmente dal sindaco Bertrand Delanoë. Non più solo la scarna indicazione del luogo, il mercato di Les Halles, per esempio, ma anche qualche dato che dia conto del contesto: «I francesi dovettero tirare la cinghia», con le cifre di carne e verdure razionate.
Una toppa. «Ci sono delle disfunzioni, rimedieremo», era intervenuto l'assessore alla Cultura, Christophe Girard. I visitatori, poi i giornalisti, quindi qualche studioso avevano fatto notare che Parigi sembrava troppo lieve per il disastro che l'attraversava. E che il percorso dell'esposizione — microdidascalie, nessun riferimento a Signal — non spiegava in modo chiaro che l'effetto spensieratezza era ricercato da un fotografo al servizio dell'occupante. «Goebbels venuto il 23 luglio '40 a fare il suo giro da ispettore trova la capitale inutilmente triste — scrive Azéma nel libro della mostra (Gallimard) — e dà l'ordine ai funzionari della Propaganda Staffel di rilanciare "a ogni costo" l'attività della città per darle animazione e gioia».
Scarpe, pellicce, l'ingresso all'Opera. Il Comune fa mea culpa, ma tenta una giustificazione: l'esposizione ha seguito questa linea «light e glamour, nell'atmosfera dell'epoca », spiega Girard. Non voleva essere «un reportage esaustivo, ma solo un punto di vista sul periodo», aggiungono dal suo ufficio. La prima versione, però, è apparsa «pigra, senza lavoro scientifico — scrive il responsabile Cultura di Le Monde, Michel Guerrin —. Ulteriore esempio di un Paese che rifiuta di analizzare tutte le sfaccettature del periodo dell'Occupazione e della collaborazione?». C'erano sì dei francesi che non hanno visto o non hanno voluto vedere, dice al Corriere lo storico Henry Rousso, ma non è una zona inesplorata: ormai su Vichy e sulle connivenze coi nazisti «da tempo in Francia non ci sono più tabù».

La Gazzetta del Mezzogiorno Bari 29.4.08
Un mito dimenticato e un ritratto a più voci
di Nicola Sbisà


L'apparizione di volumi dedicati alla musica e per di più editi da coraggiose case editrici baresi, sta acquistando sempre maggiore consistenza. Una presenza nel mondo editoriale italiano che non tarderà, se continua, ad acquisire un peso affatto secondario.
La Papageno Edizioni, guidata da Grazia Bonasia - musicista anch'ella - ha presentato infatti duevolumi di notevole interesse e per di più realizzati da autori anch'essi «nostri».
Il primo è dovuto a Corrado Roselli, violinista (è anche docente al Conservatorio «Piccinni» di Bari) ed èun doveroso atto di omaggio a quella che può essere considerata una delle maggiori «glorie» musicali della nostra regione: la violinista Gioconda De Vito.
Per ragioni di età, Roselli ha conosciuto l'arte della De Vito «di riflesso»: tramite ciò che di lei gli ha detto la sua insegnante Ludmilla Kutznetsoff (allieva della De Vito) e ascoltandone poi i dischi; ma è bastato per accendere in lui un interesse vivissimo, che lo ha portato a sposare la causa di quello che egli definisce «un mito dimenticato» (Gioconda De Vito - un mito dimenticato, pagg. 120, euro 21).
In tempi recenti, la Fondazione «Paolo Grassi» di Martina Franca, città natale della De Vito, ha appoggiato la riedizione delle registrazioni della grande violinista, rendendo accessibile ai discofili un patrimonio di arte suprema ed intemerata (si sa infatti che la De Vito era ipercritica verso se stessa: le sue «incisioni» autorizzate rendono al meglio le sue straordinarie qualità), una «lezione» interpretativa di valore ineguagliabile.
Notizie biografiche, lettere, testimonianze, una ricchissima iconografia, una discografia completa, fanno del volume un prezioso punto di riferimento per quanti amano il violino e più generalmente la musica.
Pur trasferitasi in Gran Bretagna, la De Vito non dimenticò mai la sua terra natale e, sia pure tardivamente, oggi qualcosa si sta muovendo. L'auspicio è che si possa quanto prima promuovere un Concorso violinistico a lei intitolato.
L'altro volume, inaugura invece una collana intitolata Tamino (è ovvio sottolineare il costante riferimento mozartiano) curata da Maria Cristina Caldarola, docente di pianoforte al Conservatorio «Piccinni». È la stessa Caldarola l'autrice del volume, che è dedicato ad un musicista greco, ma vivente ed operante in Italia, dove è rimasto anche quando, caduto il «regime dei colonnelli» ha ripreso i contatti col proprio paese natale: Dmitri Nicolau.
Scopo della collana- come scrive l'editrice - è «esplorare l'articolato mondo della musica, attraverso i ritratti di coloro che ne hanno scritto la storia, accanto a coloro che hanno ancora molto da scrivere...».
Un incontro casuale, incontro fra musicisti, ha spinto la Caldarola a definire un «ritratto» di una personalità poliedrica nel mondo dell'arte, qual è appunto Nicolau (62 anni), «compositore, co-regista, direttore di fotografia, docente di arte scenica, tecnica e drammaturgia vocale, pittore e... uomo».
Il volume - di impianto innovativo (Dmitri Nicolau - Una ricerca personale, pag. 320, euro 18) - prospetta appunto un nuovo modo di fare la storia nel mondo dell'arte, pro-
ponendo pensieri, scritti, lettere, interviste, disegni e composizioni. Quanto basta per conoscere un personaggio interessante e di indubbie qualità.
In particolare, pur - in veste di compositore - trattando ogni genere, Nicolau ha un particolare interesse per il sassofono e per gli strumenti a plettro (non per niente è nato nella terra del "bouzuki") ed ha operato non poco nel mondo del cinemae del teatro (con colonne sonore e musiche di scena).
Il volume raccoglie, scritti di Nicolau, recensioni, critiche, lettere, interviste (fra le quali quella fatta al musicista dalla barese Grazia Stella), testi di lavori vocali e teatrali, nonché il quanto mai corposo elenco delle composizioni che, coprono ogni genere.
Un ritratto quanto mai completo, di un personaggio che ha la sua rilevante collocazione nel mondo della musica contemporanea, un ritratto stimolante che fa sorgere legittimo il desiderio di ascoltare anche a Bari la sua musica.

Liberazione lettere 30.4.08
Non sono un cannibale

Caro Direttore, ho votato Rutelli, e come me so che tanti compagni l’hanno fatto, guidati dal buon consiglio: “guardando Alemanno vien voglia di votare Rutelli”. Malgrado questo leggo oggi su repubblica che io, apolide della sinistra radicale, sarei un cannibale fratricida. L’ideologismo suicida, cannibale e fratricida è stata l’idea del Pd di correre da solo. Vorresti ricordare a Ezio Mauro che avevamo la maggioranza in parlamento perché si era trovato a suo tempo il coraggio di ipotizzare alleanze? Potresti invitare Repubblica, alla quale ho già scritto, a valutare che senza ipotizzare alleanze con la sinistra radicale, cioé senza fare i conti con il suo ideologismo vitale, e non suicida come scrive Mauro, Veltroni perderà sempre? Grazie
Roberto Martina

Rosso di Sera 30.4.08
Anche a sinistra sono importanti le persone
di Elena Canali


Due sono le chiavi di lettura della disfatta storica che balzano agli occhi: il primo aspetto riguarda il capitolo “Compromesso Storico” iniziato negli anni ’70, se non addirittura con l’ approvazione dell’articolo 7 della Costituzione e concretamente attuato con la realizzazione del PD, si chiude, in pochi mesi, con un colossale fallimento e ciò che crolla fragorosamente è la scelta di rinuncia all’identità di sinistra, laica e nettamente schierata in favore dei lavoratori e dei ceti deboli.
Il solo buonismo all’americana non ha appeal sul “centro”, mentre ampia fetta dell’elettorato si allontana da chi tradisce i valori storici della sinistra come la netta difesa dei diritti civili, la solidarietà, le riforme tese alla trasformazione della società.
Parallelamente va evidenziato che mentre il PD, con vocazione universalistica del “ma anche”, si riduce a un partitino isolato, Zingaretti alla Provincia viene premiato e Rutelli perde clamorosamente il Comune di Roma. Si deduce che la credibilità personale dei candidati, anche in un contesto storico sfavorevole, è determinante.
Questa è la seconda riflessione che ci aiuta anche a pesare la disfatta della Sinistra l’Arcobaleno: che sia stata messa sotto accusa dall’elettorato la personalità dei nostri dirigenti? A pensarci bene l’evento assolutamente nuovo nella storia della nostra sinistra è che per la prima volta siamo stati al governo e molti di noi hanno rivestito incarichi di potere nelle istituzioni, consigli di amministrazione, direzioni di aziende etc., e il risultato è stato il crollo dei consensi, non solo perché, schiacciati dal ricatto e forzati nella mediazione, non abbiamo potuto incidere positivamente sulle condizioni di vita della gente, ma quello che maggiormente ha allontanato i nostri elettori è il modo di alcuni di gestire il potere: personalistico, settario, arrogante, spocchioso, per non dire dispotico. Dunque, come esiste il voto “alla persona”, esiste anche il “non-voto alla persona” . E dovremo a lungo riflettere su questo aspetto, che un tempo veniva riassunto nello slogan “il personale è politico”, cioè su quanto la realtà umana sia capace di creare armonie e produrre relazioni positive, oppure creare disarmonie e repulsione. La verità è che i nostri uomini/donne di potere nel loro rapporto con il mondo circostante non hanno saputo comportarsi neppure come i vecchi democristiani, che stabilivano, si, relazioni di clientela, ma pur sempre relazioni. L’aspettativa generata dalla storica opportunità di poter finalmente collaborare a costruire insieme e trasformare lo stato delle cose, è stata troppo disattesa. Con ciò non intendo dire che tutti si siano rivelati totalmente “inadeguati”, ma certo il risultato del voto è prova di una profonda disaffezione, di un giudizio di inaffidabilità e incoerenza e, quindi, di una diffusa incapacità di creare rapporti costruttivi con i sindacati, le associazioni, e anche i tanti singoli che pure solo due anni prima ci avevano votato. Per questo è troppo semplicistico prendersela con chi non ha votato Rutelli favorendo l’arrivo di Alemanno: se mai a servire su un piatto d’argento il Campidoglio come Palazzo Chigi alla destra populista di Alemanno e Berlusconi, è stato chi, proponendo candidati lontani dai valori degli uomini e delle donne che avrebbero dovuto votarli, si è improvvisamente e inaspettatamente dimenticato il popolo della sinistra.
La doppiezza, la falsità, la volgare contraddizione tra il dire e il fare, più e più volte denunciata da molti, in tante sedi, non produce consenso. Occuparsi di politica non può più essere uno scambio di poltrone o il palcoscenico su cui risolvere le proprie frustrazioni, ma deve tornare ad essere “servizio”, interesse per gli altri, generosità, “fare insieme”. Si impone, ormai, la necessità di aprire a sinistra una ricerca sulla realtà umana, su come la trasformazione della società non possa prescindere dalla coerenza tra pensiero e prassi. Nuove modalità, nuova cultura politica. Forse, ora che il fondo è toccato e nessuno ha più nulla da perdere, ne possiamo parlare?

martedì 29 aprile 2008

l'Unità 29.4.08
Riorganizziamo la speranza
di Clara Sereni


Dopo alcuni giorni di mutismo da risultato elettorale la sensazione di non aver capito molte cose mi porta a chiedere e discutere di quello che c’è da fare, di come ripartire
Molto prima delle elezioni quella che abbiamo perso è una egemonia culturale
Provare a ricostruirla pezzo dopo pezzo è quel che ci tocca oggi

Era aprile anche sessant’anni fa, nel ’48. È cambiato il mondo, ma il compito che spetta a chi ne ha voglia è quello di allora: organizzare la speranza. Dopo alcuni giorni di mutismo da risultato elettorale, e sotto botta di nuovo per Roma, la persistente sensazione di non aver capito molte cose mi porta a chiedere e discutere.
Chiedo e discuto con chi incontro, e soprattutto con i giovani, di quello che c’è da fare ora, di come ripartire da qui per andare avanti.
Mi colpiscono, nei discorsi di tanti, la tendenza a rimpallarsi le responsabilità, cosa che vediamo anche in sedi pubbliche, e più mi colpisce un aggrapparsi frenetico ad ipotesi organizzativistiche che mi lasciano abbastanza sconcertata. E, con quel che è successo a Roma, temo che tutto questo possa ancora peggiorare.
Se la costruzione del Partito Democratico è ancora in larga parte da fare, infatti, ed ha bisogno del lavoro di molti perché attorno a Veltroni, e poi giù giù per li rami, si costituiscano gruppi dirigenti in grado di condurre una battaglia d’opposizione convincente, credo che quello che è successo con le elezioni chiami in più tutti noi ad una riflessione approfondita su quale cultura sta dietro e sotto quel risultato. C’è bisogno di pensieri nuovi: anche piccoli, anche parziali, anche di quelli che danno risultati chissà quando. Qualcosa di cui c’è bisogno da tempo, e che sarebbe stato molto difficile sperimentare insieme agli impegni di governo: adesso, proprio la sconfitta ci dà la possibilità della pazienza, senza l’acqua alla gola della governabilità (e di elezioni politiche a breve scadenza, ahimé), di sperimentare terreni nuovi di pensiero e anche di attività concrete.
Provo a fare qualche esempio, scaturito da discussioni con amici e compagni.
Come molte donne, non ho più voglia di andare a manifestazioni contro la violenza. Penso che la violenza e il femminicidio siano una questione dei maschi; noi il lavoro di autocoscienza l’abbiamo fatto e in qualche modo continuiamo a farlo, ora tocca a loro interrogarsi, discutere, scavare. Interrogandosi, discutendo, scavando, guardando in faccia il connotato quasi totalmente maschile dell’aggressività violenta, potrebbe forse venir fuori, fra l’altro, uno sguardo un po’ diverso sulla sicurezza, tema che tanto ha condizionato e condiziona le campagne elettorali, in una gara non sempre nobile fra destra e sinistra. E potrebbe venir fuori, magari, anche qualche riflessione più avanzata su cosa significa oggi il tifo calcistico, trasformatosi da sublimatore di violenza in collettore e momento organizzativo della violenza (assalti alle caserme non ne avevamo visti neanche negli anni di piombo). Cosa significhi in termini di spesa, e di nuovo anche in termini di sicurezza generale, quando le forze dell’ordine sono smisuratamente impegnate in contrasto della violenza legata ad avvenimenti sportivi.
Altro esempio: i gruppi di acquisto locali, e più in generale le varie forme di consumo diverso. Al di là del risparmio che si può conseguire, e dell’eventuale migliore qualità dei prodotti, da qui potrebbe scaturire qualche ragionamento più avanzato sull’emergenza rifiuti non in Campania ma ovunque (e anche su questo, mi sembra che nessuno abbia in tasca la soluzione), e più in generale - più in alto - una riflessione su cosa significhi “progresso”, parola che sempre ha connotato la sinistra, in un mondo che dal progresso della produzione e dei consumi rischia di essere distrutto. E se invece, partendo dalla spesa quotidiana, si affrontasse pian piano il ragionamento su un modo diverso di misurare il benessere, non più soltanto in termini di Pil ma anche sotto il profilo del ben-essere vero, fatto di un modo più felice di vivere?
Sento già le obiezioni: anche a crederci, sono tentativi di nicchia, riguarderebbero poche persone, e invece la politica non consente vuoti, ci saranno le elezioni europee e le amministrative e...
Lo so anch’io. Ma visto che scrivo in un giorno fra il 25 aprile e il Primo maggio, date antifasciste per eccellenza, mi viene in mente che anche i resistenti, all’inizio, erano in pochi. Erano tutto sommato pochi anche i troppi condannati dal Tribunale Speciale fascista, che comminò loro anni e anni di confino e galera. Separati dal mondo che avrebbero voluto cambiare, al confino e in galera quei condannati studiavano e studiavano: qualcuno definì la fortezza di Civitavecchia «l’università del carcere», perché lì si formò una parte notevole di quelli che, dopo la Liberazione, sarebbero stati i Padri costituenti, la classe dirigente italiana. L’idea di un’Europa unita nacque nel confino delle isole pontine, proprio mentre l’Europa sembrava destinata a sbranarsi per l’eternità. Resistenza fu anche, insomma, imparare a capire, ad elaborare nuove idee. Nelle condizioni possibili. Consapevoli di essere minoranza, ma convinti di doversi dotare degli strumenti per farsi maggioranza. Egemone.
Prima, molto prima delle elezioni, quella che abbiamo perso è un’egemonia culturale. Provare pazientemente a ricostruirla, pezzetto per pezzetto, credo sia quel che ci tocca oggi. E se poi avremo un Gramsci in grado di mettere insieme i pezzetti e renderli idee-forza, tanto meglio: ma, se non succederà, almeno il nostro pezzetto lo avremo fatto. E un pezzetto è sempre meglio, molto meglio di niente.

l'Unità 29.4.08
Indagine Eurisko Il 62% degli italiani dice sì
La Bibbia nuovo libro da studiare nelle scuole pubbliche?
di Roberto Monteforte


Perché non studiare la Bibbia nelle scuole pubbliche e non nella classica ora di religione, ma «laicamente», come elemento di conoscenza indispensabile per l’uomo contemporaneo? È una richiesta avanzata dal 62% dei cittadini italiani adulti con più di 18 anni interpellati dall’istituto Eurisko che ha condotto una ricerca internazionale sulla lettura delle «Scritture in alcuni paesi» (Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia e Russia europea), promossa dalla Federazione Biblica Cattolica e presentata ieri in Vaticano. Una risposta inattesa che rilancia una proposta avanzata a più riprese da associazioni culturali «laiche» come Biblia e osteggiata da settori della gerarchia cattolica che ha avuto ieri l’esplicito e autorevole avvallo del biblista monsignor Gianfranco Ravasi, posto da papa Benedetto XVI a capo del Pontificio Consiglio della Cultura proprio per la sua capacità di divulgatore e di dialogo con il mondo laico. «È importante che ben il 62% da noi in Italia si dice favorevole a inserire la Bibbia come argomento di studio nelle scuole, prescindendo dall’ora di religione. Dobbiamo chiederci – commenta Ravasi – se non abbia ragione Umberto Eco quando ha posto la questione perché i nostri ragazzi debbano sapere tutto sugli eroi di Omero e nulla sulle vicende di Mosé. Da quest’ultimo infatti è disceso un’ethos che pervade la cultura occidentale e che non è possibile mettere in un angolo». La pensa così anche il filosofo Massimo Cacciari. «Se un intellettuale laico non si confronta con la Bibbia e la tratta con stupida ironia, oppure non presuppone che quel libro è anche Parola di Dio, allora sbaglia mestiere». «È un libro - conclude - con il quale dobbiamo tutti fare i conti».
Che la secolarizzazione avanzi, ma che l’interesse per il sacro e per la Bibbia tenga, anche se in forme diverse da paese a paese, è quanto emerge dall’indagine Eurisko illustrata ieri in Vaticano dal sociologo Luca Diotallevi e dal presidente della Federazione Biblica Cattolica e vescovo di Terni, monsignor Vincenzo Paglia oltre che dallo stesso monsignor Ravasi. L’altro dato è quello della diffusione delle Sacre Scritture: quasi tutti gli statunitensi intervistati (il 93%) nelle loro case hanno una copia della Bibbia, a seguire si collocano la Polonia (85%) l’Italia (75%) e la Germania (74%). All’ultimo posto la «laica» Francia con il 48% e al penultimo la «cattolica» Spagna (61%). Ma quanto e come è effettivamente letta la Bibbia? «Nonostante risultati molto diversi da paese a paese - spiega Diotallevi - ciò che emerge è che la sete di Dio, nonostante la secolarizzazione, non si estingue e la Bibbia contribuisce a dare risposte alle tante domande di senso. La preghiera attraverso la Bibbia infatti rappresenta una pratica molto diffusa in tutti i paesi considerati, non appartiene ad una setta o a una minoranza, ma viene considerata e praticata da una larga maggioranza della popolazione. Questo anche se la gente poi ammette che la Bibbia è un testo difficile e chiede aiuto nella sua interpretazione». Il sociologo osserva pure come i cosiddetti cristiani «fondamentalisti» non conoscano la Bibbia.
Il Sacro testo finora è stato tradotto in 2454 lingue, ci sono ancora 4500 lingue nel mondo che attendono una versione per loro.

l'Unità 29.4.08
Violenza contro le donne: un’insolita attenzione...
di Adele Cambria


Ora io mi domando: in altri momenti non-elettorali ci sarebbe stato tanto volontariato «spontaneo» in difesa delle donne? Mantengo il mio dubbio

Corpi femminili sguainati tra cespugli e rifiuti - un tempo (più felice? ne dubito), per gli approcci amorosi en plein air si usava l’espressione “andare in camporella” - e guardoni politicamente orientati che li spiano, aggirandosi in piena notte per appagare “bisogni fisiologici” o innaffiare, sempre in piena notte, “orticelli” che in un tempo tragicamente remoto, si chiamavano “di guerra”... Noi non ne possiamo più. Mi correggo: io, che come ogni buona vecchia femminista, non ho mai preteso di rappresentare tutte le donne, ebbene io non ne posso più. Non ne posso più di questi corpi offesi, spesso sanguinanti, indagati nei loro recessi più intimi: pare infatti che fosse mestruale il sangue riscontrato dai carabinieri sul corpo della seconda vittima degli stupri di periferia, che in questi giorni di ballottaggio a Roma, sono stati branditi e “sbraitati” a gran voce da una pessima Destra. Una donna bosniaca ubriacata, preventivamente, da qualche bicchiere di infima vodka sarebbe stata stuprata dal suo “gentile” compagno di sventura abitativa, il “solito” rumeno; nell’accampamento attrezzato con una decina di giacigli, e nascosto sotto il viadotto della Tav a Tor Sapienza, c’era rimasta soltanto, il giorno dopo, ad abbaiare ai cronisti, una nidiata di cuccioli e la madre in guardia, una cagna nera. Che la donna bosniaca urlasse contro il tentativo di stupro lo riferisce il testimone, tale Dino, che innaffiava l’orto, al buio, e ha telefonato al 112.
Ora io mi domando: in altri momenti non-elettorali, ci sarebbe stato tanto volontariato “spontaneo” in difesa delle donne? Sono abbastanza vecchia da ricordarmi, lungo i diciassette anni di peregrinazioni e andirivieni tra i due rami del Parlamento della legge contro la violenza sessuale (proposta con una raccolta popolare di firme nel 1979, approvata nel febbraio del 1996) quale era la posizione del Movimento Sociale Italiano(Msi) sull’argomento: «Per ogni donna stuprata e offesa - scandivano tra i banchi, storpiando lo slogan femminista, i parlamentari della Destra - la Nazione è parte lesa». Ma la “loro” Nazione voleva che la violenza carnale (allora si chiamava così) restasse dov’era nel Codice Rocco del 1931: cioè nel capitolo dei «Delitti contro la moralità pubblica e il buon costume». Ci vollero diciassette anni perché il reato fosse inscritto nel capitolo dei «Delitti contro la persona», e fosse riconosciuto allo stupro la sua definizione esatta di violenza sessuale, e comunque di un atto compiuto contro la volontà del partner.
Resta, senza dubbio, nel paesaggio metropolitano, la “sventura abitativa” di tanti e di tante. Per le donne, poi, che vivono in strada, la possibilità di trovare una sistemazione collettiva al riparo è ancora minore che per gli uomini.

Corriere della Sera 29.4.08
E nella Chiesa si saluta la «voglia di novità»
I segnali da «Avvenire» e «Famiglia cristiana». Don Sciortino: Rutelli paga il sì all'ala radicale
di Gian Guido Vecchi


Telegramma di Alemanno al Papa: «Assicuro piena collaborazione con la comunità cattolica per il bene di tutti i cittadini»
MILANO — Rutelli che a Ciampino si lancia verso la scaletta ad accogliere Benedetto XVI di ritorno dagli Usa, Rutelli che festeggia l'inaugurazione del Campus biomedico dell'Opus Dei, sorridente vicino al cardinale Tarcisio Bertone, Rutelli che va con Prodi a salutare il segretario di Stato vaticano alla nunziatura apostolica. Non si può certo dire che in questi giorni non ce l'abbia messa tutta, il candidato del centrosinistra, per mostrare all'elettorato cattolico i buoni rapporti Oltretevere. Solo che non è servito a niente. Mai come stavolta sia la Santa Sede sia il Vicariato si sono tenuti distanti dalla contesa elettorale, ancora più di quanto non sia accaduto alle Politiche.
Consegna del silenzio, un «silenzio di piombo» dicono alla Cei, che non ha certo aiutato il candidato dato per favorito alla vigilia. Ma soprattutto segnalava come nella Chiesa si fosse avvertito che l'umore di Roma era cambiato. «Una finale con sorpresa? », titolava l'ultimo numero di Famiglia cristiana e Avvenire, sempre la settimana scorsa: «A Roma voglia di scossa». Oggi il quotidiano diretto da Dino Boffo torna sul desiderio di «aria nuova» e titola l'editoriale di prima pagina così: «Il polso della capitale. Quella comune richiesta di tutto il Paese». Veltroni aveva lasciato a Rutelli «un'eredità scintillante, uno scontento crescente e l'ingrato compito di battersi come se avesse già vinto». Ma a Roma «si è chiuso il cerchio » iniziato nel '93 «all'alba della "nuova politica"» e finito ieri con «una domanda di novità assai simile a quella di allora». Il giornale ricorda l'esperienza di Alemanno, dalla «lunga opposizione cittadina» al governo, e il «niente affatto facile e scontato processo di cambiamento dal Msi ad An al Pdl» cominciato giusto nel '93. Del resto sarebbe un «errore» leggere il voto «esclusivamente in chiave politica», è (anche) questione di «coerenza e concretezza», i cittadini richiedono «standard decenti di sicurezza e civiltà».
A quanto si dice, la famosa «scossa» era stata preannunciata dal malumore di molti parroci, specie nelle periferie. Ma non basta. «Quella che per Rutelli doveva essere una passeggiata trionfale si è trasformata in incubo dopo il primo turno e ora in una disfatta», riassume don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia cristiana. «Roma ha un cuore cattolico, è la sede del successore di Pietro, e Rutelli ha finito per pagare ciò che già aveva scontato il Pd, il "pasticcio veltroniano in salsa pannelliana" da noi denunciato, e in misura anche maggiore: l'area laicista, la sinistra radicale che lo appoggiava, per anni ha attaccato frontalmente la Chiesa, il Papa, il Vaticano, cosa che credo abbia spostato molti voti».
Per il Pd potrà essere una sberla salutare, «estromettere Veltroni sarebbe un'idiozia, ha il carisma per preparare la rivincita. Il voto può favorire una riflessione per non ripetere gli stessi errori ». Dopodiché, certo, a Roma ha contato anche un «bisogno reale di sicurezza» che tuttavia in campagna elettorale «è stato un po' esasperato», osserva don Sciortino. E qui ce n'è pure per il vincitore Alemanno: «Mi preoccupa che al problema della sicurezza si diano risposte sbagliate, tipo il repulisti di rom che si è voluto fare a Milano ed è stato criticato dal cardinale Tettamanzi. Il problema è reale ma contano i modi con cui si risponde, il rispetto dei diritti umani, della legalità insieme con solidarietà e giustizia». Il neosindaco ha subito scritto un telegramma a Benedetto XVI, gesto «apprezzato» in Vaticano: «Rivolgo il mio deferente saluto a lei, Santità, Vescovo di questa città, assicurando piena collaborazione con la comunità cattolica per il bene di tutti i cittadini romani». È quanto auspica anche don Sciortino: «Spero che Alemanno sia disposto a lavorare a stretto contatto con le tante realtà cattoliche che operano a Roma, dalla Caritas a Sant'Egidio. Se saprà muoversi in questo spirito, credo che la città non subirà più di tanto il trauma del cambiamento».

Corriere della Sera 29.4.08
Il neurologo-scrittore indaga il rapporto tra mente e musica e parla del nuovo libro
Sacks: c'è un'orchestra nel cervello
Smemorati che suonano tutto Bach, medici che riconoscono solo la Marsigliese
di Livia Manera


Il nuovo libro di Oliver Sacks Musicofilia (in libreria da domani per Adelphi, traduzione di Isabella Blum, pp. 434, e 23) comincia un giorno del 1994 in cui un chirurgo americano di nome Tony Cicoria entra in una cabina telefonica durante un forte temporale e viene trafitto da un fulmine. Cicoria stramazza, è sbalzato all'indietro, ha il tempo di dire a se stesso «Oh, merda, sono morto», entra in un tunnel di velocità estatica in cui rivede tutta la propria vita, poi «Slam!», torna in sé, e da quel momento è un altro uomo. Nel senso che il suo cervello si riempie d'ora in poi di un desiderio irresistibile di musica. Soprattutto Chopin. A quel punto Cicoria si mette a studiare il piano da solo e nel giro di tre mesi non fa più quasi nient'altro che suonare e comporre. «Mi alzavo alle quattro del mattino e suonavo fino al momento di andare al lavoro», racconta al neurologo-scrittore Oliver Sacks. «E poi quando tornavo a casa rimanevo al piano tutta la sera. Mia moglie non era molto contenta. Ero posseduto ».
Sacks sorride versandosi il tè: «Ricordo il primo genio musicale che ho incontrato, era un uomo ritardato che conosceva a memoria duemila opere». Stiamo facendo la prima colazione in un albergo che l'autore di Risvegli sceglie sempre quando va a Londra, perché è vicino a una piscina, e lui ci tiene a nuotare ogni mattina alle sei. «Aveva preso la meningite da piccolo ed era incapacitato in molte cose, eppure aveva questa memoria musicale prodigiosa. Mi ha sempre colpito come la musica s'insinui nel nostro cervello: come un brano musicale ci insegni la sua struttura e i suoi segreti anche quando non ci accorgiamo di avergli prestato ascolto. Forse perché sono cresciuto in una famiglia in cui le forze dominanti erano la musica e la scienza. Mia madre faceva fatica a ricordare un brano musicale, ma mio padre sembrava avesse un'intera orchestra nel cervello».
Se non fossimo soli nella sala da pranzo di quest'albergo, daremmo sicuramente nell'occhio. Perché se nei modi Sacks ha conservato la timidezza di un adolescente malgrado i settantacinque anni, nell'aspetto sembra un astronauta in tenuta tecnica o un architetto molto alla moda, vestito com'è con una maglietta nera a maniche lunghe e pantaloni neri e modernissime scarpe da ginnastica bianche. I capelli e la barba sono bianchi anche loro, e l'accento è rimasto quello dell'Inghilterra in cui è cresciuto, malgrado quarant'anni passati a lavorare nell'ospedale psichiatrico di New York, nel Bronx, prima di approdare lo scorso autunno alla Columbia University, dove gli hanno confezionato due corsi su misura, uno di neuropsichiatria e l'altro di scrittura creativa.
Musicofilia è dunque il suo ultimo libro ed è una raccolta di ventinove saggi in cui Sacks esplora il rapporto tra la musica e la mente concentrandosi su casi neurologici che sono in parte nuovi e in parte derivati da libri precedenti come L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello e Un antropologo su Marte. C'è quello del musicologo inglese Clive Wearing a cui un'infezione cerebrale azzera continuamente la memoria, il quale ogni volta che vede sua moglie la saluta come se fosse il loro primo incontro, ma se si siede al piano riesce a suonare un intero preludio di Bach. Ci sono malati di Alzheimer o persone affette da sindrome di Tourette che trovano pace solo quando suonano o ascoltano brani musicali. Ci sono persone torturate dalla musica come Schumann che da vecchio era tormentato da allucinazioni musicali che degeneravano in una singola nota prolungata. E altre che vengono prese dalle convulsioni come la moglie di un compositore moderno che ha una crisi epilettica ogni qual volta sente una musica simile a quella del marito — e qui magari Freud, anche se era insensibile alla musica, avrebbe qualcosa da dire. Sacks si diletta parecchio con i casi di «amusia». Cita quello di Nabokov, per cui l'alfabeto era colorato come un arcobaleno, ma che pativa qualunque melodia come «una successione arbitraria di suoni più o meno irritanti». E quello di un neurologo francese che di qualsiasi brano musicale gli confessa di saper dire soltanto se sia o non sia la Marsigliese.
«Mio padre si fece un dovere di darci un'istruzione musicale fin da quando eravamo piccoli — sta raccontando Sacks — e ci trovò un insegnante molto focoso, alla Toscanini, che picchiava la testa contro il pianoforte. A cinque anni avrei detto che le cose al mondo che preferivo erano il salmone affumicato e Bach ». A differenza di allora, oggi, spiega Sacks, a uno specialista basta una risonanza magnetica per riconoscere il cervello di un musicista. Ma il rapporto tra musica e cervello rimane ancora pieno di misteri. Un caso che lo incuriosisce e gli sfugge allo stesso tempo è quello delle «infezioni musicali», quei motivetti che improvvisamente ci entrano nella testa e che non riusciamo a scacciare nemmeno se vogliamo. «Mi colpisce moltissimo la frequenza della musica interiore, forse perché c'è sempre un brano che risuona consciamente o inconsciamente nella mia mente. Un anno fa, in occasione della dipartita di un mio fratello, ha cominciato a ronzarmi in testa un capriccio di Bach. Poi pensandoci mi sono accorto che Bach aveva scritto quel brano in occasione della partenza di un suo fratello. Ma aveva diciannove anni, e si trattava di tutt'un altro tipo di viaggio».
Parliamo dell'influenza dell'IPod sulla vita delle persone («A prima vista sembrerebbe una cosa fantastica, se pensa che Darwin doveva viaggiare fino a Londra per sentire un concerto. Ma mi chiedo se questa esposizione costante alla musica non abbia una responsabilità nell'aumento delle allucinazioni musicali»), e parliamo del suo rapporto personale con la musica, oggi. «Per me non esiste una giornata senza musica. Ascolto la radio, vado ai concerti, mi siedo al piano almeno mezz'ora al giorno. Mi piace suonare con la sinistra mentre prendo appunti con la destra. Nietzsche diceva che scrivere ascoltando Bizet lo rendeva un filosofo migliore. Non so se rendo un torto alla musica in questo modo, ma a me è così che piace scrivere le mie cose. Mi aiuta a concentrarmi ».

Repubblica 29.4.08
Lo stupore dei corrispondenti stranieri: è una città accogliente, può diventare razzista e corporativa se si cede alla tentazione neofascista
"Sinistra suicida, e ora si rischia la xenofobia"
di Alberto Mattone


ROMA - Era stato facile profeta l´Independent, ieri mattina: «Sessanta anni dopo la caduta di Mussolini - ha scritto il quotidiano britannico - i post-fascisti sono di nuovo alle porte di Roma». Gianni Alemanno è diventato sindaco della capitale, e la notizia è rimbalzata su molti siti esteri, con grande meraviglia dei giornalisti stranieri che si occupano dell´Italia.
Sì, perché se la stampa internazionale era abituata alle vittorie del "tycoon populista Berlusconi", non aveva mai fatto i conti con un primo cittadino dal passato fascista. «Roma avrà il suo primo sindaco di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale», scrive perplesso l´International Herald Tribune. E adesso, per Liberation «Roma, grande capitale europea, rischia il declino». «La città - riflette il corrispondente del giornale francese, Eric Joszef - potrebbe diventare provinciale e il regno della corporazioni, tassisti e commercianti in testa». «Alemanno - aggiunge - ha fatto con Fini un percorso di distacco dal fascismo, ma c´è la possibilità che, adesso, frange dell´estrema destra si sentano legittimate a compiere azioni di violenza contro sedi della sinistra e gay. E non rassicura - chiude Joszef - la sua vicinanza a Storace».
Il Nouvel Observateur dedica un ritratto al vetriolo del nuovo sindaco di Roma. Ricorda «la condanna a otto mesi ad Alemanno per aver lanciato una molotov all´ambasciata della ex Unione Sovietica», e stigmatizza il fatto che porta al collo una croce celtica.
Peter Popham da anni scrive di cose italiane, ma un sindaco della capitale post-fascista non l´aveva mai visto. «È inquietante - ragiona il corrispondente dell´Independent mentre vede i dati elettorali scorrere sulle agenzie - che Roma, luogo multietnico, abbia votato un candidato che vuole cacciare subito 20 mila tra rom e immigrati. Quest´ondata xenofoba non è una cosa razionale. La città - aggiunge Popham - era famosa per il suo respiro internazionale, ma questo clima è stato preparato da Veltroni, che ha proposto per i rumeni espulsioni senza processi».
Sì, la salita in Campidoglio di Alemanno è anche colpa della sinistra per Le Monde, che titola «sul nuovo rovescio del Partito democratico di Veltroni». «La destra espugna Roma» scrive meravigliato El Pais. E il francese Le Figaro mette l´evento in prima pagina: «Un neofascista conquista la capitale italiana».

Repubblica 29.4.08
Perché l’occidente non va a sinistra
di Giorgio Ruffolo


Francesco Algarotti, umanista insigne, racconta, in una novella bizzarra di quel fischio che si congelò in inverno per rifischiare allegro in primavera. Più di venti anni fa, su Micromega, ripresi quello scherzo come metafora di una sinistra che mi sembrava congelata augurandomi, ma con qualche dubbio, che riprendesse a fischiare in una nuova primavera politica. Quel rifischio non l´abbiamo mai sentito. Anzi, in un libro intitolato Il mostro mite Raffaele Simone, riferendosi proprio a quel mio articolo, ne riprende il tema, sviluppandolo in una analisi rigorosa e impietosa, nella quale si domanda «perché l´Occidente non va a sinistra».
Per rispondere alla domanda è impossibile evitare quella che viene prima, ovvia e abusata. Ha ancora significato quella distinzione tra destra e sinistra? Io credo di sì (e il miglior modo di rivelarla è proprio quello di porre questa domanda. Si può stare sicuri che chi risponde che quella distinzione non ha significato è di destra). Ma credo anche che abbia mutato significato. Per circa due secoli, dalla rivoluzione francese in poi, la destra è stata identificata con la conservazione, la sinistra con l´innovazione.
Da tempo non è più così. Si sarebbe tentati dal pensare che le parti si siano invertite. La destra è carica di spiriti irruenti, sedotta dall´innovazione, votata alla crescita, incline alla competizione, anelante al successo. La sinistra richiama l´osservanza delle regole, la fedeltà alle istituzioni, l´ordine della convivenza, la moderazione degli "animal spirits" in nome dell´eguaglianza. Insomma, la destra è all´attacco, la sinistra è sulla difensiva.
Di solito l´indebolimento politico della sinistra – poiché di questo si tratta – è attribuito ai suoi errori e ai suoi orrori.
Agli orrori del comunismo, certo: mai una rivoluzione emersa come potenza liberatrice si è rovesciata e corrotta nella più tetra e lugubre delle oppressioni. Che qualcuno ne nutra nostalgia è materia non di politica ma di psichiatria. Anche agli errori e agli eccessi di un´invadenza statalistica e sindacale che hanno guastato in parte il successo peraltro grandioso del solo socialismo realizzato: quello delle socialdemocrazie e del welfare state.
Ma né gli orrori né gli errori della sinistra spiegano il vero e proprio "rovesciamento della prassi" politica intervenuto nel recente mezzo secolo. La causa principale del quale sta nella scomparsa della "questione sociale" dal centro della scena politica: del conflitto storico tra capitalisti e operai, dovuta a una rivoluzione del modo di produrre e del modo di pensare.
Il formidabile aumento della produttività ha consentito di ridurre la pressione capitalistica sul lavoro spostandola sulle risorse naturali attraverso un gigantesco aumento dei consumi (Reichlin lo ha ben spiegato in un suo recente articolo). La massa omogenea del proletariato industriale si è articolata in un mondo del lavoro dotato di miriadi di competenze specifiche. L´effetto combinato di queste due correnti pesanti ha causato uno spostamento del fulcro dell´economia dal lavoro al consumo e dal lavoro collettivo al lavoro individuale.
Questa torsione del modo di produrre ha generato nelle grandi masse un nuovo modo di pensare. Mentre l´antagonismo dei rapporti di lavoro si riduceva, aumentava l´interesse comune al consumismo. Mentre nel nuovo mondo di un lavoro eterogeneo si attenuava la spinta alla solidarietà, si accentuava l´attrazione verso la cornucopia permissiva traboccante dai mille specchi della pubblicità. Ciò che la neodestra propone – dice in sostanza Simone – è un patto con un diavolo sorridente, con un "mostro mite", che promette di tutto e di più mentre offre un lavoro che può spingersi fino ai limiti del trastullo; come fa Google quando raccomanda ai suoi "ospiti" (come chiamarli altrimenti? lavoratori?) di dedicare almeno un quinto del tempo di lavoro a sane distrazioni. Tocqueville, che aveva previsto proprio tutto, pronosticò l´avvento di un governo «che vuole che i cittadini se la godano, purché non pensino ad altro che a godersela» un governo; che – aggiunge Simone – «assicuri al maggior numero di persone un fascio di esperienze gradevoli e vitalizzanti, che accrescano il loro benessere fisico e psicologico, ma soprattutto le inducano a consumare». Nel suo immaginario non c´è posto né per il padrone delle ferriere né per l´ingegner Taylor col suo cronometro che scandiva le ore piene e i minuti vuoti, ma per quel tempo preso dal divertimento che è diventato l´essenza del lavoro, un sempre più prolungato e affollato weekend.
In questa economia del consumo, si forma sì, un (sotto) proletariato, ma ai margini della società, come "rifiuto", «non certo come scuola di solidarietà e di fratellanza, ma come fonte di inquinante turbolenza in quelle discariche che sono diventate le periferie metropolitane. La massa del ceto medio, quello che meglio si definirebbe il ceto di massa, condivide con l´élite plutocratica valori privati: il postulato di superiorità (io sono il primo tu non sei nessuno); il postulato di proprietà (questo è mio e nessuno me lo tocca); il postulato di licenza (io faccio quello che voglio e come voglio); il postulato di non intrusione dell´altro (non ti immischiare negli affari miei); il postulato che tutti li riassume, di superiorità del privato sul pubblico (fino all´abuso del pubblico come cosa privata). Non può stupire allora che al centro della scena politica sia subentrata alla questione sociale la questione fiscale: il conflitto tra Stato e contribuenti che pretendono servizi pubblici sempre più costosi (perché a differenza di quelli privati non possono essere fronteggiati con aumenti significativi della produttività) ma non tollerano che siano finanziati "mettendo le mani nelle loro tasche".
Questo privatismo è l´opposto dell´individualismo. Mentre quello è espressione di personalità forti, caratterizzate, aperte alle relazioni con gli altri; questo, incerto e timoroso di contatti interpersonali (come chi evita persino le strette di mano) si esprime politicamente non attraverso la discussione, che aborre, ma in quell´attruppamento infatuato attorno a capi carismatici in cui si riconosce la forma moderna del populismo.
Populismo e privatismo si fondono perfettamente nell´ideologia apolitica della neodestra. Sono l´espressione di una formidabile tendenza alla disgregazione sociale che qualcuno (Bauman) traduce nella metafora della "liquefazione". Marx denunciò per primo la tendenza dissolvente insita nel capitalismo: «Tutto ciò che è solido si disperde nell´aria». Questo è appunto uno dei rischi supremi del nostro tempo: quello di una società polverizzata esposta ai venti delle mobilitazioni irrazionali. L´altro, all´altra estremità di una società privatistica e consumistica, è la distruzione del capitale naturale provocata da una crescita economica illimitata e dissennata.
A questi due supremi rischi cui il mite mostro della nuova destra espone l´umanità del nostro tempo, la sinistra non sa opporre che una sterile contestazione o una mimesi compiacente: un pensiero debole. Fino a quando non saprà costruire in un pensiero forte le fondamenta istituzionali di un nuovo ordine mondiale che sia in grado di reggere e regolare la poderosa complessità della globalizzazione, il campo sarà pericolosamente aperto ai demagoghi del mite inganno.

Repubblica 29.4.08
Si apre oggi a Firenze un convegno sulle donne in rivolta
La passerella delle adultere
di Nadia Fusini


Emma Bovary, Anna Karenina, Nora, Giovanna, Hedda Gabler, Effi Briest sono tutte eroine che muoiono in modi diversi per una grande ingiustizia sociale

Sarà Gae Aulenti ad aprire oggi a Firenze, Palazzo Strozzi, il convegno "Donne in rivolta: tra arte e memoria", organizzato dalla Fondazione Sum - Istituto Italiano di Scienze Umane in collaborazione con il Maggio Fiorentino, che si concluderà domani. Anticipiamo qui parte della relazione di on v´è dubbio che nella seconda metà dell´Ottocento esista una quantità consistente di romanzi con strutture tematiche e compositive ricorrenti, che vanno a comporre un unico, grande romanzo, che potremmo definire «femminista», se non altro perché ne sono protagoniste indiscusse delle donne: Emma Bovary, nell´omonimo romanzo del 1857; Anna Karenina, dell´omonimo romanzo del 1877; Nora, di Casa di Bambola del 1879; Giovanna, di Una Vita del 1883; Hedda Gabler, primadonna dell´omonimo dramma del 1890; Effi Briest, del 1895; Marta nell´Esclusa del 1901.
Donne prese tutte nella posa dell´adultera. E´ altrettanto indubbio che nel corso dell´azione noi lettori assistiamo all´eliminazione fisica delle protagoniste, e dove volessimo, a mo´ di inchiesta, accertare le responsabilità della morte, e comprendere se si tratti, di volta in volta, nei casi specifici, di suicidio, o di omicidio, non potremmo che osservare che sono insieme il marito Karenin e l´amante Wronskji a uccidere Anna; sono il marito barone von Innstetten e il maggiore Crampas a uccidere Effi; il noiosissimo marito Tesmann e il demonico Loevborg e il volgare Brack a uccidere Hedda. Per non parlare delle responsabilità di Charles Bovary, di Torvaldo Helmer, di Giuliano di Lamare e di Leone e di Rodolfo.
Si potrebbe addirittura parlare di ‘morti bianche´, perché a me pare che questi personaggi di donna - sia che si lascino assassinare, o si abbandonino alla morte per asfissia, per assideramento, o anestesia - sono sempre e comunque lì a testimoniare il costo incivile di una enorme ingiustizia sociale.
L´adulterio realizzato di Anna e il suo suicidio; il matrimonio di Effi e il finale aborto di sé, che la trasporta a un´esistenza larvale; il disgusto di Hedda e la morte che si dà, quasi fosse una vendetta che si prende contro la vita; le vicende non dissimili delle altre, tutte insieme compongono oggettivamente un patrimonio romanzesco che vede l´eroe in conflitto aperto con la propria epoca storica, le sue leggi e forme.
Ora, non v´ è dubbio che a definire questo nuovo personaggio concorrano cambiamenti avvertibili nella cultura e nella società.
Ma è anche vero che uno scrittore non sempre segue l´azione, a volte è la letteratura a guidarne il corso, a prefigurare il cambiamento, o perlomeno, a gettarne le basi. Lo scrittore, è stato scritto, «dà voce a tutto ciò che resta soffocato nel mondo com´è, a qualcosa nel cui nome il mondo volta per volta andrebbe cambiato, alle ragioni che non trovano riconoscimento da parte degli ordini conosciuti o grazia di fronte alle opinioni pubbliche». Scriveva così, anni fa, Francesco Orlando a proposito di un´antenata, la Fedra di Racine. Anche lei una ribelle.
Del resto, è sempre stato così: perché la macchina drammatica, o romanzesca scatti, ci deve essere una crisi. Perché si inizi a raccontare si deve aprire una breccia, attraverso la quale applicare lo sguardo a ciò che soltanto superficialmente finora avevamo guardato, o addirittura tralasciato di osservare.
E per fare ciò ci vuole un personaggio che sia capace di sopportare la fatica del nuovo sguardo. Intendo dire: lo scrittore dovrà inventare un personaggio cui affidare tale rottura. Tale rivolta. Nei romanzi di cui parlo, è il personaggio-donna a sostenere il peso di tale azione.
E´, se volete, ancora una volta il discorso aristotelico sul personaggio. Se il romanzo, come la tragedia, ha al suo fondo un conflitto, il suo eroe sarà il rappresentante di un´istanza oppressa, colui, colei che si rifiuta di obbedire alle leggi della città, perché sa che ci sono altre leggi, altre leggi devono essere trovate, inventate. In tale posa troviamo Anna, Emma, Hedda.
Lo scrittore, per riprendere un vecchio stilema marxiano, stilema assai demodé di questi tempi - ma proprio perciò con ancora maggior soddisfazione me ne servo - lo scrittore, dicevo, sa che le istituzioni tendono a presentarsi come assolute, necessarie, naturali. Così anche per il matrimonio. Che cosa c´è di più naturale del matrimonio? Che cosa c´è di più naturale di una famiglia composta da un uomo e una donna, e possibilmente il frutto del loro amore? (Vi prego incidentalmente di notare che tale grazioso quadretto vale tuttora, guai a disturbare il presepe - famiglia.) L´adultera - «ce mystère de la femme en dehors du mariage», come diceva Flaubert - è il personaggio-donna che non si lascia più definire dal matrimonio. Non importa che commetta o meno sensualmente, fisicamente, l´adulterio. Già nella definizione flaubertiana è evidente come allo scrittore non interessa l´interno protetto, lo spazio già conosciuto e perimetrato della passione coniugale, ma piuttosto il mistero, il segreto - indicibile, irrappresentabile come tutti i misteri - di chi si avventura all´esterno.

il Riformista 29.4.08
Era davvero una Waterllo e il loft non l’ha capito
La sinistra californiana sconfitta dalle periferie
di Antonio Polito


S i deve dimettere, Walter Veltroni, dopo la disfatta di Roma? Dopo che Rutelli ha perso la roccaforte del centrosinistra? Dopo che la destra più destra, quella di Alemanno, ha bissato nella capitale il trionfo della Lega al Nord? In casa di Veltroni, nella città che lui ha governato per sette anni, sulle ceneri del modello politico e culturale che è l'essenza stessa del veltronismo? Vedrete che da oggi i giornali non parleranno d'altro. Saranno settimane molto dure per il neonato Partito democratico. Il quale però, ci spiace dirlo, non ha neanche questa soluzione semplice semplice a portata di mano: cambiare l'allenatore come si fa nelle squadre che perdono. Ci spiace dirlo non perché vorremmo vedere Veltroni dimissionario (gli vogliamo bene). Ma perché niente più di questa impossibilità testimonia l'impotenza attuale del gruppo dirigente del Pd: è così fragile, così esposto alla tempesta, così leggero, che non può permettersi neanche di affrontare una discussione su una leadership così recente, così enfaticamente presentata nelle primarie, così presidenzialmente affermata in campagna elettorale.
La disfatta di Roma si spiega con tre ragioni. La prima: l'onda del 13 aprile è davvero lunga, è uno tsunami, ha determinato il distacco più grande di sempre tra Berlusconi e il suo più immediato inseguitore, è un cambio di paradigma politico. Per questo titolammo la nostra prima pagina, dopo il voto politico, «È una Waterloo». Qualcuno ci disse che avevamo esagerato, Veltroni l'ha continuato a dire ancora ieri alla riunione dei gruppi: «Sventurate analisi della stampa, il raffronto va fatto con le provinciali». La sottovalutazione della portata della sconfitta è smentita dalla sconfitta di Roma. Speriamo che più accurate e accorte analisi del voto arrivino, un tempo la sinistra ne era capace.
La seconda ragione: Roma ha bocciato il governo uscente, come sempre fanno i corpi elettorali: questo è il loro mestiere. Come l'Italia ha bocciato il governo Prodi, Roma ha bocciato la giunta Veltroni. A torto o a ragione - secondo noi a torto, ma gli elettori hanno sempre ragione - i romani si sono convinti che le condizioni di sciatteria, degrado e insicurezza della capitale meritavano una svolta politica.
Nicola Zingaretti tiene botta e vince il ballottaggio per la provincia di Roma col 51,5 per cento contro il 48,5 del candidato del Pdl Alfredo Antoniozzi. Al primo turno, il candidato del centrosinistra aveva ottenuto il 46,9 e quello del centrodestra il 37. Ma è un vittoria con l'amaro in bocca: la débâcle di Rutelli al Campidoglio rovina, e non poco, la festa in casa Pd. E mentre il candidato alla provincia sta aspettando lo spoglio dell'ultimissima scheda prima di dichiarare in sala stampa, i suoi si sfogano a microfoni spenti: «Al Comune andava candidato Nicola. Era evidente che Rutelli non tirava». Le prove, a sentire i fedelissimi di Zingaretti, starebbero nel confronto tra il risultato del candidato sindaco e dal candidato presidente della provincia sul Comune di Roma: Zingaretti al 51 per cento, Rutelli attorno al 46, ben cinque punti. Tradotto: ottantamila romani avrebbero votato Alemanno al Comune e Zingaretti alla Provincia. Ma questo, a sentire molti dirigenti del Pd, è un dato che va analizzato a bocce ferme. In molti gettano acqua sul fuoco: «Aspettiamo il conteggio definitivo delle bianche e delle nulle prima di fare analisi politiche su questo scarto» dice l'assessore regionale ai Lavori pubblici Bruno Astorre. Obiettivo: non alimentare polemiche a caldo. E lo stesso Zingaretti prova a rianimare il morale delle truppe e a trasformare una disfatta totale in una mezza vittoria: «Oggi è il momento del brindisi e delle vittorie. A domani i ragionamenti. Un grazie a tutti, ha vinto una squadra bellissima e non soltanto io».
È stato un pomeriggio vissuto col fiato sospeso alla sede del comitato elettorale dell'ex segretario regionale del Pd, in via della Lega Lombarda. Ore 15: il clima, appena chiuse le urne, è più che ottimistico: «Sono sereno» afferma Zingaretti prima di chiudersi con i suoi. Anche il dato sull'affluenza viene letto in positivo: i votanti al secondo turno sono il 59 per cento rispetto al 74,7 del primo turno. «I nostri votano» dicono decine di volontari accorsi al comitato elettorale: «Yes, week end» si lancia qualcuno. Ma, col passare delle ore, si materializza l'incubo. Sono le 17 quando cominciano a uscire i primi dati per la corsa al Campidoglio che vedono Rutelli attorno al 48 per cento contro il 52 di Alemanno. Nel frattempo sembra ridursi anche la forbice tra Zingaretti, che inizia a scendere sotto quota 52, e Antoniozzi. Lo staff del candidato lascia la sala stampa dove i cinque megaschermi mandano continui aggiornamenti sul Campidoglio che non lasciano sperare niente di buono. I dati della provincia sembrano tenere, ma il candidato rimane barricato nel suo ufficio al primo piano, «per scaramanzia», mormora qualcuno. A fargli visita anche Silvio Di Francia, ex assessore comunale alla cultura e impegnato nella campagna elettorale per Rutelli sindaco. «Oggi non mi muovo da qui», dice Di Francia: «Sono scaramantico e due settimane fa, quando ho seguito i risultati del primo turno al comitato Rutelli non è andata come avrei voluto». Insieme a Di Francia anche uno dei "padri" del modello Roma, Gianni Borgna, altro ex assessore alla Cultura di Veltroni e attualmente presidente della Fondazione Musica per Roma.
Alle sei del pomeriggio, mentre si materializza la disfatta per Rutelli, i dati di Zingaretti si stabilizzano: è una vittoria sul filo (51,5) ma è comunque una vittoria. Arriva l'ex presidente della provincia Gasbarra che prova a galvanizzare gli animi («È stata un grande vittoria») e il presidente della regione Marrazzo, che ostenta sorrisi e stringe qualche mano prima di chiudersi nella stanza di Zingaretti.
Il centrosinistra è andato bene in provincia, dove ha prevalso nell'80 per cento dei comuni, in particolare in quelli governati storicamente dal centrodestra come Cerveteri, Nettuno e Velletri. Anche a Civitavecchia, dove governa il centrodestra, ha vinto Zingaretti. E a Subiaco e Pomezia dove il Pdl quindici giorni fa ha doppiato il Pd si è raggiunto un sostanziale pareggio. «È una vittoria di Pirro» dichiara amareggiato Astorre che, di fronte al dato del Campidoglio, non ha voglia di stappare lo spumante. Ma i supporter di «Nicola» hanno voglia di parlare: «Abbiamo vinto perché siamo entrati nel cuore dei problemi e la gente ha capito la scelta. Con un astensionismo così alto siamo riusciti a portare la gente a votare». È il dato su Roma quello destinato ad animare il dibattito nei prossimi giorni. Al quartier generale del neo presidente non ne vuole parlare nessuno a microfoni accesi, ma non sono in pochi a puntare l'indice contro la candidatura di Rutelli. Anche al loft Morando ammette che qualcosa si è sbagliato: «La riproposizione di persone che hanno fatto il sindaco anche molto bene, come Rutelli, non ha funzionato». Ma sui migliaia di cittadini che hanno votato per Alemanno e Zingaretti cala il silenzio. Almeno per ora.

il Riformista 29.4.08
Al loft si affilano i coltelli. Walter anatra zoppa
di Peppino Caldarola


La Grande paura era fondata. Alemanno è riuscito nell'impresa di conquistare il Campidoglio. Il Pd perde e perdono i suoi dirigenti di punta, da Veltroni a Bettini a Rutelli, tutta la cosiddetta «scuola romana». È peggio della sconfitta di Bologna con Guazzaloca. Perché Alemanno non è Guazzaloca. Simbolicamente rappresenta più cose dell'onesto commerciante bolognese, vecchio amico della sinistra e suo improvvisato competitor. Il fortino romano era diventato persino più simbolico di quello felsineo perché sembrava meglio presidiato. Un gruppo dirigente esteso e relativamente giovane, una fusione fra Ds e Margherita largamente anticipata sul territorio, due sindaci, Rutelli e Veltroni, che avevano fatto del mito di sé la propria cifra, ottime relazioni con i poteri forti cittadini, dagli imprenditori edili alla potente curia del Gran Cardinale, salotti di destra, tv di Stato, attori vari. Alla fine a Rutelli è rimasta fedele la Roma del Centro storico e della Garbatella. Lo zoccolo durissimo, probabilmente quel mondo di valorosi che viene dalla storia antica della sinistra romana e in particolare dal vecchio Pci. Dovevamo andare talmente avanti da perdere la memoria del passato e invece c'è rimasto solo quello, impolverato e indecifrabile.
È un colpo duro per il centrosinistra. Il colpo più duro perché rischia di abbattere, in un certo senso, il progetto del partito democratico. Basta riflettere su un solo dato storico. Non è passato neppure un anno da quando, dopo i congressi calorosi di Ds e Margherita, i due nubendi scoprirono di non saper costruire il nuovo partito. La schermaglia sui portavoce nascondeva la difficoltà di procedere nel progetto. Il sano realismo li portò alla candidatura di Veltroni. I gruppi dirigenti Ds e Margherita, che avevano sopportato la fatica dell'impresa, si affidarono al più fresco sindaco di Roma, antico sognatore democratico. E Walter arrivò con il suo carico di fantasie e di promesse.
Lo stile democrat convinse tanti (anche chi scrive), ma soprattutto provocò l'ondata enorme delle primarie. Le difficoltà iniziali sembrarono dimenticate mentre Veltroni procedeva a disegnare un partito svincolato dalle tessere e dai legami correntizi, con i vecchi gruppi dirigenti spaventati ma incapaci di reagire. Veltroni ruppe persino il tabù dell'antiberlusconismo sul quale aveva costruito le fortune politiche tanta parte di quel mondo che, negli anni del «biennio rossiccio», a Walter aveva fatto riferimento. Sembrò, ad un certo punto, che fossero pronti a siglare uno storico armistizio con l'avversario di sempre, Silvio Berlusconi. Poi le elezioni anticipate, il voto nazionale che distrugge la sinistra radicale e ammacca il Pd. Ora Roma, cioè la sconfitta in casa.
Lasciamo perdere le cause immediate di questo colpo al cuore. Le discusse liste al Parlamento, il candidato Rutelli ripresentato, una campagna elettorale partita soft e finita alla solita maniera guerriera. Ragioniamo sulle cose di fondo, intrecciando le cause con gli effetti.
L'effetto principale è che Veltroni è un'anatra zoppa, come si scrive negli States del presidente che non ha più la maggioranza dalla propria parte. Non può essere deposto ma non può governare con la pienezza dei poteri che cercava e che aveva. In un partito normale, largamente insediato nel paese, con un largo sistema di alleanze sociali e politiche, questo scenario sarebbe difficile ma non drammatico. Per il Pd può essere drammatico.
I punti di debolezza sono evidenti. Non c'è stato lo sfondamento nell'elettorato moderato, il voto cattolico non è andato appresso ai popolari, al Nord il nuovo partito non contrasta lo strapotere di Lega e PdL, nel Sud inizia a crollare il sistema di relazioni costruito attorno al potere locale, a sinistra c'è un vero deserto che produrrà una popolazione di rancorosi nemici dei democrats. La gente di centro-sinistra (in politica le emozioni contano moltissimo) vivrà una lunghissima stagione di scoramento senza eguali.
Si può dire che il nuovo partito è stato colpito sia nel primo tentativo di decollo, quello prima di Veltroni, sia quando nella cabina di pilotaggio si è messo Walter. Il decollo è fallito ovvero, per essere più ottimisti, può fallire. In questi giorni il sistema dei media si è ingegnato a immaginare le conseguenze burocratiche della sconfitta romana. Il ridimensionamento di Veltroni, il probabile accantonamento di Bettini e Realacci, la ripresa di ruolo di D'Alema, i dubbi che percorreranno gli ex popolari, la rabbia dei prodiani. Accadrà tutto questo e altro ancora. Sarebbe auspicabile che non ci sia la notte dei lunghi coltelli. Chi ha creduto, votato e perso non lo accetterebbe. Da questa Yugoslavia casalinga uscirebbero solo nuove sconfitte.
È probabile che nel Pd si confronteranno due grandi opzioni e alcune varianti secondarie. La prima opzione prevede una «normalizzazione» del Pd. Nel senso di dire: facciamone un partito normale e plurale, un po' socialdemocratico senza proclamarlo, forte negli insediamenti storici che affida la politica delle alleanze sociali alla creazione di alleati politici, per esempio l'Udc di Casini. E sperando nelle crepe del blocco berlusconiano. È la cultura che viene da più lontano e viene riproposta, rispolverata. La seconda opzione è un nuovo progetto democrat senza il sogno plebiscitario di Veltroni, cioè con un partito meno ossificato, con una cultura più pragmatica e ideali molto forti.
Le due opzioni si scontreranno con un primo ostacolo. Nessuna delle due sembra intenzionata a prendere sul serio la destra, a considerare che la sconfitta è stata di popolo e strategica. La nuova destra non è la marea nera. Ne abbiamo raccontati i difetti, ma solo in pochi di noi ne hanno visto le virtù cioè il fatto che porta con sé (così la vive la gente) una voglia di novità e di sburocratizzazione delle coscienze. Non hanno letto solo la Casta, ma il libro di Ricolfi sulla sinistra geneticamente antipatica.
Molto di quello che accadrà dipenderà da Veltroni. Lo dico con affetto. Questa volta non può andare da un'altra parte. Dovrà affrontare a viso aperto la sconfitta, capire la lezione della sconfitta. Da uomo. E i suoi competitors devono capire che non è tornando allo status quo ante che si risolvono i problemi.

il Riformista 29.4.08
L'antifascismo non porta voti, questa è l'antimarcia di Roma
di Angelo Mellone


Mettetevi addosso, ancora, i vestiti borghesi, di buona sartoria, di chi ha cominciato a scoprire Roma da grande perché da giovane, al tempo buio della militanza di sezione, in certi quartieri non potevi infilare il naso per non trovartelo rotto da qualche martellata d'odio. E mettete che in quegli stessi quartieri, ieri, anche lì, Gianni Alemanno ha dato punti a Francesco Rutelli.
Siamo sinceri, hanno provato in tutti i modi a rovesciare sull'ex segretario del Fronte della Gioventù, il militante che s'è conquistato per strada i gradi del rispetto e sui libri e nei ministeri il sigillo dell'autorevolezza, il peso del suo passato. Un passato stranoto, peraltro, che Alemanno non ha edulcorato nelle sue biografie. Si è però provato a sfruttare la croce celtica che porta al collo, la croce del suo amico Paolo Di Nella, come marchio di una storia off limit per l'ingresso in Campidoglio. E lo stesso Rutelli, negli ultimi giorni, ha cercato di sfoderare il cliché, vetusto ma ritenuto affidabile, della mobilitazione antifascista: non votate me perché sono io, non votate quello perché vuole trasformare Roma in una città cupa, perché sfrutta le paure della gente a fini elettorali. La diga del vecchio antifascismo ha ceduto di schianto, e alla fine la gente ha scelto tra due uomini e due idee della Capitale, senza spaccare il capello di manicheismi consumati nella polvere del tempo.
Ma non si è fatto i conti con un dato: la lunga militanza di Alemanno, mitigata dal suo volto dialogante e dall'affidabilità costruita al Ministero dell'Agricoltura, è esattamente ciò che ha convinto i romani a fidarsi di un ragazzo nato in Puglia che, come tutti gli immigrati risucchiati nell'abbraccio della Grande Meretrice, ha imparato ad amare Roma più di chi ci è nato. Lontano anni luce dal modello puponico o alla Alberto Sordi, epperò romano di certa schiatta. Volendo schematizzare, per vincere a Roma Alemanno ha messo su un pacchetto di mischia, di visione e di programma, simile a quello condensato nell'ultima fatica intellettuale del suo amico Giulio Tremonti o esemplificato nella campagna presidenziale di Nicolas Sakorzy: senza sicurezza non ci può essere speranza, senza identità culturale la modernizzazione è un progetto vuoto d'anima. E l'uomo forgiato nel cantiere ideologico della destra sociale, di una destra portata al dialogo sociale con i sindacati, all'elaborazione di alternative di governo, all'interlocuzione con il cattolicesimo organizzato, di una destra che non strilla sermoni anticomunisti, con l'ossessione della penetrazione nelle periferie, ha cavalcato con agilità il messaggio che i suoi spin doctor gli avevano affidato: rassicurare, rassicurare, rassicurare. Rassicurare la gente spaventata dall'immigrazione clandestina. Rassicurare le burocrazie umide, il milieu imprenditoriale, e la rete di poteri che aveva già decretato la permanenza di Roma nell'orbita di governo del Partito Democratico, impigriti dal quindicennio di centrosinistra e spaventati dalla «calata dei barbari». Rassicurare la destra che, apparentamenti a parte, non avrebbe tradito il mandato sarkozista, e rassicurare tutti gli elettori, come ha ripetuto fino allo spasimo nelle interviste e nelle dirette radiofoniche, che lui non era il candidato del centrodestra ma il candidato di centrodestra, in attesa di sperimentare gli effetti del ricambio democratico. Anche a Roma, con uno scatto inedito della meccanica elettorale, anche a Roma, par di capire, è finito il Novecento.

il Velino 29.4.08
Tv: il criminologo Picozzi varca “La linea d’ombra” su RaiDue


Roma, 29 apr (Velino) - “Il nostro scopo non è soltanto capire ‘chi’ si è reso responsabile di gesti crudeli ed efferati, o ‘come’ ha commesso i suoi crimini. Piuttosto vogliamo varcare ‘la linea d’ombra’, quel confine che sta tra normalità, follia e deliberato desiderio di fare del male, e comprendere ‘perché’. Perché un uomo, oppure una donna, si sia trasformato un giorno da persona apparentemente adeguata a killer spietato”, a parlare è Massimo Picozzi, il criminologo che da martedì 5 maggio in seconda serata su RaiDue conduce “Linea d’ombra”. Saranno otto puntate ognuna delle quali dedicata a un caso di violenza. Si parte da Gianfranco Stevanin, il killer delle prostitute, e si prosegue con Jeffrey Dahmer, il “cannibale” di Millwaukee; Michele Profeta, il “serial killer delle carte da gioco”; Andreij Chikatilo, il “mostro” di Rostov; Sonya Caleffi, l’infermiera “angelo della morte”; Richard Kuklinski, l’uomo “ghiaccio”; Daniela Cecchin, l’erotomane assassina; Harris e Klebold, i massacratori di Colombine. Sono tutti casi nei quali una giuria ha stabilito un verdetto certo, nei quali il colpevole ha un volto, ma le ragioni sono oscure e misteriose. “A nostro avviso – dice Picozzi, che firma il programma con Francesco Cirafici -, questi sono i casi che ci permettono di entrare nella mente criminale, senza correre il rischio inevitabile nei casi aperti di lanciarsi in ipotesi e speculazioni. Le vicende di cui ci occuperemo ne ‘La linea d’ombra’ sono comunque tra le più note e quelle che meglio si prestano a esemplificare tutta una serie di tipi di delitti”.
Il programma, per la regia di Riccardo Grandi, proporrà sempre una doppia lettura del delitto: quella degli investigatori, dei testimoni, degli esperti della scientifica, dei medici legali per comprendere cosa sia successo, caso per caso, delitto per delitto; e quella, più difficile, che porta alle ragioni perverse di un gesto, alla “linea d’ombra” oltre la quale si cela la mente di un assassino. Interrogativi, questi ultimi, ai quali tentano di rispondere filosofi, teologi, criminologi, psichiatri. Il titolo della trasmissione ricalca quello dell’ultimo romanzo scritto da Joseph Conrad, “Linea d’ombra” appunto, ed è a una frase dello scrittore polacco naturalizzato britannico che Picozzi si rifà per spiegare il senso della trasmissione: “Non è necessario credere in una fonte soprannaturale del male; gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità”. Picozzi, milanese di 51 anni, ha incontrato nella sua professione Erika e Omar, Annamaria Franzoni, le bestie di Satana. Tra i casi che affronterà in trasmissione quello che più l’ha colpito è quello di Michele Profeta. “Ognuna di queste storie – afferma il criminologo - mi ha coinvolto, lasciato un’esperienza indelebile, e forse tolto un pezzo di serenità”. Picozzi è consulente per il settore “true crime” per la casa editrice Mondadori e collabora alle riviste “A”, “Gente”, “GQ” e “Mente&Cervello”. Il 6 maggio esce il suo nuovo libro, “Un oscuro bisogno di uccidere”.

Liberazione 29.4.08
Sinistra, non di solo pane...
Ecco cosa non hai visto
di Lea Melandri


Se molti operai non avessero votato Lega, il 13-14 aprile 2008, forse non avremmo mai saputo cosa pensano dei gay, dei migranti, delle donne, dei dirigenti di sinistra, e del loro stesso lavoro. Da questo punto di vista, aver perso le elezioni è una fortuna e un'occasione da cogliere. Peccato che, dopo una rapida comparsa e altrettanto rapide interviste, siano spariti di nuovo dalla scena, per ridiventare l'oggetto delle verbose e perlopiù astratte dissertazioni di politici e intellettuali, che vorrebbero "rifondare" la sinistra, ripensare il "comunismo", ma partendo sempre dalle stesse domande: «che fare?», «con chi?». Con questa premessa, anche la risposta finisce per avere un sapore antico, che è nostalgia del già noto e, insieme, attesa di una miracolosa palingenesi.
Sull'orizzonte famigliare e perduto tornano ad allinearsi ancora una volta il popolo, il territorio, la gente, i lavoratori e le lavoratrici - un femminile d'obbligo dal momento che la questione di genere, rimossa come problema politico, è diventata una vera ossessione di correttezza linguistica.
Di fronte alle parole ricorrenti -"radicarsi nel sociale", "ritorno nei quartieri", "apertura all'esterno" - viene spontaneo chiedersi: «ma dove sono stati finora?». Forse in riunione. Con tutti quegli organismi impalcati l'uno sull'altro, fino alla cima della piramide del partito, l'autoreferenzialità è inevitabile, la schiera dei dirigenti si infoltisce e quando si cerca la "base" ci si accorge che non c'è più.
Nel documento della Conferenza nazionale di organizzazione, approvato il 16-17 dicembre 2006, si diceva che la crisi della politica e della forma partito riguardava anche Rifondazione: separatezza dei gruppi istituzionali, burocratismo, centralismo, personalismi, ingessamento del dibattito democratico. Nel Comitato politico nazionale di circa una settimana fa, convocato a ridosso del terremoto elettorale e dietro la pressione di quanti, dentro e fuori Rifondazione, vorrebbero avviarsi rapidamente verso una nuova sinistra "unita e plurale", l'idea di un possibile scioglimento, reale o immaginaria che sia, ha risvegliato spinte contrarie: la difesa di una "comunità di appartenenza", il rafforzamento di un "corpo collettivo", della sua storia, delle passioni che lo hanno alimentato. Un riflesso noto, prevedibile, che parla del difficile rapporto tra "gruppo chiuso" e "gruppo aperto", tra processi di "accomunamento" e settarizzazione, è venuto a coprire un lutto duplice: la sparizione di elettori fedeli e l'affacciarsi su un vuoto organizzativo, spinto quasi fatalmente verso la figura rassicurante di un leader carismatico. Colpisce il fatto che la minaccia alla propria sopravvivenza, il pericolo di disgregazione, dispersione di qualcosa che è stato conquistato con fatica, si sia così massicciamente spostata sul versante da cui sembrava venire, al contrario, la possibilità di un'apertura e di un potenziamento.
«Se nell'estraneo al gruppo non viene colta l'ostilità ma il suo contrario, vale a dire se nell'estraneo noi troviamo non il diverso ma l'uguale, il comune a noi, che pure esiste, allora tutto il movimento di elaborazione del gruppo si svolge con un senso diverso». La "comunanza stessa", in questo caso, diventa "un bene da estendere" (Elvio Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto? , "Quaderni piacentini", n.36, nov. 1968). Perché i gruppi, le associazioni, l'assemblea che si è riunita a Firenze il 19 aprile per proporre "case comuni della sinistra", sperimentazione di "laboratori di analisi e di pensiero", spazi decisionali aperti a tutti, "fuori da leaderismi e da centralismi democratici", non ha convinto a procedere nel ripensamento della forma partito avviato a Carrara, il 29 marzo-1 aprile 2007 con la nascita della Sinistra europea? Perché si invocano territori, radicamenti, soggetti sociali perduti, e non si vede la terra su cui si mettono i piedi, luoghi e persone che già ci sono? Perché tanto insistenza sull' "ascolto" di interlocutori lontani e distratti, e tanta sordità alla voce del vicino? Perché l'accelerazione verso la "costituente" di un nuovo soggetto della sinistra, capace di "impastare" idealmente lotte sociali e culture politiche diverse, non convince neppure chi, come me, non ha storia di partito né desidera averla, e pensa che questa forma organizzativa sia esaurita, e non da ora? Se a molti oggi appare inadeguata l'idea di partito come "organizzazione di combattimento", centralizzata e gerarchica - una specie di "stato dentro lo stato" - anche il dibattito che dovrebbe aprire la strada a nuove forme organizzative, così come è stato finora, appare molto meno "aperto, ampio, plurale" di quanto prometta.
Al di là delle affermazioni, traspare il rischio, sollevato al Cpn da Franco Russo, che a mettersi insieme siano solo "gruppi dirigenti", e, soprattutto, che si tratti ancora una volta di un ceto politico "neutro", cioè sostanzialmente maschile, tanto da far rimpiangere la consapevolezza nuova che era apparsa nella relazione di Franco Giordano a Carrara: «E per noi maschi c'è un problema che riguarda l'abbandono di ogni universalismo neutro e del riconoscimento della nostra parzialità, di dismettere il narcisismo che è sempre il segno più pubblico del cerimoniale del potere».
Ma non è solo la partecipazione democratica a far difetto in assemblee che dovrebbero far dialogare o confliggere culture diverse, e che si limitano a far sfilare sequenze di interventi "preiscritti", cioè pensati prima e al di fuori della relazione personale che si crea in un incontro, fuori quindi dagli imprevisti e dai cambiamenti che ne possono sortire. Insieme al femminismo, il pesante rimosso che si porta dietro la sinistra è tutto ciò che, connesso al destino femminile, è stato messo al bando dalla politica: il corpo, la persona, l'intelligenza e la sensibilità legati a esperienze fondamentali come la nutrizione, la riproduzione, l'amore, la cura. Di questa "mutilazione" e delle conseguenze che ne sono derivate alla vita politica, scrive con grande lucidità Marco Deriu, nel suo articolo Gli uomini il desiderio e la crisi della politica ("Pedagogika", n.6, dic. 2004):
«Quando si parla della crisi della politica e della partecipazione, si fa riferimento alla crisi dello Stato, delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati. Si fa riferimento cioè alla crisi delle forme, delle strutture, delle organizzazioni. Di conseguenza si propongono riforme, interventi, operazioni di ingegneria politica, nuove aggregazioni politiche nella speranza di colmare il vuoto…La concezione strumentale dell'azione politica, tipica della cultura maschile, tende a deificare i valori e i desideri di cambiamento sociale, trasformandoli in qualcosa di esterno, di oggettivo, di quantificabile. Le persone, in questo tipico modo di agire finalistico, divengono mezzi, strumenti, materia da plasmare per realizzare i nostri progetti razionali. Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sforzo di consapevolezza che riconosca il legame tra sé e il mondo, tra la propria esistenza e l'esistenza di altri esseri. In altre parole, quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, un nuovo soggetto o una nuova formazione. Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri».
Per un'azione politica che voglia tener dentro "unità e pluralità", differenza e condivisione, è necessario il rapporto diretto tra persona e persona, ma anche la disponibilità del singolo a lavorare su di sé, a mettersi in discussione. Quando si constata con sorpresa - come nel caso degli operai che hanno votato a destra - che "identità sociale" e "soggettività politica" sono scisse, si dice indirettamente che l'individuo, non solo non coincide col cittadino - anzi, diceva Tocqueville, è il suo "peggior nemico" - ma non si identifica neppure totalmente con la sua collocazione nei rapporti di lavoro, col suo essere in un territorio, né solo col suo ruolo sessuale nella coppia, nella famiglia.
L'essenza della politica, il motore primo della conflittualità sociale e della trasformazione, si sono venuti spostando, di volta in volta, su questo o quell'aspetto dell'esistenza, facendolo diventare unico e centrale. Dire che nel "sé", nel vissuto del singolo si danno concentrati e amalgamati bisogni, identità, luoghi, rapporti, passioni, fantasie, interessi e desideri diversi, è riconoscere che c'è un "territorio" che sfugge, o esorbita, dai confini storici e geografici, dai luoghi della vita pubblica - e quindi irriducibile al sociale - che è la vita psichica, una terra di confine tra inconscio e coscienza, tra corpo e pensiero, in cui affondano radici ancora in gran parte inesplorate.
Le "viscere" razziste, omofobe, misogine, su cui la destra antipolitica ha fatto breccia per raccogliere consensi, è il sedimento di barbarie, ignoranza e antichi pregiudizi, ma anche sogni e desideri mal riposti, che la sinistra, ancorata al primato del lavoro e della classe operaia, ha sempre trascurato, come se dopo il grande balzo della coscienza operato da Marx non ci fossero stati altri rivolgimenti altrettanto radicali, come la psicanalisi, il femminismo, la non violenza, la biopolitica, l'ambientalismo.
L'individuo, la persona, la soggettività intesa come esperienza del singolo e come corpo pensante, si sono fatti strada con fatica, fuori da vincoli famigliari e comunitari obbligati, e se sono andati assumendo sempre più le forme di un individualismo chiuso alla solidarietà, è anche perché su questo versante partiti e movimenti di sinistra hanno preceduto separati, guardandosi reciprocamente con sospetto. "Il personale è politico", per chi si preoccupava negli anni '70 di salvaguardare la grande "unità di classe", suonava come uno slogan "borghese". Oggi, chi sottolinea la dimensione metropolitana del politico, chi si batte per i diritti civili di conviventi, di gay e lesbiche, per la libertà femminile, per la cittadinanza dei migranti, passa per "radical chic". Eppure è dalla testimonianza diretta dei singoli, voci che si raccolgono fuori dal dibattito pubblico, fuori, soprattutto, dalla cerchia del ceto politico, che il "sociale" tanto invocato prende forma, caricandosi di ragioni e di senso. Non necessariamente quelli che ci aspettiamo, ma che tuttavia non possiamo ignorare, se si vuole davvero costruire un'alternativa meno violenta e alienata di società.
Tatiana Gentilizi, giovane operaia della Zanussi di Forlì, nell'intervista pubblicata dalla rivista "Una città", così descrive il suo lavoro: «L'importante lì è non parlare del tuo lavoro, che è un po' deprimente, ma di tutt'altro. Parli delle vacanze che hai fatto, di quello che ti sei comprata, del Grande fratello . Se non guardi il Grande fratello , là dentro sei un po' tagliata fuori…I giovani che entrano in fabbrica lo fanno probabilmente per bisogno, ognuno ha la sua storia. Però tutti, o almeno la stragrande maggioranza, lo vedono come un momento di transizione, per cui non si interessano più di tanto del loro essere operai…Non c'è più una condivisione profonda del lavoro, l'importante è passare comunque le otto ore nella maniera più tranquilla possibile e poi del domani chissenefrega, si vedrà. Di positivo c'è che ti dà la possibilità di pensare ad altre cose, puoi anche ascoltare la musica: puoi portare il walkman e sentirlo in un solo orecchio..Oggi l'operaio si sente meno operaio e prevalgono le strategie individuali».
«Non si vive di solo pane», dice Bloch, «soprattutto quando non se ne ha». L'insegnante di una scuola per apprendisti commessi e impiegati spinge i suoi alunni a mobilitarsi il 1° maggio sul disagio della loro condizione. Lei porta in corteo il cartello "Viva l'unità delle masse popolari", loro, pochi numericamente, esclamano "basta con la politica". Alla richiesta di quali fossero i loro interessi, le ragazze rispondono: «Le nostre letture sono di tutti i generi, in particolare riviste come Grazia , Gioia , Grand Hotel ». «Il mondo cui tendevano e tendono - commenta l'insegnante sulla rivista "L'erba voglio"
(n.1, luglio 1971) - e che vedono riflesso in tali letture, è un mondo fatto di vita non pressata dal bisogno di guadagno, una vita fatta di cose belle, di automobili sportive, di profondi affetti e storie amorose…vita che non vivono, e a cui pure tendono». In nota all'articolo, la redazione commenta: «Per poter veramente lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni».
Non potevamo accorgercene prima?