domenica 4 maggio 2008

l’Unità 4.5.08
«Silvio è figlio del ’68»
di Maria Grazia Gregori

PROSPETTIVE Per un direttore di un teatro figlio del ‘68 come l’Elfo di Milano, Elio De Capitani, quella stagione ha dato buoni frutti: «Non è vero che non resta nulla, lo Statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, una diversa idea della donna vengono da lì»

«Quel desiderio di un
mondo a colori contro
il grigio dei padri in
un certo senso lo ha
intercettato Berlusconi
Ma lo ha reso merce»

Il ’68 visto dalla parte della scena. Se c’è un teatro italiano in qualche modo figlio di quel maggio e di quegli anni, è l’Elfo. Oggi questo teatro ha 36 anni ed è cresciuto insieme a diverse generazioni di spettatori. Del ’68, della sua eredità, di quello che ne resta - se resta - nell’approccio alla scena, nello sguardo sul mondo, ne parliamo con Elio De Capitani che con Ferdinando Bruni dell’Elfo è direttore.
Elio, ma tu chi eri nel ’68?
«Uno nato il 28 luglio del 1953 che nel ’68 aveva 15 anni, frequentava la prima liceo scientifico al Vittorio Veneto, un liceo moderno e periferico di Milano, una realtà sociale mista. L’anno ’67-’68 per me ha voluto dire la scoperta dell’assemblea, dell’occupazione della scuola, il primo sciopero fatto per una professoressa di un altro liceo. Ma anche la scoperta di una voce che si sentiva e che mi è poi servita più tardi nel fare teatro: era a me che facevano leggere le mozioni. Ho vissuto quell’anno e gli anni immediatamente dopo dentro il Movimento Studentesco e prima ancora nell’Unione dei comunisti italiani marxisti, un gruppo maoista dal quale sono stato espulso - un onore per me - perché mi piacevano i libri. Diventato mio malgrado un leader ho sempre avuto un rapporto molto aperto con le istituzioni scolastiche; lo scontro, semmai, era con i leader della Statale. Mi ha sempre affascinato però il carattere pacioso di "professore" umanista di Capanna, anche se un po’ mi stordiva la sua rigidezza: ne facevo un’imitazione perfetta».
Cosa hanno significato per un quindicenne quei tempi: la libertà individuale, un mutamento epocale, l’entrata nell’età adulta, la voglia di cambiare il mondo?
«Posto che il ’68 ha avuto motivazioni diverse negli Stati Uniti, in Europa e nei paesi dell’Est, per me e per molti della mia generazione ha voluto dire la rivolta contro i padri e la crosta conservatrice che pesava sul paese. E anche una rivolta verso quell’ideologia di stampo fascista che metteva insieme Dio, patria, famiglia. Penso alla lettera di don Milani a Paolo VI contro un vescovo che sosteneva che la guerra in Vietnam fosse giusta perché combattuta in nome di Dio. È questa idea di autorità a tutti i costi che ci sentivamo di contrastare in nome della pace. E penso a Pasolini, un grandissimo, lucido interprete di questi cambiamenti. Per molti un nostalgico romantico: in realtà lui antivedeva moltissimi dei disastri futuri, la corruzione del palazzo… Certo alla fine del ’68 molti sono tornati nei ranghi, nel letto comodo della loro classe; qualcuno è diventato un pubblicitario di grido. Perfino Berlusconi, a suo modo, può essere un figlio del ’68. Ricordo la battuta che dicevo nel Caimano di Nanni Moretti: "volete ancora quelle signorinette coperte, grigie, oppure volete le poppe fuori, le gambe in vista?" In un certo senso lui ha intercettato quel senso di libertà, il desiderio di un mondo a colori contro il grigio dei padri, solo che l’ha trasformato in merce».
Anche tu sottoscriveresti l’espressione di Capanna «formidabili quegli anni»?
«Qualcuno dice che del ’68 non ci rimane nulla. Penso al contrario che lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto, una diversa considerazione della donna, una riforma sanitaria fra le più avanzate, derivino proprio da lì. Altro che cerotti antirivoluzionari».
Che strada ha preso nella tua vita quell’idea di libertà, quella voglia di scardinare il potere dei padri di cui parlavi prima?
«Per me il ’68 ha trovato la sua strada con la nascita del Teatro dell’Elfo che ha dentro di sé tutti gli elementi fondamentali, costitutivi della parte più significativa di quegli anni. L’Elfo non ha mai voluto essere un teatro gerarchico tant’è che siamo ancora un gruppo con pochissima verticalità. Sicuramente ha contribuito il fatto che a dirigerlo siamo in due - Ferdinando Bruni ed io - con le nostre diversità e che vicino a noi ci siano personalità molto forti come Ida Marinelli, Cristina Crippa, Fiorenzo Grassi. Senza un assemblearismo un po’ fine a se steso ci sentiamo ancora un collettivo vivente, molto dialogante che si regge su di un meccanismo di trasparenza ed apertura. Il fatto di inventare un teatro, di essere in comunicazione con una pratica reale in cui trasferire tutte le nostre idee e portarle avanti, mi ha permesso di continuare ad avere un rapporto di militanza politica, umana sociale, familiare - ho sposato un’attrice - con la realtà. Per cui ti dico: formidabili quegli anni ma anche formidabili "questi" anni».
Anche in teatro avrai avuto, almeno all’inizio, dei maestri: li hai combattuti pur riconoscendoli o l’intenzione era quella di avversarli in tutto e per tutto?
«Ovvio che li ho avuti. Per esempio Grassi e Strehler e il loro progetto di un teatro stabile d’arte, per tutti. Pur riconoscendone la grandezza volevamo dimostrare che eravamo un’alternativa al loro modo di fare teatro, pensavamo a una rete, a un teatro diffuso. Un altro esempio per il modo di lavorare sui testi è stata la Schaubühne di Berlino di Peter Stein e di Klaus Michael Grüber. Invece, dopo l’iniziale innamoramento, Ariane Mnouckhine non è stata un maestro: troppo monocratica».
E in tutto questo che ruolo occupa lo spettatore? Un compagno di strada? Qualcuno da affascinare? Un bene comune?
«C’è il "tuo" spettatore che ti sceglie e ti permette di essere quello che sei. Poi c’è la città nella quale fai teatro realizzando un pensiero che vuoi condividere con tutti. E c’è la trasmissione del sapere teatrale agli attori e al pubblico in cui si mostra un’idea, una strada, un modo di concepire il teatro. Il ’68 ci ha spinto a rifiutare lo stile. Nel nostro teatro tu senti uno spirito etico ed estetico, ma non un unico segno. Noi non pratichiamo quell’idea unitaria tendente al classico che si esaltava nella purezza classica di Strehler. Siamo più barocchi, per noi lo stile è uno strumento. Ci sentiamo figli di quel pensiero che Pasolini espresse nelle Mille e una notte: la verità non è in un sogno ma in molti sogni. In una città come Milano la risposta non può essere data da un univoco modo di fare teatro: l’eccellenza oscilla, ci sono anni fantastici, un formidabile teatro, difficoltà, grandi depressioni. Da sessantottini pensiamo che il teatro sia un bene comune».
Il tuo ’68 ha avuto una colonna sonora, un pensiero predominante?
«Giocare col mondo facendolo a pezzi, bambini che il sole ha reso già vecchi". È Demetrio Stratos degli Area. I loro dischi ci rappresentano moltissimo, sono stati la nostra colonna sonora».

l’Unità 4.5.08
Il Rinascimento prima del Rinascimento
di Renato Barilli

DA ARNOLFO DI CAMBIO a Nicola Pisano: Exempla, allestita a Rimini, propone un percorso nell’arte statuaria del XII e XIII secolo, epoca nella quale Federico II tentò di ricostruire l’unità dell’impero

Il Meeting di Rimini usa ormai, da molti anni, organizzare ampie e solide mostre, rivolte a interi capitoli del manuale di storia dell’arte, utilizzando i magnifici spazi di Castel Sismondo, nel capoluogo adriatico. Tanto robusti, questi appuntamenti, che almeno in tre casi ho sentito il dovere di occuparmene (il Trecento veneto, i restauri della Sistina, l’arte ai tempi di Costantino Imperatore). L’offerta attuale si presenta, a dire il vero, sotto il titolo un po’vacuo di Exempla, ma il sottotitolo indica la latitudine dell’impegno: La rinascita dell’antico nell’arte italiana. Da Federico II ad Andrea Pisano (a cura di Marco Bona Castellotti e Antonio Giuliano, fino al 7 settembre, cat. Pacini). La posta in gioco, appunto, è amplissima, si tratta di stabilire se quel particolare Rinascimento che si suole accreditare alla grande figura di Federico II (1196-1250), l’imperatore di casa sveva che, dai possedimenti nell’Italia meridionale, tentò di ricostituire l’unità dell’impero, possa riallacciarsi al Rinascimento in generale, inteso come grande ritorno, dell’Europa dal Duecento all’Ottocento, alla lezione di naturalismo insita nei lontani modelli latini. Il tutto verificato su «esempi» tratti dalla statuaria, in quanto la pittura, per gran parte del Duecento, rimaneva prigioniera degli schemi piatti e astraenti della congiuntura bizantina, mentre gli scultori erano potentemente supportati dai numerosi resti della plastica di età classica. E proprio sotto la regia del grande Federico ci fu senza dubbio un ritorno a quei modelli classici, lo si vede soprattutto dai busti che furono incastonati nella Porta di Capua, ai tempi di quel sovrano.
Qui in mostra sono esposti reperti minori, provenienti dal Museo di Lucera, ma tutti volti a confermare quel poderoso ritorno di volumetrie gonfie, tese, quasi tracciate col compasso, risoluto antidoto alle secchezze smunte che imperversavano invece nei mosaici di estrazione bizantina. Ma soprattutto, a sostenere l’ipotesi della continuità dal Rinascimento federiciano all’altro con baricentro in Toscana, starebbe l’emigrazione di un personaggio, Nicola, detto «de Apulia», dalla sua ormai indubitabile provenienza dai territori federiciani, ma poi andatosi a trapiantare a Pisa, da cui trasse il soprannome. E già in proposito qualcuno ha fatto osservare che, se i suoi contemporanei avessero voluto sottolineare in lui la provenienza geografica, e anche culturale, lo avrebbero detto Pugliese. Invece, evidentemente, ai loro occhi il luogo di lavoro, Pisa, Pistoia, le contrade toscane in cui egli ha disseminato i suoi strepitosi bassorilievi, faceva premio su quel dato remoto. Si aggiunge un ulteriore gravissimo motivo di riflessione: se la forza di cui Nicola era portatore fosse stata davvero originaria delle Puglie, malgrado il suo allontanamento altri colleghi ne avrebbero continuato la lezione magistrale, in quei territori. Ma così non fu, le acque dell’Adriatico si richiusero, dopo la partenza di Nicola, e non diedero altri frutti rilevanti, mentre Pisa e la Toscana tutta lo dotarono di una magnifica progenie, a cominciare dal figlio Giovanni, e dal coetaneo di costui, Arnolfo di Cambio, forse il maggiore tra tutti, colui che poi trasmise la fiaccola del Rinascimento a Giotto, quando finalmente la pittura, sul finire del secolo, fu in grado di seguire la sorella maggiore sulla via di un pieno plasticismo.
Nonostante gli sforzi federiciani, il Meridione rimaneva ancora per gran parte inarticolato e compatto, laddove Pisa dimostrava un’ampia vocazione ai traffici, ai commerci, ben presto seguita, e sorpassata, da Firenze e da Siena. Questa fatale rispondenza del dato materiale con quello stilistico spiega perché mai, nei bassorilievi di Nicola, il blocco plastico, inerte e statico nella statuaria del rinascimento federiciano, si articolasse, con movimenti di membra, braccia, gambe, ergersi di teste, ancora contenuti, ma già tanto gravidi di energia potenziale, pronta a sprigionarsi. In mostra, lo vediamo da gessi tratti dai capolavori in marmo del Maestro Pugliese-Pisano, una Deposizione dalla croce, una sequenza di Annunciazione, Natività, Adorazione dei Pastori e dei Magi, in cui le figure si susseguono, premendo le une sulle altre, quasi ingolfandosi per troppa volontà espressiva. Con lui, siamo alla metà del Duecento, poco prima, attorno agli anni ’40, erano nati il figlio carnale Giovanni e il figlio spirituale Arnolfo, che diedero ulteriore vigore ai corpi, portandoli a impennarsi, a torcersi. In particolare, Arnolfo, per allontanarsi ancor più dall’inerzia statica dei blocchi federiciani, adottò un geniale accorgimento, lo vediamo dai frammenti esposti tratti dalle sue grandi realizzazioni di Orvieto, Tomba del cardinale De Braye, e da S. Giovanni in Laterano, Tomba Annibaldi. Non solo i corpi si torcono, osando perfino volgerci le spalle, ma uno sfondo tempestato di ornamenti cosmateschi a mosaico agisce da respingente, crea una gerarchia di piani, fugando definitivamente il rischio di inerti soluzioni sferoidali.
Semmai, un rimprovero che si può fare ai curatori è di aver ecceduto in bramosia inclusiva. Che ci sta a fare nella eletta compagnia dei Pisano, Nicola più Andrea e Arnolfo, un altro Pisano, Andrea, che viene quasi un abbondante mezzo secolo dopo, quando ormai la causa del Rinascimento toscano ha vinto, e risulta capace di sottili ed elastiche eleganze?

l’Unità 4.5.08
Sinistra democratica, che cosa fare?
di Carlo Leoni

La cultura socialista che ci appartiene
non può congelarsi con la pretesa
di imporsi ad altri. Dà un contributo
maggiore allo stesso socialismo europeo
se si arricchisce nel confronto con altre
culture ed altre esperienze sociali

Concordo su diverse cose tra quelle sostenute da Salvi e Villone su l’Unità del 30 aprile (Sinistra Democratica, che fare ?). Su altre vorrei discutere ed è quello che mi accingo a fare. Concordo con l’esigenza di un serio percorso di partecipazione e di decisione che impegni i nostri militanti e con le critiche sulla mancanza di meccanismi decisionali partecipativi e di regole certe e trasparenti. Le intendo anche come autocritica visto che i due compagni che scrivono, al pari del sottoscritto e di altri, hanno avuto responsabilità politiche e parlamentari di rilievo.
Affinché si possa aprire la stagione di una nuova alleanza progressista per il Governo del Paese non basta che nel PD si superi l’illusione dell’autosufficienza. Serve che sia in campo una sinistra che si ponga il doppio problema di un suo forte radicamento popolare e di una coraggiosa innovazione politica e culturale.
Una "sinistra di governo", ci ricordano Salvi e Villone. Certo, ma non basta dichiarare di esserlo, se la tua consistenza e la forza delle tue idee non solo tali da mettere gli altri di fronte a qualcosa da cui sia difficile prescindere. Serve una sinistra assai diversa da quella che si è vista in campagna elettorale, troppo cartello elettorale e residuo di un passato, più che nuova soggettività e speranza per il futuro.
Siamo apparsi come una forza non utile, di fronte all’ondata di destra, né per il Governo né per l’opposizione. Non è solo colpa del PD e del suo appello disperato e infondato al "voto utile". La verità è che una parte dell’Arcobaleno la pensava nei fatti come Veltroni. Riteneva cioè che anche alla sinistra convenisse uno "splendido isolamento" libero dai vincoli delle alleanza politiche. Noi che la pensavamo diversamente avremmo dovuto innescare su questi temi un dibattito pubblico, rendere noto il nostro punto di vista, coniugare, in una parola, tensione unitaria e battaglia politica.
Il carattere "plurale" del nuovo soggetto della sinistra che dobbiamo costruire non può indicare la giustapposizione di partitini, miniapparati e gruppi dirigenti che restano diversi tra loro e ciascuno impermeabile agli altri, in uno schema "federativo" che non è stato certo premiato dagli elettori, ma un vero melting pot in cui tutti si lascino attraversare dalle culture femministe, ambientaliste, pacifiste, altermondialiste, mantenendo come spina dorsale essenziale le culture e la storia del movimento operaio italiano.
In questa ottica devo confessare che trovo troppo statica e ossificata la versione fornita da Salvi e Villone della identità socialista del nostro movimento. Mi sembra soprattutto priva di fecondità politica. La cultura socialista che ci appartiene e di cui andiamo fieri non può congelarsi con la pretesa di imporsi ad altri. Si valorizza di più e dà un contributo maggiore allo stesso socialismo europeo se si arricchisce nel confronto e nella pratica politica con altre culture ed altre esperienze sociali.
Certo che non tutto è nelle nostre mani. La possibilità di un nuovo spazio politico della sinistra, in cui viga il principio e la pratica di "una testa un voto", passa anche per l’esito dei congressi dei Verdi e di Rifondazione che si terranno nel mese di luglio. Ma noi non dobbiamo, non possiamo stare fermi: in queste settimane, così piene di inquietudini e di amarezza, dobbiamo aprire le nostre sedi a tutti, convocare assemblee pubbliche, inaugurare dove possibile nuove "case della sinistra", cominciare a costruire la nostra agenda di opposizione al Governo Berlusconi e alle giunte locali di destra, essere presenti il più possibile sui media altrimenti si consolida tra la gente la convinzione che noi siamo davvero estinti e che l’unica opposizione alla destra rimane quella del partito democratico. A questa forte iniziativa pubblica occorre intrecciare quel processo innovativo di partecipazione e di coinvolgimento democratico descritto in modo da me condiviso da Salvi e Villone. Chi fa tutto questo? Chi lo organizza? Le condizioni di salute impediscono a Fabio Mussi di continuare a svolgere il ruolo di coordinatore del nostro movimento. A lui dobbiamo tutti un pieno grazie per l’intelligenza e la passione con cui ci ha guidato fin qui. Ma le sue dimissioni cadono in un momento per noi davvero drammatico non solo per le ragioni politiche generali di cui stiamo discutendo ma anche per una condizione materiale di enorme difficoltà. Possiamo, senza rischiare la paralisi, restare ancora a lungo senza neanche un coordinatore legittimato nelle condizioni possibili? Io credo proprio di no e penso soprattutto che sfioreremo il grottesco se nello stato in cui siamo ci dovessimo dividere sul nome del coordinatore o se, come mi pare propongano Salvi e Villone, il suo nome dovesse scaturire come esito della vasta consultazione che a quel punto invece di essere concentrata sulla politica, rischierebbe di tradursi, anche a prescindere dalle intenzioni soggettive, magari in una conta di delegati a sostegno dell’uno o dell’altro, e in una gara paradossale.
Ci vuole umiltà e senso della misura. Il Comitato nazionale di SD, convocato già per il 10 maggio, proceda dunque alla nomina del nuovo coordinatore con grande serenità. Nella stessa sede si decida un primo piano di iniziative, le forme del dibattito interno e le persone disponibili ad organizzare l’una e l’altra cosa.
Poi, ripartiamo. Nella campagna elettorale abbiamo potuto misurare la generosità e le energie di migliaia di militanti del nostro movimento. Da qui si ricomincia. Insieme e con una rinnovata solidarietà tra tutti noi.

Repubblica 4.5.08
Trentin, la scelta partigiana
"La guerra vera per l'Italia vera"
Spunta dal passato il diario da adolescente del sindacalista Un monito sul valore dell’antifascismo
di Simonetta Fiori

Un piccolo quaderno nero, un diario intensissimo che copre due mesi, 22 settembre-15 novembre 1943, prima di entrare nella Resistenza Bruno Trentin, allora sedicenne, appena rientrato in Italia dall´esilio francese, lo aveva poi sepolto in un cassetto. La sua compagna, Marcelle Padovani, lo ha ritrovato e ora Donzelli lo pubblica

Nessuno ha mai saputo di questo piccolo quaderno nero, non i figli né la compagna né gli amici più intimi. Bruno Trentin l´ha protetto da sguardi e parole indiscrete per oltre sei decenni, lasciandolo scivolare sotto vecchie carte, come si fa con gli oggetti preziosi ma un po´ ingombranti, sepolti nel mucchio e mai dimenticati. È il diario dei suoi sedici anni, un documento privato ma con straordinario valore pubblico, la cronaca minuziosa e lucida dei sessanta giorni che segnarono le scelte d´una generazione, e anche il destino d´una nazione. Un journal de guerre, come titola espressivamente il giovane diarista, che comincia all´indomani dell´armistizio, il 22 settembre del 1943, per interrompersi due mesi più tardi, il 15 novembre, a pochi giorni dall´arresto insieme al padre Silvio. Due le epigrafi poste in prima pagina, «Allons enfants de la Patrie!» e «C´est la lutte finale!», la Marsigliese e l´Internazionale. Per raccontare la sua guerra antifascista Trentin sceglie il francese, "figlio guascone" di esuli italiani.
«Quando Marcelle Padovani me l´ha mostrato, è stata un´emozione molto forte: come ritrovare un tesoro al modo di Stevenson», racconta Carmine Donzelli, che ha deciso di darlo subito alle stampe.
Inusuale anche la veste grafica, nella calligrafia meticolosa, nell´ordinata scansione in paragrafi, perfino nell´accurata illustrazione tra fotografie, mappe e ritagli di giornale: «Anche in questo non comune gusto grafico», dice l´editore, «si riconosce la naturale eleganza dell´autore, una precocità fulminante e quel razionalismo cartesiano respirato nelle scuole francesi».
A Cédon de Pavie in Guascogna Bruno era nato il 9 dicembre del 1926, il padre Silvio un insigne giurista costretto all´emigrazione dalle «leggi fascistissime». Oltralpe dunque crebbe e si formò, guascone nelle radici e nel temperamento, lettore avido di D´Artagnan e ragazzo scalpitante: le foto giovanili ne mostrano l´indole da furetto indomito che pochi anni più tardi troverà una sua più misurata intensità. Inquieta e fremente - racconta Iginio Ariemma nella sua informata introduzione - è anche l´atmosfera respirata a casa e nella libreria paterna di Tolosa, la Librairie du Languedoc, crocevia degli esuli di Giustizia e Libertà e dei volontari andati a morire in Spagna.
«Ma un adolescente ribelle», spiega Donzelli, «può voler di più, magari mostrare ai padri che anche lui ci sa fare, su una spinta che mescola conflitto e assimilazione». Così nel 1942 Bruno appena sedicenne fonda un gruppetto anarchico, tappezza Tolosa di scritte antifasciste, utilizzando per la propaganda la carta intestata della libreria di famiglia... Per caso o per sfida? La polizia lo scopre, finisce in prigione. Di quell´episodio racconterà la visita in carcere della madre e un furente schiaffo sulla guancia: «Se fai il nome di tuo padre, t´ammazzo…». Per Bruno resterà uno dei ricordi più cari.
Quando può rientrare in Italia, dopo la caduta del fascismo, Silvio porterà con sé quel figlio precoce e inquieto. Ne fa il suo braccio destro, lo coinvolge nella sua attività clandestina di leader azionista della Resistenza veneta. L´arrivo è a Mestre, poi Treviso, il 4 settembre del 1943. La guerra sta per cominciare, quella vera, la guerra contro il nazifascismo - come annota Bruno nel diario - il patriottismo autentico contrapposto a quello fasullo di marca fascista... Nel journal il ragazzo trascrive ogni dettaglio, eventi e personaggi, incontri riservati, le prime azioni di sabotaggio, l´organizzazione delle bande partigiane. La cautela del cospiratore appare scossa dalla furia di divorare «conoscenze luoghi e persone», come se la scrittura potesse mimare e sostituirsi all´azione. Le sue fonti sono diversissime, dai quotidiani fascisti a Radio Londra e Radio Mosca, le agenzie internazionali, gli ambienti azionisti frequentati da Silvio. Nulla gli sfugge della scena mondiale, il fronte interno e l´Egeo, il Pacifico e la Russia. La sintonia politico-culturale tra padre e figlio sembra cementarsi, il diario è anche testimonianza d´un genitore ritrovato, «si è costruito quel rapporto che era in parte mancato», confesserà più tardi Bruno.
Resistenza e ancora Resistenza: la parola ricorre tra le pagine quando ancora se ne faceva scarso impiego, fa notare Claudio Pavone nella sua Postfazione. Dall´iniziale scetticismo verso i connazionali, intorpiditi dal ventennio nero, Trentin scopre pian piano una diffusa volontà di riscatto, in un crescendo di giudizi affilati che mescolano lungimiranza - l´eccidio di Cefalonia interpretato come pagina nobile contro il nazifascismo -, patriottica indignazione (il re «miserabile piccolo sgorbio ricoperto d´oro e medaglie finte») e accenti enfatici verso «le gloriose avanguardie dei figli di Lenin» immolate contro la «bestia nazista». Una passione questa sul fronte orientale talvolta raffreddata in un lessico più cauto, in termini come «rossi» e «bolscevichi». Nell´oscillazione lessicale sempre Pavone rintraccia i conflitti politici che agitano la sinistra resistenziale, ma anche «quel groviglio proprio d´una generazione del quale vanno colte sia le contraddizioni e le coerenze che il significato profondo».
Puntuale e quotidiano fino al 13 ottobre, nell´ultimo mese il diario acquista un passo più lento e frammentato, spia dell´aumentato rischio dei cospiratori. Il 15 novembre l´interruzione improvvisa, con una frase secca scritta a matita: «Tempo perduto. Ora all´opra!». È l´unica scritta in italiano, una sorta di epigrafe generazionale che riecheggia l´analogo appello di Giaime Pintor e disegna la parabola politica e esistenziale del giovane guascone partito dalla Marsigliese e approdato alla lingua dei padri. Per Bruno comincia una nuova vita. Quattro giorni più tardi l´arresto a Padova insieme a Silvio: nel tragitto verso la federazione fascista Bruno ingoia tutte le carte compromettenti, procurandosi un´occlusione intestinale. La carcerazione non durerà a lungo, ma nel marzo successivo l´attende lo strappo più doloroso, la perdita del padre. Al lutto privato s´aggiunge il peso simbolico della successione. Nell´aprile del 1944 Bruno è già in montagna.
Perché il prolungato silenzio su questo Journal de guerre? «Forse per una scelta di stile», risponde Donzelli. «Tra i dirigenti della sinistra vigeva la regola che non ci si doveva vantare. O forse Trentin è stato trattenuto dalla radicalità dei suoi giudizi giovanili. A me è sembrato sbagliato censurarlo, soprattutto in questi tempi confusi. Il diario ripristina con un´urgenza perentoria l´idea che c´è stata una guerra contro il fascismo, e che non è possibile equiparare i combattenti dell´una e dell´altra parte. È un documento sul valore imprescindibile dell´antifascismo. La Liberazione non è stata liberazione punto è basta, ma liberazione dal fascismo. È bene ricordarlo, altrimenti rischiamo che i miti fondativi della storia repubblicana perdano senso perché fondati sull´equivoco».

BRUNO TRENTIN:

22 settembre 1934
Sono esattamente 14 giorni che il popolo italiano ha preso coscienza con una gioia trepidante dell´armistizio con le potenze Anglo-sassoni. Gioia ben presto delusa dall´annuncio dell´occupazione integrale dell´Italia settentrionale da parte delle truppe tedesche. Dall´8 settembre 1943, il nord della penisola vive la più terribile e la più penosa delle tragedie.
L´8, mio padre era a casa dei suoceri, mio fratello a casa di amici. Io passeggiavo per caso sulla piazza principale di Treviso (Veneto). Si è radunata una folla confusa e incerta. Corrono delle voci: la Pace... la Pace!... Voci, ma nessuno ne sa niente. Tutto a un tratto, un uomo compare a un balcone e urla: «Italiani! Una grande notizia... Armistizio!... la guerra del fascismo è finita!... Vendetta contro quelli che vi ci hanno trascinato!...». La gente grida di gioia, i soldati si abbracciano, si corre per le strade, si canta. Io, tremante, tesissimo, mi precipito attraverso il dedalo delle viuzze sporche della città bassa. In cinque minuti sono da mio nonno; irrompo nella stanza in cui mio padre sta discutendo con alcuni amici; grido: «Badoglio ha firmato l´armistizio!». Mio padre si alza in piedi, grave, senza inutili esplosioni di gioia; si guardano tutti tra loro... «È la guerra che comincia!».... La guerra vera per l´Italia vera.
Da quel giorno, le nostre volontà: quella di mio padre, di mio fratello e la mia, si sono sforzate di farla, questa guerra, con ogni mezzo.
Il 9 settembre, mio padre va a trovare il comandante della piazza, il generale Coturri. Questi si rifiuta di organizzare la resistenza alle truppe tedesche che avanzano verso Treviso per occuparla. Il 10, un altro generale, tremante di paura, si sottrae. L´11 un terzo generale del «fu esercito italiano» e il prefetto della città non si vogliono compromettere. Paura! Paura! Corriamo di prefettura in prefettura, dall´ufficio dello Stato maggiore al Municipio. La nostra delusione, la nostra amarezza sono grandi; tutti tremano di paura. Lo sgomento, il panico poco a poco si impossessano della popolazione. Qualche giorno prima, urlavano di gioia. L´11 settembre già tremavano per la loro salvezza. I tedeschi si avvicinano a Treviso. I soldati scappano in disordine, buttando le armi, le uniformi, gli ufficiali, in borghese, scappano in macchina attraversando a tutta velocità le vie della città. Di fronte all´impossibilità di organizzare in città una resistenza armata, partiamo a nostra volta per nasconderci in campagna. Comincia in Italia una nuova vita: la vita clandestina.

25 settembre 1943
Si è costituito il governo fantoccio di Mussolini. Tra questi ministri, tra questi uomini abietti che non hanno vergogna di incitare il popolo italiano a collaborare con le orde naziste, si ritrovano alcune vecchie conoscenze, già famose per la loro integrità e la loro grandezza d´animo. In particolare, quel caro maresciallo Graziani che si è tanto graziosamente distinto in Abissinia nell´impiegare i gas contro dei negri inermi, ha portato a termine la sua carriera di macellaio sanguinario, mettendosi a servire tra le file nemiche, come ministro della guerra di un governo fascista venduto alla Germania al prezzo più basso, fianco a fianco coi suoi colleghi tedeschi, macellai come lui.
Ma ci sono anche degli ufficiali che hanno saputo lavare nel sangue l´onore così compromesso di questa Italia martirizzata. È il caso del generale della divisione «Acqui» a cui era stata affidata la difesa dell´isola greca di Cefalonia, e che con una fermezza e uno stoicismo ammirevoli ha ordinato ai suoi uomini di resistere ad ogni costo all´invasore nazista. Soverchiato dalla schiacciante superiorità del nemico, insieme col suo stato maggiore rifiutò di arrendersi, cosicché i tre quarti della divisione, con tutti gli ufficiali, furono annientati. I Tedeschi fecero solo quattromila prigionieri. Una pagina gloriosa come questa mostra che c´è ancora della buona genia di Italiani: Italiani che hanno a cuore l´onore del loro paese e la loro libertà.

8 ottobre 1943
L´automobile s´inerpica per uno stretto sentiero di montagna, il tempo è cattivo, piove. Sono in macchina, con mio padre e uno dei nostri. Il nostro obiettivo è di andare a P..., paesino della montagna veneta, per discutere e prendere accordi con i capi di un movimento di patrioti italiani, armati fino ai denti, che tengono le alture. Intorno alle 5, arriviamo in paese. Parcheggiamo l´automobile nel cortile di una locanda che è una delle ultime case di P. «Loro» sono lì, ad attenderci: due giovani ufficiali degli «Alpini» dell´esercito Italiano. La barba lunga, indosso un completo di velluto, l´aria risoluta... Poche parole per presentarci, e ci sediamo attorno a un tavolo, davanti a un bicchiere di vino: siamo soli. Le discussioni che sono seguite sono state di carattere troppo confidenziale perché possa trascriverle su questo diario.
Tuttavia, mentre parlavamo, tra noi, sentivamo qualcos´altro.. un bisogno di essere affettuosi, nonostante parlassimo di questioni terribilmente serie e importanti.
Negli occhi di quei montanari si percepiva una grande aspettativa, un po´ di riconoscenza, per quella gente di laggiù, per quei rappresentanti dei partiti di resistenza, che erano saliti fin lì per provare a creare qualcosa di veramente organizzato... forse anche un po´ di diffidenza per quegli uomini ben vestiti, un po´ pieni di illusioni.
Arriva un capitano degli Alpini, è il capo del gruppo. Pelle abbronzata, baffi corti... doveva avere attorno ai trentacinque anni: il tipico montanaro veneto. I suoi occhi chiari ti frugano dentro e ti spogliano. «... allora è vero, ci sono degli amici che vogliono aiutarci... ci sono altri Italiani che vogliono battersi con noi; allora, non ci sono solo bastardi e traditori?... no, c´è anche un´Italia vera»; e anche noi pensiamo che ci sia un´Italia vera, un vero simbolo di libertà piena di vita e di splendore dentro gli occhi di quell´uomo dagli abiti logori e dalla barba lunga.
Ci sono uomini che hanno pensato come me, che hanno giudicato come me e che vogliono lottare come me contro lo stesso nemico. Non siamo soli! Sotto la maschera consunta e rappezzata, dietro a questa maschera del fascismo, spunta un´altra cosa, una cosa vera, un popolo vero... il vero popolo italiano; non la folla fasulla che urlava «a noi» senza sapere perché... no, un popolo vero... grave, risoluto, splendente di forza e di luce... il popolo libero, il popolo che spezza le sue catene, e che grida altolà!
Quel popolo che era sul Piave contro l´Austriaco, che era a Vittorio Veneto dopo Caporetto, che era anche a Guadalajara contro le Camicie Nere, è nato di nuovo, puro, vergine, inattaccabile...
Abbiamo finito di parlare. Gli accordi sono presi... al minimo segnale devo raggiungerli anch´io per lottare al loro fianco... Stringiamo le mani callose, le stringiamo forte... Addio... L´automobile scende nella notte: un´ora dopo i grandi e sublimi contorni delle Alpi sfumano nel buio... Riscendiamo in città... per occuparci di loro, per riprendere la penna, la carta, l´elettricità, la radio... gli strumenti moderni della guerra... quegli strumenti offerti dalla civiltà...
© Marcelle Padovani e Donzelli Editore 2008

Repubblica 4.5.08
Il potere blindato della destra zuccherosa
di Eugenio Scalfari

Circa mezzo secolo fa – forse qualcuno ancora se lo ricorda – Mina lanciò una canzone che diceva così: «Renato Renato Renato/così carino così educato». Mi è tornata in mente ascoltando il discorso del neo-presidente del Senato, Renato Schifani, che fino a pochi giorni fa era soprannominato "iena ridens" per la sua capacità di ripetere i voleri del Capo e i suoi truculenti insulti al popolo di sinistra con un ghigno sul volto che non presagiva nulla di buono. Oggi si è trasformato: così carino così educato. La canzone di Mina gli si attaglia perfettamente.
E si attaglia anche a Gianfranco Fini, neo-presidente della Camera, e a Gianni Alemanno, neo-sindaco di Roma. Le loro movenze sono diverse da quelle di Schifani, hanno un pizzico di volontà di potenza in più e un maggior orgoglio di sé. Non sono – oggi come ieri – lo scendiletto del Capo, hanno un loro partito, una loro provenienza, una loro storia (anche se poco commendevole) dietro le spalle. Ma anche loro «governano per tutti i cittadini» anche se non per conto e in nome di tutti. Anche loro promuoveranno i talenti al di sopra degli steccati partigiani. Anche loro insomma non sono più politici politicanti ma statisti governanti. C´è da credervi?
Io penso di sì, c´è da crederci. Del resto non si è mai visto in democrazia qualcuno che, arrivato al potere sulla base del libero voto popolare, si metta a proclamare che lo userà per favorire la sua parte. Non lo fece neppure Mussolini dall´ottobre del ´22 al gennaio del ´25. Aveva vinto le elezioni, sia pure con una porcata di legge, e aveva formato un governo di coalizione con dentro vecchi cattolici e ancor più vecchi moderati.
Poteva fare, come disse, dell´aula sorda e grigia di Montecitorio un bivacco di manipoli, ma lo fece soltanto due anni dopo sulla scia del delitto Matteotti. La dittatura rompe le regole della democrazia e rende inutile l´ipocrisia. Il Parlamento fu abolito, i partiti dissolti salvo il suo che fu identificato con lo Stato, la libera stampa mandata in soffitta, come ha auspicato Beppe Grillo e le centinaia di migliaia dei suoi seguaci paganti nel "Vaffa-day" del 25 aprile.
Questa volta le cose non andranno così per molte ragioni. Il mondo è globale, l´economia è globale, la cultura è globale, le informazioni sono globali e anche il commercio è globale. L´Italia è una regione dell´Europa. La nostra moneta è quella europea. Una dittatura totalitaria oggi è impensabile in Europa e in Occidente. E poi la classe dirigente del centrodestra non ha alcuna somiglianza con lo squadrismo diciannovista.
Perciò quel pericolo non c´è. Ce ne sono altri che possono suscitare serie preoccupazioni.

* * *

I marxisti spiegavano la storia dei popoli attraverso il rapporto tra le forze produttive e le istituzioni chiamando le prime "struttura" e le seconde "sovrastruttura". Lo ricorda Giorgio Ruffolo nel suo bellissimo libro "Il capitalismo ha i secoli contati" che è la più lucida ricostruzione della globalizzazione che stiamo vivendo e dei fenomeni che l´hanno preceduta.
Tra la struttura e la sovrastruttura non esiste un rapporto di automatica determinazione come pensavano rozzamente i marxisti militanti del secolo scorso. C´è invece una continua interazione, un reciproco condizionamento. Io credo che l´emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi strutturale delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione.
Questo mutamento strutturale spiega anche la nascita del partito "liquido" dei democratici, la sconfitta del partito cattolico come arbitro centrista che era nel disegno di Casini, infine l´affondamento della sinistra massimalista.
Il comportamento più strano, ai confini dell´assurdo, è stato proprio quello della sinistra radical-massimalista, che ha attribuito a Veltroni la sua scomparsa e ha punito con il voto e con l´astensione Rutelli per castigare il leader democratico. Per gli ultimi marxisti militanti è un errore squalificante non rendersi conto che le strutture negli ultimi quindici anni sono completamente cambiate ed hanno determinato una rivoluzione sovrastrutturale. La sinistra radicale, le sue ideologie, i suoi slogan, la sua organizzazione politica galleggiavano sul vuoto che essa stessa aveva ulteriormente aggravato segando l´ultimo ramo che ancora la sosteneva e cioè l´operatività del governo Prodi.
Il loro stupore per la scomparsa del loro mondo, quello sì, è stupefacente e direi senza appello: chi ha smesso di pensare smette di vivere. Questo è accaduto, con buona pace di Sansonetti, direttore del più assurdo (e come tale utile) giornale oggi in circolazione.

* * *

L´ascesa al potere del triumvirato Berlusconi, Bossi, Fini-Alemanno, che si completa in quadrumvirato con l´inevitabile cooptazione del siciliano Lombardo, si fonda su una precisa ideologia, sì, riemerge l´ideologia, è un fatto nuovo del quale è bene prendere atto. Chi l´ha declinata meglio di tutti è stato Fini nel suo discorso alla Camera dei deputati.
Si basa sulle radici cristiane, anzi cattoliche, sulla condanna del relativismo, sull´esistenza d´una verità assoluta e sulla morale che ne deriva. Sulla tolleranza (relativa) delle altre culture a discrezione del Principe. Sulla protezione e la sicurezza dei cittadini per mettere in fuga la loro insicurezza. Sulla convivenza tra il potere forte dello Stato e la società federale.
Berlusconi rappresenta il vertice del Triumvirato-Quadrumvirato: un tavolo a tre gambe, un triangolo retto che è sempre uguale a se stesso su qualunque lato venga poggiato perché il bello del populismo consiste nella ubiquità di Berlusconi, leghista, statalista, liberista, per naturale e plurima vocazione.
Perciò, salvo errori o malasorte, puntare su laceranti contrasti tra i triumviri è sbagliato: c´è trippa per tutti e anche per Grillo che dissoda il terreno dove i triumviri semineranno e raccoglieranno. Così saranno i cinque anni che ci aspettano. Buon pro ci faccia.
Ma dunque non c´è niente da fare? Al contrario, penso che ci sia moltissimo.

* * *

Una volta tanto provo a descrivere il Partito democratico in negativo, cioè per quello che non è. Un modo come un altro per disegnarne un profilo identitario.
Non è il partito dell´ideologia assolutista. Non è un partito con radici cattoliche o comunque religiose. Non è un partito liberista. Non è un partito classista. Non è il partito dello Stato forte. Non è un partito protezionista.
Quindi: è un partito laico e non ideologico, liberal-democratico, costituzionale di questa Costituzione e dei suoi principi fondativi. Non trasformista ma disponibile a partecipare – se potrà – all´elaborazione delle riforme istituzionali. Vuole un libero mercato nutrito di libera concorrenza, con regole efficaci e istituzioni capaci di farle rispettare. Un partito con una sua visione nazionale nel quadro di un´Europa federale.
Così sembra a me che debba essere.
Nell´idea originaria Veltroni ha puntato su una forma che fu definita "liquida", poggiata sul popolo delle primarie. Questa formula, che anche a me sembrava utilmente innovativa rispetto alla tradizionale forma-partito, si è invece rivelata inefficace. L´esperienza della campagna elettorale ha dimostrato che le primarie sono uno strumento selettivo utile ma non l´ossatura di un partito che deve vivere sul radicamento territoriale. C´è bisogno d´una struttura militante e identificata con gli interessi del territorio e di un vertice solido e plurimo che indichi le priorità e i mezzi disponibili per attuarle. Che non sia casta ma rappresentanza. Locale ma con visione nazionale.
Il Partito democratico rappresenta il solo sbocco politico possibile della sinistra italiana e deve perseguire quest´obiettivo. Rappresenta il solo sblocco possibile dei cattolici adulti, che abbiano intensi sentimenti di fede e non di idolatrie o di calcoli politicanti. Questi cattolici sono minoranza tra i tanti battezzati indifferenti e ruiniani? Ma i cattolici veri, quelli di fede e di responsabilità personale, sono sempre stati minoritari, quello è il loro vanto e la loro dignità religiosa così come lo è per i laici non credenti ma rispettosi del sacro e delle sue non idolatriche manifestazioni.
Ricordo qui una lezione di Ugo La Malfa: impegnò la sua vita politica per cambiare la sinistra di cui si sentiva parte, per cambiare la Democrazia cristiana con la quale fu alleato e per cambiare il capitalismo italiano trasformando gli imprenditori in una consapevole borghesia.
Secondo il mio modo di vedere il Partito democratico deve farsi portatore di analoghe e alte ambizioni che sono al tempo stesso culturali sociali e politiche.
Il riformismo di centrosinistra in un paese come il nostro è minoritario. Lo è sempre stato ma ha, deve avere, vocazione maggioritaria. Del resto le grandi trasformazioni sono sempre state – e non solo in Italia – realizzate da minoranze che seppero operare nel senso della storia programmando il futuro, rappresentando il paese vitale e responsabile, consapevole dei difetti, dei limiti e delle virtù degli italiani.
Un gruppo dirigente coeso e non castale può e dev´essere animato da una grande ambizione. La sconfitta è stata dura, gli errori ci sono stati. Ambizione, non vanità. Dialogo, non trasformismo. Pragmatismo, non improvvisazione.
C´è molto da fare.

Repubblica 4.5.08
Fiera del libro, alta tensione a Torino
Indymedia chiama alla protesta. Napolitano inaugura a porte chiuse
Il rettore difende il convegno anti-Israele: i relatori sono stimati professori
di Paolo Griseri

TORINO - Il presidente della Fiera di Torino, Rolando Picchioni, prova a stemperare la tensione: «Gli espositori sono in aumento, il numero dei dibattiti e dei relatori è da record. Se qualcuno ha voluto boicottare la Fiera del Libro direi che ha fallito l´obiettivo». Ma Picchioni sa perfettamente che non sono solo le cifre a decretare il successo o l´insuccesso di una edizione. Conta invece il clima che si crea intorno ai padiglioni del Lingotto, la capacità della manifestazione di parlare davvero a tutti. E su questo la scommessa è ancora da vincere.
Il primo problema da risolvere è quello della visita di Giorgio Napolitano. Mai, in 21 edizioni, un Presidente della repubblica aveva tagliato il nastro inaugurale della Fiera. Questa volta però bisogna conciliare l´evento con i motivi di sicurezza. Nelle ultime ore tra Torino e il Quirinale sono in corso continue consultazioni. Con ogni probabilità giovedì mattina Napolitano inaugurerà i padiglioni a porte chiuse, senza pubblico, incontrando le autorità locali e una scolaresca. Il segnale che la tensione sale e che non è consigliabile consentire il bagno di folla del presidente tra i libri e gli stand.
Il secondo problema da affrontare in ordine di tempo sarà quello delle contestazioni di chi protesta per la decisione di scegliere Israele come ospite d´onore di questa edizione: «Abbiamo invitato gli scrittori non uno Stato», affermava ieri il direttore della Fiera, Ernesto Ferrero. Molti dei contestatori hanno già dimostrato di non apprezzare la distinzione. Così da ieri il tam tam di Indymedia dice che per tutti l´appuntamento è sabato 10 maggio a Torino in corso Marconi con l´obiettivo di raggiungere il Lingotto che si trova quattro chilometri più in là. La parola d´ordine è «contestare chi, dal Presidente della Repubblica alle autorità nazionali e locali, non ha mai messo in discussione in questi anni l´alleanza strategica con lo stato di Israele». Ancora ieri il prefetto di Torino, Paolo Padoin, ha ripetuto che «verrà naturalmente consentita l´espressione del dissenso ma non sarà possibile mettere a rischio la sicurezza nei padiglioni della Fiera». Dunque difficilmente il corteo potrà raggiungere il Lingotto. Il prefetto ha anche invitato «tutti a un uso delle parole che aiuti a stemperare la tensione» e ha condannato «quei mezzi di informazione che hanno diffuso la notizia, totalmente falsa, secondo cui io avrei impedito di esporre le bandiere di Israele».
L´ultima polemica in ordine di tempo riguarda la decisione dell´Università di Torino di ospitare, martedì e mercoledì, un convegno di scrittori arabi ed europei che si propongono il boicottaggio del governo di Gerusalemme. Scelta che venerdì ha suscitato l´ira e lo stupore dell´associazione Italia-Israele. Ieri il rettore di Torino, Ezio Pellizzetti, ha risposto che «molti dei relatori sono stimati professori universitari» e che dunque «non c´è motivo di dubitare della loro onestà intellettuale e della loro correttezza scientifica».

Repubblica 4.5.08
"Noi migranti romeni, condannati a vedere la paura nei vostri occhi"
di Jenner Meletti

Un invito a pranzo dai fratelli Braneanu, muratori disoccupati a Treviso. Per parlare di cibo guadagnato con fatica, di figli lontani, di razzismo. Ma anche delle brutte facce dei compaesani che ti guardano dai telegiornali e che ti rovinano la vita e il futuro
"C´è chi pensa che siamo tutti uguali e che è meglio non mettersi in casa uomini della stessa terra dei criminali"

TREVISO. Una stretta di mano forte, da muratori. «Bunazina, buongiorno». È bella la casa dei fratelli Braneanu. Una grande sala, la piccola cucina, due camere da letto, un balcone sui platani del quartiere Carbonera. Beatrice, tre anni, è la padrona di casa. Corre come una trottola, vuole fare vedere i suoi pupazzi e i suoi giocattoli. «A dire il vero, in questi giorni dopo la Pasqua ortodossa - dicono i fratelli Florian Costel, trentacinque anni e Ion, quarantuno anni - invece di dire "Bunazina" noi salutiamo l´ospite dicendo: "Hristos a inviat", Cristo è vivo. E lui risponde: "Adevarat a inviat", è vero, è vivo. Questo sarà il nostro saluto fino al giorno dell´Ascensione». Stefanica, moglie di Florian Costel e Florina, moglie di Ion, stanno preparando il pranzo, ma anche gli uomini si danno da fare. «Io ho cucinato il sarmale - dice orgoglioso Ion - con cipolle, carote, peperone e carne avvolti nella verza». Non c´è nemmeno bisogno di fare domande. «Abbiamo quasi paura di accendere la televisione. Ci sono giorni in cui si parla solo di romeni che rubano, che stuprano, che fanno cose cattive. E noi stiamo male perché quando ci chiedono da dove veniamo noi diciamo che la nostra città è Suceava, sulle montagne a nord della Romania. Ma il nome della nostra città e il racconto delle cascate che scendono dalla roccia non interessano. Il commento è sempre uguale: ah, allora siete romeni».
Quello dei fratelli Braneanu è un sogno (per ora) interrotto. «Noi siamo muratori molto bravi. Sappiamo tirare su una casa dalle fondamenta al tetto. Io, Florian Costel, sono in Italia dal 2000. Ion dal 2002 e in quell´anno tutti e due siamo stati assunti da una piccola ditta di edilizia. Noi due romeni e due italiani. Ma sette mesi fa il padrone ci ha detto che non c´era più lavoro e ci ha lasciato a casa. Solo noi, però, gli italiani continuano a lavorare e forse è giusto così perché erano stati assunti prima di noi. Adesso abbiamo l´assegno della cassa integrazione, novecento euro al mese, ma li spendiamo quasi tutti per l´affitto, 512 euro al mese, settanta di condominio e poi ci sono le bollette del gas, della luce, le rate della macchina… Noi tutti i giorni siamo in giro a cercare lavoro. Nelle agenzie ci dicono: lasciate il curriculum, faremo sapere. Nei cantieri ci dicono: per ora siamo a posto, lasciate il numero di telefono. Abbiamo i documenti in piena regola, in un cantiere sappiamo fare tutto e nessuno ci chiama. E allora ci viene un pensiero brutto in testa: forse c´è chi pensa che i romeni sono tutti uguali e che è meglio non mettersi in casa uomini che arrivano dalla stessa terra di quelle brutte facce fatte vedere ogni giorno nei telegiornali».
Ma non ci sono dubbi: il futuro della famiglia Braneanu è qui, in terra trevigiana. A settembre Beatrice (figlia di Stefanica e Florian Costel) comincerà la scuola materna in questa che per i Braneanu è Lamerica: sette fra fratelli e sorelle (su dieci) sono qui e lavorano nelle fabbriche, nei cantieri, nelle imprese di pulizia. «Nei giorni di festa ci troviamo tutti assieme nei parchi di montagna, qui vicino. Prepariamo i mici, gli spiedini alla griglia, ci sembra di essere a casa». «Adesso - dice Ion, il fratello più grande - è il momento di stringere la cinghia. Qui a Treviso sei trattato bene se lavori e se non devi chiedere favori a nessuno. Con i 1300-1400 euro che guadagnavo in cantiere non c´erano problemi. Pagato l´affitto e tutto il resto mandavo a casa trecento euro al mese, a mia suocera, perché a casa sua ci sono i miei due figli, Annamaria che ha diciassette anni e Ionuz Florentin, quindici anni. Studiano e hanno bisogno di tutto. Adesso, con la cassa integrazione, per mantenere i figli devo usare i risparmi che ho in banca. Devo resistere fino a quando mi arriverà la telefonata giusta da un´agenzia o da un cantiere. Intanto abbiamo preparato le nostre difese. Mio fratello Florian Costel abitava qui vicino, in un altro appartamento, anche lui in affitto. Da una settimana è venuto a vivere con me, con moglie e figlia. Così paghiamo un affitto solo».
È l´ora del telegiornale, stavolta si parla di governo e non di romeni. «I delinquenti - dice Florian Costel - rovinano prima di tutto noi che siamo venuti qui per lavorare e per dare ai nostri figli ciò che in Romania non potremmo dare. Ion per i suoi figli già grandi ha comprato un computer, e lavorando in Romania non avrebbe potuto certo fare una spesa così. Io voglio che Beatrice vada a scuola e trovi un mestiere meno pesante del mio. Lei è già italiana, è nata qui. Noi invece siamo romeni e romeni resteremo per sempre. Se per caso lo dimentichiamo, ci pensano gli altri a ricordarcelo. Vai in un bar, vai a fare una passeggiata in centro, e tanti ti guardano in un certo modo. Non hanno nemmeno bisogno di parlare. E invece sarebbe bello discutere. Io sono Florian Costel - così mi presenterei - da più di cinque anni muratore nei vostri cantieri, nemmeno un giorno di assenza. Sullo stipendio pago le tasse, verso i contributi, e poi faccio la spesa nei vostri negozi e supermercati, pago la benzina al distributore. Insomma, lavoro, guadagno, e gran parte dei soldi li lascio qui, nella vostra terra. Ecco, direi questo, se potessi parlare. Il razzismo? È solo una questione di sguardi, che però possono fare molto male. E poi ci sono i piccoli episodi: fai una festa con i parenti e la vicina di casa - è successo nell´altro appartamento - si mette sul pianerottolo, a braccia conserte, a controllare per ore chi va e chi viene. La bambina canta e poi strilla - alle sette di sera - e ti vedi arrivare in casa i carabinieri chiamati da uno che aveva telefonato dicendo "chissà cosa stanno combinando questi romeni"».
Secondo i fratelli Braneanu, non sarebbe difficile distinguere il grano dal loglio. «In Romania, se rubi una gallina, fai tre anni di galera e là le galere non sono come quelle italiane, con tre pasti al giorno e la televisione in cella. Chi sbaglia, anche una sola volta, deve pagare. Chi, arrivato in Italia, non lavora e non cerca nemmeno da lavorare, deve essere mandato via». «Anch´io - racconta Florian Costel - sono arrivato con un visto turistico e sono rimasto come clandestino. Ma ho subito cercato un lavoro. Mi ha aiutato il prete di Silvana, una brava persona. Appena assunto in cantiere ho chiamato Ion, perché cercavano altri muratori. Abbiamo preso una casa in affitto, ci siamo messi in regola. Io a Suceava, fino al 2000, facevo il panettiere sotto padrone. Prendevo trenta euro al mese, bastavano appena per mangiare. Ma volevo comprarmi una casa, per sposare Stefanica. Un appartamento con sala, cucina, camera da letto e bagno allora si poteva comprare con cinque o seimila euro. Per questo sono partito per l´Italia, alla ricerca di uno stipendio più alto. Ho messo da parte qualche risparmio ma adesso nella mia città lo stesso appartamento costa dai cinquantamila ai sessantamila euro».
Florina, la moglie di Ion, è arrivata all´inizio del 2004. «A Suceava lavoravo in una grande azienda tessile, proprietà di italiani, ottocento operaie su due turni. Facevamo anche le divise della polizia italiana. Otto, dieci ore di lavoro e cinquanta euro al mese. Ero rimasta in Romania per risparmiare ma anche là la vita costa ormai come in Italia. L´olio di semi di girasole costa due euro, la carne dai cinque ai dieci euro. Sono venuta qui, con mio marito, ma per ora ho trovato solo poche ore di lavoro, come donna delle pulizie». Un viaggio a casa durante il mese di ferie, per vedere i figli che crescono. «Anche loro vengono a trovarci, ci abbracciano ma dicono che in Italia stanno bene solo in vacanza. Vogliono studiare e trovare il lavoro in una Romania che sta crescendo bene».
A Suceava sono rimasti gli anziani e i ragazzini. «Nell´ultimo viaggio - dice Ion Braneanu - non ho incontrato nessun amico. Sono tutti qui in Italia, in Spagna, in Francia. Là sono rimasti solo quelli che hanno un bel pezzo di terra e i padroni dei grandi negozi. A casa mia ho lavorato per sedici anni in una vetreria. Si faceva tutto a mano: bicchieri, bomboniere, come a Venezia. Nel 2002 prendevo ottanta euro e avevo già i due figli. Riuscivo a mangiare solo perché mia madre aveva un pezzetto di terra e mi dava le patate, le verdure… Io sarei anche rimasto, ma la vetreria era in crisi e ci hanno lasciato tutti a casa. Per questo, quando mio fratello mi ha telefonato per dirmi che c´era questo posto da muratore, più di mille euro al mese da subito, quasi non riuscivo a crederci».
Florian Costel è in partenza per la Romania. «Starò via due settimane, pronto però a tornare prima se arriva la telefonata di un cantiere. Vado al cimitero, da mio padre Ioan. È morto nel 2001, quando io ero in Italia senza documenti. Non ho potuto andare al suo funerale. Sette anni dopo la morte si va al cimitero, si prega sulla tomba, e poi a casa si fa la pomana che è una festa dove parenti e amici sono invitati a mangiare gratis. Si dice che mentre tu mangi anche il defunto mangia nell´alto dei cieli ed è contento».
La tavola della famiglia Braneanu è ancora piena del cibo della Pasqua ortodossa, arrivata una settimana fa. Ci sono anche le uova colorate di rosso. Si battono una contro l´altra non per gioco, come in Italia, ma per celebrare un rito. «La preghiera è sempre quella. "Hristos a inviat", "Adenarat a inviat". Continuerà fino all´Ascensione ma quel giorno le uova saranno bianche». Un invito a pranzo. Una raccomandazione. «Può scrivere che ci sono anche romeni che sono brave persone? Noi a Suceava diciamo che non si può mettere tutti nella stessa pentola. Si dice anche in Italia?».

Repubblica 4.5.08
Boccioni, le lettere del suo amore proibito
di Ester Coen

È l´estate 1916 e tra il fronte della guerra italo-austriaca e le isole Borromee si muove un bizzarro triangolo: Umberto Boccioni, giovane artista appassionato, Vittoria Colonna, aristocratica con grande uso di mondo e suo marito Leone Caetani. Ora un carteggio ritrovato quasi per caso da Marella Caracciolo Chia racconta la loro storia

Segnati da un toccante contrasto tra il gesto della pittura e quello di una attiva adesione alla realtà politica e militare, gli ultimi due anni della vita di Umberto Boccioni riassumono le vicende umane di una personalità attraversata nel profondo dai mutamenti artistici e sociali di un´Italia dai mille contrasti. Lo strappo violento con i compagni nel disperato tentativo di difendere l´identità futurista costruita a colpi di teorie o di strategie dirette e istintive, la realtà sociale di un paese lacerato tra interventismo e neutralità, il desiderio grandissimo di spingere la ricerca verso un limite di cui ha smarrito la misura, disegnano il quadro di un artista tormentato, eppure senza tregua arso dalla fiamma bruciante di una vitalità straordinaria.
Il riflesso di questa inquietudine si legge nella sua opera, si legge nell´ultimo diario di guerra scritto tra l´agosto e il novembre del 1915, si legge ancora nelle lettere ad amici e parenti. Il ritrovamento inaspettato di un nuovo gruppo di lettere, chiuse in un baule, forse a custodire il segreto di una passione, aggiunge un´importante nota all´intendimento non solo degli ultimi giorni di vita, ma di un periodo alquanto oscuro nell´attività di Boccioni. Queste lettere sono ora pubblicate come traccia di un canovaccio per una storia inedita, l´ultima nella breve esistenza dell´artista, una storia vissuta con la frenesia e con l´esaltazione di un´anima istintiva la cui eccitata sensibilità a tratti registra il presentimento di una fine vicina.
Marella Caracciolo, cui si deve il ritrovamento di queste missive, riemerse grazie alla sua perseveranza nel ricostruire la vita di Leone Caetani, quindicesimo duca di Sermoneta, viaggiatore, orientalista e marito di Vittoria Colonna, ha vivacemente ricomposto l´intreccio che accosta nell´arco di un tempo ridottissimo l´esistenza di personalità così diverse, eppure così straordinarie. La leggerezza mondana e aristocratica di una donna dalle alte frequentazioni, lo spirito introverso di un marito taciturno dagli interessi per culture e filosofie lontane, la travolgente natura di un artista giovane dalle grandi ambizioni rivoluzionarie, l´animo sofferente di un grande musicista ostile ai minacciosi venti di guerra, la figura cosmopolita di un raffinato pianista filantropo si incontrano fugacemente attorno alle acque del Lago Maggiore nell´estate che precede il dramma della morte di Boccioni.
Scritto con la delicatezza di chi vuole assistere a un episodio senza per questo dovergli annettere un giudizio critico, Una parentesi luminosa, per i tipi dell´Adelphi, sfiora argomenti problematici e allo stesso tempo restituisce la grazia di un amore sbocciato in quel clima saturo di forti emozioni intellettuali. A Pallanza, nella Villa San Remigio del Marchese Silvio Della Valle di Casanova, su invito di Ferruccio Busoni, a sua volta ospite dell´illustre ammiratore, Boccioni lavora con impeto e concentrazione al ritratto del maestro.
In quel piccolo cenacolo artistico, pur nella fosca atmosfera di un´Italia in guerra, gli incontri sono roventi e, dal minuzioso registro di parole trascritte nel libro, stilla l´ansia irrefrenabile di chi tenta di inseguire e bloccare il tempo che fugge. Con la stessa foga con la quale, camice bianco, tavolozza in mano e cappello in testa, Boccioni attacca a colpi di pennello la grande tela. Si è molto parlato per quest´opera di una ripresa di maniera cézanniana, di un processo di revisione, iniziato due anni prima, al quale l´artista aveva sottoposto il suo intero universo creativo. Se si può parlare di un ritorno alla figura, in quell´epoca di elettrizzata adesione ai moti politici e sociali, questo non è certo segnale di sconfitta né di un ritorno a prassi o a regole aspramente combattute. È l´effetto di una profonda stanchezza spirituale, di una delusione momentanea, di uno spostamento di forze verso un idealismo più dinamico e attivo. Con lo sfaldamento di un´energia tesa alla creazione e votata al principio di un´idea immateriale, un´idea di "terribilità" che può intuire solo chi è interiormente scosso dal fuoco dell´arte.
Nel Ritratto di Ferruccio Busoni si coglie, tuttavia, il risveglio della sensibilità cromatica e architettonica del più alto Boccioni. Il blu oltremare, il verde squillante, quelle note di rossi splendenti dagli improvvisi bagliori di luce, riportano la tela a una dimensione "musicale", seppure dissonante negli stridori degli incastri di piani e volumi. La sveltezza della mano scorre con la stessa rapidità bloccata dall´obiettivo fotografico, dove il corpo di Boccioni sembra muoversi al ritmo delle sue accensioni, per una rinascita di colore e luce. Verso uno stile più sintetico e serrato, come raccontava in quei giorni a un amico, verso un nuovo stato d´animo, più profondo ancora forse, segno di una corsa verso una rinnovata «linea ascensionale».

Repubblica 4.5.08
Lévi-Strauss elogio del lavoro manuale
Intorno all'uomo

La cultura materiale Le discipline sociali e umane non rientrano nelle scienze cosiddette "dure", dove le ipotesi possono essere rifiutabili... Dietro la cultura materiale, i costumi, le credenze e le istituzioni, tentiamo di capire quel che avviene nella coscienza degli uomini, e al di qua di essa Nessuno fra noi potrà mai affermare che il livello in cui ha scelto di collocarsi è l´ultimo; e nemmeno che, sotto tale livello, se ne possa raggiungere un altro, e così via indefinitamente...
Il più grande antropologo vivente, insignito di una serie di premi e onorificenze per la sua lunga carriera di studi, sta per raggiungere il traguardo dei cento anni Pubblichiamo un suo intervento inedito che, per la prima volta, mette al centro della riflessione l´Italia e la sua cultura e fa il bilancio di una proficua vita di ricerca

In Italia sembra esista un detto: «Avere più debiti della lepre». Perché la lepre? Forse perché, come dice il nostro La Fontaine, è un animale preoccupato. Ebbene, se mi sento carico di debiti e quindi «lepre» nei vostri confronti, siate certi [...] che nessuna preoccupazione mi opprime, ma solo un senso di confusione e di gratitudine per l´onore che oggi mi fate.
La mia gratitudine va anche ai fondatori del Premio Internazionale Nonino, poiché nulla mi può gratificare come un premio collegato nel pensiero dei suoi creatori ad altri - i premi Risit d´Âur -, concepiti per onorare dei contadini e dei ricercatori dediti a difendere e illustrare le tradizioni contadine.
Posso permettermi una confidenza? Nel corso della mia vita, ho ricevuto un buon numero di onorificenze, valsemi non tanto per i miei modesti meriti quanto per l´estrema lunghezza di una carriera attiva, durata mezzo secolo. [...] Nessun altra m´ha inorgoglito più della medaglia [...] di «Migliore Operaio di Francia». Io ho infatti il gusto del lavoro manuale, e solo per averlo spesso praticato ho potuto, in uno dei miei libri, delineare la teoria di ciò che in francese chiamiamo bricolage. In verità, sarei lieto se un intellettuale, una volta in pensione, fosse obbligato dalla legge a cimentarsi con un altro mestiere; in tal caso, avrei scelto senza esitare una professione manuale.
Perché questo? Dopo l´avvento della civiltà industriale, il lavoro è diventato un´operazione a senso unico, nella quale l´uomo - lui solo attivo - modella una materia inerte, e le impone sovranamente le forme che le convengono.
Le società studiate dagli etnologi hanno del lavoro un´idea ben diversa. Esse lo associano spesso al rituale, all´atto religioso, come se, in entrambi i casi, il fine fosse quello di intrecciare con la natura un dialogo in virtù del quale natura e uomo possono collaborare: l´una concedendo all´altro ciò che lui spera, in cambio dei segni di rispetto, o persino di pietà, cui l´uomo si obbliga nei confronti di una realtà collegata all´ordine soprannaturale.
Ancor oggi sussiste una connivenza tra questa visione delle cose e la sensibilità del contadino e dell´artigiano tradizionali. Costoro infatti, siccome continuano a mantenere un diretto contatto con la natura e con la materia, sanno di non avere il diritto di violentarle, ma devono cercare pazientemente di capirle, di sollecitarle con precauzione, direi quasi di sedurle, attraverso la dimostrazione perennemente rinnovata di una familiarità ancestrale fatta di cognizioni, di ricette e di abilità manuali trasmessi di generazione in generazione.
Ecco perché il lavoro manuale, meno lontano di quanto sembri da quello del pensatore e dello scienziato, costituisce anch´esso un aspetto dell´immenso sforzo dispiegato dall´umanità per capire il mondo: probabilmente l´aspetto più antico e durevole, quello che, più prossimo alle cose, è anche il più adatto a farci concretamente cogliere la loro ricchezza, e ad alimentare la meraviglia che proviamo allo spettacolo della loro diversità.
Ci si prodiga oggigiorno ad allestire banche di geni per preservare il poco che sopravvive delle specie vegetali originali create nel corso dei secoli da modi di produzione totalmente diversi da quelli ora praticati. Si spera anche di eludere i pericoli della cosiddetta «rivoluzione verde», vale a dire un´agricoltura ridotta a poche specie vegetali di grande rendimento, ma tributarie di concimi chimici e sempre più vulnerabili agli agenti patogeni.
Non dovremmo forse andare ancora più in là e, non contenti di conservare i risultati di quei modi di produzione arcaici, sforzarci anche di tutelare gli insostituibili savoir-faire grazie ai quali quei risultati furono acquisiti? Chissà, infatti, se le minacce che pesano attualmente sulla civiltà occidentale non li renderanno, un giorno, provvidenziali per coloro che verranno dopo di noi.
Tale è, mi pare, la filosofia che ha ispirato i fondatori dei premi al cui novero appartiene quello che oggi ricevo. E se l´avete, quest´anno, conferito a un etnologo, la ragione mi sembra stia nel fatto che questa disciplina si adopera, anch´essa, a preservare la memoria dei generi di vita e di nozioni che, nei paesi esotici e nei nostri, si sono meglio mantenuti fra piccoli gruppi umani rimasti a diretto contatto con la natura. Jean-Jacques Rousseau lo diceva già nell´Emilio: «Proprio nelle province più remote, dove minori sono il movimento e il commercio, dove gli stranieri transitano meno, e meno si spostano i nativi, proprio lì bisogna recarsi a studiare il genio e i costumi di una nazione […] Studiate un popolo fuori dalle sue città, perché non è nelle città che lo conoscerete […] è la campagna a costituire il paese».
Ebbene i ricercatori italiani sono stati fra i primi a metterla in pratica questa dottrina. Verso la metà del Diciottesimo secolo, uno di essi, Giuseppe Baretti, indagava già su usi e costumi popolari. Curiosità che il razionalismo romantico avrebbe sviluppato nel corso del Diciannovesimo secolo e che, nell´ultimo quarto, dà luogo alla creazione di quelle prodigiose fonti documentali che sono [...] l´Archivio per lo studio delle tradizioni popolari e la Rivista delle tradizioni popolari italiane, che raccolgono i lavori di una pleiade di studiosi fra i quali mi limiterò a citare il nome giustamente celebre di Giuseppe Pitrè.
Mi sono spesso chiesto perché mai l´Italia sia uno dei primissimi paesi dal quale mi sono giunti segni di attenzione. In nessun altro si è manifestata altrettanta sollecitudine nel tradurmi. Fra la pubblicazione francese e quella italiana di taluni miei libri, anche voluminosi, sono intercorsi tre anni, o due, o addirittura uno solo. Paolo Caruso, che fra l´altro ha tradotto con talento Antropologia strutturale e Il pensiero selvaggio, certo si ricorderà di nostre vecchie conversazioni: esse furono, credo, le mie prime conversazioni con uno scrittore straniero pubblicate dalla stampa. E si ricorderà anche che con la Rai, più di vent´anni fa, lavorammo alla mia prima trasmissione televisiva, nelle gallerie del Musée de l´homme e nei giardini zoologici parigini, dove egli mi faceva raccontare certi miti sudamericani davanti alle gabbie degli animali che ne sono i protagonisti…
Forse queste testimonianze di interesse si spiegano in base a due tradizioni intellettuali in cui il vostro paese si è particolarmente distinto. In primo luogo, come ricordavo poco fa, una curiosità appassionata per le usanze e i costumi popolari considerati nella prospettiva più concreta; e poi un´altra ben diversa, fiorita verso la fine del Diciannovesimo secolo, per ricerche d´ordine formale, che hanno dato origine alla scuola italiana di logica matematica. Forse mi illudo, ma mi piace immaginare che abbiate potuto riconoscere nei miei lavori un tentativo, certo rustico e maldestro, di gettare un ponte fra i due ambiti. Poiché, partendo dalle credenze e dalle rappresentazioni dei popoli viventi in stretta intimità con la natura e pensanti in termini di colori, rumori, odori, tessiture e sapori, ho cercato di allargare i confini della nostra logica per afferrare meglio certi meccanismi ereditari che presiedono all´attività intellettuale. Giuseppe Peano, geniale fondatore della scuola matematica italiana, si era innamorato della linguistica e della storia delle idee: tradizione che risale a Vico, nella cui scia mi hanno talvolta collocato.
Sarei l´ultimo a pensare che dai risultati che ho creduto di raggiungere consegua alcunché di definitivo. Le discipline sociali e umane non rientrano nelle scienze cosiddette «dure», dove le ipotesi possono essere rifiutabili. Non siamo ancora giunti a questo stadio, e io dubito che ci si possa giungere mai. Infatti, dietro la cultura materiale, i costumi, le credenze e le istituzioni, tentiamo di capire quel che avviene nella coscienza degli uomini, e al di qua di essa. Nessuno fra noi potrà mai affermare che il livello in cui ha scelto di collocarsi è l´ultimo; e nemmeno che, sotto tale livello, se ne possa raggiungere un altro, e così via indefinitamente… Ho soltanto aspirato a render conto di fenomeni molteplici e complicatissimi in una maniera più economica, e più soddisfacente per l´intelletto, di quanto non si facesse prima. Ma con la certezza che questo stadio è provvisorio e che altri, migliori, gli succederanno.
Mi basta sapere che il lavoro di tutta una vita non è stato completamente inutile, e che può servire da trampolino da cui altri prenderanno slancio per catapultarsi più avanti. Per un uomo arrivato all´imbrunire della sua carriera, è confortante, anzi esaltante, sentirsi garantire che il suo insegnamento e i suoi scritti offrono ancora un tema di riflessione. [...]

Questo testo inedito è stato letto da alla cerimonia di conferimento del Premio Internazionale Nonino il primo febbraio 1986 a Percoto in provincia di Udine. Si ringraziano Claude Lévi-Strauss e Antonella Nonino per l´autorizzazione a riprodurlo. Diritti riservati Premio Nonino

Repubblica 4.5.08
L'esploratore dell'Altro che è in ciascuno di noi
di Marino Niola

«In fondo sono strutturalista fin dalla nascita. Mia madre mi ha raccontato che, ancora incapace di camminare e molto prima di saper leggere, un giorno ho gridato dal fondo della mia carrozzina che le prime tre lettere dell´insegna del macellaio (boucher) e del panettiere (boulanger) dovevano significare "bou" perché erano le stesse in entrambi i casi. A quella età già cercavo delle invarianti». Ricordando questo episodio della sua primissima infanzia, Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo di tutti i tempi, ci dà una chiave proustiana per spiegare la genesi di quello strutturalismo che lo ha proiettato nell´Olimpo dei maîtres à penser del Novecento. Per aver trasformato la conoscenza dell´Altro, lo studio delle differenze culturali, in coscienza critica dell´Occidente. In un nuovo modo di pensare l´uomo.
Claude Lévi-Strauss, che sta per compiere cento anni, ha incarnato, più di Sartre, di Nizan e di Foucault, l´ansia delle generazioni del dopoguerra di spezzare gli angusti schemi eurocentrici che identificavano la civiltà occidentale con la civiltà tout court. Centro e motore dell´umanità. In questo senso l´autore di Tristi Tropici si può considerare il Copernico delle scienze umane.
Nessun antropologo ha esercitato un´influenza altrettanto vasta al di fuori della propria disciplina. Dalla filosofia alla storia, dalla politica alla critica letteraria, dalla linguistica alla sociologia, dalla poesia alla psicanalisi, dall´arte alla musica contemporanea, l´opera di Lévi-Strauss è ricaduta come una pioggia benefica su questi campi dando loro nuova linfa. L´uscita delle Strutture elementari della parentela nel 1949 fu salutata da Simone de Beauvoir come una pietra miliare nella conoscenza dell´uomo. E Il Crudo e il Cotto, il primo dei sei volumi consacrati allo studio dei miti, diventò addirittura musica nelle mani di Luciano Berio che lo inserì in una sua sinfonia. Mentre Max Ernst e Alberto Burri hanno tradotto le sue opere in pittura. Un´influenza tanto vasta ha diverse ragioni. Il disegno ad ampio raggio del progetto antropologico, le sue implicazioni filosofiche, un´erudizione sterminata e preziosa che consente di costruire collegamenti tra diversi campi del sapere umanistico e scientifico, e infine una grande scrittura ricca di vibrazioni letterarie.
Capolavori come Tristi Tropici, Il pensiero selvaggio, Antropologia strutturale, nascono da questo personalissimo mélange, in buona parte inimitabile perché frutto di un talento eterodosso e senza confini. Che ha sempre portato Lévi-Strauss a pensare in grande. Senza tuttavia perdersi nell´astrazione pura che parla dell´Uomo con la maiuscola dimenticando gli uomini in carne ed ossa. E al tempo stesso senza smarrirsi nella selva dei particolarismi e dei localismi. E, nella scia dei suoi grandi modelli - Vico, Rousseau, Freud e Marx - il professore del Collège de France ha cercato di connettere, come due facce della stessa moneta, l´universalità della natura umana e la diversità delle singole culture. Un´antropologia degna del suo nome non può, infatti, limitarsi ad un inventario notarile di usi, costumi e tradizioni. Ma deve mettere insieme ciò che fa la differenza fra le società con ciò che ci rende simili, tutti parenti tutti differenti. E che consente di riferirsi ai membri della specie con lo stesso nome "uomo".
L´idea di fondo di Lévi-Strauss è che costruzioni culturali come il linguaggio, la mitologia, il matrimonio, l´arte, la tecnica hanno solo in parte origini storiche, sociali e ambientali, ma per l´altra parte obbediscono a regole universali insite nel funzionamento della mente. Una posizione del genere, in un´epoca in cui le scienze sociali erano dominate da teorie empiriste come il relativismo e il comportamentismo, è costata al grande antropologo accuse d´idealismo, di antistoricismo, di antiumanismo. Lo stesso Lévi-Strauss, peraltro, ha affermato più volte che il compito delle scienze umane non è di costruire l´uomo, ma di dissolverlo. Ma in realtà la provocazione levistraussiana nasce proprio da quell´attenzione costante al doppio filo che lega società e natura.
Nei primi anni Cinquanta, con una sensibilità ecologica in largo anticipo sui movimenti ambientalisti attuali, l´antropologo francese denunciava il pericolo di un umanesimo narcisisticamente antropocentrico che dimentica i diritti del vivente in nome di un´idea astratta della vita, che fa dell´uomo il signore unico del pianeta e della sua riproduzione il fine ultimo della natura.
Analizzando, anche sulle colonne di questo giornale, fenomeni particolari - come i miti degli indiani d´America, il matrimonio tra gli aborigeni australiani, il tempo libero tra i Nambikwara, la cucina in Francia, il turismo di massa, la scultura degli Irochesi, il ready made di Marcel Duchamp, la religione consumistica di Babbo Natale, il culto mediatico di Lady Diana, la poesia di Baudelaire e la musica di Wagner - ha sempre rivelato quanto in essi ci sia di universalmente umano. Il generale che si nasconde nel fatto più particolare. Coniugando il rigore dell´analisi scientifica con la sensibilità e l´immaginazione dello scrittore. E non a caso il suo Tristi Tropici - un autentico best seller, venduto in milioni di copie in tutto il mondo - è diventato uno dei grandi libri del nostro tempo, l´ultimo romanzo di formazione. Dove il racconto di viaggio e la scelta del mestiere di antropologo, vanno ben oltre la confessione individuale, à la Chatwin, per fare dell´antropologia stessa un sintomo del rimorso dell´Occidente che cerca di scoprire nelle altre civiltà i limiti della propria. Sottoponendosi alla prova delle Lettere persiane di Montesquieu che consiste nel guardare la propria identità, i propri costumi, le proprie credenze con gli occhi dell´altro. Ma soprattutto Lèvi-Strauss ci ha insegnato a cercare l´altro dentro di noi, a riconoscerlo anche all´angolo della strada e non solo negli scenari esotici della Melanesia o dell´Amazzonia che, nella loro rassicurante lontananza, tolgono al rapporto con l´alterità quella drammatica urgenza che le migrazioni e la globalizzazione hanno fatto esplodere.
E sessanta anni fa, quando il primo mondo ancora si cullava nell´illusione delle magnifiche sorti e progressive, Lévi-Strauss ha intravisto profeticamente il pericolo dell´integralismo religioso che, partendo dall´Islam avrebbe finito per contagiare il mondo cristiano, facendo della contrapposizione tra i due monoteismi, sempre più irrigiditi, un conflitto planetario fra due identità in armi. Tra due nemici per la pelle, che proprio nel demonizzare la differenza dell´altro finiscono per somigliarsi sempre di più.
Queste ed altre grandi questioni del presente, dal sovrappopolamento della terra al relativismo culturale, dal riaffiorare del mito al ritorno dei localismi, fino alla guerra del velo e alle modificazioni genetiche, si trovano tutte nell´opera di Lévi-Strauss. Con una formulazione sempre provocatoria e anticipatrice che rappresenta l´eredità preziosa dell´ultimo dei classici.

Corriere della Sera 4.5.08
Nel Salernitano Cava de' Tirreni, l'assessore dell'Udeur: ronde notturne intorno alle ville
Il sindaco dà il pitbull ai vigili
La giunta di centrosinistra: cani anche per difendersi
Oggi i tre cani poliziotto debuttano per le strade. L'assessore Senatore: «Proteggeranno le nostre forze dell'ordine»
di Fabio Cutri

MILANO — I manganelli di Salerno e gli spray al peperoncino di Bologna? Armi vecchie, si può passare a quelle non convenzionali. Dopo un anno di dibattiti e soprattutto di addestramenti, da domani mattina i vigili urbani di Cava de' Tirreni si presenteranno per le strade con i pitbull al seguito. Si comincia fuori dalle scuole, per dare la caccia agli spacciatori, ma per i nuovi tutori dell'ordine a quattro zampe è previsto anche il servizio notturno: il debutto nelle ronde è solo questione di giorni. Giusto il tempo di ambientarsi un po' con i nuovi colleghi.
Per la verità il pitbull è uno soltanto e, per la precisione, si tratta di un «amstaff», ovvero una razza che, per quanto di aspetto e prestanza decisamente simili, non è proprio la stessa del meno socievole tra i migliori amici dell'uomo. Gli altri due sono dei più rassicuranti pastori tedeschi. Resta il fatto che grazie a Diana, Kim e Johnny — questi, nell'ordine, i nomi dei cani poliziotto — la corsa alla sicurezza della città fa un passo ulteriore. E stavolta grazie a una giunta di centrosinistra.
L'artefice dell'iniziativa è Alfonso Senatore, energico assessore alla Sicurezza con un passato da missino e un presente nell'Udeur.
Il suo sindaco, con il quale assicura di andare d'accordissimo — l'ex Pci e ora Pd Luigi Gravagnuolo —, si è lasciato convincere non senza qualche resistenza. La domanda viene infatti spontanea: ma sarà davvero il caso di difendere i cittadini proprio con un pitbull?
«È un cane vittima di false dicerie che io intendo sfatare — dice serafico Senatore —. Se gli animali vengono allevati con amore fin da piccolissimi non possono dare nessun problema. E poi Diana è la più cucciolona del gruppo, durante il corso è stata l'ultima a superare il test dell'aggressività. E pensare che ha una forza mascellare pari a quella di una tigre...». Di fronte al dispiegamento di un simile cane, ci si potrebbe aspettare che nella cittadina salernitana quello della sicurezza sia un problema da bollino rosso. E invece niente: «È il posto più tranquillo d'Italia — continua l'assessore —. Ho già buttato fuori gli zingari, ho tolto i bambini ai rom, ho cacciato via i vu' cumprà». Ecco, e allora perché i cani? «Sono convinto che anche un piccolo centro come il nostro debba dotarsi di unità cinofile: per impedire che la droga circoli nelle scuole, per individuare immediatamente i dispersi in caso di alluvioni, per cercare un bambino smarrito. E poi certo, anche per proteggere i nostri vigili e i volontari quando pattugliano le ville durante la notte». Dopo sei mesi di addestramento nel centro di Marano i tre neo arruolati sono stati assegnati alle rispettive «compagnie »: Kim «il bello» (è nipote di un campione internazionale) affiancherà i vigili urbani; Johnny «il secchione» (tanto bravo a scuola da meritarsi un master supplementare a Roma in tecniche di salvataggio) la Protezione Civile; Diana «la buona» (si spera) le pattuglie dei Rangers, un corpo di volontari che prende ordini dalla polizia municipale.
E i cittadini? L'assessore Senatore assicura di averli convinti con i risultati. E pazienza se i suoi metodi lo fanno passare da leghista: «Se scegliere la sicurezza come priorità è leghismo, perfetto, mi va benissimo». Chissà se anche su questo è riuscito a convincere il sindaco.

Corriere della Sera 4.5.08
Il saggio In libreria «L'uomo che non credeva in Dio», nuova opera del fondatore di «Repubblica»
I temi «Il volume è una ricerca dei nessi che ci sono tra la vita e i pensieri. Non un racconto di fatti»
I dubbi, la ricerca, la fede Scalfari indaga se stesso
Un'autobiografia come strumento di conoscenza del mondo «Il titolo, con il verbo all'imperfetto, lascia aperta la conclusione»
dialogo tra Claudio Magris ed Eugenio Scalfari

«Io sono Kim», dice il protagonista del celebre romanzo omonimo di Kipling, ma subito aggiunge: «Chi è Kim?». Il pronome personale sembra la realtà più ovvia e indiscutibile e si rivela invece la più precaria; «conosci te stesso» - chi conosce chi? Non è solo l'altissima inquietudine religiosa di Agostino a porre questa radicale domanda, talvolta basta un piccolo dolore fisico a scompaginare il nostro io: un dente che d'improvviso fa male e che sino a un attimo prima era parte di noi, era noi, si rivela estraneo e nemico, qualcosa di nostro contro di noi. È la continuità a venir messa in dubbio, l'identità dell'io di ieri con quello di oggi. Soprattutto l'io che scrive si rivela un altro, come voleva Rimbaud: «Di chi è questa voce spaventosa? » si chiede, in un racconto di Hoffmann, un poeta rileggendo una propria poesia.
Chi ha scritto L'uomo che non credeva in Dio,
questa singolare autobiografia classicamente composta e possente nella sua classica scrittura, che tuttavia indaga inquieta il suo tessuto, quasi per disfarlo, come il lavoro notturno di Penelope? L'ha scritto certo chi la firma, ovvero un protagonista di primo piano, da decenni, del giornalismo e della politica italiana, il quale imprime così un sigillo di saggezza alle sue battaglie e avventure giornalistiche, editoriali, politiche, culturali, che hanno fatto di lui una figura centrale, ammirata celebrata invidiata temuta amata odiata, della vita nazionale. Maestro nel capire e indirizzare il caotico, ambiguo ed effimero polverio quotidiano che prende forma nelle pagine del giornale e negli eventi pubblici, questo io narrante si rivolge qui invece al senso e allo sgomento di ciò che trascende il tempo. Ma questo io più profondo che si pone in dubbio è solidale con quello socialmente, politicamente, culturalmente vittorioso che porta il nome di Eugenio Scalfari? Gli aggiunge una valenza spirituale, una dignità di saggio, oppure gli sfugge, lo inquieta, lo mette in imbarazzo, come un bambino o un ragazzo malizioso, non troppo convinto di essere cresciuto? Il vero io che scrive questo libro di Scalfari è anche in conflitto con lui; i guizzi e gli affondi della sua scrittura recalcitrano a quella ben diversa scrittura «professionale… funzionale, utilitaria» del giornalista e scrittore politico Eugenio Scalfari, come aveva detto egli stesso nel suo Incontro con Io.
Ma cominciamo banalmente dal «chi è» del titolo. All'inizio, prima di leggere il libro, mi aveva un po' infastidito e mi sembrava strano che un autore, il quale nel Labirinto aveva scritto pagine di serenità classica, lucreziana sul rapporto fra l'io e i suoi elementi in cui è destinato a dissolversi tornando nel grande fluire di tutte le cose, potesse indulgere a una muscolosa ostentazione di quell'ateismo fondamentalista oggi così diffuso e speculare alla pacchiana religioseria altrettanto diffusa. Infatti nel tuo libro non ce n'è traccia. Esso è improntato, nella sostanza e nella forma — che sono poi la stessa cosa — al rispetto, che per Kant è la premessa di tutte le virtù; rispetto per le fedi, i dubbi, i sentimenti, gli errori, la ricerca di verità, la vita. È questo il senso poetico del libro.
Fondatore di giornali e, credo, restio a pregare, non accetti la tesi di Hegel secondo cui nel mondo contemporaneo la lettura del giornale del mattino ha sostituito la preghiera del mattino quale contatto con l'universale. Si può allora intendere il titolo del libro come un autoironico understatement, un io che si interroga su se stesso e scopre di potersi definire solo per sottrazione, dicendo ciò che non è, che non sa, ciò in cui non riesce a credere?
SCALFARI — Ti dirò che è stata, per me e per il mio editore, una scelta pensata a lungo. Ce n'erano altri in alternativa. Uno era, molto semplicemente,
La mia vita, i miei pensieri. L'abbiamo scartato perché ci sembrava piatto, puramente dichiarativo. Un titolo, che sia quello d'un articolo di giornale o d'un libro, deve cantare, deve avere uno spessore musicale, una sua metrica e una sua risonanza. Io poi, per ragioni professionali, di titoli ne ho fatti tanti e quindi conosco la forma estetica che debbono avere.
Un'altra ipotesi è stata La gabbia dell'io che è il titolo di uno dei capitoli. Questo cantava abbastanza, a me sembrava efficace, ma alla fine concludemmo che era troppo filosofico, mentre il mio non è un testo di filosofia o di psicologia. Un altro che a me piaceva molto era Le stelle danzanti,
una frase di Nietzsche che cito e che ha una forza poetica notevole. Forse troppo poetica e poco significativa. Così, alla fine, siamo approdati al titolo attuale.
Ma tu mi hai posto un'altra questione. Mi hai chiesto se questo titolo dia conto di un io (il mio) che s'interroga su se stesso e «scopre di potersi definire solo per sottrazione. dicendo ciò che non è». Probabilmente hai ragione. Del resto l'identità di un qualsiasi soggetto si può definire sia in positivo sia per sottrazione. La luce non è la tenebra, il bene non è il male, la vita non è la morte e viceversa. Se si vuole, questo modo di definire un ente e la sua soggettività è alla base di qualsiasi dialettica. Aggiungo che L'uomo che non credeva in Dio accenna, con quel verbo all'imperfetto, al passato, ad un racconto, ad una biografia e in effetti è uno degli elementi costitutivi del libro. E lascia un dubbio sulla conclusione. Ecco le ragioni della scelta.
MAGRIS — Il libro è un'originale e freschissima mescolanza di intimo vissuto personale, vicende storico-politiche e domande filosofiche nate per necessità da quelle esperienze; i paesaggi o i rosari dell'infanzia, la fondazione e direzione di
Repubblica e dell'Espresso, gli interrogativi sul senso del vivere. L'attenzione si concentra non sugli affetti fondamentali, concentrati in poche righe, quanto su dettagli apparentemente minima-li, un odore di infanzia o un colore piuttosto che una storia d'amore. D'altronde anche le esperienze pubbliche, così rilevanti, sono ricordate nei nudi elementi essenziali, quali dati di una biografia. Si tratta di pudore? Perché non ripercorrere i momenti più duri, forti, fatti di audacia, fatalmente anche di errori e contraddizioni, del tuo agire, dei giornali che hai fondato e diretto, della politica per la quale o contro la quale hai combattuto?
SCALFARI — Certamente c'è stato anche un sentimento di pudore, ma la vera ragione di questa scelta è un'altra. Non volevo scrivere e infatti non ho scritto un'autobiografia; mi è stato parecchie volte proposto di farlo ma ho sempre rifiutato. Non mi ritengo così importante da dover raccontare i miei tanti incontri con le più varie personalità della vita politica, economica e culturale italiana e anche internazionale in un lungo arco di sessant'anni. Sono un po' narcisista come del resto lo sono tutti i viventi, ciascuno dei quali si sente il centro del mondo come pure ho scritto in questo mio libro; narcisista quel tanto che è inevitabile ma non fino al punto di tediare me stesso e gli altri raccontandomi.
Questo libro è una ricerca dei nessi che ci sono tra la vita e i pensieri. Il mio vissuto personale e i suoi rapporti con i miei pensieri costituiscono quindi un materiale documentario. Nessuno meglio di te sa che per uno scrittore l'impegno più difficile sul quale si gioca la qualità dell'opera è costituito da uno stile, da una tonalità, quello che nella musica è rappresentato dalla chiave musicale e dalle scelte tematiche. Una messa in do maggiore non è la stessa che si può scrivere in re minore. La chiave musicale di queste mie pagine è una sorta di «toccata e fuga». Se mi fossi indugiato oltre il necessario a raccontare i fatti della mia vita oppure a tentare una sistematizzazione di alcuni principi filosofici in forma quasi di trattato o di manuale, avrei scritto una cosa diversa e probabilmente non adatta a me né, credo, ai miei lettori.
Del resto, dopo Nietzsche non è più possibile scrivere trattati di filosofia. L'autore di Zarathustra
è stato un grande filosofo moderno proprio perché ha rotto completamente con la trattatistica e la sistematica, perché al tempo stesso ha coltivato un pensiero profetico, immagini e delicatezze poetiche, trasporti mistici, ispirazioni melodiche. Insomma un artista e insieme un pensatore.
Alcuni filosofi venuti dopo di lui hanno avuto forse pensieri più compatti e hanno tentato di nuovo le strade della trattatistica e della sistematica, ma erano fuori tempo. La filosofia ha bisogno d'un linguaggio. Quello dei filosofi post-nietzscheani si è rivelato inadeguato, oscuro, noioso, poco comprensibile, gergale. Proust e Kafka hanno aperto scenari di vera e propria conoscenza filosofica molto più vasti di Heidegger e di Levinas. Il Socrate moribondo del Fedone e le pagine dell'Ecce Homo valgono assai più di qualche dissertazione ontologica. Perciò ho cercato di parlare per frammenti. Potrà piacere oppure no ma questa è la chiave, la cifra di questo mio lavoro.
MAGRIS — Pur non avendo nel libro il ruolo che ha nella tua vita, la politica è presente. Tracciando giustamente la distinzione fra politica e morale — anche, in una pagina forte e fulminea, all'interno della stessa persona — a un certo punto dici che il fondamento della politica non è la morale, il bene comune, bensì la pura volontà di potenza nietzscheana. Eppure, parlando di alcuni politici — La Malfa, il gruppo del Mondo e altri — li ammiri perché hanno saputo trasferire nelle forme e nei modi della politica un valore morale. Non si potrebbe allora dire, con Max Weber, che il conflitto non è fra politica e morale bensì fra l'etica della convinzione, che a nessun costo accetta di violare i propri valori, e l'etica della responsabilità — quella della politica — la quale pensa anche e soprattutto alle conseguenze dei propri atti e può dunque trovarsi dinanzi alla tragica necessità di transigere sui propri valori, ma non in nome della volontà di potenza, bensì del bene comune e dunque sempre di un valore morale?
SCALFARI — Non starò a citare il Machiavelli né Vico. Citerò invece Benedetto Croce che è stato il mio primo maestro di filosofia. Da un pezzo ho abbandonato lo storicismo crociano ma alcune delle sue intuizioni si sono sedimentate nel mio modo di intendere la dialettica.
Parlando della vita pratica, cioè dell'agire concreto sulla realtà esterna, Croce distingue il momento economico che persegue l'utilità (la felicità?) del soggetto dal momento morale che persegue il bene comune. E dice che il secondo momento (quello del bene comune) contiene sempre inevitabilmente il momento utilitario. Per Kant la morale non è tale se c'è in essa una sola scheggia di utilità propria; per Croce al contrario non si dà alcuna azione, neanche la più morale e disinteressata, che non rechi felicità e piacere a chi la compie. Perfino l'azione eroica che può condurci alla morte per un ideale, perfino il nostro sacrificio compiuto a beneficio di altri, lo si compie perché ci gratifica. L'esempio massimo può esser indicato in Gesù di Nazareth, che sia visto come il figlio dell'Uomo animato da spirito profetico o come figlio di Dio che assume spoglie umane e umani sentimenti. Quando Gesù, nel giardino del Getsemani, si trova di fronte al compimento della sua missione, all'arresto, al processo e all'inevitabile martirio che culminerà nella crocefissione, egli è colto da tremore e invoca il Padre chiedendogli di allontanare da lui il calice della sofferenza. «Si stese in terra e invocò il Padre. Se tu vuoi allontana da me quel calice, ma se non vuoi sia fatta la tua volontà». Che cosa significa questo passo capitale che è ricordato nel mio libro? Gesù non riceve alcuna risposta e alcun segno dal Padre. Nessuna voce interiore lo induce a evitare l'arresto o a cambiar posizione durante il processo dinanzi al Sinedrio e poi dinanzi a Pilato, per ottenere un più mite verdetto.
Il significato di questa fermezza della vittima sacrificale dipende dal fatto che Gesù ha impostato tutta la sua predicazione sul suo ruolo di Salvatore, per il bene comune vuole ricostruire l'Alleanza tra Dio e il popolo di Dio e lo strumento è assumere su di sé i peccati del mondo. Questo compito «morale» può esser sopportato da un uomo o da un dio incarnato soltanto se la gratificazione che egli ne riceve è maggiore dei tormenti e della morte che lo attendono. Io penso questo. E questo dice anche Platone quando racconta di Socrate che, rifiutando di evadere dal carcere, beve la cicuta per affermare il principio del rispetto della legge per ingiusta che sia. La gratificazione per un dovere compiuto supera la sofferenza che ne deriva. Se non la supera, quel dovere sarà abbandonato e la sofferenza sarà evitata.
Torniamo al mio assunto quando scrivo che il fondamento della politica è la volontà di potenza. Essa è l'espressione più elementare e autentica dell'Io. L'Io nasce per affermarsi, sopravvivere, espandersi, conquistare ricchezze, territori, anime. Insomma potere. Talvolta si pone il fine del bene comune ed è il livello alto e nobile della politica. Ma poiché la visione del bene comune è pur sempre soggettiva, esso sarà perseguito e attuato da chi l'ha pensata e concepita. La volontà di potenza è dunque il motore della politica sia quando opera nei gironi inferiori sia quando si innalza verso la soglia della moralità.
Perfino le grandi religioni occidentali si muovono sull'asse della volontà di potenza. Vogliono convertire le genti alla propria verità. Non c'è bisogno del filo delle spade (che pure in tante occasioni è stato usato): anche nella predicazione missionaria e nel martirio esemplare splende un frammento della volontà di potenza. Possiamo coniugarla con il senso della convinzione e con quello weberiano della responsabilità; alla base resta la volontà del politico di attuare la sua visione del bene comune che marcia sulle proprie gambe e sulle proprie spalle. La sola differenza — peraltro essenziale — è tra chi agisce per il bene comune e chi per il bene proprio. Ma il secondo in quanto sentimento permane nel primo.
Ti ringrazio, caro Magris, per l'attenzione critica con la quale hai letto il mio libro e per le questioni e le domande che mi hai rivolto stimolando alcuni chiarimenti che sono per me ulteriori atti conoscitivi. Accade di rado che uno scrittore conversi con un altro di problemi che riguardano il senso della vita. Sembra un argomento da evitare. Noi qui l'abbiamo affrontato. Mi sembra un fatto positivo e te ne sono grato.

Corriere della Sera 4.5.08
Neuroscienze Scoperti i meccanismi della capacità decisionale
Quanto tempo abbiamo per cambiare idea
Individuati anche i neuroni del «libero arbitrio»
Due recenti ricerche rivelano che dietro ogni scelta c'è un'attività cerebrale più complessa di quanto si ritenesse
di Cesare Peccarisi

Quando ci siamo recati alle urne, abbiamo fatto una libera scelta. Ne siamo tutti convinti. Ma potrebbe non essere così. E non ce lo dicono dei politologi, ma dei ricercatori.
Secondo vari scienziati, infatti — da Benjamin Libet della California University, a Patrick Haggard dell'Università di Londra — la sensazione di essere sempre liberi di cambiare idea è solo un'illusione, perché le nostre decisioni sono determinate da processi mentali inconsci iniziati tempo prima. Ora le teorie dei due studiosi, e di molti altri, hanno trovato conferma in uno studio pubblicato recentemente su Nature Neuroscience.
Per restare all'esempio "elettorale", la scelta di un simbolo avverrebbe "ben" un secondo prima che la matita tracci la croce (già molto per il sistema nervoso) e in un'area del cervello diversa da quella che farà muovere la mano.
Quest'area, poi, non è, come si pensava, la cosiddetta area motoria supplementare (un'anticamera intelligente dell'area motoria che ci fa eseguire le azioni), bensì la più "nobile" corteccia frontopolare (zona anteriore della corteccia frontale) che, prima di "avviare" la decisione alle aree motorie, la passa al precuneo, dove viene trattenuta finché non ne abbiamo presa piena coscienza. I ricercatori tedeschi, diretti da John Dylan Haynes dell'Istituto di Neuroscienze Max Planck, di Leipzig, che hanno identificato i ruoli di queste aree, hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale in persone che potevano premere dei tasti assolutamente a piacere mentre osservavano alcuni segnali che comparivano sullo schermo di un computer posto davanti a loro.
Scoprire dove il pensiero trascorre l'intervallo fra decisione e azione non è un cavillo neurofisiologico, ma l'opportunità per considerazioni che investono la natura stessa dell'uomo. E non è finita qui. Sull'ultimo numero di Nature i ricercatori dell'Università di New York e del California Institute of Technology di Pasadena, diretti da Bijan Pesaran, sono andati oltre le ricerche tedesche, individuando, quantomeno nella scimmia, quello che nell'uomo potrebbe essere definito il "circuito del libero arbitrio".
Si tratta di un particolare gruppo di neuroni della corteccia frontale e parietale connessi fra loro, la cui attività aumenta solo quando si può scegliere liberamente che cosa fare, invece di dover seguire rigide istruzioni. Il prezioso dono del "libero arbitrio" risiederebbe, quindi, in un fascio di fibre nervose a cavallo fra corteccia frontale e parietale che vengono utilizzate quando si presenta la possibilità di operare una libera scelta.
Non c'è dubbio, però, che il riduzionismo scientifico di queste scoperte sembri stridere con i concetti di libertà di pensiero e di scelta che travalicano le scienze biomediche. E di questo si è parlato, l'11 aprile, in un convegno intitolato "Le patologie della volizione: libertà impedita, libertà liberata", convegno che ha raccolto a Milano neuroricercatori, giuristi e teologi di fama internazionale.
«Tradurre le intenzioni in azioni è una caratteristica distintiva dell'uomo e richiede la consapevolezza di sé e delle situazioni ambientali e sociali — ha commentato Paolo Maria Rossini, dell'Università Campus Bio-Medico di Roma —. Ecco perché i disturbi della volizione dovuti ad alcune malattie neurologiche, impongono sempre problemi etici legati all'attribuzione di responsabilità delle azioni dei pazienti, soprattutto nelle fasi precoci di malattie come l'Alzheimer dove si possono manifestare anche comportamenti violenti che in realtà non hanno alcuna matrice aggressiva ».