giovedì 1 maggio 2008

l’Unità 1.5.08
INTERVISTA A PIETRO INGRAO
«È mancata ogni unità a sinistra. Nella falla è passata l’ondata xenofoba della destra»
di Bruno Gravagnuolo


Il problema non è stato il rigore di Padoa Schioppa. Ma l’assenza di un’alleanza tra governo Prodi e sindacato

Il Pd è ormai centrista e moderato, la Sinistra arcobaleno è più di classe. Tra i due ci sia un rapporto fattivo

«Che dite a l’Unità e tu che pensi della sconfitta?». Comincia così, questa intervista con Pietro Ingrao sul «day after», con lui che chiede «lumi» all’intervistatore prima di iniziare. Ha le idee chiare in realtà, il vecchio leader. Infatti, appena arrivati in casa sua, troviamo sul tavolo giornali spiegati e sottolineati, e un foglio con gli appunti su quel che vuole dirci. Gli diciamo la «nostra», ma solo per farlo partire e concordare una «scaletta». E lui parte, dopo la prima domanda. Senza disperdersi e attorno a tre chiodi fissi. La xenofobia, gli sbagli di Veltroni e quelli della Sinistra Arcobaleno. Sentiamo.
Ingrao, perché il centrosinistra ha perso Roma dopo 15 anni, e come è potuto accadere che una destra ex missina abbia conquistato il Campidoglio?
«A mio avviso la ragione di fondo è stata l’ondata di paura e di insicurezza alimentata dalla presenza degli immigrati nel nostro Paese: e dunque prima di tutto un’ondata xenofoba, che ha aperto la strada ad Alemanno. La gente lo ha votato, sperando che espellerà “gli stranieri” dall’Italia. Il limite politico e di civiltà di questo atteggiamento mi sembra evidente. Nasce dal provincialismo e dal nazionalismo, anche localistico e leghista, di questa destra che grida: “fuori gli stranieri criminali e fuori quelli che li hanno fatti entrare!”. Tale mi sembra la fonte, l’impronta della vittoria della destra. L’altro aspetto che mi sembra evidente è la frantumazione delle forze di sinistra: sia sul fronte dell’Arcobaleno, sia su quello prodiano. Il soggetto che doveva sconfiggere quella destra reazionaria si è rotto in più pezzi: tra liti interne e partitini rissosi».
Veltroni però ha detto: noi siamo il partito maggioritario e andremo da soli. Eppure la sua non si definiva come una proposta «unitaria»?
«Non è stata così: la sua azione non ha saputo e voluto trovare il giusto raccordo con il mondo articolato e plurimo della sinistra che doveva sostenerlo e con cui doveva realizzare un accordo. Qui ha fallito».
Il Pd ha sostenuto che un accordo con la Sinistra Arcobaleno sarebbe stato oneroso e impopolare.
«Eppure da solo il Pd non poteva bastare: per l’entità delle forze che riusciva a mobilitare e per la debolezza della sua azione unitaria. Ai miei tempi avevamo l’ossessione dell’unità a sinistra per reggere lo scontro. Stavolta invece non c’è stata alcuna colleganza tra i moderati del Partito Democratico (perché tali sono) e le forze, seppure limitate, della sinistra classista. E alla fine è passata una confusa moltiplicazione dei soggetti, e Veltroni ha accentuato ancora di più la divaricazione. Persino lasciando intravedere un accordo bipartitico con Berlusconi. È mancata insomma la costruzione forte e articolata del soggetto alternativo. Lo si è visto in modo clamoroso a Roma, dove difatti Rutelli da solo non ce la ha fatta: non è riuscito a far fronte alla ondata xenofoba, tesa alla cacciata degli “stranieri” visti da tanta parte del popolo romano come una messa a rischio delle proprie condizioni di vita».
Ma non c’è stata anche l’insicurezza legata al disagio economico e alle politiche fiscali e rigoriste del governo Prodi?
«Sì, anche questo ha pesato. Ma più che politiche rigoriste, preferirei dire politiche di compressione della domanda e del salario. Padoa Schioppa non era un ciarlatano, e non mi pare sia stato il rigore di bilancio il vero problema. Semmai, fermo restando che il punto cruciale è stata la xenofobia, va riconosciuto che non c’è stato un terreno di incontro col sindacato sui salari. Va bene il rigore, ma andava conquistata l’adesione dei lavoratori a quella politica, con contrappesi adeguati che non ci sono stati. Il che ha messo in crisi l’asse tra lavoro, risanamento e sviluppo. Un’alleanza che invece era fondamentale, per l’intesa con la classe operaia e col lavoro dipendente. E così Prodi s’è trovato sotto l’attacco della destra xenofoba senza avere il sostegno della forze classiche del movimento operaio. In Italia fino agli anni 80 c’è sempre stato un soggetto plurale di sinistra, ben articolato nella sua faccia politica e in quella sindacale. Questo rapporto è saltato. Non si è realizzata e forse non è stata nemmeno tentata una intesa corposa tra Prodi e il sindacato. E in questa falla, sotto il peso della xenofobia, è passata la destra».
Oltre al Pd, la tua critica tocca dunque anche la Sinistra Arcobaleno. Dove ha sbagliato? E qual è il suo deficit di identità?
«A sinistra si sono spaccati in troppe sigle, in risse di gruppo, invece di realizzare la necessaria compattezza per incalzare l’ala moderata della coalizione. Dunque: da un lato i “moderati” di Veltroni e del PD hanno ammiccato a Berlusconi, dall’altro la sinistra radicale s’è smarrita nei suoi molti rivoli, senza trovare un baricentro programmatico e culturale chiaro».
Ma allora, da dove ricominciare dopo una sconfitta di queste dimensioni?
«Immagino dal realizzare l’unità sul programma, dinanzi a questioni che oggi chiaramente sono inscritte in una vicenda mondiale che ha travolto molti argini. È il ciclo del capitalismo mondiale dopo il 1989 che va ancora decifrato, con tutte le conseguenze che ne sono seguite: dal crollo dell’Est europeo, alla globalizzazione, alla guerra in Medioriente e oggi - temo - dinanzi a un probabile ritorno della recessione nel mondo. Sono sviluppi pesanti che dobbiamo guardare in faccia con chiarezza. È in questo quadro corrusco che Pd e Sinistra Arcobaleno devono ritrovare il loro ruolo. E penso innanzitutto alla riconquista di una tutela di classe per i ceti subalterni e diseredati; alla urgenza di rimettere al centro il tema della pace e della guerra, di cui non parla più nessuno. E invece la guerra, come sai, continua in zone cruciali del globo...».
E per il domani del Partito Democratico che strada, che sviluppi vedi?
«Tu mi chiedi del Pd. Ebbene il Pd è ormai una forza chiaramente centrista e moderata. E sia; ma dovrebbe evitare di civettare con Berlusconi, come mi pare abbia provato a fare Veltroni. In ogni modo non credo oggi che una tale forza tenda a spostarsi a sinistra. Forse è più realistico lavorare a costruire un rapporto attivo e fruttuoso con la sinistra radicale, essendo consapevoli della differenza netta che corre tra i due soggetti...».
Non potrebbero, almeno nella sinistra radicale, cominciare una buona volta a definirsi socialisti?
«Non tocca a me dare consigli del genere. Né mi interessa molto un discorso sui nomi, sulle sigle, e tantomeno dare giudizi su vicende che conosco limitatamente. Semmai io direi: a ciascuno il suo. L’Arcobaleno tenga fede alla sua connotazione di sinistra di classe. Il Pd faccia la sua parte "moderata", ma in chiave coerente e non compromissoria. E soprattutto, però, la sinistra in senso lato la smetta di dilaniarsi e ritrovi un minimo di unità».

l’Unità Roma 1.5.08
Il Prc: ora una opposizione culturale
Militanti e vertici del partito a confronto: «Non abbiamo la forza per opporci frontalmente»
di Luciana Cimino


RESISTERE e ricostruire. Con queste due parole chiave parte il nuovo corso della sinistra. Non c'è pessimismo tra le centinaia di partecipanti all'assemblea che Rifondazione Comunista ha aperto a iscritti e simpatizzanti. E ogni eventuale resa dei conti è rinviata alle posizioni del Comitato Politico Federale, lunedì prossimo. A Roma la sinistra è compatta: si riparte di territori per combattere una battaglia prima di tutto culturale. Un compagno cita l'ultima scena del film "Il caimano" di Nanni Moretti: «se ha vinto il berlusconismo allora è una opposizione culturale che dobbiamo intraprendere». Cambiare la logica con la quale rapportarsi alle periferie, perché è lì che si è perso la capacità di dare risposte, è lì che hanno scelto Alemanno. «Il voto disgiunto è un dramma culturale che riguarda i nostri quartieri popolari», dice il segretario romano di Prc, Massimiliano Smeriglio, «abbiamo 5 anni duri davanti, senza deputati, senza senatori, e con due consiglieri comunali». Dunque l'opposizione al nuovo sindaco non dovrà essere "frontista" ma basata sul programma. Per far questo, e per ritornare a parlare con la "sua" gente, Rifondazione sa quali meccanismi interni è bene evitare. «Rompiamo con l'autoreferenzialità – insiste Smeriglio - costruiamo un terreno di consultazione permanente, senza sindrome di accerchiamento». Ripartire da zero, insomma, non essere «oligarchici». La critica al Pd è feroce. E non viene solo da Andrea "Tartan" Alzetta, il primo dei due eletti al consiglio comunale per Sa. «Le borgate e le periferie non sono di destra ma hanno punito Veltroni che e' andato a braccetto con i poteri forti, il Pd rappresenta la casta e non dobbiamo essergli subalterni ma costruire un'altra idea di città», dice il militante di Action. La sottolineano un po' tutti gli interventi. «Preferivamo Zingaretti a Rutelli, lo abbiamo detto in tempo ma i rapporti di forza erano quelli, tuttavia siamo stati leali con l'ex sindaco non ci siamo risparmiati». Patrizia Sentinelli, che della campagna elettorale di Sa è stata coordinatrice, su questo punto si accalora, «Bettini ci hanno accusato di aver votato Alemanno per andare contro Rutelli, ma guardasse dentro casa sua!». E per il suo partito indica una strada «dentro un processo unitario, capace di aprirsi non solo alle altre forze della sinistra, ma anche ai soggetti sociali e che deve partire dal basso». Per l'assessore regionale al bilancio, Luigi Nieri, «questa è la strada giusta per ripartire, discutere in profondità fra noi; Alemanno ora dovrà cercare delle soluzioni che non sono facili come gli slogan, ci confronteremo sull'organizzazione della città e sui suoi valori, perché la differenza tra destra e sinistra c'è».

l’Unità 1.5.08
Storico israeliano: a Gaza in atto una pulizia etnica
Pappe rilancia la sua tesi a pochi giorni dal 60° anniversario della nascita dello Stato ebraico
di Umberto De Giovannangeli


L’intellettuale scomodo per Gerusalemme ha lasciato l’università di Haifa per insegnare
in Gran Bretagna

IL SUO ULTIMO LIBRO è destinato a scatenare dibattito e polemiche. Per il profilo del suo autore e per la tesi sostenuta. L’autore è uno degli intellettuali più scomodi di Israele e per Israele: Ilan Pappe. Storico, saggista, nato ad Haifa da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, Pappe ha insegnato per anni ad Haifa per poi trasferirsi all’Università di Exeter. Il libro in questione è «La pulizia etnica della Palestina» (Fazi Editore).
Partiamo dall’attualità. E dalla tragedia di Gaza. Israele giustifica l’assedio della Striscia come atto di difesa. È una giustificazione accettabile?
«Assolutamente no. Non è una giustificazione accettabile. L’assedio della Striscia di Gaza è una forma di punizione collettiva pensata per aumentare la pressione sui palestinesi perché abbandonino qualsiasi forma di resistenza e accettino di sopravvivere in quella che è una vera e propria gigantesca prigione costruita per loro».
Israele sostiene che la sofferenza della popolazione civile di Gaza è responsabilità assoluta dell’«organizzazione terroristica denominata Hamas». Qual è la sua opinione in merito?
«I rappresentanti di Hamas sono stati eletti democraticamente nel gennaio 2006 e pertanto sono i legali rappresentanti dei palestinesi residenti a Gaza. Qualunque rifiuto a negoziare con loro non potrà che prolungare la sofferenza per entrambe le parti in conflitto».
Tra pochi giorni Israele celebrerà il 60mo della sua fondazione. Quale bilancio trarre?
«Sfortunatamente, come ho cercato di spiegare ne La pulizia etnica della Palestina, il sistema di valori su cui si fonda lo Stato d’Israele fin dalla sua nascita non è fra i più nobili, essendo strutturato attorno a una ideologia etnocentrica che pone come prioritaria la necessità di avere uno Stato ebraico con una solida maggioranza ebraica che controlli larga parte dei territori palestinesi. Nel creare il proprio Stato-nazione, il movimento sionista non condusse una guerra che "tragicamente, ma inevitabilmente" portò all’espulsione di parte della popolazione nativa, ma fu l’opposto: l’obiettivo principale era la pulizia etnica di tutta la Palestina, che il movimento ambiva per il suo nuovo Stato. Questa visione non è cambiata affatto dal 1948 ad oggi. Il valore di uno Stato a base etnica è ancora al di sopra di qualunque diritto umano o civile».
In Italia è appena uscito il suo ultimo libro, «La pulizia etnica in Palestina» (Fazi Editore). Su cosa fonda questo grave atto d’accusa?
«Dopo un’attenta considerazione di quanto è realmente accaduto nel 1948, sono arrivato alla conclusione che l’unica definizione giuridicamente e moralmente corretta per descrivere fedelmente quanto realizzato dagli israeliani era proprio quello di pulizia etnica. È un termine giuridico che descrive qualunque tentativo da parte di un gruppo etnico di cacciarne un altro da un’area geografica condivisa, il che spiega esattamente la strategia israeliana. Ed è anche un concetto morale, che fa rientrare questo tipo di politiche nel campo dei crimini contro l’umanità. Mi lasci aggiungere che è nostro dovere strappare dall’oblio la semplice ma orribile storia della pulizia etnica della Palestina, un crimine contro l’umanità che Israele ha voluto negare e far dimenticare al mondo. Non tanto per un atto di ricostruzione storiografica o per un dovere professionale, ma per una decisione morale, in assoluto il primo passo da compiere se vogliamo che la riconciliazione possa avere una possibilità e la pace possa mettere le radici nelle terre lacerate di Palestina e Israele».
Quella che lei racconta è dunque una pace impossibile?
«No, tutt’altro. Resto convinto che Israele non ha altra scelta che quella di trasformarsi spontaneamente, un giorno, in uno Stato civile e democratico. Che ciò sia possibile, lo vediamo dalle strette relazioni sociali che palestinesi ed ebrei hanno intessuto, malgrado tutto, nel corso di questi lunghi e travagliati anni, sia dentro che fuori Israele. Quella pace, lo sappiamo, è a portata di mano: lo sappiamo, soprattutto, dalla maggioranza dei palestinesi che hanno rifiutato di lasciarsi disumanizzare da decenni di brutale occupazione israeliana e che, nonostante gli anni di espulsione e di occupazione, credono ancora nella riconciliazione. Ma la finestra di opportunità non starà aperta per sempre. Israele può essere destinato a restare ancora un Paese pieno di collera, le sue azioni e la sua condotta dettate dall’oltranzismo nazionalista e dal fanatismo religioso, la fisionomia del suo popolo permanentemente alterata dalla giusta vendetta. Ma per quanto tempo possiamo continuare a chiedere, se non a sperare, che i nostri fratelli e sorelle palestinesi continuino ad avere fiducia in noi e non soccombano completamente alla disperazione al dolore in cui sono precipitate le loro vite l’anno in cui Israele eresse la sua fortezza sopra i loro villaggi e le loro città distrutte?»

l’Unità 1.5.08
In aumento aggressioni antisemite


TEL AVIV Non si arresta la preoccupante ondata di anti-semitismo nel mondo. I casi registrati nel 2007, rispetto all'anno prima, sono aumentati del 6,6%, mentre sarebbero addirittura triplicate le aggressioni violente nei confronti di ebrei. È quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Istituto Stephen Roth dell'Università di Tel Aviv, uno dei più noti centri di «studio sull'antisemitismo e il razzismo contemporanei». Stando all'indagine, come riportano i principali siti israeliani, l'anno scorso sono stati denunciati 632 episodi di violenza a motivazione razziale contro gli ebrei, rispetto ai 593 del 2006. Il 57% degli attacchi del 2007 sono stati giudicati«particolarmente gravi», mentre un anno prima, in questa categoria erano stati classificati appena il 19% dei casi. Gli autori del rapporto, del resto, sottolineano che il trend di crescita della violenza anti-semita è proseguito nel 2007 anche in assenza di un «catalizzatore esterno», come era stata, per l'anno precedente, la Seconda guerra in Libano.
L'ultima ricerca parla comunque di una «doppia tendenza»: da un lato, ci sono diversi Paesi in cui gli episodi di antisemitismo sono diminuiti, dall'altro è stato riscontrato un aumento di aggressioni gravi condotte con un'arma o con l'obiettivo di uccidere, e di incendi dolosi, spesso negli stessi paesi. Esemplare il caso della Francia, dove i crimini dell'odio sono diminuiti dai 97 del 2006 ai 47 dell'anno scorso, mentre il numero di aggressioni pericolose è cresciuto da due a otto. In Australia è andata esattamente in senso inverso: gli episodi violenti sono diminuiti, da 49 a 29, ma nel 2007 sono stati messi agli atti cinque episodi di violenza grave rispetto all'unico caso registrato nel 2006. Nel frattempo, in Germania, Canada e Regno Unito si è riscontrata una crescita in entrambi i trend. Per quanto riguarda l'Italia, spiegano dall'istituto di ricerca,i dati raccolti non sono ancora completi.

l’Unità 1.5.08
Melograni e Villari insorgono
«Corsera», baruffa su Pci e Resistenza e Luzzatto a Resistere
di Bruno Gravagnuolo


E sul Corsera è furibonda polemica a tre. Polemica quasi in casa, se si considera che uno dei «triellanti», lo storico Piero Melograni, cura e coordina in Dvd la Storia del fascismo per il quotidiano milanese, oltre a esprimere un orientamento - ridiciamolo per comodità! - «revisionista», abbastanza vicino alla cultura «terzista» del giornale diretto da Paolo Mieli. Gli altri due protagonisti sono Sergio Luzzatto, storico «antifascista» a tutto tondo e collaboratore del giornale controtendenza. E poi Lucio Villari, storico di sinistra, contemporaneista e studioso di Usa e New Deal.
Apre i fuochi Luzzatto, che prima accusa Melograni di voler annegare la Resistenza nell’«equidistanza e nell’indifferenza morale», e di sfondare «porte aperte» invocando «smitizzazioni». Ma poi chiama in causa anche Villari, e per le spicce. Rimproverandogli di aver sostenuto che la Resistenza fu combattuta «soprattutto dai cattolici ancor più che dai comunisti». E il tutto a partire da due dichiarazioni di Melograni e Villari, sempre sul Corsera. Veemente la replica di Villari, che nega di aver sostenuto ciò che Luzzatto gli imputa. Ma unicamente di aver detto che «dentro lo schieramento moderato» operarono «soprattutto i cattolici», e che perciò solo in tal senso la Resistenza «non è patrimonio esclusivo dei comunisti». Aggiungendo: legga e si documenti Luzzatto, su ciò che fu la Resistenza. Al che Luzzatto ribatte e rincara: si rilegga quel che lui stesso disse, Villari! E non fugga nel «generico». Poi tocca a Melograni, che si difende così: «non si usi la Liberazione a fini politici». E ancora: «Non fu Liberazione», perché l’Italia era occupata da stranieri e gli Americani la liberarono, senza nulla togliere alla Resistenza. Inoltre, «non fu Liberazione», poiché ne venne fuori un’Italia bloccata, con il Pci vittima» a causa delle «sfere di influenza», che inibirono il ricambio politico. Chi ha ragione? Luzzatto. Infatti anche a noi era parso che Villari fosse stato almeno unilaterale. E nel voler correggere il «troppo Pci» nella Resistenza, finiva col fare ad esso torto. Perché è innegabile: Il Pci tra i combattenti civili ebbe ruolo preponderante. E Melograni? Sbaglia. Perché Liberazione vi fu eccome, «sfere di influenza» o meno. E di lì vennero la Costituzione e le libertà. Dentro il primo Stato democratico italiano. Negarlo, fosse anche con l’autorità di Franco Venturi (ma quando e come lo disse?) è una sciocchezza. O parlar d’altro, per non dire la verità.

l’Unità 1.5.08
Quella mattina con Calvino e Cartesio
Eugenio Scalfari


Per gentile concessione dell’editore anticipiamo un brano del libro di Eugenio Scalfari «L’uomo che non credeva in Dio» (Einaudi editore) in libreria a partire da martedì prossimo

Quella mattina pioveva e grandinava sui vetri dell’aula di seconda liceo, sezione C, liceo-ginnasio Cassini, Sanremo. Eravamo trentuno studenti in quella classe. I ripetenti quattro o cinque, confinati negli ultimi banchi come si usava allora.
Ma lo ricordo quel temporale, a Sanremo capitava di rado, c’era un clima un po’ speciale, infatti le famiglie facoltose di Torino e di Milano ci venivano a svernare per sopportare meglio gli acciacchi. E per giocare al Casinò.
Me lo ricordo perché quel giorno ci fu uno degli incontri importanti della mia adolescenza: l’insegnante di filosofia, che teneva lezione due volte alla settimana, aveva preannunciato il tema nella lezione precedente. Aspettò che la grandine finisse e tornassimo a sederci ai nostri banchi. Poi cominciò a parlare di Cartesio: la vita, la morte, le opere di geometria, di matematica, di filosofia, il suo tempo. Disse che Cartesio era, nella storia delle idee, un punto di arrivo e anche una ripartenza con tante biforcazioni. Insomma un crocevia dal quale comincia la modernità. «Se non capite Cartesio non capirete niente di quello che è venuto dopo e non capirete niente di voi stessi e del mondo che vi circonda».
Ci mise molto calore in quella perorazione, non l’aveva mai fatto con gli altri filosofi che già avevamo studiato con lui sul manuale del Lamanna. Forse con Socrate l’anno prima, ma non con quelle parole e quel tono che sembrava voler coinvolgere la vita di ciascuno di noi.
Il mio compagno di banco alzò la mano. «Dica pure», disse il docente che, insieme al prete che insegnava italiano e latino, rifiutava di usare il “voi” prescritto dal regime. «Secondo lei, professore, chi non fa il liceo e nemmeno sa che è esistito un certo Cartesio non potrà dunque dare nessun senso alla sua vita?».
Ci fu un gran silenzio in classe, perfino i ripetenti degli ultimi banchi in qualche modo chiamati in causa da quella domanda si fecero attenti. Il professore guardò fisso il mio compagno e ricordo che rispose con una domanda: «Lei, Calvino, ha già trovato il senso della sua vita?» «Beh, lo cerchiamo», replicò il mio compagno un po’ confuso. «Bravo. Lo potrà trovare in tanti modi. Coltivando le piante del suo giardino, chiacchierando con i suoi compagni, magari non in classe, e nella vita che le capiterà di vivere. Ma poiché lei è iscritto al liceo classico sezione C dove io insegno filosofia, l’aiuterà anche studiare i testi di Cartesio". Poi dette un’occhiata in giro e concluse: «Studierete tutto il Discorso sul metodo. Lo troverete nella libreria del Corso, edizione Paravia. Tra due settimane porterete il riassunto scritto e poi ne discuteremo dopo che avrò letto i vostri compiti».
La sua ora era finita. Prese la borsa rigonfia che non apriva mai e uscì dall’aula che sembrava un’oca impettita.
Ci fu una risata liberatoria dopo che ebbe chiuso la porta dietro di sé e la voce di Perci Roero, un altro nostro compagno che arrotava la erre, esclamò: «Per quella domanda cretina che hai fatto, adesso ci tocca leggere un libro intero. Nel manuale c'erano solo due pagine».
Era già la mezza e suonò la campanella. Uscimmo di corsa come sempre. Un sole marzolino stava asciugando la pioggia sul selciato della strada. (...)

Italo Calvino fu il mio compagno di banco in seconda e terza liceo. Nell’autunno del ‘41 ci disperdemmo tra varie Università: chi a Genova, chi a Torino, chi a Milano. Uno della banda scelse Agraria e andò a Perugia. Io a Roma. Ma per le vacanze di Natale e nei tre mesi dell’estate ci ritrovavamo tutti a Sanremo e lì riprendevamo le abitudini di un tempo, le passeggiate al corso, il biliardo, le interminabili discussioni; d’estate la spiaggia. Lo spazio dedicato alle ragazze era aumentato, avevamo passato la soglia dei diciotto anni, dall’adolescenza alla giovinezza.
Che stagione, l’adolescenza. Senti di poter esser tutto e ancora non sei nulla e proprio questa è la ragione della tua onnipotenza mentale. Non hai confini, l’immaginazione può spaziare ovunque, la vitalità non è canalizzata su un solo obiettivo, su un percorso prescelto e seguito con tenacia. Sei un dilettante di tutto, assaggi e pregusti, con la fantasia visiti Eldoradi ed Ellesponti, fantastichi eroiche avventure.
E leggi di tutto, quello che capita, un po’ alla rinfusa. Ma noi avevamo avuto la fortuna d’aver frequentato un buon liceo, come ce n’erano ancora tanti nella provincia italiana, e potevamo selezionare le nostre scelte. Poi ci passavamo i libri e ne discutevamo.
Conservo ancora una fotografia che mi ha seguito nei vari percorsi della vita: sei ragazzi seduti su una panchina d’un viale alberato di palme di fronte al mare. Di quei sei due sono morti da tempo e uno di loro è Italo che in quegli anni, dal ‘38 al ‘43, fu per me l’amico più intimo. Insieme incontrammo Atena dagli occhi fulgenti, come lui mi disse una volta tanti e tanti anni dopo, ricordando lo schiudersi delle nostre menti al pensiero pensante. E con Atena Odisseo, l’eroe del viaggio, dell’avventura e della conoscenza, il primo eroe moderno che l’epica di Omero ci ha tramandato. E di lì cominciò il nostro viaggio.
Io ricordo come cominciò, giocando con le prime idee, i primi libri, le prime ragazze, le prime certezze, le prime paure. Scherzando e litigando tra noi, come i cuccioli quando si rovesciano a terra e lottano muovendosi appena e ringhiando in allegria.
I giochi dei ragazzi si somigliano tutti. Diverso è il modo in cui sboccia la mente e si forma la persona.
Ma noi quel viaggio cominciato ai nostri «seventeen» non lo avremmo continuato insieme. Il viaggiatore è solo, il treno deserto. Alla stazione c’è gente, luce, talvolta allegria. Ma subito si riparte, non si sa perché, non si sa per dove. Noi fingiamo di porci dei punti d’arrivo che sono soltanto transiti, battuti dal vento e dalla polvere.

Il nostro sodalizio finì tre giorni dopo l’8 settembre del ‘43, una data che coinvolse tutto il paese segnando un solco profondo tra gli italiani che non è ancora rimarginato per chi l'ha vissuto in età di ragione.
Voglio raccontarla, quella tristissima giornata venuta dopo la caduta del fascismo e la precaria euforia d'una riconquistata libertà.
Dall’inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull’Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate.
Un giorno si diffuse la voce che una squadra navale inglese fosse in vista. Molti affollarono il lungomare e i binocoli passavano di mano in mano. Corremmo verso il belvedere di Capo Martino e qualcuno gridò che all’orizzonte si vedevano buccoli di fumo, ma io non vidi niente e i miei amici neppure. Sapemmo poi che Genova era stata bombardata anche dal mare.
Andavamo ancora in spiaggia la mattina, ma l’allegria era svanita, anche le ragazze erano tristi, si restava all’ombra degli ombrelloni senza voglia di tuffarsi e nuotare. Finché arrivò quel giorno e ancora una volta, come tutti i giorni dall’inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo.
Una voce che sento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell’armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo.
All’annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l’intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze. L’esercito prima di tutto. L’autorità del governo. Le leggi. La monarchia.
Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia. Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose, i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme. Ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera.
C’erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano solo voglia di lasciare quel luogo al più presto.
Domandammo se c’erano esplosivi. Risposero: «Esplosivi no, ci sono soltanto i proiettili per i cannoni costieri». «Ci sono anche i cannoni?». Risposero di no. «I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva». Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l’inventario. Loro risposero che se ne andavano, la ricevuta non serviva. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via.
Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e a gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po’ e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia.
Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre.
Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora, al telefono. Ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito ed ero affacciato al finestrino. Lo ringraziai di essere venuto. «Ci vedremo presto», gli dissi. «Non credo», disse lui. Il treno si mosse. Lui disse ancora «Ciau» con la u.
Ci siamo scritti nel ‘45. Due lettere, il resoconto dei due anni trascorsi, lui partigiano sulle montagne sopra Baiardo, io a Roma e poi in Calabria. Lui comunista, io liberale.
Poi più niente. Col tempo lui diventò un grande scrittore.
Lo rividi a Parigi nei primi anni Ottanta, a casa di un amico che abitava in una traversa di rue de Rennes, tra Saint-Germain e Montparnasse. Parlammo a lungo. Ero andato per invitarlo a lasciare il «Corriere della Sera» cui collaborava da anni e venire con me a «Repubblica». Aggrottò la fronte nello stesso modo che conoscevo, fisicamente non era cambiato, stempiato, solo questo. Io avevo la barba. «Ti sta bene, - mi disse, - sembri quasi una persona seria»; lo disse con ironia, come quando un tempo mi prendeva in giro perché scrivevo su «Roma fascista».

l’Unità 1.5.08
Pd, il momento di dire tutto
Gianfranco Pasquino


Resa dei conti: no, perché nell’anno trascorso dalle fatali decisioni di sciogliere due partiti, neppure troppo vecchi, e di farne uno, neppure abbastanza nuovo, di critiche esplicite, limpidamente espresse, almeno nell’ambito dello scarsamente rinnovato gruppo dirigente, ne sono state articolate pochissime e, sicuramente, non in maniera sufficientemente incisiva. Rendiconto, invece: sì. I voti si contano, con i loro numeri assoluti e non con le ingannevoli percentuali, come hanno fatto, fin troppo compiaciuti, i dirigenti del Pd mentre la Lega non era soltanto alle porte, ma già entrata allegramente anche a Bologna. E, i voti, non sono sicuramente risultati abbastanza numerosi. Anzi, la sconfitta, lasciando da parte le giustificazioni rassicuranti (non c’è stato abbastanza tempo per radicare il Pd), anche se non del tutto ingannevoli, è stata netta, inequivocabile. No, il Pd non era e non è, evidentemente, sulla strada giusta se, da un lato, cade malamente e meritatamente la Sinistra Arcobaleno, ma il Pd non recupera neppure uno dei suoi voti; dall’altro, persino a Roma, quasi centomila elettori se ne vanno in direzioni anche impensate pur di non convergere su Rutelli, anzi abbandonandolo.
Il rendiconto deve, naturalmente, farlo, come è sempre auspicabile in un partito che voglia essere effettivamente e concretamente democratico, il segretario. Ha avuto un mandato popolare molto forte. Si è scelto i collaboratori e i consiglieri. Ha deciso lui quale campagna elettorale fare, quali temi enfatizzare, quali toni utilizzare. È giusto, opportuno, utile che di tutto questo il leader, che ha fermamente voluto essere e rimanere un uomo “solo al comando”, discuta con il suo partito, trasparentemente, magari tenendo conto delle critiche e facendone tesoro. E se, come sostiene, le modalità della discussione e dell’eventuale congresso, sono molte, sia lui a definirle. Adesso. non è il caso di ripercorrere tappa per tappa le svolte che Veltroni ha impresso, per esempio, sulle controverse proposte di riforma elettorale e sulla “nomina” di candidate e candidati al Parlamento evitando le, pure tecnicamente possibili e politicamente efficaci, primarie. Senza trasformarsi in uno spezzatino, il Partito Democratico potrà radicarsi sul territorio esclusivamente se la sua leadership e i suoi parlamentari, donne e uomini, saranno già loro radicati su quel territorio, mai se saranno paracadutati o premiati per la loro fedeltà. Per radicarsi sul territorio il Partito dovrà, non tornare, ma cominciare a fare politica, che significa non soltanto ascoltare le voci dei cittadini, ma confrontarsi con le loro preferenze, sapendo che la sicurezza non è affatto l’unico tema importante e neppure quello che sovrasta tutti gli altri, impegnandosi a proporre soluzioni e, laddove ha il potere amministrativo, anche ad attuarle e, se del caso, a rivederle.
Per quanto coraggioso e, alla fine, anche, da qualche punto di vista, efficace, poiché ha semplificato e ridefinito lo schieramento partitico, “correre da soli” ha prodotto notevoli soprassalti di autoreferenzialità e di sgradevole isolamento. Torna, come è inevitabile e addirittura essenziale per un partito che ha di fronte a sé probabilmente cinque anni di opposizione in Parlamento, e nel Paese, con il compito di rappresentare anche le preferenze e le esigenze degli elettori della meritatamente scomparsa Sinistra Arcobaleno, il tema, parlamentare, politico, sociale, delle alleanze. Non è affatto un ritorno al passato, anche se, nel passato, la politica che ha avuto successo è riuscita a costruire non poche alleanze. Oggi, il tema delle alleanze è uno sguardo lanciato sul futuro; è un’attività meritoria che deve essere iniziata ponendo agli eventuali alleati la condizione dirimente della volontà di governare le contraddizioni del sistema politico e socio-economico italiano e della unità di intenti, come definita dai Democratici. Per questo, però, appare indispensabile che vi sia un confronto aperto e anche aspro all’interno degli organismi del Partito Democratico, un confronto che sia lasciato libero di nascere e di svilupparsi, senza costrizioni e senza pressioni, dal basso, ma che giunga ad investire tutto il quartier generale. Forse, queste parole, confronto libero, rinnovamento del gruppo dirigente, le abbiamo già sentite, anche troppo, dopo le periodiche sconfitte della sinistra riformista in Italia. La differenza è che, adesso, avvertiamo, sperabilmente, l’urgenza di agire coerentemente e concretamente, cambiando le politiche e, se possibile, elaborando idee, proposte, strategie. Almeno, questo è quello che le opposizioni sono costrette a fare nelle altre democrazie. Si può fare anche in Italia. Prima è meglio sarà.

Repubblica 1.5.08
Un predecessore giudica il discorso di Fini. Cofferati: mi ha fatto piacere il riferimento a 25 aprile e 1° maggio
Ingrao: "Bene chiedere pacificazione ma la Resistenza non si cancella"
di Alberto Custodero


ROMA - «Bene ha fatto Fini a chiedere la pacificazione. Ma il suo partito è stato dalla parte degli oppressori». Il richiamo del neo presidente della Camera, Gianfranco Fini, leader di An, ai «valori condivisi del 25 aprile», ha suscitato l´apprezzamento di un suo illustre predecessore, Pietro Ingrao, padre nobile della sinistra storica italiana. Ingrao, tuttavia, ha voluto ricordare a Fini - che non ha mai citato il nazifascismo, riferendosi genericamente a tutti i totalitarismi - che «cosa è stata la Resistenza, la guerra di Liberazione».
Con il leader di An che da anni tenta di scrollarsi di dosso la scomoda e pesante eredità del fascismo (arrivando a dire in Israele che «fu parte del male assoluto»), Ingrao, partigiano durante l´Occupazione, ha aperto ieri, forse per la prima volta, un dialogo sulla Resistenza.
«Anch´io - ha dichiarato Ingrao - vorrei la pacificazione. Ma per averla, dobbiamo ricordare quale tragedia umana ha attraversato il secolo scorso. Ricordare dunque. Ma anche insegnare a scuola. I miei nipoti devono sapere cosa fu quel tempo, le atrocità e le speranze degli italiani che si batterono per la libertà. Indicherei un libro da leggere: le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Giovani che i nazisti decisero di uccidere. Prima di morire scrissero i loro ultimi pensieri. E ognuno di essi si concludeva con una speranza: "verrà un giorno...". È infatti venuto il giorno della libertà. E verrà quello della pacificazione».
Commenti positivi, con opportuni distinguo, al discorso di Fini sono arrivati anche dal presidente dell´Anpi Tino Casali. «Le parole di Fini sono scontate - ha detto il presidente dei partigiani - non mi hanno sorpreso. I valori dell´antifascismo e della Resistenza che ancora oggi qualcuno vuole mettere in sordina, come democrazia, libertà e giustizia, vanno ricordati non solo durante i discorsi ufficiali. Ma tutti i giorni. Se ieri, all´indomani delle elezioni, un tassista che ha votato Forza Italia mi ha detto che bisogna tornare a gridare il motto fascista "boia chi molla", significa che la democrazia va ancora difesa ogni giorno, per dare un contributo essenziale al progresso civile e sociale di cui il Paese in questo momento ha un gran bisogno».
Soddisfatto per il riferimento di Fini al Primo Maggio (festa dei lavoratori che fu soppressa durante il ventennio), l´ex leader storico della Cgil, oggi sindaco di Bologna, Sergio Cofferati. «Sono contento - ha detto - che abbia pronunciato queste parole. Mi fa piacere che ci sia un riconoscimento così esplicito dei valori che ho sempre sentito miei e che so di milioni di persone». Per l´ex presidente del Senato, Franco Marini, ex segretario della Cisl, «il discorso di Fini è stato ampio, dai toni assolutamente rassicuranti. Quindi voluto. Come ex sindacalista, mi ha fatto particolarmente piacere». Più critico un altro ex leader della Cisl, Pierre Carniti che, dopo aver giudicato il discorso di Fini nel suo complesso «equilibrato», ha sottolineato il silenzio sul Fascismo. «Visto che Fini ha espresso implicitamente un giudizio negativo sui "totalitarismi" - ha chiosato Carniti - forse era il caso di dire che gli italiani nel Ventesimo secolo hanno sperimentato il fascismo. E quindi dobbiamo essere grati a tutti quelli che hanno combattuto per la Liberazione».

Repubblica 1.5.08
Il vicepremier: nessuna resa dei conti. Ma da Letta a Rutelli si riarmano tutte le componenti
Il segnale dei dalemiani agita il Pd e tornano le riunioni di corrente
Latorre: serve un radicamento. La corrente? So che altri si stanno organizzando
di Goffredo De Marchis


ROMA - Con la doppia sconfitta sulle spalle (voto nazionale e Roma) sarà più difficile realizzare il sogno di Walter Veltroni declinato ripetutamente da Goffredo Bettini: un partito senza correnti. Si stanno riorganizzando invece, s´incontrano, si parlano, discutono, anche se qualche volta il summit assomiglia più a una festa che a una riunione dove si studiano piani politici, scalate alla leadership. È accaduto per esempio martedì sera ai parlamentari vicini a Enrico Letta, quasi tutti novizi e giovani. Sono 13, una pattuglia piccola ma che potrà avere il suo peso. Il sottosegretario a Palazzo Chigi, finita la prima seduta delle nuove Camere, li ha portati a cena in un bel ristorante del centro storico.
C´è dunque il benvenuto affettuoso di Letta (in cui comunque la discussione sul futuro è stato il piatto forte). E anche di più. L´altro ieri Francesco Rutelli ha riunito i suoi "coraggiosi" in contemporanea con il vertice dei leader del partito. Come a dire che la sua partita si gioca fuori dai dibattiti tra i big, dal "caminetto" che rischia di diventare uno strumento odiato da tutti i simpatizzanti del Pd. Lo sconfitto di Roma, ai suoi fedelissimi, ha annunciato il ponte del Primo maggio al mare: «Lì rifletterò e ci rivedremo». Anche Piero Fassino ha incontrato i dirigenti a lui più vicini, nelle ore calde dello scrutinio romano, lunedì pomeriggio. Naturalmente non mancano le riunioni dell´area ex popolare che fa capo a Franco Marini e le consultazioni continue dei parlamentari vicini a Dario Franceschini. Veltroni non ha mai amato il sistema delle componenti neanche ai tempi della segreteria ds, ma non si può dire che ora non abbia un gruppo di fedelissimi e una nutrita "corrente" di parlamentari scelti da lui.
Ma l´area più temuta al loft è sempre quella che fa riferimento a Massimo D´Alema. Ieri il ministro degli Esteri ha detto: «Nessuna resa dei conti». Poi però è arrivato il segnale alla segreteria contenuto nei 48 voti che non sono andati ad Antonello Soro nell´elezione del capigruppo alla Camera. Il grosso di quei dissensi viene dalla pattuglia dei dalemiani che apertamente sosteneva l´ascesa di Pierluigi Bersani. Gianni Cuperlo, oggi deputato ma che di D´Alema è stato il ghost writer, sul suo blog rivela la sua preferenza: scheda bianca. E lancia un allarme a proposito della discussione generale sulla sconfitta: «Così un grande progetto può morire». Toni catastrofici anche nelle parole di Roberto Gualtieri, vicedirettore della Fondazione Gramsci: «La generazione dei post-comunisti e dei post-democristiani deve imparare a contarsi, a dividersi. Solo così può trovare l´unità vera. No alla guerra mondiale tra correnti, ma no anche all´unanimismo di facciata». Il dalemiano Gualtieri è un supporter delle correnti, cioè di «sedi discussione politica» e nemico del "caminetto" «esasperazione del correntismo dove siedono tutti i capibastone».
Tutti gli occhi sono puntati sulle mosse dei dalemiani, tanto più dopo il voto sul capogruppo della Camera che ha fatto emergere la fronda per il momento molto minoritaria. Ieri D´Alema alla Camera ha parlato con Beppe Fioroni, con Enrico Letta, oltre che con Casini e Pezzotta. Si parla di nuove iniziative della corrente, appuntamenti pubblici, convocazioni. «Allo stato l´area dalemiana non c´è», garantisce Gualtieri. Il braccio destro del ministro Nicola Latorre si limita a spiegare che «ora il partito ha bisogno di un radicamento sul territorio». E la corrente? «So che altri si stanno organizzando», è la risposta sibillina.

Repubblica 1.5.08
Carlo Flamigni, ginecologo e pioniere della provetta
"È un primo passo avanti ma tre embrioni restano pochi"


ROMA - Professor Flamigni, come giudica le nuove linee?
«Un grande atto di coraggio da parte di un ministro che non è certo un cuor di leone», dice Carlo Flamigni, ginecologo e pioniere della fecondazione assistita.
Un voto?
«Sette più, perché ha abolito il divieto di diagnosi di pre-impianto e dato il via libera alla fecondazione assistita nel caso in cui il futuro papà sia portatore di malattie sessualmente trasmissibili».
Non è soddisfatto?
«Resta il problema fondamentale dei tre ovociti come numero massimo consentito per ogni ciclo. Un numero troppo basso che riduce le possibilità concrete che si arrivi ad una gravidanza, anche per questo sono stati presentati ricorsi in questi giorni».
Fine dei viaggi?
«No, le coppie continueranno ad andare all´estero dove si fa la diagnosi ma soprattutto non c´è limite al numero di ovociti e si possono congelare gli embrioni».

Repubblica 1.5.08
La nuova rivoluzione che non abbiamo capito
di Alain Touraine


A lungo abbiamo descritto e analizzato la realtà sociale in termini politici: ordine e disordine, pace e guerra, potere e Stato, re e nazione, Repubblica, popolo e rivoluzione. Poi la rivoluzione industriale e il capitalismo si sono affrancati dal potere politico e sono diventati la "base" dell´organizzazione sociale. Abbiamo quindi sostituito al paradigma politico un paradigma economico e sociale: classi sociali e ricchezza, borghesia e proletariato, sindacati e scioperi, stratificazione e mobilità sociale, disuguaglianze e ridistribuzione sono diventate le categorie di analisi più utilizzate.

Oggi, due secoli dopo il trionfo dell´economia sulla politica, queste categorie "sociali" appaiono confuse e lasciano in ombra gran parte del nostro vissuto. Abbiamo perciò bisogno di un nuovo paradigma; non possiamo infatti tornare al paradigma politico, perché i problemi culturali hanno assunto una tale importanza che il pensiero sociale va riformulato di conseguenza.
È all´interno di questo nuovo paradigma che occorre situarsi per poter definire gli attori e i conflitti attuali, continuamente svelati da uno sguardo capace di mostrarci nuove prospettive.
La ricerca del punto focale di questo nuovo paesaggio ci porta immediatamente ad affrontare il tema dell´informazione, un indice rivelatore della rivoluzione tecnologica i cui effetti sociali e culturali sono visibili ovunque. E, più precisamente, l´aspetto su cui ha insistito, a ragione, Manuel Castells: l´assenza di ogni determinismo tecnologico nella società dell´informazione. È questo a distinguere nettamente la nostra società dalla società industriale, in cui la divisione tecnica del lavoro era inseparabile dai rapporti sociali di produzione. La grande flessibilità sociale dei sistemi di informazione crea una situazione nuova: un´affermazione che contraddice i discorsi, fin troppo frequenti, sull´invasione della società da parte delle tecnologie, ma che risulta utile a coloro che definiscono innanzitutto la globalizzazione in termini di dissociazione fra l´economia globalizzata e le istituzioni le quali, esistendo solo a livelli più bassi, nazionali, locali o regionali, non sono in grado di controllare sistemi economici che agiscono a un livello molto più ampio. Allo stesso risultato conduce la percezione della violenza, delle guerre, dei sistemi di repressione: il mondo della violenza politica organizzata non è più un mondo sociale. Gli stati moderni presero forma guerra dopo guerra; i conflitti attuali, invece, non hanno valenza politica o sociale. La guerra non è più l´altra faccia del conflitto sociale.

Tutte queste osservazioni concordano su un punto: il crollo e la scomparsa dell´universo che abbiamo chiamato "sociale". Questo giudizio non deve sorprendere; sono milioni le persone che deplorano la rottura dei legami sociali e il trionfo di un individualismo disgregatore. Accettiamo quindi di assumere, come punto di partenza dell´analisi, la distruzione di tutte le categorie "sociali", dalle classi e movimenti sociali fino alle istituzioni e alle "agenzie di socializzazione" – formula coniata per indicare la scuola e la famiglia nel momento in cui l´educazione fu definita una forma di socializzazione.
La perdita di centralità delle categorie "sociali" è così nuova che stentiamo a rinunciare alle consuete analisi sociologiche.
Certo non è facile parlare di analisi "non sociale" della realtà sociale. Eppure, a ben riflettere, questa espressione non suona molto più strana della formula "società politiche" applicata prima alle monarchie assolute e in seguito, quando il riferimento a Dio e all´espressione sociale delle credenze religiose perse la centralità attribuitagli fino ad allora, agli Stati nazionali. Si potrebbe persino tracciare il percorso che porta da collettività fondate su princìpi esterni di legittimazione, in particolare religiosi, ad altre la cui legittimità fu fondata sulla politica e ad altre ancora che si configurarono in termini di sistemi economici e sociali; fino a giungere al nostro tipo di vita sociale preso d´assalto, da un lato, da forze non sociali come interesse, violenza e paura e, dall´altro, da attori i cui obiettivi, anch´essi tutt´altro che "sociali", sono fondamentalmente la libertà personale o l´appartenenza a una comunità tradizionale.
L´ipotesi che ho sinteticamente tracciato condanna l´analisi sociologica e le sue possibilità a fine certa? La domanda si farà sempre più pressante man mano che ci avvicineremo alla conclusione della prima parte di questo libro, dedicata all´affascinante e inquietante "fine del sociale".
La scomparsa delle società come sistemi integrati e portatori di un senso generale, definito in termini di produzione, significato e interpretazione, ci pone in effetti di fronte a un mondo oggettivo di cui, come ha sostenuto Jean Baudrillard, il mondo virtuale è un´espressione estrema. Questo estremo, assoluto realismo bandisce dal campo sociale tutto ciò che gli è estraneo: la guerra e ogni forma di violenza, le ondate di irrazionalismo, la crisi degli individui, pieni di problemi e ormai impossibilitati ad affidarsi, per risolverli, alle istituzioni civili, giuridiche o religiose.
L´inquietudine e, talora, l´angoscia derivate dalla perdita dei punti di riferimento abituali vengono ancora più accentuate dall´onnipresenza di criteri di valutazione economici che non corrispondono all´intensità crescente della domanda, ma piuttosto la creano attraverso le scelte operate dai decisori economici di mantenere a un livello basso, o al contrario elevato, il prezzo della maggior parte dei prodotti. L´idea tradizionale che il prezzo di un prodotto dipenda dall´incontro della domanda e dell´offerta è sempre meno applicabile; e tra i prodotti creati dalla pubblicità, dalla propaganda o dalle politiche di guerra figurano anche le immagini di noi e del nostro io. È per questo che abbiamo la sensazione di perdere distanza e indipendenza da costruzioni, in tutto e per tutto ideologiche, che determinano il nostro sguardo quanto gli oggetti che guardiamo. (...)

Ma se è assurdo credere che la catastrofe sia inevitabile, tuttavia bisogna ammettere che i cambiamenti in corso non si riducono all´apparizione di nuove tecnologie, a un allargamento del mercato o a un nuovo modo di vivere la sessualità. Stiamo cambiando paradigma nella nostra rappresentazione della vita collettiva e personale. Stiamo uscendo dall´epoca in cui tutto trovava espressione e spiegazione in termini sociali e ci vediamo obbligati a esaminare come si costruisce questo nuovo paradigma, che ha riflessi su tutti gli aspetti della vita collettiva e personale. È ormai urgente capire a che punto ci troviamo e quale discorso sul mondo e su noi stessi potrà renderci questo mondo, e noi stessi, comprensibili. Prima di cercare di definire la natura di questo nuovo paradigma, è quindi opportuno prendere coscienza della rottura che ci sta rapidamente separando dal passato ancora prossimo.

Repubblica 1.5.08
Un patto per l’inferno
"Heil hitler", un saggio del sociologo tedesco Tilman Allert
Storia del saluto nazista
di Susanna Nirenstein


Obbligatorio fin dal ´33, invocava il Führer, come un dio, a tutelare l´incontro
Quel gesto creò l´indifferenza morale che aprì la strada ad Auschwitz

Durante un viaggio in Germania nel 1937, Samuel Beckett, arrivato a Ratisbona, in Baviera, scrisse nel suo diario «Passo davanti alla chiesa dei domenicani.., e noto che sul cartello sopra la porta nord Grüss Gott (Che Dio ti saluti) è stato cancellato e sostituito con Heil Hitler!!!»). Quei tre esclamativi rendono speciale l´annotazione (cogliendo immediatamente lo scandalo della sostituzione del Führer a Dio), ma non era la prima volta che Beckett era arretrato di fronte all´uso onnipresente del saluto hitleriano: è un «HH senza fine» aveva annotato, «perfino i custodi delle latrine salutano con Heil Hitler». Parte di qui Tilman Allert per chiedersi nel suo Heil Hitler, Storia di un saluto infausto (il Mulino, pagg. 98, euro 10, da domani in libreria) cosa significò per la Germania cancellare ogni forma tradizionale di comunicazione tra chi si incontra.
Per Allert, che insegna sociologia all´università di Francoforte, l´adozione di quel saluto proclama, da sola, la disponibilità a «sacrificare ogni interesse e valore in favore del regime», e a far sì che il proprio comportamento nella vita quotidiana sia parte di «una missione sacra e transtorica», rovesciando il significato stesso del gesto e delle parole con cui normalmente si accoglie o si avvicina un´altra persona, sovvertendo dunque le basi stesse della comunicazione, distruggendo dall´interno il parlare, preparandosi così ad accogliere e incarnare l´energia distruttiva sprigionata dal nazismo. In altri termini, il degrado morale del Terzo Reich, dice Allert, «non arriva di colpo e da non si sa dove, ma è il risultato di una perdita di sovranità su se stessi», linea in cui il rigetto di un atto sociale universale come il saluto, un buongiorno o un salve che auguri il bene all´altro, ben rappresenta la notte a cui si abbandonarono i tedeschi.
Dell´importanza della sacralizzazione della politica e dei suoi gesti, dei riti adottati dai totalitarismi e della loro capacità di trasformare la mentalità, il carattere e il costume dei cittadini fino a generare "l´uomo nuovo" che si affida in toto alla religione del regime, hanno già scritto molti, basterà citare George Mosse con La nazionalizzazione delle masse (il Mulino) fin dagli anni ‘70, e più tardi, per quel che riguarda il fascismo, Emilio Gentile per il suo Culto del littorio (Laterza). Ma certo è la prima volta che qualcuno dedica un intero libretto ai significati della modificazione del saluto nel nazismo, un saggio al quale forse manca un raffronto con quel che avvenne nel comunismo e con Mussolini.
Da pronunciare col braccio destro teso in avanti e alzato fino all´altezza degli occhi, il palmo della mano aperto, quel giuramento di fedeltà a Führer che vigila come un dio sul buon andamento dell´incontro tra umani, fu reso obbligatorio con uno dei primi atti del governo del Partito Nazionalsocialista. Lo fecero più circolari del 1933. Chi non aderiva al "saluto tedesco" (lo chiamarono subito così) poteva essere multato, portato in tribunali speciali, perfino mandato in campo di concentramento. Era un attestato di lealtà, e fu largamente accettato, anche se certo non mancarono i refrattari, i distratti, gli indifferenti. Victor Kemplerer, nel suo diario (Testimoniare fino all´ultimo, Mondadori, a pagina 76) annota come si ritrovi lui stesso ad alzare il braccio in avanti, e a dire «Heil», ma «Heil Hitler non riesco proprio a pronunciarlo». Eppure all´estero non fece scalpore questo stravolgimento del linguaggio sociale: nei giochi olimpici a Berlino per esempio, nel 1936, la squadra francese e quella inglese entrarono nello stadio salutando a braccio teso in segno di rispetto verso il paese ospitante.
«Heil Hitler» invade dunque il vivere comune, fa sì che il singolo percepisca, anche quando entra dal tabaccaio «di fare comunque parte d´una sfera d´azione pubblica». Come è potuto accadere che quel gesto ridicolo così ben interpretato da Charlie Chaplin nel Grande dittatore, si sia subito imposto negli ambiti privati dei tedeschi? Per Allert, lo si può capire solamente se si vede il "saluto tedesco" «non solo come un prodotto di quei tempi oscuri e sinistri, ma come un tassello che ha contribuito a instaurarlo», proprio perché «segnò la regressione della Germania in uno stato di noncuranza morale in due modi: impresse sull´atto della comunicazione il marchio del fallimento del dialogo, e segnò il trionfo del radicalismo sociale sullo spazio fragile della dignità e delle interazioni sociali».
Tappa necessaria dell´analisi è chiedersi se l´«Heil Hitler» fosse veramente un saluto, ovvero quel qualcosa in grado di creare socialità, di far nascere quella reciprocità basilare che è fondamento e strumento dell´incontro. La risposta lungamente articolata, come si intuisce, è no, se si considera appunto che il consueto augurio di un «Buongiorno» è il primo regalo a chi si saluta. Nelle forme più tradizionali, ricorda il sociologo tedesco, la comunicazione a volte chiamava anche un terzo a presiedere l´avvicinamento e l´augurio iniziale tra due persone, «Che Dio ti conceda un buon giorno» si diceva (Gott wnscht Dir einen guten Tag), «Gruss Gott» («Che Dio ti saluti»), due forme per accogliere chi si è salutato nella sfera morale di un potere ultraterreno che definisce la comunità a cui si appartiene.
Evidente che i nuovi valori accolti dall´«Heil Hitler» costringono i tedeschi a definire se stessi e i valori di riferimento in rapporto al Führer, innalzandolo al ruolo di terzo preposto ad ogni interrelazione.
Ma c´è di più, il saluto nazista promette di semplificare il rapporto sociale, «spiana una strada apparentemente senza fronzoli verso l´interlocutore, neutralizza le pretese di classe (abolendo ogni ruolo). e rimuove le complicate regole delle buone maniere» che comunque prima facevano appello al concetto di sé e alla morale personale: il regime si infiltra in ogni minimo aspetto della vita quotidiana. Il saluto tedesco si appropria perfino della Bella addormentata del bosco, raccontata ai bambini delle scuole: il principe quando bacia la donzella alza il braccio destro, diventando così «l´eroe che ha liberato il nostro popolo dal sonno mortale» come recita un testo di pedagogia del ‘36.
Allert ci racconta come l´«Heil Hitler» prese piede tra i ragazzi, per strada, ovviamente nei luoghi pubblici e negli uffici, chiarendo così il suo senso, che Joachim Fest inscriverebbe nella psicologia delle religioni (Hitler, Garzanti): creare una pratica comunicativa travestita da saluto, che in realtà era «una specie di fascia parlante da portare al braccio, un documento di appartenenza», niente a che fare con la nota accogliente che vuol indurre l´altro a parlare. Con l´«Heil Hitler» al contrario si sacralizza la dimensione terrena: il Führer viene invocato a tutelare l´incontro, «e non basta: l´elemento sacrale, prende vita nelle relazioni tra le persone, diviene un mezzo di comunicazione che trascende la realtà» e non prende in considerazione l´altro.
Anche il gesto è trascendente: la direzione del braccio travalica chi viene salutato, che non viene toccato ed anzi è tenuto a una certa distanza, mentre la concentrazione militaresca del corpo evoca il giuramento, la promessa, la disponibilità alla morte.
Proprio per preservare il carattere sacro del saluto, nel ‘37 agli ebrei venne vietato di usarlo: per tutti gli altri quel gesto diventa magico, come magica è la forza che evocano e «che li porta a incrociarsi da estranei in un luogo dove regna la grandiosità», lontani da ogni identità individuale. E´ questo il punto, se ci si spoglia della propria individualità, dei valori che ognuno di noi porta iscritti nel cuore e nella mente per come, dove e da chi siamo nati e siamo cresciuti, cade il pensiero, cadono i dubbi faticosamente coltivati, si apre spazio all´indifferenza e alla delega.
Naturalmente ci fu chi disse che il «saluto tedesco» era uno scimmiottamento del saluto fascista: Mussolini, ricorda Allert, l´aveva scelto per «esprimere un atteggiamento antiborghese e cercarvi un richiamo gestuale all´impero romano, sottolineando così la rivendicazione di un dominio imperiale transtorico» e fu Rudolf Hess stesso a scrivere che se anche il saluto proveniva dai fascisti la cosa non era deleteria: «Il bolscevismo ha diffuso i suoi simboli in tutto il pianeta. Coloro che combattono per il nazionalismo, allineati sul fronte dei rispettivi paesi, dimostrano con l´affinità del saluto di avere un punto in comune nella lotta contro i comuni nemici internazionali» dice un suo articolo del 1928. Poi vi fu l´inserimento verbale, e che inserimento, Hitler!
In conclusione, secondo la visione di Allert, il pathos cosmico e fideistico introdotto dall´«Heil Hitler», il suo rituale obbligatorio, se da un lato consolidarono la religione nazista, dall´altro aumentarono la diffidenza, il sospetto, la dissimulazione che permearono la società tedesca, in mezzo alla quale prese vita e prosperò quella indifferenza morale, quel «peccato di omissione del bene» che altro non fecero se non aprire la strada alla costruzione dei campi di sterminio.

Corriere della Sera 1.5.08
Primo Maggio. Politica e welfare
Una società senza speranze collettive
di Giuseppe de Rita


Fa una certa impressione constatare che nelle vicende pre-governative di queste settimane non c'è alcuna intenzione di presidiare organicamente il crescente disagio sociale che caratterizza oggi il Paese.
La difficile integrazione degli immigrati, le paure di regressione del ceto medio, il bullismo e lo sballo dei giovani e giovanissimi, la delegittimazione dei processi formativi scolastici, le difficoltà (culturali e valoriali più ancora che economiche) delle famiglie, la crescita degli anziani e dei non autosufficienti, l'ancora sostanzioso bisogno di nuove abitazioni, la paura della disoccupazione per i laureati e diplomati, l'insoddisfazione per il sistema sanitario; bastano questi parziali riferimenti per ricordare a tutti che viviamo un periodo in cui la società ha problemi gravi. E non solo di settore, come nella precedente elencazione, ma complessivi, se è vero come è vero che avvertiamo tutti che siamo una società schiacciata su un mediocre presente e senza senso di marcia e quindi senza speranze collettive, una società impaurita e triste.
Su una realtà di questo tipo la politica (dei governi passati e futuri) non sa elaborare un approccio complesso e si perde nei diversi fenomeni e problemi di settore: a qualcosa penserà il Viminale, a qualcosaltro il ministro dell'Istruzione e della Ricerca, a qualcosaltro ancora quello della Salute, a qualcosaltro il ministro del Welfare; forse alla casa quello delle Infrastrutture, alle famiglie un ministro senza portafogli, al resto le Regioni e i Comuni. E così, c'è da esserne sicuri, il disagio complessivo aumenterà, con le rabbie e i rancori che poi fanno le emozioni portanti del voto elettorale.
Quel che è concesso al disagio e alle paure economiche, cioè il presidio di due soli ministeri (Economia e Sviluppo economico) e di due ministri di prima scelta, non è concesso al disagio sociale, lasciato pericolosamente non presidiato sul piano politico generale e pericolosamente frammentato in ministeri ormai stanchi e con ministri di seconda scelta e senza grande peso. Con il rigido legislativo accorpamento dei ministeri (dodici non di più) la soluzione del problema non è oggi possibile, anzi si rischia lo spacchettamento fra Welfare e Salute; ma chi vorrà governare l'Italia dei prossimi anni dovrà trovare un approccio sufficientemente unitario ai tanti problemi, alle tante facce della profonda crisi sociale che stiamo attraversando. La sua sottovalutazione finirebbe per essere pagata amaramente.

Corriere della Sera 1.5.08
L'ex capo dello Stato e la «dimenticanza» del neopresidente
Scalfaro: Fini, caduta di stile continuare a negare i fatti
«L'antifascismo? Fermai Bruxelles ma ora atti concreti»
di Marzio Breda


Gli racconti che Gianfranco Fini, al momento di insediarsi alla guida della Camera, ha elogiato il «nobile e coraggioso impegno per la pacificazione nazionale profuso da Cossiga e Ciampi» e ha deliberatamente trascurato il suo nome, e lui resta per lunghi secondi in silenzio. Gli esce una sola parola, appena mormorata e dunque incomprensibile, il cui labiale potrebbe essere forse tradotto in «scostumatezza », «bassezza» o anche «tristezza ». Poi si rischiara la voce e si prepara a rispondere.
Presidente Scalfaro, l'omissione di Fini dimostra che per il Popolo della libertà lei resta un avversario. Che gliene pare?
«Non voglio incrociare alcun dialogo su questo. Ho sentito il discorso di Schifani al Senato, e mi è parso alto, al di sopra delle piccole contese. Quanto a Fini, dico solo che continuar a negare i fatti o alterarli così come sono nella loro verità è una grave caduta di statura e di stile».
Lei cita i fatti e un fatto è che nel 1994 inviò un diffidente memorandum al neonato governo di centrodestra per vincolarlo su tre punti: unità nazionale, solidarietà sociale, fedeltà alle alleanze internazionali. Rifarebbe oggi lo stesso passo?
«L'approccio di lavoro su quei cardini che intendevo tutelare è ormai largamente condiviso. Anche se, certo, occorre sempre che tutti vigilino affinché i princìpi irrinunciabili di una sana democrazia siano rispettati con il massimo rigore e mai disattesi... Non fu però l'unico mio passo istituzionale verso quell'esecutivo, che vedeva affacciarsi sulla scena soggetti politici nuovi, verso i quali era comprensibile qualche interrogativo e incertezza. In Italia e fuori d'Italia».
Allude alla mozione con cui l'Europarlamento ci chiese allora di «assicurare il rispetto dei valori dell'antifascismo »?
«Ci fu anche quell'episodio, una mozione pesante per la stessa credibilità democratica del Paese. A Bruxelles risposi che non avevamo bisogno di maestri, legittimando tutti. Ora, tanto tempo dopo, si è fatto un buon tratto di strada verso una totale civilizzazione della nostra vita politica. Si tratta di confermarla con comportamenti concreti».
La vittoria di Alemanno a Roma allarma più di qualcuno, che parla di «marea nera». Dopo l'anticomunismo millenarista di Berlusconi nel '94 («se vincono i rossi sarà terrore, miseria e morte») rischiamo un antifascismo altrettanto millenarista?
«La metafora del cammino percorso, che ho utilizzato, non può essere a senso unico. Se vogliamo metterci su un piano di collaborazione nell'interesse generale, servono buona volontà e spirito dialogante. Ciò che ha dimostrato Veltroni nei mesi scorsi, con un linguaggio rispettoso verso tutti anche quando è stato sottoposto ad attacchi duri e ingiusti. Da quei gesti viene un'indicazione di reciproco riconoscimento, da non disperdere. Come il messaggio di Berlusconi sul 25 Aprile, nel quale una volta tanto, accanto alle ragioni dei "ragazzi di Salò", è stato reso onore pure ai martiri per la libertà. E' questo che intendo, quando sostengo che bisogna mettere al bando ogni esasperazione. Abbiamo davanti un orizzonte pieno di difficoltà, dobbiamo pretendere che cadano le asprezze del passato prossimo ».
Rifondazione comunista chiede a Napolitano di non nominare ministro Umberto Bossi.
«Ci vogliono ragioni molto serie per negare la firma a una nomina del genere. Certo, se il leader della Lega pronunciasse frasi gravi contro la Costituzione, si potrebbe porre un problema... Ma è bene non fare pressioni sul presidente della Repubblica, che finora si è mosso con misura e saggezza. Lasciamolo tranquillo: ha il metro delle cose, sa come svolgere il suo compito riequilibratore».
Come spiega l'exploit leghista, che ha rafforzato il centrodestra?
«E' stato un voto dominato da diverse paure su diversi fronti (la sicurezza, il lavoro, l'economia, ecc.) e la vicenda Alitalia le ha riassunte tutte. Sulla Lega, che ha intercettato una sfera di interessi malmenati, specie al Nord, credo si possa ormai essere fiduciosi. Ricordo ad esempio che Maroni, quand'era ministro dell'Interni, diede prova di equilibrio e di tutela degli interessi generali.
E il centrosinistra, che cosa deve fare adesso?
«Un'autocritica severa e serena, non necessariamente fatta in piazza e, spero, non mirata a massacrare Veltroni. Il quale ha fatto ciò che ha potuto, dopo due rissosissimi anni di governo di una coalizione che si è impegnata soprattutto a litigare e che ha poi pensato di cavarsela addossando agli altri le colpe di ogni guaio. Atteggiamenti che, onestamente, non potevano essere capiti dalla gente. Ecco, è a partire da qui che dovrebbe cominciare la riflessione. Parlando a se stessi e agli italiani con calma, un po' come ha fatto il Papa quando ha denunciato lo scandalo dei preti pedofili negli Usa: si è preso le sue responsabilità e ha spiegato l'impegno della Chiesa a chiudere la partita. Insomma, si ricomincia sempre a partire dalla chiarezza».

Corriere della Sera 1.5.08
Oggi al corteo Prc Fausto Bertinotti
E Bertinotti ritorna tra gli operai a Torino


MILANO — Di nuovo in prima linea dopo la débâcle elettorale che ha spazzato via la sinistra dal Parlamento. Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera ed ex leader di Rifondazione, oggi sfilerà a Torino al corteo per la festa del lavoro. Ci sarà anche Paolo Ferrero, che una decina di giorni fa al comitato politico del Prc l'ha criticato duramente.
Una ricorrenza piena di significato per Bertinotti: due anni fa debuttò in veste istituzionale proprio a Torino. Del resto appena eletto aveva dedicato «la presidenza della Camera alle operaie e agli operai».
Quella di oggi è la prima vera uscita pubblica dal giorno delle elezioni: il candidato premier della Sinistra Arcobaleno non ha partecipato nemmeno alle celebrazioni per la Liberazione. Un atteggiamento defilato che ha mantenuto anche ieri, in occasione del passaggio di consegne con il nuovo presidente della Camera Gianfranco Fini.

Corriere della Sera 1.5.08
Anniversari Lo scrittore ridimensiona l'occupazione della Columbia a New York. Molti lettori lo attaccano
Paul Auster boccia l'«inutile '68». Polemica negli Usa
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Era l'anno degli anni, l'anno della follia, del fuoco e del sangue, l'anno della morte. Io avevo appena compiuto 21 anni ed ero pazzo come tutti gli altri». Comincia così l'articolo del New York Times firmato da Paul Auster sull'occupazione della Columbia University nel 1968, che ha scatenato le proteste di moltissimi lettori, riaprendo il dibattito sui meriti di un'era. L'intervento dell'autore di Trilogia di New York sull'«inutile Sessantotto » — a metà tra mea culpa e amarcord — ha toccato un nervo scoperto, provocando reazioni da sinistra e da destra. «Fui un ribelle per caso — scrive quasi a giustificarsi l'autore —. Non ero iscritto ad alcun gruppo o partito e sognavo di passare il resto dei miei giorni da solo in una stanza, a scrivere libri».
Ma quando l'ateneo annunciò il progetto per costruire una nuova palestra a Morningside Park, il parco pubblico di Harlem, chiudendone l'accesso alla popolazione afro-americana del quartiere, Auster si tuffò nelle proteste. «Andai — scrive — perché ero impazzito, impazzito per il veleno del Vietnam nei miei polmoni. La palestra era solo il pretesto per gridare contro qualcosa». L'occupazione culminò nel raid del 30 aprile 1968, quando la polizia entrò nell'ateneo con i manganelli e arrestò 712 studenti, lui incluso. «Cosa ottenemmo alla fine? Niente», è la sua conclusione. «Il progetto palestra fu cancellato, ma il vero problema era il Vietnam e la guerra si trascinò ancora per sette orribili anni». Per Auster «non si cambiano le politiche del governo attaccando un'istituzione privata come Columbia ». Invece, «il Maggio francese trasformò la Francia perché lì le università sono pubbliche e gli studenti si confrontavano direttamente con il governo ».
Apriti cielo. «L'impatto della nostra protesta fu profondissimo», ribatte indignato sul New York Times l'architetto Paul Broches, accusando Auster di «sminuire un'esperienza che ha segnato una svolta nella vita di una generazione di studenti, ben oltre i confini della Columbia». «Anch'io c'ero — gli fa eco Steve Goldberg —. La guerra del Vietnam sarebbe durata ben più di altri sette anni se non fosse stato per l'ondata di proteste pacifiste iniziate da Morningside ». Ma la lettera forse più pungente viene dall'ex marine Norman Sorensen. «Ho la stessa età di Auster e sono d'accordo con lui che il '68 è stato l'anno del fuoco, del sangue e della morte», scrive, spiegando che «mentre il giovane signor Auster assaltava un ufficio del dipartimento di matematica alla Columbia, io assaltavo la Collina 881 Nord, in Vietnam». E conclude: «Mi dispiace che lo scrittore sia ancora segnato da quell'anno traumatico e spero che un giorno guarisca. Spero di poterlo fare anch'io».
Lo scorso fine settimana gli ex studenti della Columbia sono tornati sul campus di Morningside Heights, nella parte nord di Manhattan: i capelli grigi, il volto segnato dalle rughe, hanno pianto nel rievocare «l'anno degli anni ». Paul Auster non era tra loro.

Le Monde 1.5.08
Fine dell'antifascismo


L’arrivo di Gianni Alemanno al Campidoglio costituisce una grande novità nella storia della Repubblica italiana. Non è di certo la prima volta che il più alto magistrato della Città eterna appartiene alla destra. Si dovette aspettare il 1993 e l’elezione di Francesco Rutelli, candidato sfortunato di quest’anno, perché la sinistra vincesse contro la Democrazia Cristiana. Ma, dalla caduta di Mussolini, nel 1943, i sindaci di Roma provenivano tutti dal cosiddetto “arco costituzionale”, cioè le parti che hanno partecipato alla Resistenza e alla fondazione, nel 1946, della Repubblica. Il ventaglio andava dai democristiani ai liberali, socialisti e comunisti.

M. Alemanno non appartiene a questa famiglia. E’ un ex-dirigente delle gioventù del Movimento Sociale Italiano (neofascista), che, per diversi anni, ha radunato i nostalgici del Duce e i loro eredi. Il nuovo sindaco di Roma ha senza ombra di dubbio seguito il suo capo, Gianfranco Fini, nel suo cammino verso la rispettabilità repubblicana, che lo ha fatto passare dalla venerazione degli emblemi mussoliniani ad un posto al Ministero. Deve la sua vittoria non tanto alle sue vecchie convinzioni ideologiche quanto alla fragile mobilitazione della sinistra, evidenziatasi dalla sconfitta alle recenti elezioni legislative.

Una tradizione che però rimane intatta al momento stesso in cui, il 25 aprile, l’Italia celebrava, come ogni anno, la sua Liberazione. E, come ogni anno, questa festa ha dato luogo a polemiche tra una sinistra che fa fatica a disfarsi dei miti della Resistenza e una destra berlusconiana che, accanita a denigrare la sinistra e ad intaccare la legittimità storica di essa, porta fino a riabilitare i “bambini sperduti” del post-fascismo.

Con il ritorno di Silvio Berlusconi al potere, l’elezione al comune di Roma di un ex-neofascista e la comparsa al Parlamento di due partiti che pretendono superare la tradizionale scissione sinistra-destra, un periodo della storia italiana si chiude del tutto. Quella in cui, al di là delle rivalità partigiane, l’antifascismo era il cemento della società politica. Sessantacinque anni dopo la caduta di Mussolini, è inevitabile e, forse, auspicabile, a condizione che l’assenza di coscienza storica non sostituisca il mito.

(traduzione dal francese di Corinne Lebrun)


Repubblica 1.5.08
Scalfari. Il romanzo dell'uomo che non credeva in Dio
di Pietro Citati


Negli anni della giovinezza e della maturità era stata la razionalità alla Montaigne a fare da guida, ma poi l´esplorazione dell´inconscio aveva per così dire frantumato l´io insieme a tutte le sue certezze
Esce martedì prossimo "L´uomo che non credeva in Dio", una autobiografia che mescola il vissuto con l´avventura intellettuale di un uomo che si misura con i grandi temi della filosofia novecentesca
L´esistenza appariva segnata da una metamorfosi incessante piena di incidenti effimeri, tracce di un destino sconosciuto, libri, contraddizioni, imprevisti, misteri
L´autore guarda da lontano la sua meta. E il tema che lo inquieta è l´io di ogni essere umano e soprattutto il proprio io. L´idea si svolge e vivifica il libro

«L´uomo che non credeva in Dio» di Eugenio Scalfari (Einaudi, pagg. 154, euro 16,50) è una singolare autobiografia. Scalfari racconta la propria infanzia, la propria giovinezza: alcuni episodi della sua vita di giornalista: i suoi rapporti con uomini politici italiani: la morte di una persona cara; e parla a lungo di Nietzsche. Ma si ha l´impressione che egli guardi da lontano una meta lontana; e che il tema che lo inquieta sia l´io di ogni essere umano e soprattutto il suo io. Il pensiero si svolge, oscilla, si contraddice, e rende mobile, caldo e vivace il suo libro.
Cos´è l´io? si chiede Scalfari. Vorrei ricordare qualche persona che non possedeva un io. Alessandro Magno non volle essere sé stesso - il figlio di Filippo e di Olimpiade, un uomo non alto, dai capelli biondi, che sapeva a memoria le tragedie di Euripide. Volle imitare qualcosa che era stato, e che molti credevano morto. Con tutta la forza della passione, pose davanti agli occhi della mente un gruppo di figure divine ed eroiche – Dioniso, Ercole, Achille, Ciro di Persia – e cercò di risuscitarle e reincarnarle nella propria esistenza. Nessun uomo giunse mai a comprendere in sé stesso tante persone diverse, distribuite attorno a un centro che continua a sfuggirci.

Fu multiforme, molteplice: un nodo imprevedibile di contraddizioni; e conobbe l´ebbrezza di condurre una vita mitica. Nemmeno Shakespeare fu un io: ma un sistema solare, formato da molti pianeti che ruotavano attorno a un centro; e questo sistema solare si intrecciava a sua volta con Galassie che si perdevano nell´infinito. Il suo centro era dappertutto: nei diversi Soli e negli innumerevoli pianeti che ricevevano luce dai Soli. Come dice Scalfari, se era dappertutto, non era in nessun luogo.
I grandi mistici cristiani ed islamici cancellarono l´io; e si perdevano nell´oceano dell´unità, vivendo in Dio, per Dio e con Dio. Si consumavano negli splendori del volto divino e nella maestà della sua gloria. Tutte le apparizioni esteriori scomparivano davanti ai loro sguardi: il mondo smarriva le proprie forme, e il significato del bene e del male. Non sapevano se esistevano o non esistevano: se erano manifesti o nascosti; perituri o immortali. Col cuore pieno e vuoto d´amore, ignoravano di chi erano innamorati. Ignoravano perfino il proprio amore. Alla fine, dimenticavano la loro conoscenza di Dio, o la coscienza di conoscerlo.
Come loro, un grande poeta moderno, Pessoa, evase dal carcere del proprio io: con un folle desiderio di fuga, lasciò tutti i luoghi, le prigioni, le limitazioni, i princìpi e le fini, le soluzioni, le barriere, i paesi ed i mondi. Se vedeva gli altri uomini, provava lo stesso orrore. Così, per evitarli, li fece rinascere in sé: i suoi sentimenti diventarono i sentimenti di molti individui: il suo animo, il suo cuore e il suo sguardo appartennero a persone diverse fra loro; indossava sempre nuove maschere, ognuna delle quali era più ambigua della precedente. Scriveva: «Dio non ha unità, come potrei averla io?»

* * *
Negli anni della giovinezza e della maturità, Eugenio Scalfari visse secondo la tradizione dell´io borghese. Pensava che esso fosse robustamente fondato sulla ragione e sulla volontà, e dominato da loro. Sapeva dai libri di avere un inconscio, ma immaginava di conoscerlo e di tenerlo sotto controllo. Il suo io coincideva con i pensieri coscienti e l´attività quotidiana, con la quale si identificava completamente. Così, passo dopo passo, esperienza dopo esperienza, sensazione dopo sensazione, evento dopo evento, saliva la scala della sua persona, che egli stesso aveva costruito.
Al culmine della maturità, Scalfari cominciò ad avere dubbi sulla costruzione che aveva fondato. Gli sembrava che fosse una crosta esilissima, nella quale non poteva avere fiducia. L´inconscio, che credeva di dominare, veniva improvvisamente alla luce, e lo folgorava, portandolo in luoghi dove non avrebbe mai immaginato di giungere. In parte con angoscia in parte con gioia, gli parve che il suo io scomparisse e si dissolvesse. Si sentiva lacerato e diviso. Poi, a poco a poco, cominciò ad amare questa condizione inquietante. Si accorse di non avere un solo occhio. Qualsiasi cosa facesse, possedeva sempre un altro occhio, con il quale si guardava dal di fuori e contemplava gli altri con una rinnovata attenzione.
Vedeva attorno a sé mille casi: non li guardava più con ansia; ma con infinita simpatia verso la selva pittoresca della vita. Forse lui stesso - il suo antico io - era diventato una collana colorata di casi. Lesse e rilesse Montaigne, Diderot e Nietzsche. Sopratutto Montaigne lo attrasse. Avrebbe dato chissà cosa per abitare la sua biblioteca, lassù in alto, nella torre, guardando le cinquantasette sentenze che Montaigne aveva fatto incidere sulle travi del soffitto. «Tutte queste cose, con il cielo e la terra e il mare, non sono nulla a paragone della somma totale di tutte le cose», aveva detto Lucrezio. «Non comprendo», aveva detto Sesto Empirico. La biblioteca aveva tre grandi finestre, dalle quali entravano il soffio dei venti, i raggi di sole, i riflessi delle nuvole, gli odori degli alberi e, due volte al giorno, il suono dell´Ave Maria. Se si affacciava alla finestra, vedeva il castello, la corte, il pollaio, e più lontano le colline del Périgord, dove lo sguardo si perdeva. Così Scalfari comprese che la sua crisi lo aveva portato indietro, nel cuore della tradizione psicologica dell´Occidente, e insieme avanti, in un futuro di cui non intravedeva i lineamenti.
La vita era quella che aveva immaginato Montaigne: una metamorfosi incessante, piena di incidenti effimeri, tracce di un destino sconosciuto, libri, contraddizioni, imprevisti, misteri. Come le api, Montaigne assimilava tutti i fiori, i colori e le ombre nel miele del suo spirito. Amava la natura che gioca. Amava la fantasia, il capriccio, la sorpresa. Amava il vento e l´oscillazione. Amava tutto ciò che è mescolato, confuso, rappezzato, screziato. Amava le fugaci, dorate apparenze, che ci portano lontano da ogni certezza. Così, immerso nella metamorfosi di Montaigne, Scalfari comprese il suo nuovo rapporto con sé stesso e con gli altri: cercava di capire gli altri, e di farli diventare sé stessi, estraendo da loro la piccola musica che ciascuno possedeva. Diventò più mobile, volubile e affettuoso, come nelle pagine del suo libro, dove tutte le sue tendenze vivono l´una accanto all´altra, in una specie di guerra pacifica.

* * *
Se posso aggiungere due obiezioni a un libro così amabile, vorrei dire che non credo che il nostro sentimento religioso derivi dal timore della morte. Esso nasce dall´immaginazione religiosa, che costituisce la parte più geniale e creativa della fantasia umana. Costruisce Dio, o gli dèi, i rapporti e i riflessi tra loro, teologie, cosmogonie, i dèmoni e i demòni, le figure reali o immaginarie degli uomini e delle donne, gli archetipi, gli esempi, i modelli, l´armonia o la disarmonia dell´universo, le invenzioni della letteratura: ciò che nella vita sembra possedere un fondamento incrollabile e ciò che si muove come il vento.
Non credo nemmeno che Dio sia morto; o credo soltanto alla versione della morte di Dio che diede Kafka nel Messaggio dell´imperatore. L´imperatore sta morendo - così racconta Kafka: Dio sta morendo; forse per sempre. Dal suo letto di morte l´imperatore manda un messaggio all´ultimo, misero suddito, minuscola ombra rifugiatasi nella più remota lontananza della Cina. Fa inginocchiare il messaggero accanto al letto e gli sussurra il messaggio; e tanto tiene alla esattezza delle proprie parole che se le fa ripetere in un orecchio. Con un cenno del capo, l´imperatore conferma: egli nutre queste delicate attenzioni non per l´universalità dei suoi sudditi, ma per uno dei suoi sudditi, una sola persona, un individuo preciso tra le centinaia di milioni che popolano la Cina. Il messaggio misterioso non giungerà mai nell´estrema periferia - perché la folla è vastissima, le dimore imperiali non hanno fine, il messaggero deve percorrere le scale, i cortili, un secondo palazzo, altre scale ed altri cortili, e ancora altri palazzi, e così via nei millenni.
Intanto, nell´estrema periferia, l´umile suddito «sogna quando scende la sera». Egli non attende il messaggio dell´imperatore nell´oscurità della chiesa dove il sacerdote del Processo parla a Josef K.: o nel buio davanti alla porta della Legge, dove siede l´uomo di campagna. Davanti alla finestra, egli attende il messaggio quando tramonta il giorno, intrecciando la luce e l´oscuro, il barlume e la tenebra. Come ognuno di noi, è «senza speranza» (perché Dio è morto irreparabilmente) e «pieno di speranza» (perché Dio non morirà mai). Conosce il divino nella morte del divino: vive come se gli dèi non ci fossero, eppure sogna di loro. Perduto nel sogno, conosce un´esistenza ariosa, libera, naturale, protetta dall´immagine vespertina del sacro.

mercoledì 30 aprile 2008

l’Unità 29.4.08
Tutti in piazza, per il lavoro e la sicurezza
di Laura Matteucci


FESTA«Più reddito, più sicurezza». È centrato sulla sicurezza nei luoghi di lavoro il Primo Maggio di quest’anno, passerà per Ravenna con la manifestazione nazionale, e sarà anche il primo giorno di otto mesi di campagna straordinaria e unitaria di sensibilizzazione su sicurezza e diritti dei lavoratori. Ravenna perchè teatro della più drammatica tragedia del dopoguerra: la morte di 13 operai tra i 18 e i 60 anni all’interno del cantiere navale Mecnavi, il 13 marzo 1987. Quella nave, la «Elisabetta Montanari», ferma per lavori, si trasformò in un momento in una trappola: un incendio divampato nella stiva colse di sorpresa e uccise di asfissia gli operai che stavano lavorando in cunicoli alti appena una novantina di centimetri, nei quali si potevano muovere solo strisciando. Uomini ridotti a topi, come disse allora in una dura omelia l’arcivescovo Ersilio Tonini.
La situazione, oggi, non è migliore: 1.300 morti l’anno, 1 milione di infortuni, cifre penosamente stabili. Mentre il «Testo unico sulla sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro», ultima eredità del governo Prodi, ancora non è stato applicato e già Confindustria, in questo alleata del nuovo governo, pensa di modificarne interi passaggi. Dalla Cgil risponde il segretario confederale Fulvio Fammoni: «Non possiamo certo permetterci fasi di incertezza. Il Testo va applicato il prima possibile. Se qualcosa non funziona, se ne discuterà dopo l’applicazione».
E poi, i temi dei salari e del fisco, anch’essi drammaticamente attuali. Saranno più di cento le manifestazioni per la Festa del Lavoro anno 2008, a Ravenna quella nazionale: alle 9,45 partiranno due cortei, da piazzale Baracca e dalla zona stadio, che si snoderanno fino ai giardini pubblici. E proprio dal palco ai giardini alle 11,30 prenderanno la parola i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti.
La festa del Primo Maggio sarà all’insegna dell’unità sindacale, lo dice Fammoni, lo ribadisce Angeletti («saremo compatti»), lo conferma Bonanni «a dispetto dei profeti di sventura, appollaiati sui rami secchi di un Paese che vuole invece rinverdire, anche attraverso la concertazione». «Sarà davvero unitario», aggiunge il leader Cisl scagliandosi anche contro «lobby e circoli esclusivi» che remano contro il sindacato. Sugli attacchi più recenti interviene anche Fammoni: «Veniamo accusati di non essere rappresentativi. Ebbene, noi chiediamo regole precise, una certificazione della rappresentanza presso il Cnel o l’Inps per i pensionati, e su questa base avvieremo una vera discussione». Questo, insieme alla riforma della contrattazione, i primi temi che il sindacato metterà sul tappeto della legislatura prossima ventura.
Per la Cgil, Fammoni sarà a Salerno, Mauro Guzzonato a La Spezia, Maurigia Maulucci ad Empoli, Nicoletta Rocchi a Cerignola. Oltre cento città tra feste e cortei, si diceva. A Torino, teatro di un’altra tragedia recente, quella della ThyssenKrupp, sfileranno anche diversi esponenti del centrosinistra, per il Pd Piero Fassino e Luciano Violante, e poi l’ex ministro Paolo Ferrero, Diliberto e Bertinotti.
La Fillea, la categoria Cgil degli edili, porterà uno striscione che raffigura un muro con in rilievo gli elmetti e, su ogni mattone, il nome e l’età (tra i 17 e i 68 anni) dei 37 morti sul lavoro in provincia di Torino solo fra il 2007 e i primi mesi del 2008.
A Milano, oltre al tradizionale corteo, in programma un pomeriggio di divertimento, tra musica, animazione, solidarietà e cibo.
In Toscana sono previste 54 iniziative, cortei e comizi, e anche feste popolari e concerti. Corteo dall’Electrolux al parco fluviale di Lastra a Signa (Firenze) per ricordare la crisi industriale, con ritrovo alle 9,45 davanti ai cancelli dello stabilimento, a Scandicci. Manifestazioni anche in tutta la Sicilia.

l’Unità 29.4.08
Sinistra democratica, che fare?
di Cesare Salvi e Massimo Villone


Dopo la pesante sconfitta del 13 e 14 aprile, è ineludibile la domanda: serve ancora Sinistra democratica? Noi pensiamo che possa servire, perché c’è in Italia uno spazio politico, sociale e culturale a sinistra del Pd, e perché in campagna elettorale i quadri e i militanti di Sd hanno mostrato di esserci, numerosi e combattivi. Per rilanciare l’iniziativa di Sd, bisogna però recuperare due elementi centrali nella nostra originaria proposta, - la cultura di governo e l’identità socialista - abbandonati nei successivi drammatici mesi, e bisogna dare una struttura, leggera e democratica, al nostro movimento.
Il 5 maggio dell’anno scorso parlammo (tra l’altro) di una «sinistra di governo». Questa non c’è stata nell’ultimo biennio, e non per nostra responsabilità. Sia ben chiaro, non parliamo di una sinistra che voglia governare ad ogni costo, e che subordini tutto alla conquista e al mantenimento del potere. Questa è stata la strada seguita dalla maggioranza dei Ds prima e dal Pd poi. Ha portato anche loro a una pesante sconfitta. Parliamo di una sinistra che parta dai suoi ideali e dai suoi valori, e da una cultura critica del mondo in cui viviamo. Ma che sappia tradurre gli uni e l’altra anzitutto nel radicamento nella società, in secondo luogo in concrete indicazioni per il cambiamento, infine in una credibile proposta politica, a partire dalle alleanze (politiche e sociali). E si ponga quindi l’obiettivo di costruire un nuovo centro-sinistra.
Seconda questione. Ci siamo chiamati «Sinistra democratica per il socialismo europeo». Ma la seconda parte del nostro nome è scomparsa. Va ripresa e rilanciata. Anche perché esiste in Italia un mondo socialista (una cultura politica, e un elettorato potenziale) certamente non limitato allo zero virgola qualcosa per cento. È possibile che affermare la nostra identità socialista ponga un problema a una parte delle forze con cui va costruito il nuovo partito della sinistra. Ma questa difficoltà non è una ragione sufficiente per rimuovere il tema. Anche perché sarebbe riduttivo chiamarsi socialisti solo per definire un’identità o un’appartenenza organizzativa. Socialismo oggi vuol dire porre il tema del governo, nei termini che abbiamo cercato prima di indicare sommariamente. Del resto, se stessimo in un altro paese europeo saremmo nel partito socialista di quel paese, e ne costituiremmo l’ala sinistra.
Infine, il percorso delle prossime settimane. Dobbiamo assumere scelte politiche di fondo, e le conseguenti iniziative nel Paese e verso gli altri partiti della sinistra; decidere il necessario rinnovamento del gruppo dirigente; assicurare la presenza nel territorio.
L’idea che sarebbe stato inutile, anzi dannoso, darsi un minimo di regole e di struttura (per evitare di fondare un nuovo «partitino») si è rivelata alla prova dei fatti un’illusione. L’illusione di avere più tempo, e l’illusione che comunque il nuovo soggetto politico della sinistra (unitario e plurale) era a portata di mano. Così non è stato e non è.
Per questo riteniamo che Sinistra democratica deve darsi da subito una struttura, leggera e democratica. Come farlo?
Fra le molte promesse mancate di Sinistra Democratica troviamo di certo quella di un nuovo modo di far politica. La critica alla riduzione oligarchica dei processi democratici, alla mancanza di partecipazione da parte di iscritti e militanti, alla assunzione di decisioni in sedi ristrette e poco trasparenti era stata per molti decisiva nella scelta di uscire dai Ds con l’ultimo congresso. Pensavamo che nel Pd non sarebbe andata meglio. Anche per questo abbiamo scelto un’altra strada. Ma quella che abbiamo preso non ha realizzato le speranze.
Pensiamo che, dopo la catastrofe del voto, la musica debba cambiare. Abbiamo affrontato una campagna elettorale difficilissima. Compagne e compagni in tutto il paese si sono battuti fino all’ultimo, per un risultato che diventava ogni giorno più difficile. Ora, dopo il terremoto, a loro dobbiamo rivolgerci perché indichino la strada da seguire e scelgano il nuovo gruppo dirigente.
Per questo non ci persuade l’idea di tornare al Comitato promotore, perché elegga un altro coordinatore, che formi una nuova presidenza, che apra un dibattito dai contorni e delle modalità imprecisate. Il Comitato promotore era ed è in buona parte diretta filiazione del congresso Ds. Doveva avere una funzione transitoria, e per questo il nostro Statuto provvisorio - consultabile sul sito - gli assegna esclusivamente il compito di «lanciare la fase di adesione al Movimento». Quella fase è alle nostre spalle. È giusto e corretto che a partecipare e a decidere le scelte di oggi siano le compagne e i compagni che oggi, qui ed ora, hanno fatto o confermato le loro scelte e sono scesi in campo.
Proponiamo un altro percorso per Sd. Un percorso innovativo, un pezzo di riforma della politica. Convocare al più presto assemblee territoriali, per esempio a livello provinciale, di tutte le compagne e i compagni che hanno aderito a Sd, hanno partecipato alla campagna elettorale, e intendono proseguire il loro impegno nel nostro Movimento. Assemblee aperte a tutti quelli che a sinistra volessero partecipare e contribuire. Assemblee che sarebbero per noi l’equivalente di una grande primaria democratica sul progetto, perché convocate per discutere di politica, e non per l’elezione plebiscitaria di un leader. E che, sulla base della discussione politica, eleggano i propri rappresentanti per una grande Assemblea nazionale chiamata a decidere, entro giugno, sulla linea politica e sul nuovo gruppo dirigente nazionale.
Noi e la sinistra abbiamo bisogno di cambiamento vero. E non possiamo consentirci altri errori. Il primo errore sarebbe non dare la parola, per decidere davvero, a tutti coloro che si sono guadagnati sul campo tale diritto.

l’Unità 29.4.08
Nella periferia povera che ha scelto Alemanno
Il tradimento di Tor Bella Monaca «Veltroni passi, ma Rutelli... »
di Toni Jop


E, scusi, sa anche dov’è la piazza? «Che piazza?», quella principale della zona, dove magari si va la domenica a mangiare le paste dolci. «Beh, duecento metri avanti, c’è una piazzetta...». Bugia: non c’è piazzetta, solo una stradona sporca degna di una Las Vegas abbandonata mille anni fa dalle case da gioco e dai papponi; ai lati, due quinte, molto Berlino Est, di palazzoni; a sinistra alti alti, a destra uno solo, basso e lungo lungo. Graffiato dalle ingiurie di un tempo ridicolmente breve, quello che serve per far sbracare una miscela di materiali poveri, la stessa che ha disegnato e degradato le nostre periferie battezzate in fretta e furia negli anni 60.A pian terreno, per due-trecento metri, negozi, scarpe a valanga, «liste di nozze», profumi, glabre boutique per bambini, bar al neon, gelaterie, scarpe, jeans, magliette, scarpe, ricambi per elettrodomestici e uno sciame pressocché immobile di pensionati in cento pose diverse sfiorati da signore e bimbi che fanno la spesa. Comprano soprattutto scarpe offerte dai banchetti, tanti, gestiti lungo la «main street» da una piccola comunità di marocchini che esercita di fronte alle vetrine di portapiedi made in Italy.
Questa è Tor Bella Monaca, la zona del «peccato»: niente sesso, almeno non visibile, qui la gente ha deciso di virare il rosso antico della rappresentanza politica in un nero denso di incognite e nel farlo ha voltato le spalle a Rutelli, che avrebbe dovuto battere senza patemi Alemanno il Breve e che, anche per questo tradimento, ha fallito. Ferma la gente e chiedile: è contenta di com’è andato il voto? Così bisogna fare.
Primo contatto, un pensionato, a lungo dipendente di Cinecittà, calabrese d’origine; cerco il cuore nero della pimpante destra di Tor Bella Monaca e il destino mi mette di fronte a uno che ha sempre votato a sinistra, a cominciare dal Pci, e che «voterà sempre a sinistra» perché «solo gli ignoranti votano a destra». Lo lascio perdere perché è «in linea» con la tradizione sbeffeggiata? Ma lui macina pensieri interessanti: «Ce l’ho a morte con tutti, con i miei del quartiere che hanno votato Alemanno e Berlusconi, non sanno quel che fanno. Ma qui è come vedi, qui il lavoro non c’è ma hanno messo in piedi un sistema di protezione per gli immigrati che nemmeno noi abbiamo. E gli zingari che rubano finiscono dentro e poi tornano fuori in due giorni. Se sei ignorante, se sai poco delle cose del mondo prima o poi voti per quelli, così hanno fatto, anche te, disgraziato, hai votato per loro...», ma non parla con me, sta dicendo a un suo conoscente che ondeggia a un paio di metri, fuori dalle serranda di un bar. «Te», confessa, non ha votato per niente.
Ha una storia da raccontare: «Mio padre aveva una trentina di tessere del Pci. Io devo andare a lavorare, mi porta da quelli del Pci e chiede: bisogna sistemare questo ragazzo. Gli rispondono: spiacenti, compagno, noi non facciamo queste cose. Vado da uno della Dc, mi spiega: iscriviti subito al partito e giura che sei iscritto da dieci anni. Lo faccio: assunto. Tanti anni dopo devo andare in pensione, vado alla Cgil e chiedo: mi aiutate? Non si può fare, rispondono. Busso alla Cisl, dopo un mese ero in pensione. Tutta la vita fuori binario, chemmefrega di dare ancora il voto a qualcuno? La mia vita è stata: nessuno mi tolga la sedia da sotto il culo e così ho fatto. Mi dispiace per mio padre che ci credeva».
C’è un’altra storia di padri che si rivoltano nella tomba, qui a Tor Bella Monaca. Ecco una gentile proprietaria di un bar gentile, alla cassa, contenta di come sono andate le cose nell’urna. «Sempre stata berlusconiana, felicemente»; ci vuole un po’ a farle dire la verità, «veramente votavo a sinistra, di famiglia, sa. Poi ho capito e mi son detta: adesso basta, qua non succede niente di buono, Berlusconi promette e mi sta bene lui; nessuno conosce questo posto come me: ci sto dagli anni ‘50, non c’era niente». Le piace per via degli immigrati che «se ne devono andare»? «Sì. Troppi, non si sa più dove metterli, poveretti. Per esempio, ieri hanno fatto una retata, han portato via ai marocchini non sai quante scarpe - rieccole ndr -, poveracci. Non puoi farli entrare e poi togliergli le scarpe, sennò che fanno? Rubano, vendono droga...che cattiveria quella retata». Mi sfugge la logica, soffia forte il sentimento e la praxis si ingarbuglia. «Se mio padre sapesse cosa voto - sospira - ...soffrirebbe», tranquilla: lo facciamo noi al posto suo.
Due ragazze, morette e vivaci, stan tirando su una serranda, vestiario per bimbi. Contente? «Sììììì!» «Hanno vinto i nostri, li abbiamo votati», brave, ma ditemi una cosa buona fatta da Berlusconi che la sinistra non ha mai fatto...«Boh! Le nostre famiglie sono di destra, allora...», auguri. Bimba-con-gelato, mamma graziosa, nonna curata: tutto bene? «Per niente, abbiamo votato Veltroni tutte e due, però...», però? «Ho votato Veltroni, sì, chissà che resista, ma davanti alla scheda di Rutelli l’ho lasciata bianca, non ce l’ho fatta...», e perché? «Non potevo, non mi fido, è consumato, un po’ ruffiano, sbagliato. Lui, invece è contento», lui chi? Il marito è arrivato, un fan di Fini e Alemanno e spiega: «Fini e Veltroni sono due brave persone, gli altri son tutti dei rottinculo, pensano solo agli affari loro», anche Berlusconi pensa ai fatti suoi? «Certo. Ce la racconta ma pazienza, è simpatico». Questo conta: è simpatico soprattutto ai ragazzi. «Ho votato a sinistra, prima. Ma stavolta mi sono decisa per Berlusconi, dovrebbe pensare anche a noi che viviamo oltre il Raccordo, qua è troppo brutto, insicuro e gli altri non han fatto niente»: ventuno anni, lavora.
Fin qui, tutto bene, al di là del voto choc. Ma è sulla ringhiera dello stradone che non va bene: quattro, cinque ragazzetti chiusi nel cosmo di Tor Bella Monaca, duri e puri, nessun lavoro, ridono, lumano le pupe che passano, capelli rasati, volti indifesi e arroganti insieme che si scontrano con quei faccioni da Rotary appesi ai manifesti elettorali di una destra pasciuta e rubizza. «Nessuno di noi ha votato, non ce ne frega niente, ci dessero un lavoro e votiamo...». Possibile che non sappiate niente di politica? «E che dobbiamo sapere? Nessuno ci dice niente, ci spiega niente, ci spiegassero». Furbi? Da quella ringhiera al centro di Roma ci vuole più tempo che, con l’aereo, da Fiumicino a Tunisi. Ha ragione Verdone: non è più tempo di favole per le periferie. Ho rivolto a tutti una domanda standard: siete al corrente del fatto che Berlusconi ha definito «eroe» un pluriomicida di mafia? Nessuno lo sapeva. Qualcuno vuol parlare a questa gente?

l’Unità 29.4.08
Giornali rumeni: l’uomo di An ha vinto sulle nostre spalle


Le agenzie e i giornali di ieri in Romania hanno commentato la vittoria di Alemanno al Comune di Roma. «Alemanno ha conquistato i romani sulle spalle dei romeni», scrive il quotidiano Cotidianul on-line: «per la prima volta in 15 anni la sinistra perde il Comune di Roma e i delinquenti romeni sembrano aver avuto un’influenza importante in questa svolta». Riprendendo le dichiarazioni del ministro degli esteri in pectore Franco Frattini sull’obbligatorietà di «un reddito minimo di 900 euro al mese per una coppia di immigranti, pena l’espulsione», il quotidiano Gandul riporta anche la notizia sulll’arresto a Napoli del romeno Ion Elvis Nita mentre picchiava un bimbo, con l’accusa di riduzione in schiavitù, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Adevarul riporta l’intervista rilasciata da Alemanno a Il Giornale, in cui afferma che la priorità è espellere i delinquenti dalla capitale. Romania libera dice che «il nuovo sindaco di Roma promette misure severe perché non si ripeta più il caso Mailat».
I due giornali israeliani più diffusi sono allarmati. «Un fascista in testa» titola Yediot Ahronot, che ha scelto una immagine di Alemanno mentre saluta i sostenitori con un braccio teso. Maariv scrive che «La Destra ha riconquistato la capitale italiana» sottolinea che c’è timore tra i 18 mila ebrei romani e accompagna il servizio con due immagini: quella di Alemanno, circondato dai sostenitori, e quella di Benito Mussolini. Haaretz si limita a un trafiletto: «per la prima volta da 60 anni la Destra controlla Roma». Maariv precisa che il Rabbino Capo Riccardo di Segni ha un atteggiamento prudente e cheAlemanno ha annunciato la prossima costruzione di una nuova sinagoga.

l’Unità 29.4.08
Alemanno si mette l’elmetto «Caccerò 20mila nomadi»
Il neosindaco annuncia le prime mosse: armi ai vigili e via dalla città gli immigrati che hanno violato la legge
di Eduardo Di Blasi


SICUREZZA Gianni Alemanno, neosindaco di Roma, si insedierà ufficialmente in Campidoglio questo pomeriggio ma già ha chiaro quale sarà il segno del suo mandato. Ritiene di aver vinto per aver dato una risposta programmatica migliore sul tema della «sicurezza», ed è su quella che batte da subito. Annuncia che andrà a trovare il vedovo della signora Giovanna Reggiani, uccisa a Tor di Quinto da uno sbandato di nazionalità rumena, che terrà fede al proprio programma armando la polizia municipale, cacciando dalla città «20mila nomadi e immigrati» che abbiano violato la legge e i campi rom irregolari. Ritiene ancora indispensabile un «Commissario straordinario con poteri speciali». Al programma di Canale 5 condotto da Maurizio Belpietro annuncia anche una Commissione Attali: «Vorrei coinvolgere qualche tecnico, qualche personalità che rappresenti anche i tanti elettori di sinistra che mi hanno votato». È ancora la coda della campagna elettorale. Le promesse che devono rimanere a sedimentare mentre non si disbrigano le pratiche amministrative.
Il dato politico è un altro. Ieri, quando il deputato Alemanno è entrato nell’emiciclo di Montecitorio i colleghi del Pdl si sono alzati ad applaudirlo. Ecco. Secondo il «partito romano», che è un pezzo della spina dorsale di Alleanza Nazionale, è da qui che An deve partire per darsi un ruolo funzionale all’interno del Pdl e del «nuovo» governo del Paese.
Andrea Augello, senatore di An e coordinatore della campagna elettorale per il Campidoglio, questo ruolo lo immagina così: «Sul sindaco di Roma bisogna costruire un credibile reticolo di riferimento nel governo nazionale e nelle Commissioni. Le vite e i destini delle esperienze amministrative che vogliono avere una profondità e produrre conseguenze misurabili necessitano di un rapporto adeguato nel parlamento, nei presidenti di commissione e nell’esecutivo. Senza questo si rischia una vita grama tra l’incudine dell’opposizione e il martello del governo. Specialmente in tempi di finanziarie poco divertenti». Tradotto: An dovrebbe presidiare nel Governo e nel Parlamento i luoghi «sensibili» al governo della città di Roma. Evitando, si dirà, che la Lega possa ostacolarne l’azione.
Questo modello funzionale è indispensabile, a detta di Augello, anche nel tema che è stato il cuore della campagna vincente della destra: la sicurezza. Passata la campagna elettorale il senatore non ha timore di affermare: «Si ha un bel dire, ma se non entra nell’agenda del governo una pianificazione di obiettivi da perseguire, noi non siamo in grado nelle aree metropolitane di promettere alcunché. Certo il decreto nei primi cento giorni si può fare, ma poi i decreti vanno attuati, seguiti. E questo richiede un’azione costante, non episodica». Cita anche un dato ignoto ai più: «Nel mese successivo all’omicidio Reggiani, a Roma c’è stato un calo evidente dei reati. Mentre è aumentato nelle altre province laziali. Perché è successo questo? Perché si è creata una condizione di pressione psicologica per la quale i delinquenti si erano convinti che a Roma stesse per accadere non si sa bene quale evento repressivo, per cui sono scappati fuori città. Dopo un mesetto sono tornati». Insomma, la «vittoria epocale», An vuole farla pesare così all’interno delle istituzioni nazionali: «Noi dobbiamo capire che è successa una cosa che cambia la strategia dei prossimi cinque anni di governo. Il ruolo di An in questi cinque anni di governo è un ruolo fortemente vocato su Roma». La questione resta: An ha la forza di ottenere questo «governo verticale» su Roma? La vittoria nella Capitale può veramente funzionare da volano per il partito di Fini? «Dovrei rispondere di sì, anche se dico che se fino a oggi non ce l’ha avuto nessuno questa forza, evidentemente non si tratta di materia agevole», afferma Augello, che però, almeno una soluzione condivisa con il centrosinistra la propone: «Noi abbiamo avuto un problema a Roma, e cioè che c’è un “generone” politico amministrativo trasversale che è rappresentato spesso da terze e quarte file del vecchio pentapartito, che come Tarzan passano con una liana da una maggioranza all’altra... Forse la situazione migliorerebbe se si smettesse la contesa di questo prezioso materiale umano».

Repubblica 30.4.08
"Quei neri più a sinistra dei rossi così Roma ha scelto i fascio-comunisti"
Prima proletari, poi intruppati nel Msi, oggi sovrastati dalla destra vera di Bossi e Berlusconi
"Anche Alemanno è più a sinistra di Rutelli. Ma si salva solo se fedele alla sua tradizione"
di Francesco Erbani


I fascisti o ex fascisti li ha conosciuti bene. Uno, Accio Benassi, l´ha raccontato nel romanzo Il fasciocomunista, che Daniele Lucchetti ha portato sullo schermo intitolandolo Mio fratello è figlio unico. Accio è lui, Antonio Pennacchi, scrittore, iscritto al Msi e poi espulso nel ´68, approdato a Servire il Popolo, al Psi, alla Cgil, alla Uil, al Pci e poi di nuovo alla Cgil, ed espulso anche da lì. Si dichiara stalinista, leninista e marxista. «Alemanno non lo conosco, ma ho conosciuto quelli come lui, che per convenzione si chiamavano fascisti di sinistra».
Per esempio?
«Luciano Lanna, attuale direttore del Secolo d´Italia, Umberto Croppi, anche lui, come me, cacciato dal Msi».
Che tipo di fascisti erano?
«Erano gli eredi dell´anima rivoluzionaria del fascismo. Anima proletaria. Psicologia dei perdenti, quelli che non tradiscono la squadra, anche se vinta. Antiamericani, anticapitalisti. Le dico una cosa forte?».
Proviamo.
«Alemanno è più a sinistra di Rutelli».
Opinioni personali. Si spieghi meglio.
«Una delle mitologie coltivate in quegli ambienti era la bonifica delle paludi pontine attuata dal fascismo. Che modificò i rapporti di classe, avviò riforme strutturali nel mondo contadino. Poi quei ragazzi si intrupparono nel Msi e la linfa si esaurì».
Lo racconta nel Fasciocomunista. Dove c´è anche la storia, che lei giura vera, di Stefano Delle Chiaie che a Valle Giulia guidava i militanti di Avanguardia nazionale contro la polizia.
«Fu allora che il Msi impedì che fraternizzassimo con i rossi. O di qua o di là. E così nel partito si ritrovarono i fascisti conservatori e quelli rivoluzionari. Purtroppo il collante era alimentato dal fatto che la sinistra li relegò tutti insieme in un ghetto».
Accio Benassi, cioè Antonio Pennacchi, viene espulso allora.
«Sì, ed è la sua salvezza. Rischiava di diventare un terrorista».
Agli altri cosa succede?
«Molti restano nel Msi. Ma quando, anni dopo, Berlusconi fa uscire dal ghetto il partito di Fini, io speravo che il loro vitalismo riemergesse. E invece sono stati sovrastati dalla destra vera, Berlusconi stesso e Bossi. Posso parlare di Latina, la mia città?».
Dica.
«Negli anni 90 fu eletto sindaco Ajmone Finestra, soldato nella Rsi, vero fascista di sinistra. Finché ha governato da solo, ha governato bene. Al secondo mandato si è alleato con Forza Italia. Poi è arrivato Vincenzo Zaccheo, sempre An, che è stato peggio della peggiore Dc».
Che cosa ha fatto?
«Ha oltraggiato la sua storia. Sotto Piazza del Popolo, simbolo della Littoria fascista, vuol scavare un parcheggio».
È un consiglio per Alemanno?
«Alemanno si salva solo se resta fedele alla sua tradizione».

Repubblica 30.4.08
Cinecittà, così la borgata rossa ha voltato le spalle alla sinistra
Qui si rifugiavano i partigiani, qui i nazisti rastrellarono 917 uomini: la metà non tornò a casa. Ma lunedì in 19 seggi su 20 il postfascista Alemanno ha avuto la meglio su Rutelli
di Giuseppe D’Avanzo


C´erano due modi a Roma per farla in barba ai tedeschi durante la guerra. O ti rifugiavi in Vaticano o al Quadraro. I partigiani si nascondevano al Quadraro nelle vecchie cave di pozzolana o, meno precariamente, al Sanatorio Ramazzini. Si sentivano sicuri: in quelle strade non s´era mai visto un fascista, figurarsi un tedesco.
La convinzione durò fino alle 4 del mattino del 17 aprile del 1944. Per ordine di Herbert Kappler, gli uomini della Gestapo, delle SS, della Wehrmacht, della banda Koch sbarrarono ogni strada di accesso e di fuga. Rastrellarono 917 uomini e li deportarono in Germania. Solo la metà ritornò a casa. I morti del Quadraro, come i martiri delle Fosse Ardeatine, sono il passato non rimosso di Roma, le ragioni di un convinto antifascismo e in quella borgata – tra le palazzine liberty del primo novecento e le deformi lottizzazione urbanistiche degli anni ottanta – il ricordo vivo che ha sempre connesso l´esperienza dei contemporanei alle generazioni precedenti; una memoria collettiva che è diventata di generazione in generazione genius loci, identità, opzione politica. Fino a lunedì, quando il voto ha reciso il filo lungo e forte di quel passato storico e, nei venti seggi del Quadraro, il postfascista Gianni Alemanno l´ha avuta vinta in diciannove contro Rutelli.
Il successo ha clamorosamente trascinato verso destra l´intera municipalità – la X, Tuscolano, Cinecittà, Capannelle, IV Miglio, Appio Claudio, Romanina, Anagnina, Nuova Tor Vergata, 200 mila abitanti. Dove al primo turno "passava" il presidente del municipio Sandro Medici con quasi 59 mila voti, Rutelli si fermava a 55.379 contro i 42.787 di Alemanno. Al ballottaggio c´è stato un improvviso capovolgimento. Rutelli perde settemila voti, Alemanno ne guadagna quasi diecimila (51.409). Sandro Medici – un passato di direttore del Manifesto – dice: «Perdere qui replica la lontana, prima sconfitta della Quercia a Mirafiori a vantaggio di Forza Italia; duplica il voto operaio del Nord alla Lega. Se l´esito è lo stesso, i perché sono diversi». Il perché di Massimo Perifano, gelataio, è custodito in una sola parola: «Menzogna». Raccontavano, dice, di una Roma luci e paillettes; una città felice, allegra, che se la godeva. Una città serena, accogliente, solare, senza ombre e problemi. «Sì, magari qualche problemino presto risolvibile qui e là, ma nulla da impensierirsi. Bene, quelle parole ascoltate da queste borgate erano menzogne che non ingannavano nessuno. Che facevano soltanto incazzare, molto incazzare perché erano bugie che lasciavano capire come al Campidoglio non importasse nulla delle borgate; che non avevano bisogno di noi; che il nostro destino gli era indifferente; che potevano fare a meno di noi, di quel che pensavamo o soffrivamo o chiedevamo».
Il popolo di Roma sa essere entusiasta e appassionato. Risentito, se imbrogliato. Feroce, se pensi di trattarlo con sfrontatezza e arroganza. Le storie che si raccolgono a Cinecittà svelano «una superbia» che il voto ha voluto punire. Non è che qui non abbiano capito quale pensiero strategico ha convinto Walter Veltroni, nella sua seconda sindacatura, a convogliare gran parte delle risorse comunali e della legge "Roma Capitale" in grandi opere infrastrutturali come la linea C della metropolitana. Quel che non buttano giù è perché quell´ambizione ha dovuto riservare alle borgate soltanto negligenza, il progressivo abbandono dei servizi sociali, della piccola manutenzione. C´è qui il Parco degli Acquedotti. È bellissimo. Al centro c´è un laghetto. Lo si è lasciato inaridire. Sono stati eliminati gli orti abusivi. Si doveva riqualificare l´area. Non se n´è fatto nulla. Soltanto per sciatteria non si sono eliminate le buche nelle strade, le piccole discariche abusive «che anche soltanto in una sola notte ti appaiono davanti a casa». Non è stato ristrutturato quel rudere che doveva ospitare il centro anziani a Largo Spartaco. Per disattenzione non si sono completati i marciapiedi, non sono state aperte – e soltanto per stupidi intoppi burocratici, eliminabili con un atto di volontà – una decina di piccole opere già pronte, un sottopasso, una "bretella", un parcheggio, una scuola. Soltanto per disinteresse non si è voluto porre limite al degrado del terminal dell´Anagnina, come se il destino della città e l´abitare si potessero declinare soltanto con le categorie del simbolico, dell´immaginario, della comunicazione e queste fossero capaci di rendere invisibile la realtà. Ti ci accompagnano al terminal perché, dicono, «vedrai, non puoi immaginarlo». E non lo si può immaginare, infatti, quel suk.
Il piazzale della metro all´Anagnina è immenso come tre o quattro campi di calcio. Ospita il terminal dei bus delle linee cittadine (verso il centro), interprovinciali (Castelli), interregionali (Calabria), internazionali (Romania). I venditori ambulanti autorizzati dovrebbero essere soltanto quindici. Sono centinaia e centinaia e centinaia. Ogni settore merceologico ha il suo banco, piccolo o grandissimo. Ogni etnia, il suo angolo. Quando la domenica arriva sul piazzale il pullman da Timisoara, i rumeni fanno festa. Hanno a disposizione, quel giorno, anche il loro barbiere, un ristorante improvvisato, la musica, i bar e, dicono, «spesso bevono troppo e litigano». Quel piazzale era la porta di casa della borgata, l´uscio di un territorio circoscritto, riconoscibile. Con la sua umanità, i suoi odori nuovi e indefinibili, il suo disordine, le illegalità piccole e grandi, è diventato un vuoto che non ospita, che non si può abitare, un brulicante vuoto minaccioso che ha cancellato ogni significato accettato e comune nel dirsi «sono di Cinecittà, del Quadraro, del Tuscolano». La predicazione "buonista", l´inerzia ipocrita che lascia le cose così come sono – e soddisfatti soltanto chi non ne paga le conseguenze ogni giorno – produce qui furia, rabbia, la secrezione infausta di un´impotenza, la convinzione di non essere ascoltati, «di non contare nulla».
«La sinistra non ha le culture e il sapere per affrontare la percezione dell´insicurezza – ammette Sandro Medici – Qui non abbiamo grandi problemi di sicurezza nel senso che, se guardi le statistiche, vedrai che non ci sono criticità e i vecchi del quartiere ti spiegheranno che negli anni Ottanta, con la guerra tra la banda della Magliana e i napoletani, era molto più pericoloso girare di notte da queste parti. Voglio dire che non è minacciata l´incolumità delle persone, ma la loro familiarità con il luogo che abitano. Trovano la spazzatura davanti alla loro porta. Vedono gente che non conoscono. Sono invasi dal fumo dei fili di rame bruciati negli improvvisati campi rom. Questo spaesamento ha provocato l´incertezza e l´insoddisfazione che in Campidoglio non hanno voluto comprendere fino alla bocciatura di Rutelli, oggi. I municipi più popolosi ci hanno voltato le spalle e si sono rivolti a chi ha promesso sgomberi e deportazioni».
Messe così le cose, sembrerebbe che il peso della sconfitta della sinistra a Roma, in questa municipalità "rossa" per tradizione e convinzione, sia da scaricare per intero sulle spalle di Walter Veltroni, responsabile di aver dimenticato le borgate a vantaggio del glamour dei concerti al Colosseo, delle Feste del Cinema, della Città dello Spettacolo. Sarebbe un errore. Anche l´investitura di Rutelli, dicono, ha avuto il prezzo da scontare. Il come si è scelto quel nome. Il perché lo si è scelto. È parsa soltanto la mossa di un´oligarchia, la ricerca di un nuovo equilibrio all´interno di «una cricca di potere». Un altro segno che la distanza tra la politica e la società civile rende le scelte indipendenti dai gruppi sociali, dalle loro aspirazioni, dalle loro necessità o interessi. Il processo politico riproduce soltanto se stesso. Pensa di poter trascendere gli umori di chi vota, il sostegno attivo della società che pure rappresenta. Una filosofia del potere che, dicono, «non ha fatto i conti con il carattere e il temperamento del popolo di Roma che chiede di essere rispettato oltre che rappresentato, coinvolto e non soltanto usato e che, se non rispettato e coinvolto, ti liquida con un vaffanculo».
La prova è nei numeri. Se Alemanno, al Quadraro, ha sconfitto Rutelli diciannove a uno, Nicola Zingaretti, candidato della sinistra alle provinciali, ha battuto il suo avversario per venti a zero. Vuol dire, ti spiegano, che un´altra candidatura e un altro metodo avrebbero potuto anche attenuare gli errori del passato e ottenere con margini contenuti un altro mandato, un´altra fiducia. Sarà. Resta un ultimo argomento da mettere in piazza. Come è possibile che una borgata per storia e tradizione antifascista ha votato un postfascista? Le risposte che si raccolgono sono un coro: «Quei pregiudizi ideologici non contano più. Non funzionano. È roba del passato. Alemanno, un Alemanno ripulito, è apparso credibile, affidabile, concreto anche ai vecchi che, alla bocciofila del Quadraro, ancora possono raccontare quel 17 aprile del 1944».

Repubblica 30.4.08
Le uova della violenza
Esce oggi un saggio-testimonianza di Luigi Manconi. Un'idea del terrorismo
"Com'è potuto accadere", si chiede l'autore, "che sia venuto meno il principio dell'intangibilità della vita umana?"
di Simonetta Fiori


L´auspicio del libro è che si arrivi a una sorta di prescrizione politica del passato
Un articolo imbarazzante pubblicato su "Quaderni Piacentini"

È un tema rimosso, ricacciato nel fondo delle coscienze, liquidato soprattutto da coloro che ne furono corresponsabili. Forse una parte di sé inconfessabile, un vissuto tortuoso con il quale si fanno i conti privatamente, più difficile farne diario in pubblico, specie quando si ricoprono ruoli di responsabilità. È quel sentimento di prossimità al terrorismo che negli anni Settanta spinse parte del movimento e dell´opinione pubblica - se non ad aderire - a comprendere e giustificare il brigatismo rosso, una zona grigia impastata - se non di atti direttamente violenti - d´un´idea sbagliata di "violenza giusta". Il merito di questo nuovo libro di Luigi Manconi - Terroristi italiani. Le Brigate Rosse e la guerra totale 1970-2008 - è proprio quello di strappare il velo di reticenze che nel tempo è andato ispessendosi sul furore dei Settanta, anche se il taglio interpretativo e la proposta politica non mancheranno di far discutere (Rizzoli, pagg. 186, euro 18,50). Tanto più significativo appare l´intervento di Manconi, senatore dell´Ulivo per due legislature e sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi, quanto più colpisce a destra l´afasia di coloro i quali in quegli stessi anni civettarono con la violenza o ne furono rabbiosi artefici, una promiscuità mai dibattuta tra i dirigenti postfascisti di Alleanza Nazionale.
Altalenante tra saggio sociologico e testimonianza, la riflessione di Manconi appare segnata dal vissuto dell´autore, professore di Sociologia dei fenomeni politici presso l´Università Iulm di Milano e responsabile del servizio d´ordine di Lotta Continua nella stagione in cui venne ucciso Luigi Calabresi. Sull´approccio scientifico dei primi capitoli prevale ben presto l´autobiografia, con l´adozione della prima persona plurale e un´intonazione che non è certo rivendicativa – come potrebbe esserlo? – ma neppure sconfessione nitida, piuttosto un´accettazione "compassionevole" e "non indulgente" della propria personale dissociazione tra la vita di allora e quella di oggi. Quel che ne scaturisce – forse al di là delle stesse intenzioni dell´autore – è un saggio di riscatto generazionale, sintetizzabile nella massima di Joschka Fischer, l´ex ministro tedesco finito sotto accusa per aver ospitato in casa negli anni Settanta terroristi armati della Raf (inchiesta conclusa con un´archiviazione): «Questa è la mia biografia, questo sono io. Senza di essa sarei qualcun altro (e non mi piacerebbe per nulla)». Con quali costi per la collettività è sottinteso.
La tesi del libro è che il terrorismo sia tuttora dentro la società italiana, seppure in dimensioni assai ridotte e in condizioni diversificate rispetto alla matrice brigatista di quarant´anni fa. In nessun´altra democrazia occidentale il fenomeno è durato così a lungo, con tale intensità di potenza militare e con altrettante vittime. Questa offerta terroristica che corre ancora sottotraccia presenta significativi elementi di continuità rispetto alle vecchie Br, anche grazie al persistere di subculture di sinistra e di un alto tasso di ideologizzazione del senso comune che induce perfino le tifoserie calcistiche a ricavare simboli e legittimità dai codici della politica. Compito delle classi dirigenti è disinnescare "questa indistinta disponibilità alla violenza" intervenendo là dove prevalgono l´esclusione e la precarietà de lavoro. Ma accanto a questo c´è un altro lavoro da compiere, forse ancora più arduo: fare definitivamente i conti con gli anni di piombo, con quello "scialo di morte" che trentacinque anni fa precipitò nella notte la democrazia italiana. Una riflessione mancata, impedita da reticenze o semplificazioni, paure e ipocrisie. Un bilancio difficile e doloroso, al quale ha contribuito di recente l´importante libro di Mario Calabresi, accolto dall´autore come un notevole passo in avanti nella "testimonianza civile" e nel "monito morale". «Alla tragedia del terrorismo», scrive Manconi, «s´è sommata la tragedia culturale dell´incapacità di "comprenderlo" e "pensarlo"». Forse anche di assumersene la responsabilità.
In Terroristi italiani Manconi si fa carico della sua parte, quella della generazione che è approdata alla democrazia attraverso un tirocinio assai poco democratico. Spietate ed efficaci le pagine in cui viene descritta l´euforia collettiva che al principio degli anni Settanta azzerò ogni forma di ritrosia morale e autocontrollo, l´impetuosa scelta della violenza come forma di lotta, l´adozione di modelli marziali e virilisti, l´icona di Che Guevara e dell´epopea guerrigliera declinata con il gappismo resistenziale, quel mito della Resistenza tradita denunziato di recente dal presidente Napolitano. «Com´è potuto accadere che per migliaia di giovani uomini e donne», si domanda Manconi, «sia venuto meno il principio della intangibilità della vita umana?».
Eppure quel valore assoluto venne sciaguratamente ridimensionato, la "violenza giusta" teorizzata e spesso praticata, la violazione della legge sempre legittimata. Ma era proprio necessario che andasse così? Secondo la storica Anna Bravo, ex militante di Lotta Continua ed autrice di A colpi di cuore, le cose potevano andare anche diversamente. La violenza fu una scelta, non il risultato di un processo ineludibile. Fu una scelta di pochi, accecati da una tradizione combattentista maschile.
Manconi non evita il confronto con la propria storia complicata. «In quegli anni», scrive, «militai nell´organizzazione Lotta Continua: conobbi direttamente, e direttamente ne feci esperienza e ne fui corresponsabile, quell´intreccio tra mezzi legali, extralegali e illegali, e quel crinale tra uso della forza a carattere difensivo e uso della forza con finalità offensiva. A distanza di quasi quarant´anni, la cosa mi viene frequentemente ricordata e rimproverata. Nello stesso periodo scrissi e discussi con altri militanti un articolo, torvo fino all´idiozia e sostanzialmente filoterroristico, pubblicato sui Quaderni Piacentini con la firma parzialmente pseudonimica. Anche questo a distanza di decenni mi viene ricordato con solerzia. Non me ne lamento affatto. Lo ritengo inevitabile». Ma fino a quando? Fino a quando, insiste Manconi, saremo costretti a dar conto di queste nostre "parole ignobili"? E in un paragone un po´ troppo disinvolto, raffronta la sua generazione ai ventenni che sotto Mussolini scrivevano parole filofasciste: anche loro ripetutamente costretti a giustificarsi. L´accostamento non regge, ma restituisce lo stato d´animo dell´autore, come incalzato da una richiesta estenuante di confessione e pentimento.
Da qui "la chiamata in correità" nei confronti d´una zona dell´opinione pubblica che in quegli infiammati anni affiancò Lotta Continua nella sciagurata campagna contro il commissario Calabresi. Ecco sfilare i più bei nomi del diritto e della filosofia, dell´editoria e della letteratura, Manconi pesca a piene mani dagli appelli contro "il torturatore di Pinelli", "non per rivalsa" ma per restituire lo spirito del tempo. Un comune sentire, un "Maelstrom esistenziale-culturale" che finisce per legittimare la violenza e nel quale vengono risucchiati gruppi sociali e ambienti intellettuali, non estesi ma culturalmente egemoni. Tutti - sembra dire Manconi - tutti pur con responsabilità diverse dobbiamo fare i conti con quella stagione.
La reticenza – è la tesi di Terroristi italiani – non annida solo nelle zone di complicità morale con le azioni terroristiche. È anche di chi non ha voluto riflettere «sul tema della violenza in alcune tradizioni politiche culturali, da quella marxista alla cattolica all´azionista». A questa "mancata esplorazione sulla violenza rivoluzionaria" Manconi affianca la "mancata esplorazione sulla violenza reazionaria". La definitiva resa dei conti appare ostacolata soprattutto da quella parte di classe dirigente che non si è assunta la responsabilità politico-morale dei comportamenti dello Stato nel torbido decennio dei Settanta. Dalla madre di tutte le stragi Piazza Fontana, tuttora senza colpevoli, alle carneficine successive, le istituzioni sono apparse sideralmente distanti e ostili, minacciate da aspiranti golpisti, colpevoli di depistaggi e mancate verità. Se prima non si riconoscono queste ombre e incompiutezze - è la chiave più condivisibile di Manconi - sembra difficile voltar pagina.
Quel che in fondo auspica Terroristi italiani è una sorta di "pacificazione nazionale", "una prescrizione politica del passato", nel "presupposto ineludibile della tutela delle vittime e dell´accertamento giudiziario delle responsabilità". Un´operazione-verità alla quale possano partecipare tutti, vittime e terroristi, senza esclusioni di sorta. Come in tutte le guerre, commenta Manconi, l´epilogo si suggella con "la restituzione dei prigionieri". Prevale qui verso i detenuti politici la cifra simpatetica, incalzano gli interrogativi se l´esperienza del male sia un passaggio necessario per operare nel bene. Forse sono queste le pagine meno convincenti di tutto il volume, che danno come acquisita la categoria di "guerra civile simulata". Una percezione bellica che stava nella testa di chi sparava, non in chi rimaneva sul selciato, disarmato e senza vita.

Corriere della Sera 30.4.08
Torino, vietate le bandiere d'Israele
Fiera del Libro, la questura nega il permesso per tutte le manifestazioni
di Vera Schiavazzi


Lunedì un seminario all'Università. Ospiti: da Vattimo agli intellettuali arabi contro la presenza di Israele Scritte contro Le scritte comparse sui muri del Lingotto lo scorso febbraio, per protestare contro la presenza di Israele alla Fiera

Misure speciali di sicurezza: il saluto di Napolitano avverrà prima dell'apertura al pubblico

TORINO — La Questura di Torino vieta ogni manifestazione per l'8 maggio, giorno di inaugurazione della XXI Fiera del Libro. Non sarà autorizzato il previsto corteo dei centri sociali e di chi boicotta la Fiera per protesta contro la presenza di Israele come Paese ospite, ma neppure il presidio con le bandiere israeliane promosso dal gruppo romano «Appuntamento a Gerusalemme», lo stesso che aveva chiesto e ottenuto la presenza del Capo dello Stato in segno di solidarietà con la manifestazione libraria. «È un divieto assurdo, noi vogliamo soltanto salutare gioiosamente Napolitano con le bandiere del Paese ospite», la replica. Più prudente la posizione dell'Unione delle Comunità Ebraiche, che attende l'esito di un incontro fissato per oggi tra il suo presidente Renzo Gattegna e il Viminale. Già nei giorni scorsi, e in via informale, la Questura aveva «sconsigliato » a chi all'interno delle Comunità voleva enfatizzare il momento dell'apertura ogni iniziativa pubblica. Ora però il divieto totale potrebbe assumere il sapore di un'imposizione che rischia di mettere sullo stesso piano qualunque iniziativa, dai saluti con le bandierine ai cortei per il boicottaggio. «La cosa più importante per noi — spiega con diplomazia Claudia De Benedetti, che l'Ucei ha delegato alle vicende che riguardano la Fiera di Torino — è la gratitudine che vogliamo esprimere a Napolitano per la sua presenza. Ma siamo fiduciosi che si potranno vedere tante bandiere, portate dalle singole persone, sventolare alla Fiera nel giorno dell' inaugurazione».
Il sentiero della trattativa è stretto, strettissimo, e si gioca tutto sulle parole di ieri sera del questore Stefano Berrettoni: «Per esclusive ragioni di ordine pubblico saranno vietate tutte le manifestazioni fuori dal perimetro della Fiera. Ciò che accade all'interno non è di mia competenza e mi limiterò a prenderne atto per predisporre le misure opportune». Le bandiere con la stella di David vietate all'esterno, dunque, potrebbero ricomparire, magari più piccole, all'interno del Lingotto. Ma la tensione crescente a Torino ha suggerito anche alla presidenza della Repubblica una linea di estrema prudenza: il saluto inaugurale di Napolitano e la sua successiva visita ad alcuni padiglioni avverranno in una Fiera non ancora aperta al pubblico, alla sola presenza delle (pur numerose) autorità invitate per l'occasione, compresi naturalmente i rappresentanti dello Stato di Israele e delle Comunità ebraiche.
Polemiche e confronti ravvicinati tra amici e nemici di Israele potrebbero giungere però anche prima dell'8 maggio. Per lunedì e martedì prossimi, infatti, è in programma all'Università di Torino — nella sala lauree di Scienze Politiche — un seminario internazionale, «Le democrazie occidentali e la pulizia etnica in Palestina », che fin dal titolo dichiara in quale filone di pensiero politico e culturale intenda collocarsi. Il programma spiega il resto: da un lato intellettuali e docenti universitari come lo storico Sergio D'Orsi e il filosofo Gianni Vattimo (che ieri era all'Università di Bologna per un'altra iniziativa anti- Fiera), dall'altro esponenti del mondo arabo contrari alla presenza di Israele a Torino, come Tariq Ramadan. E per concludere, nel pomeriggio di martedì, una tavola rotonda con i vari comitati del «no»: No War, no Tav, no Dal Molin, no Fiera Libro. «Come Università, la nostra filosofia è quella della massima apertura al confronto — chiarisce il rettore Ezio Pelizzetti —. È un seminario a carattere scientifico. Del resto, siamo stati gli unici in Italia a ospitare insieme, ben due volte quest'anno, l'Università ebraica e quella palestinese di Gerusalemme».

Corriere della Sera 30.4.08
Il sindaco Delanoë ha imposto nuove didascalie per chiarire il contesto storico
Caffè, belle ragazze e nazisti La mostra che divide Parigi
Bufera sulle foto esposte dal Comune: «Erano di propaganda»
di Alessandra Coppola


L'esposizione non spiegava bene che la spensieratezza degli scatti era ricercata: l'autore era pagato dagli occupanti

PARIGI — Sugli Champs- Élysées il caffè Le Colisée brulica di avventori, seduti all' aperto, indifferenti al passaggio dei militari tedeschi. Una ragazza regge lo specchio per non sbagliare la linea del rossetto. Un'altra esibisce un cappellino lilla con fiore e veletta. A Ménilmontant una coppia mangia ciliegie, il neonato nella carrozzina.
Tutto normale a Parigi. Se non fosse occupata dai nazisti. Ogni tanto una parata, il cinema Marignan trasformato in «Deutsches Soldatenkino », qualche bandiera con la croce uncinata. Segnali di una presenza aliena. Sapientemente mescolati, però, a facce sorridenti e spensierate donne in occhiali da sole. Di fatto, fotografie di propaganda. Le ha scattate André Zucca, tra il '40 e il '44, per la rivista Signal,
che poi non le ha pubblicate e ha lasciato inedita fino ad oggi una testimonianza eccezionale della Parigi degli anni Quaranta. Le uniche foto a colori fatte da un francese nel periodo dell'Occupazione.
Ora, fino al primo luglio, 270 di quelle immagini sono esposte alla Biblioteca dell' Hôtel-de-Ville. Con corredo di polemiche. Il titolo, «I parigini sotto l'Occupazione», adesso suona «Des Parisiens sous l'Occupation», a sottolineare che non erano tutti supini e contenti alla presenza dei nazisti e alla deportazione degli ebrei. La campagna pubblicitaria prevista per tre settimane è stata ridotta a una. I visitatori sono accolti da un'«Avvertenza»: Zucca possedeva una rara pellicola a colori in virtù «della sua assunzione nel giornale Signal, organo tedesco di propaganda nazista che esaltava la potenza della Wehrmacht». A maggio sono previsti incontri di approfondimento. Da oggi 27 fotografie saranno accompagnate da didascalie di colore diverso curate dallo storico Jean-Pierre Azéma, contattato personalmente dal sindaco Bertrand Delanoë. Non più solo la scarna indicazione del luogo, il mercato di Les Halles, per esempio, ma anche qualche dato che dia conto del contesto: «I francesi dovettero tirare la cinghia», con le cifre di carne e verdure razionate.
Una toppa. «Ci sono delle disfunzioni, rimedieremo», era intervenuto l'assessore alla Cultura, Christophe Girard. I visitatori, poi i giornalisti, quindi qualche studioso avevano fatto notare che Parigi sembrava troppo lieve per il disastro che l'attraversava. E che il percorso dell'esposizione — microdidascalie, nessun riferimento a Signal — non spiegava in modo chiaro che l'effetto spensieratezza era ricercato da un fotografo al servizio dell'occupante. «Goebbels venuto il 23 luglio '40 a fare il suo giro da ispettore trova la capitale inutilmente triste — scrive Azéma nel libro della mostra (Gallimard) — e dà l'ordine ai funzionari della Propaganda Staffel di rilanciare "a ogni costo" l'attività della città per darle animazione e gioia».
Scarpe, pellicce, l'ingresso all'Opera. Il Comune fa mea culpa, ma tenta una giustificazione: l'esposizione ha seguito questa linea «light e glamour, nell'atmosfera dell'epoca », spiega Girard. Non voleva essere «un reportage esaustivo, ma solo un punto di vista sul periodo», aggiungono dal suo ufficio. La prima versione, però, è apparsa «pigra, senza lavoro scientifico — scrive il responsabile Cultura di Le Monde, Michel Guerrin —. Ulteriore esempio di un Paese che rifiuta di analizzare tutte le sfaccettature del periodo dell'Occupazione e della collaborazione?». C'erano sì dei francesi che non hanno visto o non hanno voluto vedere, dice al Corriere lo storico Henry Rousso, ma non è una zona inesplorata: ormai su Vichy e sulle connivenze coi nazisti «da tempo in Francia non ci sono più tabù».

La Gazzetta del Mezzogiorno Bari 29.4.08
Un mito dimenticato e un ritratto a più voci
di Nicola Sbisà


L'apparizione di volumi dedicati alla musica e per di più editi da coraggiose case editrici baresi, sta acquistando sempre maggiore consistenza. Una presenza nel mondo editoriale italiano che non tarderà, se continua, ad acquisire un peso affatto secondario.
La Papageno Edizioni, guidata da Grazia Bonasia - musicista anch'ella - ha presentato infatti duevolumi di notevole interesse e per di più realizzati da autori anch'essi «nostri».
Il primo è dovuto a Corrado Roselli, violinista (è anche docente al Conservatorio «Piccinni» di Bari) ed èun doveroso atto di omaggio a quella che può essere considerata una delle maggiori «glorie» musicali della nostra regione: la violinista Gioconda De Vito.
Per ragioni di età, Roselli ha conosciuto l'arte della De Vito «di riflesso»: tramite ciò che di lei gli ha detto la sua insegnante Ludmilla Kutznetsoff (allieva della De Vito) e ascoltandone poi i dischi; ma è bastato per accendere in lui un interesse vivissimo, che lo ha portato a sposare la causa di quello che egli definisce «un mito dimenticato» (Gioconda De Vito - un mito dimenticato, pagg. 120, euro 21).
In tempi recenti, la Fondazione «Paolo Grassi» di Martina Franca, città natale della De Vito, ha appoggiato la riedizione delle registrazioni della grande violinista, rendendo accessibile ai discofili un patrimonio di arte suprema ed intemerata (si sa infatti che la De Vito era ipercritica verso se stessa: le sue «incisioni» autorizzate rendono al meglio le sue straordinarie qualità), una «lezione» interpretativa di valore ineguagliabile.
Notizie biografiche, lettere, testimonianze, una ricchissima iconografia, una discografia completa, fanno del volume un prezioso punto di riferimento per quanti amano il violino e più generalmente la musica.
Pur trasferitasi in Gran Bretagna, la De Vito non dimenticò mai la sua terra natale e, sia pure tardivamente, oggi qualcosa si sta muovendo. L'auspicio è che si possa quanto prima promuovere un Concorso violinistico a lei intitolato.
L'altro volume, inaugura invece una collana intitolata Tamino (è ovvio sottolineare il costante riferimento mozartiano) curata da Maria Cristina Caldarola, docente di pianoforte al Conservatorio «Piccinni». È la stessa Caldarola l'autrice del volume, che è dedicato ad un musicista greco, ma vivente ed operante in Italia, dove è rimasto anche quando, caduto il «regime dei colonnelli» ha ripreso i contatti col proprio paese natale: Dmitri Nicolau.
Scopo della collana- come scrive l'editrice - è «esplorare l'articolato mondo della musica, attraverso i ritratti di coloro che ne hanno scritto la storia, accanto a coloro che hanno ancora molto da scrivere...».
Un incontro casuale, incontro fra musicisti, ha spinto la Caldarola a definire un «ritratto» di una personalità poliedrica nel mondo dell'arte, qual è appunto Nicolau (62 anni), «compositore, co-regista, direttore di fotografia, docente di arte scenica, tecnica e drammaturgia vocale, pittore e... uomo».
Il volume - di impianto innovativo (Dmitri Nicolau - Una ricerca personale, pag. 320, euro 18) - prospetta appunto un nuovo modo di fare la storia nel mondo dell'arte, pro-
ponendo pensieri, scritti, lettere, interviste, disegni e composizioni. Quanto basta per conoscere un personaggio interessante e di indubbie qualità.
In particolare, pur - in veste di compositore - trattando ogni genere, Nicolau ha un particolare interesse per il sassofono e per gli strumenti a plettro (non per niente è nato nella terra del "bouzuki") ed ha operato non poco nel mondo del cinemae del teatro (con colonne sonore e musiche di scena).
Il volume raccoglie, scritti di Nicolau, recensioni, critiche, lettere, interviste (fra le quali quella fatta al musicista dalla barese Grazia Stella), testi di lavori vocali e teatrali, nonché il quanto mai corposo elenco delle composizioni che, coprono ogni genere.
Un ritratto quanto mai completo, di un personaggio che ha la sua rilevante collocazione nel mondo della musica contemporanea, un ritratto stimolante che fa sorgere legittimo il desiderio di ascoltare anche a Bari la sua musica.

Liberazione lettere 30.4.08
Non sono un cannibale

Caro Direttore, ho votato Rutelli, e come me so che tanti compagni l’hanno fatto, guidati dal buon consiglio: “guardando Alemanno vien voglia di votare Rutelli”. Malgrado questo leggo oggi su repubblica che io, apolide della sinistra radicale, sarei un cannibale fratricida. L’ideologismo suicida, cannibale e fratricida è stata l’idea del Pd di correre da solo. Vorresti ricordare a Ezio Mauro che avevamo la maggioranza in parlamento perché si era trovato a suo tempo il coraggio di ipotizzare alleanze? Potresti invitare Repubblica, alla quale ho già scritto, a valutare che senza ipotizzare alleanze con la sinistra radicale, cioé senza fare i conti con il suo ideologismo vitale, e non suicida come scrive Mauro, Veltroni perderà sempre? Grazie
Roberto Martina

Rosso di Sera 30.4.08
Anche a sinistra sono importanti le persone
di Elena Canali


Due sono le chiavi di lettura della disfatta storica che balzano agli occhi: il primo aspetto riguarda il capitolo “Compromesso Storico” iniziato negli anni ’70, se non addirittura con l’ approvazione dell’articolo 7 della Costituzione e concretamente attuato con la realizzazione del PD, si chiude, in pochi mesi, con un colossale fallimento e ciò che crolla fragorosamente è la scelta di rinuncia all’identità di sinistra, laica e nettamente schierata in favore dei lavoratori e dei ceti deboli.
Il solo buonismo all’americana non ha appeal sul “centro”, mentre ampia fetta dell’elettorato si allontana da chi tradisce i valori storici della sinistra come la netta difesa dei diritti civili, la solidarietà, le riforme tese alla trasformazione della società.
Parallelamente va evidenziato che mentre il PD, con vocazione universalistica del “ma anche”, si riduce a un partitino isolato, Zingaretti alla Provincia viene premiato e Rutelli perde clamorosamente il Comune di Roma. Si deduce che la credibilità personale dei candidati, anche in un contesto storico sfavorevole, è determinante.
Questa è la seconda riflessione che ci aiuta anche a pesare la disfatta della Sinistra l’Arcobaleno: che sia stata messa sotto accusa dall’elettorato la personalità dei nostri dirigenti? A pensarci bene l’evento assolutamente nuovo nella storia della nostra sinistra è che per la prima volta siamo stati al governo e molti di noi hanno rivestito incarichi di potere nelle istituzioni, consigli di amministrazione, direzioni di aziende etc., e il risultato è stato il crollo dei consensi, non solo perché, schiacciati dal ricatto e forzati nella mediazione, non abbiamo potuto incidere positivamente sulle condizioni di vita della gente, ma quello che maggiormente ha allontanato i nostri elettori è il modo di alcuni di gestire il potere: personalistico, settario, arrogante, spocchioso, per non dire dispotico. Dunque, come esiste il voto “alla persona”, esiste anche il “non-voto alla persona” . E dovremo a lungo riflettere su questo aspetto, che un tempo veniva riassunto nello slogan “il personale è politico”, cioè su quanto la realtà umana sia capace di creare armonie e produrre relazioni positive, oppure creare disarmonie e repulsione. La verità è che i nostri uomini/donne di potere nel loro rapporto con il mondo circostante non hanno saputo comportarsi neppure come i vecchi democristiani, che stabilivano, si, relazioni di clientela, ma pur sempre relazioni. L’aspettativa generata dalla storica opportunità di poter finalmente collaborare a costruire insieme e trasformare lo stato delle cose, è stata troppo disattesa. Con ciò non intendo dire che tutti si siano rivelati totalmente “inadeguati”, ma certo il risultato del voto è prova di una profonda disaffezione, di un giudizio di inaffidabilità e incoerenza e, quindi, di una diffusa incapacità di creare rapporti costruttivi con i sindacati, le associazioni, e anche i tanti singoli che pure solo due anni prima ci avevano votato. Per questo è troppo semplicistico prendersela con chi non ha votato Rutelli favorendo l’arrivo di Alemanno: se mai a servire su un piatto d’argento il Campidoglio come Palazzo Chigi alla destra populista di Alemanno e Berlusconi, è stato chi, proponendo candidati lontani dai valori degli uomini e delle donne che avrebbero dovuto votarli, si è improvvisamente e inaspettatamente dimenticato il popolo della sinistra.
La doppiezza, la falsità, la volgare contraddizione tra il dire e il fare, più e più volte denunciata da molti, in tante sedi, non produce consenso. Occuparsi di politica non può più essere uno scambio di poltrone o il palcoscenico su cui risolvere le proprie frustrazioni, ma deve tornare ad essere “servizio”, interesse per gli altri, generosità, “fare insieme”. Si impone, ormai, la necessità di aprire a sinistra una ricerca sulla realtà umana, su come la trasformazione della società non possa prescindere dalla coerenza tra pensiero e prassi. Nuove modalità, nuova cultura politica. Forse, ora che il fondo è toccato e nessuno ha più nulla da perdere, ne possiamo parlare?