mercoledì 7 maggio 2008

l’Unità 7.5.08
Sono assassini fascisti, non bulli
Il procuratore Papalia smentisce Fini e An: a Verona un delitto nazifascista
Dopo le parole di Fini che ritiene più grave le contestazioni anti-israeliane di Torino di un assassinio, ieri anche il suo collega di partito La Russa ha parlato di «un episodio» sì «gravissimo» ma «di bullismo». Tesi sostenute ovviamente dai giornali come il Secolo d’Italia, il Giornale e Libero. Ma il pm di Verona Guido Papalia sgombra ogni dubbio: «La matrice del delitto - dice - è nazifascista». E intanto a Bologna arrivano le ronde di An.

l’Unità 7.5.08
E a Italianieuropei D’Alema riunisce 50 parlamentari
Da Bersani a Pollastrini a De Castro, dall’altro vertice arriva Minniti. «Contributo alla luce del sole». Polemiche dal Loft
di Simone Collini

NELLE STESSE ORE in cui si riuniscono al Nazareno Walter Veltroni e i segretari regionali del Partito democratico, Massimo D’Alema discute in un albergo vi-
cino a piazza Farnese di come la Fondazione Italianieuropei può «contribuire all’elaborazione di idee e alla promozione della classe dirigente del partito». Con il vicepremier ci sono Pierluigi Bersani, Nicola Latorre, Barbara Pollastrini, Gianni Cuperlo, Michele Ventura, Felice Casson e un’altra cinquantina tra deputati e senatori del Pd. Verso la fine arriva anche Marco Minniti, dopo aver lasciato il vertice del Nazareno. Un incontro aperto da D’Alema sottolineando che l’operazione «non vuol essere in nessun modo la creazione di una corrente» e chiuso dopo due ore tenendo in piedi l’ipotesi di dar vita a un’associazione dei parlamentari che fanno riferimento (o come soci o come partecipanti alle iniziative) a Italianieuropei. E se per questa “prima” l’invito è circolato per via orale, si sta anche ragionando se spedire ora a tutti i parlamentari del Pd una lettera in cui si propone di partecipare alle attività della Fondazione dedicate ai temi di maggior impatto politico.
Non nasce una corrente, assicura chiunque abbia partecipato all’incontro. E sicuramente quella di ieri non è la «riunione dei dalemiani» in cui si parla a metà mattina nei capannelli che si formano in Transatlantico. All’appuntamento arrivano infatti anche un ministro vicino a Prodi come Paolo De Castro o ex popolari come Lino Duilio. «Le componenti si formano nei congressi - dice D’Alema - mentre qui sono venute persone che vengono dai Ds, dalla Margherita, che alle primarie hanno votato per Veltroni, come me, o per Letta». E del resto, come ci tiene a sottolineare il vicepremier quando iniziano a trapelare malumori dal loft per questo incontro non previsto, «tutto è alla luce del sole». L’obiettivo, spiega Latorre, è quello di «promuovere una serie di iniziative e di coinvolgere anche i parlamentari». Sottolinea il senatore del Pd che ora si tratta di studiare «come consolidare, per alcuni aspetti, e come costruire, per altri, i fondamenti di politica del Pd». Ci sarà un seminario a metà mese sul risultato delle elezioni, la summer school nel Cilento a fine mese, dedicata al tema religione e democrazia. Anche Bersani afferma che la riunione è il preludio «a come coinvolgere i parlamentari al lavoro culturale di fondazioni come Italianieuropei su vari temi». Parla al plurale, il ministro, perché il progetto è anche quello di mettere in rete Italianieuropei e le altre associazioni vicine al Pd. A cominciare dal Nens, che fa capo allo stesso Bersani e a Visco, all’Arel, che fa riferimento ad Enrico Letta, e ad Astrid, che ha Franco Bassanini tra i soci fondatori.
L’iniziativa viene guardata però con sospetto dal loft. Veltroni non interviene, ma Andrea Orlando avverte: «Le culture di partenza sono una ricchezza, ma se ci rattrappiamo nelle parrocchiette è un regresso». Il responsabile Organizzazione ricorda lasciando il Nazareno che lo statuto del partito assegna alle fondazioni un ruolo preciso, quello «dell’elaborazione politica e culturale». E aggiunge: «La linea politica è decisa nelle sedi del partito, non nelle riunioni delle fondazioni, altrimenti si mette in difficoltà il partito e si rallenta il processo di rinnovamento».
Parole che a loro volta non piacciono troppo a uno dei partecipanti all’incontro con D’Alema, il deputato fiorentino Michele Ventura. «A parte che non sono così sicuro che non ci siano correnti in giro, quello che si sta facendo è proprio nell’ottica opposta. Non si discuterà né di posti né di organigrammi, se è questa la preoccupazione, ma di come contribuire all’elaborazione culturale del Pd. Che, com’è ovvio, viene un momento prima della decisione politica. Non vedo quindi invasioni nella sfera delle decisioni e mi dispiace che ci siano state risposte così preventivamente burocratiche».

l’Unità 7.5.08
Marx e la favola dei manager
di Bruno Gravagnuolo

Stravaganze filosofiche di Giorgio Ruffolo, economista e studioso degno di considerazione e rispetto (Stimolante il suo Il capitalismo ha i secoli contati). E che però in una sua «glossa» epistolare su L’Espresso all’ultimo libro di Scalfari mette insieme giudizi filosofici errati e un po’ banali. Tipo: «Husserl, Heidegger e Sartre hanno sfidato il buon senso... decretando l’appartenenza del mondo alla coscienza e non viceversa». Ora per Heidegger è l’«esserci» (umano) ad appartenere all’Essere e non viceversa. Per Sartre, il primato umanistico della coscienza poggia proprio sul materialismo, di per sé insensato e «pratico-inerte». Quanto a Husserl, era un razionalista alla Cartesio (il Cartesio idolatrato da Ruffolo!). Di cui rigorizzava la «certezza assoluta» insita nell’Io, a sua volta per Husserl coordinata con un mondo esterno e indipendente dall’Io. Insomma, la filosofia va studiata. Non si può raccontarla così! Non basta. Perché Ruffolo parla anche di Marx. E qui non dovrebbe sbagliare. E invece sbaglia. Poiché fa dire a Marx «che l’espropriazione della società per azioni è una sciocchezza». E a motivo del fatto che per Marx i «manager», in quanto «direttori d’orchestra», non hanno bisogno di possedere i loro strumenti. In realtà Marx, nel capitolo XXVII del libro III del Capitale, e nel XXIII (dove cita i «direttori d’orchestra») spiega che la società per azioni dà solo «una nuova forma» al «carattere privato della ricchezza». Forma che lascia in piedi l’antagonismo capitale-lavoro. Ma antagonismo da abolire. E proprio sulla base del nuovo «carattere sociale», impersonale, svelato dalla figura del manager: «dirigente, amministratore del capitale altrui». Come? Marx fa un esempio: cooperative di fabbrica. Con gli operai «capitalisti di sé stessi». Piaccia o no Marx, che aveva previsto finanza e management, la pensava così. Non certo che le «Spa» potessero inficiare la tendenziale «espropriazione degli espropriatori»! Tutto il contrario, ci pare, di quel che pensa e scrive l’ottimo Ruffolo.
Partito liquido E rieccoci a Eugenio Scalfari.Torna a scrivere su Repubblica che «blocchi sociali» e «classi» non ci sono più e che perciò vince la destra e sorge il Pd come «partito liquido». No, quei blocchi ci sono! Benché più fluidi. Talché, come s’è visto, la destra vince con il suo. E la sinistra perde e si liquefa. Smarrendo il suo.

Repubblica 7.5.08
Pd, D'Alema muove la sua corrente
All’incontro anche Letta e Bersani. Veltroni: congresso tematico in autunno
di Goffredo D Marchis

Il leader incontra i segretari regionali "Radicamento, iscritti, iniziative, tesseramento"

ROMA - La prima mossa della corrente che fa capo a Massimo D´Alema è arrivata. Una riunione quasi alla luce del sole in un hotel dalle parti di Piazza Farnese, a Roma. Con un primo risultato: la saldatura con la componente di Enrico Letta. Al vertice dalemiano infatti partecipano anche il consigliere del sottosegretario e neodeputato Francesco Boccia e il ministro Paolo De Castro che corse con la lista Letta alla primarie. Può essere il prologo di un futuro ticket per la segreteria del Pd, ticket sempre sussurrato, unica alternativa possibile al momento a Walter Veltroni: Pierluigi Bersani e Letta. Quando sarà. Magari dopo le Europee. Ma i muscoli vanno scaldati da adesso. All´incontro c´era D´Alema, c´era Bersani, c´erano Michele Ventura, deputato di lungo corso, Nicola Latorre, Barbara Pollastrini, Felice Casson, Gianni Cuperlo e un´altra quarantina di parlamentari. Riunione lunga e contemporanea a quella con i segretari regionali fatta da Veltroni. Marco Minniti, coordinatore della Calabria, è stato un po´ alla riunione con il segretario poi è andato all´incontro della Fondazione Italianieuropei.
D´Alema annuncia perciò che si mette in moto la macchina dell´associazione, chiama a raccolta deputati e senatori amici, prepara un seminario sull´analisi del voto a metà maggio, poi con il sindacato un meeting sulla riforma contrattuale. E immagina «una rete dei centri culturali». Assicura che le prossime volte verranno invitati tutti i parlamentari del Pd «perché noi siamo al servizio del partito». Già ieri era presente, l´ex ppi Lino Duilio. D´Alema sottolinea il carattere aperto dell´iniziativa, ripete ai parlamentari: «Non siamo una corrente. Quelle nascono nei congressi». Spiega invece cos´è Italianieuropei, come vuole lavorare nei prossimi mesi. Ma Latorre sa come va il mondo: «Immagino che mediaticamente questa riunione avrà un solo significato: la rinascita della corrente. Non è così, ma porteremo la croce». E´ un fatto però che D´Alema punta alla composizione di un gruppo di parlamentari (con un coordinatore, forse Ventura) collegato alla Fondazione. Allo stato, dunque , questa croce non porta sul Golgota, ma a una configurazione del Pd che vede da una parte l´asse Veltroni-Franceschini-Marini-Fassino, appena uscito vittorioso nella battaglia dei capigruppo, e l´alleanza D´Alema-Letta in grado di costruire la successione a Veltroni.
Il segretario è consapevole che questo è il mare in cui si dovrà navigare ancora per molto. Dopo la sconfitta, ha scelto la strada della costruzione del partito. Lo dice anche ai segretari regionali, promettendo «radicamento sul territorio», che partirà proprio dalle loro figure, «una struttura vera del Pd», senza la quale non si va lontano. Quindi, «iscritti, tesseramento, iniziative». C´è un lungo lavoro da fare. Su questa linea Veltroni incassa il sostegno dei dirigenti periferici. Alcuni segretari regionali dicono no alla rinascita delle correnti. Salvatore Caronna, coordinatore dell´Emilia, regione che continua a contare moltissimo, parla di «risultato miracoloso del Pd». Il leader pugliese Michele Emiliano dice: «Le elezioni non le abbiamo perse il 13 aprile, ma ai ballottaggi. Dobbiamo stare più attenti alla scelta dei candidati, ricordate che l´anno prossimo si vota in Puglia». E la via del congresso resta nella mente di Veltroni. Non quello previsto dalla statuto, con tanto di primarie. Ma con i segretari regionali il leader decide di fissare per l´autunno delle assise tematiche, in cui non si discuterà di leadership e organigrammi, ma di linee politiche e programmatiche. Siccome è sulle alleanze che si è creata la prima frattura del Pd, è questa la prima sfida di Veltroni agli avversari interni.

Repubblica 7.5.08
Se il povero va a destra
di Giancarlo Bosetti

Quello della destra popolare e votata dai poveri e della sinistra elitaria cara ai ricchi sta diventando, è diventato il pons asinorum, il "ponte degli asini" delle campagne elettorali. Mai sentito parlare di questa formula? E´ stata inventata da Ruggero Bacone, doctor mirabilis, nel XIII secolo, per indicare un teorema elementare di geometria euclidea, che occorre superare per essere ammessi ai teoremi più difficili. Insomma un test di ammissione al concorso (per vincere le elezioni, nel nostro caso): se non lo passi non solo perdi, non puoi neanche partecipare alla gara.
Il teorema asinorum per la geometria è quello del triangolo isoscele: dimostrare perché gli angoli opposti ai lati uguali sono uguali. Il teorema asinorum dei politici è questo: spiegare perché tanti elettori delle fasce più povere, e spaventati da globalizzazione, immigrazione, turbolenze economiche, trovano rifugio più a destra che a sinistra. C´è una versione americana: spiegare perché Hillary Clinton attacca Obama proprio sui poveri e sul suo presunto elitismo? O perché McCain attacca e attaccherà tutti i Democratici sullo stesso argomento (che aveva già grandiosamente aiutato il ruspante Bush a vincere contro l´aristocratico Kerry)? Versione italiana, ancora più facile: perché oggi nelle librerie italiane La paura e la speranza di Giulio Tremonti va più forte che i Dannati della terra di Franz Fanon nel ´68?
C´è solo da sorprendersi che il tema si sia proposto con esplosiva chiarezza soltanto ora in un paese dove il seguito popolare del fascismo è stato materia di studio tra gli allievi di De Felice e sui banchi delle scuole di partito del Pci togliattiano.
Il primo passo per superare il "ponte degli asini" è dunque quello di familiarizzare con il problema cronico e strutturale dell´ala sinistra nelle vicende politiche: i poveri non sono spontaneamente progressisti, né spontaneamente inclinano per il progressismo. Più facile il contrario. Della questione si occupò già a fondo un intellettuale tedesco dell´Ottocento, Karl Marx, traendone spunto per una complessa ideologia rivoluzionaria, denominata socialismo scientifico o comunismo, che ebbe a lungo un certo successo perché offriva ai proletari una attraente prospettiva di riscatto collettivo. Lui certamente il pons asinorum lo superò, altri furono i suoi errori.
In America dove la sinistra ha perso le ultime due presidenziali, rimediando finalmente una vittoria nelle ultime elezioni di mezzo termine, ma ricominciando a temere per il futuro, non si parla d´altro: la grande abilità dei guru della destra nel presentare i liberal, i progressisti, i Democratici come una élite di intellettuali mangiatori di tartine al caviale, frequentatori di cocktail nei quartieri esclusivi di Manhattan, amanti dei gay e lettori del New York Times. A Obama è scappata in Pennsylvania una battuta sui bianchi poveri di quello stato che, stressati dalla crisi economica «si attaccano alla religione, alle armi e ai sentimenti anti-immigrati». Una constatazione sociologica che potrebbe costargli cara, serio inciampo davanti al fatidico pons. Anche una rivista radicale come The Nation gli ricorda che se uno offende gli elettori trattandoli come degli allocchi che si fanno abbagliare dalla «falsa coscienza» la partita è persa.
Sempre in America se si dà uno sguardo alle analisi del voto delle passate presidenziali, si scopre che le più alte percentuali dei democratici si trovano tra la popolazione più istruita: più si sale di grado, più si va a sinistra. Picchi imbarazzanti si raggiungono oltre la laurea, e il vertice tra le donne con il PhD, il dottorato post-laurea. Michael Walzer, filosofo della politica sempre molto attento al problema delle basi popolari della democrazia e sostenitore della «connectedness», della vicinanza al linguaggio della gente comune, racconta sull´ultimo numero della sua rivista, Dissent, di quando, studente, nel ´68 organizzò un sondaggio militante per un Comitato contro la guerra in Vietnam a Cambridge, Massachusetts, dove c´è l´università di Harvard: favorevoli o contrari? I dati rivelarono che la opposizione alla guerra era più forte quanto maggiore era il titolo di studio degli intervistati. Il Faculty Club era contro, i bidelli a favore. Mondo crudele per la sinistra: è duro aspettare che la popolazione intera si dottori. In Francia uguale: il gaullismo (e qualche volta anche Le Pen) ha dato dure lezioni ai socialisti, che dopo Mitterrand sono finiti più volte sotto, per il loro elitismo tecnocratico, maggioritario tra i figli dell´Ena e delle Grandes Ecoles. Ségolène Royal non è stata risparmiata dalle stesse accuse di «distanza», anche per i suoi tailleur e modi raffinati. Le analisi francesi del voto sono dolorose per la sinistra quanto quelle americane: la lunga durata di Chirac si è basata molto sul voto operaio.
Se ora vogliamo cercare le ragioni del recente vantaggio di popolarità della destra italiana sulla sinistra qualcosa si trova senza molto faticare. Berlusconi è un paradigma internazionale di comunicazione pop, la raffinatezza la sa tener lontano con trasporto istintivo, anche meglio di Sarkozy. Ma non c´è solo il rapporto mimetico tra fasce popolari e leader, il fattore B, il fattore Lega, il fattore destra sociale ex An e altro ancora. C´è anche qualcosa di molto più pesante che fa la differenza: il collasso ideologico della sinistra, al quale è seguito il deserto simbolico, la aridità retorica, semplicemente la mancanza di motivazioni. Una prospettiva riformista vincente non può presentare il proprio progetto come un protocollo di appalto; la competizione con la destra riguarda la chiarezza delle politiche proposte, ma anche la qualità, coerenza, bellezza del rifugio ideologico, del guscio simbolico che offre in tempi di difficoltà.
È una storia antica come la democrazia: le politiche bread and butter funzionano finché c´è butter, cioè crescita florida e ricchezza da distribuire, ma quando ci sono sacrifici quello che si chiede al politico sono: personale acclarato disinteresse, grande credibilità e, importantissimi, buoni motivi per affrontarli, i sacrifici. Pensare che un faticoso programma di rientro dal deficit, con inflazione e salari in sofferenza, possa produrre da solo consensi è un errore serio. Pensare che le riforme liberali, necessarissime in Italia, dalle farmacie ai tassisti, dall´Alitalia ai contratti flessibili, per il fatto di essere utili al paese siano anche popolari è un errore ancora più serio. Sentito il giubilo dei gruppi di tassisti alla vittoria di Alemanno?
Si tratta di un genere di errori al quale vien voglia di applicare la etichetta suggerita da un classico pensatore liberale inglese (Michael Oakeshott): «Razionalismo in politica». Non si può immaginare, se non in una prospettiva da avanguardia giacobina e rivoluzionaria, che il razionalismo in politica vinca per virtù propria, a forza di calcoli economici, specialmente in tempi di paura. Piacere a Barroso e Almunia non vuol dire sfondare tra gli elettori. Un tassista si potrà anche convincere che l´aumento del numero delle licenze migliori il servizio anche se la sua licenza, faticosamente pagata, perderà un po´ di valore. Così il pensionato in un quartiere di Milano invaso dai cinesi, che fanno scendere il valore della sua casa, potrà anche convincersi che l´immigrazione è utile. Ma anche questi rari – e introvabili – esempi di mentalità cartesiana avranno bisogno di poderosi argomenti per accettare una prospettiva che contraddice la loro urgenza esistenziale. Non basta il competente richiamo al principio di realtà, che certo da ultimo nessuno potrà eludere, neanche Berlusconi. La impopolarità accumulata dal governo dell´Unione è rimasta largamente al di qua del pons asinorum e il Partito democratico è appena all´inizio della costruzione del suo edificio ideologico per oltrepassarlo. Se la parola «ideologia» disturba, si parli di idee, di discorso, di fini e di simboli. All´elemento economico la politica deve associare l´elemento persuasivo e narrativo. Non si tratta solo di retorica, ma di sostanza ideale, che è contenuto della politica, almeno tanto quanto i programmi di governo. Non basta essere concreti bisogna anche saper essere astratti. E convincenti.
Il «razionalista in politica» pensa che non serva altro che la conoscenza tecnica necessaria per risolvere un problema, non vede tutto il contorno fatto di tradizione, contesto sociale, cultura, paura. Il riformismo in Italia, forse perché reduce da una storia sovraccarica di ideologia, tende ad avere i difetti del razionalista di Oakeshott, è privo di un racconto compiuto sul progetto che ha in mente per l´Italia. Crede di sapere perché vuole vincere, ma non lo sa spiegare e questo vuol dire che forse in realtà non lo sa neppure lui.

Repubblica 7.5.08
Un passato che scotta
La Shoah e il potere della parola
di Aharon Appelfeld

Stasera, alla Reggia di Venaria di Torino, serata in onore degli ospiti della Fiera del Libro dove lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld terrà, alle 20, una lectio magistralis che qui anticipiamo in parte. Domani, invece, alle dieci di mattina, inaugurazione ufficiale della Fiera alla presenza del Presidente della Repubblica.

Quando l´autore israeliano aveva sette anni scoppiò la guerra che travolse la sua famiglia. Affrontò il dolore con il silenzio. Poi scelse di scrivere
"Ero attorniato da un mare di profughi che fluiva da un luogo all´altro, tutti carichi di un´immensa paura che non sapevano dove lasciare"
"Una sera ero così sperso che mi misi a scrivere su un pezzo di cartone i nomi dei miei genitori: come per miracolo li riportai alla vita"

Comincerò da me stesso. Sono nato nel 1932 nell´Europa dell´Est.Avevo sette anni quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale. Mia madre fu assassinata, fui separato da mio padre e, dopo essere fuggito dal campo, trascorsi gli anni di guerra nel sottobosco della malavita ucraina. Provengo da una famiglia abbiente e di larghe vedute, fedele ai principi della civiltà. Brusco fu il passaggio dal mondo del diritto e della legalità a quello opposto, e richiese un rapido adattamento. Una tale esperienza biografica non può certo dirsi unica: i bambini sopravvissuti alla Shoah hanno storie simili alla mia. La questione che si pose allora e che tale è rimasta, sta in questi termini: come si fa ad affrontare un´infanzia del genere? E ad un altro livello: quale potrà mai essere il significato di un´esperienza tanto terribile?
Come si fa a condurre una vita degna, dopo un´esperienza di questo tipo? O, come mi ha detto una volta un amico, anch´egli un sopravvissuto: chi è stato in campo di concentramento non riesce ad accomodarsi in poltrona e sorseggiare il tè del pomeriggio come se niente fosse, come se non fosse stato laggiù.
Nel 1945, alla fine della guerra, avevo tredici anni. Che fare? Dove dirigermi? Ero attorniato da un mare di profughi che fluiva da un luogo all´altro, tutti carichi di un´immensa paura che non sapevano dove abbandonare, come liberarsene. Le grandi catastrofi ci lasciano pesanti e ammutoliti. Come si fa a dire alcunché di fronte alla morte di un uomo, e a maggior ragione davanti a un cumulo di cadaveri? Nulla di che stupire, se allora le parole mancassero, quasi non se ne dicessero. La parola, in fin dei conti, è destinata a colmare le nostre necessità esistenziali; eppure tace quando si avvicina agli abissi dell´animo, e a maggior ragione se si tratta di immensità metafisiche. Erano colmi, sì, quegli abissi: ma nessuno aveva ancora inventato gli strumenti capaci di far risalire quel che si era annidato laggiù, in fondo.
Di quei tempi di marce interminabili, ricordo volti indecifrabili e passi pesanti, ma non una domanda, non un interrogativo su ciò che era appena successo: come se il silenzio fosse la sostanza del mondo. Del resto, che cosa può esserci da dire di fronte alle forze irrazionali e irrefrenabili, del terrore? Era tutto così inconcepibile, da zittire non solo la parola ma anche il dolore.
Mi ritrovai orfano, e non solo di papà e mamma. Valori e convinzioni sembravano tutt´a un tratto avventati, quasi ridicoli di fronte ai mostri umani che ci avevano tormentato. Quale potrà essere il tuo mondo, d´ora in poi? Sprofonderai nel pozzo del pessimismo, in quello del cinismo, tradirai i principi dei tuoi genitori, che coltivavano l´umanesimo liberale, tradirai la fede dei tuoi nonni, vissuti con una religiosità tollerante e moderata, tradirai anche gli zii comunisti che avevano dato la vita per il riscatto dell´uomo?
In una di quelle cupe sere in cui mi sembrava che il ghetto e il campo non mi avrebbero abbandonato mai più, che avrei continuato per sempre a trascinarmi dietro quella solitudine di orfano, smarrito in un mondo che aveva smarrito i propri valori, ebbene quella sera mi misi a scrivere su un pezzetto di cartone i nomi dei miei genitori, quelli dei nonni e degli zii e dei cugini. Ero così sperso che volevo, attraverso la scrittura, accertare che quei nomi fossero esistiti, che la famiglia da cui provenivo non fosse una finzione, parto della fantasia.
Allora, come per miracolo, scrivendo i loro nomi li riportai alla vita: me li ritrovai davanti, proprio come li rammentavo. Per un attimo non fui più un orfano ma un ragazzino circondato da persone che gli volevano bene. Ero talmente felice che nascosi il pezzo di cartone dentro la fodera del mio cappotto, come fosse stato la chiave di uno scrigno pieno di preziosi segreti. Da quel momento, ogni volta che la solitudine o l´angoscia mi mordevano, tiravo fuori quel pezzo di cartone, leggevo ciò che vi stava scritto e rivedevo i genitori che avevo perduto.
La scrittura non è magia ma, evidentemente, può diventare la porta d´ingresso per quel mondo che sta nascosto dentro di noi. La parola scritta ha la forza di accendere la fantasia e illuminare l´interiorità. Ma una lunga strada separava quel brandello spiegazzato di cartone sul quale avevo annotato i nomi dei miei familiari, dalla scrittura vera e propria. Tutto quello che avevo scoperto lungo gli anni di guerra stava chiuso dentro di me, era un macigno scuro: ogni volta che ripensavo a ciò che avevo passato nel ghetto, nel campo e nei boschi, le immagini che affioravano in me non erano meno terrificanti di quanto non lo fosse stata la realtà. Per non affrontare quegli incubi scappavo via di corsa, cercando di staccarmene. Ma questo metodo funzionava solo in parte. Il passato, anche il più tremendo, non si congeda mai facilmente.
In termini generali, diciamo che la letteratura racconta delle storie. Ma quelle degli scampati ai campo e ai boschi, non erano storie. Piuttosto, un cumulo di braci crepitanti che al solo toccarle ustionavano. Che cosa c´è da raccontare, qui? Forse, raccontare quel terrore è una profanazione.
Quanto tempo è durata, quell´angoscia. Le peregrinazioni per l´Europa terminarono nel 1946, quando arrivai in Palestina. Nella Palestina del 1946 c´era un´atmosfera pionieristica. Questo slancio mirava a costruire un ebreo nuovo, spogliato delle paure del passato e rivolto al presente, al futuro. Il passato ebraico era considerato una sorta di maledizione, da cui affrancarsi: sullo sfondo di questi ideali pionieristici, l´esperienza del passato - i ghetti e i campi - , era carica di un´onta che andava cancellata, e il più in fretta possibile. All´atto pratico, come si fa a estirpare dall´anima tutto quello che si è attraversato durante cinque lunghi anni, ed innestarvi al suo posto un idillio pastorale? Come si fa a dimenticare una parte importante della propria vita? Alcuni lo fecero, ma quella rimozione costò loro un caro prezzo. Una persona senza passato, foss´anche un passato terribile e infame come quello, è una persona menomata. Senza contatto con i genitori e gli avi, senza i valori che le generazioni precedenti trasmettono, si è solo un corpo vivo, ma senza un´anima.
La mia giovane vita incontrò però anche delle luci. Lavoravo nei campi, imparai ad amare le piante e gli alberi, e c´erano momenti in cui avevo il presentimento che la terra avrebbe guarito le mie ferite, che sarei diventato un vero e proprio contadino, come tutti gli altri che non avevano conosciuto la guerra.
Di notte, solo con me stesso, scrivevo delle lettere a mia madre.
Sapevo che era stata trucidata, e tuttavia mi crogiolavo in quest´affetto. Le lettere erano una serie di minuzie insignificanti, dettate dalla mia quotidianità. Avevo l´impressione che se per chissà quali vie le mie lettere le fossero arrivate, ne sarebbe stata felice. Notte dopo notte, quella mia frenetica attività di scrittura mi riportava al mondo che un tempo era stato il mio.
(Traduzione di Elena Loewenthal)

Corriere della Sera 7.5.08
La svolta di Roma. Da Venditti a Chicco Testa, le lodi della nomenklatura progressista
E a sinistra è già gara a sdoganare Gianni

Cambi Da sinistra, Chicco Testa, Carlo Aymonino, Mario Capanna, Claudio Amendola
Fabrizio Roncone

ROMA — Transumanza? No, peggio. Stavolta — dicono — rischia d'essere un esodo. Da sinistra a destra.
C'è qualcosa di anomalo, di massiccio, in quello che già molto nettamente, esplicitamente, si legge tra le righe di certe interviste. Di certi messaggi che una folla di manager, architetti, giornalisti, intellettuali, scrittori, registi, cantanti, sta mandando in giro per Roma. Sperando che, rotolando qua e là, entrino a Palazzo Chigi, e magari rimbalzino su al Campidoglio.
Bisogna fare un piccolo e non faticoso esercizio di collage. Va bene, Antonello Venditti viene in mente subito. Grande cantautore e sempre, dichiaratamente, di sinistra — (uno che, persino in occasione del suo ultimo concerto, poche settimane fa, al Palalottomatica, interruppe la sua esibizione per salutare sugli spalti «un grande e caro amico, Fausto Bertinotti! »: anche se seguirono fischi, in verità) — ecco, prendete Venditti. Cosa dichiara non agli amici ma al Secolo d'Italia, poche ore dopo l'elezione di Gianni Alemanno a sindaco della Capitale? «Alemanno è più a sinistra di certa sinistra... Da compagno, dico: Gianni, tanti auguri...».
Qualcuno è stato più soft. Tipo l'attore Claudio Amendola (da sempre simpatizzante di Rifondazione). Interpellato sui nuovi progetti per la Festa del Cinema di Roma, non si addentra sulla probabile nomina di Pasquale Squitieri a nuovo presidente: ma plana complice sull'idea che la Festa debba fare a meno delle star di Hollywood. «Già avevo dubbi sull'utilità della Festa... Quanto all'idea di Alemanno... beh, aiuta il nostro cinema».
Intanto, Chicco Testa, presidente a rischio di Roma Metropolitane, pranzava — un po' torvo — all'Ultima Spiaggia, stabilimento balneare maremmano di stretta osservanza radical-chic. Interrogandosi, si suppone, su quanto abbastanza espliciti fossero stati i suoi discorsi a Ballarò, Rai3. «Rutelli e Veltroni (citandoli come se li avesse incrociati solo un paio di volte, ndr) dicono che la destra è quella che vuole aprire i casinò, mentre loro sono quelli della Festa del Cinema. Ora io non trovo nulla di male ad andare al casinò...». E magari a quello che Alemanno, in campagna elettorale, annunciò di voler aprire ad Ostia.
Davanti a simili discorsi, un tempo saremmo andati a sentire tipi come Mario Capanna, uno dei leader del '68 italiano. Ma pure lui: «Alemanno? Una persona seria. Rutelli? Un mandarino». Netto, deciso. E ieri, sul Corriere, avrete letto pure le parole di Ron (il cantautore che faceva tournée con De Gregori, Pino Daniele e la Mannoia, i quali, tuttavia, ancora sembrano restare su posizioni liberal). «Alemanno? Altro che fascista! Quando difende l'italianità, gli do ragione».
Naturalmente, c'è chi gli ha dato ragione anche quando ha annunciato di voler abbattere la teca dell'Ara Pacis. La voce dell'architetto Carlo Aymonino: «Io quella teca l'ho sempre considerata bruttissima. Davvero mi piacerebbe poter lavorare con lui a una soluzione alternativa...». Ecco, lavorare con lui. Chi dovrebbe, per accordi precedentementi presi, fa sapere in giro di esser pronto (quanto?) a un passo indietro: tipo l'imprenditore Giovanni Malagò, presidente del Comitato mondiali di nuoto Roma 2009. Altri, invece, fanno un passo avanti. In Campidoglio, considerano eloquenti certi ragionamenti fatti da un maestro del cinema come Ugo Gregoretti, nell'immediata vigilia delle elezioni. E fanno finta di non aver tempo per tutti quelli che invece telefonano. Pesciacci che dicono: «C'è Gianni? Sono...». Fingono antica confidenza. «Volevo complimentarmi e far sapere che...». Lasciano il numero di cellulare. Sperano d'essere chiamati. Aspettano un segnale. Il più sfacciato di tutti (imprenditore con interessi nel mondo del calcio): «So che il sindaco è appassionato di alpinismo e io ho una casa magnifica a Cortina... ditegli che, se va in albergo, beh, m'offendo...».

Corriere della Sera 7.5.08
D'Alema in campo: ticket Bersani-Letta E allarga la corrente
Stop dai veltroniani: no alle parrocchiette
Al convento di Santa Maria Immacolata, con i dalemiani, sono arrivati anche alcuni parlamentari della Margherita
di Maria Teresa Meli

Detto e fatto. Massimo D'Alema aveva preannunciato che si sarebbe occupato della Fondazione Italianieuropei: così è stato. E Walter Veltroni non ha gradito. La reazione del segretario è presto spiegata. Veltroni non ha gradito perché la «nuova» attività del ministro degli Esteri non è il segnale di un «autopensionamento », né tanto meno della fine delle ostilità. Anzi. Infatti a breve nascerà un'associazione di parlamentari del Pd che si rifanno alla Fondazione di D'Alema. Ieri c'è stata una prima riunione in un albergo ricavato da un convento di frati, vicino a piazza Farnese: D'Alema, Bersani, Latorre, Minniti, Pollastrini, Ventura e altri ex Ds. Detta così sembrerebbe un incontro tra dalemiani. Con Minniti che abbandona Veltroni e la riunione dei segretari regionali per prendere parte a questo appuntamento. E con la Pollastrini che fa altrettanto, alla Camera, senza aspettare lo spoglio dei voti delle vicepresidenze. Ma la vicenda è un po' più complicata. E ben più interessante. Al convento di Maria Immacolata c'erano anche dei parlamentari che finora non hanno mai partecipato alle riunioni dei dalemiani, anche perché provengono non dai Ds ma dalla Margherita. C'erano i lettiani Francesco Boccia e il ministro delle Politiche agricole Paolo De Castro. Già, perché D'Alema in questi giorni ha fatto un gran pressing sul sottosegretario alla presidenza del Consiglio e alla fine gli ha strappato un "sì". Letta è interessato all'operazione del ministro degli Esteri, con cui ha avuto un colloquio anche ieri. Del resto, di un eventuale tandem Bersani-Letta in sostituzione di quello Veltroni- Franceschini si parla ormai da qualche tempo.
Dunque, per dirla in parole povere, la corrente di D'Alema si allarga. Ed è probabile che altri deputati e senatori di provenienza non diessina verranno coinvolti in futuro. Era scontato, perciò, che Veltroni non gradisse. Il segretario non ha mai nascosto di pensare che le correnti «facciano parte di vecchie pratiche». Tant'è vero che finora ha opposto un "no" a quei sostenitori che gli hanno suggerito di formare una sua componente. Ora i supporter del leader del Pd raccontano che D'Alema ha messo in atto questa iniziativa dopo essersi accorto, in occasione della mancata candidatura di Bersani a capogruppo, che la maggior parte dei parlamentari del partito sono di rito veltroniano. Secondo questa versione il ministro degli Esteri avrebbe perciò in animo di allargare la sua sfera di influenza a quegli esponenti che non provengono dai Ds.
Veltroni quindi è sul chi va là. E lo sono anche i suoi. Andrea Orlando, responsabile organizzativo del Pd, è molto chiaro sull'argomento: «Le fondazioni vanno bene, e sono previste dallo statuto, ma le correnti frenano l'attività del partito. Dividersi in parrocchiette rappresenta un regresso». E il segretario del Pd veneto, l'ex margheritino Paolo Giarretta, osserva: «D'Alema non può pensare di continuare ad affibbiare le parti in commedia a tutti ». Perciò, anche se ufficialmente D'Alema tiene riunioni di Fondazione e non di corrente, mentre Veltroni evita l'attacco diretto agli avversari interni, l'atmosfera nel Pd non è delle migliori. Lo testimonia anche il fatto che l'altro ieri qualche veltroniano abbia pensato di bocciare la riconferma di Latorre a vicepresidente del gruppo del Senato. Raccontano che sia stato Marini a spiegare che non aveva senso fare una cosa del genere per dare un colpo a D'Alema. Unico segnale di compromesso la decisione di indire sì un congresso anticipato in autunno, ma un congresso esclusivamente tematico in cui non ci saranno le le elezioni degli organismi dirigenti.
Se questi sono i rapporti interni, quelli con l'alleato Di Pietro non vanno certo meglio. Il leader dell'Italia dei Valori, fatto fuori dal gioco delle vicepresidenze, ha chiesto la guida della Commissione di Vigilanza Rai per Leoluca Orlando. Veltroni gli ha risposto: per noi non c'è problema, ma guarda che deve essere votato anche dalla maggioranza... Il colloquio tra il segretario Pd e Di Pietro è stato più che teso e si è concluso con questa affermazione dell'ex pm di Mani Pulite: se non c'è neanche la presidenza della Vigilanza, io rompo.

Corriere della Sera 7.5.08
Un partito nel limbo tra i vecchi riti e un futuro nebuloso
Congresso in autunno mentre parte la resa dei conti. Il problema delle giunte locali
di Massimo Franco

L'orgoglio con il quale Romano Prodi rivendica le sue due vittorie su Silvio Berlusconi, è un saluto graffiante ai vertici del Pd. E la profezia secondo la quale per «far correre l'Italia» saranno necessari i sacrifici, sembra un regalo agrodolce consegnato dal premier uscente al suo successore a palazzo Chigi. Prodi raffigura il proprio governo come «un'esperienza che è stata interrotta», costringendolo a «trarne le conseguenze». Non spende una sola parola autocritica; e dunque rifiuta implicitamente la tesi secondo la quale il Pd ha perso le elezioni di aprile anche per la zavorra dei venti mesi di Prodi. È la sua controverità rispetto ad un Walter Veltroni che definisce illusoria la vittoria risicata del 2006; e alla vulgata quasi unanime che scarica sul Professore buona parte della sconfitta.
Ma soprattutto, la lettura del presidente dimissionario dal governo e dal Pd è un modo per riaffermare la propria immagine di vincitore nel momento di massima depressione del centrosinistra. Si tratta di un atteggiamento che sottovoce gli alleati definiscono ingeneroso e narcisistico. Eppure, in questa fase riescono ad opporre alla «verità» prodiana soltanto lo spettacolo di un'alleanza sull'orlo della resa dei conti; sbandata sulle future alleanze; e condizionata dalle ambizioni e dalle frustrazioni di chi sa di doversi preparare ad un lungo digiuno ministeriale. La sensazione è che pochi si sentano orfani della leadership del Professore, considerata esaurita da tempo. Manca, però, un nuovo baricentro.
E l'annuncio di un'«associazione di parlamentari» creata ieri da Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani rappresenta l'annuncio di una resurrezione delle correnti dentro il Pd; e l'atto di nascita ufficiale di un gruppo di potere deciso a rimettere in discussione le strategie veltroniane. Naturalmente, i promotori negano un simile obiettivo. Si limitano a dire che la cinquantina di parlamentari riuniti dal ministro degli Esteri uscente vogliono discutere di «contenuti»: un sinonimo dei «temi» che ieri il Pd ha deciso di mettere alla base del congresso fissato in autunno. Dovrebbe essere un modo per evitare scontri cruenti; per non evidenziare una lacerazione che già esiste. Ma da giorni D'Alema critica neppure larvatamente l'«autosufficienza» del Pd, con la quale a suo avviso non si vincerà mai. E lascia capire che sarebbe meglio tornare a cercare una sponda con l'estrema sinistra.
È un braccio di ferro che durerà almeno per tutta l'estate, fino al congresso. Lascia indovinare una fase nella quale la nomenklatura del nuovo partito cercherà prima di puntellare l'attuale leadership; e poi tenterà, se non un rilancio, una riduzione dei danni in vista delle elezioni europee del 2009. L'idea è di rendere irreversibile la tendenza al bipartitismo, alzando la soglia di sbarramento per entrare in Parlamento anche a Bruxelles. Significherebbe ridurre la probabilità che la sinistra comunista, esclusa dalle Camere italiane, possa riconquistare una presenza a livello europeo. Il Pd teme infatti che questo possa avvenire a proprie spese; e, soprattutto, che ridia forza a quanti nelle sue file ritengono velleitaria la politica seguita nel voto del 13 e 14 aprile scorsi.
«Nessuno è tanto pazzo da pensare ad un partito che è autosufficiente», si è difeso ieri Veltroni davanti ai segretari regionali del Pd. Sente che si tratta di un'accusa insidiosa, fatta per delegittimarlo. E si rende conto che una lite sui prossimi interlocutori del Pd «rischia di infilare il partito in un vicolo cieco». Sognare il ritorno ad un surrogato dell'Unione prodiana e antiberlusconiana, come sembra pensare D'Alema, equivarrebbe a replicare gli sbagli di un decennio: quelli che hanno finito per rafforzare il Cavaliere. Ma anche insistere nell'obiettivo dello sfondamento al centro, mancato platealmente ad aprile, non appare così semplice. Per questo, centinaia di giunte di centrosinistra nel limbo avvertono che non asseconderanno schemi nazionali destinati a terremotarle.

Corriere della Sera 7.5.08
L'appello di «Liberazione»: «Subito tutti in piazza»
Ma la sinistra si divide

di Gianna Fregonara

ROMA — A chiamare alle armi è Liberazione: «Andiamo tutti a Verona, fermiamo l'Italia dei coltelli!» titolava ieri. A organizzare però non è il partito, ma il coordinamento dei Migranti di Verona.
E forse è meglio perché il 25 aprile scorso proprio loro sono riusciti a portare in piazza oltre cinquemila persone nella sola Verona, quasi esclusivamente con il passa parola e l'aiuto del web. L'appuntamento con la piazza è sabato 17 maggio, l'obiettivo è «riprendere la città perduta» (per i movimenti e i centri sociali veronesi), riconquistare visibilità e fiducia per i partiti della sinistra da Rifondazione in giù. «Ci saremo, con le nostre bandiere, in tanti: dobbiamo ripartire dalla mobilitazione democratica di massa contro la campagna d'odio. Vogliamo contrastare a viso aperto l'egemonia culturale della destra e il clima di paura che fabbrica paura imposto in questi mesi non solo dal centrodestra» spiega il segretario dimissionario del Prc Franco Giordano. Da oggi il giornale diretto da Sansonetti farà una campagna per mobilitare tutti i lettori ad andare a Verona: ma non sarà la replica di quel 25 aprile del 1994 quando i progressisti battuti da un emergente Silvio Berlusconi si ritrovarono in piazza a Milano per riprendersi dallo choc di una sconfitta inaspettata della «gioiosa macchina da guerra»: «Allora — spiega Sansonetti — la sinistra reagiva al primo governo con i fascisti, a Berlusconi.
Oggi andiamo a dire la nostra perché usciamo da un anno in cui tutte le forze che sono in Parlamento non fanno altro che parlare di sicurezza creando un clima di violenza e di paura. Reagiamo a questo». E anche al fatto di non essere più in Parlamento? «Anche: se non siamo in Parlamento e neanche in piazza, possono anche abolirci... una cosa che piacerebbe a più d'uno» ironizza Sansonetti, che oggi chiederà dalle colonne del giornale a Gianfranco Fini, «uno che stimo», di «fare marcia indietro» sulla graduatoria dei reati tra Verona e Torino. In realtà però anche accordarsi sulla mobilitazione del 17, a un mese dalla débâcle elettorale, non è stato così semplice. A Verona sinistra e centri sociali si erano spaccati tra chi come il centro sociale «La Chimica» e, in un primo tempo la Sinistra Arcobaleno, voleva un corteo «antifascista», sabato 10, e chi come i Migranti proponeva una manifestazione-happening contro il sindaco leghista Flavio Tosi e la sua politica cittadina. Anche Liberazione e il manifesto ieri invitavano alla manifestazione di sabato prossimo, poi nel pomeriggio si è chiarito l'equivoco e tutti, centri sociali del Nord Est di Luca Casarini compresi, convergeranno sull'iniziativa del 17.

Corriere della Sera 7.5.08
Minorenni in carcere. Uno su due è straniero
Rapina e furto le accuse più frequenti
di Andrea Galli

Sono finiti con la benzina alla gola. Tra pochi soldi, continui colpi di forbice, spese enormi per rimettere in sesto strutture secolari e, come già denunciato dalla Corte dei conti, non «conformi alle norme di sicurezza», nelle carceri minorili capita che manchi perfino il carburante per le auto che trasportano i detenuti ai processi. Eppure, dei 18 istituti, ne è stato chiuso soltanto uno — a Lecce, per una storiaccia di botte e agenti indagati —, nonostante alcuni abbiano una presenza media di carcerati risibile (4 a Caltanissetta, 6 a Catania, 11 a Treviso, 16 a Palermo) e nonostante il personale sia perennemente sott'organico: servirebbero 24 dirigenti e ce ne sono 17, ci vorrebbero mille poliziotti e ce ne sono 827. Dipendenti, a sentire i sindacati, «stanchi, demotivati, costretti a straordinari ». Per dire: alle «attività formative partecipa solo il 31% degli aventi diritto». Gli altri o se ne fregano oppure sono assenti perché, appunto, devono tappare i buchi.
I cattivi ragazzi di casa nostra
Gli Stati Uniti, consapevoli che «tenere i ragazzi in carcere costa di più e rende meno» puntano sul lancio di programmi sociali e sulla modifica della normativa vigente: «Un giovanissimo inserito in un centro di detenzione ne esce spesso trasformato in peggio». In Germania si sono inventati le punizioni esemplari, con le gite-lager all'estero, come insegna il 16enne recidivo spedito in Siberia per un programma di recupero a 30 gradi sotto zero senz'acqua corrente, con la toilette fattagli scavare all'esterno, al gelo.
Sì, americani e tedeschi, in un senso e nel-l'altro, sono assai netti. Meglio che niente, diranno alcuni, almeno se ne parla: da noi, in Italia, eccetto le sparute prese di posizione dell'associazionismo (come Antigone, che si batte per «centri di orientamento per i giovani usciti di cella») ed eccetto le proteste sindacali («Siamo al collasso» è una delle più frequenti), il dibattito sulle carceri minorili è quasi azzerato. Peccato: le carceri raccontano l'Italia sotto i diciott'anni. E dicono che le orde straniere calate dall'Est Europa, le bande dei latinos sulle quali tanto — «esagerando», si lamentano gli inquirenti — s'è romanzato, gli imprendibili maghrebini, insomma gli stranieri, non fanno troppa paura. E, più che altro, sono la metà della popolazione. L'altra metà la fanno gli italiani (nel meridione sono tre su quattro) che hanno un rapporto quasi morboso con la droga.
A leggere le presenze negli istituti al 31 dicembre 2007 (ultimo dato disponibile del Dipartimento giustizia minorile del ministero), 231 erano immigrati e 215 italiani, e tra i minorenni con problemi di stupefacenti presi a carico nel 2007 dalla giustizia minorile gli italiani erano 746 su 997. Con il 77% assuntore di marijuana e il 9% di cocaina e/o oppiacei; con una frequenza nel drogarsi settimanalmente nel 41% dei casi e quotidianamente nel 31; con un periodo di assunzione che, per uno su tre, «dura da almeno due anni».
Dai Balcani per rubare
Certo, poi, bisogna vedere dove uno vuol fermare gli occhi. Dovesse per caso prendersela con i romeni, ne troverebbe, di materiale. I romeni in cella, da soli, pareggiano il totale di Africa, Sudamerica e Asia. Dal 2001 sono aumentati di cinque volte. I romeni sono specialisti in rapine e furti, due reati che numericamente hanno contribuito a innalzare, tanto da farli diventare i primi due nella classifica generale delle statistiche. Prendiamo ancora la rilevazione al 31 dicembre scorso. Bene, prima dei 20 detenuti dentro per omicidio, altrettanti per tentato omicidio e dei 78 per violazione sulla legge degli stupefacenti, c'erano i 150 accusati di rapina e gli 81 di furto.
E fin qui parliamo di detenzione. A marzo, il Dipartimento della giustizia minorile ha diffuso la cifra dei denunciati annui: 40 mila, 110 al giorno, il 71% dei quali italiani. Eppure Carmela Cavallo, a capo del Dipartimento, s'è soffermata sugli stranieri: c'è «una mancanza di misure specifiche dirette ai minori immigrati. Il nostro è un sistema penale sostanzialmente pensato per i nostri connazionali». E comunque, in generale, il sistema della giustizia minorile è «inadeguato» ha detto il sottosegretario agli Interni Marcella Lucidi, inadeguato a partire dalle fondamenta: quei dati di marzo, erano aggiornati al 2004. Anche i computer, nelle carceri italiane, segnano il passo e recuperano dati con un ritardo biblico. Figurarsi, allora, il recupero sociale dei detenuti. Che infatti, scarcerati, tornano in prigione— certe volte anche dopo nemmeno un mese— «nel 20-30% dei casi». Non che per gli altri cominci un'esistenza tranquilla. C'è una stima che rimbalza dagli istituti: «Alla fine, riusciamo a salvarne sul serio, e dunque a recuperarne, appena uno su cinque».
In cella anche i dodicenni
Eppure, c'è chi invoca l'abbassamento dell'età della punibilità a 12 anni. L'ha proposto Giuseppe Consolo, di quell'Alleanza nazionale che a Milano, con il vicesindaco Riccardo De Corato, tanto insiste sull'introduzione di pene più severe per i minori di 14 anni, con riferimento ai bimbi zingari specializzati in furti e borseggi lungo una geografia articolata e in movimento (stazione Centrale, stazione Cadorna, metrò Gobba).
A oggi, per gli under 14 sorpresi a delinquere, al massimo ci sono le comunità protette. Da dove scappano nel giro d'un attimo, sempre ammesso che di comunità se ne trovi una. Prima di Natale, la polizia aveva sgominato una banda di aguzzini rom che, con base in una cascina dell'hinterland, costringevano 34 piccoli connazionali a rubare in piazze e metrò. Dei 34, nove vennero individuati. Per un giorno intero, rimasero in Questura. Solo a sera, dopo una fatica immane fatta di telefonate e mediazioni, i piccoli trovarono una sistemazione. L'indomani, s'intende, erano già scappati. Associazioni vicine ai nomadi raccontano che oggi sono di nuovo nella cascina. Liberi d'agire. Certo, tanto non sono punibili. Questione di (poco) tempo, però.
Racconta un maresciallo dei carabinieri: «Le organizzazioni li tengono fino a tre mesi prima del compimento del quattordicesimo anno. Dopodiché, li abbandonano. I boss temono che, con un arresto e la detenzione, sotto pressione spifferino ai poliziotti nomi e cognomi dei capi ». Ma lasciati da soli, i rom una sola cosa sanno fare: rubare. «E privi di un'organizzazione che li protegge, non ancora pronti ad agire da cani sciolti, vengono subito presi».

Corriere della Sera 7.5.08
Cacciari anti mendicanti. E Variati: via subito chi delinque
Sicurezza, rincorsa a sinistra. E il sindaco arcobaleno arma i vigili urbani di Massa
di Francesco Battistini

Bologna. Allo studio un braccialetto antistupro per le studentesse universitarie, come quello proposto a Roma
Dopo la sconfitta elettorale, molti sindaci di centrosinistra hanno annunciato e messo a punto ordinanze sul fronte della sicurezza: dalle ronde ai divieti di sosta ai rom

MILANO — Caramba, che sorpresa. Siccome in Italia le rivoluzioni si fanno coi carabinieri, come diceva Leo Longanesi, la rivoluzione della sicurezza è Benemerita soprattutto a sinistra. Quelli della Spezia si sono inventati il Carabiniere Consolatore. Gli hanno dato un nome un po' We Can stile Obama, «Approcciatore globale di Community Safety», e funziona così: l'appuntato suona alla porta del vecchietto, gliela conta su fra pianerottolo e anticamera, cinque minuti finché il consolatore ha la pazienza d'ascoltare il consolato (e viceversa), magari di bere un caffé. «Tutto bene?». «Eh, si tira avanti...». Una virile stretta di mano. Uno schiocco di tacchi. E la mission è compiuta, la community più safe.
Adesso sì che si può fare. C'è una sinistra di botte e di governo che sembrava non aspettasse altro: assoldare ronde, sfoderare sfollagente, spruzzare urticanti. Mani che prudono. Ordinanze da servizio d'ordine. Lo disse per primo Sergio Cofferati a Bologna nel 2005, «la sicurezza non è di destra né di sinistra », lo ripeté lo stesso Cinese a chi gli dava dello sceriffo: «Ma gli sceriffi non erano i buoni, una volta?». L'ha riconosciuto qualche giorno fa Piero Fassino: «Anche un vigile urbano dev'essere messo in grado di difendersi...».
E allora vai, sindaco rosso. Novità di giornata: Roberto Pucci, il sindaco arcobaleno di Massa, che arma i loro vigili. E Massimo Cacciari che si prepara a chiudere il centro storico di Venezia e quello di Mestre agli accattoni. Con la fantasia pidì che ormai batte perfino la strategia leghista. I bossiani di Montegrotto Terme arruolano fra i vigili anche tre manichini, da piazzare con divisa e paletta lungo la provinciale per Padova e dissuadere gli automobilisti- pirata un po' gonzi? Bassolino s'è studiato di meglio: poiché a Napoli lo scippo è fisiologico, i turisti lascino pure il Rolex in albergo e casomai lo rimpiazzino con un orologino di plastica, grazioso omaggio della Regione.
Sicurezza, cosa non si fa per te. Dopo la batosta elettorale, è il nuovo Frontismo della sinistra. Nel senso che s'ispira al lumbard Gigi Fronti, oggi assessore del Carroccio a Voghera, unanimemente riconosciuto l'inventore delle prime ronde, anno 1996, ben prima che arrivassero i Gentilini a levare le panchine sotto il sedere degl'immigrati di Treviso o le famose ordinanze anti-burqa del Pordenonese. Una volta lo sfottevano, il Fronti, oggi gli darebbero il Nobel della Ronda: i bassaioli di Cremona e di Rovigo ci stanno arrivando dodici anni dopo e anche lassù sulle montagne, a Trento, si stanno organizzando coi pacifici alpini in congedo. Con l'aria che tira nelle città, sono poche le giunte pidì che la tolleranza non la moltiplicano per zero: a Bari c'è Michele Emiliano, che faceva il magistrato, conosce i delinquenti veri e non ha molta voglia di prendersela coi poveracci ai semafori. In un paesino della Bergamasca, Chiuduno, tutte le sere la Lega pianta un gazebo per contestare il sindaco: loro dicono che la situazione è insostenibile, lui risponde che sono tutte balle. Il rigore, un po' dappertutto, è d'ordinanza: a Cava dei Tirreni, dove da due giorni i vigili girano con pitbull e cani lupo antidroga, il telefono scotta e l'assessore udeurino Alfonso Senatore gongola, «mi chiamano da tutt'Italia, vogliono importare tutti la nostra idea».
Tutti chi? Chiunque sappia che oltre il 50 per cento degli amministrati (sondaggio Mannheimer di qualche mese fa) vuole ronde e pugno di ferro. C'erano una volta il muro di Padova e la sbarra antirom dei veneziani di Ceggia? A Cosenza hanno cominciato a censirli, i rom, e prima o poi decideranno anche lì il daffarsi.
E Ceggia ha rilanciato pochi giorni fa con il divieto totale di sosta ai nomadi. «Disturbare per non essere disturbati» è lo slogan di Variati, borgomastro rosso di Vicenza, dove disturbare sta per sorvegliare a turno i clienti delle prostitute, chi spaccia ai giardini, chi vende alcol troppo e male. Con una novità di: l'annuncio dell'espulsione immediata «dello straniero che delinque ».
La Bologna delle mille ronde ne sforna una al giorno: ora si sta pensando a un braccialetto antistupro per le studentesse universitarie, tipo quello che proponeva Rutelli a Roma, mentre Genova sta testandolo sugli anziani. E ricordate l'estate scorsa, le polemiche sulle centrosinistre Firenze e Pavia che multavano i lavavetri e sgombravano gli squatter? A Venezia è in sintonia Cacciari e da un pezzo lo sono a Viareggio, ora anche a Ravenna, e insomma ormai si può... Per non dire della ridotta bertinottiana di Massa, coi purissimi e durissimi che si sono decisi perfino loro: e va bene, armiamo la polizia urbana e mandiamola a caccia di lucciole sul lungomare. Poco lontano del resto c'è Carrara, dove i vigili hanno già le armi, e lì sulle cave di marmo bianco la giunta rossa fa volare addirittura un dirigibile che tutto monitora.
Occhio, dunque. Le videocamere coi nastri conservati 24 ore, roba vecchia di dieci anni nei municipi leghisti, stanno diventando un must a Rimini, nelle Marche, a Pisa, a Pescara, a Catanzaro, a Lamezia Terme, mentre a Genova le hanno piazzate addirittura sugli autobus urbani. Da Modena ad Ancona, passando naturalmente per Bologna, tra i vigili vanno di gran moda anche i baton, che poi sono i manganelli estensibili, oltre agli spray al peperoncino antiaggressione. Sergio Chiamparino ha già ordinato gli uni e gli altri, dopo l'aggressione di sabato ai vigili torinesi che facevano multe, e ha pure trovato una cornice ideologica che li spieghi. Né Obama né Hillary, dice. La teoria è quella dei vetri rotti che applicava a New York il repubblicano Giuliani: «Lui indicava le finestre rotte nelle case: sostituitele, e contrasterete il degrado. Io guardo alla sosta selvaggia: multe e nessuna tolleranza. La legalità comincia da lì».

Corriere della Sera 7.5.08
È uscito in Francia «Le sec et l'humide», un'analisi sul materiale utilizzato dallo scrittore. Un romanzo con il quale è necessario confrontarsi
Littell, il male è nel Dna dell'uomo
All'origine delle «Benevole»: la psicologia nazista e la lingua dei carnefici
di Alessandro Piperno

In questi giorni dietro alle vetrine delle librerie parigine scintilla uno smilzo saggio di Jonathan Littell dal titolo enigmatico: Le sec et l'humide (Il secco e l'umido). Nella postfazione, lo storico tedesco Klaus Theweleit riporta alcune frasi di Claude Lanzmann: «Littell», afferma Lanzmann, «ha inventato la lingua dei carnefici. Ora, per me i carnefici non parlano come li fa parlare Littell. In realtà i carnefici non parlano affatto ». Al che Theweleit insorge: «Su questo punto, Lanzmann si sbaglia. È vero, i carnefici si sono rifiutati di parlare di fronte alla sua telecamera. Ma tra loro hanno sempre parlato».
Theweleit prende capziosamente alla lettera Lanzmann solo per riaffermare che, finché la questione- Shoah verrà affrontata con gli strumenti offerti dalla metafora, essa continuerà a essere quell'anti-Olimpo tenebroso e siderale cui un certo misticismo celebrativo l'ha ridotta. La cosa strana,
en passant, è che sia proprio Lanzmann (autore di un film-capolavoro sulla Shoah composto di luoghi, di facce, di corpi, di voci) a rifugiarsi ora dietro detti corrivi e oracolari come «i carnefici non parlano affatto» che fanno il verso alla famosa sentenza di Bataille: «I boia non hanno parole ».
Occorre ricordare che Klaus Theweleit è autore di Virili fantasie,
uno studio teso a dimostrare come il risentimento del nazista scaturisca dal terrore in lui suscitato dalla vischiosità dell'esistenza.
Da qui il culto della forza e della secchezza e il desiderio di annientare tutto ciò che sia percepito come femmineo e liquefatto: bolscevichi ed ebrei in testa. Come si evince dal titolo del libro — Il secco e l'umido — Littell è stato molto influenzato dalle teorie di Theweleit, soprattutto nella creazione di Maximilian Aue, protagonista- narratore de Le Benevole. Libro con cui, come mi ostino a credere, è necessario confrontarsi.
Mi sono chiesto perché un romanzo preso seriamente da intelligenze autorevoli come quella di Pierre Nora e Marc Fumaroli, lanciato con tale enfasi dal Nouvel Observateur e che proprio in questi giorni sta infiammando i giornali tedeschi, abbia prodotto in Italia nel migliore dei casi uno sfoggio di sufficienza, e nel peggiore autentico scherno. La risposta che mi sono dato è che dalle nostre parti c'è una tale allergia all'ambizione e alla grandezza che Le Benevole deve essere apparso un'ottima palestra per esercitare il proprio snobismo decostruttivo. Per il poco che conta il mio contributo, continuerò a scrivere che Le Benevole è un libro assoluto. E non tanto per le sue implicazioni teoriche ma soprattutto per il contributo alla letteratura e per quella scorticatura interiore che ha lasciato in molti di noi.
Dai tempi lontani di Wilhelm Reich, passando per le perlustrazioni sulle genealogie culturali del Terzo Reich intraprese da Mosse, fino alle tesi di Goldhagen secondo cui l'antisemitismo hitleriano sarebbe il velenoso distillato dell'anima tedesca, chi non ha sognato di formulare una teoria ultima sulla «psicologia fascista»? Non essendo uno storico, tanto meno uno psicologo, mi guardo bene dall'entrare nel merito. Preferendo attenermi a ciò che scriveva qualche tempo fa lo psichiatra Niels Peter Nielsen: «Noi sappiamo che il nazismo fu un fenomeno molto più insidioso, ed anche più accattivante, di quanto si immagini comunemente. Sappiamo che le barriere tra "noi" e "loro" non sono così alte come ci piacerebbe credere».
Ebbene, chi può negare che la letteratura sia la trivella capace di bucare la «barriera» di cui parla Nielsen? La sola disciplina umana che si avvalga di due facoltà determinanti per qualsiasi tipo di comprensione: immaginazione ed empatia? Chi dice che Primo Levi avesse ragione quando ci ammoniva: «comprendere significa mettersi al loro posto, ma nessun uomo normale può identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann»?
Diciamo che Littell ha diffidato del monito di Levi, pur tenendone conto. Guardandosi bene dallo scandagliare le personalità di Goebbels o di Himmler, si è occupato con dedizione di un immaginario collaboratore di cui quei mostri si avvalsero: Maximilian Aue, appunto. E per farlo ha prestato a Max gusti e perversioni. Compromettendo se stesso, ci ha compromesso. Risucchiandoci nel vortice di una vischiosa complicità, chiamandoci in causa per giudicare e comprendere i suoi atti, è venuto meno alla legge non scritta che costringeva i romanzieri ottocenteschi a distinguere sempre il bene dal male.
Pensateci: ci imbattiamo nel sublime Vautrin solo alla fine di Illusioni perdute proprio perché Balzac vuole preparagli la grande entrée che meritano i malvagi! Ma pensate anche a quanto Conrad ci parli di Kurtz prima di mostrarcelo o a quante chiacchiere inutili ci imponga Dostoevskij prima di lasciare al suo Stavrogin la possibilità di manifestarsi. Stratagemmi narrativi atti a isolare quei satanassi nel teatrale cono di luce della loro perfidia metafisica. Ecco, diciamo che Max Aue, frutto della poetica post-novecentesca di Littell, è solo in apparenza imparentato con quei demoni ottocenteschi. Ed è proprio perché Max risulta assai meno teatrale e affascinante dei suoi gloriosi predecessori, proprio perché la sua presenza scenica non ha alcuna potenza shakespeariana, che lui ci somiglia: appare un nostro consanguineo, come lui stesso rivendica al principio del suo memoriale.
L'intento di Littell (ribadito da quest'ultimo libro che rappresenta il nucleo teorico de Le Benevole) è di illustrare come il male ci riguardi in quanto fenomeno terreno. In tale senso il secco e l'umido vanno intesi come simboli profani della condizione umana.
Non conosco romanzo meno religioso de Le Benevole.
Littell è letteralmente impantanato nei fluidi della vita, e la sua narrazione strabocca di fango, neve, sangue, escrementi, liquido seminale. È come se la forza di gravità schiacciasse in terra come scarafaggi sia i lettori sia i personaggi. Così Littell ci induce a riflettere sulla «psicologia fascista»: essa va sì storicizzata, senza dimenticare che fa parte del Dna collettivo. Un virus non debellabile.
«Non siamo gli ultimi» era il titolo apocalittico di una serie di quadri dipinta da Zoran Music sulla sua esperienza a Dachau. Un titolo che esprimeva una semplice verità cara a Littell: non ci sono azioni che un gruppo di individui abbia commesso che altri uomini prima o poi non possano ripetere. Come a dire che la storia, nella sua saggezza, è più efficace nell'impartire lezioni di perversità che di misericordia. E che la psicologia individuale, a confronto di determinate condizioni, è destinata a ripetere le medesime malvagità, se possibile avvalendosi di strumenti sempre più sofisticati.
Perché mai tutto ciò — una così nuda verità su noi stessi — non dovrebbe essere materia di romanzo?

Corriere della Sera 7.5.08
I contenuti del saggio
Degrelle e il fantasma della Arendt

Le sec et l'humide (Gallimard, 2008) è un breve saggio scritto da Jonathan Littell mentre raccoglieva materiale per Le Benevole
(Einaudi, 2007), il suo romanzo di esordio di eccezionale successo. In questo libriccino Littell abbozza un'analisi psico-filologica del memoriale di Léon Degrelle — famoso nazista belga amico e ammiratore di Hitler — sulla sua esperienza sul fronte orientale nelle file delle Waffen SS. Per scrivere questo saggio, Littell si è avvalso dell'esempio offerto da Klaus Theweleit in Fantasie virili, uno studio che tentava di delineare i caratteri della «psicologia fascista», attraverso le relazioni tra misoginia, sadismo, omosessualità, militarismo, antisemitismo e desiderio di annientamento. Munito di tale strumentazione, Littell non solo ha dimostrato come un tipo alla Degrelle — nel suo terrore per la vischiosa diversità del bolscevico — fosse il nazista perfetto, ma anche come un solerte burocrate alla Eichmann non lo fosse affatto.
Eichmann, scrive Littell «non ha bisogno di ammazzare ebrei per sopravvivere». E qui avvertiamo la presenza di Hannah Arendt il cui intelligentissimo fantasma, d'altronde, già volteggiava sui passi più felici de Le Benevole.

Corriere della Sera 7.5.08
Canfora, Panebianco e Sartori a confronto. Un'iniziativa della «Fondazione Corriere della Sera»
La democrazia e il regime virtuoso degli incompetenti
di Antonio Carioti

Inizialmente, nell'antica Grecia, la parola democrazia era usata in senso dispregiativo dai sostenitori delle forze oligarchiche, che vedevano il potere del popolo come un regime violento. Fra i tanti riferimenti storici emersi nel dibattito organizzato ieri a Milano dalla «Fondazione Corriere della Sera», questa osservazione di Luciano Canfora può apparire particolarmente curiosa, visto che nel mondo di oggi tutti, persino alcuni despoti, ci tengono a definirsi democratici.
Tuttavia gli omaggi formali non vanno confusi con la situazione reale. Chiamati a confrontarsi sul concetto di «Democrazia» nell'ambito di un ciclo dedicato alle «Alte Parole», i vocaboli più nobili in uso nel lessico contemporaneo, lo stesso Canfora, Angelo Panebianco e Giovanni Sartori hanno mostrato varie perplessità sullo stato di salute attuale dei sistemi politici rappresentativi. Non a caso — come ha osservato, nelle vesti di coordinatore, il vicedirettore del Corriere
Pierluigi Battista — quando si usa il termine democrazia lo si associa sempre più spesso alla parola crisi.
Il problema è capire se le difficoltà siano fisiologiche, oppure segnalino processi degenerativi allarmanti. Panebianco sembra propendere per la prima tesi: a suo avviso «la democrazia vive d'insoddisfazione», perché i suoi vantaggi si danno per scontati, mentre l'attenzione si concentra sui difetti. Dipende insomma da che cosa si chiede al sistema rappresentativo. Se si aspira a un effettivo autogoverno popolare o a una perfetta trasparenza del potere, è logico concludere che molte promesse non sono state mantenute, come sottolineava Norberto Bobbio. Se invece si ha della democrazia una visione strumentale, se la si concepisce come un mezzo per tutelare alcune libertà fondamentali, allora i suoi difetti diventano più tollerabili, visto che ha la grande virtù di rendere pacifica la competizione per il potere.
Più pessimistica l'analisi di Sartori, secondo il quale una democrazia può consolidarsi e prosperare se i cittadini ne comprendono i meccanismi, mentre il dilagare dell'ignoranza e dell'immaturità favorisce l'ascesa al potere di personaggi incompetenti. Il ruolo dell'informazione sarebbe appunto quello di mettere gli elettori in grado di scegliere a ragion veduta, ha proseguito Sartori, ma il trionfo della televisione — «altamente diseducativa », poiché esclude tutto ciò che non è rappresentabile tramite immagini — non lascia ben sperare per il futuro.
D'altronde, ha notato Canfora, la complessità dei problemi attuali rende assai difficile al singolo acquisire le conoscenze necessarie per pronunciarsi con la dovuta consapevolezza, tanto più che i sistemi educativi non vivono certo un momento felice. Ma in fondo, ha aggiunto Panebianco, spesso anche le minoranze illuminate dei sapienti commettono gravi errori. E almeno la democrazia ha il pregio di fondarsi sull'idea che nessun governante è infallibile.

il Riformista 7.5.08
Pd. Al via la corrente. subito due seminari a porte chiuse su voto e riforme
Una Gargonza democrat per D'Alema
Alla riunione anche i lettiani. Le nuove sedi e il progetto tv
di Stefano Cappellini

«Non è una riunione di corrente», ha premesso Massimo D'Alema alla sessantina di parlamentari del Pd riuniti a Roma ieri in una sala dalle parti di piazza Farnese dopo un fitto giro di passaparola. Ordine del giorno: trasformare la Fondazione Italianieuropei in un punto di raccordo per il dibattito interno al Pd, nell'«ossatura di una struttura per la elaborazione di idee e la promozione di classe dirigente», consentendo - tramite cambio di statuto - anche ai singoli (parlamentari, quadri e iscritti) di aderire alla Fondazione. Certo è però che, a dispetto della premessa, l'incontro di ieri ci somigliava parecchio, al primo passo verso una corrente guidata dal ministro degli Esteri uscente. Innanzitutto, per la presenza in sala di tutto lo stato maggiore dalemiano: da Pierluigi Bersani a Nicola Latorre, da Gianni Cuperlo a Barbara Pollastrini, dall'ex sottosegretario alle Comunicazioni Luigi Vimercati all'ex sindaco di Brescia Paolo Corsini, passando per i deputati e senatori di varie regioni. Assenti giustificati Ugo Sposetti e Livia Turco, alle prese con il trasloco dal ministero della Salute. C'erano in compenso presenza non scontate, come i lettiani Paolo De Castro e Francesco Boccia, a testimonianza che Enrico Letta guarda con molta attenzione ai movimenti dell'area dalemiana e il suo sì alla proposta di congresso anticipato di Walter Veltroni non va vista come uno schiacciamento sulla linea del segretario.
Ma non era solo la composizione della platea a suggerire la chiamata alle armi, bensì il complesso delle proposte. D'Alema ha prospettato l'apertura di nuove sedi: dopo Roma e Milano, anche Napoli e una tra Firenze Bologna. Ha convocato per metà mese un seminario a porte chiuse per l'analisi del voto e anticipato che intende fare altrettanto sulle riforme istituzionali, un combinato di appuntamenti che si annuncia come una sorta di Gargonza democrat . Ha annunciato che la Fondazione si doterà di una tv satellitare (e sul punto non ha rinunciato a un battuta ironica: «Avevo anticipato a Veltroni questa mia intenzione, poi il giorno dopo ho letto in un'intervista che voleva aprire la tv satellitare del Pd. Non era proprio un'idea sua, diciamo...»). Già fissate anche le date della summer school per aspiranti quadri.
L'accelerazione di D'Alema non prelude però a un'offensiva sul breve. La strategia dalemiana è tutta tarata sulla tornata elettorale del prossimo anno, quando tra europee e amministrative si tireranno le somme definitive sulla «nuova stagione» veltroniana. In vista di quella scadenza, l'imperativo è organizzarsi. Ieri, peraltro, è stata forse una delle giornate meno tese dopo la Waterloo elettorale, con D'Alema che ha incassato con soddisfazione l'apertura di Veltroni sul tesseramento e la riduzione del tasso di liquidità del Pd, e con il segretario che ha passato parte della mattinata alla Camera a confessare Cuperlo e Michele Ventura, capofila del dalemismo toscano, per tastare il polso alla insofferenza dell'area e tamponare il tamponabile.
Insomma, più che uno scontro campale si prepara una guerra di scacchi. Le premesse dello scontro interno sono già squadernate: la differente valutazione del voto e la distonia sul grado di autosufficienza del Pd e sulle possibili alleanze future. I passaggi su cui si misureranno i rapporti di forza sono la querelle sul congresso anticipato e quella sulle riforme istituzionali. Quest'ultimo è un tema molto in alto nell'agenda dalemiana, che ha sottolineato l'esigenza di formulare all'ombra della Fondazione, e quindi del Pd, di un apparato «ragionato» di proposte. Il timore che serpeggia dalle parti dell'ex presidente Ds è che Veltroni possa usare l'eventuale tavolo bipartisan, già promesso da Gianni Letta a Goffredo Bettini, per puntellare la sua leadership, insistendo sulla semplificazione bipartitica (ieri Liberazione si è appellata a D'Alema per stoppare l'ipotesi di un quorum anche alle europee) e magari aprendo al presidenzialismo con il grimaldello di una legge elettorale maggioritaria alla francese.

martedì 6 maggio 2008

l’Unità 6.5.08
Destra e Nord Est. La politica della violenza
di Nicola Tranfaglia


Tornando a Roma dal Veneto dopo una lunga campagna elettorale, avevo alcuni motivi di inquietudine che, purtroppo, sono diventati chiari nei giorni scorsi di fronte all’ignobile pestaggio in cui una banda di neonazisti veneti ha ucciso il giovane Nicola Tomaselli, colpevole soltanto di non appartenere al mondo che i picchiatori volevano rappresentare.
Nelle città del Nord Est che percorrevo ogni giorno e ogni sera, da Padova a Vicenza, da Rovigo a Verona, ma, soprattutto in questa ultima città, sentivo un’atmosfera cupa.
L’atmosfera di cittadelle assediate dagli stranieri che incontravamo nel centro e soprattutto nelle periferie, intenti ai loro lavori. Sentivo soprattutto una diffusa ostilità o indifferenza che non esprimeva nulla di buono da parte delle comunità o di parte di esse.
Quando mi dissero che non sarei potuto tornare a Verona per tenere un discorso il 25 aprile perchè il sindaco Tosi della Lega Nord, che aveva vinto le ultime elezioni comunali nettamente, favorendo per giunta l’accesso al consiglio comunale di un esponente della Fiamma Tricolore, Andrea Miglioranzi, noto per le sue simpatie neonaziste, non aveva concesso la piazza richiesta dalle organizzazioni della sinistra per celebrare la ricorrenza.
Non mi ero stupito di quel gesto, ma mi era parso che l’atteggiamento del sindaco, che aveva qualificato come “roba di archeologia” la celebrazione della Liberazione, fosse un ulteriore stimolo che si forniva alla divisione tra i veronesi e agli oltraggi continui alla costituzione repubblicana e ai valori che essa difende.
Ora la scoperta della violenza gratuita e programmata da parte di giovani di varie classi sociali che hanno preso sul serio l’alleanza benedetta dal sindaco tra la Lega (oggi di nuovo un partito di governo) e l’estrema destra, dovrebbe indurre le forze responsabili dei due schieramenti parlamentari a riflettere su quello che significa quell’alleanza e quella visione del mondo.
Si tratta di una visione che poggia sull’idea malsana di una patria razzista e ostile verso chi non vi appartiene o è addirittura diverso per idee e concezione del mondo, che perciò non è legittimato né a calpestare il suolo cittadino né a condividere tutto quel che spetta ai veronesi. E quando esponenti di Alleanza nazionale come La Russa, futuro ministro, e Gasparri hanno risposto all’allarme di Veltroni sulla situazione politica, accusandolo di abbaiare alla luna o di parlare di cose inesistenti, mi chiedo che cosa davvero divida quel partito da alleati elettorali come la Fiamma Tricolore o Forza Nuova che hanno costituito peraltro forze accolte a braccia aperte nel Popolo della libertà di Silvio Berlusconi.
La verità è che quei politici, e purtroppo anche esponenti dell’ex centro-sinistra che, nei giorni scorsi, hanno definito inesistente e del tutto oramai finito il pericolo di un ritorno al neofascismo di fronte ai saluti fascisti e alle invocazioni a Mussolini la sera della clamorosa vittoria che il 28 aprile scorso ha visto la vittoria a Roma di Gianni Alemanno, parlano di una società che non esiste e non si rendono conto dell’emergere in Italia, nel Veneto come a Roma e in molte altre città della penisola, di forze organizzate che si ispirano a una cultura fanatica e razzista, legata a una violenza squadristica, pronta a realizzarsi prima contro gli immigrati e subito dopo contro quegli italiani che la pensano diversamente.
Eppure le violenze diffuse contro altri italiani, oltre che contro gli extracomunitari, sono note per inchieste giudiziarie che datano da alcuni anni. Magistrati come Cuno Tarfusser a Bolzano e il procuratore capo di Verona Guido Papalia, hanno segnalato da oltre un anno a questa parte aggressioni e pestaggi gratuiti da parte di giovani del Veneto Fronte Skinheads che hanno diciassette sedi nel Nord e migliaia di iscritti e che vedono al loro interno iscritti di varie classi sociali che si muovo con la violenza nei confronti di quelli che non appaiono “omologati”. E Verona si distingue tra le città perché lì il patto tra la Lega e l’estrema destra razzista è iscritta dall’inizio nell’accordo politico ed elettorale che ha portato alla carica di sindaco Flavio Tosi e che ne fa uno dei possibili successori nei prossimi anni del presidente della regione veneta Galan.
Eppure le leggi per perseguire le organizazioni di cui fanno parte gli aggressori degli ultimi episodi di violenza nella città scaligera ci sono. Basta ricordare la legge Mancino del giugno 1993 che detta «misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa». In quella legge, che inutilmente l’onorevole Fiore di Forza Nuova ha tentato di far abrogare nella quindicesima legislatura, all’articolo 2 si dice con chiarezza che «è vietata ogni organizzazione, associazione,movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione dai sei mesi ai quattro anni».
Ci chiediamo, di fronte a quel che sta accadendo, perché le forze dell’ordine e la magistratura non siano ancora intervenute in maniera efficace e tempestiva, possibilmente preventiva, nei confronti del Fronte Veneto e di altri movimenti similari che da anni si muovono con la violenza nel Nord Est e altrove.

l’Unità 6.5.08
Il Mare nostrum e la Legge 40
di Carlo Flamigni


Le nuove linee guida sulla legge 40 sono un passo nella direzione giusta
Certo, si poteva fare di più. Ma in un Paese dove il neopresidente della Camera ricomincia a parlare di Mare Nostrum è bene non illudersi

In questi ultimi tempi, a peggiorare ulteriormente il mio malessere (inutile che ne precisi le cause) sono arrivate alcune dichiarazioni degli esponenti della destra vittoriosa che hanno deciso che non esistono più barriere per le loro esternazioni. Ne potrei citare una infinità, mi limito a riportarne due, entrambe dell’onorevole presidente Fini, che mi sembrano particolarmente significative e che il neo-presidente della Camera dei Deputati ha inserito nel suo primo discorso al Parlamento, subito dopo la sua elezione. Il Paese è laico, ha detto Fini, e la laicità è un bene prezioso e una ricchezza incalcolabile per tutti noi; naturalmente, ha aggiunto, il primo dovere di un Paese laico è quello di riconoscere il fondamentale ruolo del cristianesimo nella costruzione della nostra società e nella formazione delle nostre radici culturali. Se ho capito bene - qualche volta il pensiero del Presidente è tortuoso - la laicità se la sono inventata i Vescovi, ai quali dobbiamo imperitura gratitudine e naturale ubbidienza. C'è stata in passato una teoria del genere (la dottrina delle due spade) ma riguarda papa Gelasio II e l’anno, se lo ricordo bene, era il 494... Poi l’onorevole Presidente Fini mi ha rispedito nel passato, in un momento della mia vita di ragazzo che pensavo di aver dimenticato: avevo poco più di dieci anni e partecipavo a una delle poche adunate oceaniche alle quali mia madre mi consentiva di esser presente, preoccupata come era per la mia salute e terrorizzata dal timore che prendessi freddo. Il capomanipolo, voce stentorea, mani sui fianchi, ci arringava sui diritti dell’Italia Fascista, parlava di Nizza, della Savoia, di Malta, della fatale Corsica e soprattutto parlava del Mare Nostrum e continuava a ripetere Mare Nostrum, Mare Nostrum. Così, quando il neopresidente ha detto «Mare Nostrum», ho avuto una piccola crisi di nervi, mi sono completamente confuso e, dritto (per quanto possibile) sulla persona, convinto di aver intonato a gola spiegata «Bella ciao», ho invece cominciato a cantare, sotto lo sguardo stupefatto e un po’ spaventato di mia moglie, «Ciao ciao bambina». L’età, sapete.
Nel pomeriggio le cose sono molto migliorate, perché è uscita la notizia che il ministro della Salute ha finalmente approvato le nuove linee guida sulla legge 40, eliminando la proibizione di eseguire indagini genetiche pre-impiantatorie, ammettendo ai trattamenti le coppie affette da malattie infettive e inserendo, come novità, l’obbligo per i centri di mettere a disposizione delle coppie che ne facciano richiesta una consulenza psicologica. Poiché molti mi hanno chiesto un parere, ho pensato di confidarlo (il clima non è adatto alle dichiarazioni, accontentiamoci delle confidenze) ai miei lettori dell’Unità.
È bene anzitutto ricordare che le linee guida previste per la legge 40, contrariamente alle linee guida relative a tutti gli altri problemi della medicina che sono soltanto indicative, non possono essere ignorate, rappresentano un vero e proprio obbligo. Le prime linee guida sono state preparate da una commissione nella quale hanno avuto un ruolo prevalente due professori di storia del diritto romano, noti soprattutto per il loro rigore di cattolici radicali. Questo fatto giustifica alcune delle scelte fatte dalla commissione, che ha interpretato in senso restrittivo molti degli articoli della legge, recando imbarazzo persino in una parte dei commissari cattolici meno intransigenti.
Uno dei temi più controversi affrontati da quella prima commissione è stato proprio quello delle indagini genetiche preimpiantatorie, che in realtà la legge non proibisce espressamente ma che trovavano un serio ostacolo solo in un articolo nel divieto di eseguire interventi definiti genericamente come “eugenetici”. Le linee guida, con una scelta molto discutibile, hanno invece espressamente proibito ogni indagine sull’embrione che non sia morfologica (in pratica hanno consentito solo esami completamente inutili) e questo ha sollecitato molte coppie portatrici di malattie genetiche ad andare a cercare fortuna nei laboratori stranieri. Negli ultimi tempi il tribunale di Cagliari e quello di Firenze hanno accettato il ricorso di coppie che ritenevano illegittima questo divieto e il Tar del Lazio ha considerata illegittima la parte delle linee guida che contiene proprio questa proibizione. Le nuove linee guida, appena varate dal ministro Turco, hanno deciso di tenere conto di queste decisioni della Magistratura e non fanno menzione di particolari divieti.
È, lasciatemelo dire, una vittoria molto parziale, per varie ragioni. Anzitutto resta l’obbligo di fertilizzare soltanto tre oociti, cosa che in pratica annulla il significato della liberalizzazione, che resta solo una dichiarazione di principio, importante dal punto di vista simbolico, ma niente di più. Per varie ragioni, infatti, per far sì che le indagini genetiche sull’embrione possano essere eseguite con qualche speranza di risultare utili, è necessario che il laboratorio possa disporre di un numero di embrioni significativamente maggiore. È vero che il Tar del Lazio ha interrogato la Corte Costituzionale sulla liceità della norma che limita il numero di oociti che possono essere fertilizzati e che esistono vari ricorsi recentemente presentati in varie città italiane proprio su questo punto, ma al momento la proibizione resta valida e le coppie italiane continuano a frequentare i laboratori stranieri. Il secondo punto riguarda la proibizione di eseguire interventi che possano essere considerati “eugenetici” e immagino che sul significato di questo termine si aprirà una discussione infinita: solo per fare un esempio ricordo che la signora Binetti, donna di sentimenti deliziosi e di convinzioni inesorabilmente sbagliate, ritiene che sia un atto di eugenetica impedire a un embrione gravemente malformato di proseguire nel suo sviluppo e di nascere, laddove a me sembra un atto di straordinaria crudeltà lasciarlo venire al mondo. Comunque la scelta di non trasferire un embrione nel grembo materno ha a che fare soltanto con la salvaguardia della salute psicologica e fisica della madre e questo ha ben poco a che fare con l’eugenetica, ammesso che questa parola abbia il senso che il mondo cattolico le vuole attribuire. In ogni caso sono convinto che su questo argomento moltissime persone troveranno modo di far sentire la propria voce e che, come sempre accade quando parlano gli incompetenti, ne udiremo delle belle. Per ultimo, ricordo che alle coppie portatrici di malattie genetiche non è comunque concesso di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (a meno che non siano sterili) e che questo problema dovrà inevitabilmente essere affrontato dalla magistratura, che sarà certamente chiamata a decidere cosa in realtà significhi “coppia infertile”, una definizione che identifica non tanto la sterilità, quanto piuttosto l’abortività ripetuta e la incapacità di mettere al mondo figli sani, cioè il problema che affligge, tra le altre, anche le coppie che sono portatrici di malattie genetiche.
La seconda novità delle linee guida era attesa, da oggi anche le coppie con malattie infettive potranno accedere ai trattamenti: proibirli era una ingiustizia troppo grossa e comunque era molto facile per queste coppie evitare i rigori della legge auto-certificando la propria sterilità.
Ultimo punto: la disponibilità di uno psicologo esperto per le coppie che ne richiedono la consulenza, un provvedimento giusto e corretto, non so quanto necessario perché la maggior parte dei Centri avevano già da tempo provveduto ad arruolare un esperto.
In conclusione, ritengo che queste linee guida rappresentino il massimo che il ministro Turco era in grado di fare. La donna è brava, ha molti pregi e molta determinazione (soprattutto quando la via è sgombra da ostacoli) ma non è certamente un cuor di leone e ho la sensazione che la signora Binetti (che gode del vantaggio di essere molto più vicina di lei alle sfere celesti) la intimorisca un po’. In assoluto, si poteva certamente fare di più, sia ammettendo direttamente ai trattamenti le coppie con problemi genetici, che accettando le proposte di molti biologi e di moltissimi bioeticisti (parte dei quali di fede cattolica) relative alla definizione di embrione e all’esistenza di una fase pre-embrionale che termina con la formazione dello zigote (che rappresenta il primo momento in cui l’embrione ha un patrimonio genetico unico, prima i cromosomi materni e quelli paterni sono separati). Per fortuna in questo Paese la saggezza non scompare mai contemporaneamente in tutte le categorie: attualmente, mentre mi sembra che non ce ne sia più (ma proprio più) negli uomini politici, mi accorgo che la conservano, con bella tenacia, i magistrati.

Post Scriptum
Non ho avuto il coraggio di verificare se le nuove linee guida hanno finalmente incluso un limite d’età per le donne che chiedono di poter disporre dei propri embrioni congelati. Vorrei che qualche compagno lo controllasse per me e poi mi informasse sui risultati della sua ricerca. Con cautela.

Corriere della Sera 6.5.08
Le corsie diventano manicomi
Pochi servizi, ricoveri in ospedali e cliniche. Oltre due milioni i malati di mente gravi
di Francesca Basso


Sono passati trent'anni da quel 13 maggio 1978 che portò tra mille polemiche alla chiusura dei manicomi. Ma solo otto dalla dismissione dell'ultimo, il Santa Maria della Pietà di Roma. Fallimento? Riforma incompiuta? Superate le barricate tra psichiatria tradizionale e antipsichiatria, il mondo della medicina concorda su un unico punto: indietro non si torna. Su come migliorare la situazione, invece, molti hanno le loro ricette. Ma il ministero della Salute avverte: il rischio è un ritorno al manicomio con altro nome.
La data di chiusura del Santa Maria della Pietà mostra la forza e i limiti della 180, che tutti ricordano come legge Basaglia, dal nome dello psichiatra che incarnò la battaglia contro l'«istituzione negata». La rivoluzione sta nell'avere riconosciuto al malato di mente dei diritti, togliendogli l'etichetta di pericolo per la società, e nell'avere introdotto il principio di volontarietà della cura; i limiti sono legati ai ritardi e alla disomogeneità di applicazione della 180, derivanti dalla sua natura di legge quadro, che lascia alle Regioni la responsabilità di organizzarne l'applicazione. Resta il fatto che l'Italia è l'unico paese al mondo senza manicomi e i principi ispiratori della Basaglia sono gli stessi alla base del Green paper sulla salute mentale approvato dall'Unione europea nel 2005.
Nel nostro paese i pazienti affetti da malattie mentali gravi sono circa 2 milioni e 200 mila. In Europa 93 milioni. «Si ritiene che il tasso di incidenza sia di un malato ogni 10 mila persone all'anno: ad esempio, in una regione come la Lombardia, che ha circa 10 milioni di abitanti, l'insorgenza è di 1.000 nuovi casi all'anno. Che se non curati adeguatamente diventano cronici, in genere a carico delle famiglie» spiega Ernesto Muggia, presidente onorario dell'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale (Unasam), che riunisce 160 organizzazioni. L'aspetto sociale, dunque, è tutt'altro che secondario visto che la 180, in un certo senso, ha rimandato in famiglia i pazienti, prevedendo solo per i casi acuti il ricovero nei reparti di psichiatria degli ospedali, limitando i trattamenti sanitari obbligatori, privilegiando la riabilitazione e il reinserimento nella società. Insomma, sulla carta tutto bene. Ma la fotografia del territorio mostra molte luci e ombre. Come denunciato dal ministero della Salute nelle Linee di indirizzo nazionali per la salute mentale, approvate il 20 marzo scorso e recepite dalla Conferenza delle Regioni: sono aumentate molto le differenze tra Nord e Sud, tra regione e regione, tra ambiti urbani e rurali; destano preoccupazione alcuni segnali di arretramento rispetto ai livelli di deistituzionalizzazione raggiunti. Il ministero manifesta il timore di un «maggiore ricorso all'obbligatorietà dei trattamenti, a pratiche estese di privazione della libertà e di contenzione, a inserimenti su vasta scala in strutture a tempo indeterminato».
L'anello debole nell'applicazione della Bisaglia sono quei servizi sul territorio che avrebbero dovuto fare prevenzione, cura e riabilitazione e che invece non sono stati adeguatamente potenziati. Per cui spesso il ricovero rappresenta l'unica soluzione per un malato grave, che nel migliore dei casi entra ed esce dall'ospedale, nel peggiore resta a vita in una clinica magari privata.
Gisella Trincas, ora alla guida dell'Unasam, mette a fuoco il problema: «Dipende dalle Regioni fare una scelta anziché un'altra, privilegiare i centri di salute mentale oppure i posti letto nelle cliniche private. I dati per valutare però ci sono. Un posto in clinica privata costa al giorno 400/500 euro, in una struttura residenziale 250/300 euro, in una casa normale organizzata 120 euro».
Per la salute mentale pesa, forse più che in altri campi, l'intreccio tra politica sociale, investimenti e scelte terapeutiche. Un esempio? «In Lombardia i servizi psichiatrici non sono all'avanguardia come magari ci si potrebbe aspettare» spiega lo psichiatra Arcadio Erlicher, primario all'ospedale Niguarda di Milano: «C'è stata una restrizione della spesa sanitaria, che rende impensabile un miglioramento. È ovvio però che la situazione di oggi non è paragonabile a quella del '78».
«La Lombardia — per la Trincas — ha un problema di fondo: ha privilegiato la sanità privata». Per Erlicher resta «la necessità di servizi territoriali più consistenti: spesso sono stati trasformati in ambulatori specialistici. Aspettano il malato e sono meno attivi verso il disagio del paziente e della famiglia che lo ha in carico. C'è stata una frattura — conclude — tra una generazione di operatori psichiatrici impegnati nel superamento del manicomio e una generazione medicalizzata e orientata sull'uso dei farmaci: serve una maggiore integrazione».
Ci sono anche realtà che funzionano bene. Trieste, ad esempio, è uno dei centri d'eccellenza per la salute mentale. Del resto è da qui che partì la rivoluzione di Franco Basaglia. Il risultato è 6/7 casi di trattamenti sanitari obbligatori su 100 mila abitanti, 4 volte meno della media nazionale. Il direttore del Dipartimento di salute mentale, Giuseppe Dell'Acqua, spiega il successo: «Abbiamo centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, un servizio che in molte parti del paese non è così esteso. Stiamo anche sperimentando il "Budget di salute": costruiamo un progetto di cura e di riabilitazione individuale. Altrove, magari, si preferisce mandare il malato in comunità, ma non è detto che poi riesca a emanciparsi e a reinserirsi». In Italia in genere il problema è che da una parte ci sono gli acuti e dall'altra i cronici, ma in mezzo non c'è quasi nulla. «I servizi di prossimità sono estremamente fragili — continua Dell'Acqua —. C'è una sorta di contraddizione tra le indicazioni dichiarate di attenzione alla persona e alla famiglia e il modello medico che persiste e vede solo la malattia e non le persone». Difende il modello medico Giovanni Battista Cassano, direttore del Dipartimento di psichiatria dell'Università di Pisa, che nel '78 contestò la legge 180 «perché ritenevamo che fosse necessario un passaggio graduale e disapprovavamo il modello basagliano che negava la clinicità della malattia mentale », ma che oggi definisce «la terapia di comunità un bene prezioso da far evolvere». «Ora che abbiamo pagato costi altissimi — conclude — non ha senso tornare indietro».

Corriere della Sera 6.5.08
La storia La testimonianza in un libro
«La follia di mio padre in quelle porte girevoli»
di Alessandra Muglia


La nuova frontiera: «Dentro e fuori l'ospedale, ti danno una terapia, ti compensano e poi ti buttano fuori. E fuori dalle corsie non comincia alcun percorso»
Il pregiudizio: «In famiglia la malattia è un terremoto che scardina la vita. C'è anche la vergogna perché il pregiudizio non è sparito con i manicomi», dice Luana De Vita

MILANO — «Papà, la legge che ha chiuso i manicomi non è riuscita a fermare il disastro, è stato un continuo rotolare verso il basso. Libero di scegliere se sottoporti o no alle cure... hai perso tutto».
È un bilancio amaro quello che Luana De Vita, psicologa docente alla Sapienza di Roma con un padre in cura, tracciava in Mio padre è un chicco di grano
(Nutrimenti). Un racconto in prima persona di cosa significhi in Italia convivere con la malattia mentale prima e dopo la legge Basaglia.
Ma la sua non è una difesa della situazione prima del '78. Anzi. Lo si capisce bene leggendo Il volo del cuculo, libro-inchiesta (con dvd) sui trent'anni della legge 180, che De Vita ha scritto con Mimosa Martini, in uscita il 9 maggio.
Il «verdetto» è poco confortante: si è passati dalle porte chiuse dei manicomi alle porte girevoli. Le revolving door sono la nuova frontiera della follia. Porte che girano continuamente su se stesse, pronte a prenderti e a risputarti poco dopo. Un dentro-fuori che si ripete, una sorta di eterno ritorno che corrode ogni speranza di guarigione.
«Nei servizi di salute mentale domina una psichiatria farmacologica che ti somministra una terapia, ti compensa e poi ti ributta fuori» sintetizza De Vita. Il punto è che fuori dalle corsie dovrebbe cominciare il percorso terapeutico ma spesso c'è il nulla o poco più. «Mio padre per esempio una volta dimesso dall'ospedale è stato spedito a casa in taxi a spese sue», racconta. Fino alla prossima crisi. Ma così si tamponano soltanto le emergenze.
E non è soltanto una questione di soldi. «È anche un problema di volontà: chi vuole organizzare un servizio in modo diverso può farlo — assicura l'autrice —. Ci sono strutture, poche per la verità, che non si limitano a dispensare farmaci, che elaborano progetti di vita e mettono in piedi reti per realizzarli: terapie di gruppo, gruppi di auto-aiuto, incontri con le famiglie».
Così a volte saltano fuori risorse inaspettate. «Un paziente per esempio ha messo a disposizione il proprio appartamento ed è nata una casa-famiglia — racconta —. La libertà è terapeutica solo se all'esterno esiste un mondo capace di accogliere e trasformare il disagio ».
Questo era lo spirito della 180. Ma in Italia dove è stato rispettato? «Ad esempio al centro di salute mentale di Trieste aperto 24 ore su 24 dove pazienti e familiari possono fermarsi anche a dormire. Ma anche a Livorno, Cagliari, Nuoro, Mantova, Aversa. A Roma invece la sera è tutto chiuso, tranne l'ospedale». Di un controllo qualità del lavoro dei servizi neanche a parlarne: «Non esiste un registro degli interventi, figuriamoci una stima della loro efficacia».
C'è anche chi si fa scudo della Basaglia per non muovere un passo: può capitare (e alla De Vita è capitato) che alla segnalazione del familiare il medico risponda: «Se il malato non viene di sua volontà non possiamo farci niente». Ma la legge dice che deve esserci un'assistenza territoriale, quindi visite a domicilio. Perché «spesso fa parte della malattia la volontà di non curarsi: dallo schizofrenico all'anoressica, il paziente ha sintomi che non riconosce come tali».
De Vita racconta la sua odissea tra l'anarchia di certi reparti psichiatrici e denunce penali per abbandono di incapace. Ma a una famiglia quanto costa un paziente psichico? «Troppo, è un terremoto che scardina la vita. Spesso il prezzo più alto è lo stigma e la vergogna: nessuno si preoccuperebbe di parlare dell'infarto del padre, diverso è ammettere che un proprio caro soffre di disturbi psichici. Il pregiudizio verso la malattia mentale non è sparito con i manicomi» constata amara.
I veri protagonisti della loro chiusura sono gli psicofarmaci: gocce e pillole hanno reso possibile «la magia» della libertà terapeutica. «Se utilizzati bene sono utili. Con le psicosi sono fondamentali, creano le condizioni per l'intervento terapeutico. In altri casi occorre limitarli: in psicoterapia si lavora sui sintomi e non va bene eliminarli del tutto. Invece abbiamo una mentalità che delega la soluzione dei problemi ai farmaci».
Anche il mercato con le sue pressioni fa la sua parte. «Le case farmaceutiche entrano diritte nelle scelte mediche. Basti pensare che l'anno scorso il più importante convegno italiano di psicopatologia, quello della Sopsi, è saltato perché le case farmaceutiche hanno sospeso i rimborsi per i viaggi dei medici in segno di protesta contro il decreto Bersani. Poi ci sono malattie che sembrano create per commercializzare il farmaco come la "sindrome disforica premestruale"».
Bisognerebbe invece occuparsi più della persona malata che della malattia: è una lezione che la De Vita ha imparato sulla propria pelle. «Avevo poco più di vent'anni quando per un fibroma volevano asportarmi l'utero. Rimasi perplessa e trovai studi americani su donne con tumori all'utero e al seno. Spesso si verificavano in concomitanza con traumi e perdite. Il mio fibroma poteva essere una risposta alla sofferenza per la mia recente separazione: forse bastava lavorare sulla mia situazione emotiva per stare meglio. Non mi feci operare, iniziai a studiare psicologia, e più avanti ho avuto due splendide gravidanze».

Corriere della Sera 6.5.08
Sbarramento alle Europee. Critiche da Ferrero alla Palermi: Walter vuole macellarci. Sì da FI, cauta An
La sinistra radicale insorge: D'Alema-Bersani aiutateci
di Paola Di Caro


ROMA — Per non «tornare indietro » sulla strada del bipolarismo, per evitare di «annullare l'effetto semplificazione » già dalle prossime elezioni europee del 2009, la soluzione ci sarebbe: «Alzare la soglia di sbarramento» per accedere alla ripartizione dei seggi. Proposta targata Pd veltroniano, lanciata da Ermete Realacci e Dario Franceschini, per niente invisa al Pdl o comunque a Forza Italia che invita a ragionarci su, meno interessante per An, visto che Fini chiede che di legge elettorale ci si occupi solo dopo aver varato le riforme.
Ma l'idea di introdurre una soglia — magari al 2/3%, tale da impedire la rappresentanza di partitini che già oggi sono fuori da Camera e Senato — fa arrabbiare tanti. A sinistra soprattutto, dove la mossa del Pd viene letta come il tentativo estremo di eliminarne la rappresentanza, ma anche a destra. E insorgono i piccoli del Pdl, come Rotondi o il repubblicano Giorgio La Malfa.
«Non essendo in grado di contrastare il consenso e il potere delle destre, l'ala veltroniana del Pd si dispone a macellare la sinistra. Non hanno altra spiegazione le dichiarazioni di Franceschini», ruggisce per il Prc Paolo Ferrero, in linea con Manuela Palermi che parla di volontà di «sterminio» della sinistra, e che a sua volta opera una distinzione tra Pd veltroniano e quello rappresentato da D'Alema che ipotizza invece un ritorno ad alleanze vaste, a sinistra come al centro: «Per fortuna — dice l'esponente del Pdci — che anche all'interno del Pd sento voci più sensate. Mi vien voglia di dire: D'Alema e Bersani, pensateci voi».
Alle critiche si unisce Franco Grillini, della Costituente socialista, in sintonia per una volta con il leader della Destra Francesco Storace: «Hanno paura che fra un anno si sveli a pieno la frottola del voto utile? Fa pena questa politica che comincia di nuovo a parlare di sé e non dei cittadini». E Rotondi e La Malfa bocciano una proposta «indice di una visione non democratica delle istituzioni» e «ingiustificata ».
E però, come spiegano da Forza Italia, anche se l'uscita non era affatto concordata è vero che «dalle nostre parti viene considerata con attenzione, e loro lo sanno». Bisogna però andarci con i piedi di piombo, come fa il neoeletto capogruppo dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchitto: «La legge elettorale con cui viene eletto il Parlamento europeo deve favorire il bipolarismo e, se possibile, il bipartitismo, anche se è prematuro adesso parlarne», perché come aggiunge il vicepresidente vicario del gruppo al Senato Gaetano Quagliariello «bisogna aspettare di sapere chi saranno i nostri interlocutori dall'altra parte prima di iniziare a discutere in primo luogo di funzionamento delle Camere, e poi di leggi elettorali a livello europeo e nazionale. Ma è ovvio che la nostra attenzione al tema c'è, se troveremo una sponda dall'altra parte, bene».
Già, ma serve appunto molta cautela, anche per non far insospettire An — l'altra grande componente del Pdl — e non dare l'impressione di un rapporto privilegiato tra azzurri e Pd veltroniano. E infatti il primo a frenare sull'argomento, guarda caso, è proprio il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Secondo il quale, anche se incombe il referendum elettorale nel 2009 «prima si definisce l'architettura istituzionale, e solo alla fine si fa la legge elettorale...».

Corriere della Sera 6.5.08
Allo studio un inalatore caricato con un derivato del testosterone che può bloccare l'ovulazione
Addio pillola, il futuro è lo spray anticoncezionale
di Adriana Bazzi


PRAGA — Si usa come un profumo, funziona come una pillola contraccettiva: uno o due puff sulla pelle ed ecco l'effetto «niente figli».
«Gli spray anti-concezionali sono ancora nella prima fase di ricerca — ha ricordato R. Sitruk- Ware della Rockefeller University di New York nel suo intervento al X Congresso della European Society of Contraception in corso a Praga — E se questa darà i suoi frutti contribuirà ad allargare l'offerta di metodi per una contraccezione che sta diventando sempre più personalizzata, "tailor made", dicono gli esperti, come un abito confezionato su misura da un sarto».
Il sistema lo hanno inventato gli australiani, esperti nello studio di filtri solari e di assorbimento di sostanze da parte della pelle. Si tratta in pratica di un dispositivo, simile a quegli inalatori usati dai pazienti con l'asma, caricato questa volta con un derivato del testosterone, un ormone capace di bloccare l'ovulazione. Appoggiato sull'avambraccio, libera una dose controllata del farmaco che in 30 secondi attraversa gli strati più superficiali della pelle e si deposita in quelli profondi che diventano un serbatoio. Da lì l'ormone viene a poco a poco liberato nel sangue dove il livello utile per bloccare l'ovulazione si mantiene anche dopo 36 ore dall'ultimo puff. Così hanno dimostrato, con uno studio pubblicato su Contraception, alcuni ricercatori australiani dell'University of Sydney che sottolineano i vantaggi della «pillola «-spray: è invisibile (non come i cerotti che d'estate, al mare, si vedono) ed è a prova di dimenticanza (saltare un puff non è un problema, saltare una pillola estroprogestinica sì).
«La contraccezione del futuro — puntualizza Emilio Arisi, ginecologo a Trento — punta anche alla cosiddetta "dual protection" o "double Dutch" (dutch perché l'hanno proposta per primi gli olandesi): associare un contraccettivo (pillola o spirale) a un metodo che metta al riparo anche dalle infezioni sessualmente trasmesse (non solo Aids, ma epatite, infezioni da papillomavirus, persino da germi di sifilide e da gonorrea, malattie che stanno riemergendo), come il preservativo».
Anche i metodi anti-concezionali classici si stanno sempre più affinando, mentre altre forme di contraccezione, come quella di emergenza, stanno facendo discutere.
«Oggi — conferma Rossella Nappi ginecologa a Pavia — si prendono in considerazione anche i benefici non-contraccettivi della pillola, compresi gli effetti "cosmetici" sulla pelle o sulla silhouette che i prodotti di ultima generazione assicurano».
L'Italia comunque è uno dei Paesi europei che utilizza meno la pillola rispetto ad altri (al primo posto sta ancora il preservativo seguito dal coito interrotto), ma ha visto negli ultimi tempi un boom della contraccezione di emergenza: 320.000 confezioni di pillola del giorno dopo vendute nel 2006, 370 mila nel 2007.
«Questo approccio — dice Giorgio Vittori, ginecologo a Roma e presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia — deve restare di emergenza e non diventare un metodo anticoncezionale di routine».

Corriere della Sera 6.5.08
Per la prima volta in edizione integrale gli appunti dell'intellettuale ucciso dai nazifascisti
Artom, partigiano senza retorica
Nel diario anche gli aspetti sgradevoli e brutali della guerriglia
di Sergio Luzzatto


Provate a immaginare un partigiano che tiene un diario. Che sfida le regole più ovvie della prudenza militare, oltreché gli imperativi più cogenti di un'esistenza randagia, per affidare alla pagina scritta il racconto in presa diretta della «vita di un bandito» nelle valli piemontesi, dal novembre 1943 al febbraio '44. E provate a immaginare che quel partigiano, anziché idealizzare la sua condizione di combattente per la libertà, decida di non sottacere nulla, ma proprio nulla della Resistenza vista dall'interno: i calcoli, le volgarità, i fanatismi, le violenze. Provate a immaginare tutto questo, e avrete un documento storico straordinario, che esiste davvero e che è stato appena ripubblicato (per la prima volta in versione integrale) dalle edizioni Bollati Boringhieri: è il Diario partigiano di Emanuele Artom.
Rampollo di una famiglia della borghesia ebraica torinese, colto e appassionato quanto timido e maldestro, Artom aveva ventotto anni quando aderì al Partito d'Azione, subito dopo l'8 settembre '43, e raggiunse le bande dei «ribelli» tra la Val Pellice e la Val Germanasca. Denunciato da una spia e catturato dai nazifascisti in un rastrellamento del 26 marzo '44, fu riconosciuto quale commissario politico del Partito d'Azione, e inoltre quale ebreo. Venne più volte torturato. Fu anche fotografato a cavallo di un asino, con un ridicolo cappello sulla testa e una scopa sotto il braccio, il viso tumefatto: «bandito ebreo catturato», recitava la didascalia della foto su un periodico collaborazionista. Trasferito alle Carceri Nuove di Torino, morì il 7 aprile, dopo avere patito ogni genere di sevizie. Sepolto in un bosco presso Stupinigi, il suo corpo non è stato mai ritrovato.
Di mestiere, Artom voleva fare lo storico. E appunto per «storicismo » decise di redigere un diario resistenziale (ma l'aveva cominciato fin dal 1940), trasmettendone fortunosamente le pagine ai genitori sfollati e nascosti: «In futuro sarà una interessante testimonianza, perché credo che pochi siano i partigiani che lo tengono con tanta assiduità e, d'altra parte, per ovvie ragioni si scrivono poche lettere confuse e prive di notizie politiche ». Un diario dove l'intellettuale un po' grafomane si sforza di registrare ad uno ad uno i risvolti quotidiani della vita della banda, e per farlo deve misurarsi prima ancora che con la politica con l'antropologia di un microcosmo composto di uomini giovani, a volte ribaldi, spesso zotici, non di rado allupati. Il borghese Artom cela a malapena il suo disprezzo per i compagni d'arme di origini operaie, segnatamente per i capi comunisti, «attivi, pratici, cordiali, ma fanatici e ignorantissimi». Partigiani che domandano se Omero abbia scritto in greco antico o moderno, che confondono Croce con Lombroso, che sputano sul fieno dove devono dormire e scoreggiano fragorosamente prima di addormentarsi... «Come potremo affidare a questa gente il governo dell'Italia?». Severo come un maestro elementare d'altri tempi, Artom registra nel diario anche la scena di «quel vecchio porco di Nicola», che «faceva vedere ai ragazzi delle fotografie oscene». Ma Emanuele stesso è un giovane uomo che la vita in montagna ha separato dalle donne. Capita dunque pure a lui di guardare con interesse «due fotografie di R. seminuda» (è l'amante del suo migliore amico), e gli capita di sognare quando condivide con due compagni «un immenso letto con 3 posti » il letto a tre piazze dell'Orlando furioso dove giacevano Astolfo, Fiammetta e Iocondo: «Ma purtroppo Fiammetta non c'è».
Nel lucido saggio pubblicato in appendice al Diario partigiano, lo storico Guri Schwarz sottolinea come il testo non manchi di implicazioni propriamente politiche. Da un lato, il diario di Artom documenta il disagio incontrato dall'intellighenzia azionista di città nel comunicare con i ribelli di periferia o di campagna. Troppo colti e smagati, troppo snob, i partigiani- professori non sapevano parlare al cuore di manovali e di braccianti che si esprimevano quasi soltanto in dialetto, e che erano saliti in montagna da renitenti alla leva di Salò piuttosto che da resistenti: più facile che gli «apolitici» si lasciassero incantare, semmai, dal ferreo dogmatismo comunista. D'altra parte, il diario documenta le perplessità di certi capi partigiani nell'aderire ai «metodi fascisti» di combattimento della guerra civile. In particolare, Emanuele Artom fu tra quanti (pochi) criticarono la prassi di uccidere i nemici tedeschi o saloini dopo averli fatti prigionieri. Avrebbe preferito graziarli, a costo di subirne un danno militare: «Almeno davanti alla popolazione e alla storia si sarebbero rese note le differenze fra i due metodi ».
Parole come queste bastano da sole a suggerire la ricchezza del testo di Artom. Ma le parole che maggiormente colpiscono il lettore del 2008 sono quelle con cui l'autore commenta due ordinari episodi di vita ai margini della banda: un partigiano ubriaco che litiga con un carabiniere e viene incarcerato per alcune ore, un altro partigiano che mette incinta una ragazza forse usandole violenza. «Bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova rettorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli uomini sono uomini».
Altrettante parole che dovrebbero imparare a memoria i soloni d'oggidì, quando stucchevolmente ci spiegano come la Resistenza vada «smitizzata» e come la guerra partigiana sia un evento da «sfatare ». Il diario di Artom dimostra magnificamente come il discorso stesso dei resistenti, almeno nelle sue espressioni più alte, contenesse l'antidoto del mito. Soprattutto, il Diario partigiano dimostra come lo scoprire i limiti politici e morali della Resistenza non equivalga affatto a disconoscerne l'immenso merito storico. Ancora con parole di Emanuele Artom, le migliori possibili: «Può essere che in futuro questo mio spregiudicato e pessimistico diario possa fare cattiva impressione: si dica che io, arrampicandomi per la montagna, mi fermavo a osservare sterpi e sassi i brutti episodi son numerosi e non guardavo la vetta o il paesaggio. Errore, errore. Se non vedessi vetta o paesaggio, non farei la dura salita, ma per timore di rettorica preferisco tacere gli alti ideali».

Repubblica 6.5.08
Nel paese dei picchiatori del sabato sera "A forza di parlar di ronde, ecco i risultati"
La difesa del vicesindaco: "Ragazzi miti, è il gruppo che li trasforma"
Sono di qui i giovani arrestati ieri: uno è operaio, l´altro promotore finanziario
di Fabrizio Ravelli


ILLASI - Si può anche partire da qui, da un paese verde di vigne e cipressi, per scendere venti chilometri fino alla città e finire in una sanguinosa ronda belluina. Oggi la piazza di Illasi è piena di gente silenziosa che preme sul portone della parrocchia. Ma Andrea e Guglielmo, giovani compaesani assassini, non c´entrano.
Il lutto, gli ex-alpini schierati con penne nere e stendardi, lo scalpiccìo in fila per la firma, sono per «un cittadino molto conosciuto». Loro due, al massimo, qualcuno li conosceva «di vista». Così dicono al Boomerang Pub, nell´andirivieni di bianchini e prosecchi, dove tre giovanotti disquisiscono con impegno sul problema della depilazione: «L´ho provata, ma fa un male boia». La "Rosticceria" lì accanto, il locale da cui Andrea e Guglielmo sono partiti, è chiusa per turno.
Andrea Vesentini, 20 anni, promotore finanziario, ha confessato per primo alla mamma che sfogliava il giornale locale: «Mamma, ci sono dentro anch´io». Guglielmo Corsi, 19 anni, operaio metalmeccanico, dicono che giocava a calciobalilla quando i poliziotti sono venuti a prenderlo, ma forse è solo una chiacchiera per turlupinare i cronisti. Ma se in piazza fanno finta di niente, dentro al municipio è il momento delle domande senza risposta, dello stupore e del dolore. Sulle scale, bella grande, è incorniciata una poesia di Bertolt Brecht, a cura del sindaco Giuseppe Trabucchi, della gloriosa dinastia di giuristi e parlamentari. Su al primo piano, intorno a un tavolo verde, mezza giunta si torce le mani.
Illasi, 5 mila abitanti, terra di vino e olio, una delle rarissime amministrazioni di centrosinistra del Veronese, qui ha vinto la lista "Adesso pace". Un paese davvero bellissimo, morbido e ondulato. Il cittadino più illustre è don Verzé, il prete-manager del San Raffaele, che qui ha la sua Fondazione Monte Tabor. Non c´è nemmeno la pigra scappatoia del dar la colpa a un sindaco leghista, o fascista, o dell´intonare giaculatorie sulla grettezza e l´egoismo veneto razzista. Macché, questo è un posto beato. Eppure due dei picchiatori della gang di neonazisti che ha ammazzato di botte un ragazzo, giù in città, erano figli di questo paese.
Annamaria Castagnini, tailleur pantalone nero e occhi azzurri, è assessore ai Rapporti con i cittadini. Andrea per lei era uno di famiglia: «Sono amica di vecchia data di sua madre, lui è cresciuto insieme con mia figlia, mi ha sempre chiamato zia». I genitori del ragazzo sono separati da un anno e mezzo, la madre sta a Verona e il padre lavora in un camping a Ravenna. Lui vive in paese con la nonna. «Mai pensato che fosse un ragazzo violento - dice la "zia" - Pensi che alle primarie del Pd ha votato per me, che ero capolista. Poi però mi ha detto: zia, io però quando vado a votare voto a destra. Mi diceva: la giunta Tosi a Verona sta facendo cose positive. E io: cerca di ragionare, non vedi che la situazione è pesante, che i ragazzi si sentono autorizzati a farsi giustizia da soli se vedono persone che non gli sembrano per bene?».
Annamaria dice anche: «A forza di parlare di ronde, ecco cosa succede». Quella sera del 30 aprile, Andrea ha caricato Guglielmo sulla sua Mini e sono scesi a Verona. «Sono finiti al bar Malta. Corsi, che frequentava lo stadio, conosceva gli altri tre che hanno incontrato. Di quel che è successo, so quello che lui ha raccontato alla madre. Che passando da Corticella Leoni hanno trovato quei tre ragazzi che si facevano uno spinello. Corsi ha chiesto: ehi, codino, mi fai fumare? L´altro ha detto no».
René Verza, vicesindaco, è medico di famiglia dei Vesentini: «Andrea è un ragazzo di una mitezza assoluta. Ma è il gruppo che scatena dinamiche incontrollabili. Può essere lo stadio, la discoteca, il bar: un fuoco sotto c´è. E poi c´è una mentalità comune veronese che orienta i ragazzi in un certo modo. Il sindaco Tosi ha detto che servono pene esemplari. Eh no, non può cavarsela così». Dell´altro ragazzo, Guglielmo, conoscono meno. Forse un precedente di rissa, «ma cose da bar, da tavoli rovesciati». Il padre è allenatore del Cicognola, calcio giovanile, «e fa anche tanto volontariato». Qui in Comune sono davvero sottosopra, e vedono questa violenza razzista montante come qualcosa di diverso da sé. Il sindaco Giuseppe Trabucchi pare afflitto: «Conosco i giovani: nessuno ha una negatività programmata. Ma oggi i valori o sono pronunciati e traditi, o addirittura derisi. I ragazzi si perdono. Vivono una continua irrilevanza delle loro azioni, una reversibilità come alla moviola». Per il ragazzo morto, la moviola non torna indietro. Sembra inverosimile dirlo da qui, dal paese di Illasi, così verde e incantato.

Repubblica 6.5.08
Il sindaco Chiamparino: qui non sarà un altro G8
Salta l’ultima mediazione, polizia in allerta per la manifestazione dei centri sociali di sabato
I contestatori: non ci basta uno stand Torino tra festa e stato d’assedio
La Digos: ma non sarà come a Genova, qui non c'è nessuna zona rossa
Gli esperti stanno preparando un piano di evacuazione dei padiglioni
di Paolo Griseri


TORINO - Una città sospesa tra la festa e l´assedio. Tra i manifesti con la Venere di Botticelli che annunciano «Ci salverà la bellezza», tema della XXI Fiera del Libro, e quelli di «Free Palestine» che ne promuovono il boicottaggio con la «manifestazione nazionale del 10 maggio». Quanti risponderanno all´appello della dea dell´Amore e quanti al grido di battaglia della kefia? L´incertezza di Torino sta tutta qui.
Il presidente della Fiera, Rolando Picchioni, è un ex onorevole democristiano di lungo corso. Ancora ieri, tre giorni prima dell´apertura dei battenti, ha tentato l´ultima mediazione con i promotori del boicottaggio. Li ha invitati nei padiglioni e ha offerto uno stand: «Per esperienza - spiega - ne tengo sempre uno di riserva che non vendo per scaramanzia». Mossa a sorpresa che i responsabili di «Free Palestine» hanno giudicato «tardiva». In realtà la trattativa era iniziata alla fine di gennaio: «Non potevamo accettare lo stand», spiegava ieri uno dei portavoce, Luigi Casali dell´Rdb-Cub. Perché non potevate? «Perché se avessimo accettato avremmo avallato la logica di una manifestazione che ha dato a Israele lo status di ospite d´onore».
Saltata l´ultima mediazione, non resta che la logica del muro contro muro. Con Tariq Ramadan che tiene all´università un seminario sulla «pulizia etnica nei territori palestinesi» e un docente di filosofia, Ugo Volli, che accusa il rettore di aver consentito «la militarizzazione rivoluzionaria» dell´ateneo permettendo lo svolgimento di «un convegno a senso unico contro Israele» e la trasformazione della sede delle facoltà umanistiche in un enorme tazebao a favore del boicottaggio della Fiera.
È in questo clima che la parola passa ai responsabili dell´ordine pubblico. Momento di massima allerta sarà la manifestazione organizzata da «Free Palestine» sabato pomeriggio. Il corteo partirà alle 14 da corso Marconi, a circa quattro chilometri dal Lingotto. È previsto che i manifestanti girino intorno al centro fieristico senza poter accedere direttamente all´area espositiva: «Hanno istituito una zona rossa intorno alla Fiera», accusavano ieri i promotori del boicottaggio. «Non c´è alcuna zona rossa - è la replica della Digos - perché il pubblico potrà tranquillamente entrare negli stand. Eviteremo naturalmente che il corteo possa giungere nei padiglioni». Centinaia di agenti (circa 500 secondo le ultime informazioni) controlleranno il percorso della manifestazione. Sarà completamente blindata la visita di Giorgio Napolitano che giovedì mattina taglierà il nastro inaugurale dell´edizione 2008. Gli esperti stanno preparando un piano di evacuazione immediata dei padiglioni per far fronte ad eventuali allarmi di attentati, come era accaduto dalla Fiera del Libro di Parigi. Insomma, ci si prepara al peggio sperando di esagerare.

Repubblica 6.5.08
Chiara Simonelli, docente di psicopatologia sessuale
"Anche in Italia è boom di maschi inappetenti"
Spesso risolvono con l’autoerotismo o con rapporti fugaci Sentono che la loro identità è in crisi
di m.c.


ROMA - Dottoressa Chiara Simonelli, docente di psicopatologia sessuale, anche gli uomini italiani "si voltano dall´altra parte"?
«Sì, da dieci anni a oggi sono triplicate le richieste di terapie che riguardano uomini che non vogliono avere rapporti con la partner. È questa la novità rispetto il passato, gli uomini stanno superando le donne. Un´"inappetenza" che riguarda varie fasce d´età, non sono uomini che vogliono mettere in discussione il rapporto, semplicemente non hanno desiderio per "quella" persona che vive accanto a loro».
Ma il calo del desiderio non è fisiologico in una coppia?
«Tutti i rapporti risentono del passaggio dall´innamoramento all´amore, c´è un aggiustamento non una mancanza di rapporti».
E questi "inappetenti" non hanno rapporti sessuali altrove?
«Spesso risolvono con l´autoerotismo, magari grazie a Internet, oppure hanno rapporti "mordi e fuggi"».
Allora cosa accade?
«È qualcosa che riguarda l´identità maschile, la virilità, nell´immaginario tradizionale il sesso maschile era legato alla finalità riproduttiva o era predatorio e narcisistico, l´uomo era l´unico protagonista, il sesso si faceva quando e come voleva lui. Oggi i protagonisti sono due, non c´è più, o c´è sempre meno, una Penelope che attende, ora anche lei batte cassa, in questa cornice di riferimento cambiata gli uomini stentano a collocarsi, ecco allora il boom della prostituzione, dove è lui a decidere perché paga».
E le donne come reagiscono?
«Male, perché la sessualità è diventato il metro per capire se funziona il rapporto e allora le provano tutte, dai filmini porno alla biancheria sexy, ma non sempre funziona».

Repubblica 6.5.08
Maggio. Il mese che sconvolse il mondo
Quarant'anni fa la contestazione parigina
di Bernardo Valli


Esplose improvvisa nelle piazze e nelle vie di Parigi Poi dilagò nel resto d´Europa
Chi furono i protagonisti e che cosa è rimasto di quell´evento definito epocale

Basta entrare in una libreria parigina per accorgersi di quanto il maggio ´68 resti nella memoria quarant´anni dopo. Non è ancora avvenuto il passaggio nella storia, operazione intellettuale dalla quale ci si aspetta un´analisi laica e dissacrante. E forse la Storia, con la maiuscola, inesorabile nel potare il superfluo, gli dedicherà soltanto qualche riga. Nel frattempo la memoria è generosa.
Affettiva, appassionata, magica, approfitta probabilmente dell´occasione offertale dal quarantesimo anniversario. Il tempo che le rimane è in effetti scarso. I testimoni viventi, dai quali dipende, sono in pensione o sul punto di andarci. Poi subentrerà la storia.
In una libreria del Quartiere Latino, non lontano dall´Old Navy, il caffè tra Saint-Germain-des-Près e l´Odeon, da dove assistevo alle barricate quarant´anni fa, mi imbatto in una montagna di rievocazioni. Pile di libri con la cifra "´68" in caratteri cubitali stampata sulle copertine. E attorno a quelle piramidi di carta decine di lettori, giovani e vecchi, sfogliano con trattenuta avidità i volumi, li soppesano, indecisi sulla scelta. L´offerta è ampia: va dalla denigrazione all´esaltazione, dallo scetticismo a una critica venata di sarcasmo, all´entusiasmo. I francesi sanno raccontarsi e amano la loro storia. La riscrivono, la rivoltano, la ringiovaniscono.
Questo non basta a spiegare l´interesse per quegli avvenimenti di quarant´anni fa che non fecero crollare la Quinta Repubblica, fondata proprio nel maggio di dieci anni prima, né realizzarono l´utopia libertaria esaltata dai manifestanti, ma che cambiarono tanti modi di pensare e non pochi aspetti della vita, in una società tra le più sofisticate e più ostili alle riforme. E non soltanto in Francia.
Il protagonista principale del Maggio francese non fu una classe sociale, vecchia o nuova: fu la massa degli adolescenti e dei giovani, i cui simboli (i jeans e la musica anglosassone) inducevano a pensare che fossero indifferenti alla politica. Sotto la spregiudicatezza dei loro slogan ("Il sapere è in briciole, creiamo", "Corri compagno, il vecchio mondo ti sta alle calcagna", "Proibito proibire"...), c´era un forte romanticismo. I loro eroi erano del resto romantici. Per i meno politicizzati erano Marlon Brando o James Dean. Per gli altri Trotski, Che Guevara, all´epoca incarnazioni esemplari del romanticismo rivoluzionario. C´era stato un forte sviluppo industriale, urbano, consumistico, mercantile e ne era seguito un forte spirito di rivolta contro una società paternalistica e contro le due forze politiche dominanti: quella regale, tecnocratica gollista, e quella rigida e spigolosa del partito comunista. Il maggio annunciò la fine di entrambi, del gollismo e del comunismo, anche se l´uno e l´altro sono sopravvissuti fino agli anni Ottanta.
Su un vecchio numero della rivista Débat ho letto la migliore sintesi: quella del maggio ´68 fu la prima forza sovversiva provocata dall´abbondanza e non dalla miseria; un movimento che non voleva più sacrificarsi per la rivoluzione ma vivere pienamente grazie alla rivoluzione; e, ancora, che voleva cambiare la vita e il mondo, ma senza prendere il potere.
Nonostante gli slogan leninisti o maoisti, il Maggio fu una esaltazione dell´individualismo. Fu una delle tante contraddizioni: perché l´individualismo conduceva al consumismo che veniva condannato. Quasi tutti i rapporti di potere furono colpiti: quelli tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti, tra uomini e donne, e anche quelli sui posti di lavoro. Si tentò ingenuamente di cambiare i "rapporti amorosi" annunciando la fine della coppia tradizionale, imposta dalla morale borghese. E, con il contributo della recente diffusione della pillola contraccettiva, la libertà sessuale allargò i confini.
Quando, sull´onda della protesta giovanile, dieci milioni di lavoratori occuparono le fabbriche o entrarono in sciopero, Sartre pose ansioso una domanda al giovane ebreo tedesco, Dany il Rosso, portavoce dei manifestanti parigini: «È la rivoluzione?». «No, è una rivolta» fu la risposta che voleva essere modesta. Poi, nei decenni successivi, sono stati in tanti, politici, filosofi, sociologi, a parlare di "un mistero ´68". Di un enigma. E gli scettici, tra questi il liberale Raymond Aron, dissero che era stata una "carnevalata". Un "non avvenimento", del quale si continua ancora a parlare.
Io credo sia stata una rivoluzione: la rivoluzione della parola. È stato scritto con ragione che nel maggio ´68 fu conquistata la parola come nel luglio ´89 fu presa la Bastiglia. Questa era comunque la mia impressione quando passavo le notti all´Odeon, dove chiunque poteva raccontare la propria vita in tutta libertà.
È impossibile non rivolgere un pensiero a Nicolas Sarkozy. Durante l´ultimo comizio, prima della trionfale elezione nella primavera scorsa, disse con la solita accattivante foga: «Ci restano due giorni per liquidare l´eredità del maggio ´68». È passato un anno, e il maggio ´68, accusato da Sarkozy di avere imposto «l´odio della famiglia, della società, dello Stato, della Nazione e della République», suscita un interesse che rivela l´inefficacia dell´anatema presidenziale.
Lui, il presidente, è diventato impopolare, e il ricordo del ´68 resta vivo.
Essendo portata da testimoni viventi, quindi in evoluzione permanente, la memoria è un legame col passato vissuto nel presente. E si scompone in tante memorie, tante quanti sono gruppi e fazioni alimentati da ricordi vaghi, fluttuanti, simbolici. Le interpretazioni del ´68 accatastate nelle librerie del 2008 riflettono quelle diversità. Ma il settantaquattro per cento dei francesi (secondo un´indagine condotta dal Csa per Le Nouvel Observateur) sostiene che quel periodo «ha avuto un impatto positivo sulla società». E, tra i sette e più cittadini su dieci che esprimono quel giudizio, ci sono anche elettori di Nicolas Sarkozy. La maggioranza degli anziani (di più di 65 anni) ha dichiarato che nel ´68 avrebbe partecipato volentieri alle barricate degli studenti. Quasi otto francesi su dieci si dicono ancora d´accordo con i giovani manifestanti e gli scioperanti. Molti hanno espresso tuttavia un giudizio negativo sugli effetti che il ´68 ha avuto nel rapporto insegnanti-allievi. Cioè sull´insubordinazione creatasi allora nelle scuole e nelle università e di cui resterebbero profonde tracce.
Mi guardo bene dall´affermare che la Francia dell´anti-sessantottardo Nicolas Sarkozy è diventata sessantottarda. Gli umori cambiano presto. Quarant´anni fa, per un mese, la maggioranza dei francesi ha vissuto bene insieme (scrive il moderato Le Monde). I più hanno seguito la rivolta dei giovani con simpatia. Il 29 maggio il generale de Gaulle, incarnazione del potere detestato in quei giorni, abbandonò il Palazzo dell´Eliseo, dando l´impressione che «il re fosse fuggito». Ma quando ricomparve il 30 maggio fu accompagnato da un´imponente manifestazione in suo favore sui Campi Elisi. La maggioranza silenziosa ricompariva. Le stazioni di benzina chiuse da settimane ricominciarono a funzionare e i parigini ripartirono in week end. Il 30 giugno, un mese dopo, essendo stata sciolta l´Assemblea Nazionale, i gollisti stravinsero le elezioni legislative con il cinquantanove per cento dei voti. Ma nel ´69 de Gaulle si ritirò per sempre. E oggi, parlando della nostra epoca, si distinguono i tempi: prima o dopo il Maggio ´68.

Repubblica 6.5.08
I movimenti di Berkley
Il mio sessantotto in salsa californiana
di Anthony Giddens


Visto dall´Europa, il ´68 sembrava avere il suo centro a Parigi. Ma non è stato così. I radicali europei erano tradizionali. Erano studenti esagitati, ma il loro radicalismo non scavava in profondità
La società e il costume cambiarono. Ma la vera mutazione cominciò negli anni Cinquanta

Siamo nel maggio 1968. Non mi trovo a Parigi, ma a 6000 miglia di distanza, in California, in macchina sull´autostrada per Los Angeles. Vengo da Vancouver, dove sono stato junior lecturer per 9 mesi, e vado a ricoprire un incarico all´Università della California. Arrivato a Los Angeles, riparto subito per Venice, un sobborgo balneare dove ho preso in affitto un appartamento. Qui, in riva al mare, sono testimone di una scena che sembra presa di peso da tempi biblici. A perdita d´occhio, la spiaggia è popolata da personaggi con lunghe vesti dai colori vivaci, ancorché scarmigliati e sciatti. Tutti bianchi: non c´è traccia di minoranze etniche. L´aria non odora di ozono ma di marijuana. Poco lontano, vedo una fila di auto della polizia, con gli agenti che fanno penzolare i fucili dai finestrini aperti. Il clima è di incipiente violenza. Non sapevo cosa fosse la marijuana, e neppure conoscevo il termine "hippy", ancora poco diffuso nel Regno Unito e in Europa; per cui chiesi spiegazioni a un passante. Fu così che la rivoluzione in salsa californiana mi diede il benvenuto.
Visto dall´Europa, il 68 sembrava avere il suo centro d´azione a Parigi. Ma credetemi: non è stato così. I radicali europei in realtà erano piuttosto tradizionali. Pur proclamandosi antesignani di una nuova era, avevano comportamenti non molto diversi da quelli dei radicali di tutti i tempi. Erano studenti esagitati, ma il loro radicalismo non scavava in profondità. In California, per molti almeno, essere radicali voleva dire esserlo in tutto, non solo nel credo politico ma in ogni aspetto dello stile di vita, compreso lo studio. Era di moda non dare più voti, considerati discriminatori, o concedere a tutti la promozione con lode.
Tra i miei conoscenti c´era un professorino di matematica tutto azzimato - camicia abbottonata e sfumatura alta, moglie fiorente e figli. A un certo punto scomparve dall´università, finché un giorno me lo vidi davanti: era apparso in cima alla collina come una specie di Cristo dai capelli biondi sparsi sulle spalle, la barba lunga, una veste fluente e sandali ai piedi. Si era lasciato alle spalle la matematica e l´università e aveva piantato la moglie e i figli per trasferirsi nel deserto del New Messico, dove viveva in una comune lavorando come artigiano. Molti altri avevano fatto la stessa scelta.
Anche negli ambienti più direttamente legati alle formazioni politiche si sperimentavano stili di vita alternativi, dalla sessualità alla vita di relazione, dalle comuni all´uso di droghe. D´altra parte, negli Usa il movimento si presentava in forme molto diversificate, soprattutto dal punto di vista delle opinioni e affiliazioni politiche, con un proliferare di gruppi di impegno sociale. Il 68 era nato dai movimenti per i diritti civili del Sud e dal Free Speech movement che aveva il suo centro a Berkeley. Questi gruppi sono confluiti nel movimento contro la guerra nel Vietnam, che ha fatto da catalizzatore a molte correnti radicali. C´è stata una sovrapposizione col movimento hippy, benché quest´ultimo tendesse a contestare ogni forma di autorità. C´erano poi i gruppi maoisti, anche se meno influenti che in Europa; c´erano le Pantere Nere e altri gruppi di neri dissidenti, alcuni dei quali hanno finito per rivolgersi all´islam. E c´era ovviamente il femminismo, in forme più totalizzanti di quanto mai si sia visto prima: più che di una componente, si trattava di una derivazione del 68. Molte esponenti di questo nuovo femminismo presero posizioni più radicali proprio in risposta al sessantottismo - una rivoluzione, come dicevano, fatta dai maschi e per i maschi.
Dieci anni dopo ho ricevuto una lettera dal mio conoscente, il professore convertito. Nel frattempo si era riconciliato con la moglie, era tornato al consueto taglio di capelli, al completo azzimato e all´appartamento di prima, e stava cercando di reinserirsi nella stessa facoltà universitaria che aveva lasciato.
Come mai tutte le grandi speranze, tutto il radicalismo, sono scomparsi com´erano sorti? Le ragioni sono numerose e varie come il fenomeno stesso. Con la fine della guerra del Vietnam è venuta meno una delle principali motivazioni del dissenso. Se da un lato le autorità si sono accanite con ogni mezzo per disperdere le Pantere Nere, dall´altro si è diffusa una maggior coscienza della natura repressiva e criminale del maoismo. Quanto agli hippy, il più delle volte le loro sperimentazioni hanno preso una brutta piega. Il libero amore è servito da copertura a forme di sfruttamento sessuale; molte comuni non hanno retto ai contrasti tra i loro componenti; e si è visto che le droghe portano alla dipendenza assai più che alla liberazione dello spirito.
Ma l´aspetto più importante del 68 è stato il tentativo di ignorare, o di abbattere scientemente alcune delle caratteristiche essenziali di una società civile e in parte anche giusta ed equa - anche se con alcuni notevoli limiti. Si contestava la burocrazia - un atteggiamento ripreso in seguito, come polemica di facciata e in maniera perversa, da molti politici di destra - senza rendersi conto che in una società complessa un certo grado di coordinamento burocratico è di importanza vitale. Le università sarebbero travolte dal caos senza un sistema corretto e rigoroso di valutazione degli esami e delle tesi, e senza l´autorità rivendicata dai docenti nei rispettivi campi di specializzazione. Nessuna società può funzionare sulla sola base dei diritti. Ai diritti devono corrispondere obblighi e doveri: solo a questa condizione la solidarietà sociale è sostenibile.
Il femminismo - il più importante dei movimenti sopravvissuti al 68- in realtà non è mai stato una sua componente, benché sia sorto in seguito agli sconvolgimenti di quel periodo. Il 68 è importante non tanto in sé quanto per il fatto che in quei movimenti hanno trovato espressione le vaste trasformazioni sotterranee in atto nella società, iniziate verso la fine degli anni 1950. Oggi ci rendiamo pienamente conto della forza di quella mutazione, e siamo tuttora alle prese con i suoi effetti: l´impatto sulla natura stessa della famiglia; la fine della centralità del matrimonio e una maggiore attenzione per la qualità delle relazioni; la valorizzazione della sessualità come elemento chiave di quei processi, in parallelo col tramonto della doppia morale; il massiccio ingresso delle donne sul mercato del lavoro; la denatalità e il fenomeno dei figli superprotetti; la pianificazione familiare come scelta consapevole di avere uno o più figli, in luogo del fatalismo di un tempo; la possibilità - ma di fatto anche la necessità di scegliersi uno stile di vita, anziché riceverlo in eredità; l´emergere di politiche identitarie; il venir meno della deferenza, con la crescente tendenza a mettere in discussione le scelte politiche.
Non avrebbe senso attribuire questi cambiamenti ai sessantottini, che di fatto li hanno cavalcati - sebbene in alcuni casi abbiano contribuito ad accelerarli. In questo senso, la sinistra ha creato intorno a loro una mistica immeritata; ma è in errore anche la destra quando addebita al 68 i mali che oggi ci affliggono. Le sue correnti più efficaci furono quelle focalizzate su obiettivi specifici: è stato fondamentale ad esempio aver dato voce a una franca e chiara protesta contro la guerra del Vietnam. Si potrebbe decidere di fermarsi a questo, liquidando come romantici, vani e persino pericolosi tutti i tentativi di estendere il radicalismo a ogni aspetto della vita. Devo però ammettere che mi suscitano qualcosa di più di una vaga simpatia. Certo, è stata una falsa liberazione - che però ci ha spinto a interrogarci sul nostro vivere quotidiano, su tutto ciò che i più davano per scontato. Anche chi, come me, non condivide le idee del 68 è stato indotto a riesaminare e a mettere in discussione alcune delle proprie certezze, non foss´altro che per tornare a difenderle con rinnovato vigore.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 6.5.08
L’eredità della protesta. Quella rivoluzione scritta sui muri
Il dialogo tra due protagonisti di quegli anni
Daniel Cohn-Bendit e Adam Michnik


Cosa è rimasto di quegli anni? Nulla. È finito tutto, ma abbiamo trasformato il mondo dal punto di vista sociale, culturale, politico. Oggi non ricordiamo più com´era la vita negli anni ‘60

Anticipiamo alcuni passaggi del confronto tra Adam Michnik, protagonista del dissenso polacco dal 1968 al 1989, e Daniel Cohn-Bendit, leader del Maggio francese. Il testo integrale è pubblicato sul numero speciale di Micromega, in edicola da oggi
Adam Michnik - A ribellarsi nel marzo 1968 fu la nuova generazione, che non ricordava più la seconda guerra mondiale e il terrore degli anni di Stalin, e non aveva in sé il terrore codificato. Le generazioni più anziane avevano paura - e avevano tutti i motivi razionali per averla. Il nostro parametro di riferimento intellettuale era l´ottobre polacco del 1956. (...) Per noi hanno avuto un´importanza straordinaria anche gli eventi in Cecoslovacchia, la primavera di Praga. Era da lì che ci arrivava la speranza. Leggevamo i primi libri di Bohumil Hrabal e Milan Kundera pubblicati in Polonia, guardavamo i film cechi e slovacchi, e tutto ciò contribuiva a creare un nuovo linguaggio. (...) L´ethos della rivolta di marzo era abbastanza simile a quello del maggio parigino: «Sii realista, chiedi l´impossibile». (...)
Quello che dirò ora è rischioso, ma per amore di verità va ricordato uno dei nostri slogan di allora: finché il mondo è così come è, non ho voglia di morire nel mio letto. Perché è rischioso dirlo? Perché è uno slogan di Ernesto Che Guevara. Allora subivo il fascino di Guevara, e oggi non ne vado fiero. Sarei dovuto essere più intelligente. Ma mentirei se lo negassi. Guevara rappresentava per me il tipo dell´eroe romantico che non si limita alle belle frasi, ma è disposto a pagare di persona per le proprie convinzioni. Oggi so bene che ciò non basta, che ci sono degli idealisti pronti a morire sul rogo, ma che prima vogliono che ci brucino gli altri. (...) Quando osservavo il maggio francese pensavo: come è lontano, come è vicino. Da un lato sentivo la stessa passione, la stessa rabbia, lo stesso bisogno di mettere in questione il mondo in cui vivevo. Ma dall´altro vedevo le fotografie di Mao, Trockij, Guevara, Castro, Lenin.
Daniel Cohn-Bendit - Sono stato processato per la prima volta, in Germania, nel settembre-ottobre 1968. Ero in prigione e il giudice mi chiese: «Come ti chiami?». Gli risposi: «Kuron´-Modzelewski». «Questo non è il tuo cognome!», mi dice il giudice. «Se sa già come mi chiamo perché me lo chiede?». E il giudice: «Perché dice di chiamarsi Kuron´-Modzelewski?». Ho risposto: «Perché proprio ora sono sotto processo in Polonia, e io sono solidale con loro». Il giudice non sapeva neanche chi fossero, Kuron´-Modzelewski.
È stata una storia molto più complessa delle foto di Mao alle manifestazioni studentesche. Durante quella rivolta, sia in Germania che in Francia, la Polonia e i paesi dell´Est hanno giocato un ruolo molto importante. Ricordo che il 22 marzo, durante le prime manifestazioni a Parigi, leggemmo le dichiarazioni degli studenti polacchi del 13 marzo. Avevamo la sensazione che non ci fosse differenza fra la rivolta di Varsavia e quella negli Stati Uniti, in Turchia, in America Latina, in Jugoslavia. Avete ragione, erano dei sistemi politici diversi. Ma al tempo stesso non avete ragione. Perché? Anche noi eravamo una generazione nata dopo la seconda guerra mondiale. E questa generazione non solo non voleva quel sistema politico, ma non voleva neanche quel modo di vita che ci era stato imposto dalla generazione della guerra. La rivolta di Varsavia era diretta contro la censura, ma era anche in difesa della libertà: la libertà di ascoltare il jazz, di avere una cultura diversa. Era una rivolta contro il governo, ma anche in difesa di un altro modo di vita. A voi non piaceva il modo di vita imposto dall´ideologia comunista, e a noi quello imposto dall´ipocrisia puritana, dall´ideologia gollista - ecco dove sta la somiglianza.
Adam ha ragione: combattere per la libertà sotto l´effigie di Mao o di Trockij era una contraddizione surreale. Ma il 1968 a Parigi era surrealista. La cosa importante non erano Mao o Marx, ma quello che scrivevamo sui muri di Parigi: «Pensa a ciò che desideri e vivi la tua vita»; «l´unico modo in cui puoi vivere è fare l´impossibile». Adam ha detto che ammirava Che Guevara. Per noi Guevara era un simbolo erotico.
Cosa è rimasto di quegli anni? Nulla. È finito, ma abbiamo trasformato il mondo dal punto di vista sociale, culturale, politico. Non ricordiamo più come fosse il mondo negli anni Sessanta. Un esempio semplice. L´anno è il 1965, la città Parigi. Una donna sposata vuole aprire un conto in banca. Non può farlo, ha bisogno del consenso scritto del marito. Oggi viviamo in un altro mondo. Negli anni Sessanta a Parigi gli studenti non avevano la prospettiva della disoccupazione, non conoscevamo l´Aids, nessuno si preoccupava per il riscaldamento globale. Non discutevamo delle ingiustizie della globalizzazione. Ma le questioni che ci ponevamo allora sono ancora importanti? Certamente. Dobbiamo continuare a chiederci se vogliamo un mondo migliore. Se continuiamo a credere che esiste una qualche parte di libertà che vale la pena difendere dal totalitarismo di destra e di sinistra. (...) In Occidente l´ideologia comunista è stata cancellata dal 1968. Quell´anno è stato l´inizio della fine del dominio del Partito comunista sulla scena politica francese. (...)
Michnik - La divisione fra destra e sinistra è stata inaugurata dalla rivoluzione inglese del XVII secolo, ed è terminata con la rivoluzione bolscevica. Tutto ciò che è venuto in seguito non poteva più inserirsi in maniera naturale all´interno di questa cornice. Durante il bolscevismo e il nazismo non era più essenziale chiedere se si fosse di sinistra o di destra, ma se si fosse favorevoli o contrari al totalitarismo. In Polonia oggi la divisione fra destra e sinistra è un ballo in maschera. C´è chi si mette i baffi di Pil´sudski, e chi quelli di Witos. Questa è la lezione che ho tratto dal 1968. La divisione veramente essenziale è quella fra chi vuole una società aperta, tollerante, inclusiva, e chi le è nemico. Ed è in fondo secondario se sulla loro bandiere compaiano la svastica o la falce e martello. Importante è il modo in cui trattano i cittadini. Importante è come considerano la dignità umana, la libertà, il pluralismo, la tolleranza. Qui sta la principale linea di demarcazione.
(traduzione di Laura Quercioli Mincer)

Repubblica 6.5.08
La rivista "Archeo" rivela la scoperta in Turchia
Un santuario nell’era paleolitica
di Giuseppe M. Della Fina


La collinetta Göbekli Tepe nascondeva un complesso sacro con grandi stele scolpite: impresa finora ritenuta impossibile per quel livello di sviluppo

Göbekli Tepe è il nome di una collinetta situata nella Turchia sud - orientale a pochi chilometri dalla città di Urfa conosciuto ancora da un numero limitato di persone, ma è destinato a divenire presto molto noto al pari dei maggiori siti archeologici del mondo. Archeologi tedeschi dell´Università di Heidelberg, guidati da Klaus Schmidt, vi hanno rinvenuto infatti un complesso monumentale, con ogni probabilità un santuario, databile agli inizi del Neolitico vale a dire circa seimila anni prima della costruzione delle piramidi in Egitto.
Gli straordinari risultati sono presentati in anteprima per l´Italia nel numero di maggio della rivista Archeo. Gli archeologi hanno riportato alla luce quattro strutture circolari delimitate da muri, realizzati in fango essiccato e frammenti di pietra, alti sino a 3 metri. I circoli raggiungono un diametro tra i 10 e i 20 metri e sono datati alla fase più antica del sito denominata Göbekli Tepe 3 (9500-8500 a. C.). Nei muri risultano inserite grandi stele monolitiche a forma di T, alte dai 3 ai 7 metri e con un peso che può raggiungere le 5 tonnellate. Sinora ne sono state individuate 44 e appaiono decorate da immagini di animali reali resi con un tratto naturalistico: cinghiali, leoni, volpi, tori, gazzelle, asini selvatici, anitre, avvoltoi, serpenti, ragni, scorpioni. Vi sono raffigurati anche esseri umani con teste di animali che potrebbero – a giudizio degli scavatori – rappresentare degli sciamani.
Klaus Schmidt nel 1995 giunse per la prima volta sul posto e si rese conto subito che la collina non era un´altura naturale, ma doveva nascondere un tesoro archeologico. Si trovava dunque «in presenza di un sito che risaliva alla prima fase del Neolitico, detta aceramica o preceramica». La scoperta era già considerevole, ma riservava ancora le sorprese maggiori. Negli anni successivi, agli occhi stupefatti degli archeologi sono apparsi i resti della prima stele, delle altre e i frammenti di una scultura animale.
Ora sappiamo che una comunità di cacciatori e raccoglitori era riuscita in un´impresa ritenuta sinora impossibile per il loro livello di sviluppo, vale a dire la costruzione di un complesso monumentale caratterizzato da grandi stele scolpite. Un risultato in grado di cambiare in profondità il giudizio sull´età paleolitica e di sconvolgere consolidati primati in fatto di architettura e scultura.
Siamo sicuri di trovarci di fronte a un santuario? Lo scopritore ne è certo: «si tratta di veri e propri recinti sacri, spazi separati dal mondo destinati a pratiche religiose, cultuali», dove dovrebbe essere stato praticato il culto totemico degli antenati, rappresentati dalle stele-pilastro, e quello dei morti incentrato su sepolture rituali.
Lo scavo ha interessato al momento soltanto una parte dell´area archeologica, forse soltanto il 5% dell´insediamento, e le indagini geofisiche hanno segnalato l´esistenza di altri 20 circoli da riportare alla luce. Una stima avanzata dagli scavatori prevede che le stele da scoprire siano ancora almeno 150. Una delle maggiori avventure dell´archeologia ha mosso i suoi passi iniziali.

il Riformista 6.5.08
S’io fossi un dalemiano vi direi che...
di Antonio Polito


Che io non sia un dalemiano, lo sanno anche i bambini. Ma adesso che ipse dixit, è certificato: non sono un dalemiano. Più opinabile è l'ipotesi che io sia «uno spirito libero che pensa con la sua testa», e su questo D'Alema, ahimè, non è un'autorità indiscussa. Dunque dovrete sottoporre a verifica le sue dichiarazioni in materia all'Annunziata. Ora però, stabilito che non sono un dalemiano né mai lo fui, posso liberamente immaginare che cosa pensa un dalemiano, di questi tempi. Che cosa pensa soprattutto dopo la giornata di ieri.
Dunque, s'io fossi un dalemiano (cosa che non sono né fui) penserei che «alle moderate e motivate osservazioni di D'Alema in tv su come rilanciare il Pd, si è risposto da parte del loft con una reazione da ufficio politico del Pcus, questo sì un esempio di vecchia politica. In definitiva, che aveva detto D'Alema? Che ci vogliono alleanze. Considerazione quasi ovvia, per un partito del 33% che, tra l'altro, governa o vuole governare a livello locale, dove le alleanze sono comunque necessarie. La fragilità dimostrata dal gruppo dirigente in questa occasione è preoccupante: se il dibattito interno inizia così, finirà ben presto a cazzotti».
S'io fossi un dalemiano (cosa che non sono né fui), penserei che «il gruppo dirigente del Pd rischia ora di dare una risposta sbagliata alla sconfitta, inseguendo una bipartisanship con Berlusconi che può risultare micidiale. La proposta di Franceschini di alzare la soglia di sbarramento alle prossime europee è di fatto il tentativo di mettere fuori legge gli alleati, attuali e futuri. Si espone all'accusa di intelligenza col nemico e aggrava l'isolamento politico del Pd. Il problema delle alleanze, infatti, non riguarda solo l'Udc; ma anche quell'elettorato di sinistra che non è scomparso, e che il Pd ha il dovere, oltre che l'interesse, di rappresentare».
S'io fossi un dalemiano (cosa che non sono né fui), penserei che «il gruppo dirigente sbaglia a temere la discussione e l'articolazione interna. Veltroni sapeva che ci sarebbe stata, era stato informato, e deve capire che è utile alla ditta, come in ogni partito pluralistico che si rispetti. Del resto questa articolazione già c'è, ci sono i prodiani, ci sono i popolari, ci sono i liberal, con le loro fondazioni, i loro centri studi, le loro riunioni, le loro sedi. Il Pd sarà una realtà complessa e ricca, e se si tenterà di impedirlo finirà male. Anche perché chi ha titolo a parlare non si spaventerà per qualche rimbrotto. Il gruppo dirigente rischia così di diventare chiuso, autoreferenziale, un gruppo di potere cui ogni critica fa saltare la mosca al naso».
S'io fossi un dalemiano (cosa che non sono né fui), penserei che «questi difetti il loft li ha già mostrati nel no a Bersani sulla presidenza del gruppo. Doveva essere il gruppo dirigente a dirgli: abbiamo bisogno dei migliori, sotto a chi tocca. Sarebbe stato un modo di portare in prima fila un uomo che sa di cosa parla quando parla del nord e dei ceti produttivi. E sarebbe stato nell'interesse di Anna Finocchiaro, dopo la vicenda siciliana, starsene un po' da parte, dire: ho bisogno di pensare, di dedicare tempo alla mia Sicilia. Non è bello per un dirigente subire una sconfitta sul campo e farsi subito nominare generale da un'altra parte».
Però io non sono un dalemiano, dunque questi pensieri, come dicono i politici, non mi appartengono.

il Riformista 6.5.08
Un Pd in cerca di valori
di Linda Lanzillotta


C'è stato da parte di molti esponenti del Pd giusto e sincero compiacimento per le parole con cui il neo presidente della Camera ha riconosciuto il valore di due date simbolo della cultura democratica e della storia repubblicana. Ma Fini ha fatto anche un discorso di un «uomo di parte», beninteso nel senso migliore del termine. Uomo cioè portatore di una visione ispirata a valori genuinamente conservatori: radici cristiane dell'identità nazionale, patria e orgoglio nazionale, autorità dello Stato, law and order, ricerca di modelli di sviluppo dell'economia capaci di proteggere dall'impatto della globalizzazione.
Sono idee certo non originali, ma sono le idee che declinate in programmi hanno segnato il successo della Destra, in Italia e a Roma, perché hanno dato non solo risposte singole e puntuali ai problemi (la sicurezza, l'immigrazione, la delocalizzazione delle imprese e del lavoro, la concorrenza dei paesi emergenti, l'irruzione di nuovi mondi nella vita quotidiana di ciascuno) ma hanno convinto la maggioranza degli elettori che dietro quelle risposte ci fosse un sistema di valori, ci fossero delle convinzioni profonde e radicate.
Altra cosa sarà vedere se la visione semplicisticamente conservatrice e "protettiva" sarà poi capace di dare risposte politiche alle ansie del nostro tempo: e questa per la Destra è la sfida di questa legislatura.
È quello che invece è mancato al Pd: un forte, credibile nesso tra i programmi e una visione generale e ideale altrettanto forte, chiara e coerente. Non è bastato il tratto decisamente innovativo del suo progetto segnato da una radicale discontinuità di alleanze e di programmi, un progetto tutto orientato alla modernizzazione del Paese sulla base di un disegno che recuperava sul piano culturale e programmatico i ritardi, le reticenze, le contraddizioni che, nei dodici anni di alleanza con la sinistra radicale, avevano rallentato la maturazione del riformismo italiano rendendolo incapace di stare al passo con i cambiamenti della società italiana e di rappresentare i nuovi ceti che tali mutamenti generavano. Ceti che si rivolgevano alla Lega (costola della sinistra!), quella Lega che dopo il 1995 abbiamo definitivamente abbandonato alla deriva berlusconiana, rinunciando al tentativo - certo non facile ma, pure, possibile - di contaminare e amalgamare i nuovi ceti del nord e i loro interessi con quelli dei ceti tradizionalmente rappresentati dai partiti del centrosinistra. Questa svolta e la contestuale opzione a favore di un'alleanza strategica con la sinistra radicale certo non hanno aiutato i riformisti, in questo decennio, a realizzare quella rupture culturale, prima ancora che politica, che solo «il nuovo conio» del Pd di Veltroni ha portato a compimento.
Veltroni in questa campagna ha fatto un lavoro eccellente, ha fatto tutto quel che era possibile fare per dare forza e credibilità al nuovo profilo del Pd. Ma troppo breve è stato il tempo tra la svolta veltroniana ed il voto perché si potesse rendere davvero credibile e convincente la nuova missione del Pd. Oggi, i severi risultati elettorali subiti nelle politiche e a Roma impongono di avviare un lavoro di ben più lungo e ampio respiro. Un lavoro che sta a Veltroni continuare andando però oltre i programmi perché non sarà sufficiente (anche se ovviamente necessario) proporre politiche e battersi in Parlamento per la modernizzazione e la competitività della società e dell'economia italiana. Oggi ci vuole qualcosa di più. Quel qualcosa di più che, a quasi vent'anni dal crollo del muro di Berlino, non hanno ancora trovato i partiti socialisti europei in crisi ovunque (in Francia e in Germania ma anche in Spagna, dove Zapatero vince per il rotto della cuffia e solo grazie al determinante appoggio dei partiti regionali, e in Gran Bretagna dove il Labour subisce la prima durissima sconfitta del dopo Blair). Oggi i cittadini italiani, come quelli europei, come quelli americani chiedono una risposta alle paure globali. E i valori democratici di apertura, di tolleranza, di inclusione, di multiculturalismo, di apertura al libero scambio sono meno rassicuranti di quelli conservatori perché non appaiono coerenti (anzi a volte risultano del tutto inconciliabili) con le politiche di protezione che il popolo domanda, con il mantenimento di un sistema generalizzato di welfare, con la stabilità del lavoro, con la sicurezza del risparmio cioè con quei diritti la cui conquista universale costituisce la realizzazione degli ideali di uguaglianza, di giustizia sociale e di libertà propri dei progressisti. Occorre una lettura della globalizzazione che ricostituisca su basi nuove idealità e cultura dei democratici e che su queste fondi politiche convincenti. Che ridia senso a un europeismo che appare spesso di maniera e che deve invece rendere concreta l'idea di Europa come strumento di forza e di difesa nel mondo globale. Che sia capace di connettere i territori (in cui oggi ci si rifugia) con il mondo (da cui è ormai impossibile scappare). E che per fare questo sia disposta a rivedere, a mettere in discussione principi e valori consolidati. E che, dunque, su queste nuove basi chiare, non ambivalenti, dia forza e credibilità al suo progetto di governo. Ed è solo da questo lavoro che, nei prossimi anni, nel Pd potranno emergere leadership non solo giovani ma davvero nuove.
Per farlo occorre un Partito che bandisca il conformismo e l'opportunismo, stimoli la circolazione delle idee e moltiplichi le sedi di discussione. Un partito che si strutturi sul territorio e che da lì prenda linfa, nuove energie, nuova classe dirigente, facendo emergere dal basso i nuovi leader e non attraverso investiture dall'alto e tuttavia senza rinchiudersi in un gretto provincialismo; un partito che abbia organi di direzione politica democraticamente eletti che non siano (e non appaiano) lo sgradevole retaggio delle antiche riunioni dei capicorrente dei partiti fondatori, che diano senso ed incisività alle assemblea scaturite dalle primarie evitando derive assemblearistiche, un partito in cui le aggregazioni interne non nascano da logiche di potere o di antiche appartenenze ma in ragione di idee e di proposte comuni proiettate verso il futuro, un partito che valorizzi le fondazioni culturali che operano in area democratica e che oggi possono svolgere un importante ruolo di allargamento culturale, di elaborazione, di formazione.

il Riformista 6.5.08
Il CaW risorge in Europa con il lodo Franceschini
La Cosa rossa insorge, Cicchitto si dice d'accordo
di Alessandro De Angelis


Insorge la sinistra e plaudono i fedelissimi del Cavaliere. La proposta lanciata ieri da Franceschini - l'introduzione di una soglia di sbarramento per le europee - è stata vista dalla sinistra ormai "extraparlamentare" più o meno come un fulmine inatteso. L'ennesimo, dicono, da quando c'è Veltroni. Una sponda è arrivata invece da Cicchitto: «È evidente che il meccanismo della legge elettorale europea dovrà essere tale da favorire il bipolarismo e, possibilmente, anche il bipartitismo» ha detto il futuro capogruppo del Pdl alla Camera. Forse è presto per parlare di una ripresa del dialogo tra Veltroni e Berlusconi, ma certo tra i due c'è qualcosa di più di un segnale di fumo.
Riassumendo. Due giorni fa D'Alema ha aperto alla sinistra in nome dell'opposizione a Berlusconi: «Alla vigilia di grandi tornate amministrative l'autosufficienza sarebbe sbagliata. Abbiamo interesse a costruire ottimi rapporti con le forze che stanno all'opposizione» ha detto il ministro degli Esteri. Ieri Franceschini ha chiuso alla sinistra e aperto a Berlusconi: in un'intervista a Repubblica , non solo ha rilanciato l'autosufficienza del Pd («sulle alleanze non si torna indietro» ha detto) ma ha anche proposto una soglia di sbarramento alle elezioni europee: «Si potrebbe ragionare su una correzione, alzando la soglia di sbarramento ad un livello che consenta la rappresentanza delle forze intermedie». Parola d'ordine: semplificare il sistema politico: «L'anno prossimo - ha detto Franceschini - rischiamo di veder annullato l'effetto semplificazione. Non solo perché non ci sarà più il voto utile, ma perché con il sistema in vigore basta prendere l'1 per cento per eleggere un deputato a Strasburgo e avere accesso al finanziamento pubblico».
La mossa di Franceschini, dicono al loft, non è affatto una voce dal sen fuggita. Ma fa parte di una linea, pensata, studiata, su cui Veltroni non ha intenzione di mollare. Lo spiega Stefano Ceccanti, costituzionalista vicino al segretario del Pd: «Certo che bisogna mettere un soglia di sbarramento al 4 per cento. Ce l'hanno tutti gli altri paesi europei, a prescindere dal sistema elettorale usato per le politiche, perché non vogliono spappolare le loro rappresentanze in microgruppi. In Francia e Germania, per fare un esempio, è del 5 per cento». E la sinistra? Taglia corto Ceccanti: «Quando si parlava di sistema tedesco Udc e Rifondazione erano favorevoli a uno sbarramento del 5 per cento».
L'affondo di Franceschini non è affatto piaciuto all'ex Cosa rossa. Franco Giordano va giù duro: «È inaccettabile sia sul piano della cultura istituzionale che su quello politico» dice al Riformista l'ex segretario del Prc. Che spiega: «Sul piano istituzionale si vuole riprodurre lo schema del voto utile. Ovvero imporre una logica bipartitica là dove non si vota per un governo ma per la rappresentanza parlamentare. Sul piano politico l'idea di modificare le regole e continuare sulla semplificazione è quella che ha portato allo sfondamento delle destre». Dentro Rifondazione, alle prese con un lacerante dibattito interno, l'insofferenza verso Veltroni è a livelli si guardia: «È uno scandalo che non si apra un dibattito dopo la sconfitta del veltronismo» prosegue Giordano. I bertinottiani guardano con sempre maggiore attenzione alle mosse di D'Alema. E, sia pur con tutte le cautele del caso, vedono nella strategia delle alleanze proposta dal ministro degli Esteri e da Bersani una sponda per evitare il riflusso identitario. Anche Salvi prende le distanze dall'idea di Franceschini: «Si può discutere di correttivi o di aggiustamenti come il finanziamento, ad esempio. Ma lo sbarramento del 4 per centro è una idea prepotente». E spera in D'Alema: «Gli altri paesi non c'entrano. C'entra la discussione nel Pd tra chi vuole sterminare ogni cosa alla sua sinistra e chi, correttamente, come D'Alema e Bersani, si pone il problema delle alleanze».
I radicali hanno vissuto la proposta con un certo imbarazzo. Il legame col Pd non è in discussione, ma lo sbarramento, dicono a microfoni spenti, metterebbe a rischio la loro identità. Si invece sentono sempre più minacciati i socialisti. Al congresso di giugno si deciderà, dicono, il "che fare". Ma, ad oggi, i rapporti con Veltroni sono al minimo storico. E la mossa di Franceschini viene vista come il preludio al colpo di grazia. Dice De Michelis «Prima ci hanno negato l'apparentamento, ora vogliono completare l'operazione. C'è una logica di manipolazione che continua: correggere le leggi per ottenere risultati più convenienti per la propria parte».

il Riformista 6.5.08
Lo sbarramento di Franceschini


La proposta avanzata ieri da Franceschini (l'uomo delle proposte impossibili, il kamikaze del loft), presenta due rischi: uno democratico, e uno politico.
Il rischio democratico che sta nel ridurre la rappresentanza proporzionale nel parlamento europeo degli elettori italiani, alzando la soglia di sbarramento necessaria per avere eletti a Strasburgo, è evidente. Le leggi maggioritarie, che tendono a consegnare un vantaggio nella distribuzione dei seggi ai partiti maggiori, sono la norma negli stati nazionali, quando si tratta di eleggere un governo, e i numeri parlamentari devono garantire la governabilità. Ma eleggendo il parlamento europeo non si elegge nessun governo. Si fotografano solo le opinioni politiche dei cittadini europei, visto che il ruolo di governo dell'Unione lo svolge la Commissione, che per l'appunto è nominata dai governi. L'europarlamento ha sì un ruolo sempre crescente di codecisione, nella fase esecutiva; ma se è un po' frammentato non succede nulla, perché vota quasi sempre su linee di divisione nazionali e non politiche. Impedire dunque a radicali, socialisti, comunisti, e perfino estemisti di destra che siano in grado di raccogliere i voti necessari, di avere il loro diritto di tribuna non ha senso istituzionale e crea un deficit democratico.
Dal punto di vista politico, poi, è evidente che la proposta di Franceschini è fatta nell'interesse del Pd. Alle prossime europee, senza voto utile, buona parte dei voti della sinistra radicale in libera uscita alle politiche potrebbero rientrare alla base, spingendo il Pd sotto il 30% e così colpendo al cuore il suo gruppo dirigente. Ma un grande partito dovrebbe sempre stare attento a non confondere gli interessi del suo gruppo dirigente del momento con gli interesi di lungo periodo del partito e dell'area politica in cui è insediato. Dare un ulteriore schiaffo alle europee agli elettori socialisti, radicali, o comunisti, impedendo loro anche quando non conta nulla di votare per il proprio simbolo, potrebbe spingerli a non votare affatto, piuttosto che a votare per chi, d'intesa con Berlusocni, li ha fatti fuori.
C'è un solo punto su cui Franceschini ha ragione: il finanziamento pubblico che oggi prendono tutti i partiti che superano l'1 per cento. Ma invece di eliminarlo eliminando il partito, basterebbe eliminarlo e basta, lasciando il partito. Più semplice, e più democratico.

l’Unità 6.5.08
Oggi voto per Obama
di Luigi Manconi


L’Assemblea dei Mille di Chianciano, promossa da Marco Pannella e da Mauro Del Bue, ha costituito una importante occasione di riflessione pubblica sul dopo-voto. Già il fatto che si sia tenuta così tempestivamente rappresenta un elemento assai positivo, dal momento che i partiti usciti ridimensionati (come il Pd) o addirittura liquefatti (come quelli riuniti nella Sinistra Arcobaleno) stentano a trovare luoghi e modalità per una discussione aperta sulle cause lontane e prossime della sconfitta. Il rischio è che, in particolare all’interno di quella che fu la Sinistra Arcobaleno, il confronto si riduca a una resa dei conti tra gruppi dirigenti; e che l’analisi del disastro si limiti a una querimoniosa recriminazione sulla malizia del “voto utile”, sui ritardi organizzativi o sugli errori d’immagine, quando non a una fatalistica lamentazione sul fatto che “poche palle, l’Italia è un Paese di destra”.
Al di là di queste che possono apparire come reazioni superficiali, dovute allo stress dello sconfittismo non elaborato, in ogni caso si tarda a indicare le sedi e le forme più adeguate a una riflessione seria. Per questo, e non solo per questo, l’appuntamento di Chianciano costituisce un primo tentativo di risposta. E proprio perchè indica, e mette in scena attraverso le parole dei diretti interessati, il nodo più aggrovigliato: che fare di ciò che resta fuori dal Parlamento perchè legato prioritariamente a formazioni politiche che, dal Parlamento, risultano escluse? e che fare di ciò che in Parlamento è rappresentato, ma in una maniera che a molti pare inadeguata, dal Partito Democratico? In altri termini: 1, come far sì che il Partito Democratico possa rappresentare quelle domande di innovazione e di equità, di nuovi diritti e di garanzie sociali, di ambientalismo intelligente e di autodeterminazione individuale e collettiva, di libertà di ricerca scientifica e di imprenditoria, che emergono dalle trasformazioni in atto nella nostra società? 2, come far sì che i soggetti politici rimasti esclusi dal Parlamento non si limitino a un sacrosanto, e ineludibile, “ritorno al sociale” e, tanto meno, all’esaltazione della propria vocazione minoritaria, tentata dalla irriducibilità di un destino di opposizione permanente o di una testimonianza residuale?
Personalmente, ho avuto occasione di indicare, nei giorni scorsi, quale ritengo essere la soluzione migliore: e ho proposto che le istanze, e i militanti, dell’ambientalismo trovino spazio - e se lo conquistino, se necessario - all’interno del Partito Democratico; e che le istanze, e i militanti, che fanno riferimento a Rifondazione Comunista e alla Sinistra Democratica trovino spazio - e se lo conquistino, se necessario - all’interno del Partito Democratico. La qual cosa potrebbe riguardare, eccome, anche quella parte dei gruppi dirigenti capaci davvero di mettersi in gioco, di superare rancori e velleità di rivalsa e, insieme, schemi ideologici e modelli di interpretazione della realtà (ma anche formule organizzative) rivelatisi fallimentari.
Può sembrare un’impresa davvero ardua, ma la linea adottata con successo dai Radicali dimostra che non si tratta di un mero esercizio di ingegneria politica. Capisco, comunque, che la mia ipotesi è destinata a cadere nel vuoto (anche se verrà accolta, e già viene accolta da molti, a livello individuale): ma in ogni caso, quello del rapporto con il Pd - sia pure in termini diversi da come io li propongo - è destinato ad essere uno dei problemi fondamentali per tutti coloro, singoli e formazioni, che militano a sinistra.
Da questo punto di vista, l’assemblea di Chianciano è stata significativa e il ruolo dei Radicali è destinato ad essere cruciale. I Radicali costituiscono, infatti, il crocevia non solo politico, ma anche culturale e, se posso dire, concettuale della relazione possibile tra Pd e ciò che ha scelto di starne fuori e, più in profondità, tra le diverse culture che variamente si dislocano a sinistra e nell’intero spazio del centro sinistra. I Radicali offrono opportunità di intersecazione feconda alle tradizionali subculture politiche (con la sola eccezione dei comunisti autoritari) e alle nuove soggettività che partecipano dello spazio pubblico. Per capirci il processo di trasformazione che ha conosciuto rifondazione comunista negli ultimi cinque anni (dalla riflessione sulla non violenza all’attenzione per i diritti civili) sarebbe stato impensabile in assenza di un ruolo pubblico dei Radicali; e le grandi questioni “di vita e di morte” che interpellano la coscienza collettiva e la inquietano, anche quando incontrano risposte esclusivamente negative, avrebbero comunque attraversato la società fin nel profondo, ma non avrebbero oltrepassato la soglia della sfera politico-istituzionale. Ciò che vale (ed è parzialmente, e spesso a denti stretti, riconosciuto) per quanto riguarda il piano delle idee, ha funzionato in qualche misura anche per quanto riguarda il piano delle forme d’azione e dei modelli di organizzazione: pressochè tutti i partiti italiani hanno adottato, in misura variabile, qualcosa dello “stile radicale”.
Qui posso solo accennarvi ma, se questo è vero, può derivarne una importante conseguenza: nel quadro politico-istituzionale attuale, i Radicali - nonostante l’esiguità delle forze - possono funzionare anche organizzativamente come tramite di quel rapporto tra Partito Democratico e gli altri e tra iniziativa parlamentare e iniziativa extraparlamentare. Non significa certo che i Radicali debbano fungere da contenitore (troppa grazia Sant’Antonio) per la sinistra non rappresentata nelle istituzioni. Ma, da playmaker, (come nel buon vecchio basket di una volta), sì. Il ruolo di chi - attenzione: proprio in ragione della sua collocazione in campo, e in quello spazio del campo - distribuisce il gioco, anticipa, apre varchi, rilancia e indica linee d’attacco. Un ruolo, d’altra parte, che è proprio della storia radicale nell’ultimo mezzo secolo. Una funzione non semplicemente di servizio: non da mera “cinghia di trasmissione” di domande non condivise o solo parzialmente condivise, bensì da luogo di elaborazione di nuove politiche e di nuove strategie, capaci di tentare l’intentabile. Ricorro all’esempio più scivoloso: è mai possibile che la posizione sul precariato di Rifondazione Comunista non possa venire efficacemente mediata, intelligentemente commisurata alle trasformazioni del mercato del lavoro, tutelata nel suo nucleo essenziale di salvaguardia della sicurezza e della dignità dei lavoratori, valutata secondo un criterio razionale di costi/benefici, così che possa avere trascrizione normativa e, allo stesso tempo, consenso sociale? Un moderno Partito Radicale che sia libertario e liberale deve essere, di necessità, anche liberista, nell’accezione un po’ triviale che ne danno i miltonfriedmaniani de ’noantri? I discorsi di Marco Pannella ed Emma Bonino mi autorizzano a rispondere che no, quel termine “liberista” non è, poi, così indispensabile a definire il profilo programmatico dei Radicali.
Detto questo, resta evidentemente l’incognita rappresentata dal Partito Democratico in prima persona. Nelle scorse settimane, Walter Veltroni, a chi gli domandava come intendesse rappresentare le istanze rimaste escluse dal Parlamento, rispondeva: attraverso le nostre proposte programmatiche. Ineccepibile, ma non sufficiente. Il Pd, anche solo per incrementare i propri consensi, deve “allargarsi” e “allargare” la propria capacità di rappresentanza: e, dunque, accogliere temi e soggetti, idee e culture, che nella fase della propria costituzione ha sottovalutato e sottorappresentato. Ma anche a tal fine, il ruolo di playmaker dei radicali può essere assai importante, per attivare e accelerare lo scambio tra diverse zone del campo e per “velocizzare il gioco”.
P.S. Da Chianciano arriva anche la buona notizia della costituzione di una associazione radicale antiproibizionista. Giova ricordare, anche a questo proposito, che l’antiproibizionismo italiano non è mai stato quello “liberista” di Milton Friedman, bensì un movimento dotato di una forte base sociale e, direi, etica.

Repubblica 5.5.08
Marx e la sinistra
Alemanno ora attacca: no al partito di plastica
Dal monastero dei Templari messaggio a Berlusconi. "La destra moralità e popolo"
di Antonello Caporale


La nostra storia non è coperta dal fango, la comunità militante dà sempre il senso alla nostra vita
Dovete combattere la corruzione, non assalire gli assessorati, rifuggire dalle poltrone
Diceva Marx: struttura e non sovrastruttura, sulla quale alla fine è implosa la sinistra

OCRE - «Voglio raggiungere gli ottomila metri». Con quelle mani e quella determinazione Gianni Alemanno può farcela a scalare la montagna. Virtus in actione consistit. Già. «Dovete combattere la corruzione, evitare di assalire gli assessorati, badare alla moralità. Fare gruppo, costruire rapporti nel sociale, stabilire un legame col popolo. Rifuggire dalle poltrone, trovare la via per costruire una nuova classe dirigente. Dovremo conservare la forma di comunità militante».
Il corpo brevilineo del sindaco di Roma raggiunge il monastero - fortezza del Santo Spirito che dal monte di Ocre si apre sulla valle dell´Aterno, alle spalle dell´Aquila. E´ la suggestione del luogo, vi furono armati i Templari, la caratura delle mascelle dei giovani chiamati a raccolta, il timbro della sua voce a segnalare lo scarto linguistico ma anche la prepotenza politica con la quale Alemanno afferma il suo ingresso sul podio del centrodestra.
«Diciamo no al partito di plastica». Applausi. «Bisogna però guardare al Popolo della libertà senza i dolori di chi ha il torcicollo». Una settimana soltanto è trascorsa dalle elezioni, e il sindaco è ora avvinghiato da strette di mano nel modo dei legionari di Roma, all´altezza dell´avambraccio. E´ il suo covo, la sua famiglia. Avrebbe potuto nascondere questa argenteria, sotterrarla e fuggirne via. Invece il peso del nero, di tutta la letteratura con la quale si forgiano i novelli arditi che con cura oggi studiano il pensiero di Vilfredo Pareto, Roberto Michels e Giovanni Mosca, teorici dell´elitismo (la democrazia conduce immancabilmente un´elite al potere e dunque il popolo si ritrova presto spogliato ed escluso da ogni potestà di autogoverno) è esibito sotto un sole lucente della prima domenica di maggio. Qui Fini non avrebbe mai messo piede, e qui - di Gianfranco Fini - la considerazione non è altissima. A pranzo, tra gli iscritti al corso di formazione politica: «Voleva un ruolo istituzionale, l´ha ottenuto. Sarà contento e sazio. Gianni invece no, è di un´altra stoffa».
In effetti Alemanno, che il Times chiama già «il duce di Roma», sembra avere molto più carburante ideologico dell´ormai ex presidente di Alleanza Nazionale, e molte più letture, un alfabeto nuovo cui la politica dovrà fare i conti. E anche il fisico.
Agenda di oggi, per esempio: alle dieci all´Altare della Patria, alle 10,30 a Porta San Paolo a rendere omaggio ai caduti della libertà; alle 11 alle Fosse Ardeatine, alle 12 alla sinagoga di Roma. «La sicurezza ci aiuta a condurci verso il senso profondo della nostra identità. La sicurezza è una precondizione per sentirci liberi. E da liberi, senza alcuna paura, affermare le nostre radici e custodirle». Contro il relativismo. Eticità assoluta, come diceva Gentile. Per la cristianità riverita e professata. Viva Dio, viva il Papa: «Non è mai successo. Sono stato omaggiato in chiesa dal Pontefice. A Santa Maria Maggiore mi hanno applaudito lungo la navata».
Ecco la sua idea: «Chi viene in Italia dovrà accettare le nostre regole, i nostri simboli». Gerarchia, diritto verticale, supremazia culturale e religiosa, imposizione di modelli. Andare dal popolo. «Impegno massimo per le periferie, per i poveri, la gente, il popolo. Pensare di meno alla festa del Cinema. Non sento il bisogno di tutte quelle star di Hollywood». Riempire le buche per strada e non segnare più le piazze di concerti ed eventi. «Diceva Marx: struttura e non sovrastruttura sulla quale alla fine si è poggiato ed è imploso il ciclo della sinistra».
Croci e spade, armi e fede. «Fratellanza» dice Marcello De Angelis, l´amico, il fratello, il camerata, ora il deputato che Alemanno ha voluto sposare in Campidoglio in piena campagna elettorale. Il passato ha inseguito De Angelis fino a poco tempo fa: Terza posizione, il carcere, l´accusa di essere sovversivo, la fuga all´estero. L´articolo del codice penale con il quale si è ritrovato in cella, il 270 bis, è divenuto il nome della band musicale che raccoglie sotto la direzione e con la voce (di buona qualità) del parlamentare, nel genere del rap, la storia e la lotta e la rabbia dei fratelli e camerati caduti in guerra: «Ho il cuore nero/e tanta gente mi vorrebbe al cimitero/io me ne frego e sputerei al mondo intero/. Oggi a Ocre, nel monastero-fortezza, l´onorevole De Angelis abbraccia il sindaco di Roma e segna la vittoria: «La nostra storia non è coperta dal fango. Detto questo, gli anni 70 sono dietro le spalle. Ma la comunità militante dà sempre il senso alla nostra vita».

Repubblica 5.5.08
Alleanze, D'Alema sprona il Pd "Unire chi si oppone alla destra"
E Pannella chiama Bertinotti: mettiamoci insieme
di Silvio Buzzanca


ROMA - «Con il 33 per cento l´autosufficienza sarebbe un errore. Noi dobbiamo cercare di coalizzare, partendo dal livello locale, tutte le forze che si oppongono alla destra». Massimo D´Alema, ad una settimana dalla batosta elettorale, si presenta a "In Mezz´ora", il programma domenicale di Lucia Annunziata, e lancia un messaggio che trova orecchie molte attente nella Sinistra Arcobaleno. Il ministro degli Esteri, infatti, spiega che quel pezzo di mondo politico non è presente nel Parlamento, ma «non è scomparso dal paese». Secondo D´Alema «c´è una forza elettorale di tre milioni di voti che si è dispersa nell´astensione, e altro, a sinistra del Pd, ma non è che è scomparsa. Sarebbe un errore pensarlo. Le cose che hanno radici nel paese non scompaiono».
Da queste considerazioni, D´Alema fa derivare la necessità per il Pd di dialogare con tutte le opposizioni. Anche con l´Udc. «Un grande partito di opposizione deve avere un buon rapporto con tutte le forze che si oppongono al governo Berlusconi», spiega il ministro. Perché, conclude, il sistema italiano non è bipartitico e il sistema prevede «leggi elettorali diverse; per esempio nelle amministrative contano le coalizioni e non i partiti».
Parole che sembrano una presa di distanza dalla strategia veltroniana del partito a vocazione maggioritaria. Che toccano un punto dolente. Lo dimostra anche la reazione di Ermete Realacci. «Se mi chiedessero quale è la priorità tra cercare alleanze e leggere culture, territori o società, direi più la seconda che la prima», dice lo stretto collaboratore di Veltroni. Ben diversa è la reazione di Paolo Ferrero. Il ministro di Rifondazione lega l´intervento di D´Alema a quello di Bersani dei giorni scorsi e lo considera l´inizio di una riflessione nel Pd. E ne ricava l´impressione di «una messa in discussione della semplificazione bipartitica del sistema politico che ha caratterizzato la proposta politica veltroniana». Dunque, conclude Ferrero, «mi pare che questa apertura di discussione costituisca un positivo segnale».
D´Alema, quindi, sembra riaprire le porte del dialogo con la Sinistra Arcobaleno. Un soggetto con cui è intenzionato a dialogare anche Marco Pannella. Da Chianciano - dove si è svolta l´Assemblea dei Mille, convocata per riflettere sulla sconfitta elettorale - è uscita la proposta di avviare subito un dialogo per creare «un nuovo soggetto politico alternativo al Pd». Pannella ha infatti molto apprezzato l´intervento di Cesare Salvi, Sinistra democratica, che ha detto: «C´è in Italia una domanda di nuova sinistra. Voi radicali dovete essere una componente essenziale di questa battaglia perché tante cose le avete viste prima degli altri». Il leader radicale ha così ripetuto l´invito al confronto a Fausto Bertinotti. Le prime reazioni a sinistra non sono però entusiastiche. «Ricostruire la sinistra è un problema che c´è, ed è molto utile anche il confronto aperto da Marco Pannella, ma è nostro dovere e interesse riflettere. La sinistra deve ripartire da un processo politico», dice Gennaro Migliore, di Rifondazione comunista. Giudizio simile dal verde Angelo Bonelli: «I Verdi e la sinistra devono recuperare il rapporto forte con la società, ripartendo da una politica ambientalista e di sinistra».