lunedì 5 maggio 2008

l’Unità 5.5.08
D’Alema: autosufficienti col 33%? Un errore
il Pd coalizzi chi si oppone alla destra
Il ministro degli Esteri rilancia il tema delle alleanze. La sinistra apprezza, Realacci critico
di Simone Collini


Il Pd deve «coalizzare, partendo dal livello locale, tutte le forze che si oppongono alla destra». Così il ministro degli esteri Massimo D’Alema, ospite di “In mezzora” di Lucia Annunziata su Rai3, spiega perché col 33% incassato alle elezioni il Pd non può praticare l’autosufficienza: «sarebbe un errore». Anche perché in Italia «il bipolarismo, non significa necessariamente bipartitismo. Neanche Berlusconi è bipartitico e senza alleanza con la Lega probabilmente non avrebbe vinto».

LIQUIDA come «colossali idiozie» oltretutto «deprimenti» le letture che lo danno contrapposto a Walter Veltroni: «Non ho cariche nel Pd e non sono candidato ad averne. Dunque, non sono antagonista di nessuno». Però Massimo D’Alema assicura anche un’altra cosa: «Voglio dare un contributo di riflessione e di analisi. Voglio esprimere ed esprimerò le mie opinioni». E il primo elemento che mette sul piatto il ministro degli Esteri è che per superare la «grave sconfitta» e per rompere «quella sintonia tra Berlusconi e il Paese cominciata nel ‘94 e mai finita» il Pd deve pensare ad alleanze con gli altri partiti di opposizione. «Noi dobbiamo cercare di coalizzare, partendo dal livello locale, tutte le forze che si oppongono alla destra», sostiene D’Alema nel corso della trasmissione di Rai3 “In mezz’ora” rilanciando il tema sollevato da Bersani su “l’Unità”. «Il bipolarismo non significa necessariamente bipartitismo - fa notare rispondendo alle domande di Lucia Annunziata - neanche Berlusconi è bipartitico e senza l’alleanza con la Lega probabilmente non avrebbe neanche vinto le elezioni» (e a proposito di Lega, il ministro ironizza: «Sono stato insultato perché dicevo che è una costola del movimento operaio, ora queste cose le leggo sui giornali»). E comunque, al di là di ogni possibile analisi c’è un dato inoppugnabile: «Con il 33% l’autosufficienza sarebbe un errore».
Parole che se suscitano apprezzamenti tra le forze della sinistra radicale, di certo non lasciano indifferente il loft. E non solo perché, viene spiegato al quartier generale del Pd, D’Alema ha fatto esclusivamente riferimento al dato del 33% e non ha invece menzionato né il fatto che il Pd non è andato al voto da solo, ma con l’Idv, e che insieme ad esso, sulla base di un programma e con un candidato premier, ha incassato circa il 38% dei consensi. Al di là di questo, è l’insistere ora sulle alleanze che non convince.
Veltroni è persuaso che in questa fase serva innanzitutto spingere sull’innovazione politico-programmatica e il radicamento del Pd su tutto il territorio nazionale, e che solo in seconda battuta ci si debba impegnare nella costruzione di quelli che definisce «scenari di collaborazione più intensa con le opposizioni per ricostruire un sistema di alleanze» (intanto la mano tesa all’Udc è rappresentata dalla disponibilità a lasciarle una vicepresidenza della Camera, sfidando l’ira di Di Pietro). Al segretario del Pd non sfugge che «vocazione maggioritaria non significa aspirazione a una condizione di esclusività». Ma allo stesso modo non gli sfugge che rispetto a tre mesi fa, quando si è deciso di non andare al voto con un’alleanza eterogenea tenuta dal collante dell’antiberlusconismo, nulla è cambiato, e che il sistema di alleanze «va ricostruito» dopo aver radicato il partito «coinvolgendo elettori, amministratori e parlamentari». Questione di cui parlerà domani alla riunione dei segretari regionali.
La risposta in chiaro a D’Alema arriva intanto per bocca di Ermete Realacci: «Se mi chiedessero quale è la priorità tra cercare alleanze e leggere culture, territori o società, direi più la seconda che la prima». Per il responsabile comunicazione del Pd ora serve «riflettere su come rivolgersi efficacemente a quella ampia fetta di società che non siamo riusciti a capire e interpretare». E se D’Alema fa notare che si deve pensare alle alleanze anche perché le leggi elettorali per le amministrative «premiano le coalizioni, non i partiti», Realacci fa a sua volta notare che «anche ora a livello locale ci siamo presentati agli elettori non in solitudine ma con degli alleati, per esempio in Sicilia o a Roma». Due esempi non scelti a caso, visti i risultati tutt’altro che soddisfacenti registrati sia per la Regione che per il comune citati. «Non usciamo dalle difficoltà con tattiche politiche», manda a dire Realacci, «dobbiamo avere più simpatia per gli italiani che per le dinamiche delle forze politiche». È la tesi veltroniana della necessità di studiare il risultato elettorale non solo in sé, ma come segnale di un mutamento profondo della società italiana.
Ma per D’Alema le alleanze «non si fanno su base sociologica ma politica e programmatica», e proprio per questo «è doveroso realizzarle tra le forze che si oppongono alla destra, senza snaturare il senso del nostro partito». Tutte questioni, sottolinea D’Alema, che vanno però discusse «senza attribuire etichette negative, come dalemiano, la più diffusa, per creare un sentimento di paura»: «Il povero Polito, per avere criticato Veltroni, è stato definito “in odor di dalemismo” da un giornale e non parlo con lui da 3 o 4 anni». Anche se, aggiunge il ministro, «vedo che l’etichetta viene appiccicata a tutti quelli che pensano con la propria testa. Spero che non si offendano...».

l’Unità 5.5.08
L’aggressione fascista. L’odio per la diversità
di Nando Dalla Chiesa


E ora? Ora che dirà chi in questi mesi ci ha dipinto un mondo in bianco e nero, ci ha raccontato la violenza a gogo nelle città governate dalla sinistra, con gli immigrati forniti di licenza di spadroneggiare nelle vesti di rapinatori o stupratori? A Verona un ragazzo è stato ridotto in fin di vita da un branco di ventenni per una sigaretta rifiutata. E in questo episodio, via via che se ne chiarisce il contesto, si concentra una quantità di informazioni in grado di mettere in crisi gli stereotipi di mesi di informazione drogata. Dov'è, dunque, che la vita vale poco?
Se tempo fa l'opinione pubblica era stata sconvolta dalla notizia che nell'hinterland napoletano, in piena Gomorra, un ragazzo era stato ucciso a coltellate per rubargli il motorino, qua nella ricca e civilissima Verona un ragazzo è moribondo per una ragione ancora più futile: il rifiuto di una sigaretta chiesta chissà con che toni e con che intenzioni. E ancora. Quali etnie esprimono una assoluta assenza di freni nel delinquere? Se in più occasioni ha fatto comprensibilmente impressione la selvaggia violenza con cui hanno agito le bande slave durante le rapine in villa nel nord Italia o sull'Appennino, altrettanta impressione fa la selvaggia violenza di questo branco veronese, che sembra avere avuto per culla benedicente il tifo ultrà cittadino e le sue bande impunite.
Insomma: l'aggressione di gruppo è stata compiuta da italiani che (così dicono i testimoni) parlano il dialetto veneto; in una città di quel nord-est che reclama da sempre ordine e tolleranza zero contro la violenza degli immigrati; mentre il retroterra culturale è, per ciò che gli investigatori hanno appurato, quello della stessa estrema destra che, a furia di saluti romani, promette al paese di ridargli la agognata sicurezza, di restituire ai cittadini il diritto di camminare sicuri per le strade. L'estrema destra che presidia le curve, che manifesta con il Veneto Fronte Skinheads e che a Verona è giunta con tutti gli onori in consiglio comunale, parte della nuova maggioranza.
Sia chiaro, giusto per non lasciare margine agli equivoci. Quello che è accaduto a Verona poteva accadere in qualsiasi città italiana, visto il livello di violenza potenziale che scorre impaziente sotto la pelle di una società sempre meno capace di controlli e autocontrolli. Né quel che è accaduto può ragionevolmente essere imputato al sindaco Tosi e alla sua giunta. Occorre cioè evitare un gioco al massacro speculare a quello in cui si è specializzata la destra: attribuire per definizione ai sindaci gli episodi di violenza che si verificano nelle città governate dalla sinistra, facendo del dibattito sulla sicurezza una specie di maionese impazzita. Con tanti saluti alla serietà richiesta da quello che viene comunque rappresentato come il primo e più urgente dei problemi italiani.
Oggi Verona ci consegna una realtà assai diversa, terribilmente più complessa, senz'altro più inquietante di quella imperante nei mesi della campagna elettorale. L'idea che per conquistare più alti livelli di sicurezza si debba guardare solo alla criminalità "da importazione" produce un rischiosissimo strabismo. Non solo perché in questo paese la criminalità organizzata indigena è tuttora viva e vegeta, nonostante i molti colpi subiti. E il suo stato di salute non può lasciare tranquillo proprio nessuno. Ma anche perché si coglie sempre più una violenza diffusa, molecolare, che tende a insinuarsi con capacità espansive in molte pieghe ed enclaves sociali. Basti pensare al tifo ultrà, e alla sua capacità offensiva verso le istituzioni e verso le persone. Un tifo mai perseguito e mai punito sul serio, e che trova i suoi momenti epico-simbolici nell'omicidio Raciti o nell'assalto di massa compiuto pochi mesi fa a Roma contro le stesse caserme delle forze dell'ordine (cosa mai accaduta neanche ai tempi della contestazione più dura). E' stupefacente che quando si parla di sicurezza e di legalità questo capitolo (che fra l'altro presenta da anni proprio a Verona una delle punte di maggiore allarme) non venga mai affrontato. Ma si pensi ancora alla quantità di ferimenti e omicidi che si verificano con regolarità impressionante nei pressi delle discoteche, con protagonisti (alla pari, si direbbe) italiani e immigrati, quasi che nella società del divertimento si siano realizzate autentiche zone franche dal diritto. Oppure si pensi al fenomeno del bullismo delle scuole e fuori dalle scuole. O alla estrema facilità con cui si mette in gioco la vita degli altri, oltre che la propria, sulle strade, e non solo di notte.
Ecco, chi scrive non indulge a descrizioni catastrofiche dello scenario nazionale quando parla di sicurezza. Sa che certi reati (spesso i più gravi) sono da tempo in discesa. Ma sa anche che altri (non secondari) sono in aumento, e che questo produce, in termini di paura, un impatto tanto più forte quanto più invecchia la popolazione e quanto più i mezzi di informazione ci fanno apparire vicino un delitto avvenuto in aree lontane, e di cui un tempo mai avremmo nemmeno sentito parlare. E dunque coglie e osserva con preoccupazione le molte correnti criminogene che percorrono una società aperta e precaria, ricca e diseguale, snervata dei propri valori e continuamente sospinta verso l'ammirazione acritica del denaro e della forza. Ma, appunto, una cosa bisogna sapere: queste correnti sono molte. E' lecito allora, è utile nasconderne alcune dietro lo scudo ideologico del pregiudizio razziale, concentrare l'allarme sociale solo sulle voci che fomentano il razzismo? Così come non è responsabile (e purtroppo lo si è fatto...) negare la presenza di una temibile criminalità da immigrazione, altrettanto non è responsabile usare quella criminalità per esorcizzare "tutto il resto". Per esorcizzare quel che ci è scomodo vedere, a partire da questi "nostri giovani" un po' esuberanti -avranno bevuto un po' o saranno stati provocati-, e investire invece politicamente sulla paura per il diverso, che sia nomade o immigrato. Anche perché, a seguire questa strada, potrebbe accadere che la stessa vittoria elettorale, perfino a dispetto dei vincitori, dia alla testa di chi pensa che sia finalmente suonata l'ora del "liberi tutti". Che sia arrivato il momento in cui è consentito essere un po' "scavezzacolli". Se la sinistra ha i suoi limiti nell'affrontare il tema della sicurezza, la destra ha i propri. Che non pesano di meno. E non è detto che non siano più densi di pericoli.
www.nandodallachiesa.it

l’Unità 5.5.08
Una serie di articoli su «Jama» analizza le carte dei processi intentati alla Merck per il farmaco Vioxx
Così le industrie farmaceutiche manipolano gli studi clinici (con l’aiuto dei ricercatori)
di Cristiana Pulcinelli


Il quotidiano americano Wall Street Journal ha scritto pochi giorni fa che l’industria farmaceutica Pfizer sta cercando un accordo con i pazienti che le hanno fatto causa. Al centro della questione ci sono due farmaci prodotti dall’azienda (il Celebrex e il Bextra) accusati di aver causato in alcuni pazienti infarti e ictus.
Si tratta di due antidolorifici appartenenti alla classe degli inibitori della cox 2. Qualche anno fa sembrava che questi farmaci avessero aperto una nuova frontiera nella medicina: antinfiammatori in grado di trattare dolori acuti e condizioni come l’artrite reumatoide e l’artrosi senza, peraltro, dare i disturbi gastro-intestinali dei normali antinfiammatori. A questa classe apparteneva anche un altro farmaco, il Vioxx, prodotto dalla multinazionale Merck & co e ritirato dal mercato alla fine del 2004 perché faceva aumentare i rischi di malattie cardiocircolatorie.
Già nel 2005 era nata una polemica perché sembrava che la Merck, pur sapendo che il suo farmaco aveva effetti collaterali di non lieve entità, avesse taciuto fino a che la verità non era venuta a galla. Ora, la rivista Journal of American Medical Association (Jama) ha riaperto la questione con due articoli e un editoriale pubblicati sul numero del 16 aprile scorso.
Il primo articolo, firmato da J.S. Ross e colleghi, contiene accuse pesanti che mettono in discussione l’indipendenza e l’etica dei ricercatori medici. Sostengono infatti gli autori, basandosi sulle carte dei processi, che gli articoli sulle sperimentazioni cliniche del rofecoxib (la molecola chiamata commercialmente Vioxx) erano quasi tutti scritti da impiegati dell’industria che produceva il farmaco. Tuttavia, questi autori non comparivano con il loro nome: gli studi erano invece firmati da docenti universitari che avevano poco o niente a che fare con la ricerca di cui scrivevano. Si trattava per lo più di medici che naturalmente prestavano il loro nome in cambio di un compenso finanziario. Peraltro, in molti casi, questi stessi medici nascondevano il fatto di aver ricevuto finanziamenti e compensi per consulenze dalla Merck.
Il secondo articolo, firmato da B.M. Patsy e da R.A .Kronmal, racconta invece come faceva la Merck a dare un’immagine erronea del rapporto tra rischi e benefici del rofecoxib nelle sperimentazioni cliniche. L’azienda cercava di minimizzare il rischio di mortalità utilizzando un’analisi chiamata «as treated», ovvero che considera solo i partecipanti allo studio che hanno portato a termine la cura.
Dall’analisi dei dati venivano eliminati quindi tutti coloro che non avevano effettuato il trattamento fino in fondo. In questo modo però si rischia di escludere dall’analisi le persone che non finiscono il trattamento perché hanno effetti collaterali pesanti, oppure quelle che muoiono. Alcuni mesi prima di condurre queste sperimentazioni cliniche, dicono gli autori dello studio, la Merck aveva condotto un altro tipo di analisi chiamato «intention to treat». In sostanza, si prendeva in considerazione tutto il gruppo dei pazienti a cui era stato assegnato il trattamento con il farmaco. Da questa analisi sembra emergesse con chiarezza un aumento del rischio di mortalità tra i pazienti che prendevano il Vioxx.
Qual è la lezione che possiamo trarre da questi due articoli? L’editoriale di Jama si pone questa domanda e cerca anche di rispondere.
In primo luogo, la manipolazione e il riportare in modo distorto i risultati delle ricerche non possono avvenire senza la cooperazione (attiva e tacita) dei ricercatori clinici, degli altri autori, delle riviste, dei revisori e persino della Food and Drug Administration.
In secondo luogo, la fiducia nella ricerca clinica sta vacillando anche perché la manipolazione degli studi da parte dell’industria farmaceutica sta aumentando o comunque sta venendo sempre più allo scoperto.
La questione non è semplice e vale soprattutto per farmaci blockbuster, ovvero quelli che realizzano affari per più di un miliardo di dollari l’anno, come appunto era il Vioxx.
L’editorialista conclude sostenendo che l’antico principio etico «primum non nocere», secondo cui l’attività del medico deve in primo luogo non procurare danni, non deve valere solo per il medico che cura i pazienti, ma anche per tutti coloro che sono coinvolti nella ricerca medica e nel sistema delle pubblicazioni biomediche.

Repubblica 5.5.08
Teste rasate e antisemiti, allarme nel Nord Est
I servizi segreti: il Veneto è la zona più calda. Dai raid nelle piazze alle violenze negli stadi
di Alberto Custodero


ROMA - È il Nord Est, secondo i servizi segreti italiani (l´Aisi), «la zona a più alta densità di militanti naziskin del Paese». Secondo il rapporto dell´Agenzia informazioni e sicurezza interna, proprio nel bacino fra Verona (la città dove è stato aggredito Nicola Tommasoni), Vicenza, Padova e Treviso, il «fronte skinheads-Vfs, costituito a Vicenza negli anni Ottanta e ispirato al modello britannico, conta su alcune centinaia di giovani attivisti». Il loro è il look del «guerriero metropolitano». Fanno pugilato, thai box e sollevamento pesi, e si riconoscono nei valori fondanti dello skin style individuati nell´appartenenza di classe e nel sentimento nazionalista». La dimensione ideologica, come il richiamarsi ai legionari romani, c´entra poco, ma è utile «per saldare gli atteggiamenti improntati alla forza fisica ad un ruolo socio politico».
«Quando perquisiamo le loro case - racconta un alto funzionario della Digos - nelle stanze, sulla testata del letto, troviamo bandiere con la svastica o la croce celtica. Ma il loro livello culturale, molto basso, ci porta a parlare di bullismo con la testa rasata». Il credo naziskin è infatti - secondo gli esperti dell´intelligence - una sorta di sottocultura violenta, teppistica, xenofoba, razzista e antisemita, che si manifesta in scala crescente, dalla strada al quartiere, fino alla curva dello stadio. E trova proseliti soprattutto fra le «fasce di giovani culturalmente meno preparate che eleggono a loro passatempo preferito del sabato sera il boot party», come vengono sarcasticamente chiamate le aggressioni fini a se stesse. Il violento pestaggio di Verona non ne è che l´ultimo, tragico, esempio. Le teste rasate sono giovani dalla doppia militanza: nell´antagonismo il sabato per «fare casino in piazza», e fra le tifoserie la domenica dove il campo di battaglia diventa la curva. I richiami politici - osservano i servizi segreti - sono poco più che simbolici.
Nel mucchio degli ottantamila ultrà d´Italia, il grumo eversivo, secondo il ministero dell´Interno, è di circa ventimila tifosi, e proprio negli ultimi anni la gran parte sono diventati di destra (63 gruppi, circa 15 mila sostenitori), mentre la componente di sinistra, molto forte negli anni Settanta, è oggi ormai una minoranza, 35 associazioni per circa 5 mila persone. Sono state proprio le curve degli stadi - osserva l´intelligence - i luoghi nei quali la «tifoseria oltranzista ha assorbito l´esperienza di lotta della "cellula politica" con l´acquisizione di schemi organizzativi, slogan ossessivi, strategie di militarizzazione». È così che negli stadi sono comparsi, ad esempio, striscioni antisemiti o xenofobi (ora vietati dopo le norme sulla sicurezza negli stadi del ministro Amato). Al di là dei divieti di esporre bandiere o slogan dal contenuto ideologico, gli ultrà-naziskin si sono organizzati in «strutture stabili e complesse», con tanto di gadget, tesseramento. E sono capaci, pur appartenendo a squadre diverse divise da rivalità secolari (come Roma e Lazio), di allearsi per assaltare le caserma della polizia e la sede del Coni, come avvenuto nella Capitale nel novembre scorso qualche ora dopo la morte del tifoso laziale, Gabriele Sandri.
Ma l´allarme naziskin non riguarda solo le aggressioni boot party, le violenze negli stadi e le guerre fra tifoserie durante le trasferte. L´allarme del Viminale riguarda anche il risveglio dell´antisemitismo in Italia, con profanazione di tombe ebraiche e la comparsa sui muri di tutta Italia di scritte inneggianti il Duce, Hitler e i forni crematori. Su questo fronte dell´intolleranza razziale, si assiste ad un fenomeno del tutto nuovo: gli slogan antisemiti sono di moda non solo fra i naziskin e gli ultrà, ma anche fra i movimenti antagonisti dell´estrema sinistra e in alcuni ambienti di studenti leghisti «antagonisti padani».

Repubblica 5.5.08
Lo scrittore Carlotto: il clima è pesante, Verona è da sempre la città più violenta della regione
"Troppa intolleranza e xenofobia se parli di fucili, qualcuno poi li usa"
di Piero Colaprico


MILANO - Massimo Carlotto, perché Verona?
«È da sempre la città più violenta del Veneto, quella con la destra più violenta. Io da giovane facevo parte del servizio d´ordine di Lotta Continua a Padova e mi ricordo che, quando c´era da menar le mani, venivano i fascisti veronesi a dar man forte ai padovani, gente tosta, organizzata, allenata a pestare».
Ma erano gli anni Settanta, che lei ha ricordato soprattutto nei suoi gialli con protagonista l´Alligatore. C´era la politica, c´erano le divisioni. Ma oggi questa che violenza è?
«Questa di oggi è una violenza figlia di alcuni discorsi e dell´intolleranza diffusa. Quando parli di fucili, qualcuno può decidere di usarli».
Vuole dire che sono la Lega e i politici che suggeriscono la violenza?
«Non parlo solo della Lega, ma all´intolleranza, che è più vasta. I miei amici veronesi mi dicevano da tempo di respirare un clima pesante; anche a Padova per la moschea c´è molta tensione. Se ripeti che si può fare da soli per eliminare disagio, che pure è forte, l´atto di violenza diventa una cosa da aspettarsi. E non sarà isolato».
Il disagio maggiore da dove nasce?
«Dall´aver accettato e favorito l´arrivo di extracomunitari senza metterli in regola, per usarli come forza lavoro senza garanzie, da mandar via alla prima crisi. Insieme agli operai e ai poveracci, nel territorio arricchito, si sono però insediate delle culture criminali molto dure: gang che nel Veneto hanno la loro base e, che, inspiegabilmente, per dieci anni, nessuno dal ministero dell´Interno ha cercato davvero di contrastare».
E la vecchia mala che fine ha fatto?
«A quanto mi si dice, Felice Maniero, il boss della mafia del Brenta, è stato sostituito dalle bande dei cinesi, che cominciano a estorcere denaro agli italiani».
Le mafie tradizionali stanno perdendo terreno...
«Qua sono spariti anche i cosiddetti Giostrai, che erano rapinatori e rapitori. I nuovi criminali sparano, ma meno dei ragazzi di Maniero, che hanno seminato un sacco di morti per farsi rispettare. Per capire il NordEst, bisogna guardare la tangenziale di Mestre. Passa da qua la maggior parte delle merci illegali da e verso l´Est; il territorio è segnato da una grossa presenza criminale: trafficano armi, droga, esseri umani. Questo è il dato da cui partire. Invece di dare risposte logiche e di buon senso, si lascia spazio alla xenofobia».
A ridurre in fin di vita Nicola Tommasoli sono stati alcuni naziskin, legati alla curva del Verona calcio. Sono questi gli eredi della destra degli anni `70?
«Una continuità precisa esiste. Non si può dimenticare la caccia all´uomo organizzata sempre da loro contro i ragazzi dei centri sociali, qualche mese fa».
Nel giugno 2005, a Varese, ci fu una manifestazione per commemorare Claudio Meggiorin, un giovane barista di Besano, ucciso da un albanese. Arrivarono i veronesi e fu caccia all´immigrato.
«Non cambiano mai. Quelli si sfogano, se hanno deciso di menare qualcuno. E se non lo trovano, vanno a caccia del primo che capita. A quel ragazzo che ha rifiutato la sigaretta è andata male, e sarebbe toccato comunque a qualcun altro».

Repubblica 5.5.08
"Grazie a Schifani ma la sinistra deve ripartire nella società"


ROMA - L‘apertura di Schifani è interessante, ma noi riconquisteremo il diritto di tribuna nel paese. La Sinistra Arcobaleno ringrazia il presidente del Senato Renato Schifani che in un colloquio con "Repubblica" ha posto il problema di un recupero delle forze politiche rimaste fuori dal Parlamento. «L´assenza dal Parlamento può essere anche utile per recuperare credibilità. Il diritto di tribuna lo riconquisteremo nel paese, nelle piazze sulle cose concrete», replica però il verde Angelo Bonelli. «Stiamo discutendo su come ripartire, ma dalla società, non dal diritto di tribuna istituzionale. Certo la discussione che si è aperta ci interessa, ma prima dobbiamo farlo tra di noi», aggiunge per Rifondazione Giovanni Russo Spena.
L´apertura di Schifani, è invece «un fatto positivo», per Cesare Salvi. Secondo il dirigente della Sinistra democratica, le parole del presidente del Senato vanno «non tanto nell´interesse dei partiti e della Sinistra Arcobaleno, come pure dei socialisti, ma nell´interesse dei cittadini che hanno votato queste forze di sinistra. Per effetto dei nostri limiti ma anche della legge elettorale questi milioni di elettori non sono rappresentati in Parlamento».

Repubblica 5.5.08
Nella ex Cosa rossa molti tifano per un ripensamento della linea solitaria del Pd
Massimo apre, la sinistra ci spera ma al Loft scatta l'allarme
di Umberto Rosso


ROMA - Riapre a sinistra. E, in ciò che resta dell´arcobaleno, trova antenne sensibilissime ma anche dubbi e sospetti. Però il D´Alema che rilancia il confronto con gli orfani di Bertinotti allarma i veltroniani, che sentono «tanta aria di vecchio centrosinistra» nei ragionamenti del ministro degli Esteri. E mette sul chi va là i cattolici del Pd, con Beppe Fioroni che già avverte «attenzione a fare delle alleanze un sorta di grimaldello per trasformare questo nostro partito riformista nel Pci del �raquo; (quello di Berlinguer, che si pose ma invano il problema del governo). Insomma, ad egemonia post-comunista. D´Alema che scende in campo - temono - comincia a rivestire di linea politica alternativa malumori e mugugni.
Per la gioia della sinistra radicale. O più precisamente dei bertinottiani che nel Prc adesso sono finiti in minoranza. E che da alcuni giorni, sia pure con tutte le prudenze del caso per non scavalcare la nuova segreteria controllata da Ferrero, stanno lanciando messaggi rivolti proprio a D´Alema e Bersani. «Se il Pd vuol chiudere tutta la faccenda il prima possibile, senza analizzare la sconfitta - ha spiegato l´ex segretario Franco Giordano - allora cancella ogni possibilità di rivincita democratica». Traduzione: se cade Veltroni pronti a riprendere il filo. La faccenda, vista da un bertinottiano di ferro, è più o meno la seguente: «La de-veltronizzazione del Pd, intesa non necessariamente come un addio a Walter ma come un´inversione di rotta, è la condizione per noi per tornare in partita. Ecco perché tifiamo per quelli che danno battaglia, il ministro degli Esteri e il ministro dello Sviluppo economico...». Asse fra la minoranza del Pd e la minoranza della Sinistra arcobaleno, dato che anche Mussi, Salvi e la Sd seguono con grande attenzione le manovre dalemiane. Ma dentro la ex Cosa rossa ci sono atteggiamenti differenti. Prudente Ferrero, anche se il ministro applaude alle critiche di D´Alema al bipartitismo di Veltroni. Molto diffidenti gli uomini di Diliberto. Dubbiosi sull´apertura, «D´Alema pensa solo a spaccarci ancora e riportarsi a casa la Sinistra democratica», e credono poco ad un ritorno di fiamma col Pd, sia pure in versione "de-veltronizzata". Atteggiamenti, replicano i bertinottiani, dal fiato corto e condizionati dall´arroccamento politico, «Ferrero e Russo Spena pensano di fatto a rifare Democrazia proletaria, e Diliberto vuole una Rifondazione comunista bis».
I conti veri però si faranno nel loft. Già a cominciare dalla riunione di domani con i segretari regionali, mentre oggi i parlamentari sono alle prese con il caso Di Pietro e lo scontro sulle vicepresidenze delle Camere. Per il momento è partita la corsa alla interpretazione autentica del pensiero dalemiano. «Massimo era rimasto zitto nella riunione del caminetto - osservano gli uomini del segretario - e ora finalmente ha buttato qualche carta sul tavolo. Le alleanze locali? Ma le abbiamo fatte anche a Roma, con la sinistra, e sappiamo com´è finita». Sicuro però che Massimo pensi agli eredi di Bertinotti e non, metti, a Casini? Sicuro, conferma un fedelissimo del ministro, «Massimo guarda a quel succede a sinistra nell´ipotesi di una ripresa del confronto, per quello con l´Udc invece c´è tempo: sarà una faccenda lunga». Il che potrebbe anche tranquillizzare i popolari che nella mano tesa a Casini temono sempre qualche concorrenza sleale. Potrebbe. Perché Fioroni tranquillo non è: «Rimettere insieme tutte le forze che si oppongono a Berlusconi? Il Pd non è nato "contro" ma "per", sulla base di un programma condiviso. Se torniamo indietro ci giochiamo chi ci ha dato fiducia nelle urne».

Repubblica 5.5.08
Al Petit Palais di Parigi: Goya incisore ironico e crudele
di Franco Marcoaldi


Parigi. Visitando la spettacolosa mostra "Goya graveur" al Petit Palais di Parigi (fino all´8 giugno), l´ampiezza e la straordinaria qualità delle incisioni esposte offrono un ritratto a pieno tondo di un artista capace di raccontare per immagini le infinite tonalità e timbri e registri della vita: la tragedia e l´ironia, il sarcasmo e la tenerezza, il grottesco e il patetico, la luminosità e la cupezza, l´eroismo e la crudeltà, le cose vere e quelle fantasmatiche. Insomma, è come se con Goya fossimo davanti a una sorta di Shakespeare della pittura; anzi, in questo specifico caso, dell´incisione.

Al Petit Palais di Parigi esposte le acqueforti e le litografie del maestro spagnolo: un percorso tra ironia e tragedia
Nella suite "Disparates" una serie di assurdità e di stranezze
Uno spazio di fantasia dove si scatena la potenza dell´immagine

Se la pattuglia dei grandi geni dell´arte è ovviamente esigua, la cerchia si restringe ulteriormente quando il pensiero corre a chi, con la sua opera, è riuscito a offrire un´immagine totale del mondo.
In tale, minuscola schiera, rientra Francisco Goya, come si evince ancora una volta visitando la spettacolosa mostra "Goya graveur" al Petit Palais di Parigi (fino all´8 giugno). L´ampiezza e la straordinaria qualità delle incisioni esposte offrono un ritratto a pieno tondo di un artista capace di raccontare per immagini le infinite tonalità e timbri e registri della vita: la tragedia e l´ironia, il sarcasmo e la tenerezza, il grottesco e il patetico, la luminosità e la cupezza, l´eroismo e la crudeltà, le cose vere e quelle fantasmatiche. Insomma, è come se con Goya fossimo davanti a una sorta di Shakespeare della pittura; anzi, in questo specifico caso, dell´incisione - arte in cui il Nostro è insuperato maestro.
Le acqueforti, le acquetinte e successivamente le litografie, rappresentano un elemento imprescindibile nel tragitto artistico dello spagnolo, non soltanto per la loro intrinseca qualità estetica, ma anche perché è con esse che la sua fama inizia a diffondersi al di fuori dei confini nazionali: basti pensare che il primo album dei Capricci arriva in Francia grazie al barone Vivant Denon nel 1809, dunque ben prima di quel 1838 in cui verrà aperta al Louvre la Galleria dei pittori spagnoli.
Ma c´è un ulteriore e fondamentale aspetto che rende centrale questa specifica forma espressiva: il successo dell´artista presso la corte spagnola, legato ai cartoni per gli arazzi del palazzo reale e ai suoi celebri ritratti, viene premiato con il conferimento, nel 1789, della carica di "pintór de cámara" di Carlo IV. Per contro, il legame sempre più stretto che Goya stabilisce con gli intellettuali influenzati dall´illuminismo, coevo a una misteriosa malattia che lo renderà sordo per tutta la vita, mal si sposa con la progressiva involuzione reazionaria della decadente monarchia spagnola. Sempre più legata al risorgente oscurantismo ecclesiastico.
Ed è proprio con i Capricci che l´artista si ritaglia uno spazio intimo, segreto, nel quale la fantasia può finalmente scatenarsi. E sondare in piena libertà ogni aspetto dell´animo umano: vizi, inciampi, dolori, gioie, perversioni, malinconie, meschinità, follie.
Ciò che più sorprende in questa idiosincratica enciclopedia dell´umanità è la potenza icastica dell´immagine, la cui fantastica imprevedibilità consente all´artista di cogliere meglio nel segno, proprio perché il tema prescelto è individuato seguendo tragitti sghembi, inconsueti. Senza contare il ruolo decisivo di brillantissime titolazioni (di cui non è facile trovare il pari in altri artisti) le quali producono ulteriori scarti, nuove e diverse chance interpretative, letture aperte e polisemiche.
Quando si vede un´attempata signora farsi bella davanti allo specchio nel giorno del suo settantacinquesimo compleanno, in compagnia di un gruppetto di amici assieme compiacenti e malevoli, e sotto compare la scritta Hasta la muerte, è come trovarsi di fronte a una rivisitazione sarcastica della vanitas di cui parla l´Ecclesiaste. E che dire di una scimmia intenta a dipingere un asino, acquaforte il cui intrinseco surrealismo è raddoppiato dal titolo: Ni mas ni menos? Cosa sta a rammentarci: che solo specchiandoci scopriamo la nostra vera natura? Dunque è per questo che l´asino si è offerto a modello? Ma come mai proprio una scimmia è chiamata a svolgere la funzione del pittore? È un puro caso, un gioco? Oppure, è per suggerire che solo una bestia riesce a raffigurare intimamente un´altra bestia?
E ancora: che pensare di quell´ulteriore Capriccio in cui compare una leggiadra danzatrice inseguita da una moltitudine di uccelli malvagi, il cui titolo suona No te escaparás? Da cosa non sfuggirà la dolce fanciulla? Dal desiderio cocciuto e insaziabile di quegli orrendi esseri? O piuttosto a quegli uccellacci va attribuito un valore più ampio, dichiaratamente mortifero, e pertanto la danzatrice incarna una giovinezza e una vitalità destinate inevitabilmente a finire?
Se possibile, il tratto misterioso dei Capricci si infittisce ulteriormente con la serie Disparates, termine variamente traducibile con assurdità, stranezze, spropositi. Si tratta di un lavoro incompiuto, che vedrà la luce solo alla metà del secolo XIX. La suite viene ideata dall´artista ormai anziano negli anni della restaurazione di Ferdinando VII e senz´altro riecheggia lo strazio e le atrocità proprie delle incisioni relative alla guerra, a cui si aggiunge però un tratto funebremente carnascialesco, una carica allegorica e visionaria intinta in incubi e incongruità di ogni genere; ciò che affascinerà romantici e simbolisti.
Mostri, fantasmi e folli vagano per un mondo che ha ormai perso ogni ordine, ogni possibile armonia: un gruppo di disperati si ammassa sul tronco di un albero cercando un briciolo di calore proprio sull´orlo dell´abisso; un freak con due corpi e due teste fronteggia una folla di esseri assieme antropomorfi e zoomorfi. Né manca una scatenata danza di nani e madame che ci fa tornare alla memoria il Goya gioioso e tiepolesco degli esordi, anche se qui è proprio il "bianco e nero" dell´incisione a gettare una luce sinistra su una dimensione di festa soltanto apparente.
Forse mai come in questa serie Goya appare capace di tenere saldamente uniti tra loro uno sguardo ferocemente critico sulla realtà circostante, con il pieno abbandono al mondo fantasmatico, allucinato. E sarà proprio questo doppio sguardo ad ammaliare Baudelaire, che - come ricorda Juliet Wilson-Bareau in uno dei saggi del catalogo - sui Capricci del genio spagnolo scriverà parole di straordinaria acutezza: «Il grande merito di Goya consiste nel creare delle mostruosità verosimili. I suoi mostri nascono vitali, armoniosi. Nessuno più di lui si è spinto tanto in là nella strada dell´assurdo possibile. Tutte queste contorsioni, queste facce bestiali, queste smorfie diaboliche sono intrise di umanità (...) In una parola, è impossibile afferrare la linea di sutura, il punto di congiunzione tra il reale e il fantastico; è una frontiera vaga che il più sottile analista non saprà tracciare, tanto l´arte è allo stesso tempo trascendente e naturale».

Corriere della Sera 5.5.08
L'ex di Potere operaio Berardi loda anche Tremonti: ha capito i danni del mercatismo. Ferrero: è ottimista, faranno male. Ma Sansonetti lo difende
Bifo choc: sui salari Silvio meglio di Prodi. Il Prc si divide
di Elsa Muschella


MILANO — «La catastrofe è davvero vicina». Soprattutto se a sostenere che il ritorno del Cavaliere sarà un male minore rispetto al definitivo addio del Professore — in questo mondo allo sbaraglio «di ingegneria complessa della finanza, dei media e di guerra all'ambiente » — è Franco Berardi, uno dei volti storici di Potere operaio e voce della libera Radio Alice negli anni 70.
Bifo scrive un lungo articolo sulla prima pagina di Liberazione e s'interroga sulle paure dell'Italia: «Ci dispiace che la gente gridi "Duce Duce"? Lasciamo da parte i simboli e guardiamo alla sostanza: il governo Berlusconi del 2008 per i salariati sarà migliore del governo Prodi. Sarà meno subalterno agli ordini della Banca europea e meno tremante agli imperativi della Confindustria ». È tutta una questione di terrore, precisa poi dalla sua casa di Bologna: «È l'unica cosa che sembra animare l'intera vita politica. La destra ha l'innata paura del divenire, dell'essere diverso. E la sinistra non esprime altro che la paura della destra». Inutile perciò occuparsi del «farsesco ritorno delle camicie nere» o del rimpianto per i governi di sinistra «che nulla fecero per ostacolare la violenza del capitale». La democrazia stessa ormai non basta più, per opporsi agli effetti devastanti che «il capitalismo liberista ha depositato nel cuore e nella mente dell'umanità, nella superficie fisica del pianeta, nella consistenza velenosa dell'aria ». Ciò che serve alla sinistra è saggezza: «C'è bisogno di un respiro profondo, di un rilassamento della muscolatura sociale. E di una disponibilità a perdere».
È proprio sulla scia di questo realismo tagliente che la riflessione di Bifo è costretta a rompere gli steccati: «Ho visto Giulio Tremonti all'Infedele di Gad Lerner, poi ho letto il suo libro La paura e la speranza.
E ho avuto la netta percezione del fatto che la destra riesce ad esprimere per la prima volta un'egemonia culturale più ampia di quanto la sinistra sia riuscita a fare. Tremonti dice: stiamo vivendo una catastrofe storica gigantesca, frutto di 30 anni di mercatismo. Se si parla di una cosa del genere a Walter Veltroni risponde con la sua inutile buona educazione, come se dire la verità fosse maleducato». Certo, l'anima rivoluzionaria non è mai scomparsa: «Non sono contento del fatto che gli italiani stiano andando dalla parte della mafia e del fascismo. Ma non mi fa paura Berlusconi: tutto quello che di male poteva fare l'ha già fatto, distruggendo la mente di due generazioni. Ma devo riconoscere che il prossimo esecutivo sarà più indipendente di Prodi dal monetarismo dell'Europa». «Io temo che non lo sarà — ragiona il direttore di Liberazione Piero Sansonetti —. L'analisi di Berardi è paradossale, il punto è che nessuno di noi sa come affrontare la scomparsa della sinistra dal Parlamento. E non lo sa neanche la sinistra stessa, che è presuntuosa persino quando cerca di fare atto di modestia. La verità? Siamo ai limiti delle lacrime con la nostra stessa storia».
L'unico dubbio del sottosegretario uscente allo Sviluppo Economico Alfonso Gianni (Prc) «è che si confonda una reazione alla crisi della globalizzazione per la soluzione della crisi: il nuovo protezionismo di Tremonti non è la via d'uscita». Troppo ottimista Bifo, invece, per Paolo Ferrero (Prc). Il ministro uscente della Solidarietà sociale è sicurissimo: «C'è ancora molto di male che può fare Berlusconi». Se la destra ha conquistato una supremazia culturale, invece, c'è un'unica colpa: «Il Pd ha impostato una campagna elettorale anni 60, da miracolo economico. Ma la gente si sente più dentro Blade runner che in Sapore di sale ».

il Riformista 5.5.08
Svolte. Pensieri di uno «spirito libero» sugli elettori maschi, bianchi e incazzati
Questo è un Sessantotto alla rovescia
di Antonio Polito


Dopo la disfatta del Labour, l'Unità ha titolato: «Sull'Europa soffia un vento di destra». Dopo la vittoria di Zapatero, nemmeno due mesi fa, Walter Veltroni apriva così un articolo per il Riformista: «C'è un vento nuovo in Europa». Sono gli scherzi che fanno le mutevoli brezze ai naviganti inesperti: le scambiano per venti, e pasticciano con le vele. Del resto, quando la ragione umana non comprende, sempre dà la colpa agli elementi: maree nere, bufere di destra, tsunami elettorali. Una volta, quando c'era il Pci, si diceva più storicisticamente: c'è uno spostamento a destra del paese. Anche stavolta l'espressione circola al loft. Ma non significa niente. È una tautologia. Se la gente vota a destra, è ovvio che c'è uno spostamento a destra. È come dire che uno ha preso un raffreddore perché s'è raffreddato.
Ma c'è davvero uno spostamento a destra? Ho i miei dubbi. Raffaele Bonanni mi ha detto: «Il voto di Roma è il movimento più anti-borghese che abbia mai visto». Un voto anti-borghese di norma dovrebbe essere di sinistra. Perché stavolta è andato a destra? Un altro sindacalista, da poco eletto deputato del Pd, Pierpaolo Baretta, mi ha raccontato la sua campagna elettorale in Veneto. Dice che gli operai erano letteralmente infuriati per una norma che riconosce la pensione sociale ai genitori ultra-65enni degli extracomunitari, chiamati in Italia col ricongiungimento familiare, mentre loro pagano la tassa sull'eredità della casa. Se cerchi un posto negli asili nido, parti da punteggio zero se sei italiano, e da uno se sei immigrato. Abbiamo letto sui giornali la storia di quell'operaio di Calearo che ha detto di aver votato Di Pietro dopo una vita a sinistra: «Mica potevo mandare in parlamento il mio padrone». La politologia anglosassone li chiama gli «angry white men»: elettori maschi, bianchi e incazzati. Obama sta impantanandosi sulla loro ostilità: i blu collars lo sentono troppo liberal champagne, votano Hillary negli stati che a novembre decidono lo swing, potrebbero starsene a casa se il Walter nero sarà il candidato democratico, e consegnare così la vittoria a McCain.
In questo senso sì che c'è un vento in Europa, e alla fine è arrivato anche in Italia: la concorrenza sui benefici del welfare con gli immigrati, il peso del fisco che paga i sussidi degli altri, l'allarme sicurezza nei quartieri più esposti. Sono sentimenti popolari, che preoccupano i deboli. Dovrebbero essere pane per i denti della sinistra, e invece vanno a destra. Perché?
Io credo che sia in corso un Sessantotto alla rovescia, quarant'anni dopo. Un cambiamento profondo di paradigma culturale. Almeno se si legge il '68 come lo leggeva Nicola Matteucci, di cui Rubbettino ha di recente ripubblicato alcuni illuminanti saggi sul Mulino. In un articolo del '70, Matteucci scriveva: « L'Italia sta attraversando una crisi di insorgenza populista, la quale ha messo in crisi i tradizionali schieramenti partitici, proprio quando sembrava che ci si fosse avviati - e le necessità del paese lo richiedevano - verso l'età delle riforme». Matteucci usava il termine populismo nel suo significato sociologico: «Un nuovo clima di idee semplici e di passioni elementari, in radicale protesta contro la tradizione e, quindi, contro quella cultura e classe politica che ne è l'espressione ufficiale». Questo populismo non è né di destra né di sinistra, «perché supera e mantiene entrambe le posizioni, affermando da un lato una volontà autoritaria, che nella fretta del fare è sempre più insofferente delle remore imposte dalle procedure costituzionali…; dall'altro, quando arriva al potere, manipola le masse con slogan genericamente rivoluzionari». Non vi sembra di riconoscere questo populismo, cui «si accompagna un diffuso anti-intellettualismo, un atteggiamento di rivolta contro la ragione critica, contro lo specialista, l'esperto, lo studioso»?
Come negli anni '60, la crisi del riformismo annunciato e non praticato ha generato l'insorgenza populista che abbiamo davanti. Nel '68 andò a sinistra, con esiti nel complesso infausti. Ora sta andando a destra perché la sinistra ha fornito l'alibi per lasciarsi identificare con l'establishment, diventandone «l'espressione ufficiale». Colaninno e Madia non erano la risposta, ma la conferma. E il «ma anche» era l'opposto delle scelte nette che l'elettorato chiedeva. La sinistra è stata flaccida in tempi tosti. La destra è stata tosta. Lo spostamento a destra non è un evento atmosferico. Pone problemi enormi ai vinti, ma incombe anche sui vincitori. Una febbre così non si lascerà curare con «slogan genericamente rivoluzionari», una volta al governo. Berlusconi e Bossi hanno cavalcato una tigre: sapranno anche ammansirla?
P.s.: Ieri Massimo D'Alema ha detto a Lucia Annunziata che se io critico Veltroni non divento per questo un dalemiano, ma resto uno «spirito libero che pensa con la propria testa». Lo ringrazio della constatazione. Lui l'ha verificato negli anni, anche a sue spese. Lo imparerà pure Veltroni, che di spiriti liberi ne frequenta pochi.

il Riformista 5.5.08
D'Alema insiste sulle alleanze, il Loft non gradisce
di De Angelis


Non è andato giù duro come Bersani, che aveva detto «la vocazione maggioritaria del Pd non significa autosufficienza», invitando Veltroni a cambiare rotta sulla questione delle alleanze. Ma, in un linguaggio più cifrato, D'Alema la sua road map l'ha tracciata eccome: costruzione di un partito vero e proprio e, soprattutto, alleanze. «Il bipolarismo non è il bipartismo. Credo che il più grande partito d'opposizione, pur mantenendo la sua vocazione maggioritaria, debba costruire rapporti con le altre forze all'opposizione di Berlusconi» ha detto il ministro degli Esteri. Ma dal loft i veltroniani rispondono: non si torna indietro. E qualche ex popolare comincia a manifestare più di un disagio su un dualismo che dura da almeno un quindicennio: «Sembriamo un po' la Cosa 3. Ma esistiamo solo da sei mesi di cui tre di campagna elettorale» dice Lusetti.
Ospite della trasmissione di Lucia Annunziata, In mezz'ora , il ministro degli Esteri ha evitato toni da resa dei conti. Come a dire: verrà il tempo del confronto a viso aperto. E, come nel 2001, ha mostrato di tirarsi fuori dalla prima linea: «Presiedo con Giuliano Amato una Fondazione culturale. E abbiamo un programma di lavoro, di ricerca, di formazione di classe dirigente. Il Pd, come tutti i partiti a vocazione maggioritaria, è fatto di tante esperienze. Non è il Pci». Ma ieri D'Alema ha voluto anche mettere in chiaro una questione sulla quale sono circolati parecchi veleni nel Pd, ironizzando sulla sua presunta corrente: «Ho sentito colossali idiozie. Deprimenti. Ho letto che ci sarebbero i dalemiani hard… Il povero Polito (direttore del Riformista , ndr) per aver criticato Veltroni è stato definito da non ricordo quale giornale "in odor di dalemismo". Io non parlo con Polito da quattro o cinque anni. Vedo che mi vengono attribuiti tutti gli spiriti liberi che pensano con la loro testa. Spero non si offendano». Una battuta, questa, che, come riferisce più di un presente, D'Alema avrebbe fatto anche nell'ultimo caminetto del Pd: «Non continuate a dire che Polito è un dalemiano. Altrimenti si rivolgerà a un avvocato per tutelare la sua onorabilità». Battute, come è nello stile di D'Alema, che però contengono un messaggio. Ai suoi: state calmi; a Veltroni: non esagerare.
Sulla strategia, infatti, D'Alema ha messo più di un paletto. Sul partito del Nord, ad esempio: «Abbiamo bisogno di un partito nazionale ma fortemente radicato nel territorio e con una struttura federale. E questo partito deve avere leader, non fiduciari». E, soprattutto, sulle alleanze: «La sinistra radicale si è dispersa ma non è scomparsa. C'è sempre. Solo che non ha trovato una espressione politica convincente». E ancora: «Alla vigilia di grandi tornate amministrative l'autosufficienza sarebbe sbagliata. Abbiamo interesse a costruire ottimi rapporti con le forze che stanno all'opposizione». I veltroniani non hanno apprezzato l'uscita del ministro degli Esteri. Afferma Tonini: «È certo di buon senso dire che bisogna costruire un collegamento tra le opposizioni. Infatti stiamo lavorando con l'Udc per portare Buttiglione come vicepresidente della Camera. Ma guai a noi se questo dovesse significare delegare alla strategia delle alleanze quell'adeguamento del Pd teso ad occupare il centro della società e a vincere le elezioni. Dobbiamo comportarci come i partiti riformisti europei. Le alleanze sono un aspetto derivato. Non è che il partito laburista dopo che ha perso Londra sta facendo un dibattito sul perché non si è alleato con i liberali». Anche Lusetti prende qualche distanza: «È negativo che la sinistra radicale non sia in Parlamento. Ma non è la mia preoccupazione principale. Con l'Udc va fatto un patto di consultazione mentre spero che con Di Pietro si possa fare il governo ombra». E le amministrative? «Lasciamo autonomia al territorio». L'analisi di D'Alema ha invece trovato più di una attenzione in Marco Pannella: «A D'Alema dico che se otto mesi fa fosse stata fatta una riflessione simile, ci saremmo risparmiati la sconfitta».
Sul fronte del centrodestra la giornata di ieri è stata segnata dall'affondo del neo sindaco di Roma Alemanno sulla squadra dei ministri che sta mettendo a punto Berlusconi: «Non siamo disposti a rinunciare al ministero del welfare» ha detto Alemanno che, durante la trasmissione Domenica In , ha pure indicato il candidato a lui gradito: Alfredo Mantovano. Un intervento che ha spiazzato gli ambienti di Forza Italia. Dopo un giro di telefonate, chiarimenti, nel pomeriggio, lo stesso Alemanno ha precisato: «Non ho avanzato alcuna candidatura al welfare. Non sta certo a me ma al presidente Berlusconi definire la squadra di governo da presentare al Quirinale. Per quanto riguarda il welfare - ha aggiunto - la candidatura espressa da Alleanza Nazionale è quella del portavoce Andrea Ronchi». In diretta tv aveva proposto Mantovano. Poi Ronchi. Sul welfare An non molla.

il Riformista 5.5.08
Per Virzì gli ex compagni di Monicelli oggi votano Lega
di Luca Mastrantonio


I compagni, intesi come Fausto Bertinotti, sono fuori dal Parlamento, forse anche da Porta a Porta . Ma a I compagni di Mario Monicelli, proiettato ieri, alle dieci di mattina, al cinema Farnese, piazza Campo de' Fiori di Roma, le centinaia di persone accorse e rimaste anche in piedi per vedere il film del '63 - ingresso gratuito e incontro con Monicelli e Virzì - hanno tributato cinque minuti di applausi. «Si muore ancora oggi, per troppe ore di lavoro - denuncia Monicelli - come nell'acciaieria torinese, come ai tempi dei Compagni. Non è cambiato nulla». Applausi a Monicelli, che sembra aver scoperto una nuova giovinezza comunista, ricorda che le occupazioni delle fabbriche a Torino erano sacrosante e non nasconde che il suo film, proiettato qualche mese prima del primo governo di centro-sinistra, ha anticipato il dibattito «se fosse giusto che la sinistra entrasse nel governo con la Dc, insomma, era una cosa giusta? proletaria? democratica?».
Furio Scarpelli ha ricordato la «rissa» seguita alla proiezione al congresso del Psi, ma il passaggio più bello è quando attacca il «cine-misticismo» di chi non ha un pensiero, una poetica, e conia in romanesco il suo cine-imperativo categorico: «Ahò! Famo un film?». Dal pubblico, un precario Rai, con accento toscano, testimonia come sia cambiato il lavoro e, soprattutto, il lavoro al cinema: «Questi lunghi pianisequenza non li fa più nessuno, oggi è tutto un video-clip. Io sono precario Rai, montatore, che ogni tre mesi mi prendo un calcio al culo. Noi abbiamo scioperato, ma senza seguire la Cgil», che assieme agli altri sindacati, dice, «farà la fine della sinistra Arcobaleno».
A evitare la deriva dibattito-autocoscienzioso, arriva Paolo Virzì, che d'altronde ha più volte dichiarato come il suo Tutta la vita davanti si sia ispirato proprio ai Compagni , con il sindacalista spiantato e sfigato Mastandrea al posto del professore socialista, deamicisiano, Mastroianni. Cambia il ruolo dei sindacati ma sono cambiate soprattutto le strutture produttive. «Le fabbriche di una volta non sono più in Italia, ma in Corea o Cambogia, dove si lavora tantissimo e senza diritti; noi, per paradosso, abbiamo un altro malessere, lavorare troppo poco». L'analisi del voto? Virzì ha un campionario "interno" e molto fidato. «A Livorno quest'anno non c'erano banchetti rossi, ma verdi, semmai. E poi ho parenti che lavorano alla Delphi, che hanno sempre votato Pci, Pds, Ulivo... ma questa volta mi hanno detto che votavano il coso della libertà perché gli toglievano le tasse sugli straordinari». Poco prima, rivolto a Monicelli, ha detto: «Quest'anno, questa gente, non ha votato per i partiti che piacciono a te e forse piacciono a noi», ha aggiunto allargando a Scarpelli e Tati Sanguineti. All'uscita del cinema, con un sole che riscaldava turisti e avventori del centro, il veltronissimo Ettore Scola si portava dietro la sua mazzetta di giornali e occhiali, vien da pensare, Persol. Lo sponsor di Venezia e della rassegna a piazza Farnese.

La cine-svolta di Fiuggi. Da sinistra a destra, invece, la novità è che i registi sono orgogliosamente non di sinistra. Lo testimonia Martinelli. Al centro, invece, anche se la località ha echi chiaramente finiani, spunta una nuova manifestazione: interamente dedicata all'intrattenimento famigliare. Il Fiuggi Family Festival. Recita il comunicato: «Sono già molte le adesioni: la Disney, la Universal, RaiCinema e Medusa Film, insieme con la Lux Vide di Matilde Bernabei, hanno già garantito la loro attiva collaborazione. Anche Igino Straffi, l'inventore del successo mondiale delle Winx, sarà fra i protagonisti della manifestazione». Il Fiuggi Family Festival è presieduto ed è stato fondato da Gianni Astrei, del direttivo del forum delle associazioni familiari. Il direttore artistico è Andrea Piersanti, già presidente dell'Istituto Luce e dell'ente dello spettacolo. Il coordinatore del comitato scientifico è il professor Armando Fumagalli della Cattolica di Milano. Il direttore generale della manifestazione è Fabio Fabbi. A presiedere la giuria sarà Pupi Avati. L'iniziativa ha il patrocinio del segretariato sociale della Rai. I «media partner del festival» sono il mensile di cinema Best Movie e il settimanale Famiglia Cristiana . Quando inviteranno Mel Gibson? Domani, alla casa del cinema di Roma, c'è la conferenza. Biglietti gratis per chi ha un bebè.

Corriere della Sera 5.5.08
Figli dei gay, centomila in Italia
La legge riconosce solo il genitore biologico «Bimbi discriminati, andiamo in tribunale»
di Monica Ricci Sargentini


Federico, Joshua e Sara sono bambini come gli altri. Socievoli, sereni, bravi a scuola, pieni di amici, a volte capricciosi, a volte ubbidienti. Ma diverso è il loro certificato anagrafico perché per la legge italiana, a differenza di quanto avviene in molti altri Paesi europei, questi tre minori hanno un solo genitore, la loro mamma biologica. L'altra madre, quella che li ha cresciuti dalla nascita insieme alla sua compagna, non figura da nessuna parte. Loro fanno finta di niente. Quando portano a casa la pagella pretendono che la firmino tutti e due i genitori. E se finiscono in ospedale vogliono averli al fianco entrambi. Ma la verità è che sono «figli di un dio minore», cittadini di serie B, costretti a vivere con la metà delle tutele dei loro coetanei. È il destino che il nostro Paese riserva ai piccoli nati nelle famiglie omosessuali, una possibilità non contemplata dalla nostra legislazione.
In Italia si calcola che siano centomila i minori con almeno un genitore gay. Ci sono quelli nati da unioni eterosessuali, poi sfociate in un divorzio, ma molti, sempre di più, sono invece vissuti sin dall'inizio in una casa con due mamme e due papà. Secondo la ricerca Modi.di, condotta nel 2005 da Arcigay con il patrocinio dell'Istituto Superiore di Sanità, il 17,7% dei gay e il 20,5% delle lesbiche con più di 40 anni ha prole. Se si considerano tutte le fasce d'età sono genitori un gay o una lesbica ogni 20. E, dato ancor più significativo, il 49% delle coppie omosessuali vorrebbe avere bambini.
Per coronare il loro sogno molti vanno all'estero. Le lesbiche in Spagna o nel nord Europa dove possono ricorrere alla fecondazione assistita. Gli uomini in Canada o negli Stati Uniti in cerca di una madre surrogata. Altre coppie, invece, scelgono la strada del fai da te. Le donne ricorrono all'autoinseminazione o cercano un donatore amico. Ma non è rara la famiglia formata da quattro genitori, due uomini e due donne, che si mettono d'accordo per fare un figlio e poi lo allevano insieme. Per tutelare i loro diritti tre anni fa è nata l'associazione Famiglie Arcobaleno (www.famigliearcobaleno.
org). All'inizio gli iscritti erano 15, oggi sono 400 di cui circa 170 famiglie e ben 110 bambini. Numeri sicuramente destinati a crescere: «Ogni settimana — dice la presidente Giuseppina La Delfa, accento francese, capelli neri corti e un bel sorriso — accogliamo uno o due nuovi soci. Abbiamo tre gruppi di persone: gli aspiranti genitori, le famiglie costituite in ambito omosessuale e quelli che hanno avuto figli in relazioni eterosessuali e ora vivono in una coppia gay. Questi ultimi soffrono di più psicologicamente, possono avere problemi nella separazione e nel divorzio, a volte non riescono a vedere i loro bambini o ad ottenerne l'affidamento. Le famiglie omogenitoriali, invece, vivono meglio il quotidiano perché sono un nucleo costituito alla luce del sole ma hanno una montagna di problemi legali».
Per tutelarsi si va dall'avvocato prima ancora della nascita dei pargoli. «Ma i margini sono molto stretti — spiega Stefania Santilli, legale milanese dello sportello Famiglie Arcobaleno —. Si può fare un accordo di co-genitorialità in cui si dice che la madre o il padre non biologico deve allevare il figlio in caso di decesso dell'altro. Ma sono delle scritture private che non hanno valore giuridico. Si può fare il testamento biologico e ricorrere a un trust, un accordo giudiziario per affidare i propri beni a una terza persona».
Molti Paesi europei hanno trovato una soluzione a questi problemi dando un ruolo al genitore sociale attraverso leggi ad hoc che tutelano questi rapporti tra adulti e bambini. «Così si arriva al paradosso — spiega Santilli — che, per esempio, i figli di una coppia italo-tedesca hanno due genitori in Germania e uno solo in Italia». Su questo argomento le Famiglie Arcobaleno stanno preparando quattro cause pilota da presentare nei tribunali italiani perché «l'Europa prevede che un bambino — spiega La Delfa — non possa essere discriminato a seconda di dove vive. È un'incongruenza che diventi orfano passando un confine».
Ma come crescono i figli dei genitori omosessuali? Decine e decine di studi, fatti all'estero, dimostrano che non ci sono problemi. «L'orientamento sessuale dei genitori non incide sullo sviluppo del bambino — spiega al Corriere Fulvio Scaparro, psicoterapeuta, specializzato sui temi dell'infanzia e della famiglia — il quale soprattutto nei primi anni di vita ha bisogno di affetto, presenza costante, attendibilità, armonia dei genitori e capacità di guida. Una famiglia omosessuale, dunque, è in grado di far crescere un bambino al meglio».
Nel libro Bambini ai gay? Margherita Bottino, psicologa, e Daniela Danna, sociologa, descrivono i figli degli omosessuali come bambini più tolleranti, meno conformi agli stereotipi di genere, cresciuti da genitori con più alto grado di istruzione e di autoconsapevolezza di quelli eterosessuali. «È chiaro — spiega ancora Scaparro — che un bambino o una bambina che cresce in una famiglia omosessuale è portato a vedere con occhio più favorevole le diversità, ad essere magari meno conformista. Questo non è né un vantaggio né uno svantaggio. Il vero pericolo per questi bambini sono i pregiudizi di una società, la nostra, in cui la famiglia è quella tradizionale, sposata, magari in chiesa. Su questo c'è da combattere ».
Elizabeth O' Connor, americana, madre di due bambine e coautrice con la sua compagna Suzanne M. Johnson di For Lesbian Parents non ha nessuna difficoltà ad ammettere che delle differenze esistono: «Le nostre figlie sono molto androgine, più propense ad entrare in campi tradizionalmente maschili, giocano in modo meno stereotipato per il genere, come può essere negativo tutto ciò? I maschi mostrano una tendenza simile, hanno una propensione molto forte all'accudimento, e anche ciò non può essere negativo. La maggior parte di essi realizza alla fine di essere eterosessuale. Come psicologa penso che sia tutt'altro che negativo poter considerare tutte le possibilità prima di decidere chi si è».

Corriere della Sera 5.5.08
A Prato con cento coppie gay e i loro sessanta piccoli
Federico, 8 anni: così spiego perché ho due mamme
di Monica Ricci Sargentini


PRATO (Firenze) — È domenica, il sole splende e il giardino che circonda Villa Fiorelli, un ostello accogliente alla periferia della città, è stracolmo di bambini scatenati. La piccola Anna, due anni, tenta di arrampicarsi su una bicicletta da adulto. Mette un piede sul pedale e, prima che accada l'irreparabile, la soccorre prontamente il papà, seguito a ruota dall'altro genitore, anche lui un uomo. Intorno molte coppie, tutte dello stesso sesso, tirano un sospiro di sollievo e riprendono a seguire i giochi degli altri. Siamo al raduno annuale delle Famiglie Arcobaleno. Due giorni di dibattiti, workshop, consulti legali. Si discute di welfare e scuola tra i soffitti affrescati di questa magnifica residenza del XVI secolo ma non mancano i momenti di convivialità e soprattutto, a turno, ci si occupa dei figli.
È il secondo anno che i gay e le lesbiche con prole (o aspiranti tali) si incontrano qui. Ci sono i nuovi arrivati e gli amici di sempre. In tutto un centinaio di coppie e una sessantina di bambini dagli uno ai nove anni. Una riunione di famiglie diverse da quelle tradizionali ma, alla fine, più uguali di quanto si pensi. «La gente ci rifiuta — dice Maria Elena Mantovani, vigile urbano a Milano, tre figli con Giuliana Beppato, psicoterapeuta ospedaliera — perché non ci conosce. Credono che noi pensiamo solo al divertimento, alle piume, alle saune. Il pregiudizio cade quando ti trovi di fronte la realtà di una famiglia come tutte le altre».
Per questo i gay e le lesbiche dell'associazione hanno deciso di uscire dall'anonimato e di raccontare le loro vite al Corriere. «Visibilità vuol dire riconoscimento — dice ancora Maria Elena, 45 anni, un viso tondo incorniciato dai riccioli neri — . Nella vita quotidiana noi non viviamo nessun problema di emarginazione sociale né a scuola né in altri luoghi. Le maestre, i compagni di classe, gli altri genitori ci accettano. Ma i miei figli sono di serie B. Io non sono la mamma biologica. Non usufruisco del congedo parentale se sono malati, non posso firmare le giustificazioni, se uno di loro si rompe una gamba e non c'è Giuliana sono i medici a decidere».
Le altre coppie annuiscono, raccontano di una società più avanti della sua classe politica. Francesca Bergamini, 39 anni, scenografa milanese, ha tre figli, una bimba e due gemelli, avuti con Maria Silvia in Olanda grazie a un donatore anonimo. «Quando riveli la tua storia, gli altri — dice — sono contenti e di solito ti dicono cose molto personali di sé stessi». Ma è pure vero che il pregiudizio esiste. «A me — racconta Maria Silvia — i vicini di casa hanno detto "Voi siete bravissime ma in generale ai gay non farei fare un figlio". Gli ho risposto: "Ma scusa ne conosci altri?". E loro candidamente "No"». I due gemelli, Giorgio e Raffaele, non stanno fermi un secondo. Uno piange disperato interrompendo la conversazione. «Portate un ciuccio! » è il grido generale di disperazione. «I nostri figli — dice ancora Maria Silvia — potranno conoscere a sedici anni il nome del loro papà biologico ma non sarà mai il padre, solo il donatore. Francesca, invece, è la loro mamma e l'unico modo che abbiamo di farla comparire è nello stato di famiglia così al nido paghiamo la rata maggiorata perché si sommano i redditi ma di vantaggi legali non ce ne sono».
Andando a Sud i problemi non aumentano. Raffaella Hoedts e Giuseppina La Delfa vivono in provincia di Avellino. Hanno una bambina Lisa Marie di 5 anni. «Uno può pensare — dice Raffaella — che nella grande città sei più protetto e invece nel paesino dove si conoscono tutti c'è un rapporto più amicale». Giuseppina racconta che «le maestre sono dispiaciute che io non possa votare a scuola, si scusano continuamente». Anche i preti sono tolleranti. Lucia ed Elena, di Roma, hanno fatto battezzare i loro figli senza problemi e, in Maremma, c'è una coppia che manda il bimbo in un asilo di suore perché non c'è quello comuna-le: «Il piccolo è stato accolto così bene che le maestre per rispettarlo non hanno festeggiato la festa della mamma e del papà».
Ma i bambini non ne risentono? «Beh ascoltano i nostri discorsi — dice Giuliana —. Noi per loro non abbiamo segreti. Federico ha spiegato ai fratelli la storia dei diritti. Ha detto loro: "Significa che se una delle due mamme muore l'altra non eredita"». Federico, otto anni, un bel bambino bruno con la pelle chiara, ascolta tutte le testimonianze senza perdere una battuta. A un certo punto prende il coraggio e interviene. «È dalla prima elementare che i compagni di classe mi chiedono perché ho due mamme, se prima avevo anche un papà che poi si è diviso. Io gli dico che ho due mamme da quando sono nato». E loro capiscono? «Sì ma poi me lo richiedono, ancora e ancora».

l'Unità 5.5.08
I migranti: «Ci aspettiamo di tutto»
«Quanto accaduto è frutto di un clima che da tempo si respira in città»
«A questo punto dobbiamo organizzarci per mettere in atto forme di autodifesa; ci aspettiamo di tutto»


Roberto Malesani, avvocato dell’Associazione migranti di Verona, è convinto che l’aggressione di Nicola Tommasoli da parte di giovani estremisti di destra non è un episodio isolato ma «il frutto di un clima che da tempo si respira in città».
«Alimentato anche - aggiunge - dalla politica securitaria cavalcata dal sindaco Tosi». «Questa politica della paura che sta alimentando Tosi, questa isteria della sicurezza dove i colpevoli sono solo e soltanto i migranti, crea eccessi di questo tipo - dice - A Verona c’è un delirio securitario e un razzismo diffuso: e la politica delle ronde ne è la prova». Dunque, conclude, «dobbiamo cominciare ad organizzare forme di autodifesa. I migranti che vengono additati come aggressori sono in realtà gli aggrediti». «La violenza di Verona ai danni di Nicola Tommasoli preoccupa e inquieta e, dopo l’ammissione di uno dei responsabili, è la riprova del pericoloso clima che, se non si interviene, rischia di annidarsi nel nostro Paese».
L’esponente Pdci Pino Sgobio chiede quindi che «chi di competenza faccia fino in fondo il suo dovere, affinché episodi di questo genere non si verifichino mai più».

domenica 4 maggio 2008

l’Unità 4.5.08
«Silvio è figlio del ’68»
di Maria Grazia Gregori

PROSPETTIVE Per un direttore di un teatro figlio del ‘68 come l’Elfo di Milano, Elio De Capitani, quella stagione ha dato buoni frutti: «Non è vero che non resta nulla, lo Statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, una diversa idea della donna vengono da lì»

«Quel desiderio di un
mondo a colori contro
il grigio dei padri in
un certo senso lo ha
intercettato Berlusconi
Ma lo ha reso merce»

Il ’68 visto dalla parte della scena. Se c’è un teatro italiano in qualche modo figlio di quel maggio e di quegli anni, è l’Elfo. Oggi questo teatro ha 36 anni ed è cresciuto insieme a diverse generazioni di spettatori. Del ’68, della sua eredità, di quello che ne resta - se resta - nell’approccio alla scena, nello sguardo sul mondo, ne parliamo con Elio De Capitani che con Ferdinando Bruni dell’Elfo è direttore.
Elio, ma tu chi eri nel ’68?
«Uno nato il 28 luglio del 1953 che nel ’68 aveva 15 anni, frequentava la prima liceo scientifico al Vittorio Veneto, un liceo moderno e periferico di Milano, una realtà sociale mista. L’anno ’67-’68 per me ha voluto dire la scoperta dell’assemblea, dell’occupazione della scuola, il primo sciopero fatto per una professoressa di un altro liceo. Ma anche la scoperta di una voce che si sentiva e che mi è poi servita più tardi nel fare teatro: era a me che facevano leggere le mozioni. Ho vissuto quell’anno e gli anni immediatamente dopo dentro il Movimento Studentesco e prima ancora nell’Unione dei comunisti italiani marxisti, un gruppo maoista dal quale sono stato espulso - un onore per me - perché mi piacevano i libri. Diventato mio malgrado un leader ho sempre avuto un rapporto molto aperto con le istituzioni scolastiche; lo scontro, semmai, era con i leader della Statale. Mi ha sempre affascinato però il carattere pacioso di "professore" umanista di Capanna, anche se un po’ mi stordiva la sua rigidezza: ne facevo un’imitazione perfetta».
Cosa hanno significato per un quindicenne quei tempi: la libertà individuale, un mutamento epocale, l’entrata nell’età adulta, la voglia di cambiare il mondo?
«Posto che il ’68 ha avuto motivazioni diverse negli Stati Uniti, in Europa e nei paesi dell’Est, per me e per molti della mia generazione ha voluto dire la rivolta contro i padri e la crosta conservatrice che pesava sul paese. E anche una rivolta verso quell’ideologia di stampo fascista che metteva insieme Dio, patria, famiglia. Penso alla lettera di don Milani a Paolo VI contro un vescovo che sosteneva che la guerra in Vietnam fosse giusta perché combattuta in nome di Dio. È questa idea di autorità a tutti i costi che ci sentivamo di contrastare in nome della pace. E penso a Pasolini, un grandissimo, lucido interprete di questi cambiamenti. Per molti un nostalgico romantico: in realtà lui antivedeva moltissimi dei disastri futuri, la corruzione del palazzo… Certo alla fine del ’68 molti sono tornati nei ranghi, nel letto comodo della loro classe; qualcuno è diventato un pubblicitario di grido. Perfino Berlusconi, a suo modo, può essere un figlio del ’68. Ricordo la battuta che dicevo nel Caimano di Nanni Moretti: "volete ancora quelle signorinette coperte, grigie, oppure volete le poppe fuori, le gambe in vista?" In un certo senso lui ha intercettato quel senso di libertà, il desiderio di un mondo a colori contro il grigio dei padri, solo che l’ha trasformato in merce».
Anche tu sottoscriveresti l’espressione di Capanna «formidabili quegli anni»?
«Qualcuno dice che del ’68 non ci rimane nulla. Penso al contrario che lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto, una diversa considerazione della donna, una riforma sanitaria fra le più avanzate, derivino proprio da lì. Altro che cerotti antirivoluzionari».
Che strada ha preso nella tua vita quell’idea di libertà, quella voglia di scardinare il potere dei padri di cui parlavi prima?
«Per me il ’68 ha trovato la sua strada con la nascita del Teatro dell’Elfo che ha dentro di sé tutti gli elementi fondamentali, costitutivi della parte più significativa di quegli anni. L’Elfo non ha mai voluto essere un teatro gerarchico tant’è che siamo ancora un gruppo con pochissima verticalità. Sicuramente ha contribuito il fatto che a dirigerlo siamo in due - Ferdinando Bruni ed io - con le nostre diversità e che vicino a noi ci siano personalità molto forti come Ida Marinelli, Cristina Crippa, Fiorenzo Grassi. Senza un assemblearismo un po’ fine a se steso ci sentiamo ancora un collettivo vivente, molto dialogante che si regge su di un meccanismo di trasparenza ed apertura. Il fatto di inventare un teatro, di essere in comunicazione con una pratica reale in cui trasferire tutte le nostre idee e portarle avanti, mi ha permesso di continuare ad avere un rapporto di militanza politica, umana sociale, familiare - ho sposato un’attrice - con la realtà. Per cui ti dico: formidabili quegli anni ma anche formidabili "questi" anni».
Anche in teatro avrai avuto, almeno all’inizio, dei maestri: li hai combattuti pur riconoscendoli o l’intenzione era quella di avversarli in tutto e per tutto?
«Ovvio che li ho avuti. Per esempio Grassi e Strehler e il loro progetto di un teatro stabile d’arte, per tutti. Pur riconoscendone la grandezza volevamo dimostrare che eravamo un’alternativa al loro modo di fare teatro, pensavamo a una rete, a un teatro diffuso. Un altro esempio per il modo di lavorare sui testi è stata la Schaubühne di Berlino di Peter Stein e di Klaus Michael Grüber. Invece, dopo l’iniziale innamoramento, Ariane Mnouckhine non è stata un maestro: troppo monocratica».
E in tutto questo che ruolo occupa lo spettatore? Un compagno di strada? Qualcuno da affascinare? Un bene comune?
«C’è il "tuo" spettatore che ti sceglie e ti permette di essere quello che sei. Poi c’è la città nella quale fai teatro realizzando un pensiero che vuoi condividere con tutti. E c’è la trasmissione del sapere teatrale agli attori e al pubblico in cui si mostra un’idea, una strada, un modo di concepire il teatro. Il ’68 ci ha spinto a rifiutare lo stile. Nel nostro teatro tu senti uno spirito etico ed estetico, ma non un unico segno. Noi non pratichiamo quell’idea unitaria tendente al classico che si esaltava nella purezza classica di Strehler. Siamo più barocchi, per noi lo stile è uno strumento. Ci sentiamo figli di quel pensiero che Pasolini espresse nelle Mille e una notte: la verità non è in un sogno ma in molti sogni. In una città come Milano la risposta non può essere data da un univoco modo di fare teatro: l’eccellenza oscilla, ci sono anni fantastici, un formidabile teatro, difficoltà, grandi depressioni. Da sessantottini pensiamo che il teatro sia un bene comune».
Il tuo ’68 ha avuto una colonna sonora, un pensiero predominante?
«Giocare col mondo facendolo a pezzi, bambini che il sole ha reso già vecchi". È Demetrio Stratos degli Area. I loro dischi ci rappresentano moltissimo, sono stati la nostra colonna sonora».

l’Unità 4.5.08
Il Rinascimento prima del Rinascimento
di Renato Barilli

DA ARNOLFO DI CAMBIO a Nicola Pisano: Exempla, allestita a Rimini, propone un percorso nell’arte statuaria del XII e XIII secolo, epoca nella quale Federico II tentò di ricostruire l’unità dell’impero

Il Meeting di Rimini usa ormai, da molti anni, organizzare ampie e solide mostre, rivolte a interi capitoli del manuale di storia dell’arte, utilizzando i magnifici spazi di Castel Sismondo, nel capoluogo adriatico. Tanto robusti, questi appuntamenti, che almeno in tre casi ho sentito il dovere di occuparmene (il Trecento veneto, i restauri della Sistina, l’arte ai tempi di Costantino Imperatore). L’offerta attuale si presenta, a dire il vero, sotto il titolo un po’vacuo di Exempla, ma il sottotitolo indica la latitudine dell’impegno: La rinascita dell’antico nell’arte italiana. Da Federico II ad Andrea Pisano (a cura di Marco Bona Castellotti e Antonio Giuliano, fino al 7 settembre, cat. Pacini). La posta in gioco, appunto, è amplissima, si tratta di stabilire se quel particolare Rinascimento che si suole accreditare alla grande figura di Federico II (1196-1250), l’imperatore di casa sveva che, dai possedimenti nell’Italia meridionale, tentò di ricostituire l’unità dell’impero, possa riallacciarsi al Rinascimento in generale, inteso come grande ritorno, dell’Europa dal Duecento all’Ottocento, alla lezione di naturalismo insita nei lontani modelli latini. Il tutto verificato su «esempi» tratti dalla statuaria, in quanto la pittura, per gran parte del Duecento, rimaneva prigioniera degli schemi piatti e astraenti della congiuntura bizantina, mentre gli scultori erano potentemente supportati dai numerosi resti della plastica di età classica. E proprio sotto la regia del grande Federico ci fu senza dubbio un ritorno a quei modelli classici, lo si vede soprattutto dai busti che furono incastonati nella Porta di Capua, ai tempi di quel sovrano.
Qui in mostra sono esposti reperti minori, provenienti dal Museo di Lucera, ma tutti volti a confermare quel poderoso ritorno di volumetrie gonfie, tese, quasi tracciate col compasso, risoluto antidoto alle secchezze smunte che imperversavano invece nei mosaici di estrazione bizantina. Ma soprattutto, a sostenere l’ipotesi della continuità dal Rinascimento federiciano all’altro con baricentro in Toscana, starebbe l’emigrazione di un personaggio, Nicola, detto «de Apulia», dalla sua ormai indubitabile provenienza dai territori federiciani, ma poi andatosi a trapiantare a Pisa, da cui trasse il soprannome. E già in proposito qualcuno ha fatto osservare che, se i suoi contemporanei avessero voluto sottolineare in lui la provenienza geografica, e anche culturale, lo avrebbero detto Pugliese. Invece, evidentemente, ai loro occhi il luogo di lavoro, Pisa, Pistoia, le contrade toscane in cui egli ha disseminato i suoi strepitosi bassorilievi, faceva premio su quel dato remoto. Si aggiunge un ulteriore gravissimo motivo di riflessione: se la forza di cui Nicola era portatore fosse stata davvero originaria delle Puglie, malgrado il suo allontanamento altri colleghi ne avrebbero continuato la lezione magistrale, in quei territori. Ma così non fu, le acque dell’Adriatico si richiusero, dopo la partenza di Nicola, e non diedero altri frutti rilevanti, mentre Pisa e la Toscana tutta lo dotarono di una magnifica progenie, a cominciare dal figlio Giovanni, e dal coetaneo di costui, Arnolfo di Cambio, forse il maggiore tra tutti, colui che poi trasmise la fiaccola del Rinascimento a Giotto, quando finalmente la pittura, sul finire del secolo, fu in grado di seguire la sorella maggiore sulla via di un pieno plasticismo.
Nonostante gli sforzi federiciani, il Meridione rimaneva ancora per gran parte inarticolato e compatto, laddove Pisa dimostrava un’ampia vocazione ai traffici, ai commerci, ben presto seguita, e sorpassata, da Firenze e da Siena. Questa fatale rispondenza del dato materiale con quello stilistico spiega perché mai, nei bassorilievi di Nicola, il blocco plastico, inerte e statico nella statuaria del rinascimento federiciano, si articolasse, con movimenti di membra, braccia, gambe, ergersi di teste, ancora contenuti, ma già tanto gravidi di energia potenziale, pronta a sprigionarsi. In mostra, lo vediamo da gessi tratti dai capolavori in marmo del Maestro Pugliese-Pisano, una Deposizione dalla croce, una sequenza di Annunciazione, Natività, Adorazione dei Pastori e dei Magi, in cui le figure si susseguono, premendo le une sulle altre, quasi ingolfandosi per troppa volontà espressiva. Con lui, siamo alla metà del Duecento, poco prima, attorno agli anni ’40, erano nati il figlio carnale Giovanni e il figlio spirituale Arnolfo, che diedero ulteriore vigore ai corpi, portandoli a impennarsi, a torcersi. In particolare, Arnolfo, per allontanarsi ancor più dall’inerzia statica dei blocchi federiciani, adottò un geniale accorgimento, lo vediamo dai frammenti esposti tratti dalle sue grandi realizzazioni di Orvieto, Tomba del cardinale De Braye, e da S. Giovanni in Laterano, Tomba Annibaldi. Non solo i corpi si torcono, osando perfino volgerci le spalle, ma uno sfondo tempestato di ornamenti cosmateschi a mosaico agisce da respingente, crea una gerarchia di piani, fugando definitivamente il rischio di inerti soluzioni sferoidali.
Semmai, un rimprovero che si può fare ai curatori è di aver ecceduto in bramosia inclusiva. Che ci sta a fare nella eletta compagnia dei Pisano, Nicola più Andrea e Arnolfo, un altro Pisano, Andrea, che viene quasi un abbondante mezzo secolo dopo, quando ormai la causa del Rinascimento toscano ha vinto, e risulta capace di sottili ed elastiche eleganze?

l’Unità 4.5.08
Sinistra democratica, che cosa fare?
di Carlo Leoni

La cultura socialista che ci appartiene
non può congelarsi con la pretesa
di imporsi ad altri. Dà un contributo
maggiore allo stesso socialismo europeo
se si arricchisce nel confronto con altre
culture ed altre esperienze sociali

Concordo su diverse cose tra quelle sostenute da Salvi e Villone su l’Unità del 30 aprile (Sinistra Democratica, che fare ?). Su altre vorrei discutere ed è quello che mi accingo a fare. Concordo con l’esigenza di un serio percorso di partecipazione e di decisione che impegni i nostri militanti e con le critiche sulla mancanza di meccanismi decisionali partecipativi e di regole certe e trasparenti. Le intendo anche come autocritica visto che i due compagni che scrivono, al pari del sottoscritto e di altri, hanno avuto responsabilità politiche e parlamentari di rilievo.
Affinché si possa aprire la stagione di una nuova alleanza progressista per il Governo del Paese non basta che nel PD si superi l’illusione dell’autosufficienza. Serve che sia in campo una sinistra che si ponga il doppio problema di un suo forte radicamento popolare e di una coraggiosa innovazione politica e culturale.
Una "sinistra di governo", ci ricordano Salvi e Villone. Certo, ma non basta dichiarare di esserlo, se la tua consistenza e la forza delle tue idee non solo tali da mettere gli altri di fronte a qualcosa da cui sia difficile prescindere. Serve una sinistra assai diversa da quella che si è vista in campagna elettorale, troppo cartello elettorale e residuo di un passato, più che nuova soggettività e speranza per il futuro.
Siamo apparsi come una forza non utile, di fronte all’ondata di destra, né per il Governo né per l’opposizione. Non è solo colpa del PD e del suo appello disperato e infondato al "voto utile". La verità è che una parte dell’Arcobaleno la pensava nei fatti come Veltroni. Riteneva cioè che anche alla sinistra convenisse uno "splendido isolamento" libero dai vincoli delle alleanza politiche. Noi che la pensavamo diversamente avremmo dovuto innescare su questi temi un dibattito pubblico, rendere noto il nostro punto di vista, coniugare, in una parola, tensione unitaria e battaglia politica.
Il carattere "plurale" del nuovo soggetto della sinistra che dobbiamo costruire non può indicare la giustapposizione di partitini, miniapparati e gruppi dirigenti che restano diversi tra loro e ciascuno impermeabile agli altri, in uno schema "federativo" che non è stato certo premiato dagli elettori, ma un vero melting pot in cui tutti si lascino attraversare dalle culture femministe, ambientaliste, pacifiste, altermondialiste, mantenendo come spina dorsale essenziale le culture e la storia del movimento operaio italiano.
In questa ottica devo confessare che trovo troppo statica e ossificata la versione fornita da Salvi e Villone della identità socialista del nostro movimento. Mi sembra soprattutto priva di fecondità politica. La cultura socialista che ci appartiene e di cui andiamo fieri non può congelarsi con la pretesa di imporsi ad altri. Si valorizza di più e dà un contributo maggiore allo stesso socialismo europeo se si arricchisce nel confronto e nella pratica politica con altre culture ed altre esperienze sociali.
Certo che non tutto è nelle nostre mani. La possibilità di un nuovo spazio politico della sinistra, in cui viga il principio e la pratica di "una testa un voto", passa anche per l’esito dei congressi dei Verdi e di Rifondazione che si terranno nel mese di luglio. Ma noi non dobbiamo, non possiamo stare fermi: in queste settimane, così piene di inquietudini e di amarezza, dobbiamo aprire le nostre sedi a tutti, convocare assemblee pubbliche, inaugurare dove possibile nuove "case della sinistra", cominciare a costruire la nostra agenda di opposizione al Governo Berlusconi e alle giunte locali di destra, essere presenti il più possibile sui media altrimenti si consolida tra la gente la convinzione che noi siamo davvero estinti e che l’unica opposizione alla destra rimane quella del partito democratico. A questa forte iniziativa pubblica occorre intrecciare quel processo innovativo di partecipazione e di coinvolgimento democratico descritto in modo da me condiviso da Salvi e Villone. Chi fa tutto questo? Chi lo organizza? Le condizioni di salute impediscono a Fabio Mussi di continuare a svolgere il ruolo di coordinatore del nostro movimento. A lui dobbiamo tutti un pieno grazie per l’intelligenza e la passione con cui ci ha guidato fin qui. Ma le sue dimissioni cadono in un momento per noi davvero drammatico non solo per le ragioni politiche generali di cui stiamo discutendo ma anche per una condizione materiale di enorme difficoltà. Possiamo, senza rischiare la paralisi, restare ancora a lungo senza neanche un coordinatore legittimato nelle condizioni possibili? Io credo proprio di no e penso soprattutto che sfioreremo il grottesco se nello stato in cui siamo ci dovessimo dividere sul nome del coordinatore o se, come mi pare propongano Salvi e Villone, il suo nome dovesse scaturire come esito della vasta consultazione che a quel punto invece di essere concentrata sulla politica, rischierebbe di tradursi, anche a prescindere dalle intenzioni soggettive, magari in una conta di delegati a sostegno dell’uno o dell’altro, e in una gara paradossale.
Ci vuole umiltà e senso della misura. Il Comitato nazionale di SD, convocato già per il 10 maggio, proceda dunque alla nomina del nuovo coordinatore con grande serenità. Nella stessa sede si decida un primo piano di iniziative, le forme del dibattito interno e le persone disponibili ad organizzare l’una e l’altra cosa.
Poi, ripartiamo. Nella campagna elettorale abbiamo potuto misurare la generosità e le energie di migliaia di militanti del nostro movimento. Da qui si ricomincia. Insieme e con una rinnovata solidarietà tra tutti noi.

Repubblica 4.5.08
Trentin, la scelta partigiana
"La guerra vera per l'Italia vera"
Spunta dal passato il diario da adolescente del sindacalista Un monito sul valore dell’antifascismo
di Simonetta Fiori

Un piccolo quaderno nero, un diario intensissimo che copre due mesi, 22 settembre-15 novembre 1943, prima di entrare nella Resistenza Bruno Trentin, allora sedicenne, appena rientrato in Italia dall´esilio francese, lo aveva poi sepolto in un cassetto. La sua compagna, Marcelle Padovani, lo ha ritrovato e ora Donzelli lo pubblica

Nessuno ha mai saputo di questo piccolo quaderno nero, non i figli né la compagna né gli amici più intimi. Bruno Trentin l´ha protetto da sguardi e parole indiscrete per oltre sei decenni, lasciandolo scivolare sotto vecchie carte, come si fa con gli oggetti preziosi ma un po´ ingombranti, sepolti nel mucchio e mai dimenticati. È il diario dei suoi sedici anni, un documento privato ma con straordinario valore pubblico, la cronaca minuziosa e lucida dei sessanta giorni che segnarono le scelte d´una generazione, e anche il destino d´una nazione. Un journal de guerre, come titola espressivamente il giovane diarista, che comincia all´indomani dell´armistizio, il 22 settembre del 1943, per interrompersi due mesi più tardi, il 15 novembre, a pochi giorni dall´arresto insieme al padre Silvio. Due le epigrafi poste in prima pagina, «Allons enfants de la Patrie!» e «C´est la lutte finale!», la Marsigliese e l´Internazionale. Per raccontare la sua guerra antifascista Trentin sceglie il francese, "figlio guascone" di esuli italiani.
«Quando Marcelle Padovani me l´ha mostrato, è stata un´emozione molto forte: come ritrovare un tesoro al modo di Stevenson», racconta Carmine Donzelli, che ha deciso di darlo subito alle stampe.
Inusuale anche la veste grafica, nella calligrafia meticolosa, nell´ordinata scansione in paragrafi, perfino nell´accurata illustrazione tra fotografie, mappe e ritagli di giornale: «Anche in questo non comune gusto grafico», dice l´editore, «si riconosce la naturale eleganza dell´autore, una precocità fulminante e quel razionalismo cartesiano respirato nelle scuole francesi».
A Cédon de Pavie in Guascogna Bruno era nato il 9 dicembre del 1926, il padre Silvio un insigne giurista costretto all´emigrazione dalle «leggi fascistissime». Oltralpe dunque crebbe e si formò, guascone nelle radici e nel temperamento, lettore avido di D´Artagnan e ragazzo scalpitante: le foto giovanili ne mostrano l´indole da furetto indomito che pochi anni più tardi troverà una sua più misurata intensità. Inquieta e fremente - racconta Iginio Ariemma nella sua informata introduzione - è anche l´atmosfera respirata a casa e nella libreria paterna di Tolosa, la Librairie du Languedoc, crocevia degli esuli di Giustizia e Libertà e dei volontari andati a morire in Spagna.
«Ma un adolescente ribelle», spiega Donzelli, «può voler di più, magari mostrare ai padri che anche lui ci sa fare, su una spinta che mescola conflitto e assimilazione». Così nel 1942 Bruno appena sedicenne fonda un gruppetto anarchico, tappezza Tolosa di scritte antifasciste, utilizzando per la propaganda la carta intestata della libreria di famiglia... Per caso o per sfida? La polizia lo scopre, finisce in prigione. Di quell´episodio racconterà la visita in carcere della madre e un furente schiaffo sulla guancia: «Se fai il nome di tuo padre, t´ammazzo…». Per Bruno resterà uno dei ricordi più cari.
Quando può rientrare in Italia, dopo la caduta del fascismo, Silvio porterà con sé quel figlio precoce e inquieto. Ne fa il suo braccio destro, lo coinvolge nella sua attività clandestina di leader azionista della Resistenza veneta. L´arrivo è a Mestre, poi Treviso, il 4 settembre del 1943. La guerra sta per cominciare, quella vera, la guerra contro il nazifascismo - come annota Bruno nel diario - il patriottismo autentico contrapposto a quello fasullo di marca fascista... Nel journal il ragazzo trascrive ogni dettaglio, eventi e personaggi, incontri riservati, le prime azioni di sabotaggio, l´organizzazione delle bande partigiane. La cautela del cospiratore appare scossa dalla furia di divorare «conoscenze luoghi e persone», come se la scrittura potesse mimare e sostituirsi all´azione. Le sue fonti sono diversissime, dai quotidiani fascisti a Radio Londra e Radio Mosca, le agenzie internazionali, gli ambienti azionisti frequentati da Silvio. Nulla gli sfugge della scena mondiale, il fronte interno e l´Egeo, il Pacifico e la Russia. La sintonia politico-culturale tra padre e figlio sembra cementarsi, il diario è anche testimonianza d´un genitore ritrovato, «si è costruito quel rapporto che era in parte mancato», confesserà più tardi Bruno.
Resistenza e ancora Resistenza: la parola ricorre tra le pagine quando ancora se ne faceva scarso impiego, fa notare Claudio Pavone nella sua Postfazione. Dall´iniziale scetticismo verso i connazionali, intorpiditi dal ventennio nero, Trentin scopre pian piano una diffusa volontà di riscatto, in un crescendo di giudizi affilati che mescolano lungimiranza - l´eccidio di Cefalonia interpretato come pagina nobile contro il nazifascismo -, patriottica indignazione (il re «miserabile piccolo sgorbio ricoperto d´oro e medaglie finte») e accenti enfatici verso «le gloriose avanguardie dei figli di Lenin» immolate contro la «bestia nazista». Una passione questa sul fronte orientale talvolta raffreddata in un lessico più cauto, in termini come «rossi» e «bolscevichi». Nell´oscillazione lessicale sempre Pavone rintraccia i conflitti politici che agitano la sinistra resistenziale, ma anche «quel groviglio proprio d´una generazione del quale vanno colte sia le contraddizioni e le coerenze che il significato profondo».
Puntuale e quotidiano fino al 13 ottobre, nell´ultimo mese il diario acquista un passo più lento e frammentato, spia dell´aumentato rischio dei cospiratori. Il 15 novembre l´interruzione improvvisa, con una frase secca scritta a matita: «Tempo perduto. Ora all´opra!». È l´unica scritta in italiano, una sorta di epigrafe generazionale che riecheggia l´analogo appello di Giaime Pintor e disegna la parabola politica e esistenziale del giovane guascone partito dalla Marsigliese e approdato alla lingua dei padri. Per Bruno comincia una nuova vita. Quattro giorni più tardi l´arresto a Padova insieme a Silvio: nel tragitto verso la federazione fascista Bruno ingoia tutte le carte compromettenti, procurandosi un´occlusione intestinale. La carcerazione non durerà a lungo, ma nel marzo successivo l´attende lo strappo più doloroso, la perdita del padre. Al lutto privato s´aggiunge il peso simbolico della successione. Nell´aprile del 1944 Bruno è già in montagna.
Perché il prolungato silenzio su questo Journal de guerre? «Forse per una scelta di stile», risponde Donzelli. «Tra i dirigenti della sinistra vigeva la regola che non ci si doveva vantare. O forse Trentin è stato trattenuto dalla radicalità dei suoi giudizi giovanili. A me è sembrato sbagliato censurarlo, soprattutto in questi tempi confusi. Il diario ripristina con un´urgenza perentoria l´idea che c´è stata una guerra contro il fascismo, e che non è possibile equiparare i combattenti dell´una e dell´altra parte. È un documento sul valore imprescindibile dell´antifascismo. La Liberazione non è stata liberazione punto è basta, ma liberazione dal fascismo. È bene ricordarlo, altrimenti rischiamo che i miti fondativi della storia repubblicana perdano senso perché fondati sull´equivoco».

BRUNO TRENTIN:

22 settembre 1934
Sono esattamente 14 giorni che il popolo italiano ha preso coscienza con una gioia trepidante dell´armistizio con le potenze Anglo-sassoni. Gioia ben presto delusa dall´annuncio dell´occupazione integrale dell´Italia settentrionale da parte delle truppe tedesche. Dall´8 settembre 1943, il nord della penisola vive la più terribile e la più penosa delle tragedie.
L´8, mio padre era a casa dei suoceri, mio fratello a casa di amici. Io passeggiavo per caso sulla piazza principale di Treviso (Veneto). Si è radunata una folla confusa e incerta. Corrono delle voci: la Pace... la Pace!... Voci, ma nessuno ne sa niente. Tutto a un tratto, un uomo compare a un balcone e urla: «Italiani! Una grande notizia... Armistizio!... la guerra del fascismo è finita!... Vendetta contro quelli che vi ci hanno trascinato!...». La gente grida di gioia, i soldati si abbracciano, si corre per le strade, si canta. Io, tremante, tesissimo, mi precipito attraverso il dedalo delle viuzze sporche della città bassa. In cinque minuti sono da mio nonno; irrompo nella stanza in cui mio padre sta discutendo con alcuni amici; grido: «Badoglio ha firmato l´armistizio!». Mio padre si alza in piedi, grave, senza inutili esplosioni di gioia; si guardano tutti tra loro... «È la guerra che comincia!».... La guerra vera per l´Italia vera.
Da quel giorno, le nostre volontà: quella di mio padre, di mio fratello e la mia, si sono sforzate di farla, questa guerra, con ogni mezzo.
Il 9 settembre, mio padre va a trovare il comandante della piazza, il generale Coturri. Questi si rifiuta di organizzare la resistenza alle truppe tedesche che avanzano verso Treviso per occuparla. Il 10, un altro generale, tremante di paura, si sottrae. L´11 un terzo generale del «fu esercito italiano» e il prefetto della città non si vogliono compromettere. Paura! Paura! Corriamo di prefettura in prefettura, dall´ufficio dello Stato maggiore al Municipio. La nostra delusione, la nostra amarezza sono grandi; tutti tremano di paura. Lo sgomento, il panico poco a poco si impossessano della popolazione. Qualche giorno prima, urlavano di gioia. L´11 settembre già tremavano per la loro salvezza. I tedeschi si avvicinano a Treviso. I soldati scappano in disordine, buttando le armi, le uniformi, gli ufficiali, in borghese, scappano in macchina attraversando a tutta velocità le vie della città. Di fronte all´impossibilità di organizzare in città una resistenza armata, partiamo a nostra volta per nasconderci in campagna. Comincia in Italia una nuova vita: la vita clandestina.

25 settembre 1943
Si è costituito il governo fantoccio di Mussolini. Tra questi ministri, tra questi uomini abietti che non hanno vergogna di incitare il popolo italiano a collaborare con le orde naziste, si ritrovano alcune vecchie conoscenze, già famose per la loro integrità e la loro grandezza d´animo. In particolare, quel caro maresciallo Graziani che si è tanto graziosamente distinto in Abissinia nell´impiegare i gas contro dei negri inermi, ha portato a termine la sua carriera di macellaio sanguinario, mettendosi a servire tra le file nemiche, come ministro della guerra di un governo fascista venduto alla Germania al prezzo più basso, fianco a fianco coi suoi colleghi tedeschi, macellai come lui.
Ma ci sono anche degli ufficiali che hanno saputo lavare nel sangue l´onore così compromesso di questa Italia martirizzata. È il caso del generale della divisione «Acqui» a cui era stata affidata la difesa dell´isola greca di Cefalonia, e che con una fermezza e uno stoicismo ammirevoli ha ordinato ai suoi uomini di resistere ad ogni costo all´invasore nazista. Soverchiato dalla schiacciante superiorità del nemico, insieme col suo stato maggiore rifiutò di arrendersi, cosicché i tre quarti della divisione, con tutti gli ufficiali, furono annientati. I Tedeschi fecero solo quattromila prigionieri. Una pagina gloriosa come questa mostra che c´è ancora della buona genia di Italiani: Italiani che hanno a cuore l´onore del loro paese e la loro libertà.

8 ottobre 1943
L´automobile s´inerpica per uno stretto sentiero di montagna, il tempo è cattivo, piove. Sono in macchina, con mio padre e uno dei nostri. Il nostro obiettivo è di andare a P..., paesino della montagna veneta, per discutere e prendere accordi con i capi di un movimento di patrioti italiani, armati fino ai denti, che tengono le alture. Intorno alle 5, arriviamo in paese. Parcheggiamo l´automobile nel cortile di una locanda che è una delle ultime case di P. «Loro» sono lì, ad attenderci: due giovani ufficiali degli «Alpini» dell´esercito Italiano. La barba lunga, indosso un completo di velluto, l´aria risoluta... Poche parole per presentarci, e ci sediamo attorno a un tavolo, davanti a un bicchiere di vino: siamo soli. Le discussioni che sono seguite sono state di carattere troppo confidenziale perché possa trascriverle su questo diario.
Tuttavia, mentre parlavamo, tra noi, sentivamo qualcos´altro.. un bisogno di essere affettuosi, nonostante parlassimo di questioni terribilmente serie e importanti.
Negli occhi di quei montanari si percepiva una grande aspettativa, un po´ di riconoscenza, per quella gente di laggiù, per quei rappresentanti dei partiti di resistenza, che erano saliti fin lì per provare a creare qualcosa di veramente organizzato... forse anche un po´ di diffidenza per quegli uomini ben vestiti, un po´ pieni di illusioni.
Arriva un capitano degli Alpini, è il capo del gruppo. Pelle abbronzata, baffi corti... doveva avere attorno ai trentacinque anni: il tipico montanaro veneto. I suoi occhi chiari ti frugano dentro e ti spogliano. «... allora è vero, ci sono degli amici che vogliono aiutarci... ci sono altri Italiani che vogliono battersi con noi; allora, non ci sono solo bastardi e traditori?... no, c´è anche un´Italia vera»; e anche noi pensiamo che ci sia un´Italia vera, un vero simbolo di libertà piena di vita e di splendore dentro gli occhi di quell´uomo dagli abiti logori e dalla barba lunga.
Ci sono uomini che hanno pensato come me, che hanno giudicato come me e che vogliono lottare come me contro lo stesso nemico. Non siamo soli! Sotto la maschera consunta e rappezzata, dietro a questa maschera del fascismo, spunta un´altra cosa, una cosa vera, un popolo vero... il vero popolo italiano; non la folla fasulla che urlava «a noi» senza sapere perché... no, un popolo vero... grave, risoluto, splendente di forza e di luce... il popolo libero, il popolo che spezza le sue catene, e che grida altolà!
Quel popolo che era sul Piave contro l´Austriaco, che era a Vittorio Veneto dopo Caporetto, che era anche a Guadalajara contro le Camicie Nere, è nato di nuovo, puro, vergine, inattaccabile...
Abbiamo finito di parlare. Gli accordi sono presi... al minimo segnale devo raggiungerli anch´io per lottare al loro fianco... Stringiamo le mani callose, le stringiamo forte... Addio... L´automobile scende nella notte: un´ora dopo i grandi e sublimi contorni delle Alpi sfumano nel buio... Riscendiamo in città... per occuparci di loro, per riprendere la penna, la carta, l´elettricità, la radio... gli strumenti moderni della guerra... quegli strumenti offerti dalla civiltà...
© Marcelle Padovani e Donzelli Editore 2008

Repubblica 4.5.08
Il potere blindato della destra zuccherosa
di Eugenio Scalfari

Circa mezzo secolo fa – forse qualcuno ancora se lo ricorda – Mina lanciò una canzone che diceva così: «Renato Renato Renato/così carino così educato». Mi è tornata in mente ascoltando il discorso del neo-presidente del Senato, Renato Schifani, che fino a pochi giorni fa era soprannominato "iena ridens" per la sua capacità di ripetere i voleri del Capo e i suoi truculenti insulti al popolo di sinistra con un ghigno sul volto che non presagiva nulla di buono. Oggi si è trasformato: così carino così educato. La canzone di Mina gli si attaglia perfettamente.
E si attaglia anche a Gianfranco Fini, neo-presidente della Camera, e a Gianni Alemanno, neo-sindaco di Roma. Le loro movenze sono diverse da quelle di Schifani, hanno un pizzico di volontà di potenza in più e un maggior orgoglio di sé. Non sono – oggi come ieri – lo scendiletto del Capo, hanno un loro partito, una loro provenienza, una loro storia (anche se poco commendevole) dietro le spalle. Ma anche loro «governano per tutti i cittadini» anche se non per conto e in nome di tutti. Anche loro promuoveranno i talenti al di sopra degli steccati partigiani. Anche loro insomma non sono più politici politicanti ma statisti governanti. C´è da credervi?
Io penso di sì, c´è da crederci. Del resto non si è mai visto in democrazia qualcuno che, arrivato al potere sulla base del libero voto popolare, si metta a proclamare che lo userà per favorire la sua parte. Non lo fece neppure Mussolini dall´ottobre del ´22 al gennaio del ´25. Aveva vinto le elezioni, sia pure con una porcata di legge, e aveva formato un governo di coalizione con dentro vecchi cattolici e ancor più vecchi moderati.
Poteva fare, come disse, dell´aula sorda e grigia di Montecitorio un bivacco di manipoli, ma lo fece soltanto due anni dopo sulla scia del delitto Matteotti. La dittatura rompe le regole della democrazia e rende inutile l´ipocrisia. Il Parlamento fu abolito, i partiti dissolti salvo il suo che fu identificato con lo Stato, la libera stampa mandata in soffitta, come ha auspicato Beppe Grillo e le centinaia di migliaia dei suoi seguaci paganti nel "Vaffa-day" del 25 aprile.
Questa volta le cose non andranno così per molte ragioni. Il mondo è globale, l´economia è globale, la cultura è globale, le informazioni sono globali e anche il commercio è globale. L´Italia è una regione dell´Europa. La nostra moneta è quella europea. Una dittatura totalitaria oggi è impensabile in Europa e in Occidente. E poi la classe dirigente del centrodestra non ha alcuna somiglianza con lo squadrismo diciannovista.
Perciò quel pericolo non c´è. Ce ne sono altri che possono suscitare serie preoccupazioni.

* * *

I marxisti spiegavano la storia dei popoli attraverso il rapporto tra le forze produttive e le istituzioni chiamando le prime "struttura" e le seconde "sovrastruttura". Lo ricorda Giorgio Ruffolo nel suo bellissimo libro "Il capitalismo ha i secoli contati" che è la più lucida ricostruzione della globalizzazione che stiamo vivendo e dei fenomeni che l´hanno preceduta.
Tra la struttura e la sovrastruttura non esiste un rapporto di automatica determinazione come pensavano rozzamente i marxisti militanti del secolo scorso. C´è invece una continua interazione, un reciproco condizionamento. Io credo che l´emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi strutturale delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione.
Questo mutamento strutturale spiega anche la nascita del partito "liquido" dei democratici, la sconfitta del partito cattolico come arbitro centrista che era nel disegno di Casini, infine l´affondamento della sinistra massimalista.
Il comportamento più strano, ai confini dell´assurdo, è stato proprio quello della sinistra radical-massimalista, che ha attribuito a Veltroni la sua scomparsa e ha punito con il voto e con l´astensione Rutelli per castigare il leader democratico. Per gli ultimi marxisti militanti è un errore squalificante non rendersi conto che le strutture negli ultimi quindici anni sono completamente cambiate ed hanno determinato una rivoluzione sovrastrutturale. La sinistra radicale, le sue ideologie, i suoi slogan, la sua organizzazione politica galleggiavano sul vuoto che essa stessa aveva ulteriormente aggravato segando l´ultimo ramo che ancora la sosteneva e cioè l´operatività del governo Prodi.
Il loro stupore per la scomparsa del loro mondo, quello sì, è stupefacente e direi senza appello: chi ha smesso di pensare smette di vivere. Questo è accaduto, con buona pace di Sansonetti, direttore del più assurdo (e come tale utile) giornale oggi in circolazione.

* * *

L´ascesa al potere del triumvirato Berlusconi, Bossi, Fini-Alemanno, che si completa in quadrumvirato con l´inevitabile cooptazione del siciliano Lombardo, si fonda su una precisa ideologia, sì, riemerge l´ideologia, è un fatto nuovo del quale è bene prendere atto. Chi l´ha declinata meglio di tutti è stato Fini nel suo discorso alla Camera dei deputati.
Si basa sulle radici cristiane, anzi cattoliche, sulla condanna del relativismo, sull´esistenza d´una verità assoluta e sulla morale che ne deriva. Sulla tolleranza (relativa) delle altre culture a discrezione del Principe. Sulla protezione e la sicurezza dei cittadini per mettere in fuga la loro insicurezza. Sulla convivenza tra il potere forte dello Stato e la società federale.
Berlusconi rappresenta il vertice del Triumvirato-Quadrumvirato: un tavolo a tre gambe, un triangolo retto che è sempre uguale a se stesso su qualunque lato venga poggiato perché il bello del populismo consiste nella ubiquità di Berlusconi, leghista, statalista, liberista, per naturale e plurima vocazione.
Perciò, salvo errori o malasorte, puntare su laceranti contrasti tra i triumviri è sbagliato: c´è trippa per tutti e anche per Grillo che dissoda il terreno dove i triumviri semineranno e raccoglieranno. Così saranno i cinque anni che ci aspettano. Buon pro ci faccia.
Ma dunque non c´è niente da fare? Al contrario, penso che ci sia moltissimo.

* * *

Una volta tanto provo a descrivere il Partito democratico in negativo, cioè per quello che non è. Un modo come un altro per disegnarne un profilo identitario.
Non è il partito dell´ideologia assolutista. Non è un partito con radici cattoliche o comunque religiose. Non è un partito liberista. Non è un partito classista. Non è il partito dello Stato forte. Non è un partito protezionista.
Quindi: è un partito laico e non ideologico, liberal-democratico, costituzionale di questa Costituzione e dei suoi principi fondativi. Non trasformista ma disponibile a partecipare – se potrà – all´elaborazione delle riforme istituzionali. Vuole un libero mercato nutrito di libera concorrenza, con regole efficaci e istituzioni capaci di farle rispettare. Un partito con una sua visione nazionale nel quadro di un´Europa federale.
Così sembra a me che debba essere.
Nell´idea originaria Veltroni ha puntato su una forma che fu definita "liquida", poggiata sul popolo delle primarie. Questa formula, che anche a me sembrava utilmente innovativa rispetto alla tradizionale forma-partito, si è invece rivelata inefficace. L´esperienza della campagna elettorale ha dimostrato che le primarie sono uno strumento selettivo utile ma non l´ossatura di un partito che deve vivere sul radicamento territoriale. C´è bisogno d´una struttura militante e identificata con gli interessi del territorio e di un vertice solido e plurimo che indichi le priorità e i mezzi disponibili per attuarle. Che non sia casta ma rappresentanza. Locale ma con visione nazionale.
Il Partito democratico rappresenta il solo sbocco politico possibile della sinistra italiana e deve perseguire quest´obiettivo. Rappresenta il solo sblocco possibile dei cattolici adulti, che abbiano intensi sentimenti di fede e non di idolatrie o di calcoli politicanti. Questi cattolici sono minoranza tra i tanti battezzati indifferenti e ruiniani? Ma i cattolici veri, quelli di fede e di responsabilità personale, sono sempre stati minoritari, quello è il loro vanto e la loro dignità religiosa così come lo è per i laici non credenti ma rispettosi del sacro e delle sue non idolatriche manifestazioni.
Ricordo qui una lezione di Ugo La Malfa: impegnò la sua vita politica per cambiare la sinistra di cui si sentiva parte, per cambiare la Democrazia cristiana con la quale fu alleato e per cambiare il capitalismo italiano trasformando gli imprenditori in una consapevole borghesia.
Secondo il mio modo di vedere il Partito democratico deve farsi portatore di analoghe e alte ambizioni che sono al tempo stesso culturali sociali e politiche.
Il riformismo di centrosinistra in un paese come il nostro è minoritario. Lo è sempre stato ma ha, deve avere, vocazione maggioritaria. Del resto le grandi trasformazioni sono sempre state – e non solo in Italia – realizzate da minoranze che seppero operare nel senso della storia programmando il futuro, rappresentando il paese vitale e responsabile, consapevole dei difetti, dei limiti e delle virtù degli italiani.
Un gruppo dirigente coeso e non castale può e dev´essere animato da una grande ambizione. La sconfitta è stata dura, gli errori ci sono stati. Ambizione, non vanità. Dialogo, non trasformismo. Pragmatismo, non improvvisazione.
C´è molto da fare.

Repubblica 4.5.08
Fiera del libro, alta tensione a Torino
Indymedia chiama alla protesta. Napolitano inaugura a porte chiuse
Il rettore difende il convegno anti-Israele: i relatori sono stimati professori
di Paolo Griseri

TORINO - Il presidente della Fiera di Torino, Rolando Picchioni, prova a stemperare la tensione: «Gli espositori sono in aumento, il numero dei dibattiti e dei relatori è da record. Se qualcuno ha voluto boicottare la Fiera del Libro direi che ha fallito l´obiettivo». Ma Picchioni sa perfettamente che non sono solo le cifre a decretare il successo o l´insuccesso di una edizione. Conta invece il clima che si crea intorno ai padiglioni del Lingotto, la capacità della manifestazione di parlare davvero a tutti. E su questo la scommessa è ancora da vincere.
Il primo problema da risolvere è quello della visita di Giorgio Napolitano. Mai, in 21 edizioni, un Presidente della repubblica aveva tagliato il nastro inaugurale della Fiera. Questa volta però bisogna conciliare l´evento con i motivi di sicurezza. Nelle ultime ore tra Torino e il Quirinale sono in corso continue consultazioni. Con ogni probabilità giovedì mattina Napolitano inaugurerà i padiglioni a porte chiuse, senza pubblico, incontrando le autorità locali e una scolaresca. Il segnale che la tensione sale e che non è consigliabile consentire il bagno di folla del presidente tra i libri e gli stand.
Il secondo problema da affrontare in ordine di tempo sarà quello delle contestazioni di chi protesta per la decisione di scegliere Israele come ospite d´onore di questa edizione: «Abbiamo invitato gli scrittori non uno Stato», affermava ieri il direttore della Fiera, Ernesto Ferrero. Molti dei contestatori hanno già dimostrato di non apprezzare la distinzione. Così da ieri il tam tam di Indymedia dice che per tutti l´appuntamento è sabato 10 maggio a Torino in corso Marconi con l´obiettivo di raggiungere il Lingotto che si trova quattro chilometri più in là. La parola d´ordine è «contestare chi, dal Presidente della Repubblica alle autorità nazionali e locali, non ha mai messo in discussione in questi anni l´alleanza strategica con lo stato di Israele». Ancora ieri il prefetto di Torino, Paolo Padoin, ha ripetuto che «verrà naturalmente consentita l´espressione del dissenso ma non sarà possibile mettere a rischio la sicurezza nei padiglioni della Fiera». Dunque difficilmente il corteo potrà raggiungere il Lingotto. Il prefetto ha anche invitato «tutti a un uso delle parole che aiuti a stemperare la tensione» e ha condannato «quei mezzi di informazione che hanno diffuso la notizia, totalmente falsa, secondo cui io avrei impedito di esporre le bandiere di Israele».
L´ultima polemica in ordine di tempo riguarda la decisione dell´Università di Torino di ospitare, martedì e mercoledì, un convegno di scrittori arabi ed europei che si propongono il boicottaggio del governo di Gerusalemme. Scelta che venerdì ha suscitato l´ira e lo stupore dell´associazione Italia-Israele. Ieri il rettore di Torino, Ezio Pellizzetti, ha risposto che «molti dei relatori sono stimati professori universitari» e che dunque «non c´è motivo di dubitare della loro onestà intellettuale e della loro correttezza scientifica».

Repubblica 4.5.08
"Noi migranti romeni, condannati a vedere la paura nei vostri occhi"
di Jenner Meletti

Un invito a pranzo dai fratelli Braneanu, muratori disoccupati a Treviso. Per parlare di cibo guadagnato con fatica, di figli lontani, di razzismo. Ma anche delle brutte facce dei compaesani che ti guardano dai telegiornali e che ti rovinano la vita e il futuro
"C´è chi pensa che siamo tutti uguali e che è meglio non mettersi in casa uomini della stessa terra dei criminali"

TREVISO. Una stretta di mano forte, da muratori. «Bunazina, buongiorno». È bella la casa dei fratelli Braneanu. Una grande sala, la piccola cucina, due camere da letto, un balcone sui platani del quartiere Carbonera. Beatrice, tre anni, è la padrona di casa. Corre come una trottola, vuole fare vedere i suoi pupazzi e i suoi giocattoli. «A dire il vero, in questi giorni dopo la Pasqua ortodossa - dicono i fratelli Florian Costel, trentacinque anni e Ion, quarantuno anni - invece di dire "Bunazina" noi salutiamo l´ospite dicendo: "Hristos a inviat", Cristo è vivo. E lui risponde: "Adevarat a inviat", è vero, è vivo. Questo sarà il nostro saluto fino al giorno dell´Ascensione». Stefanica, moglie di Florian Costel e Florina, moglie di Ion, stanno preparando il pranzo, ma anche gli uomini si danno da fare. «Io ho cucinato il sarmale - dice orgoglioso Ion - con cipolle, carote, peperone e carne avvolti nella verza». Non c´è nemmeno bisogno di fare domande. «Abbiamo quasi paura di accendere la televisione. Ci sono giorni in cui si parla solo di romeni che rubano, che stuprano, che fanno cose cattive. E noi stiamo male perché quando ci chiedono da dove veniamo noi diciamo che la nostra città è Suceava, sulle montagne a nord della Romania. Ma il nome della nostra città e il racconto delle cascate che scendono dalla roccia non interessano. Il commento è sempre uguale: ah, allora siete romeni».
Quello dei fratelli Braneanu è un sogno (per ora) interrotto. «Noi siamo muratori molto bravi. Sappiamo tirare su una casa dalle fondamenta al tetto. Io, Florian Costel, sono in Italia dal 2000. Ion dal 2002 e in quell´anno tutti e due siamo stati assunti da una piccola ditta di edilizia. Noi due romeni e due italiani. Ma sette mesi fa il padrone ci ha detto che non c´era più lavoro e ci ha lasciato a casa. Solo noi, però, gli italiani continuano a lavorare e forse è giusto così perché erano stati assunti prima di noi. Adesso abbiamo l´assegno della cassa integrazione, novecento euro al mese, ma li spendiamo quasi tutti per l´affitto, 512 euro al mese, settanta di condominio e poi ci sono le bollette del gas, della luce, le rate della macchina… Noi tutti i giorni siamo in giro a cercare lavoro. Nelle agenzie ci dicono: lasciate il curriculum, faremo sapere. Nei cantieri ci dicono: per ora siamo a posto, lasciate il numero di telefono. Abbiamo i documenti in piena regola, in un cantiere sappiamo fare tutto e nessuno ci chiama. E allora ci viene un pensiero brutto in testa: forse c´è chi pensa che i romeni sono tutti uguali e che è meglio non mettersi in casa uomini che arrivano dalla stessa terra di quelle brutte facce fatte vedere ogni giorno nei telegiornali».
Ma non ci sono dubbi: il futuro della famiglia Braneanu è qui, in terra trevigiana. A settembre Beatrice (figlia di Stefanica e Florian Costel) comincerà la scuola materna in questa che per i Braneanu è Lamerica: sette fra fratelli e sorelle (su dieci) sono qui e lavorano nelle fabbriche, nei cantieri, nelle imprese di pulizia. «Nei giorni di festa ci troviamo tutti assieme nei parchi di montagna, qui vicino. Prepariamo i mici, gli spiedini alla griglia, ci sembra di essere a casa». «Adesso - dice Ion, il fratello più grande - è il momento di stringere la cinghia. Qui a Treviso sei trattato bene se lavori e se non devi chiedere favori a nessuno. Con i 1300-1400 euro che guadagnavo in cantiere non c´erano problemi. Pagato l´affitto e tutto il resto mandavo a casa trecento euro al mese, a mia suocera, perché a casa sua ci sono i miei due figli, Annamaria che ha diciassette anni e Ionuz Florentin, quindici anni. Studiano e hanno bisogno di tutto. Adesso, con la cassa integrazione, per mantenere i figli devo usare i risparmi che ho in banca. Devo resistere fino a quando mi arriverà la telefonata giusta da un´agenzia o da un cantiere. Intanto abbiamo preparato le nostre difese. Mio fratello Florian Costel abitava qui vicino, in un altro appartamento, anche lui in affitto. Da una settimana è venuto a vivere con me, con moglie e figlia. Così paghiamo un affitto solo».
È l´ora del telegiornale, stavolta si parla di governo e non di romeni. «I delinquenti - dice Florian Costel - rovinano prima di tutto noi che siamo venuti qui per lavorare e per dare ai nostri figli ciò che in Romania non potremmo dare. Ion per i suoi figli già grandi ha comprato un computer, e lavorando in Romania non avrebbe potuto certo fare una spesa così. Io voglio che Beatrice vada a scuola e trovi un mestiere meno pesante del mio. Lei è già italiana, è nata qui. Noi invece siamo romeni e romeni resteremo per sempre. Se per caso lo dimentichiamo, ci pensano gli altri a ricordarcelo. Vai in un bar, vai a fare una passeggiata in centro, e tanti ti guardano in un certo modo. Non hanno nemmeno bisogno di parlare. E invece sarebbe bello discutere. Io sono Florian Costel - così mi presenterei - da più di cinque anni muratore nei vostri cantieri, nemmeno un giorno di assenza. Sullo stipendio pago le tasse, verso i contributi, e poi faccio la spesa nei vostri negozi e supermercati, pago la benzina al distributore. Insomma, lavoro, guadagno, e gran parte dei soldi li lascio qui, nella vostra terra. Ecco, direi questo, se potessi parlare. Il razzismo? È solo una questione di sguardi, che però possono fare molto male. E poi ci sono i piccoli episodi: fai una festa con i parenti e la vicina di casa - è successo nell´altro appartamento - si mette sul pianerottolo, a braccia conserte, a controllare per ore chi va e chi viene. La bambina canta e poi strilla - alle sette di sera - e ti vedi arrivare in casa i carabinieri chiamati da uno che aveva telefonato dicendo "chissà cosa stanno combinando questi romeni"».
Secondo i fratelli Braneanu, non sarebbe difficile distinguere il grano dal loglio. «In Romania, se rubi una gallina, fai tre anni di galera e là le galere non sono come quelle italiane, con tre pasti al giorno e la televisione in cella. Chi sbaglia, anche una sola volta, deve pagare. Chi, arrivato in Italia, non lavora e non cerca nemmeno da lavorare, deve essere mandato via». «Anch´io - racconta Florian Costel - sono arrivato con un visto turistico e sono rimasto come clandestino. Ma ho subito cercato un lavoro. Mi ha aiutato il prete di Silvana, una brava persona. Appena assunto in cantiere ho chiamato Ion, perché cercavano altri muratori. Abbiamo preso una casa in affitto, ci siamo messi in regola. Io a Suceava, fino al 2000, facevo il panettiere sotto padrone. Prendevo trenta euro al mese, bastavano appena per mangiare. Ma volevo comprarmi una casa, per sposare Stefanica. Un appartamento con sala, cucina, camera da letto e bagno allora si poteva comprare con cinque o seimila euro. Per questo sono partito per l´Italia, alla ricerca di uno stipendio più alto. Ho messo da parte qualche risparmio ma adesso nella mia città lo stesso appartamento costa dai cinquantamila ai sessantamila euro».
Florina, la moglie di Ion, è arrivata all´inizio del 2004. «A Suceava lavoravo in una grande azienda tessile, proprietà di italiani, ottocento operaie su due turni. Facevamo anche le divise della polizia italiana. Otto, dieci ore di lavoro e cinquanta euro al mese. Ero rimasta in Romania per risparmiare ma anche là la vita costa ormai come in Italia. L´olio di semi di girasole costa due euro, la carne dai cinque ai dieci euro. Sono venuta qui, con mio marito, ma per ora ho trovato solo poche ore di lavoro, come donna delle pulizie». Un viaggio a casa durante il mese di ferie, per vedere i figli che crescono. «Anche loro vengono a trovarci, ci abbracciano ma dicono che in Italia stanno bene solo in vacanza. Vogliono studiare e trovare il lavoro in una Romania che sta crescendo bene».
A Suceava sono rimasti gli anziani e i ragazzini. «Nell´ultimo viaggio - dice Ion Braneanu - non ho incontrato nessun amico. Sono tutti qui in Italia, in Spagna, in Francia. Là sono rimasti solo quelli che hanno un bel pezzo di terra e i padroni dei grandi negozi. A casa mia ho lavorato per sedici anni in una vetreria. Si faceva tutto a mano: bicchieri, bomboniere, come a Venezia. Nel 2002 prendevo ottanta euro e avevo già i due figli. Riuscivo a mangiare solo perché mia madre aveva un pezzetto di terra e mi dava le patate, le verdure… Io sarei anche rimasto, ma la vetreria era in crisi e ci hanno lasciato tutti a casa. Per questo, quando mio fratello mi ha telefonato per dirmi che c´era questo posto da muratore, più di mille euro al mese da subito, quasi non riuscivo a crederci».
Florian Costel è in partenza per la Romania. «Starò via due settimane, pronto però a tornare prima se arriva la telefonata di un cantiere. Vado al cimitero, da mio padre Ioan. È morto nel 2001, quando io ero in Italia senza documenti. Non ho potuto andare al suo funerale. Sette anni dopo la morte si va al cimitero, si prega sulla tomba, e poi a casa si fa la pomana che è una festa dove parenti e amici sono invitati a mangiare gratis. Si dice che mentre tu mangi anche il defunto mangia nell´alto dei cieli ed è contento».
La tavola della famiglia Braneanu è ancora piena del cibo della Pasqua ortodossa, arrivata una settimana fa. Ci sono anche le uova colorate di rosso. Si battono una contro l´altra non per gioco, come in Italia, ma per celebrare un rito. «La preghiera è sempre quella. "Hristos a inviat", "Adenarat a inviat". Continuerà fino all´Ascensione ma quel giorno le uova saranno bianche». Un invito a pranzo. Una raccomandazione. «Può scrivere che ci sono anche romeni che sono brave persone? Noi a Suceava diciamo che non si può mettere tutti nella stessa pentola. Si dice anche in Italia?».

Repubblica 4.5.08
Boccioni, le lettere del suo amore proibito
di Ester Coen

È l´estate 1916 e tra il fronte della guerra italo-austriaca e le isole Borromee si muove un bizzarro triangolo: Umberto Boccioni, giovane artista appassionato, Vittoria Colonna, aristocratica con grande uso di mondo e suo marito Leone Caetani. Ora un carteggio ritrovato quasi per caso da Marella Caracciolo Chia racconta la loro storia

Segnati da un toccante contrasto tra il gesto della pittura e quello di una attiva adesione alla realtà politica e militare, gli ultimi due anni della vita di Umberto Boccioni riassumono le vicende umane di una personalità attraversata nel profondo dai mutamenti artistici e sociali di un´Italia dai mille contrasti. Lo strappo violento con i compagni nel disperato tentativo di difendere l´identità futurista costruita a colpi di teorie o di strategie dirette e istintive, la realtà sociale di un paese lacerato tra interventismo e neutralità, il desiderio grandissimo di spingere la ricerca verso un limite di cui ha smarrito la misura, disegnano il quadro di un artista tormentato, eppure senza tregua arso dalla fiamma bruciante di una vitalità straordinaria.
Il riflesso di questa inquietudine si legge nella sua opera, si legge nell´ultimo diario di guerra scritto tra l´agosto e il novembre del 1915, si legge ancora nelle lettere ad amici e parenti. Il ritrovamento inaspettato di un nuovo gruppo di lettere, chiuse in un baule, forse a custodire il segreto di una passione, aggiunge un´importante nota all´intendimento non solo degli ultimi giorni di vita, ma di un periodo alquanto oscuro nell´attività di Boccioni. Queste lettere sono ora pubblicate come traccia di un canovaccio per una storia inedita, l´ultima nella breve esistenza dell´artista, una storia vissuta con la frenesia e con l´esaltazione di un´anima istintiva la cui eccitata sensibilità a tratti registra il presentimento di una fine vicina.
Marella Caracciolo, cui si deve il ritrovamento di queste missive, riemerse grazie alla sua perseveranza nel ricostruire la vita di Leone Caetani, quindicesimo duca di Sermoneta, viaggiatore, orientalista e marito di Vittoria Colonna, ha vivacemente ricomposto l´intreccio che accosta nell´arco di un tempo ridottissimo l´esistenza di personalità così diverse, eppure così straordinarie. La leggerezza mondana e aristocratica di una donna dalle alte frequentazioni, lo spirito introverso di un marito taciturno dagli interessi per culture e filosofie lontane, la travolgente natura di un artista giovane dalle grandi ambizioni rivoluzionarie, l´animo sofferente di un grande musicista ostile ai minacciosi venti di guerra, la figura cosmopolita di un raffinato pianista filantropo si incontrano fugacemente attorno alle acque del Lago Maggiore nell´estate che precede il dramma della morte di Boccioni.
Scritto con la delicatezza di chi vuole assistere a un episodio senza per questo dovergli annettere un giudizio critico, Una parentesi luminosa, per i tipi dell´Adelphi, sfiora argomenti problematici e allo stesso tempo restituisce la grazia di un amore sbocciato in quel clima saturo di forti emozioni intellettuali. A Pallanza, nella Villa San Remigio del Marchese Silvio Della Valle di Casanova, su invito di Ferruccio Busoni, a sua volta ospite dell´illustre ammiratore, Boccioni lavora con impeto e concentrazione al ritratto del maestro.
In quel piccolo cenacolo artistico, pur nella fosca atmosfera di un´Italia in guerra, gli incontri sono roventi e, dal minuzioso registro di parole trascritte nel libro, stilla l´ansia irrefrenabile di chi tenta di inseguire e bloccare il tempo che fugge. Con la stessa foga con la quale, camice bianco, tavolozza in mano e cappello in testa, Boccioni attacca a colpi di pennello la grande tela. Si è molto parlato per quest´opera di una ripresa di maniera cézanniana, di un processo di revisione, iniziato due anni prima, al quale l´artista aveva sottoposto il suo intero universo creativo. Se si può parlare di un ritorno alla figura, in quell´epoca di elettrizzata adesione ai moti politici e sociali, questo non è certo segnale di sconfitta né di un ritorno a prassi o a regole aspramente combattute. È l´effetto di una profonda stanchezza spirituale, di una delusione momentanea, di uno spostamento di forze verso un idealismo più dinamico e attivo. Con lo sfaldamento di un´energia tesa alla creazione e votata al principio di un´idea immateriale, un´idea di "terribilità" che può intuire solo chi è interiormente scosso dal fuoco dell´arte.
Nel Ritratto di Ferruccio Busoni si coglie, tuttavia, il risveglio della sensibilità cromatica e architettonica del più alto Boccioni. Il blu oltremare, il verde squillante, quelle note di rossi splendenti dagli improvvisi bagliori di luce, riportano la tela a una dimensione "musicale", seppure dissonante negli stridori degli incastri di piani e volumi. La sveltezza della mano scorre con la stessa rapidità bloccata dall´obiettivo fotografico, dove il corpo di Boccioni sembra muoversi al ritmo delle sue accensioni, per una rinascita di colore e luce. Verso uno stile più sintetico e serrato, come raccontava in quei giorni a un amico, verso un nuovo stato d´animo, più profondo ancora forse, segno di una corsa verso una rinnovata «linea ascensionale».

Repubblica 4.5.08
Lévi-Strauss elogio del lavoro manuale
Intorno all'uomo

La cultura materiale Le discipline sociali e umane non rientrano nelle scienze cosiddette "dure", dove le ipotesi possono essere rifiutabili... Dietro la cultura materiale, i costumi, le credenze e le istituzioni, tentiamo di capire quel che avviene nella coscienza degli uomini, e al di qua di essa Nessuno fra noi potrà mai affermare che il livello in cui ha scelto di collocarsi è l´ultimo; e nemmeno che, sotto tale livello, se ne possa raggiungere un altro, e così via indefinitamente...
Il più grande antropologo vivente, insignito di una serie di premi e onorificenze per la sua lunga carriera di studi, sta per raggiungere il traguardo dei cento anni Pubblichiamo un suo intervento inedito che, per la prima volta, mette al centro della riflessione l´Italia e la sua cultura e fa il bilancio di una proficua vita di ricerca

In Italia sembra esista un detto: «Avere più debiti della lepre». Perché la lepre? Forse perché, come dice il nostro La Fontaine, è un animale preoccupato. Ebbene, se mi sento carico di debiti e quindi «lepre» nei vostri confronti, siate certi [...] che nessuna preoccupazione mi opprime, ma solo un senso di confusione e di gratitudine per l´onore che oggi mi fate.
La mia gratitudine va anche ai fondatori del Premio Internazionale Nonino, poiché nulla mi può gratificare come un premio collegato nel pensiero dei suoi creatori ad altri - i premi Risit d´Âur -, concepiti per onorare dei contadini e dei ricercatori dediti a difendere e illustrare le tradizioni contadine.
Posso permettermi una confidenza? Nel corso della mia vita, ho ricevuto un buon numero di onorificenze, valsemi non tanto per i miei modesti meriti quanto per l´estrema lunghezza di una carriera attiva, durata mezzo secolo. [...] Nessun altra m´ha inorgoglito più della medaglia [...] di «Migliore Operaio di Francia». Io ho infatti il gusto del lavoro manuale, e solo per averlo spesso praticato ho potuto, in uno dei miei libri, delineare la teoria di ciò che in francese chiamiamo bricolage. In verità, sarei lieto se un intellettuale, una volta in pensione, fosse obbligato dalla legge a cimentarsi con un altro mestiere; in tal caso, avrei scelto senza esitare una professione manuale.
Perché questo? Dopo l´avvento della civiltà industriale, il lavoro è diventato un´operazione a senso unico, nella quale l´uomo - lui solo attivo - modella una materia inerte, e le impone sovranamente le forme che le convengono.
Le società studiate dagli etnologi hanno del lavoro un´idea ben diversa. Esse lo associano spesso al rituale, all´atto religioso, come se, in entrambi i casi, il fine fosse quello di intrecciare con la natura un dialogo in virtù del quale natura e uomo possono collaborare: l´una concedendo all´altro ciò che lui spera, in cambio dei segni di rispetto, o persino di pietà, cui l´uomo si obbliga nei confronti di una realtà collegata all´ordine soprannaturale.
Ancor oggi sussiste una connivenza tra questa visione delle cose e la sensibilità del contadino e dell´artigiano tradizionali. Costoro infatti, siccome continuano a mantenere un diretto contatto con la natura e con la materia, sanno di non avere il diritto di violentarle, ma devono cercare pazientemente di capirle, di sollecitarle con precauzione, direi quasi di sedurle, attraverso la dimostrazione perennemente rinnovata di una familiarità ancestrale fatta di cognizioni, di ricette e di abilità manuali trasmessi di generazione in generazione.
Ecco perché il lavoro manuale, meno lontano di quanto sembri da quello del pensatore e dello scienziato, costituisce anch´esso un aspetto dell´immenso sforzo dispiegato dall´umanità per capire il mondo: probabilmente l´aspetto più antico e durevole, quello che, più prossimo alle cose, è anche il più adatto a farci concretamente cogliere la loro ricchezza, e ad alimentare la meraviglia che proviamo allo spettacolo della loro diversità.
Ci si prodiga oggigiorno ad allestire banche di geni per preservare il poco che sopravvive delle specie vegetali originali create nel corso dei secoli da modi di produzione totalmente diversi da quelli ora praticati. Si spera anche di eludere i pericoli della cosiddetta «rivoluzione verde», vale a dire un´agricoltura ridotta a poche specie vegetali di grande rendimento, ma tributarie di concimi chimici e sempre più vulnerabili agli agenti patogeni.
Non dovremmo forse andare ancora più in là e, non contenti di conservare i risultati di quei modi di produzione arcaici, sforzarci anche di tutelare gli insostituibili savoir-faire grazie ai quali quei risultati furono acquisiti? Chissà, infatti, se le minacce che pesano attualmente sulla civiltà occidentale non li renderanno, un giorno, provvidenziali per coloro che verranno dopo di noi.
Tale è, mi pare, la filosofia che ha ispirato i fondatori dei premi al cui novero appartiene quello che oggi ricevo. E se l´avete, quest´anno, conferito a un etnologo, la ragione mi sembra stia nel fatto che questa disciplina si adopera, anch´essa, a preservare la memoria dei generi di vita e di nozioni che, nei paesi esotici e nei nostri, si sono meglio mantenuti fra piccoli gruppi umani rimasti a diretto contatto con la natura. Jean-Jacques Rousseau lo diceva già nell´Emilio: «Proprio nelle province più remote, dove minori sono il movimento e il commercio, dove gli stranieri transitano meno, e meno si spostano i nativi, proprio lì bisogna recarsi a studiare il genio e i costumi di una nazione […] Studiate un popolo fuori dalle sue città, perché non è nelle città che lo conoscerete […] è la campagna a costituire il paese».
Ebbene i ricercatori italiani sono stati fra i primi a metterla in pratica questa dottrina. Verso la metà del Diciottesimo secolo, uno di essi, Giuseppe Baretti, indagava già su usi e costumi popolari. Curiosità che il razionalismo romantico avrebbe sviluppato nel corso del Diciannovesimo secolo e che, nell´ultimo quarto, dà luogo alla creazione di quelle prodigiose fonti documentali che sono [...] l´Archivio per lo studio delle tradizioni popolari e la Rivista delle tradizioni popolari italiane, che raccolgono i lavori di una pleiade di studiosi fra i quali mi limiterò a citare il nome giustamente celebre di Giuseppe Pitrè.
Mi sono spesso chiesto perché mai l´Italia sia uno dei primissimi paesi dal quale mi sono giunti segni di attenzione. In nessun altro si è manifestata altrettanta sollecitudine nel tradurmi. Fra la pubblicazione francese e quella italiana di taluni miei libri, anche voluminosi, sono intercorsi tre anni, o due, o addirittura uno solo. Paolo Caruso, che fra l´altro ha tradotto con talento Antropologia strutturale e Il pensiero selvaggio, certo si ricorderà di nostre vecchie conversazioni: esse furono, credo, le mie prime conversazioni con uno scrittore straniero pubblicate dalla stampa. E si ricorderà anche che con la Rai, più di vent´anni fa, lavorammo alla mia prima trasmissione televisiva, nelle gallerie del Musée de l´homme e nei giardini zoologici parigini, dove egli mi faceva raccontare certi miti sudamericani davanti alle gabbie degli animali che ne sono i protagonisti…
Forse queste testimonianze di interesse si spiegano in base a due tradizioni intellettuali in cui il vostro paese si è particolarmente distinto. In primo luogo, come ricordavo poco fa, una curiosità appassionata per le usanze e i costumi popolari considerati nella prospettiva più concreta; e poi un´altra ben diversa, fiorita verso la fine del Diciannovesimo secolo, per ricerche d´ordine formale, che hanno dato origine alla scuola italiana di logica matematica. Forse mi illudo, ma mi piace immaginare che abbiate potuto riconoscere nei miei lavori un tentativo, certo rustico e maldestro, di gettare un ponte fra i due ambiti. Poiché, partendo dalle credenze e dalle rappresentazioni dei popoli viventi in stretta intimità con la natura e pensanti in termini di colori, rumori, odori, tessiture e sapori, ho cercato di allargare i confini della nostra logica per afferrare meglio certi meccanismi ereditari che presiedono all´attività intellettuale. Giuseppe Peano, geniale fondatore della scuola matematica italiana, si era innamorato della linguistica e della storia delle idee: tradizione che risale a Vico, nella cui scia mi hanno talvolta collocato.
Sarei l´ultimo a pensare che dai risultati che ho creduto di raggiungere consegua alcunché di definitivo. Le discipline sociali e umane non rientrano nelle scienze cosiddette «dure», dove le ipotesi possono essere rifiutabili. Non siamo ancora giunti a questo stadio, e io dubito che ci si possa giungere mai. Infatti, dietro la cultura materiale, i costumi, le credenze e le istituzioni, tentiamo di capire quel che avviene nella coscienza degli uomini, e al di qua di essa. Nessuno fra noi potrà mai affermare che il livello in cui ha scelto di collocarsi è l´ultimo; e nemmeno che, sotto tale livello, se ne possa raggiungere un altro, e così via indefinitamente… Ho soltanto aspirato a render conto di fenomeni molteplici e complicatissimi in una maniera più economica, e più soddisfacente per l´intelletto, di quanto non si facesse prima. Ma con la certezza che questo stadio è provvisorio e che altri, migliori, gli succederanno.
Mi basta sapere che il lavoro di tutta una vita non è stato completamente inutile, e che può servire da trampolino da cui altri prenderanno slancio per catapultarsi più avanti. Per un uomo arrivato all´imbrunire della sua carriera, è confortante, anzi esaltante, sentirsi garantire che il suo insegnamento e i suoi scritti offrono ancora un tema di riflessione. [...]

Questo testo inedito è stato letto da alla cerimonia di conferimento del Premio Internazionale Nonino il primo febbraio 1986 a Percoto in provincia di Udine. Si ringraziano Claude Lévi-Strauss e Antonella Nonino per l´autorizzazione a riprodurlo. Diritti riservati Premio Nonino

Repubblica 4.5.08
L'esploratore dell'Altro che è in ciascuno di noi
di Marino Niola

«In fondo sono strutturalista fin dalla nascita. Mia madre mi ha raccontato che, ancora incapace di camminare e molto prima di saper leggere, un giorno ho gridato dal fondo della mia carrozzina che le prime tre lettere dell´insegna del macellaio (boucher) e del panettiere (boulanger) dovevano significare "bou" perché erano le stesse in entrambi i casi. A quella età già cercavo delle invarianti». Ricordando questo episodio della sua primissima infanzia, Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo di tutti i tempi, ci dà una chiave proustiana per spiegare la genesi di quello strutturalismo che lo ha proiettato nell´Olimpo dei maîtres à penser del Novecento. Per aver trasformato la conoscenza dell´Altro, lo studio delle differenze culturali, in coscienza critica dell´Occidente. In un nuovo modo di pensare l´uomo.
Claude Lévi-Strauss, che sta per compiere cento anni, ha incarnato, più di Sartre, di Nizan e di Foucault, l´ansia delle generazioni del dopoguerra di spezzare gli angusti schemi eurocentrici che identificavano la civiltà occidentale con la civiltà tout court. Centro e motore dell´umanità. In questo senso l´autore di Tristi Tropici si può considerare il Copernico delle scienze umane.
Nessun antropologo ha esercitato un´influenza altrettanto vasta al di fuori della propria disciplina. Dalla filosofia alla storia, dalla politica alla critica letteraria, dalla linguistica alla sociologia, dalla poesia alla psicanalisi, dall´arte alla musica contemporanea, l´opera di Lévi-Strauss è ricaduta come una pioggia benefica su questi campi dando loro nuova linfa. L´uscita delle Strutture elementari della parentela nel 1949 fu salutata da Simone de Beauvoir come una pietra miliare nella conoscenza dell´uomo. E Il Crudo e il Cotto, il primo dei sei volumi consacrati allo studio dei miti, diventò addirittura musica nelle mani di Luciano Berio che lo inserì in una sua sinfonia. Mentre Max Ernst e Alberto Burri hanno tradotto le sue opere in pittura. Un´influenza tanto vasta ha diverse ragioni. Il disegno ad ampio raggio del progetto antropologico, le sue implicazioni filosofiche, un´erudizione sterminata e preziosa che consente di costruire collegamenti tra diversi campi del sapere umanistico e scientifico, e infine una grande scrittura ricca di vibrazioni letterarie.
Capolavori come Tristi Tropici, Il pensiero selvaggio, Antropologia strutturale, nascono da questo personalissimo mélange, in buona parte inimitabile perché frutto di un talento eterodosso e senza confini. Che ha sempre portato Lévi-Strauss a pensare in grande. Senza tuttavia perdersi nell´astrazione pura che parla dell´Uomo con la maiuscola dimenticando gli uomini in carne ed ossa. E al tempo stesso senza smarrirsi nella selva dei particolarismi e dei localismi. E, nella scia dei suoi grandi modelli - Vico, Rousseau, Freud e Marx - il professore del Collège de France ha cercato di connettere, come due facce della stessa moneta, l´universalità della natura umana e la diversità delle singole culture. Un´antropologia degna del suo nome non può, infatti, limitarsi ad un inventario notarile di usi, costumi e tradizioni. Ma deve mettere insieme ciò che fa la differenza fra le società con ciò che ci rende simili, tutti parenti tutti differenti. E che consente di riferirsi ai membri della specie con lo stesso nome "uomo".
L´idea di fondo di Lévi-Strauss è che costruzioni culturali come il linguaggio, la mitologia, il matrimonio, l´arte, la tecnica hanno solo in parte origini storiche, sociali e ambientali, ma per l´altra parte obbediscono a regole universali insite nel funzionamento della mente. Una posizione del genere, in un´epoca in cui le scienze sociali erano dominate da teorie empiriste come il relativismo e il comportamentismo, è costata al grande antropologo accuse d´idealismo, di antistoricismo, di antiumanismo. Lo stesso Lévi-Strauss, peraltro, ha affermato più volte che il compito delle scienze umane non è di costruire l´uomo, ma di dissolverlo. Ma in realtà la provocazione levistraussiana nasce proprio da quell´attenzione costante al doppio filo che lega società e natura.
Nei primi anni Cinquanta, con una sensibilità ecologica in largo anticipo sui movimenti ambientalisti attuali, l´antropologo francese denunciava il pericolo di un umanesimo narcisisticamente antropocentrico che dimentica i diritti del vivente in nome di un´idea astratta della vita, che fa dell´uomo il signore unico del pianeta e della sua riproduzione il fine ultimo della natura.
Analizzando, anche sulle colonne di questo giornale, fenomeni particolari - come i miti degli indiani d´America, il matrimonio tra gli aborigeni australiani, il tempo libero tra i Nambikwara, la cucina in Francia, il turismo di massa, la scultura degli Irochesi, il ready made di Marcel Duchamp, la religione consumistica di Babbo Natale, il culto mediatico di Lady Diana, la poesia di Baudelaire e la musica di Wagner - ha sempre rivelato quanto in essi ci sia di universalmente umano. Il generale che si nasconde nel fatto più particolare. Coniugando il rigore dell´analisi scientifica con la sensibilità e l´immaginazione dello scrittore. E non a caso il suo Tristi Tropici - un autentico best seller, venduto in milioni di copie in tutto il mondo - è diventato uno dei grandi libri del nostro tempo, l´ultimo romanzo di formazione. Dove il racconto di viaggio e la scelta del mestiere di antropologo, vanno ben oltre la confessione individuale, à la Chatwin, per fare dell´antropologia stessa un sintomo del rimorso dell´Occidente che cerca di scoprire nelle altre civiltà i limiti della propria. Sottoponendosi alla prova delle Lettere persiane di Montesquieu che consiste nel guardare la propria identità, i propri costumi, le proprie credenze con gli occhi dell´altro. Ma soprattutto Lèvi-Strauss ci ha insegnato a cercare l´altro dentro di noi, a riconoscerlo anche all´angolo della strada e non solo negli scenari esotici della Melanesia o dell´Amazzonia che, nella loro rassicurante lontananza, tolgono al rapporto con l´alterità quella drammatica urgenza che le migrazioni e la globalizzazione hanno fatto esplodere.
E sessanta anni fa, quando il primo mondo ancora si cullava nell´illusione delle magnifiche sorti e progressive, Lévi-Strauss ha intravisto profeticamente il pericolo dell´integralismo religioso che, partendo dall´Islam avrebbe finito per contagiare il mondo cristiano, facendo della contrapposizione tra i due monoteismi, sempre più irrigiditi, un conflitto planetario fra due identità in armi. Tra due nemici per la pelle, che proprio nel demonizzare la differenza dell´altro finiscono per somigliarsi sempre di più.
Queste ed altre grandi questioni del presente, dal sovrappopolamento della terra al relativismo culturale, dal riaffiorare del mito al ritorno dei localismi, fino alla guerra del velo e alle modificazioni genetiche, si trovano tutte nell´opera di Lévi-Strauss. Con una formulazione sempre provocatoria e anticipatrice che rappresenta l´eredità preziosa dell´ultimo dei classici.

Corriere della Sera 4.5.08
Nel Salernitano Cava de' Tirreni, l'assessore dell'Udeur: ronde notturne intorno alle ville
Il sindaco dà il pitbull ai vigili
La giunta di centrosinistra: cani anche per difendersi
Oggi i tre cani poliziotto debuttano per le strade. L'assessore Senatore: «Proteggeranno le nostre forze dell'ordine»
di Fabio Cutri

MILANO — I manganelli di Salerno e gli spray al peperoncino di Bologna? Armi vecchie, si può passare a quelle non convenzionali. Dopo un anno di dibattiti e soprattutto di addestramenti, da domani mattina i vigili urbani di Cava de' Tirreni si presenteranno per le strade con i pitbull al seguito. Si comincia fuori dalle scuole, per dare la caccia agli spacciatori, ma per i nuovi tutori dell'ordine a quattro zampe è previsto anche il servizio notturno: il debutto nelle ronde è solo questione di giorni. Giusto il tempo di ambientarsi un po' con i nuovi colleghi.
Per la verità il pitbull è uno soltanto e, per la precisione, si tratta di un «amstaff», ovvero una razza che, per quanto di aspetto e prestanza decisamente simili, non è proprio la stessa del meno socievole tra i migliori amici dell'uomo. Gli altri due sono dei più rassicuranti pastori tedeschi. Resta il fatto che grazie a Diana, Kim e Johnny — questi, nell'ordine, i nomi dei cani poliziotto — la corsa alla sicurezza della città fa un passo ulteriore. E stavolta grazie a una giunta di centrosinistra.
L'artefice dell'iniziativa è Alfonso Senatore, energico assessore alla Sicurezza con un passato da missino e un presente nell'Udeur.
Il suo sindaco, con il quale assicura di andare d'accordissimo — l'ex Pci e ora Pd Luigi Gravagnuolo —, si è lasciato convincere non senza qualche resistenza. La domanda viene infatti spontanea: ma sarà davvero il caso di difendere i cittadini proprio con un pitbull?
«È un cane vittima di false dicerie che io intendo sfatare — dice serafico Senatore —. Se gli animali vengono allevati con amore fin da piccolissimi non possono dare nessun problema. E poi Diana è la più cucciolona del gruppo, durante il corso è stata l'ultima a superare il test dell'aggressività. E pensare che ha una forza mascellare pari a quella di una tigre...». Di fronte al dispiegamento di un simile cane, ci si potrebbe aspettare che nella cittadina salernitana quello della sicurezza sia un problema da bollino rosso. E invece niente: «È il posto più tranquillo d'Italia — continua l'assessore —. Ho già buttato fuori gli zingari, ho tolto i bambini ai rom, ho cacciato via i vu' cumprà». Ecco, e allora perché i cani? «Sono convinto che anche un piccolo centro come il nostro debba dotarsi di unità cinofile: per impedire che la droga circoli nelle scuole, per individuare immediatamente i dispersi in caso di alluvioni, per cercare un bambino smarrito. E poi certo, anche per proteggere i nostri vigili e i volontari quando pattugliano le ville durante la notte». Dopo sei mesi di addestramento nel centro di Marano i tre neo arruolati sono stati assegnati alle rispettive «compagnie »: Kim «il bello» (è nipote di un campione internazionale) affiancherà i vigili urbani; Johnny «il secchione» (tanto bravo a scuola da meritarsi un master supplementare a Roma in tecniche di salvataggio) la Protezione Civile; Diana «la buona» (si spera) le pattuglie dei Rangers, un corpo di volontari che prende ordini dalla polizia municipale.
E i cittadini? L'assessore Senatore assicura di averli convinti con i risultati. E pazienza se i suoi metodi lo fanno passare da leghista: «Se scegliere la sicurezza come priorità è leghismo, perfetto, mi va benissimo». Chissà se anche su questo è riuscito a convincere il sindaco.

Corriere della Sera 4.5.08
Il saggio In libreria «L'uomo che non credeva in Dio», nuova opera del fondatore di «Repubblica»
I temi «Il volume è una ricerca dei nessi che ci sono tra la vita e i pensieri. Non un racconto di fatti»
I dubbi, la ricerca, la fede Scalfari indaga se stesso
Un'autobiografia come strumento di conoscenza del mondo «Il titolo, con il verbo all'imperfetto, lascia aperta la conclusione»
dialogo tra Claudio Magris ed Eugenio Scalfari

«Io sono Kim», dice il protagonista del celebre romanzo omonimo di Kipling, ma subito aggiunge: «Chi è Kim?». Il pronome personale sembra la realtà più ovvia e indiscutibile e si rivela invece la più precaria; «conosci te stesso» - chi conosce chi? Non è solo l'altissima inquietudine religiosa di Agostino a porre questa radicale domanda, talvolta basta un piccolo dolore fisico a scompaginare il nostro io: un dente che d'improvviso fa male e che sino a un attimo prima era parte di noi, era noi, si rivela estraneo e nemico, qualcosa di nostro contro di noi. È la continuità a venir messa in dubbio, l'identità dell'io di ieri con quello di oggi. Soprattutto l'io che scrive si rivela un altro, come voleva Rimbaud: «Di chi è questa voce spaventosa? » si chiede, in un racconto di Hoffmann, un poeta rileggendo una propria poesia.
Chi ha scritto L'uomo che non credeva in Dio,
questa singolare autobiografia classicamente composta e possente nella sua classica scrittura, che tuttavia indaga inquieta il suo tessuto, quasi per disfarlo, come il lavoro notturno di Penelope? L'ha scritto certo chi la firma, ovvero un protagonista di primo piano, da decenni, del giornalismo e della politica italiana, il quale imprime così un sigillo di saggezza alle sue battaglie e avventure giornalistiche, editoriali, politiche, culturali, che hanno fatto di lui una figura centrale, ammirata celebrata invidiata temuta amata odiata, della vita nazionale. Maestro nel capire e indirizzare il caotico, ambiguo ed effimero polverio quotidiano che prende forma nelle pagine del giornale e negli eventi pubblici, questo io narrante si rivolge qui invece al senso e allo sgomento di ciò che trascende il tempo. Ma questo io più profondo che si pone in dubbio è solidale con quello socialmente, politicamente, culturalmente vittorioso che porta il nome di Eugenio Scalfari? Gli aggiunge una valenza spirituale, una dignità di saggio, oppure gli sfugge, lo inquieta, lo mette in imbarazzo, come un bambino o un ragazzo malizioso, non troppo convinto di essere cresciuto? Il vero io che scrive questo libro di Scalfari è anche in conflitto con lui; i guizzi e gli affondi della sua scrittura recalcitrano a quella ben diversa scrittura «professionale… funzionale, utilitaria» del giornalista e scrittore politico Eugenio Scalfari, come aveva detto egli stesso nel suo Incontro con Io.
Ma cominciamo banalmente dal «chi è» del titolo. All'inizio, prima di leggere il libro, mi aveva un po' infastidito e mi sembrava strano che un autore, il quale nel Labirinto aveva scritto pagine di serenità classica, lucreziana sul rapporto fra l'io e i suoi elementi in cui è destinato a dissolversi tornando nel grande fluire di tutte le cose, potesse indulgere a una muscolosa ostentazione di quell'ateismo fondamentalista oggi così diffuso e speculare alla pacchiana religioseria altrettanto diffusa. Infatti nel tuo libro non ce n'è traccia. Esso è improntato, nella sostanza e nella forma — che sono poi la stessa cosa — al rispetto, che per Kant è la premessa di tutte le virtù; rispetto per le fedi, i dubbi, i sentimenti, gli errori, la ricerca di verità, la vita. È questo il senso poetico del libro.
Fondatore di giornali e, credo, restio a pregare, non accetti la tesi di Hegel secondo cui nel mondo contemporaneo la lettura del giornale del mattino ha sostituito la preghiera del mattino quale contatto con l'universale. Si può allora intendere il titolo del libro come un autoironico understatement, un io che si interroga su se stesso e scopre di potersi definire solo per sottrazione, dicendo ciò che non è, che non sa, ciò in cui non riesce a credere?
SCALFARI — Ti dirò che è stata, per me e per il mio editore, una scelta pensata a lungo. Ce n'erano altri in alternativa. Uno era, molto semplicemente,
La mia vita, i miei pensieri. L'abbiamo scartato perché ci sembrava piatto, puramente dichiarativo. Un titolo, che sia quello d'un articolo di giornale o d'un libro, deve cantare, deve avere uno spessore musicale, una sua metrica e una sua risonanza. Io poi, per ragioni professionali, di titoli ne ho fatti tanti e quindi conosco la forma estetica che debbono avere.
Un'altra ipotesi è stata La gabbia dell'io che è il titolo di uno dei capitoli. Questo cantava abbastanza, a me sembrava efficace, ma alla fine concludemmo che era troppo filosofico, mentre il mio non è un testo di filosofia o di psicologia. Un altro che a me piaceva molto era Le stelle danzanti,
una frase di Nietzsche che cito e che ha una forza poetica notevole. Forse troppo poetica e poco significativa. Così, alla fine, siamo approdati al titolo attuale.
Ma tu mi hai posto un'altra questione. Mi hai chiesto se questo titolo dia conto di un io (il mio) che s'interroga su se stesso e «scopre di potersi definire solo per sottrazione. dicendo ciò che non è». Probabilmente hai ragione. Del resto l'identità di un qualsiasi soggetto si può definire sia in positivo sia per sottrazione. La luce non è la tenebra, il bene non è il male, la vita non è la morte e viceversa. Se si vuole, questo modo di definire un ente e la sua soggettività è alla base di qualsiasi dialettica. Aggiungo che L'uomo che non credeva in Dio accenna, con quel verbo all'imperfetto, al passato, ad un racconto, ad una biografia e in effetti è uno degli elementi costitutivi del libro. E lascia un dubbio sulla conclusione. Ecco le ragioni della scelta.
MAGRIS — Il libro è un'originale e freschissima mescolanza di intimo vissuto personale, vicende storico-politiche e domande filosofiche nate per necessità da quelle esperienze; i paesaggi o i rosari dell'infanzia, la fondazione e direzione di
Repubblica e dell'Espresso, gli interrogativi sul senso del vivere. L'attenzione si concentra non sugli affetti fondamentali, concentrati in poche righe, quanto su dettagli apparentemente minima-li, un odore di infanzia o un colore piuttosto che una storia d'amore. D'altronde anche le esperienze pubbliche, così rilevanti, sono ricordate nei nudi elementi essenziali, quali dati di una biografia. Si tratta di pudore? Perché non ripercorrere i momenti più duri, forti, fatti di audacia, fatalmente anche di errori e contraddizioni, del tuo agire, dei giornali che hai fondato e diretto, della politica per la quale o contro la quale hai combattuto?
SCALFARI — Certamente c'è stato anche un sentimento di pudore, ma la vera ragione di questa scelta è un'altra. Non volevo scrivere e infatti non ho scritto un'autobiografia; mi è stato parecchie volte proposto di farlo ma ho sempre rifiutato. Non mi ritengo così importante da dover raccontare i miei tanti incontri con le più varie personalità della vita politica, economica e culturale italiana e anche internazionale in un lungo arco di sessant'anni. Sono un po' narcisista come del resto lo sono tutti i viventi, ciascuno dei quali si sente il centro del mondo come pure ho scritto in questo mio libro; narcisista quel tanto che è inevitabile ma non fino al punto di tediare me stesso e gli altri raccontandomi.
Questo libro è una ricerca dei nessi che ci sono tra la vita e i pensieri. Il mio vissuto personale e i suoi rapporti con i miei pensieri costituiscono quindi un materiale documentario. Nessuno meglio di te sa che per uno scrittore l'impegno più difficile sul quale si gioca la qualità dell'opera è costituito da uno stile, da una tonalità, quello che nella musica è rappresentato dalla chiave musicale e dalle scelte tematiche. Una messa in do maggiore non è la stessa che si può scrivere in re minore. La chiave musicale di queste mie pagine è una sorta di «toccata e fuga». Se mi fossi indugiato oltre il necessario a raccontare i fatti della mia vita oppure a tentare una sistematizzazione di alcuni principi filosofici in forma quasi di trattato o di manuale, avrei scritto una cosa diversa e probabilmente non adatta a me né, credo, ai miei lettori.
Del resto, dopo Nietzsche non è più possibile scrivere trattati di filosofia. L'autore di Zarathustra
è stato un grande filosofo moderno proprio perché ha rotto completamente con la trattatistica e la sistematica, perché al tempo stesso ha coltivato un pensiero profetico, immagini e delicatezze poetiche, trasporti mistici, ispirazioni melodiche. Insomma un artista e insieme un pensatore.
Alcuni filosofi venuti dopo di lui hanno avuto forse pensieri più compatti e hanno tentato di nuovo le strade della trattatistica e della sistematica, ma erano fuori tempo. La filosofia ha bisogno d'un linguaggio. Quello dei filosofi post-nietzscheani si è rivelato inadeguato, oscuro, noioso, poco comprensibile, gergale. Proust e Kafka hanno aperto scenari di vera e propria conoscenza filosofica molto più vasti di Heidegger e di Levinas. Il Socrate moribondo del Fedone e le pagine dell'Ecce Homo valgono assai più di qualche dissertazione ontologica. Perciò ho cercato di parlare per frammenti. Potrà piacere oppure no ma questa è la chiave, la cifra di questo mio lavoro.
MAGRIS — Pur non avendo nel libro il ruolo che ha nella tua vita, la politica è presente. Tracciando giustamente la distinzione fra politica e morale — anche, in una pagina forte e fulminea, all'interno della stessa persona — a un certo punto dici che il fondamento della politica non è la morale, il bene comune, bensì la pura volontà di potenza nietzscheana. Eppure, parlando di alcuni politici — La Malfa, il gruppo del Mondo e altri — li ammiri perché hanno saputo trasferire nelle forme e nei modi della politica un valore morale. Non si potrebbe allora dire, con Max Weber, che il conflitto non è fra politica e morale bensì fra l'etica della convinzione, che a nessun costo accetta di violare i propri valori, e l'etica della responsabilità — quella della politica — la quale pensa anche e soprattutto alle conseguenze dei propri atti e può dunque trovarsi dinanzi alla tragica necessità di transigere sui propri valori, ma non in nome della volontà di potenza, bensì del bene comune e dunque sempre di un valore morale?
SCALFARI — Non starò a citare il Machiavelli né Vico. Citerò invece Benedetto Croce che è stato il mio primo maestro di filosofia. Da un pezzo ho abbandonato lo storicismo crociano ma alcune delle sue intuizioni si sono sedimentate nel mio modo di intendere la dialettica.
Parlando della vita pratica, cioè dell'agire concreto sulla realtà esterna, Croce distingue il momento economico che persegue l'utilità (la felicità?) del soggetto dal momento morale che persegue il bene comune. E dice che il secondo momento (quello del bene comune) contiene sempre inevitabilmente il momento utilitario. Per Kant la morale non è tale se c'è in essa una sola scheggia di utilità propria; per Croce al contrario non si dà alcuna azione, neanche la più morale e disinteressata, che non rechi felicità e piacere a chi la compie. Perfino l'azione eroica che può condurci alla morte per un ideale, perfino il nostro sacrificio compiuto a beneficio di altri, lo si compie perché ci gratifica. L'esempio massimo può esser indicato in Gesù di Nazareth, che sia visto come il figlio dell'Uomo animato da spirito profetico o come figlio di Dio che assume spoglie umane e umani sentimenti. Quando Gesù, nel giardino del Getsemani, si trova di fronte al compimento della sua missione, all'arresto, al processo e all'inevitabile martirio che culminerà nella crocefissione, egli è colto da tremore e invoca il Padre chiedendogli di allontanare da lui il calice della sofferenza. «Si stese in terra e invocò il Padre. Se tu vuoi allontana da me quel calice, ma se non vuoi sia fatta la tua volontà». Che cosa significa questo passo capitale che è ricordato nel mio libro? Gesù non riceve alcuna risposta e alcun segno dal Padre. Nessuna voce interiore lo induce a evitare l'arresto o a cambiar posizione durante il processo dinanzi al Sinedrio e poi dinanzi a Pilato, per ottenere un più mite verdetto.
Il significato di questa fermezza della vittima sacrificale dipende dal fatto che Gesù ha impostato tutta la sua predicazione sul suo ruolo di Salvatore, per il bene comune vuole ricostruire l'Alleanza tra Dio e il popolo di Dio e lo strumento è assumere su di sé i peccati del mondo. Questo compito «morale» può esser sopportato da un uomo o da un dio incarnato soltanto se la gratificazione che egli ne riceve è maggiore dei tormenti e della morte che lo attendono. Io penso questo. E questo dice anche Platone quando racconta di Socrate che, rifiutando di evadere dal carcere, beve la cicuta per affermare il principio del rispetto della legge per ingiusta che sia. La gratificazione per un dovere compiuto supera la sofferenza che ne deriva. Se non la supera, quel dovere sarà abbandonato e la sofferenza sarà evitata.
Torniamo al mio assunto quando scrivo che il fondamento della politica è la volontà di potenza. Essa è l'espressione più elementare e autentica dell'Io. L'Io nasce per affermarsi, sopravvivere, espandersi, conquistare ricchezze, territori, anime. Insomma potere. Talvolta si pone il fine del bene comune ed è il livello alto e nobile della politica. Ma poiché la visione del bene comune è pur sempre soggettiva, esso sarà perseguito e attuato da chi l'ha pensata e concepita. La volontà di potenza è dunque il motore della politica sia quando opera nei gironi inferiori sia quando si innalza verso la soglia della moralità.
Perfino le grandi religioni occidentali si muovono sull'asse della volontà di potenza. Vogliono convertire le genti alla propria verità. Non c'è bisogno del filo delle spade (che pure in tante occasioni è stato usato): anche nella predicazione missionaria e nel martirio esemplare splende un frammento della volontà di potenza. Possiamo coniugarla con il senso della convinzione e con quello weberiano della responsabilità; alla base resta la volontà del politico di attuare la sua visione del bene comune che marcia sulle proprie gambe e sulle proprie spalle. La sola differenza — peraltro essenziale — è tra chi agisce per il bene comune e chi per il bene proprio. Ma il secondo in quanto sentimento permane nel primo.
Ti ringrazio, caro Magris, per l'attenzione critica con la quale hai letto il mio libro e per le questioni e le domande che mi hai rivolto stimolando alcuni chiarimenti che sono per me ulteriori atti conoscitivi. Accade di rado che uno scrittore conversi con un altro di problemi che riguardano il senso della vita. Sembra un argomento da evitare. Noi qui l'abbiamo affrontato. Mi sembra un fatto positivo e te ne sono grato.

Corriere della Sera 4.5.08
Neuroscienze Scoperti i meccanismi della capacità decisionale
Quanto tempo abbiamo per cambiare idea
Individuati anche i neuroni del «libero arbitrio»
Due recenti ricerche rivelano che dietro ogni scelta c'è un'attività cerebrale più complessa di quanto si ritenesse
di Cesare Peccarisi

Quando ci siamo recati alle urne, abbiamo fatto una libera scelta. Ne siamo tutti convinti. Ma potrebbe non essere così. E non ce lo dicono dei politologi, ma dei ricercatori.
Secondo vari scienziati, infatti — da Benjamin Libet della California University, a Patrick Haggard dell'Università di Londra — la sensazione di essere sempre liberi di cambiare idea è solo un'illusione, perché le nostre decisioni sono determinate da processi mentali inconsci iniziati tempo prima. Ora le teorie dei due studiosi, e di molti altri, hanno trovato conferma in uno studio pubblicato recentemente su Nature Neuroscience.
Per restare all'esempio "elettorale", la scelta di un simbolo avverrebbe "ben" un secondo prima che la matita tracci la croce (già molto per il sistema nervoso) e in un'area del cervello diversa da quella che farà muovere la mano.
Quest'area, poi, non è, come si pensava, la cosiddetta area motoria supplementare (un'anticamera intelligente dell'area motoria che ci fa eseguire le azioni), bensì la più "nobile" corteccia frontopolare (zona anteriore della corteccia frontale) che, prima di "avviare" la decisione alle aree motorie, la passa al precuneo, dove viene trattenuta finché non ne abbiamo presa piena coscienza. I ricercatori tedeschi, diretti da John Dylan Haynes dell'Istituto di Neuroscienze Max Planck, di Leipzig, che hanno identificato i ruoli di queste aree, hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale in persone che potevano premere dei tasti assolutamente a piacere mentre osservavano alcuni segnali che comparivano sullo schermo di un computer posto davanti a loro.
Scoprire dove il pensiero trascorre l'intervallo fra decisione e azione non è un cavillo neurofisiologico, ma l'opportunità per considerazioni che investono la natura stessa dell'uomo. E non è finita qui. Sull'ultimo numero di Nature i ricercatori dell'Università di New York e del California Institute of Technology di Pasadena, diretti da Bijan Pesaran, sono andati oltre le ricerche tedesche, individuando, quantomeno nella scimmia, quello che nell'uomo potrebbe essere definito il "circuito del libero arbitrio".
Si tratta di un particolare gruppo di neuroni della corteccia frontale e parietale connessi fra loro, la cui attività aumenta solo quando si può scegliere liberamente che cosa fare, invece di dover seguire rigide istruzioni. Il prezioso dono del "libero arbitrio" risiederebbe, quindi, in un fascio di fibre nervose a cavallo fra corteccia frontale e parietale che vengono utilizzate quando si presenta la possibilità di operare una libera scelta.
Non c'è dubbio, però, che il riduzionismo scientifico di queste scoperte sembri stridere con i concetti di libertà di pensiero e di scelta che travalicano le scienze biomediche. E di questo si è parlato, l'11 aprile, in un convegno intitolato "Le patologie della volizione: libertà impedita, libertà liberata", convegno che ha raccolto a Milano neuroricercatori, giuristi e teologi di fama internazionale.
«Tradurre le intenzioni in azioni è una caratteristica distintiva dell'uomo e richiede la consapevolezza di sé e delle situazioni ambientali e sociali — ha commentato Paolo Maria Rossini, dell'Università Campus Bio-Medico di Roma —. Ecco perché i disturbi della volizione dovuti ad alcune malattie neurologiche, impongono sempre problemi etici legati all'attribuzione di responsabilità delle azioni dei pazienti, soprattutto nelle fasi precoci di malattie come l'Alzheimer dove si possono manifestare anche comportamenti violenti che in realtà non hanno alcuna matrice aggressiva ».