domenica 11 maggio 2008

l'Unità 11.5.08
«Correnti? Il vero problema sono i contenuti»
Cuperlo: manca ancora un’identità «Troppe nomine decise dall’alto»
di Maria Zegarelli


VELTRONI gli aveva proposto il ministero ombra della Semplificazione, quello di Calderoli, ma la risposta è stata un gentile «Caro Walter apprezzo molto il fatto che tu me lo abbia proposto, ma non è nelle mie competenze». Gianni Cuperlo, parlamentare Pd, nella casella delle correnti viene piazzato in quella dalemiana.
Cuperlo, Iniziamo dal governo ombra: Lei è tra chi ci crede o tra gli scettici?
«Spero che sia in grado di incalzare il governo vero e non solo con dei “no”, ma anticiparne le soluzioni sui temi di fondo. Detto ciò, a noi non basta avere delle buone proposte di legge alternative. Il voto ci ha detto che abbiamo fatto la migliore campagna elettorale possibile, e questo grazie alla scelta di andare “liberi” e alla brillante iniziativa di Veltroni che ha il merito oggettivo di aver messo in sicurezza il progetto del Pd. Ma ci ha anche detto che non siamo riusciti a far passare la nostra idea del paese, della crescita, della sicurezza, dei diritti, della responsabilità del singolo».
Perché non è arrivato questo messaggio?
«Perché non basta su ciascuno di questi terreni inseguire il vocabolario degli altri. Noi abbiamo la necessità di adottarne uno nostro e possibilmente nuovo. Quindi, bene il radicamento territoriale del Pd, ma conta anche cosa andiamo a dire. Soprattutto a quei pezzi di società che ci hanno chiesto negli anni scorsi un benessere materiale e che invece hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita. Anche per questo è maturato “il rancore”, di cui parla Aldo Bonomi. Ma verso un sentimento di quel tipo non basta un buon programma di governo, e noi ne avevamo uno ottimo: occorre arrivare a alla pancia e alla testa della maggioranza delle persone con una identità e una idea del paese».
Allora come se lo spiega questo dibattito sulla resa dei conti interna al Pd se la priorità è un’altra?
«Il nostro problema è proprio discutere nel merito alcuni di questi contenuti. Prendiamo la sicurezza, ritenuta una delle cause della sconfitta. Quando Blair, nel 1993 aggredisce l’emergenza sicurezza parla “della coscienza addormentata del paese”. Investe su una concezione alta della responsabilità dell’individuo, parla di valori, per prevenire quello che definisce “un caos morale”. Ne discendono nuove politiche pubbliche, anche repressive, ma non solo. Punta su una crescita civile della comunità. E vince anche per questo».
Lei ha detto che nel Pd manca democrazia interna. Si riferisce alle nomine degli organismi dirigenti?
«Vedo oggi nella vita democratica di questo partito, anche nei suoi assetti, compresi gli ultimi, un problema di metodo e uno di merito. Partiamo dal metodo: in questi mesi dopo le primarie abbiamo avuto un esecutivo, un Comitato politico, la composizione delle liste, il governo ombra e il coordinamento, tutti nominati dal leader. Abbiamo confermato le presidenze dei gruppi senza prima un confronto politico. Capisco la fase transitoria, ma servono regole diverse. Quanto al merito: si dice che le correnti sarebbero la tomba del Pd. Ma finora tutte le scelte, o quasi, si sono fondate su una logica correntizia. Liste, caminetto, coordinamento, presidenze dei gruppi, fino agli incarichi istituzionali in Parlamento».
D’Alema si è chiamato fuori...
«D’Alema ha promosso un incontro dei parlamentari, in veste di presidente dell’associazione Italianieuropei,dove si è parlato di come arricchire in termini di idee il lavoro dell’opposizione e del Pd. È scoppiato un caso. Ma non è un mistero che nei mesi scorsi si sono riunite e legittimamente correnti e componenti di vario tipo, da Morando a Fassino ai Popolari. Sa quale è la verità? Considero D’Alema un pensatore libero, un leader che dice cose intelligenti e utili, ma quanto a capo corrente, lascia molto a desiderare. Sono dodici anni che aspetto una convocazione della corrente dalemiana. E temo che ormai non accadrà più».
E del coordinamento cosa pensa?
«Faccio i miei migliori auguri di buon lavoro, ma faccio sommessamente notare - oltre al fatto che è composto da nove uomini e una donna - che sono più o meno gli stessi di quindici anni. Li stimo uno per uno, comprerei da loro non un auto usata ma tutta la concessionaria. Però forse non basta più. Penso che vada superata la logica della decorazione sulla torta, singole ciliegine a rappresentare il rinnovamento, quando la torta è sempre la stessa. Comincio a pensare che c’è un tappo e che vada fatto saltare perché ci sono risorse che vanno valorizzate: penso a nomi come Zingaretti, Fassina, Orlando, che è il capo dell’organizzazione. E a figure di altre generazioni, perché non credo che l’innovazione vera sia un dato solo generazionale. Ovunque dopo un risultato simile si aprirebbe un confronto sincero. E si rimescolerebbero ole energie. Abbiamo davanti cinque anni di opposizione. Cambieranno l’Italia. Cerchiamo di non essere i soli a restare fermi».

l'Unità 11.5.08
Sd sceglie Claudio Fava. Prove di dialogo col Pd
L’europarlamentare eletto coordinatore al posto di Mussi
Veltroni: «Incontriamoci». La risposta: «Sì, lavoriamo insieme»
di Roberto Brunelli


«CARO CLAUDIO...». «CARO WALTER...». Quel pezzo d’Arcobaleno che si chiama Sinistra democratica per primo alza la testa dalle macerie del dopo voto, per primo inizia a ricostruire il suo futuro: che è quello di dare vita a una nuova fase costi-
tuente del centrosinistra. Mentre il prisma della Cosa Rossa va in frantumi, con Rifondazione e Pdci in cerca di una nuova radicalità e i Verdi alla riconquista dell’ambiente perduto, dentro Sd la parola è dialogo. Dialogo con il Pd, per la precisione, attenzione al suo dibattito interno, «a cominciare da quello delle alleanze». Ieri il comitato promotore di Sd si è riunito per scegliere il nuovo coordinatore, l’uomo che seguirà Fabio Mussi alla guida del movimento. Quell’uomo è Claudio Fava, eletto all’unanimità dai trecento presenti (due soli astenuti). E l’europarlamentare è stato eletto con un mandato preciso: rimettere insieme i cocci della sinistra a sinistra del Pd, sì, ma nell’ottica di ricostruire un centrosinistra di governo. «Chi ritiene di essere autosufficiente è fuori da questo percorso», dice Fava. «Ritenteremo l’innesco di un percorso unitario», gli fa eco Mussi al termine della riunione del comitato. Vietato, insomma, «chiudersi nel ghetto dell’opposizione».
E un segnale dal Pd, da Veltroni in persona, è arrivato subito. Il segretario del Partito democratico ha inviato una lettera di auguri al neoeletto coordinatore. «Ho seguito con rispetto l’avvio della discussione dentro Sd: diverse sono oggi le nostre analisi, ma certamente il voto ci consegna una situazione politica profondamente mutata e impone a ciascuno di dare risposte ai problemi del paese». Per questo motivo, aggiunge il leader del Pd, «nel pieno rispetto delle diverse posizioni, credo sia opportuno fissare in tempi ravvicinati un incontro di lavoro». Dopo poco di più di mezz’ora la risposta: «Caro Walter, sono pronto a incontrarti. Sarà occasione per mettere nuovamente al centro il nostro comune sforzo per un nuovo centrosinistra in questo paese. Ciascuno con l’autonomia delle proprie posizioni e del proprio percorso, ma sapendo che, su un piano di pari dignità, una collaborazione proficua è possibile tra il Pd e il nostro progetto di Costituente di sinistra».
Insomma, qualcosa si è messo in moto, al di là delle cortesie, al di là delle battute (diceva Mussi ieri: «Il match Veltroni-D’Alema? Dejà vu, sembra una delle tante finali di coppia Italia tra Roma e Inter...»), al di là delle critiche («Il governo ombra? Pratiche antiche. Il Paese ha bisogno di un’opposizione alla luce del sole», commenta Fava alla sua prima uscita pubblica). Il nuovo coordinatore ha chiaro quale sia il suo mandato: è «il nostro contributo alla costruzione di un forte soggetto politico di sinistra». Un percorso non facile: il nuovo coordinamento guiderà Sd fino a luglio, quando ci sarà la prima assemblea nazionale. Ma già fin d’ora è lampante la presa di distanza rispetto agli altri ex dell’Arcobaleno, per esempio per quello che riguarda la diatriba sui simboli: «La comunità a cui ci rivolgiamo non misura la sua affidabilità sui simboli e sul richiamo di memorie anche visibili, ma su noi stessi». E a proposito della débacle, Claudio Fava parla di «profonda miopia della sinistra», dice dell’«eccessiva attenzione a ciò che accade nelle nostre stanze, scarsa attenzione alle cose profonde che stravolgono il paese nel suo senso comune».
È tutto lì, il punto. Anche Mussi, di cui si parla come futuro presidente Sd («certo non intendo andare in pensione») fa una valutazione severa sul voto. Gli errori sono stati tanti, c’è stato il problema di un percorso «del tutto immaturo al momento della caduta del governo». L’esito è stato devastante, ma non solo per l’Arcobaleno. Per questo «c’è bisogno di una sinistra che si rinnovi, che esca dalle trincee: è sì necessaria una selezione, è necessario ricostruire un dialogo col Pd». Ma è un processo dal quale il Pd non può ritenersi immune: intanto perché «c’è bisogno di un soggetto forte alla sua sinistra», e poi perché «la scelta centrista non ha portato, di fatto, alla conquista dei voti di centro». Rinnovamento, s’è detto: mentre in Germania «Die Linke» è riuscita a darsi una connotazione di forte novità, in Italia l’Arcobaleno ha trasmesso un che di conservativo. Ora è necessario costruire un orizzonte più ampio. Fava l’ha detta così: «Scommettiamo sulla capacità di mettere insieme sinistra di governo e sinistra di opposizione facendo capire una volta per tutte che non esiste una sinistra solo per il governo e una sinistra solo per l’opposizione». Si comincia dunque dalle prime file di Sd. Per Mussi non c’è dubbio: è Fava l’uomo giusto. Ma bisogna ripartire dal territorio. «Rispetto alle politiche, alle amministrative l’Arcobaleno ha preso il triplo dei voti: ci sono milioni di voti a sinistra del Pd». È lì che si guarda, rimuovendo le prime macerie.

CHI È. Europarlamentare, giornalista, sceneggiatore... e nel ’99 Walter lo volle segretario Pds in Sicilia

NON È DA IERI che si incrociano le strade del nuovo coordinatore di Sinistra democratica e di Walter Veltroni. Infatti, fu nel febbraio 1999 che l’allora neo segretario dei Ds volle Claudio Fava come segretario regionale del partito in Sicilia e capolista alle elezioni europee del 1999. Laureato in giurisprudenza, giornalista professionista dal 1982, figlio di Giuseppe Fava (fondatore de I Siciliani e assassinato dalla mafia il 5 gennaio 1984), Claudio Fava è nato nel ‘57 a Catania. Ha lavorato per il Corriere della Sera, L'espresso, l'Europeo e la Rai, in Italia e dall'estero, incrociando quasi da subito l’attività professionale con l’impegno politico. Tra i fondatori de La Rete di Leoluca Orlando, è stato deputato dell'Assemblea regionale siciliana (1991), deputato alla Camera dal 1992 al 1994, anno in cui lascia La Rete e aderisce a Italia Democratica di Nando Dalla Chiesa. In effetti Fava diverrà, non senza polemiche, segretario regionale dei Ds (dal marzo 1999 al giugno 2001), membro della direzione nazionale dei Ds. Nel 2003 si è candidato alla presidenza della provincia di Catania, venendo sostenuto da tutto il centrosinistra tranne lo Sdi: ha ottenuto però solo il 31,3% dei consensi ed è risultato sconfitto dal rappresentante della Casa delle Libertà Raffaele Lombardo. Eletto due volte deputato del Parlamento europeo (nel 2004, per la lista di Uniti nell'Ulivo, circoscrizione isole, ha ricevuto 222 mila preferenze), iscritto al gruppo parlamentare del Partito Socialista Europeo, vicepresidente della Commissione per lo sviluppo regionale e membro della Commissione per gli affari esteri, ha aderito nel maggio del 2007 ha aderito a Sinistra Democratica. Per le polithce 2008 era candidato per il Senato come capolista della Sinistra Arcobaleno nella circoscrizione Sicilia. È autore del libro La mafia comanda a Catania 1960/1991 del 1992 ( Laterza). Ha scritto, assieme a Monica Zapelli e Marco Tullio Giordana, la sceneggiatura de I cento passi, premiata, nel 2001, con il Leone d'Oro, con il Davide di Donatello e con il Nastro d'Argento. Assieme a Domenico Starnone e Stefano Bises, ha curato anche la sceneggiatura della fiction Il capo dei capi (2007) sul boss mafioso Totò Riina.

l'Unità 11.5.08
Rifondazione. È battaglia sulle regole
Vendola si candida


ROMA Rifondazione si avvia al congresso (che si terrà a Chianciano dal 24 al 27 luglio) prigioniera di un inestricabile viluppo di diffidenze, rancori, rimpianti. Nella riunione del Comitato politico nazionale che deve licenziare i documenti congressuali la vera contesa è attorno al regolamento congressuale: l’area bertinottiana spinge per votazioni aperte per ore, nei circoli, dopo il dibattito; chi avversa questo sistema, è la tesi, non vuole «un partito di massa». Dall’altra parte si insinua che gli uomini di Giordano vogliano vincere il congresso grazie ai signori delle tessere, agli assessori che fanno votare parenti e clienti. Il voto sulle regole è previsto oggi, nella seconda giornata di riunione. In questo clima di sfiducia così aspro cade nel vuoto l’ultimo rituale appello di Claudio Grassi e Paolo Ferrero a fare un congresso a tesi, per «difendere il corpo del partito» da lacerazioni ulteriori. E già oggi Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia, dovrebbe annunciare la sua candidatura alla segreteria, come leader della mozione congressuale bertinottiana. Per ora il leader pugliese si limita a dire «rifletterò», ma è il segreto di Pulcinella. Intanto accusa gli avversari di volere un congresso «con il torcicollo», cioè con la testa rivolta al passato. E a chi gli chiede come pensa di conciliare i ruoli di leader del Prc e governatore retto dai voti del Pd, replica ricordando con orgoglio le sue competizioni elettorali disperate sempre vinte sul filo di lana: «Sono l’uomo delle sfide impossibili». Al congresso di Chianciano, oltre alla mozione bertinottiana ci saranno quella Ferrero-Grassi-Mantovani e quella delle due minoranze organizzate, Falce e martello guidata da Claudio Bellotti e l’Ernesto di Gianluigi Pegolo, Fosco Giannini e Leonardo Masella. Probabile anche la quinta mozione, scritta da Walter De Cesaris e Franco Russo della ex maggioranza, che rappresenta un tentativo di mediazione fra i due gruppi principali in lotta, e che raccoglierà probabilmente l’adesione di una parte delle femministe del partito.
Il segretario, secondo le regole in vigore, sarà eletto dal nuovo Comitato politico nazionale eletto al Congresso. Chi vorrà governare il partito, quindi, avrà bisogno della maggioranza assoluta. Sembra tramontata, al momento, l’ipotesi che Fausto Bertinotti si schieri apertamente nel dibattito interno, sottoscrivendo la mozione dei suoi fedelissimi: «Troverà il modo - dicono gli uomini di Giordano - di far conoscere il suo orientamento, ma se firmasse sarebbe la mozione di Bertinotti». Un biglietto da visita che evidentemente a Rifondazione non aiuta. Ma sulla mozione Giordano si addensano malumori anche all’interno dell’area dell’ex maggioranza interna. Chi ha letto le prime bozze, parla di una mozione tutta sulla difensiva.

l'Unità 11.5.08
Metalmeccanici, il caso Rinaldini scuote la Cgil
Dura risposta della confederazione alla minaccia di dimissioni. Posizioni divergenti nella Fiom
di Laura Matteucci


DIVISIONI Tensione, valutazioni scarne ma dure nella Cgil. Divisioni sempre più marcate ed esplicite in Fiom. Il caso di Gianni Rinaldini, che si dice pronto a seguire le sorti dei quattro dirigenti della Fiom milanese colpiti da provvedimenti disciplinari di sospen-
sione, fa emergere le divergenze interne al sindacato nella loro effettiva gravità. Prima in un’intervista, adesso in una lettera all’Unità, Rinaldini forma e precisa la sua posizione, dopo lo strappo di settimana scorsa, quando si è allontanato dal direttivo sulla riforma della contrattazione. Lo stesso direttivo in cui ha dichiarato di assumersi la responsabilità per i dirigenti sospesi. La conferenza nazionale di organizzazione della categoria di giovedì e venerdì prossimi, presente anche Guglielmo Epifani, diventa così una sorta di redde rationem complessivo. Al centro della discussione, in realtà, la riforma del modello contrattuale di cui è stata appena approvata la piattaforma unitaria. E qui le opinioni divergono anche massicciamente.
Un caso disciplinare, un episodio avvenuto un anno fa, si è trasformato insomma in un terremoto sindacale e ha acuito lo scontro interno alla Fiom e tra la Fiom e la «casa madre».
La Cgil per il momento fa quadrato e affida la sua replica alla segretaria Carla Cantone, che definisce le dichiarazioni di Rinaldini «incredibili e inaccettabili», sottolinea l’autonomia del comitato di garanzia interno al sindacato, evita di parlare di conflitti politici in corso con l’organizzazione dei metalmeccanici, e anzi ricorda che «nessuno ha mai considerato tali procedure come atti politici».
Ma, intanto, quelle di Rinaldini rischiano di non essere le uniche autosospensioni possibili in casa Fiom. Da posizioni quasi antitetiche, il segretario nazionale Fausto Durante si dichiara «molto amareggiato» e arriva a conclusioni analoghe: «La discussione va fatta fino in fondo. Non si può confondere la vicenda di Milano con un attacco al dissenso - dice - Altrimenti, non vedo perchè dovrei rimanere lì». «Siamo di fronte ad un processo lento ma costante di definizione dell’identità della Fiom come alternativa alla Cgil», continua.
Durante ha una sua tesi già da tempo: è convinto sia in atto «un tentativo di opa sulla Fiom da parte di Rifondazione», un tentativo che la scomparsa della sinistra dal Parlamento renderebbe anche più pressante.
Giorgio Airaudo, segretario della Fiom di Torino, la mette giù diversamente, e stigmatizza un processo di «centralizzazione» da parte della Cgil, che «in effetti un vulnus democratico lo apre». Ancora: «La Cgil ha sempre ospitato un po’ tutte le posizioni della sinistra, spero si eviti la direzione di semplificazioni poco democratiche - continua Airaudo - Nel caso specifico, la sanzione per i dirigenti milanesi la trovo sproporzionata. Colpisce il clima di intolleranza crescente nelle strutture confederali verso tutto ciò che riguarda la Fiom». E, secondo Airaudo, le parole di Rinaldini ne sono un’evidente conferma: «Perchè lui, a differenza di quanto forse può sembrare, è persona molto pacata e per nulla estremista».
Di centralizzazione, anzi più apertamente dell’esistenza ormai di «modello autoritario di organizzazione», parla anche un altro segretario nazionale, Giorgio Cremaschi: «Sono in discussione i fondamentali nella Cgil - dice - Siamo di fronte ad un’involuzione moderata. La Cgil di oggi è lontana anni luce da quella dei 3 milioni in piazza nel 2002. E la vicenda di Milano è un’aggravante, un’altra spia della tendenza a risolvere per via amministrativa le difficoltà dell’organizzazione. Che invece vanno affrontate aprendosi e discutendo».

l'Unità 11.5.08
Tra un mese Maselli torna sul set (delle fatiche e dei dolori della sinistra)


Dovrebbero cominciare fra poco più di un mese le riprese di «Il fuoco e la cenere» (il titolo non è confermato), il nuovo film di Francesco Maselli, prodotto da Cattleya.
Il regista, che era tornato l’anno scorso dietro la macchina da presa con il mix di documentario e fiction «Civico zero» (candidato ai Nastri d’Argento), preferisce non dire nulla del progetto («Ho firmato un accordo di riservatezza con i produttori»), ma a quanto si apprende, sarà una storia corale ambientata nell’Italia di oggi. Fra gli interpreti, anche se in un piccolo ruolo, ci sarà Luca Lionello.
Maselli aveva già accennato alla pellicola in un’intervista di qualche mese fa a Il Mattino di Napoli, dicendo che sarà «un film sulle difficoltà che incontrano le diverse anime della sinistra italiana.
Dopo la caduta del governo Prodi abbiamo rinviato le riprese, non volevamo infierire». Il cineasta aveva già girato qualche scena lo scorso autunno all’interno e all’esterno del Padiglione ungherese della Biennale d’arte di Venezia.
Fin qui il testo dell’agenzia Ansa. Non possiamo che accodarci al coro di quanti sono in attesa di questo nuovo lavoro del regista. Anche perché, a quanto pare, ci servirà da specchio. E non è detto che quanto riflette uno specchio debba piacere a tutti. Ma servirà.

Repubblica 11.5.08
La dolce dittatura della nuova democrazia
di Eugenio Scalfari


Con quello che capita nel mondo e soprattutto nel Medio Oriente, terra rivierasca del lago Mediterraneo, verrebbe voglia di sorvolare sui fatti di casa nostra, i primi passi del Berlusconi-Quater, il governo-ombra del Partito democratico, l´eterno duello eternamente smentito tra Veltroni e D´Alema. A paragone dell´orizzonte planetario sono cosette di provincia, ma quella provincia è casa nostra e quindi ci tocca da vicino. Ne va dei nostri interessi, delle nostre convinzioni e delle nostre speranze.
L´impatto della crisi libanese provocata da Hezbollah e di quella israeliano-palestinese provocata da Hamas è comunque troppo violento per esser trascurato. Per di più abbiamo in Libano un contingente di tremila soldati, la nostra più importante missione militare la cui sorte condizionerà inevitabilmente le altre nostre presenze all´estero a cominciare da quella in Afghanistan.
A questo punto si pone la prima domanda: esiste un legame strategico tra le iniziative militari e politiche di Hezbollah e quelle di Hamas? E – seconda domanda – si tratta di iniziative autonome o ispirate dall´esterno? C´è un´indubbia affinità tra quei due movimenti: entrambi hanno caratteristiche strutturali nei rispettivi teatri d´operazione; entrambi sono al tempo stesso milizie armate e strutture assistenziali, educative, sociali. Anche religiose, soprattutto per quanto riguarda Hezbollah.
Probabilmente Hamas ha in se stessa la sua referenza ideologica e politica ma subisce ovviamente un forte condizionamento dal contesto della regione; la tuttora mancata pacificazione irachena e la presenza da ormai cinque anni di un´armata americana impantanata dalla guerriglia sciita e sunnita tra Bagdad e Bassora ha impedito il rafforzamento dell´Autorità palestinese favorendo invece il nazionalismo di Hamas e la sua identificazione con il panarabismo radicale e con il terrorismo.
Per Hezbollah il fattore religioso ha sempre giocato un ruolo primario; il vincolo sciita ha progressivamente spostato la sua dipendenza da Damasco a Teheran. Allo stato attuale si gioca sullo scacchiere libanese una triplice partita: quella d´una grande Siria in funzione antisraeliana, quella d´un blocco sciita contro i governi arabi filo-americani e quella di un nazionalismo libanese come nuova potenza islamica e mediterranea.
In un quadro così complesso emerge drammaticamente l´assenza d´una politica unitaria europea e la pochezza della politica mediorientale americana. Emerge altresì la catena di errori commessi dai governi d´Israele dalla fondazione di quello Stato fino ad oggi: sessant´anni di occasioni perdute, una guerra diventata endemica, l´evocazione dal nulla d´una nazione palestinese inesistente sessant´anni fa e il miraggio d´una pace che si allontana sempre di più. La formula "due paesi due Stati" ha un fascino lessicale che corrisponde sempre meno alla realtà. Il solo modo di realizzarla sarebbe quello di collocarla in un quadro internazionale sponsorizzato dall´Onu, dalla Nato e dall´Unione europea, impensabile tuttavia fino a quando l´Europa non disponga di istituzioni federali e di una sua politica estera e militare. Siamo cioè più nel regno dei sogni che in quello della realtà.
* * *
Nel frattempo il nuovo governo italiano si è installato ed è iniziata la quarta reincarnazione berlusconiana all´insegna di una dolce dittatura, come abbiamo già avuto modo di scrivere domenica scorsa.
Dittatura dolce è un ossimoro con il quale cerchiamo di configurare un´entità politica inconsueta ma reale. Ci sono due polarità nel Berlusconi-Quater, che si confronteranno tra loro nei prossimi cinque anni e che convivono all´interno del triumvirato Forza Italia-An-Lega ma perfino all´interno di ciascuno dei tre partiti alleati. Convivono addirittura nella personalità dei tre leader e dei loro stati maggiori.
Il "lider maximo" è probabilmente il più consapevole di questa duplice polarità e della blindatura zuccherosa che è l´immagine più realistica del governo testé insediato. Per questa ragione egli ha privilegiato la compattezza sul prestigio collocando nei dicasteri e nelle posizioni più sensibili persone clonate sulla fedeltà al capo piuttosto che sul prestigio e sulla competenza.
Blindatura zuccherosa evoca sia il populismo sia il trasformismo, due elementi connaturati a tutto il quindicennio berlusconiano e profondamente radicati nella storia politica e antropologica del nostro Paese. Nei suoi primi atteggiamenti di nuova maggioranza tutti i dirigenti già insediati nelle varie cariche istituzionali, ministri, sindaci, presidenti di Regione e di Provincia, non fanno che lanciare appelli di collaborazione ai talenti individuali lasciando in ombra il ruolo dell´opposizione.
Questa a sua volta tende a concentrare la sua forma-partito per esorcizzare tentazioni centrifughe e fughe in avanti verso ipotesi immaginarie.
L´aspetto più visibile della blindatura zuccherosa è il tentativo di coinvolgere il Capo dello Stato effettuato da Berlusconi il giorno stesso del giuramento nella sala del Quirinale durante il brindisi augurale con i nuovi ministri e in assenza del presidente Napolitano appena ritiratosi per urgenti impegni istituzionali. «Questa legislatura - ha detto il neo-presidente del Consiglio - procederà sotto il segno di un patto con il presidente della Repubblica che avrà il nostro pieno appoggio e al quale sottoporremo le linee guida del governo per averne consiglio e preventivo incoraggiamento».
Una simile dichiarazione era del tutto inattesa dopo una fase di crescente disagio reciproco tra i due massimi poteri istituzionali. Essa rivela la preoccupazione di Berlusconi di fronte alla complessità dei problemi da affrontare e il suo bisogno di collocare il governo nel quadro d´una "moral suasion" preventiva e preventivamente sollecitata e ascoltata come tramite e garanzia di fronte ad un´opinione pubblica frammentata e instabile.
Il Quirinale non ha fatto alcun commento alle parole del presidente del Consiglio né poteva farlo essendo esse del tutto informali; del resto i rapporti tra la presidenza della Repubblica e il potere esecutivo si sono sempre basati sulla collaborazione, ferma restando la netta distinzione dei reciproci ruoli. La "moral suasion" è sempre stata uno degli strumenti di quella collaborazione nell´interesse dello Stato, a cominciare dai "biglietti" tra Quirinale e Palazzo Chigi ai tempi di Luigi Einaudi. Ma altro è la collaborazione istituzionale tra due poteri dello Stato, altro la confusione dei ruoli e un patto di legislatura che equivarrebbe ad una sorta di "annessione" del Capo dello Stato alla maggioranza parlamentare.
Annessioni del genere ci furono durante la Prima repubblica e raggiunsero il culmine con la presidenza Leone, ma dalla presidenza Pertini in poi scomparvero del tutto e i ruoli riacquistarono la doverosa nettezza prevista dalla Costituzione. Nettezza tanto più necessaria in una fase in cui - al di là del conteggio dei seggi parlamentari - la maggioranza è stata votata dal 47 per cento degli elettori.
* * *
Sappiamo che il nuovo governo, subito dopo il voto di fiducia, si appresta ad affrontare i due primi e importanti appuntamenti: quello della sicurezza e quello dell´economia per un rilancio della domanda interna. Questioni complesse e irte di difficoltà. Il ministro dell´Interno, Maroni e quello della Giustizia, Alfano, stanno lavorando sul primo tema; il ministro dell´Economia, Tremonti, sul secondo.
La premessa al pacchetto "sicurezza" è una direttiva europea in corso di avanzato esame, che dovrebbe prolungare la permanenza degli immigrati nei centri di accoglienza e custodia fino a 18 mesi. Se e quando questa direttiva entrerà in vigore, essa darebbe tempo di esaminare in modo approfondito la figura dei vari immigrati e accoglierli o rispedirli ai paesi di provenienza.
Ma di ben più incisivo contenuto sono le misure di pertinenza del governo, predisposte dall´avvocato Ghedini, uno dei difensori di Berlusconi e membro del Parlamento. Si va da un elenco di reati particolarmente sensibili ai quali applicare le nuove misure, ad aumenti di pena rilevanti, all´obbligo di processi per direttissima nei casi di semi-flagranza, all´abolizione dei benefici di legge per i reati reiterati, all´istituzione del reato d´immigrazione clandestina. Infine alla chiusura delle frontiere per i "rom" provenienti dalla Romania, e al rimpatrio immediato di quelli irregolarmente entrati e residenti in Italia.
Quest´ultimo punto è particolarmente delicato perché richiede un accordo con il governo di Bucarest che non sembra affatto disposto a concederlo ed anzi minaccia eventuali rappresaglie sugli italiani residenti in Romania.
Il pacchetto nel suo complesso configura una politica assai dura e non priva di efficace deterrenza almeno in una prima fase, anche se è generale convinzione che politiche anti-immigrazione non avranno, sul tempo medio, alcuna efficacia se non nel quadro di un´assunzione di responsabilità europea e di accordi con i Paesi dai quali i flussi migratori provengono.
Dal punto di vista della politica immediata il governo trarrebbe indubbio giovamento di popolarità da queste misure, visto che quello della sicurezza è il tema principale intorno al quale si è formato il consenso degli elettori. Proprio per questo Berlusconi punta su un decreto legge d´immediata esecutività a dispetto della complessità e delicatezza della materia. Sarà decisiva su questo specifico tema la posizione del Capo dello Stato cui spetta di decidere se l´urgenza debba prevalere sull´esame approfondito ed ampio in sede parlamentare.
* * *
Ancora più ardua l´apertura di partita sul terreno dell´economia. Tremonti ha ieri affermato che non esiste alcun "tesoretto" spendibile. Affermazione discutibile dopo le dichiarazioni di Padoa-Schioppa nel momento del passaggio di consegne, anche considerando che l´ex ministro non è certo incline agli ottimismi contabili.
Comunque questa è la posizione di Tremonti, dalla quale discende che non c´è copertura né per il taglio dell´Ici né per la defiscalizzazione degli straordinari e dei premi di produzione per i lavoratori dipendenti.
L´ammontare delle risorse necessarie per questi provvedimenti oscilla tra i cinque e i sette miliardi di euro. Se non ci sono non ci sono e si resterà al palo oppure, come Tremonti ha dichiarato, si tasseranno altri soggetti che il ministro ha indicato nelle banche e nelle società petrolifere.
Ha certamente coraggio, Giulio Tremonti: tassare i ricchi (banche e petrolieri) per dare ai meno ricchi. Però attenzione: l´abolizione dell´Ici non premia i proprietari di case modeste, già esentati da Prodi, bensì i proprietari di immobili di qualità e prestigio. Questo provvedimento è classicamente elettoralistico, costa due miliardi e mezzo e non ha alcuna utilità né sociale né economica. Meglio sarebbe se Tremonti lo levasse di mezzo, ma Berlusconi ci ha costruito una buona parte della sua vittoria elettorale, ecco il guaio per il ministro dell´Economia.
Le misure sulla detassazione degli straordinari sono invece importanti per ragioni sia sociali sia economiche.
Abbiamo ragione di credere che per quella operazione la copertura ci sia.
Pensiamo che le minacce di Tremonti alle banche e ai petrolieri abbiano come obiettivo quello di indurre le prime a sostanziali sconti sui mutui e i secondi a ribassi sui prezzi dei carburanti.
Comunque sarà bene che il ministro proceda confrontandosi in Parlamento con le proposte alternative dell´opposizione: se vuole dare prove di ascolto politico, questo è il tema più adatto.
* * *
Non parlerò oggi del Partito democratico, in fase di riassetto e presa di coscienza della sconfitta elettorale.
Condivido in proposito la diagnosi fatta l´altro ieri su questo giornale da Aldo Schiavone: Veltroni ha puntato sulla voglia di cambiamento della società italiana, Berlusconi invece sulla insicurezza e la voglia di protezione nonché su un sussulto identitario, localistico e tradizionale. La maggioranza degli elettori ha condiviso.
Si deve per questo abbandonare la visione d´una società più moderna e dinamica? Credo di no. Bisognerà riproporla in modi più efficaci e meno dispersivi, concentrando l´attenzione su punti e provvedimenti concreti.
Questo è mancato e questo va fatto a cominciare da subito.
Ciò che non va fatto è di aprire di nuovo scontri interni e regolamenti di conti. Ciò che non va fatto è rimettere in scena lo scontro Veltroni-D´Alema. Riproporre un duello così trito sarebbe esiziale per i duellanti e per il loro partito.
Temo che nessuno dei due abbia fatto abbastanza per evitare che l´ipotesi di un rinnovato scontro prendesse consistenza. Penso che debbano entrambi provvedere, ciascuno per la parte che gli compete, a dissipare l´immagine che si è formata.
Se sono responsabili certamente lo faranno.

Repubblica 11.5.08
Bucarest avverte l´Italia "Errore chiudere le frontiere"
La Ue: cambiare Schengen priorità solo vostra
Il commissario Orban: restringere la libertà di circolazione è un passo indietro
di Alberto D'Argenio


BRUXELLES - Forzare la mano per chiudere le frontiere italiane ai cittadini romeni potrebbe precipitare i rapporti tra Bucarest e Roma. Il commissario europeo romeno, Leonard Orban, non nasconde le sue preoccupazioni: «L´unico modo per risolvere il problema sicurezza è quello di rinforzare la cooperazione bilaterale tra i due paesi, altrimenti ci saranno conseguenze negative».
Le proposte per far fronte all´emergenza criminalità di Roberto Maroni, neo ministro degli Interni, sono destinate a confrontarsi con le regole Ue. La più spinosa è quella su Schengen, che a Bruxelles non scatena grandi entusiasmi: «Modificare la libera circolazione dei nostri cittadini non è una cosa che si può fare in una notte - spiega un portavoce della Commissione Ue Friso Roscam Abbing - tutte le idee delle capitali vengono esaminate e se trovano sostegno da parte di tutti i governi si procede, ma al momento questa sembra essere una priorità solo italiana. E comunque per farlo ci potrebbero volere anche tre o quattro anni».
Oggi, infatti, le frontiere possono essere chiuse solo in casi straordinari e limitati nel tempo: basti pensare alle Olimpiadi di Torino, ai mondiali tedeschi o al matrimonio del principe spagnolo Felipe. Tutti casi in cui era in gioco la sicurezza nazionale.
Certo, il governo potrebbe far passare l´emergenza immigrati come tale, ma il via libera Ue è tutto da verificare. Ecco perché Pdl e Lega pensano di modificare le regole Schengen alla radice, magari sfruttando la revisione della direttiva avviata dallo stesso Frattini nelle vesti di vicepresidente della Commissione e collaborando con la Francia. Sarkozy, che da luglio sarà presidente di turno della Ue, punterà molto proprio sull´immigrazione. Un progetto comunque difficile, per i tempi e per le difficoltà di convincere tutti i governi e l´Europarlamento.
La manovra rischia anche di far precipitare le relazioni bilaterali tra Italia e Romania. Avverte il romeno Orban: «L´unico modo per evitare conseguenze negative è quello di rinforzare la cooperazione bilaterale a livello politico e tra le forze dell´ordine di Roma e Bucarest, strada che ha permesso all´Austria di risolvere molti problemi». Ipotesi, questa, che non a caso già circola tra gli staff dei ministri italiani coinvolti nella stesura del pacchetto Maroni. «E poi - osserva ancora il commissario Ue - la libertà di circolazione è uno dei principi fondamentali dell´Ue, restringerla significherebbe fare un passo indietro nell´integrazione del Vecchio Continente».
Ma sul tavolo di Maroni ci sono anche altre proposte, come quella di aumentare il periodo di detenzione nei Cpt dei clandestini extracomunitari. Su questo fronte le cose potrebbero essere più facili (e rapide), visto che entro luglio la Ue potrebbe permettere alle capitali di farlo fino a 18 mesi.
Discorso simile sulla stretta alle espulsione di cittadini comunitari. Leggi romeni. La direttiva Ue del 2004 già permette questo genere di provvedimenti, ma in Italia non è mai stata applicata. Negli ultimi mesi ci ha provato Giuliano Amato, ex ministro degli interni, ma il famoso decreto sicurezza è rimasto bloccato in Parlamento. Il governo Berlusconi riprenderà in mano il dossier e cercherà di interpretare le regole europee nel modo più restrittivo possibile. Ma dovrà farlo con grande attenzione. Per non essere bocciato da Bruxelles, infatti, il provvedimento non dovrà permettere allontanamenti di massa, severamente vietati. Le espulsioni potranno essere attuate solo caso per caso e in seguito a condanne per reati gravi, per mancanza di sostentamento o per salvaguardare salute o sicurezza pubblica. Intesa, però, come terrorismo, non come un generico rischio criminalità che sarebbe difficile difendere a Bruxelles.

Repubblica 11.5.08
L'ex presidente della Camera era già stato contestato a Torino il primo maggio scorso
Bertinotti rinuncia al dibattito La Bresso: in piazza i soliti mille
di Paolo Griseri


TORINO - Per uno scherzo della cronaca parte da corso Marconi, già luogo simbolo del capitalismo italiano, la prima manifestazione della sinistra radicale dopo la sconfitta del 13 aprile. Nel corteo che propone il boicottaggio della Fiera del Libro c´è la fotografia di quel che resta oltre il Pd dopo il bombardamento delle urne. Le macerie consegnano un movimento a egemonia antagonista dove i centri sociali occupano i due terzi della manifestazione e la sinistra dei partiti è un frammentato fondo di bottiglia fatto di decine di striscioni e pochissimi militanti.
La presidente del Piemonte, Mercedes Bresso, liquida tutto questo con un´analisi semplice: «Sono sempre i soliti mille, il partito del no che oggi boicotta la Fiera e ieri boicottava l´alta velocità». In realtà il Pd sa bene che non è così. Che i democratici non possono dormire tranquilli se tutto ciò che si muove oltre il partito di Veltroni è egemonizzato dal centro Akatasuna di Torino o dal Gramigna di Padova. Perché, spiegavano ieri gli stessi militanti dei centri torinesi, «per noi quel che conta è l´antagonismo, la capacità di entrare in sintonia con la protesta della gente. Non ci interessa il palazzo». Una versione di sinistra del grillismo, ecco quel che vinceva ieri tra gli striscioni del corteo. Dove l´idea di bruciare la bandiera di Israele non viene vissuta per quel che è, per il suo messaggio di annientamento morale di un popolo, ma come la strada più diretta per entrare nei tg: «Figurati se siamo contro gli ebrei, siamo mica fascisti».
La selva di sigle, partiti e partitini che seguiva in coda il corteo segnalava un disagio ben più degli slogan e delle accuse a Bertinotti: «Quelli come lui sono entrati nel palazzo e adesso fanno fatica a uscirne con la testa». La rappresentanza in piazza era inversamente proporzionale a quella nelle urne. Così Rifondazione non c´era per scelta: non ha aderito, anzi ha condannato la protesta. I Comunisti italiani hanno cavalcato l´onda ma ieri dietro il loro striscione si sono ritrovati un centinaio di militanti, nessun dirigente di rilievo e 27 bandiere. Lo striscione più grande e il partito più seguito era quello di Marco Ferrando, fino a ieri considerato una specie di matto volante nel panorama politico nazionale. Se questo emerge dalle macerie del 13 aprile si può ben capire perché ieri pomeriggio, mentre il corteo avanzava verso il Lingotto, Fausto Bertinotti abbia deciso di non partecipare al dibattito sulle ragioni della sconfitta della sinistra. Oggi l´ex presidente della Camera sarà in Fiera per parlare della Costituzione. Ma un accenno a quelle macerie sarà inevitabile.

Corriere della Sera 11.5.08
Appena conclusa la mappatura del genoma. Ecco le sorprese dell'animale più strano
L'ornitorinco sconfigge Darwin
«Il suo patrimonio genetico mette in crisi l'evoluzionismo»
di Massimo Piattelli Palmarini


L'ornitorinco è la dimostrazione che perfino il Padreterno ha un sense of humour. Tra tutte le strane creature che si incontrano in natura, questo mammifero australiano semiacquatico, palmato, potentemente velenoso, con il becco, che depone uova, ma poi allatta i piccoli, e che ha una temperatura corporea piuttosto bassa, è forse la più strana di tutte. È sintomatico che, quando il capitano John Hunter inviò alla Royal Society di Londra, nel 1798, una pelliccia di ornitorinco e un disegno accurato dell'intera bestia, gli scienziati pensarono si trattasse di uno scherzo. Non a caso, sia il filosofo americano Jerry Fodor che Umberto Eco, in un suo magistrale saggio ( Kant e l'Ornitorinco), sostengono che, in un mondo in cui esiste tale creatura, forse tutto è possibile.
Adesso, interi laboratori di biologi australiani, tedeschi ed americani ne hanno sequenziato il genoma ed è di questi giorni la pubblicazione congiunta su Nature esu
Genome Research di una serie di scoperte microscopiche non meno sbalorditive di quelle macroscopiche, quelle date dalla semplice, superficiale vista dell'animale intero. I mammiferi normali, come è noto, hanno una coppia di cromosomi sessuali, XX nelle femmine, XY nei maschi. Ebbene l'ornitorinco ha ben 10 cromosomi sessuali, cinque paia di X nelle femmine, cinque X e cinque Y nei maschi. E ha in tutto la bellezza di 52 cromosomi, contro i nostri 46. Anche al livello genetico fine, si identifica un misto di discendenze, da altri mammiferi, certo, ma anche dai rettili e dagli uccelli. I cromosomi sessuali, per esempio, sono derivati evolutivamente dagli uccelli, mentre il feroce veleno dell'ornitorinco, iniettato da due speroni posti dietro ai gomiti posteriori, contro il quale non esistono per ora antidoti, replica l'evoluzione del veleno dei serpenti. Derivati entrambi originariamente da sostanze anti-batteriche, questi veleni offrono un caso esemplare di evoluzione convergente, cioè di come rami divergenti dell'albero evolutivo abbiano trovato, per così dire, una stessa soluzione dopo essersi separati.
Scendendo veramente all'interno dei geni, fino a pescare delle importanti molecole di regolazione fine dell'attività dei geni (chiamate micro-Rna), Gregory Hannon dei laboratori di Cold Spring Harbor (Stato di New York) e Jurgen Schmidtz dell'Università di Münster (Germania) hanno scoperto strette somiglianze con i mammiferi, ma anche con i rettili e con gli uccelli. Inoltre, mentre nei mammiferi una particolare varietà di queste molecole regolatrici resta prigioniera nel nucleo delle cellule, nell'ornitorinco migra e si moltiplica fino a quarantamila volte.
Questi scienziati non esitano a parlare di «una biologia diversa» da quella fino ad adesso nota. Sembrerà strano che i pediatri di Stanford si siano interessati da presso all'ornitorinco, ma bisogna pensare che circa un terzo dei bimbi maschi che nascono prematuramente hanno il difetto che i loro testicoli non scendono normalmente nello scroto. Ebbene, l'ornitorinco ha permesso di individuare due geni responsabili di questa discesa, tipica dei mammiferi, ma assente negli uccelli e nei rettili e, potevate scommetterci, nell'ornitorinco. L'esperto delle malattie del sistema riproduttivo, Sheau Yu Teddy Hsu, di Stanford, autore di uno degli studi appena pubblicati su Genome Research,
ha dichiarato che l'ornitorinco è un eccellente «ponte» tra i mammiferi, gli uccelli e i rettili. Le peripezie dei testicoli e i geni che le pilotano non hanno adesso più segreti, perché i geni «rilassinici» responsabili sono stati sequenziati in varie specie.
Una considerazione su questo punto ci interessa tutti, però, perché depone contro l'idea darwiniana classica che l'evoluzione biologica proceda sempre e solo per piccoli cambiamenti cumulativi. Hsu ha, infatti, scoperto, che il gene ancestrale della famiglia dei «rilassinici» si è scisso in due famiglie distinte, una famiglia presiede alla discesa dei testicoli nei maschi, mentre l'altra famiglia presiede alla formazione della placenta, delle mammelle, delle ghiandole lattee e dei capezzoli nelle femmine. Questi tessuti molli, ovviamente, non lasciano testimonianze fossili, ma la ricostruzione dei geni ha rivelato che c'è stato, milioni di anni fa, uno sdoppiamento: una famiglia di geni, d'un tratto, ha prodotto due famiglie di geni che potevano pilotare due tipi di eventi. In sostanza, potevano permettere la comparsa dei mammiferi dotati di placenta.
L'ornitorinco, mammifero privo di placenta e di mammelle, ma con la femmina dotata di latte che viene secreto attraverso la pelle, era l'anello mancante, il ponte evolutivo che adesso connette tutti questi remoti e subitanei eventi evolutivi. Hsu dichiara testualmente: «È difficile immaginare che processi fisiologici tanto complessi e tra loro intimamente compenetrati (discesa dei testicoli nei maschi, placenta, mammelle, capezzoli e ghiandole lattee nelle femmine) possano avere avuto un'evoluzione per piccoli passi, attraverso molti cambiamenti scoordinati». Come dire, ma questo Hsu non lo dice in queste parole: ornitorinco uno, Darwin zero.
Ma allarghiamo l'orizzonte oltre l'Australia e l'ornitorinco. Da molti anni ormai i genetisti e gli studiosi dell'evoluzione dei sistemi genetici hanno scoperto svariati casi di moltiplicazione dei geni, cioè si constata che, mentre in un remoto antenato esiste una copia di un gene, o di una famiglia di geni, nelle specie più recenti se ne hanno due copie, poi quattro. Una regoletta generale facile facile, che ha le sue eccezioni, dice uno, due, quattro.
Queste moltiplicazioni genetiche sono, sulla lunghissima scala dell'evoluzione, eventi subitanei. Pilotati dai meccanismi microscopici che presiedono alla replicazione dei geni, avvengono per conto loro, prima che i loro effetti sbattano la faccia contro la selezione naturale, e non procedono per piccoli passi. Non si hanno due copie e mezzo, o tre copie e un decimo. Il gradualismo, cioè i piccoli passi fatti a casaccio, uno dopo l'altro, della teoria darwiniana classica vanno a farsi benedire. Il macchinario genetico fa i suoi salti, e poi altri fattori di sviluppo decidono quali di questi salti producono una specie capace di sopravvivere e moltiplicarsi. Tra queste e solo tra queste, la selezione naturale porterà ulteriori cambiamenti. Ma sono dettagli, non il motore della produzione di specie nuove. L'ornitorinco fa parte di una piccolissima famiglia, quella dei monotremi (un solo canale per escrementi e deposizione delle uova). Il compianto Stephen Jay Gould fece notare, giustamente, che differenti ordini di animali hanno un potenziale interno molto diverso di produrre specie nuove. Ottocentomila specie di scarafaggi, qualche decina di specie di fringuelli, poche specie di ippopotami, elefanti, monotremi e, sì, ammettiamolo, di scimmie antropomorfe come noi.
Sono tutti «ottimi» animali, cioè sono tutte ottime riuscite dei processi biologici, ma per alcune soluzioni la porta è aperta a tante varianti, a tante specie, per altri, invece, no. Il segreto, ancora largamente misterioso, risiede senz'altro in proprietà interne, nell'organizzazione dei sistemi genetici, non nella selezione naturale. La selezione naturale della teoria darwiniana classica può agire solo su quello che le complesse interazioni della fisica, la chimica, l'organizzazione interna dei sistemi genetici e le leggi dello sviluppo corporeo possono offrire. Perfino in un mondo in cui esiste l'ornitorinco non proprio tutto è possibile.

sabato 10 maggio 2008

l’Unità 10.5.08
Rinaldini: sono pronto a lasciare la Cgil
«Sono solidale con i dirigenti sospesi, non si può decapitare il nostro sindacato a Milano»
di Luigina Venturelli


«Sono pronto a lasciare la Cgil» dice Gianni Rinaldini a l’Unità. La sospensione di quattro dirigenti Fiom di Milano rischia di generare un terremoto: se i provvedimenti disciplinari verranno confermati, il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, Rinaldini, presenterà le sue dimissioni dal sindacato: «Mi assumo tutte le responsabilità».

DISCIPLINA «Se i provvedimenti di sospensione verranno confermati, per me si chiuderà il capitolo dell’iscrizione alla Cgil». Le dimissioni di Gianni Rinaldini sono quasi sul tavolo, il segretario generale della Fiom è pronto ad abbandonare l’organizzazione
sindacale in cui milita da trent’anni. Al cuore della vicenda, che già mercoledì scorso l’ha portato ad allontanarsi dal direttivo sulla riforma della contrattazione, i provvedimenti disciplinari inflitti dalla Cgil a quattro dirigenti della Fiom milanese.
A posteriori, il classico sassolino che, dalla vetta della montagna, rotola fino a valle con la forza dirompente di una valanga. Nel 2006 Massimiliano Murgo, delegato Fiom dello stabilimento Marcegaglia di Milano, decide di aderire a uno sciopero nazionale dei Cobas. Non come singolo lavoratore, ma in qualità di rappresentante dei metalmeccanici Cgil, nonostante la contrarietà dell’organizzazione. Segue l’espulsione. Nel maggio 2007, Murgo (che nel frattempo ha pure ricevuto un avviso di garanzia in merito alle indagini sulle nuove Br) si presenta a un attivo dei delegati a Sesto San Giovanni: gli si permette d’intervenire, senza che qualcuno replichi sul momento alle sue insinuazioni contro la segreteria della Fiom.
Un peccato veniale, forse di superficialità, che sarebbe finito nel dimenticatoio se uno zelante delegato non avesse deferito l’accaduto alla commissione di garanzia della Cgil. Così, pochi giorni fa, sono stati sospesi la segretaria della Fiom milanese Maria Sciancati (6 mesi) ed altri tre funzionari lombardi (dai 3 ai 4 mesi). Il segretario generale della categoria ha deciso di condividerne responsabilità e sorti. E un caso disciplinare rischia di trasformarsi in un terremoto sindacale, in grado di scuotere i già difficili rapporti tra la Fiom e la Cgil.
Rinaldini, saputo dei quattro provvedimenti di sospensione, ha deciso di non partecipare al dibattito sulla riforma del modello di contrattazione. Perché?
«È giusto che io mi assuma la responsabilità delle scelte compiute dai dirigenti della Fiom di Milano. Ero a conoscenza dei fatti sull’attivo dei delegati in questione. Quindi, se sarà confermata la sospensione di Maria Sciancati, mi riterrò sospeso anch’io dall’iscrizione alla Cgil».
Dunque, un atto di protesta nei confronti di quei provvedimenti disciplinari?
«Non è in discussione l’indipendenza della magistratura interna della Cgil, ma c’è una certa distinzione tra il riconoscere l’autorità della commissione di garanzia e l’essere d’accordo con le scelte che prende».
Significa che non approva le sospensioni?
«Non è possibile che il gruppo dirigente della Fiom milanese venga decapitato in questo modo. Sono decenni che faccio vita politica e sindacale, ma una cosa così non l’ho mai vista».
I rapporti tra la Fiom e la Cgil rischiano di essere compromessi?
«Non è compromesso un bel niente, è evidente che esistono posizioni diverse che fanno parte di un normale confronto democratico. Spero comunque in una conclusione positiva: siamo sommersi da decine di lettere di sostegno ai dirigenti sospesi, provenienti dalla Rsu di tutta la Lombardia, e lunedì sarò presente al direttivo della Fiom di Milano».
Se invece le sospensioni fossero confermate?
«Allora per me si chiuderà un capitolo. Il capitolo dell’iscrizione alla Cgil».
In assenza della bufera milanese, che cosa avrebbe detto mercoledì al dibattito sulla riforma della contrattazione?
«Ritengo sbagliato privare il contratto collettivo nazionale, ovvero il principale elemento di solidarietà tra i lavoratori di tutto il paese, della possibilità di aumentare le retribuzioni reali. E ritengo penalizzante per le singole categorie il cosiddetto indice inflazionistico realisticamente prevedibile, diverso dall’inflazione Istat».
Perché?
«Chi lo determinerà se non le confederazioni insieme alla Confindustria? Ricordiamoci che non stiamo discutendo di che cosa chiedere nel prossimo rinnovo, ma di quale struttura dare alla contrattazione per i prossimi vent’anni».

Repubblica 10.5.08
Così l’Occidente produce la fame nel mondo
di Luciano Gallino


Tempo fa l´allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la metà del mondo guarda in tv l´altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine. Ai nostri giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata è così diventata ancor più realistica. Con una precisazione: la nostra metà del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.
Sebbene varie cause contingenti – i mutamenti climatici, la speculazione, cinesi e indiani che mangiano più carne, i milioni di ettari destinati non all´alimentazione bensì agli agrocarburanti, ecc. – l´abbiano in qualche misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non è affatto un ciclo recessivo del circuito produzione alimentare-mercati-consumo. Si può anzi dire che per oltre due decenni sia stata precisamente la fame a venir prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed europee. L´intervento decisivo, energicamente avviato sin dagli anni 80, è consistito nel distruggere nei Paesi emergenti i sistemi agricoli regionali. Ricchi di biodiversità, partecipi degli ecosistemi locali, facilmente adattabili alle variazioni del clima, i sistemi agricoli regionali avrebbero potuto nutrire meglio, sul posto, un numero molto più elevato di persone. Si sarebbe dovuto svilupparli con interventi mirati ad aumentare la produttività delle coltivazioni locali con una scelta di tecnologie meccaniche ed organiche appropriate alle loro secolari caratteristiche. Invece i sistemi agricoli regionali sono stati cancellati in modo sistematico dalla faccia della terra.
Dall´India all´America Latina, dall´Africa all´Indonesia e alle Filippine, milioni di ettari sono stati trasferiti in pochi anni dalle colture intensive tradizionali, praticate da piccole aziende contadine, a colture estensive gestite dalle grandi corporation delle granaglie. La produttività per ettaro è aumentata di decine di volte, ma in larga misura i suoi benefici sono andati alle megacorporation del settore, le varie Monsanto (oltre un miliardo di dollari di profitti nel 2007), Cargill (idem), General Mills, Archer Daniel Midland, Syngenta, l´unica non americana del gruppo. Da parte loro i contadini, espulsi dai campi, vanno a gonfiare gli sterminati slum urbani del pianeta. Oppure si uccidono perché non riescono più a pagare i debiti in cui sono incorsi nel disperato tentativo di competere sul mercato con i prezzi imposti – alle sementi, ai fertilizzanti, alle macchine – dalle corporation dell´agro-business. Nella sola India, tra il 1995 e il 2006, vi sono stati almeno duecentomila suicidi di piccoli coltivatori.
È noto che il braccio operativo dello smantellamento dei sistemi agricoli regionali sono stati la Banca Mondiale, con i suoi finanziamenti per qualsiasi opera – diga, autostrada, oleodotto, zona economica speciale, ecc. – servisse a tale scopo; il Fondo monetario internazionale, con l´imposizione degli aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici (leggasi privatizzazione forzata di terra, acqua, aziende di servizio) quale condizione di onerosi prestiti; l´Organizzazione mondiale per il commercio. Non ultima, soprattutto per quanto riguarda l´Africa, viene la Commissione Europea, la cui Politica agricola comune ha contribuito a spezzare le reni a milioni di contadini africani facendo in modo, a suon di sussidi e jugulatori contratti bilaterali, che i prodotti della Baviera o del Poitou costino meno, in molte zone dell´Africa, dei prodotti locali. Il tutto con la fervida adesione dei governi nazionali, che preferiscono avere buoni rapporti con le multinazionali che non provvedere al sostentamento delle popolazioni rurali.
Braccio ideologico della stessa operazione sono stati le migliaia di economisti che in parte operano alle dipendenze di tali organizzazioni, in parte costruiscono per uso e legittimazione delle medesime, nelle università e nelle business school, infinite variazioni sul principio del vantaggio comparato. In origine (1817!) tale principio sosteneva una cosa di paterno buon senso: se gli inglesi son più bravi a tessere lane che non a fabbricare porto, e i portoghesi fan meglio il porto che non i tessuti di lana, converrà ad ambedue acquistare dall´altro Paese il prodotto che quello fa meglio. Ma l´onesto agente di cambio David Ricardo sarebbe sbalordito al vedere che esso, reincarnato in complessi modelli econometrici digitalizzati, viene impiegato oggi nel tentativo di dimostrare che al contadino senegalese, o indiano, o filippino, conviene coltivare un´unica specie di vegetale per il mercato mondiale, piuttosto che coltivare le dozzine di specie di granaglie e frutti che soddisferebbero i bisogni della comunità locale.
Una volta sostituito a migliaia di sistemi agricoli regionali in varia misura autosufficienti un megasistema agrario globale che si dava per certo esser capace di autoregolarsi, il resto è seguito per vie naturali. Le grandi società dell´agrindustria accaparrano e dosano i flussi delle principali derrate in modo da tenerne alti i prezzi. Fondi pensione e fondi comuni investono massicciamente in titoli derivati del settore alimentare, praticando e incentivando la speculazione al rialzo. Cosa che non avrebbero motivo di fare se la maggior parte delle aziende agricole del mondo fossero ancora di piccole o medie dimensioni. Da parte loro, illusi dall´idea d´un mercato globale delle derrate autoregolantesi, i governi dei Paesi sviluppati hanno lasciato cadere a livelli drammaticamente bassi la quantità delle scorte strategiche: meno di 10-12 settimane per il grano, in luogo di almeno 24.
Il prezzo del sistema agricolo globale lo pagano i poveri. Compresi quelli che si preoccupano perché anche il prezzo delle tortine di argilla, la terra che mangiano per placare i morsi della fame quando il mais o il riso sono diventati inaccessibili, è aumentato troppo: succede ad Haiti. La crisi alimentare in atto non è infatti dovuta alla scarsità di cibo; esso non è mai stato, nel mondo, altrettanto abbondante. È un problema di accesso al cibo, in altre parole di povertà, di cui il sistema agricolo globale ha immensamente elevato la soglia.
Se un gruppo di tecnici avesse costruito un qualsiasi manufatto meccanico o elettronico tanto rozzo, perverso nei suoi effetti, costoso e vulnerabile quanto il sistema agricolo globale costruito da Usa e Ue negli ultimi vent´anni, verrebbe licenziato su due piedi. I funzionari delle organizzazioni internazionali che l´hanno costruito, gli economisti che hanno fornito i disegni di base, e i politici che ne hanno posto le basi con leggi e trattati, non corrono ovviamente alcun rischio del genere.
Al singolo individuo di questa parte del mondo resta da decidere che fare. Può spegnere la tv, per non doversi sorbire ancora una volta, giusto all´ora di pranzo, il tedioso spettacolo di bimbi scheletrici che frugano nell´immondizia. Oppure può decidere di investire una quota dei suoi risparmi in azioni dell´agrindustria, come consigliano sul web dozzine di società di consulenza finanziaria. Un investimento promettente, assicurano, perché i prezzi degli alimentari continueranno a crescere per lungo tempo. Infine può scrivere al proprio deputato in Parlamento chiedendogli di adoperarsi per far costruire attorno alla penisola, Alpi comprese, un muro alto dodici metri per tener fuori gli affamati. Se qualcuno conosce altre soluzioni che la politica, al momento, sia capace di offrire, per favore lo faccia sapere.

Repubblica 10.5.08
Regina di Saba, una luce sul mistero "Il suo trono era qui in Etiopia"
di Rosalba Castelletti


Lo studioso: "Quadra tutto, i dettagli, l´orientamento dell´edificio"
Scettici altri esperti: "Visse nell´Arabia Felix e trasformò la terra in tanti giardini"

«Tutto quadra», esulta l´archeologo Helmut Ziegert convinto di aver risolto un mistero che perdura da tremila anni e di avere individuato ad Axum in Etiopia non solo il Palazzo della Regina di Saba, ma anche l´altare su cui fu custodita l´Arca della Santa Alleanza. Il leggendario fascino della sovrana e la straordinaria saggezza della sovrana che nel X secolo avanti Cristo irretirono il re Salomone d´Israele è giunto intatto sino a noi, seppure tramandato da scarsi enigmatici versi. «È provvista di ogni bene e possiede un trono magnifico» scrive di lei il Corano, mentre l´Antico Testamento ne ricorda la visita a Gerusalemme: «La regina di Saba, sentita la fama di Salomone, venne per metterlo alla prova con enigmi... Il re Salomone le diede quanto essa desiderava e aveva domandato... Quindi essa tornò nel suo Paese». Dove tornò è da secoli oggetto di contesa tra lo Yemen che la vuole a capo del regno sabeo di Marib e l´Etiopia dov´è chiamata Makeda ed è considerata la capostipite dell´intera dinastia dei negus. Ed è qui, e precisamente nella capitale religiosa ortodossa Axum, che Ziegert sostiene di avere rinvenuto sotto le fondamenta di un edificio cristiano i resti del Palazzo della mitica sovrana.
«Ne sono sicuro. Quadra tutto. I dettagli, la datazione e l´orientamento dell´edificio»: i ruderi risalirebbero al X secolo avanti Cristo e sarebbero orientati verso la stella Sirio legata al culto della divinità egizia Sothis introdotto in Etiopia, secondo l´archeologo tedesco, da Menelik I, presunto figlio della regina di Saba e del re Salomone d´Israele. Ma le rivendicazioni dell´archeologo tedesco non si concludono qui. Alla figura della sovrana sabea è legata anche la leggenda della perduta Arca d´acacia rivestita d´oro contenente le Tavole dei Dieci comandamenti di Mosè. Secondo la tradizione etiopica preservata nel XIV secolo nel Kebra Nagast ("Gloria dei re"), non fu saccheggiata dai conquistatori babilonesi, ma bensì trafugata da Menelik che in età adulta si sarebbe recato a Gerusalemme per incontrare il presunto padre. L´Arca della Santa Alleanza si troverebbe tuttora in una cripta segreta del santuario di Santa Maria di Sion di Axum dove a vegliarla è il «più santo dei monaci», ma - afferma Ziegert - «fu custodita per molto tempo» nel palazzo rinvenuto ad Axum.
Accolta con entusiasmo dalla stampa tedesca - che da Die Welt a Die Spiegel ha dedicato alla scoperta grandi titoli - la rivendicazione ha invece sollevato lo scetticismo di quasi tutto il mondo accademico. «La regina di Saba è tanto vera quanto lo è re Artù» ha commentato un collega di Ziegert, Ricardo Eichmann, mentre altri hanno sottolineato il tempismo dell´annuncio dell´archeologo tedesco che anticipa di 15 giorni l´uscita dell´ultimo episodio della quadrilogia di "Indiana Jones" che nel 1981 debuttò proprio con i "Predatori dell´Arca Perduta". «Il regno di Saba è esistito e si può datare al decimo secolo avanti Cristo» chiarisce l´archeologo Alessandro de Maigret da anni impegnato in scavi nello Yemen. È qui che avrebbe regnato la regina sabea, in arabo Bilqis, trasformando l´altipiano yemenita che circonda la città di Marib in una distesa verde ricca di giardini pensili che i romani avrebbero soprannominato "Arabia Felix". E qui, ricorda De Maigret, «sono state rinvenute numerose iscrizioni risalenti all´epoca sabea». Secondo il suo collega Rofoldo Fattovich, che invece lavora ad Axum da 37 anni, «la scoperta di Ziegert sarebbe sensazionale se non fosse che non c´è alcuna iscrizione ad attribuire i resti rinvenuti alla regina di Saba e che la relazione tra Sirio, Sothis e Menelik non è testimoniata da alcuna fonte. Quella di Ziegert - aggiunge - è un´invenzione gratuita».

Repubblica 10.5.08
Dal mondo greco al ´900 Riflessioni sul valore estetico di un´azione politica o di una norma giuridica
di Franco Cordero


Pubblichiamo una parte della Lectio intitolata "Giustizia e bellezza" di che oggi alle 13, nella Sala Blu della Fiera Internazionale del Libro di Torino, dialoga con Luigi Zoja. Sarà invece Francesco Maria Cataluccio a moderare l´incontro. Zoja, psicanalista, è autore di un libro intitolato, appunto, Giustizia e bellezza, uscito da Bollati Boringhieri (pagg. 120, euro 7).
Arte vissuta: Antigone s´era scelta una parte inseguendo «luminosa gloria» (vv., 623-26); Ifigenia l´assume volentieri in Aulide; azioni teatrali ma anche il mondo è teatro. Consideriamo due opere eminenti. Lauro De Bosis (Roma, 9 dicembre 1901) è figlio d´Adolfo, poeta, manager d´industria, cultore della décadence franco-anglosassone, artefice d´una singolare impresa editoriale. Sono capolavori d´eleganza grafica i 12 libri del Convito, gennaio 1895-dicembre 1907, più il numero speciale contenente "Versi e disegni offerti dalla Baronessa Blanc nella festa di beneficenza per i feriti d´Africa", Roma, Palazzo Sciarra, 12 febbraio 1895, 17 giorni prima d´Adua: cantano «Venus victrix», invocata da Cesare a Farsaglia; ossia «il potere indistruttibile della Bellezza», maiuscola, «nella sovrana dignità dello spirito»; Pascoli li inaugura con versi dai Poemi conviviali e presenta Minerva oscura, infelice cabala dantesca; D´Annunzio pubblica a puntate Le Vergini delle Rocce.
Lauro respira quest´aria: i versi gli vengono spontanei come a Ovidio: è ventunenne dottore in chimica; traduce Edipo Re e Il ramo d´oro; va negli Usa, invitato dalla Italy America Society; tiene un corso d´italiano ad Harvard; scopre la politica (credeva che il fascismo avesse guarito l´Italia dalla sbornia sovversiva). Traduce anche Antigone, agonista del dissenso etico. La stessa intenzione traspare da Icaro, versi suoi: Minosse ovvero la tirannia, servita dal gran tecnico Dedalo; Icaro vuol evadere, persuade il padre a costruirgli le ali e muore nel tentativo. Con questo poema vince il premio bandito dalle Olimpiadi d´Amsterdam, 1928.
Eccolo segretario della Italy America Society, malvisto dalle due parti: era sospettoso anche Salvemini, consultato sul possibile volo nel cielo romano, ma ictu oculi gli crede (Memorie d´un fuoruscito, Opere, VIII, Feltrinelli, 1978); benedetto dalle Muse, irradia charme (Prezzolini, L´Italiano inutile, Longanesi, 1953, 278ss.). Due anni dopo opera clandestinamente: missive ciclostilate spiegavano cos´abbia d´immorale e funesto il regime fascista; la polizia scova i mittenti, inclusa sua madre, Lilian Vernon. Stava tornando in Italia: vuol costituirsi, lo dissuadono; indotta dal difensore, l´imputata scrive una lettera al Duce; resterà segreta, dicono, e salta fuori nel dibattimento, con quella all´ambasciatore negli Usa dove lui professava fedeltà politica, sperando d´avere mano libera. Regìa perfida: i corrispondenti della stampa estera filofascista insinuano dubbi; bastava aspettare qualche giorno, sarebbe caduto nella rete; perché rimane fuori? L´unica risposta possibile è l´atto quasi suicida: impara a volare; nel maggio 1931 s´alza da solo. Il 13 luglio parte da Cannes e un incidente meccanico lo ferma sulla Corsica. Ne parlano tutti. Sabato 3 ottobre ritenta levandosi da Marignan, presso Marsiglia, ore 15.15; «Pegaso» è un trabiccolo, fa 150 km l´ora; divora il doppio la famosa aviazione fascista (tra poco Balbo trasvolerà l´Atlantico); l´ordine è d´abbattere ogni incursore. Lascia un testamento autografo, otto pagine sobrie, Histoire de ma mort, da pubblicare nel probabile caso infausto.
Arriva su Roma nei bagliori del tramonto, insigne impresa aeronautica, considerati macchina e pilota apprendista: incrocia mezz´ora a bassa quota, disseminando 400 mila manifestini; sfiora Trinità dei Monti, dove abitava, indi punta verso nord-ovest e scompare, non sappiamo dove. Secondo l´ipotesi più plausibile, cade in mare. Charis De Bosis, sorella presumo (erano sette figli), chiude così il cenno biografico nell´edizione italiana della Storia: «una bella vita, una bella morte»; epigrafe perfetta.
Nell´estetica vissuta splende die weisse Rose, Rosa bianca. A Monaco, tra giugno e luglio 1942 circolano quattro volantini sulfurei: i Tedeschi risponderanno della vergogna collettiva d´avere servito chi li istupidisce e perverte; la cosiddetta visione nazista del mondo è ciarpame; ogni patriota onesto s´auguri la sconfitta; «teniamo a mente» i nomi, anche dei meno colpevoli. Incredibile che qualcuno diffonda materiale simile in piena fortuna militare, mentre le armate sud irrompono da Voronov lungo il Don verso il petrolio; i generali credono d´avere vinto, persino l´anti - hitleriano pedante Franz Halder, capo dell´Okh. Gli autori sono Hans Scholl, 24 anni, e Alexander Schnorell, 25, studenti in medicina; poco dopo militano nel servizio medico ausiliario sul fronte russo. Al ritorno riprendono i fili clandestini: l´illusione estiva è svanita; la VI Armata soccombe nella tenaglia russa sul Volga. Die weisse Rose annovera anche un professore, Kurt Huber, filosofo e musicologo. La più giovane della compagnia è Sophie Scholl, sorella minore d´Hans, 21 anni: adempiuto il servizio ausiliario, studia biologia; voleva partecipare al writing notturno (pennellano slogans sui muri dell´Università, «Hitler Massenmörder»); il fratello glielo vieta; ma giovedì 18 febbraio 1942 un bidello li coglie sulle scale mentre lanciano l´ultimo volantino. Se ne occupa la Gestapo con apparente fair play: inutile negare, tante sono le prove; domenica ricevono l´atto d´accusa. Sophie s´informa sul modo della pena capitale: Hans ha diritto alla fucilazione, quale soldato?; meglio che pendere dalla forca o essere decapitata.
E già arrivato da Berlino, portando la condanna, Ronald Freisler, presidente del Volksgerichthof, laido psicopatico, famoso perché sopraffà i pazienti con una voce simile all´hitleriana, e lunedì mattina tiene banco. Poi i due Scholl vedono i genitori. Condivide la loro sorte Cristoph Probst, individuato dalla minuta d´un messaggio disfattista che Hans portava in tasca: «non sapevo che la morte fosse così facile», commenta; il personale della prigione, commosso, li lascia insieme qualche minuto. La prima è Sophie. Esiste dunque una bella Dike. Freisler funge da ministro del sordido.
Spesso il bello innesca riflessi ostili. Li ha definiti Melania Klein: l´invidioso patisce quel che gli manca; non potendosene impadronire, lo guasta.
Passioni labili, maschere permutabili, è il senso d´una storia tra dittatura mussoliniana e Italia equivocamente postfascista. Qualche cospiratore milanese sotto la sigla «Giustizia e libertà» direbbe «imputo mihi» se fosse autocritico: cavalieri dell´interventismo democratico, nella primavera 1915 cooperavano al fascio ante litteram; dubbio exploit d´intelletto politico (vedi Salvemini, virtuoso gaffeur); ma quando la malattia esplode sette anni dopo, sfidano i poteri dominanti; peccato che siano malaccorti. Ad esempio, accolgono senza vagliarlo un giovane: tre lauree (giurisprudenza, economia e commercio, scienze politiche), piccola statura, viso ben configurato con sfumature torbide nello sguardo, varie curatele fallimentari, una Fiat 514; massone e mazziniano veste in nero come l´apostolo, con un segreto; metteva le mani nei soldi dei fallimenti; mancano 126 mila lire (a occhio e croce 250 mila euro); siccome non può versarle sul conto intestato al giudice (maledetta lex superveniens, 10 luglio 1930), schiva la galera diventando spia e agente provocatore. Se la provocazione riuscisse, il caso sarebbe enorme: i cospiratori progettano fiamme dimostrative in vari uffici finanziari nella notte 28 ottobre 1930, ottavo anniversario della marcia su Roma; l´Ovra nascente vuole un fatto ricollegabile alla strage nella Fiera, 12 aprile 1928; roba da pena capitale ma i rei sbagliano le dosi e buttano gli ordigni nel fiume.
Fallita la messinscena grossa, resta quanto basta alle condanne (un imputato muore suicida, altri incassano vent´anni e ne sconteranno nove, più quattro di confino, fino al collasso del Leviathan fascista). Lo spione va in Argentina, torna, intrattiene lucrosi rapporti con i vertici polizieschi, combina affari spagnoli, diventa cattolico antisemita: verso la fine professa un fascismo duro, estremista anche nella Repubblica sociale; rifugiatosi sotto le ali del Caudillo, riappare dopo sei anni. Ernesto Rossi era uno dei condannati dal Tribunale speciale: sa bene chi sia costui; nude carte d´archivio lo dipingono; esce Una spia del regime, Feltrinelli, 1955. L´homunculus in fabula querela chiunque tocchi l´argomento: perde 12 volte e non paga spese né danni, invulnerabile dalle azioni esecutive; s´improvvisa editore; quattro suoi libelli distinguono l´autentico fascismo dal falso, identificato con l´Italia antifascista. Ha la stoffa dell´illusionista inquinatore d´idee: gli mancano solo le circostanze adatte; combinerebbe mirabilia sotto le nostre lune. Dalla battaglia dei cavilli esce vincitore: l´Ordine forense romano l´aveva radiato ma deve riammetterlo; dopo 12 scacchi, una sbalorditiva massima 9 febbraio 1966 antepone l´onore tartufesco alla verità storica. Lo studio dell´animale umano svela mille figure: abbiamo visto Themis, Eunomia, Dike, Irene, le nove Muse; e brulicano laboriosi i diavoli deformi dipinti da Hieronymus Bosch.

Corriere della Sera 10.5.08
Immigrazione Il ministro Maroni accelera sul piano. Senza accordi con Tripoli Cpt al collasso
Il Viminale punta all'arresto dei clandestini
di Fiorenza Sarzanini


PALERMO - Li chiamano «arrivi a massa compatta» e sono quelli che fanno paura. Perché quando la Libia allenta i controlli sulle proprie coste, in Sicilia approdano barconi con centinaia di clandestini. E il centro di Lampedusa, avamposto europeo nell'accoglienza degli irregolari, rischia il collasso. La scorsa settimana, quando il figlio del colonnello Gheddafi pronunciò il suo anatema contro l'Italia minacciando ritorsioni se Roberto Calderoli fosse diventato ministro, sono arrivati più di 400 stranieri. E la capienza di ottocento persone è stata ampiamente superata con oltre mille presenze. Ora sono nuovamente scesi a 300, ma nessuno si illude perché gli analisti sanno che senza intese forti con Tripoli gli saranno sbarchi continui.
Quello dell'immigrazione è il tema che il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha voluto affrontare ieri, nel giorno del suo insediamento al Viminale. E così la prima riunione con i capi dei Dipartimenti si è trasformata nell'occasione per fare un punto di situazione e dare la linea anche in materia di sicurezza. I tempi dettati dall'agenda sono strettissimi. Martedì è stata fissata a palazzo Chigi la riunione tecnica sul decreto che il governo vuole approvare al massimo durante il secondo consiglio dei ministri. Già lunedì Maroni vuole un piano da portare all'esame dei colleghi di Giustizia, Esteri e Difesa.
La strada è tracciata, adesso bisogna pensare all'attuazione delle misure, soprattutto tenendo conto della possibilità che torni un clima teso con Tripoli. L'accordo siglato a fine dicembre dal precedente esecutivo appare ormai superato. Difficilmente la Libia accetterà il pattugliamento delle proprie coste, così come aveva invece assicurato. E in ogni caso questo è stato sottolineato anche durante la riunione di ieri - le scelte politiche sull'immigrazione non possono confidare sulla tenuta dei buoni rapporti con il colonnello Gheddafi.
Il potenziamento dei controlli in acque italiane non serve da deterrente, come è stato ampiamente dimostrato in questi ultimi anni, dunque altri saranno i provvedimenti per cercare di frenare gli arrivi. Il principale, quello su cui la Lega batte da anni, riguarda l'introduzione del reato di immigrazione clandestina con la previsione dell'arresto obbligatorio per chi varca il confine senza permesso. Una misura che, unita alla possibilità di prolungare la permanenza nei centri di prima accoglienza - ora limitati ad un massimo di sessanta giorni -, si ritiene possa scoraggiare chi salpa da porti e spiagge per cercare fortuna in Italia.
Il governo dovrà dunque affrontare il problema delle strutture visto che la maggior parte dei Cpt sono già pieni e la possibilità di aprirne altri si è sempre scontrata con le resistenze dei cittadini. Al momento il ministro Maroni ha preferito dedicarsi ai campi nomadi, sollecitando una sorta di «mappatura». Il titolare del Viminale ha spiegato chiaramente di voler valutare i risultati ottenuti dai «patti per la sicurezza» siglati con i sindaci delle principali città italiane per studiare eventuali correttivi. E in questo filone ha inserito le nuove norme che il governo approverà per contrastare anche la permanenza nel nostro Paese dei cittadini comunitari, primi fra tutti i rumeni: chi vuole rimanere dovrà dimostrare di avere mezzi di sostentamento sufficienti.

Corriere della Sera 10.5.08
Epistolari. Il filosofo privato
Nietzsche a Torino: lettere in bilico sulla follia
di Armando Torno


Tra fine settembre 1888 e inizio 1889 Friedrich Nietzsche vive a Torino l'ultima fase della sua vita cosciente. Dopo un soggiorno estivo a Sils-Maria, dove il clima fu disastroso, il filosofo cerca di nuovo nella città subalpina una possibilità «di sopravvivenza ». La sua salute è minata. Le lettere che scrive a getto continuo — ora raccolte, anche con gli abbozzi, a cura di Giuliano Campioni nella traduzione di Vivetta Vivarelli — sono soprattutto il diario di una tragedia esistenziale. L'ultima epistola, indirizzata a Jakob Burckhardt il 6 gennaio, porta gli inequivocabili segni della follia: «... sarei stato molto più volentieri professore a Basilea piuttosto che Dio; ma non ho osato spingere il mio egoismo privato al punto di tralasciare per colpa sua la creazione del mondo...». Ormai si firma «Dioniso» o «il Crocefisso»; scrive a re Umberto I, al cardinale Mariani («martedì verrò a Roma per rivedere Sua Santità»), ai polacchi. È altrove.
Ma non c'è soltanto pazzia irreversibile in queste lettere. Troviamo suggerimenti per meglio comprendere gli ultimi scritti, tra i quali Ecce homo; si conoscono i suoi interessi musicali, che vanno dal Requiem del «vecchio napoletano maestro Jommelli» a Bizet, dalle opere liriche ai concerti a cui assiste continuamente. E poi gli errori di stampa che scopre nei suoi libri, i propositi contro il cristianesimo, le letture di periodici francesi e troppe altre cose di un pensatore unico.
FRIEDRICH NIETZSCHE Lettere da Torino ADELPHI PP. 276, e 15

venerdì 9 maggio 2008

l'Unità 9.5.08
«Niente fronde, ma chiedo discussione vera»
D’Alema a «Italianieuropei»: no allo scontro per la leadership. Il partito leggero? Un’illusione
di Ninni Andriolo


«CREDO che nessuno possa in questo momento ragionevolmente mettere in discussione il ruolo di Veltroni come segretario...». Massimo D’Alema affida a Italianieuropei la sua riflessione sul voto e sulle prospettive che questo indica al Partito democratico.
Con una lunga intervista alla rivista della sua Fondazione, l’ex ministro degli Esteri sottolinea che «l’unica cosa che si chiede è una discussione aperta e meno difensiva, a partire da un’analisi vera, che sappia vedere anche i limiti e le insufficienze del progetto così come si è dispiegato fino ad oggi». La replica è riservata alle illazioni sulle fronde anti loft e sull’utilizzazione correntizia di Italianieuropei. «In un partito moderno istituti come “Italianieuropei” possono svolgere un ruolo importante - spiega D’Alema - Non come organo di partito ma come strumento di ricerca, di dialogo con la società e la cultura, di formazione della classe dirigente». L’ex vice premier rilegge l’esito del voto a partire dall’analisi delle società italiana. Emergono chiare, ovviamente, posizioni differenti da letture emerse nel loft democratico di Sant’Anastasia. È svanita «l’illusione del partito leggero, senza strutture e senza iscritti», sottolinea D’Alema. Quanto alla «grande sfida» della «costruzione del Pd», occorre una «innovazione robusta, in grado di farci uscire da una dialettica paralizzante tra “un nuovo” troppo fragile per affermarsi e “un vecchio” troppo pesante per farsi da parte». Per D’Alema, in sostanza, il «radicamento» del Pd necessita, adesso, di uno «sforzo di invenzione organizzativa» che deve sfidare «le forze migliori, non in uno scontro sulla leadership, di cui nessuno avverte il bisogno, ma in una ricerca comune, in un confronto di idee e proposte». I problemi da risolvere non sono soltanto organizzativi, in ogni caso. Per D’Alema, in particolare, «il riferimento al lavoro» deve rappresentare «il tratto identitario» di un Pd «portatore di un nuovo compromesso sociale». L’ex vice premier insiste, poi, sul tema delle alleanze del Pd. Non si può fare «l’errore» di pensare che se le forze della Sinistra Arcobaleno «non sono rappresentante in Parlamento, esse non esistono più nella società italiana». E «il più grande partito dell’opposizione deve avere la forza di rappresentare quella maggioranza di cittadini che non ha votato per la destra e non solo quel 33% che ha votato per noi». Non può esserci «contrasto», quindi, «tra l’idea di allargare i confini del Pd e la ricerca di una politica di alleanze». E il Pd non ha alcun interesse «a sospingere l’Udc, di nuovo, sotto l’egemonia di Berlusconi». Mentre si deve riflettere con attenzione anche sul fenomeno della Lega. D’Alema, in ogni caso, guarda con «preoccupazione» a un’idea di federalismo fiscale «che introduca sperequazioni territoriali, assai pesanti nella distribuzione delle risorse». e che potrebbe produrre il rischio che l’Italia diventi «il paese delle leghe, non solo al Nord, ma presto anche al Sud». Nel Pd nessuna «contrapposizione schematica tra vocazione maggioritaria e alleanze», in ogni caso. Mentre la proposta di introdurre soglie minime d’accesso per le elezioni europee, avanzata per primo da Franceschini, non convince. La lunga intervista di D’Alema parte dalla premessa che il risultato elettorale del 14 aprile «non segna una svolta improvvisa». «Anche quando vincemmo nel 1996» nella società «la destra era in maggioranza». Lo sfondamento della Lega nella base operaia del Nord, ad esempio, era stato già fotografato. Al di là della Lega, comunque, il problema è «che le forze della destra hanno una sintonia profonda con il paese». Anche per questo «Malgrado il disastro del suo governo, Berlusconi nel 2006 è riuscito sostanzialmente a pareggiare con il centrosinistra». E «la forza del fenomeno berlusconiano» non va ridotta soltanto alle tv, ma al «diffondersi di una concezione plebiscitaria e leaderistica della democrazia». E la riflessione si incentra sulle «difficoltà» della sinistra e del centrosinistra. Assieme a «limiti di analisi e di elaborazione programmatica» - sottolinea D’Alema - la «sconfitta» del 14 aprile è «figlia anche di ritardi ed errori politici»: l’aver riproposto nel 2006 «un centrosinistra già visto»; l’aver pensato «di aver vinto le elezioni», mentre «il risultato elettorale era un sostanziale pareggio»; l’esperienza del governo,Prodi, non solo a proposito delle divisioni della maggioranza, ma - soprattutto - in relazione al contrasto che si è manifestato «tra il voto di quegli italiani che non arrivavano alla fine del mese ed erano tornati a rivolgersi alla sinistra, e la priorità, apparsa quasi tecnocratica, che il governo ha attribuito al tema del riassetto dei conti pubblici».
E riflettendo ancora sull’ultima campagna elettorale - anche in senso autocritico - D’Alema si sofferma «sul tipo di messaggio» che il Pd ha lanciato al paese. «Intendiamoci - sottolinea - la novità del Pd, la forza delle primarie e la leadership di Veltroni, insieme alla decisione di andare da soli o quasi da soli alle elezioni, hanno consentito di limitare la portata della sconfitta». perché «se ci fossimo presentati come nel 2006, adesso non vi sarebbero che macerie». Fatta questa premessa, tuttavia, bisogna chiedersi perché «il risultato del voto è stato inferiore alle attese». E l’ex vice premier conclude che «al di là delle piazze gremite ed euforiche che abbiamo incontrato, c’era una maggioranza silenziosa che non siamo riusciti a vedere e interpretare». Un’«Italia profonda» che chiede «una guida forte», mentre «noi abbiamo messo l’accento in modo prevalente sul richiamo generazionale, sui volti nuovi della società civile, sull’idea di un partito e di una politica leggeri. Questo ha funzionato nel ceto medio urbano, nell’opinione pubblica che legge i giornali, ma è un messaggio apparso fragile ad una società intimorita e preoccupata per il suo futuro». Radicare il Pd, quindi, per farne un «partito vero», che non ripropone tuttavia «modelli del passato». Affrontando, nel contempo, «con serietà» il tema delle grandi organizzazioni sociali. «Nessuno vuole mettere in discussione l’autonomia del sindacato, dell’associazionismo, della cooperazione. Ma il Pd non può non porsi il problema del rapporto fra queste grandi forze associate e il paese».

l'Unità 9.5.08
Cuneo difende la Resistenza
I reduci di Salò restano a casa
di Oreste Pivetta


Il ricordo di Duccio
Galimberti, anima
della lotta partigiana
torturato e ucciso
dai repubblichini

Talvolta ritornano e talvolta ci provano. Ci proveranno ancora. «All’anno prossimo», ha promesso Diego Michelini della federazione di Torino del raggruppamento nazionale combattenti e reduci di Salò che via fax aveva comunicato al questore di Cuneo l’intenzione di commemorare sabato 10 maggio, «l’eccidio di ventotto militari, di cui cinque ausiliarie, perpetrato da bande partigiane comuniste e sottaciuto per 63 anni». Michelini ha rinunciato. «Di fronte alle pressioni delle autorità, prefetto e questore», ha precisato. Michelini non immaginava di dover sbattere contro un muro di “no” o di silenzi, compresi quelli di An.
Aveva detto “no” il sindaco Alberto Valmaggia, negando come di sua competenza l’uso del suolo pubblico. Si stavano organizzando l’Anpi, i partiti, le associazioni democratiche. Rifondazione voleva la sua contromanifestazione. «Il bello - spiegava Valmaggia - è stato la solidarietà, è stato la comunanza di intenti espressa anche dal consiglio comunale: non si poteva offendere così la città».
Ieri mattina questi sentimenti sono stati espressi in una riunione con il prefetto e il questore, che avranno preso atto invitando il Michelini a fare altrettanto, cancellando gli inviti e disdettando l’oratore ufficiale, Marco Pirina. In quale fa professione di storico a Pordenone, reclamizza le sue opere in un sito titolato “Silentes loquimur”, occupandosi in particolare di foibe e di vendette e stragi perpetrate dai “partigiani rossi”. Si vanta di essere uno dei fornitori di Pansa (anche di numeri assai improbabili) e ostenta, nel sito, una citazione di Vespa: il quale, nel suo libro «Vincitori e vinti», lo gratifica della primogenitura negli studi attorno a quella che fu la tragedia delle foibe, dimenticando che altri ben prima di lui e a sinistra avevano trattato quella terribile stagione (ricordando i massacri fascisti in nome della pulizia etnica). Di Pirina si può godere un’immagine in un altro sito, quello di Azione tradizionale. Il professore si fa ritrarre con alle spalle una bandiera al centro della quale campeggia una faretra e un ritratto di Julius Evola. Pirina, dirigente del Fuan a Roma, militante della Lega, poi dentro Forza Italia, infine simpatizzante di An, subì negli anni Settanta pure l’arresto, accusato d’esser coinvolto nel tentato golpe Borghese. Venne prosciolto. Dichiarò che tutto nasceva dalla scoperta del suo nome in un’agenda di un personaggio assai particolare: quella del «comandante» Sandro Saccucci, lui pure accusato per il golpe, celebre per aver chiuso un comizio a Sezze Romano sparando a destra e a manca (un giovane della Fgci, Luigi Di Rosa, morì, Saccucci si diede a una lunga fuga finita in Argentina).
Pirina avrebbe dovuto cantare la sua a proposito di quella vicenda, citata da Michelini, «l’eccidio... sottaciuto per 63 anni», di cui, peraltro, narra una bella mostra, “Liberazioni”, a cura dell’Istituto di studi storici sulla Resistenza, aperta nella Sala S. Giovanni, mostra fotografica di volti e di storie dall’8 settembre in poi.
L’8 settembre segnò anche a Cuneo la fuga dei fascisti e l’inizio della Resistenza sui monti. Quei giorni li hanno raccontati in molti, tra i quali Giorgio Bocca e Nuto Revelli, nelle loro memorie di partigiani (non comunisti, ma di Giustizia e libertà). Sono memorie di una gran voglia di libertà, ma anche di paure di sofferenze, di fame e, naturalmente, di morti: a due passi da Cuneo c’è ad esempio Boves, un paese, medaglia d’oro al valor civile, che ebbe modo di sperimentare la prima rappresaglia nazista: ventiquattro morti e centinaia di case distrutte. Era solo il 19 settembre. Altre ne seguirono di rappresaglie: a dicembre del ‘43 e all’inizio dell’anno successivo (allora i morti furono una sessantina). In quel lontano 10 maggio del 1945, che Michelini avrebbe voluto ricordare, Cuneo era libera e non fu ucciso proprio nessuno. L’eccidio è del 3 maggio: le ausiliarie e alcuni fascisti s’erano messi a sparare su gente inerme, che seguiva il funerale di un partigiano. Molti fascisti vennero disarmati e poi rilasciati. Ad altri andò peggio: processati e condannati. La guerra costò a Cuneo tremila morti.
Il sindaco Valmaggia, dopo il suo “no”, si era anche posto una domanda: meglio impedire quel raduno, rischiando di dar fiato a qualche protesta contro le “censure” in nome della “pacificazione” oppure lasciar fare, abbandonando i quattro reduci di Salò nella solitudine.
Marco Revelli, storico e figlio del comandante partigiano Nuto, ha risposto: «È un quesito frequente. Lo sdegno popolare ha sempre spinto in una direzione, una spinta dal basso che ha aiutato a costruire un rapporto positivo tra la gente e le istituzioni: è la volontà di resistere al tentativo di dissacrare ciò che non si può dissacrare. A Cuneo è andata così: ci provò anche Almirante, che si chiuse in un cinema, mentre la città era invasa dai cortei dei partigiani, guidati dal sindaco democristiano Mario Dal Pozzo e i parroci suonavano le campane. Questi sono luoghi della memoria, dove ancora nessuno accetta gesti che hanno il segno tecnico della rappresaglia».
Cuneo è anche la città di Duccio Galimberti, il mite avvocato figlio del ministro delle poste di Giolitti. Era un mazziniano, organizzò la lotta antifascista. A Torino, nel novembre del 1944, cadde nelle mani dei repubblichini, che lo portarono a Cuneo, lo torturano e lo fucilarono con una raffica di mitra alla schiena.

l'Unità 9.5.08
Sternhell: il boicottaggio culturale
è la cosa più anticulturale che c’è
di Umberto De Giovannangeli

«Boicottare la Fiera del Libro? È uno scandalo e dei peggiori. Perché fondato sull'ignoranza e l'incomprensione dei fatti». A sostenerlo è il più autorevole storico israeliano: Zeev Sternhell. Tra le sue opere, ricordiamo «Nascita d'Israele. Miti, storia, contraddizioni»; «Nascita dell'ideologia fascista»; «Contro l'illuminismo. Dal XVIII° secolo alla guerra fredda», editi in Italia da Baldini, Castoldi, Dalai.
Professor Sternhell, l'Italia si trova oggi al centro della polemica intorno alla Fiera Internazionale del Libro di Torino, in cui Israele è ospite d'onore in occasione dei suoi 60 anni. Quella che dovrebbe essere una festa della cultura finisce con il diventare un festival di boicottaggi e contro-boicottaggi. Qual è il senso di tutta questa opposizione?
«Penso che tutto ciò sia uno scandalo. Del peggiore degli scandali, perché originato da una bassa demagogia o peggio, dall'ignoranza e dalla incomprensione dei fatti. Non si può costruire una posizione su una questione così complessa sulla base di immagini televisive, per cruente e orribili che siano. Quello che avviene con i palestinesi è terribile, ma in questa guerra ci sono due parti che si dividono la responsabilità di quanto avviene, in parti fra l'altro non eque se si mette in conto l'uso del terrorismo. La gente deve capire che se non avvenisse ciò che avviene in questi giorni a Gaza, probabilmente gli schermi tv sarebbero pieni di immagini di terrorismo a Tel Aviv o a Gerusalemme, come è già più volte avvenuto negli ultimi anni. Io grido a piena voce da anni contro le decisioni dei governi che mi rappresentano. Sostengo che si deve trovare un modo di porre fine a tutto ciò, ma questo non c'entra con la cultura. Il boicottaggio culturale è la cosa più anti-culturale che esiste. Fin troppo facile ricordare chi ne ha fatto uso, e non fa molto onore trovarsi in compagnia di movimenti come il nazionalsocialismo o il fascismo. Si deve assolutamente evitare che la cultura diventi ostaggio della protesta politica. E questo è ancora più ingiusto se viene fatto contro un Paese che ha più volte dimostrato di essere democratico e libero, all'interno del quale si svolge da decenni un confronto politico e ideologico duro, profondo e sincero su quanto avviene nei Territori occupati. Solo poche settimane fa abbiamo festeggiato i 30 anni di Peace Now. Non si possono chiudere gli occhi e non constatare che se nella società palestinese non esistono voci del genere e che se ci fossero, forse le cose andrebbero diversamente. Ed è anche un fatto che le posizioni dell'opinione pubblica israeliana sono radicalmente cambiate dal passato, laddove oggi la maggioranza degli israeliani è pronta ad accettare uno Stato palestinese. Non posso credere che chi boicotta Torino per la presenza di Israele sappia e capisca tutto questo; al massimo si può dar loro il beneficio della superficialità, della non comprensione del fatto che si tratta di una situazione molto complessa in cui non si può vedere tutto bianco o tutto nero, perché oggi, in definitiva, sono Hamas e i movimenti integralisti, che continuano a rifiutare ogni accettazione dello Stato d'Israele e a rappresentare il maggiore ostacolo per la pace. E in questo imbroglio - in cui la cosa forse più necessaria è quella di capire, capirsi, parlare e spiegare -il boicottaggio culturale può solo portare ad una ulteriore chiusura, ignoranza e incomprensione. Vale a dire l'esatto contrario di ciò di cui abbiamo bisogno».
Israele festeggia i 60 anni dalla sua nascita. Quale bilancio è possibile trarre di una vicenda storica cosi complessa e per molti versi drammatica?
«Al termine dei suoi primi 60 anni, possiamo individuare nello Stato d'Israele allo stesso tempo una incredibile storia di successo e alcuni cocenti fallimenti. Se guardiamo agli obiettivi primari e di fondo del sionismo, sono stati tutti conseguiti: abbiamo uno Stato in cui vivono 7 milioni di persone - un numero che perfino in termini europei non è così piccolo - una società che in quanto a capacità tecnologiche si trova all'avanguardia nel mondo, un livello di vita occidentale secondo tutti i parametri materiali e se vogliamo anche culturali; insomma un luogo in cui oggi qualsiasi ebreo che voglia trasferirvisi non deve, come poteva avvenire in passato, fare una scomoda scelta ideologica rinunciando al benessere della sua terra di provenienza. Ma tutto ciò non può lasciarci sazi e soddisfatti. A controbilanciare questi enormi successi, ci sono anche grandi fallimenti. Il primo, più evidente a tutti, è rappresentato dall'incapacità di risolvere, almeno finora, il conflitto con i palestinesi e con parte del mondo arabo. Che sia chiaro, è una responsabilità che va divisa almeno a metà fra le parti, laddove gli arabi, in sostanza, non hanno ancora accettato l'esistenza dello Stato d'Israele. Ma ciò che a me brucia di più, è lo stato attuale della società israeliana: una società borghese assolutamente convenzionale in cui la sperequazione dei redditi è una delle più alte nel mondo occidentale. E in questo caso, la responsabilità non è attribuibile ad altri che a noi stessi» .
Se oggi Theodor Herzl si trovasse a camminare nelle strade di Israele sarebbe deluso?
«No, probabilmente se oggi Herzl potesse vedere Israele, sarebbe felice di vedere realizzato lo Stato degli Ebrei, in cui essi possono vivere liberi, padroni della propria vita, non più dipendenti dalla benevolenza di questo o di un altro sovrano, governo o nazione. Sarebbe fiero dei simboli dello Stato, della lingua, rinata dopo oltre duemila anni e parlata oggi nelle strade, nei mercati e nell'accademia. In altre parole, Hezrl e con lui i pionieri del sionismo sarebbero felici della normalità del Paese e del popolo che lo abita, tranne poi cominciare ad avere qualche dubbio vedendo quanto questa normalità si è ormai radicata, soffocando quel qualcosa in più che ci si aspetta da Israele come Stato ebraico».
Ed è giusto questo pretendere di più da Israele?
«A giudicare da come ci si riferisce ad Israele nel mondo, sembra che questa pretesa sia un semplice dato di fatto, neppure messo in discussione. Si richiede ad Israele di essere più giusto, meno violento, di impegnarsi nel mantenere l'uguaglianza e la giustizia più di quanto altri popoli e nazioni abbiano fatto nel passato e fanno nel presente. Non c'è nazione al mondo che non abbia fatto molto peggio di quanto viene attribuito a Israele. La guerra quotidiana combattuta contro i palestinesi è orribile, sanguinosa. I suoi risultati mi spezzano il cuore ogni giorno. E non mi consola pensare che - tanto per dare un esempio - i francesi in Algeria abbiano represso nel maggio 1945 una sommossa, uccidendo un minimo di 15.000 persone, e che in tutta questa guerra abbiano perso la vita circa un milione di algerini. E come con i francesi, potrei prendere l'esempio di decine di altre nazioni i cui governi, mass media e opinioni pubbliche pretendono da Israele standard di moralità che loro non hanno saputo mantenere in passato e che nutro forti dubbi saprebbero mantenere in circostanze simili a quelle in cui si trova ad agire Israele. Eppure, questo non mi consola e mi arrabbio con il mio Paese, perché negli ultimi decenni tende a prendere da tutte le società del mondo il peggio di quanto queste offrono, il materialismo sfrenato, il consumismo. No, rispondendo alla sua domanda, probabilmente quanto si pretende da Israele non è giusto, ma io sento che in ogni caso è quello che Israele deve fare. Deve farlo verso l'esterno, ma soprattutto deve farlo per sé stesso, per essere una società migliore, più umana, più solidale. La sfida che vorrei Israele vincesse, è proprio di riuscire a trovare quell'equilibrio in cui giustizia sociale, solidarietà e benessere riescano a convivere perfino nelle proibitive condizioni in cui opera Israele».
Da storico, ha ancora un significato parlare di Israele come Stato sionista, termine usato spesso con intenzioni offensive?
«Questa è una delle maggiori distorsioni a cui oggi assistiamo. Il sionismo è l'espressione del nazionalismo ebraico. Una corrente resa impellente da circostanze storiche, legittima come lo sono tutti gli altri nazionalismi, francese, italiano, belga, svedese ecc... Quanto è successo nella Shoah non ha fatto altro che confermare in modo schiacciante quanto il sionismo avesse ragione in termini di richiesta di un focolaio nazionale del popolo ebraico, di una normalità. Per questo la conquista del Paese fino al 1949 è stata a mio parere giusta e legittima: poiché era indispensabile. Era la condizione necessaria per rendere possibile l'esistenza nella normalità del popolo ebraico. Il problema è nato dopo il 1967, quando è iniziata l'opera di insediamento dei Territori. Considero tutto ciò che è avvenuto dopo il ‘67 illegittimo, dannoso e soprattutto non necessario. Israele si è infilato in una trappola quando ha smesso di considerare inviolabili gli aspetti universali del sionismo, quelli che identificavano i propri diritti alla pari di quelli degli altri, quelli che determinavano in modo inoppugnabile il diritto di ogni popolo alla libertà, all'indipendenza e alla sovranità. È per questo che io, per fortuna con molti altri, mi batto da 30 anni per riportare alla giusta interpretazione del sionismo, per convincere che questa terra deve essere divisa fra i due popoli che ne hanno pari diritto. In questa tragedia ognuno ha le proprie responsabilità: Israele deve smobilitare la gran parte degli insediamenti nei Territori e i palestinesi devono accettare una volta per tutte l'esistenza di Israele e rinunciare alla richiesta del diritto al ritorno, un eufemismo dietro il quale si nasconde l'eliminazione graduale di Israele».
Lei è spesso in prima linea nel criticare l'operato dei governi di Israele eppure ha ricevuto questo anno il maggiore riconoscimento concesso dallo Stato ai suoi ricercatori e scienziati. Qual è il senso di questo riconoscimento: è - come alcuni dicono - una foglia di fico, oppure - come affermano altri - è il segno di un Paese democratico a confronto con situazioni ingestibili in una vera democrazia?
«Questo riconoscimento mi è stato dato per la mia ricerca scientifica, anche se nelle motivazioni della commissione è ricordata la mia attività pubblica. Ciò non sarebbe potuto avvenire in una società non democratica e nessuno può ignorare o sminuire la democraticità di Israele, delle sue istituzioni, della sua Corte suprema e della sua società, che sono in grado di elevarsi al di sopra delle divergenze e premiare anche chi, da decenni, esprime le proprie critiche e l'opposizione politica alle scelte dei governi di Israele. Criticare e ammonire, sono parti integrali dell'attività dell'intellettuale. Io e tanti altri come me, non solo hanno in Israele il proprio spazio nella dialettica politica del Paese, ma hanno di fatto contribuito a cambiare l'opinione degli israeliani i quali oggi, è bene ricordarlo, sono in gran parte a favore della spartizione del territorio in due Stati. Il premio dato a me è in fondo, anche un premio alla democrazia israeliana».

l'Unità 9.5.08
LO SCRITTORE ISRAELIANO
Yehoshua: dialogo con Hamas per fermare la strage


«Penso che si debba dialogare anche con Hamas come unica via per arrivare a fermare questo stillicidio di morti da tutte e due le parti» ha detto ieri Abraham Yehoshua alla Fiera di Torino, aggiungendo di confidare nella realizzazione di uno stato palestinese «entro quest’anno o al massimo il prossimo. La Fiera del libro potrà così invitare presto la Palestina come stato ospite d’onore. In quell’occasione tornerò anche io a Torino, per festeggiare e confrontarmi con i colleghi». Lo scrittore israeliano ha affrontato questo argomento in risposa a una domanda del pubblico sul boicottaggio: «Quando si è cominciato a sentirne parlare ci sono rimasto malissimo. Io sono 40 anni che mi batto per la costituzione di uno stato palestinese, naturalmente appoggiando coloro che sono per il confronto e il dialogo, non certo chi cerca il boicottaggio».

l'Unità 9.5.08
Alleanze sì, alleanze no: dibattito antico (ma ancora utile)
di Giuseppe Tamburrano


Il dibattito che si è aperto nel Pd tra Veltroni e D’Alema - se la definizione dell’identità sia prioritaria rispetto alle alleanze - è ricorrente nella vita politica. Durante la fase di preparazione del centro-sinistra Fanfani sosteneva che i programmi (l’identità) vengono prima della politica (le alleanze) e Moro invece privilegiava le alleanze. Così nel Psi il confronto era tra Nenni: prima la politica (politique d’abord), e Lombardi: l’impegno riformatore.
Io ho sempre pensato che questo dibattito è astratto (se non nasconde un contrasto tra persone e gruppi). È astratto perché chi dà la priorità alle alleanze deve pure specificare “su che cosa”, poiché ci si incontra per fare delle cose insieme e non un passeggiata o una cena. E se un partito non ha una identità chiara, cioè non sa chi è e che cosa è, non può sapere che cosa vuole e con chi volerla. Dunque ha ragione Veltroni? Fino ad un certo punto, perché in politica ci si definisce nel movimento, per le scelte che si compiono e le alleanze che si realizzano: un partito non si ritira in un eremo per “definirsi” e poi, con le idee chiare, scende in campo.
Insomma hanno ragione e torto tutti e due. Aggiungo che, se ho ben capito, D’Alema propone un’alleanza eterogenea, dall’Udc alla Sinistra Arcobaleno, con un’unica finalità: l’opposizione al governo Berlusconi. E questo impoverisce la sua proposta, rende strumentali le alleanze che si farebbero in negativo, “contro” il governo, invece che in positivo, “per” un programma.
Per quanto riguarda i veltroniani, francamente stupisce sentirli dire che il Pd non ha una ben definita identità. Quando alcuni di noi chiedevano ai Ds e alla Margherita di precisare l’identità del nuovo partito che si stava costruendo ci si rispondeva che i caratteri del Partito democratico erano chiari, vi era una Carta e ci sarebbe stato il programma elettorale. Ora si scopre che avevamo ragione noi.
Mi sia concesso di dire sia a Veltroni sia a D’Alema che questi due aspetti - l’identità, le alleanze - sono due facce della stessa medaglia. Quale può essere in Europa l’orizzonte identitario di un partito che si oppone alla destra? Di un partito che per la parte maggioritaria, viene da una storia di sinistra, se non un partito di sinistra, cioè - per restare ai modelli della casa comune, l’Europa - un partito socialista?
D’Alema ha provato varie “Cose”. Ricordo le speranze, anche gli entusiasmi della “Cosa Due”. Le ha provate, ma non in modo coerente e rigoroso. Lo ha riconosciuto egli stesso!
Oggi nel paesaggio lunare della sinistra ci vuole una grande iniziativa per sanare il divorzio tra la sinistra sociale e culturale che è nella società e la sinistra politica che sembra essersi dissolta. Ma possono scomparire le sigle dei partiti, «nomenclatura delle classi sociali» (Gramsci), non le forze reali che sono nella storia di un Paese, e nella dialettica della vita associata.
In un precedente articolo sull’Unità ho invocato una Epinay italiana, ed auspicato che fosse Veltroni il Mitterrand nazionale. Per le posizioni assunte, sembra che questo ruolo di unire la sinistra possa essere svolto da D’Alema. Il compito è arduo, ma esaltante. Occorre lavorare con esponenti ed espressioni della sinistra più larga, perché venga elaborato un progetto di socialismo riformista all’altezza dei tempi e della crisi del capitalismo. È questa la posizione costruttiva nel dibattito interno al Pd: definire l’identità del nuovo partito nel vivo di una ricerca collettiva, che veda la partecipazione di tutte le forze politiche e intellettuali della sinistra, delle “vie maestre” del socialismo riformista oggi. È un sogno?

Repubblica 9.5.08
Più che il ´68 È l´89 che ci ha cambiati
di TIMOTHY GARTON ASH


È già stato versato più inchiostro sull´anniversario del 1968 di quanto sangue sia sgorgato dalle ghigliottine di Parigi dopo il 1798. In Francia risultano i pubblicati più di 100 libri solo per richiamare alla memoria lo scenario rivoluzionario del maggio ´68. La Germania ha avuto la sua festa della birra versione intellettuale; Varsavia e Praga hanno rivisitato le ambiguità agrodolci delle rispettive primavere; persino in Gran Bretagna è uscita una retrospettiva su Prospect, la principale rivista culturale del paese.
Non è difficile capire i motivi di quest´orgia di pubblicazioni. I sessantottini sono una generazione straordinariamente ben definita in tutta Europa, probabilmente la meglio definita dopo quella che potremmo chiamare dei "ragazzi del ´39", segnati a vita dall´esperienza della seconda guerra mondiale. Gli ex studenti del 1968, oggi sessantenni o giù di lì, sono ai vertici della produzione culturale in gran parte dei paesi europei. Pensate forse che perdano l´occasione di parlare della loro gioventù? Scherzate? E io non conto?
Non esiste una classe dei novantottini paragonabile. I protagonisti di quell´anno di prodigi erano diversi: più eterogenei e, si potrebbe dire, più sérieux. Navigati dissidenti, apparatchik, capi religiosi, uomini e donne di mezz´età in piazza, pazienti, a dire basta. In qualche occasione gli studenti hanno avuto un ruolo, non da ultimo a Praga, dove fu una manifestazione studentesca a dare il via alla rivoluzione di velluto e, vent´anni dopo, alcuni di loro sono personaggi di spicco della vita pubblica del loro paese. Ma i leader del ´98 in genere erano più vecchi e molti, in realtà, sessantottini. Persino gli "eroi della ritirata" sovietici vicini a Mikhail Gorbaciov erano plasmati dalla memoria del 1968.
È regola generale che si ricordino con più intensità le esperienze vissute da giovani. L´alba vista a vent´anni con una ragazza/ragazzo tra le braccia magari in seguito si rivelerà fasulla, quella che vedi a 50 anni può cambiare il mondo per sempre, ma la memoria, astuta imbrogliona, privilegerà sempre la prima. Inoltre mentre il 1968 in Europa c´è stato sia a ovest che a est, a Parigi e a Praga, il 1989 c´è stato sul serio solo a est. La maggior parte degli europei dell´ovest erano affascinati spettatori dell´89, non i protagonisti.

Sotto il profilo politico l´89 ha prodotto molti più cambiamenti. Le primavere di Praga e Varsavia del 1968 finirono in sconfitta; le primavera di Parigi, Roma e Berlino finirono in parziali restaurazioni, o produssero cambiamenti solo marginali. Probabilmente la più grande manifestazione di piazza che si tenne a Parigi il 30 maggio 1968 fu una manifestazione della destra politica, che l´elettorato francese riportò al potere per un altro decennio. In Germania ovest parte dello spirito del ´68 si riversò con maggior successo nella socialdemocrazia riformista di Willy Brandt. Ovunque in occidente il capitalismo sopravvisse, si riformò e prosperò. Il 1989, invece, ha posto fine al comunismo in Europa, all´impero sovietico, alla divisione della Germania e ad una lotta ideologica e geopolitica, la guerra fredda, che aveva caratterizzato l´intera politica mondiale per mezzo secolo. È stato, quanto a esiti geopolitici, importante come il 1945 o il 1914. A confronto il ´68 fu una bazzecola.
Vista con gli occhi di oggi gran parte della retorica marxista, trozkista maoista o anarchico-liberazionista del ´68 appare ridicola, infantile e moralmente irresponsabile. Citando George Orwell, è un giocare col fuoco da parte di persone che non sanno neppure che il fuoco brucia. Evocando l´avvio di un «periodo di transizione cultural-rivoluzionaria» – così la brutale rivoluzione culturale di Mao che distrusse tante vite veniva assurta a modello da imitare in Europa – e definendo i Viet Cong «forze rivoluzionarie di liberazione contro l´imperialismo Usa», Rudi Dutschke disse al congresso sul Vietnam a Berlino ovest che queste verità liberatorie erano state scoperte grazie al "particolare rapporto di produzione dei produttori studenti". Produzione di cazzate, cioè. Alla London School of Economics scandivano questo slogan: «Cosa vogliamo? Tutto. Quando lo vogliamo? Subito». Narciso con la bandiera rossa.
Quelli che nel 1968 erano tanto duri nei confronti di alcuni appartenenti alla generazione dei loro genitori (i ragazzi del ´39) che avevano simpatizzato con il terrore fascista e stalinista forse in occasione di questo anniversario vorranno fare un piccolo esame di coscienza per aver spensieratamente simpatizzato con il terrore in lontani paesi che conoscevano ben poco. Ma in quell´esame di coscienza va messo anche che molti rappresentanti di spicco della generazione del ´68 hanno imparato in seguito da questi errori e leggerezze. Nel migliore dei casi si sono impegnati nei decenni successivi in politiche più serie di "nuovo evoluzionismo" liberale, socialdemocratico o verde (per mutuare un´espressione del sessantottino polacco Adam Michnik), compreso il porre fine a una gran quantità di regimi autoritari in Europa, dal Portogallo alla Polonia e il promuovere i diritti umani e della democrazia in paesi lontani che hanno imparato a conoscere meglio.
È quindi troppo semplicistico nel bilancio del ´68 indicare solo l´aspetto frivolo, effimero e irrilevante, contrapponendolo ad un ´89 serio e significativo. A fare il punto è Daniel Cohn-Bendit, l´archetipo del sessantottino: «Abbiamo vinto in campo culturale e sociale, mentre, fortunatamente, abbiamo perso in politica». Il 1989 ha prodotto, sorprendentemente in mancanza di violenza, una trasformazione nelle strutture della politica interna ed estera e dell´economia che ha cambiato il mondo. Sotto il profilo culturale e sociale ha più il carattere di restaurazione, o quanto meno, di riproduzione o imitazione delle società consumistiche occidentali esistenti. Il 1968 non produsse trasformazioni paragonabili delle strutture politiche e sociali ma catalizzò un profondo cambiamento culturale e sociale, sia nell´est che nell´ovest d´Europa. (Il 1968 in realtà rappresenta un fenomeno più ampio, gli "anni Sessanta" nel complesso, in cui la diffusione della pillola ebbe più importanza di qualunque manifestazione o barricata).

Nessun mutamento di queste proporzioni ha solo effetti positivi e alcuni esiti negativi sono visibili nelle nostre società di oggi. Ma, nel complesso il ´68 ha segnato un passo avanti nell´emancipazione dell´umanità. In gran parte delle nostre società le donne, gli omosessuali e le lesbiche, gli appartenenti a molte minoranze e classi sociali in precedenza tenute a freno da rigide gerarchie hanno oggi maggiori opportunità rispetto a prima del 1968. Persino i critici del ´68 come Nicolas Sarkozy beneficiano di questo cambiamento. (Avrebbe mai potuto un figlio di immigrati, divorziato, diventare presidente nell´idillio conservatore pre-68 del suo immaginario?)
Per quanto i due movimenti siano fortemente contrastanti è stato l´effetto congiunto dell´utopico ´68 e dell´anti-utopico ´89 a produrre in gran parte d´Europa e del mondo una versione globalizzata socialmente e culturalmente liberale, politicamente socialdemocratica di capitalismo riformato. Ma in questo anniversario del ´68 vediamo problemi nella sala macchine del capitalismo riformato. E se i problemi si aggravassero il prossimo anno, proprio al momento dell´anniversario dell´89? Quella sì che potrebbe essere una rivoluzione…
www.timothygartonash.com
Traduzione di Emilia Benghi


Corriere della Sera 9.5.08
D'Alema chiede l'autocritica a Veltroni
Boccia «partito leggero, nuovismo e pretesa di autosufficienza». E attacca il «riformismo tecnocratico» di Prodi


«Vigilanza per Orlando»: duello con l'Idv. E nel governo ombra Walter vuole Fioroni e Bersani per toglierli ai suoi rivali

ROMA — Otto cartelle per spiegare le ragioni della sconfitta e bocciare i capisaldi della strategia di Veltroni, dal partito leggero alla vocazione maggio-ritaria, dal nuovismo al bipartitismo. È ancora Massimo D'Alema a far ballare i vertici del Pd, con una lunga intervista anticipata dal Riformista e che mercoledì sarà pubblicata integralmente da Italianieuropei, la rivista della fondazione dalemiana.
Lasciando la Farnesina che lo ha visto ministro, D'Alema dice basta al «riformismo tecnocratico » e elenca «errori politici e deficit di innovazione» del governo Prodi. E il resto è per Veltroni. Gli riconosce di aver limitato la sconfitta, ma chiede autocritica. Vuole che Veltroni ammetta di aver deluso quella maggioranza silenziosa che, «al di là delle piazze gremite e euforiche », invocava una guida forte, «mentre noi abbiamo messo l'accento sul ricambio generazionale, sui volti nuovi della società civile...». D'Alema riconosce che 12 milioni di voti non rappresentano solo una élite, però dichiara «svanita l'illusione del partito leggero» e invoca la selezione di una classe dirigente «la cui qualità non consista esclusivamente nel fatto di essere nuova». Quindi indica la via per riprendere il cammino. Dialogare con la destra «non sarà facile» eppure è necessario, occorre misurarsi con la Lega sul federalismo e, sulle alleanze, non assecondare «l'idea di una brutale riduzione del pluralismo in senso bipartitico». Guai a seguire la tendenza «leaderistica e plebiscitaria» di Berlusconi, guai a voler eliminare le preferenze dal voto europeo e a confondere la vocazione maggioritaria con una «pretesa di autosufficienza».
Insomma, al Loft devono ripartire pressoché da zero. Però l'ex presidente ds giura che non è in corso «uno scontro tra leadership» e assicura che nessuno vuole mettere in discussione il ruolo del segretario. «Nessuno, in questo momento ». La tensione è alta, la dalemiana Velina rossa di Pasquale Laurito adombra la scissione eppure D'Alema, a suo modo, indica le condizioni per una tregua: «Una discussione aperta e meno difensiva».
Ed è scontro con Antonio Di Pietro. Il leader dell'Idv ha parlato con Veltroni e lo ha accusato di volersi accaparrare tutte le cariche dell'opposizione compresa la Vigilanza Rai, dove Di Pietro vuole Leoluca Orlando e Veltroni, invece, Paolo Gentiloni. Rutelli e Parisi, poi, si litigano il Copasir. L'ex ministro della Difesa ci tiene molto e lo dice in privato a Veltroni, sottolineando che «esiste un problema oggettivo di competenza». E ancora. Intervistato da Liberal, Marco Follini suggerisce di rompere con Di Pietro e accorciare le distanze con Casini e intanto Veltroni dimezza l'esecutivo e progetta un ufficio politico ristretto con dentro i «big». Il governo ombra sarà pronto domani e il segretario lavora per coinvolgere nei ruoli chiave Fioroni e Bersani, sganciando il primo da Marini e il secondo da D'Alema. I veltroniani accreditando l'idea che l'ex ministro abbia deciso di ballare da solo, ma Bersani fa sapere che accetterà solo una proposta «seria», qualcosa come responsabile Economico e membro dell'ufficio politico.
Monica Guerzoni Il dubbio sul «manifesto» Il bivio per il Prc è la scelta tra il dialogo con il Pd— auspicato anche da «Liberazione» — o il «modello Tarzan» (il consigliere comunale di Roma, Andrea Alzetta), citato come risposta al disagio sociale da Paolo Ferrero In campo Massimo D'Alema (a destra) ha criticato Walter Veltroni: « È svanita l'illusione del partito leggero»

Corriere della Sera 9.5.08
Lo scontro interno minaccia di segnare le prospettive del Pd
di Massimo Franco


Nelle intenzioni di Walter Veltroni, il «governo- ombra» dovrebbe essere la stanza di compensazione delle tensioni postelettorali. Invece, fra offerte, rifiuti ed autocandidature, si sta trasformando nella metafora un po' caricaturale di un Pd sbandato. Il centrosinistra sembra incapace di sottrarsi ad una guerra interna su cariche istituzionali di secondo piano, o addirittura formali e prive di qualunque peso reale. E questo mentre intorno alla leadership del segretario si intensificano segnali centrifughi, quando non apertamente ostili.
Di certo non aiuta Veltroni il contrasto aspro con l'Idv di Antonio Di Pietro, incline a rompere l'alleanza col Pd. È il sintomo di una resa dei conti in incubazione. E lascia presagire un inasprimento dei rapporti interni; ed una resurrezione delle correnti che non significherebbe solo il tentativo di condizionare il segretario: di fatto, metterebbe in mora la strategia del Pd e perfino la sua esistenza.
Quando Massimo D'Alema avverte che Veltroni non è in discussione, ma lo è il suo progetto, anticipa un braccio di ferro sulle alleanze. Fra l'ex ministro degli Esteri che accarezza l'idea di recuperare l'estrema sinistra, ed il segretario che guarda ai centristi dell'Udc, il fossato si allarga. Si tratta di una divergenza fra ex diessini, di fronte alla quale gli alleati sono spettatori inquieti. La paura che la sconfitta comporti una lunga permanenza all'opposizione moltiplica le sottofamiglie del Pd.
Minaccia di frantumare il progetto originario di una virtuosa mescolanza fra identità. In queste ore si rivendicano ruoli in quanto prodiani, veltroniani, dipietristi, dalemiani, mariniani, rutelliani. Il peso delle sconfitte a livello nazionale e locale non suggerisce passi indietro. Anzi, ognuno cerca risarcimenti ed un supplemento di visibilità. L'estrema sinistra indovina le difficoltà del Pd, e cerca di accentuarle. Veltroni abbozza un'intesa con la maggioranza di centrodestra per cambiare in senso maggioritario la legge elettorale per le Europee: sa che è l'unico modo per non farsi risucchiare dal passato e da illusioni di unità delle sinistre.
Ma gli ex alleati dell'Unione si appellano alla pancia antiberlusconiana del partito per additare il pericolo di un'opposizione ridotta al «cinguettìo», se non al mutismo di fronte al Cavaliere. Ed aggiungono minacce più corpose sul futuro delle giunte locali, dove la ex coalizione prodiana è sopravvissuta al 13 e 14 aprile. Pazienza se le urne hanno dimostrato che a sinistra del Pd ormai c'è il deserto, non miniere di consensi sommersi da riportare in superficie. Il fatto che nelle file veltroniane qualcuno finga di non accorgersene, proietta un'ombra di incertezza sul futuro dell'opposizione.
La lite sulle alleanze è solo il sintomo della disgregazione nata dal 13 aprile

Corriere della Sera 9.5.08
L'auspicio Il maestro israeliano risponde ai boicottatori: «Sono per il dialogo, anche con Hamas»
Yehoshua: Palestina ospite d'onore? Io ci sarò


DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
TORINO — Alla fine quasi si indispettisce Abraham Yehoshua, quando sente ancora parlare del boicottaggio. Presentato dal direttore editoriale Ernesto Ferrero come «una grande voce che appartiene a tutti, così come la cultura di un Paese appartiene a tutti», una voce a cui sarebbe stato assurdo impedire di parlare, nell'incontro che di fatto ha inaugurato gli eventi culturali della Fiera, questo scrittore che ha raccontato il suo Paese in molti romanzi (l'ultimo, Fuoco amico),
docente di letteratura comparata e letteratura ebraica ad Haifa, alza la voce, si scalda e le sue parole sembrano la risposta a chi, come il poeta israeliano Aharon Shabtai, ospite l'altro giorno del convegno organizzato da Free Palestina all'Università, lo ha accusato di rappresentare (insieme ai suoi amici e colleghi David Grossman e Amos Oz che al Salone non ci sono) una sinistra soft che nei fatti è complice della politica aggressiva del governo. «Sono 40 anni che combatto perché la Palestina abbia uno stato, mi sono sempre messo dalla loro parte — ha detto —. Sono stato uno dei primi a firmare petizioni, a fare pressioni perché il mio governo trattasse con l'Olp e ora sostengo il dialogo con Hamas per fermare questo stillicidio di morti da entrambe le parti. Il boicottaggio è stupido, io appoggio coloro che sono per il confronto e il dialogo».
L'arringa di Yehoshua è proseguita nel segno della speranza: «Confido nella realizzazione di uno Stato palestinese entro quest'anno o al massimo il prossimo, così la Fiera del libro potrà invitare la Palestina come Paese ospite d'onore. In quell'occasione anch'io tornerò a Torino per festeggiare l'evento e confrontarmi con gli scrittori palestinesi».
Il riferimento alla questione calda di queste giornate è arrivato quasi alla fine dell'incontro, dopo che Yehoshua aveva parlato, con Alessandro Piperno ed Elena Loewenthal, di letteratura e amore, di colpa e moralità, di umorismo (visto come un modo per difendersi dalla realtà che «in Israele sfonda la finestra») e di sesso, che lo scrittore usa nei suoi romanzi come vera e propria lente di ingrandimento sulla realtà. «La colpa è il carburante della cultura occidentale» ha detto precisando però che l'eccesso può portare «alla morte e alla paralisi ». «Mettete la moralità al centro del vostro scrivere», è stato l'invito ai giovani prima di partire, con Napolitano, verso Roma dove, in serata, ha assistito alla prima dell'opera Viaggio al termine del millennio, di cui ha scritto il libretto. «Non lasciate che se ne occupino solo i media. La letteratura può occuparsene in maniera più profonda».
Cristina Taglietti

Corriere della Sera 9.5.08
Spagna Al via le riforme su libertà religiosa, aborto, legge elettorale
Stretta di Zapatero: «Stato più laico»


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MADRID — A 130 giorni esatti dalla «manifestazione per la famiglia» presieduta a Madrid da 40 vescovi e cardinali, contro la politica del governo socialista, José Luis Rodríguez Zapatero presenta il conto: la Spagna diventerà uno Stato laico, sempre più laico. La legge della Libertà religiosa, in vigore dal 1980, sarà rivista. Per il Concordato è probabilmente solo questione di tempo. Poco più di due mesi fa, quando la Conferenza episcopale spagnola aveva invitato a non votare chi facilita aborto, divorzio e matrimoni omosessuali, il segretario del Psoe, José Blanco, aveva avvertito i vescovi: «Se vinciamo le elezioni, nulla potrà più tornare come prima nei rapporti con la gerarchia ecclesiastica ». E il presidente del governo aveva promesso di «mettere i puntini sulle i» con i prelati, partigiani dell'opposizione, non appena riconfermato dagli elettori.
Il momento è arrivato con la presentazione alla Commissione costituzionale del congresso delle principali riforme in programma. C'è da risistemare la legge elettorale, ha spiegato la vice presidente, María Teresa Fernández de la Vega, per tutelare i partiti nazionali minori nella ripartizione dei seggi. C'è da modificare la Costituzione «maschilista », che impedisce attualmente alla piccola Leonor, primogenita del Principe Felipe, di aspirare al trono. Ma c'è anche da rimettere mano alla legge sull'aborto e da incrementare la laicità dello Stato, «riconoscendo i diritti degli agnostici e adeguando la norma al pluralismo religioso che caratterizza la Spagna di oggi».
La pubblica neutralità di fronte alle fedi religiose, o all'ateismo, comporterà inevitabilmente una revisione anche dei finanziamenti che, secondo i calcoli del quotidiano El País, ammontano ora a 4 miliardi di euro all'anno per la Chiesa cattolica e appena 5 milioni per tutte le altre confessioni minoritarie. Ma non è soltanto una questione economica: musulmani, protestanti, ebrei lamentano la mancata applicazione degli accordi del 1992 che consentivano, tra l'altro, l'assistenza religiosa ai rispettivi fedeli nelle caserme, nelle carceri, negli ospedali e riconosceva effetti civili ai matrimoni celebrati secondo quei riti.
Fernández de la Vega non vede di buon occhio la presenza del Servizio di assistenza religiosa cattolica nel comitato etico degli ospedali pubblici, autorizzata dalla Comunità autonoma di Madrid (guidata dal Partito Popolare). Ma se, pochi mesi prima delle elezioni, Zapatero aveva sostenuto di non ritenere necessarie modifiche alla legge sull'aborto, in vigore dal 1985, ora l'orientamento del governo è cambiato.
La vice presidente ha promesso di mettere al lavoro una commissione di esperti per garantire meglio i diritti delle donne che decidono di interrompere la gravidanza, nei termini previsti, proteggendone l'intimità e i dati personali.
Elisabetta Rosaspina Vice presidente Fernández de la Vega

Corriere della Sera 9.5.08
Tra Veltroni e D'Alema un duello déjà vu
di Paolo Franchi


La sconfitta elettorale ha riaperto, nel Pd, la più antica e classica delle contese postcomuniste, quella che tra una tregua d'armi e l'altra da vent'anni e passa vede protagonisti Massimo e Walter

Se è lecito formulare un invito amichevole e disinteressato al Pd e, più in generale, a centrosinistra e sinistra, consiglieremmo di evitare come la peste il rischio di cadere nel ridicolo. Un rischio serio.
Perché non si parla di una possibilità tutto sommato remota, o di qualche smagliatura di troppo, ma di qualcosa che sta già capitando. Come se una sconfitta più grave ancora di quanto dicano i risultati elettorali non avesse insegnato proprio nulla, e tanti, troppi, piuttosto che fermarsi a riflettere con la necessaria umiltà si lasciassero prendere da una coazione a ripetere tanto grottesca quanto, a quel che sembra, irrefrenabile.
Lasciamo pure da parte, dunque, interrogativi epocali come quello avanzato ieri in un titolo del Manifesto, secondo il quale la sinistra radicale dovrebbe finalmente prendere il toro per le corna, risolvendosi una volta per tutte a stabilire se sta con Massimo, inteso come Massimo D'Alema, o con Tarzan, inteso come il protagonista di tante occupazioni di case a Roma («E' vietato, ma Tarzan lo fa» recitava il suo slogan elettorale) che oggi siede solo soletto nell' aula di Giulio Cesare. E lasciamo perdere anche le velenose disfide sotterranee per guadagnarsi una poltrona nel costituendo governo ombra in cui, apprendiamo dalle cronache, sarebbero impegnati molti valorosi esponenti del Pd, a quanto pare immemori del fatto che lo shadow cabinet all'italiana faceva già sorridere quando il Pci se lo inventò sul finire degli anni Ottanta, e del tutto impermeabili all' idea che faccia sorridere ancora di più vent'anni dopo, quando, oltre tutto, il governo vero Silvio Berlusconi lo mette su in una manciata di giorni.
Parliamo, piuttosto, di cose serie: di cose serie che però si presentano in un alone di ridicolo, senza per questo risultare particolarmente divertenti. E cerchiamo di parlarne pacatamente, evitando di rifugiarci nell'antico adagio marxiano secondo il quale nella storia le tragedie si ripresentano sì, ma in forma di farsa. Gli interessati fieramente lo negano, ma non c'è bisogno di attaccarsi ai più scanzonati dei retroscena giornalistici per prendere atto che la sconfitta elettorale ha riaperto, nel Pd, il più antico e classico dei duelli postcomunisti, quello che, tra una tregua d'armi e l'altra, da vent'anni e passa — ma verrebbe da dire: da una vita — vede protagonisti Massimo D'Alema e Walter Veltroni. C'è in proposito una letteratura sconfinata, che scandaglia ogni aspetto, politico e ancor prima umano, della contesa, e minuziosamente ne registra ogni passaggio, talvolta cercando di darle un senso compiuto, più spesso limitandosi alla cronaca, seppure assai particolareggiata. Chi vuole può consultarla. Ma temiamo che la platea degli appassionati all'argomento si sia, con il trascorrere degli anni, vistosamente ridotta, e, soprattutto, che il risultato di queste elezioni non sia il miglior viatico per rimpinguarla. Nemmeno in quel 30% e passa di elettori che hanno votato per il Pd. E che probabilmente non sono proprio entusiasti all' idea di assistere all'ennesima puntata di una storia inutilmente infinita, che si dipana sempre secondo il medesimo copione, con gli stessi primattori e, grosso modo, gli stessi comprimari. Tutti un po' invecchiati e più stanchi, ma non per questo disposti a deporre le armi. Nonostante il Pci non ci sia più, e neanche il Pds e, se è per questo, non ci siano più nemmeno i Ds, e il grosso della famiglia sia trasmigrato in un più ampio partito contenitore guidato da Veltroni.
Colpisce, stavolta, la rapidità inusitata con cui D'Alema ha riaperto ostilità che a dire il vero non si erano mai chiuse, ma soltanto sopite: nemmeno il tempo di leccarsi le ferite, di rincuorare le truppe, di cominciare a guardarsi un po' dentro, di stabilire, tutti insieme e ciascuno per sé, quali siano le origini e le responsabilità della sconfitta. Ma colpisce anche il merito strategico, chiamiamolo così, della contesa: se cioè (tesi D'Alema) si debba ritornare al degasperiano «Mai soli», o alla togliattiana strategia delle alleanze, e quindi aprire tutti i canali possibili, con la sinistra radicale ma pure con l'Udc e anche con la Lega, di nuovo «costola della sinistra », nella speranza che prima o poi il centrodestra ricominci a litigare; o se piuttosto (tesi Veltroni), si debba restare fedeli all'ispirazione originaria del Pd, riassumibile nell'aureo motto «Meglio soli che male accompagnati », senza per questo cedere, ci mancherebbe, alla tentazione dell'autosufficienza. Non è necessario imbarcarsi in ragionamenti particolarmente seriosi per sottolineare che il Pd e soprattutto i suoi elettori — quelli conquistati dalla novità del progetto così come quelli del voto utile — avrebbero diritto, in materia di tattica e di strategia, a un confronto un po' più sostanzioso. Di quelli, per intenderci, che si aprono, dopo una sconfitta, in un partito vero, non liquido e nemmeno gassoso, non plebiscitario e nemmeno oligarchico, ma dotato delle sedi istituzionali per discutere, contarsi e decidere che cosa e chi rinnovare. Confronti duri, talvolta anche drammatici, e non sempre ispirati ai canoni della «bella politica». Ma raramente esposti al rischio del dèjà vu, che in politica, come nella vita, minaccia sempre di trascolorare nel ridicolo.

Corriere della Sera 9.5.08
Difendere la Costituzione non è un'ideologia
di Leopoldo Elia


LA LETTERA
Caro Direttore, ho letto sul Corriere del 3 maggio scorso l'articolo di fondo di Ernesto Galli della Loggia con il titolo molto evocativo «La ribellione delle masse». Non entro nell'esame delle ragioni che secondo Galli spiegano con questo fenomeno, trasferito in Italia, le ragioni della sconfitta elettorale del Pd: mi interessa invece, data l'autorità dell'editorialista, soffermarmi brevemente sopra una affermazione dell'autore, che può apparire marginale nel corso della sua argomentazione, ma pare a me di notevole gravità in sé per sé.
Scrive Galli, per qualificare meglio la grande trasmigrazione a sinistra di molti borghesi italiani dopo il referendum elettorale del '93: l'adeguato «involucro ideologico» di tale trasmigrazione «fu subito... l'ideologia della "difesa della Costituzione", opportunamente messa a punto e diffusa proprio allora dall'ex sinistra democristiana con il potente ausilio strategico del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro». Ebbene, è del tutto improprio, a mio avviso, ridurre a ideologia, a involucro ideologico, la difesa della Costituzione. Chi si è battuto per quella difesa non ha mai ritenuto di fare opera di parte: quando si parla di costruzioni ideologiche ci si riferisce invece, in grande, a quelle estinte con il secolo scorso o, più modestamente, a sovrastrutture strumentali di partiti in debito di ossigeno.
Insomma non si può dimenticare che chi si è impegnato a difesa della Costituzione, specie con i comitati attivi per vincere il referendum del 25 giugno 2006, lo ha fatto per una «tradizione costituzionale», messa in pericolo dalla riforma della Carta oggetto del voto referendario. Quel procedimento di revisione «conteneva più di un aspetto di vera e propria eversione della Costituzione esistente», come afferma in un suo recente saggio («Costituzione e legge fondamentale», in Diritto Pubblico, 2006) Maurizio Fioravanti, profondo studioso di storia di dottrine e istituzioni costituzionalistiche. Su questa linea di «patriottismo costituzionale» si schierarono d'altra parte, in prossimità del voto referendario, l'ex presidente Carlo Azeglio Ciampi e, nel suo discorso in qualità di senatore a vita, Giorgio Napolitano: per chiarirsi le idee converrebbe a molti leggere le critiche pacate ma severe rivolte dal futuro capo dello Stato al progetto di revisione in corso di approvazione alle Camere (Senato, 15/2 novembre 2005). Né si va lontano dal vero se si ravvisa nella generosa partecipazione dell'ex presidente Scalfaro alla campagna per il referendum uno dei motivi per i quali la sua figura è divenuta segno di contraddizioni a fronte di chi avrebbe voluto stravolgere l'ordinamento della Repubblica. Né si dica che «l'ideologia della Costituzione» copre un conservatorismo poco illuminato in tema di revisione e di riforme costituzionali: per parte mia mi sento di sottoscrivere questa rilevante affermazione, che è anche un auspicio, formulato dal nuovo presidente della Camera On. Gianfranco Fini, nel suo discorso di insediamento: «Nella passata legislatura la Commissione Affari costituzionali di questa Camera ha messo a punto una proposta, ampiamente condivisa, per superare il cosiddetto bicameralismo perfetto, per rafforzare con equilibrio il ruolo dell'esecutivo e il potere di indirizzo e di controllo del Parlamento, per realizzare un federalismo unitario e solidale. Mi auguro che da essa si possa ripartire in questa Legislatura per definire una nuova architettura costituzionale che faccia della nostra democrazia una democrazia più rappresentativa e più governante».
So bene che per alcuni editorialisti del Corriere è conservatore, in politica costituzionale, chi rifiuta le soluzioni di fondo del semipresidenzialismo francese: ma è possibile che i travagli attuali dei riformatori della Quinta Repubblica per trovare i freni e contrappesi all'esorbitante potere del capo dello Stato (vero capo del governo), e ridare un po' di fiato a un'Assemblea nazionale fin qui assai emarginata, insegnino qualcosa a chi non intende che il modello di governo De Gaulle-Capitant è stato abbandonato dai successori del Generale-Presidente. Invece che sforzarsi di «depresidenzializzare» è meglio, con le riforme di cui parla il presidente Fini e con una decente legge elettorale, realizzare riforme della premiership secondo moduli tedeschi e ispanici.