lunedì 12 maggio 2008

l'Unità 12.5.08
Frontiere chiuse? I no vengono dall’Europa
Il commissario europeo (romeno) Oban: vietate le espulsioni
di massa. In arrivo carcere per i clandestini e stop agli sbarchi
di Maristella Iervasi


CHIUDERE LE FRONTIERE e sospendere il trattato di Schengen. Il ministro dell’Interno, il leghista Bobo Maroni, non ha fatto in tempo a snocciolare tutto il suo pensiero per fermare il flusso di cittadini romeni in Italia, che già arriva un primo stop. «I romeni sono
membri dell’Unione Europea e la direttiva della Ue è chiara nel garantire la libera circolazione delle persone», ha detto il commissario europeo al multilinguismo Leonard Orban, 47 anni, romeno. Parole che rischiano di avvelenare i rapporti bilaterali, anche se per ora il governo romeno tace. Oban ieri era a Firenze per un seminario e con sottobraccio i giornali italiani commenta così le misure sul pacchetto sicurezza del responsabile del Viminale e la spinosa questione Schengen: «Non si può usare il tema della sicurezza per limitare la libertà di movimento delle persone nella Ue. I reati - sottolinea il commissario europeo al multilinguismo - vanno perseguiti con severità secondo le leggi esistenti. Ma le singole situazioni devono essere esaminate caso per caso. Espulsioni di massa non sono assolutamente permesse. Ci devono essere ragioni forti e chiare per l’espulsione che può essere applicata solo in casi eccezionali».
Non solo Orban contro Maroni. Da Bucarest si alza anche la voce dell’eurodeputata socialdemocratica romena (all’opposizione) Corina Cretu, che invoca con urgenza una seduta straordinaria del Parlamento romeno. «Troppi pregiudizi contro l’immagine della Romania in Italia, Spagna e dappertutto in Europa. Sull’isola spagnola di Mallorca davanti un negozio è comparso un cartello con su scritto: “vietato l’ingresso ai cani e ai romeni...”». Mentre la deputata Minodora Liveti propone a Strasburgo una struttura parlamentare mista Romania-Italia.
Intanto, il pacchetto di misure messo a punto da Maroni - con la collaborazione dell’avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini - è quasi pronto. Un testo di 40 articoli con norme per garantire la certezza della pena e il contrasto dell’immigrazione clandestina. Oggi è prevista l’ultima limatura, poi dopo un vertice interministeriale a Palazzo Ghigi l’articolato verrà inviato al Quirinale per valutarne i presupposti di necessità e urgenza e nella settimana tra il 19 e il 25 maggio prossimo verrà portato nel Consiglio dei ministri in trasferta a Napoli.
Stretta sulla Gozzini Taglio ai benefici di legge per i reati gravi come rapine, maltrattamenti familiari e violenza sessuale, furti e droga. Aumento delle pene minime per i reati di maggiore allarme sociale. Sospensione condizionale della pena solo sei si dimostra di essersela meritata. E ancora, carcere per chi guida ubriaco. Nasce il reato di rapina in appartamento, punito con il carcere da 4 a 20 anni. Fino a 6 anni come minimo della pena per chi commette una rapina.
Rom e comunitari Chiusura delle frontiere e blocco del trattato di Schengen (di cui la Romania ancora non fa parte) per stoppare il flusso della criminalità rumena. Smantellamento definitivo dei campi rom abusivi ricorrendo ad arresti ed espulsioni. Spostamento dei campi nomadi lontano dai centri abitati, in accordo con i sindaci: oggi Maroni incontra Alemanno (Roma), la prossima settimana Chiamparino (Torino) e Moratti (Milano).
Clandestini nei Cpt-prigioni Con l’aggiornamento della Bossi-Fini in senso restrittivo, torna in auge il reato di immigrazione clandestina: carcere per chi tenta di entrare in Italia o si trova sul territorio violando il testo unico sull’immigrazione del ‘98. Arresto in flagranza, processo per direttissima, una pena che va da 6 mesi a 4 anni ed espulsione come conseguenza della condanna. I dieci Centri di permanenza temporanea verranno quindi trasformati in centri di detenzione temporanea per evitare di far scoppiare le carceri. Permanenza per 18 mesi dei clandestini, contro i 60 giorni attuali. Verranno riaperti i Cpt di Brindisi, Ragusa e Crotone chiusi dalla commissione De Mistura voluta da Amato.
Stop agli sbarchi L’antirivieni delle carrette del mare deve finire: è questa la parola d’ordine della Lega e di tutto il Pdl. Le imbarcazioni verranno fermate in alto mare, oltre le acque territoriali. Pattugliamenti marittimi contro i gommoni di clandestini (attualmente la Marina con 2 navi opera con controlli e salvataggi nelle acque internazionali).
Asilo e rincongiungimenti familiari: stretta sulla procedure di asilo e controllo del Dna per gli stranieri che chiedono il ricongiungimento familiare.
Carlo Federico Grosso, avvocato e professore di diritto penale: «L’esame del Dna è incostituzionale». E sull’intero pacchetto Maroni dice: «Il blocco degli sbarchi è essenziale ma l’introduzione del reato di immigrazione clandestina aggraverà il sistema giudiziaro e penitenziario. La Gozzini? va modificata non abrogata». Scettico anche il sindaco Chiamparino e ministro ombra del Pd: «Come si configureranno questi provvedimenti? Non sarebbe la prima volta che ai grandi annunci segue poi un topolino dalla montagna». E interviene anche Sandro Gozzi, Pd, ex presidente del comitato Schengen: «Proposte Maroni isolate a livello europeo».

l'Unità 12.5.08
Rifondazione, Vendola va alla sfida con Ferrero
Il presidente della Puglia si candida alla successione di Giordano. Congresso a fine luglio


NICHI VENDOLA, presidente della Regione Puglia, ufficializza la propria candidatura alla segreteria di Rifondazione Comunista in conferenza stampa, in una sala interrata del Centro congressi di via dei Frentani a Roma affollata di esponenti del suo partito (in
buona parte firmatari della mozione, da Franco Giordano a Gennaro Migliore, da Francesco Forgione a Patrizia Sentinelli, da Titti De Simone ad Alfonso Gianni, Michele Di Palma, Rina Gagliardi, Elettra Deiana, Massimiliano Smeriglio, Luigi Nieri).
Si sono appena trasferiti dalla sede dove, fino a pochi minuti prima, durante il Comitato Politico Nazionale, si era animatamente discusso su pesi e contrappesi del prossimo appuntamento congressuale fissato per la fine di luglio. Comitato politico finito con un sostanziale pareggio tra i militanti dell’area bertinottiana (che esprimono la candidatura di Vendola) e quelli legati all’ex ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero. Nel merito del regolamento i primi hanno ottenuto una vittoria cancellando l’idea di un congresso «a tesi» (non basato cioè su mozioni contrapposte), così come richiesto da Ferrero. Mentre quest’ultimo ha prevalso sulla modalità del voto nelle sezioni (che avverranno subito dopo la conclusione del dibattito, e non qualche ora dopo come chiedevano i bertinottiani).
Alla fine le mozioni saranno cinque (oltre alle due che hanno per primi firmatari Vendola e Ferrero, si contano quelle dell’Ernesto - Fosco Giannini e Gianluigi Pegolo - di Falce e Martello - Claudio Belotti - e del binomio Franco Russo e Walter De Cesaris, che chiedono di attraversare questa fase senza eleggere un segretario).
Nella sala di via dei Frentani (non quella inizialmente scelta, in quanto già occupata dal Pdci di Oliviero Diliberto) Vendola parla subito dopo Giordano. Il segretario dimissionario ha appena dichiarato che non farà parte degli organismi esecutivi che usciranno dal congresso, e non ha risparmiato, sul tema delle dimissioni, una stoccata all’ex ministro Paolo Ferrero: «Dovrebbero farlo tutti quelli che hanno avuto compiti direttivi, anche nel governo del Paese».
Quando Vendola si alza per parlare viene coperto da un lungo applauso che fa per zittire. Tanto che Luigi Cogodi, deputato uscente, scherza: «Era per Giordano», smorzando un’atmosfera che continua ad essere abbastanza tesa.
Il presidente della Regione Puglia lascia passare venti minuti prima di dare ufficialità alla notizia già nota della sua candidatura. La iscrive in un discorso più ampio, che parla del partito e del Paese. «Dobbiamo ricostruire nel Paese i luoghi e le pratiche dell’opposizione per esprimere un pensiero politico forte di alternativa». Ricorda (ai giornalisti, perché gli altri si immagina lo sappiano) di essere stato tra i fondatori del Prc e di aver costruito questo partito «attraversando il territorio», battendo i collegi della Sicilia, provando a spiegare quale fosse il progetto del Prc («e non era solo un non voler rinunciare al Pci»). Oggi, quello che si definisce «un candidato eccentrico per un’impresa ardimentosa», sembra essere stato chiamato allo stesso compito politico dalla sua comunità politica (o almeno da una parte di essa): portare avanti il partito senza gettare avanti i soli simboli. È lo schema enunciato nello slogan «salvare Rifondazione per ricostruire la sinistra».
Anche Fausto Bertinotti ha firmato la mozione, informa (segue applauso), e lo ringrazia per la generosità di essersi candidato a premier conscio del fatto che la disfatta era dietro l’angolo: «Aveva le idee ben chiare sulle radici di una sconfitta che veniva da lontano. È stato lui a parlare per primo di inizio della scomparsa della sinistra politica».
La corsa tra i due progetti (quello di Vendola che punta a rivitalizzare una costituente della sinistra e quello di Ferrero che si schiera a difesa della radice del partito, allargandolo ai partiti più prossimi) è ufficialmente partita. Per adesso nessuno può dirsi in testa. e.d.b.

l'Unità 12.5.08
Pdci. Fissato il Congresso contemporaneo al Prc


Il comitato centrale del Pdci ha approvato ieri la linea politica proposta dal segretario Oliviero Diliberto e ha deciso di fissare la scadenza per il proprio congresso nazionale in parallelo con quello di Rifondazione (a Chianciano dal 24 al 27 luglio), per rilanciare il messaggio politico della riunificazione dei comunisti. Dopo due giorni di dibattito la decisione è stata pressoché unanime, un solo voto contrario. La posizione di Diliberto, che proponeva la inemendabilità del documento congressuale, ha subito delle critiche, ragione per cui alla fine si è deciso che sarà la commissione politica, anch’essa eletta , a valutare se la sintesi sarà sufficientemente unitaria da consentire emendamenti al congresso oppure se chi non condividesse il documento sarà costretto a presentare documenti alternativi. Spiega Diliberto: «La nostra linea è ricostruire la sinistra partendo dai comunisti. Per questo rilanciamo la proposta, rivolta a Prc di un processo di riunificazione».

l'Unità 12.5.08
Claudio Fava Il coordinatore: ci rivolgiamo a chi ha voglia di una nuova politica, dai girotondi a «Libera» agli autoconvocati di S. Giovanni
«Ora proviamo a rifondare la sinistra. Democratica»
di Eduardo Di Blasi


«C’è bisogno di maggiore partecipazione e soprattutto di contaminarsi. Noi non possiamo essere la mozione dei Ds che ha scelto di andare altrove. Fino ad oggi siamo stati questo: una mozione congressuale che con grande senso della coerenza ha tenuto ferma la propria posizione, e di questo va dato atto a Fabio Mussi. Però noi non possiamo essere più i “reduci” della mozione». Nell’indicare l’orizzonte nel quale si muove la Sinistra Democratica, il nuovo coordinatore Claudio Fava usa spesso la parola «apertura», ma parte dall’analisi della sconfitta elettorale, che, se «solo in parte» imputa «alle menzogne degli altri, al voto utile», ritiene da attribuire fondamentalmente alla «mancata verità nella Sinistra Arcobaleno quando diceva: “Siamo un nuovo soggetto politico alla prima prova elettorale”. Eravamo soltanto un cartello elettorale. Nel momento in cui insieme ci presentavamo sul palco di un congresso tenendoci per mano come boy scout, alcuni dei soggetti fondatori di Sa nelle piazze organizzavano il tesseramento per i loro partiti».
Che fare adesso?
«È un errore da non ripetere quello di ritenere che a sinistra si debba stare tutti insieme, a prescindere dalle vocazioni, dalle volontà, dalle categorie interpretative che si mettono in campo. Abbiamo condiviso questo percorso elettorale parlando allo stesso Paese ma con linguaggi diversi. C’era chi riteneva che il malessere, il disagio, la povertà diffusa potesse essere interpretata con il concetto di classe e di lotta di classe, senza rendersi conto che ormai la povertà sociale e la precarietà economica è una categoria profondamente interclassista che affligge il ricercatore universitario, l’operaio, il pensionato, l’operatore del call center. E quindi pieno rispetto per chi ritiene di dover rispondere a questo voto con la Costituente comunista. Noi scegliamo un’altra strada, che è quella di considerare una Costituente di sinistra un modo intanto per ripensare profondamente al modo d’essere, di parlare e di agire di questa sinistra».
Quando parla di Costituente di sinistra guarda a quello che sta succedendo dentro il Prc...
«Certamente. Ma tutto questo vorremmo farlo senza aspettare i congressi degli altri, e quindi senza dover dipendere dalla legittima discussione che si svolge a casa degli altri. Vogliamo rivolgerci a una parte di società che probabilmente nulla ha a che fare con Sd o con Prc, e che in questi anni si è mostrata e ha chiesto un nuovo senso politico. Penso alla provocazione salutare di Nanni Moretti a Piazza Navona, ai tre milioni che si ritrovano a Roma per tutelare l’articolo 18, agli autoconvocati di piazza San Giovanni, fino ai centomila di Bari, della grande manifestazione di Libera per riprenderci la lotta alla mafia come lotta civile di tutto il Paese. Insomma, esiste un Paese che non so se oggi partecipa, è schierato, milita nel nostro movimento, nel Prc, nei Verdi o altrove, ma che vuole essere rappresentato e che ha difficoltà ad accettare l’autosufficienza del Pd».
Come vi muoverete rispetto al Pd?
«Dobbiamo lavorare per un nuovo centrosinistra che nulla abbia a che fare con l’esperienza dell’Unione, che è stata pessima per la sua stagione di governo ma anche per la molteplicità di voci, di storie, anche di interessi che rappresentava . Noi pensiamo che il centrosinistra sia un luogo di politica coerente, ma dentro questo crediamo che ciascuno debba fare la propria parte con autonomia. Allo stesso tempo deve esserci una convinzione di fondo, e cioè che nessuno è autosufficiente. Che non è autosufficiente il Pd e non è autosufficiente nemmeno questa sinistra di nuovo conio. Questa autosufficienza sta nel senso e nella qualità di una collaborazione nel rispetto delle reciproche autonomie».
Per lei la fase è ancora fluida...
«Noi pensiamo di lavorare per un centrosinistra che possa incontrarsi nel merito delle scelte politiche. Tutto questo va fatto non attraverso processi di annessione ma nell’autonomia delle nostre posizioni e in un convincimento comune che soltanto un centrosinistra rinnovato può offrire una stagione di governo a questo Paese».

l'Unità 12.5.08
«Firmo la mozione di Nichi, lo sosterrò da militante al congresso»
Bertinotti alla Fiera del libro discute con Ostellino e Paco Ignacio Taibo II: «A sinistra c’è un grande vuoto da riempire»
di Simone Collini


«Il mondo è un grande mercato. La rivoluzione non è la presa del Palazzo d’inverno ma l’andar oltre l’ordine esistente»

«Un errore il tentato boicottaggio della Fiera del libro
Meglio manifestare per due popoli due Stati»

FIRMERÀ la mozione Vendola e, seppure a modo suo, farà campagna congressuale quando il confronto dentro Rifondazione comunista entrerà nel vivo.
Fausto Bertinotti fa alla Fiera del libro la sua prima uscita pubblica dopo la batosta elettorale del 14 aprile. Stringe mani, autografa libri, si fa fotografare con i tanti che lo avvicinano e glielo chiedono. Segnali di stima e affetto che gli fanno ritrovare il sorriso, dopo un mese di ritiro dalla scena, ma che non gli fanno cambiare idea circa il non voler più ricoprire incarichi da dirigente politico. Però seppure «da militante», come sottolinea rispondendo a chi lo avvicina per qualche domanda, si impegnerà per «riempire il vuoto che si è creato nella sinistra italiana». Nella stagione congressuale del Prc appena avviata e poi oltre. Perché se «non parlo di politica» è la premessa con cui blocca l’approccio del giornalista che gli chiede un commento sulle vicende politiche, Bertinotti è comunque intenzionato a occuparsi «sempre di più di cultura politica». Lo farà nelle vesti di presidente della Fondazione Camera dei deputati, evitando di entrare nelle beghe quotidiane e nei classici botta e risposta, ma comunque facendo sentire il suo peso.
Un esempio del taglio che avranno i suoi interventi lo ha dato ieri, parlando di lavoro e Costituzione con Piero Ostellino la mattina e poi, nel pomeriggio con lo scrittore Paco Ignazio Taibo II, del «mondo ridotto a un grande mercato», della necessità di una rivoluzione «che non è l’assalto al Palazzo d’Inverno ma il processo di superamento dell’ordine esistente», del fatto che «la coscienza di classe è necessaria ma non sufficiente, perché deve coniugarsi con la libera ricerca individuale del proprio destino». Solo passeggiando tra gli stand del Lingotto e dopo che qualche resistenza è stata superata vola più basso. «Firmerò la mozione Vendola», conferma, «e mi fa piacere l’accoglienza che ha avuto l’annuncio della sua candidatura a segretario». Non vuole commentare le decisioni prese al comitato politico del Prc, però assicura: «Parteciperò alla campagna congressuale». Si aspetta un bel congresso? «Sicuramente sarà un congresso importante», risponde cambiando categoria e lasciando intendere che non tutto quello che succederà nelle prossime settimane nel Prc apparterrà al piano della bellezza. «C’è un vuoto da riempire nella sinistra italiana e questo appuntamento offrirà un grande contributo per farlo». Nei confronti dei manifestanti filopalestinesi che ventiquattr’ore prima hanno sfilato a Torino gridando «Bertinotti peggio dell’antrace» non sembra nutrire risentimenti. Si cuce la bocca quando gli si chiede un commento, ma chi ci ha parlato nei giorni scorsi sa che l’ex presidente della Camera ha giudicato fin da subito «un errore» la proposta di boicottare la Fiera del libro per via dell’invito a Israele, che avrebbe preferito veder difendere i diritti del popolo palestinese con una manifestazione che avesse nella piattaforma la formula «due popoli due Stati». Quello che gli ha dato fastidio è che si sia detto che ha annullato l’incontro previsto per sabato perché temeva contestazioni. In realtà, spiega il suo staff, Bertinotti aveva chiesto al direttore della Fiera Ernesto Ferrero di concentrare in una sola giornata tutti gli incontri circa un mese fa, cioè ben prima delle contestazioni alla manifestazione di Torino del 1 maggio. Che comunque appartengono al passato. Dentro al Lingotto chi lo avvicina lo fa per ringraziarlo e per chiedergli di non abbandonare la politica attiva. Lui sorride, stringe mani e va avanti.

l'Unità 12.5.08
Basaglia, la dignità e il riscatto della follia
di Peppe Dell’Acqua


DOMANI CON L’UNITÀ a trent’anni dalla legge che porta il nome del grande psichiatra, il libro di Nico Pitrelli dedicato all’esperienza che condusse alla chiusura dei manicomi e alla biografia del suo ispiratore. Ne anticipiamo la prefazione

Il punto cruciale era dare finalmente voce alla sofferenza mentale e farla parlare contro i ghetti della psichiatria

Era il giugno 2002, e in un’affollatissima sala della Stazione Marittima di Trieste, stavamo presentando il libro Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio. A un certo punto, dal pubblico si alza un giovane che chiede la parola. Conclude il suo intervento con passione: «Vorrei dire solo questo: quanto, a noi giovani oggi, manca un Basaglia». Questo giovane era Nico Pitrelli, l’autore del libro L’uomo che restituí la parola ai matti, che domani i lettori troveranno in edicola con l’Unità. Mi sono chiesto e molti di noi presenti a quell’incontro l’avranno fatto, che cos’è che fa dire a un giovane, per giunta laureato in fisica: «Ci manca un Basaglia... ».

Ho conosciuto Franco Basaglia che Gorizia era già finita; lavorava da qualche anno a Colorno ed era nell’aria «l’inizio dell’avventura triestina». Era la primavera del 1971. L’occasione fu l’incontro Cus Parma-Cus Napoli. Siamo andati a trovarlo a Colorno, io e alcuni compagni, tutti laureandi in medicina, interni all’Istituto di Malattie Nervose e Mentali e giocatori della squadra di rugby dell’Università. A Napoli, negli anni caldi, avevamo letto L’istituzione negata. Stavamo già ereditando dal sessantotto interrogativi e problemi sulla professione che ci apprestavamo a intraprendere: il rapporto tra la nostra professione e gli apparati del potere e del consenso, il ruolo del medico a essi subalterno.... Era per tutti noi la prima volta che entravamo in un manicomio e non nascondo il senso di disgusto, di nausea, di panico che quel primo impatto mi provocò. Franco Basaglia ci accolse con familiarità, ci mise a nostro agio, ci parlava dandoci del tu. Oggi può sembrare strano, ma in clinica le gerarchie erano rispettate e noi studenti eravamo sempre all’ultimo posto della coda dei camici bianchi che si formava dietro al direttore, il quale mai si rivolgeva a noi direttamente.... Franco Basaglia ci disse che sarebbe andato a lavorare a Trieste e che cercava medici giovani. Avrebbe fatto di tutto per formare un gruppo di giovani psichiatri. Piú semplice – diceva – formare nuovi psichiatri in una pratica nuova, piuttosto che cambiare testa e cultura a psichiatri vecchi e già formati. Il rapporto con noi fu affettuoso, attento, duro.
Appena arrivati a Trieste, nel novembre del 1971 ci inviò subito «al fronte», nei reparti, con le nostre insicurezze, a contatto immediato con i problemi: la responsabilità, la gestione del reparto, l’assemblea, i rapporti con le gerarchie degli infermieri.
Passavamo giornate intere nei padiglioni di San Giovanni. A sera, in riunioni quotidiane difficili e spesso frustranti, affrontavamo i problemi della giornata, i nuovi programmi terapeutici, le storie degli internati che riemergevano. Di fronte all’impasse, ai vicoli ciechi in cui ci cacciavamo, Franco Basaglia riusciva sempre a spostare i termini del problema, a farci guardare da un altro punto di vista, a capovolgere le situazioni. Riuscí a spostare, a capovolgere, anche la nostra vita. Con Basaglia, senza accorgercene, abbiamo trovato la nostra strada, senza separazioni, senza dissociazioni: è la «lunga marcia attraverso le istituzioni» che ci ha indicato con il lavoro quotidiano, instancabile. Accettare la sfida del lavoro istituzionale: trasformare, creare nuovi spazi per agire, determinare momenti di vita e di creatività...
Un giorno di molti anni dopo, chiesi ad Antonio Facchin, infermiere già alla fine degli anni sessanta, che ha vissuto e partecipato al cambiamento, di organizzare una riunione con gli infermieri, gli ispettori, i capisala oggi ultrasettantenni. Vogliamo salvare la memoria del manicomio, dissi. E cosí che insieme ad altri, ho rivisto il vecchio signor Facchin, il padre di Antonio. Il vecchio Facchin ha cominciato a lavorare a San Giovanni nel 1947. È andato in pensione 25 anni dopo, nel ’72. Proprio mentre cominciava il lavoro di Franco Basaglia. Ha detto con rammarico: «Per 25 anni avevo sempre desiderato parlare con i medici, con i superiori; desideravo parlare dei malati, di quello che mi dicevano. Era vietato. Quando finalmente sono cominciate le riunioni, le assemblee e le porte aperte e perfino Basaglia una volta ha chiesto il mio parere, io sono andato in pensione». Ora, a distanza di tanti anni, un giovane, fisico, che si è avvicinato alla storia del grande cambiamento del manicomio nell’ambito di un Progetto di ricerca tra la SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) e il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, sulla comunicazione della «follia» e della storia delle istituzioni in psichiatria, ritrova il bisogno di raccontarci Basaglia e in lui e con lui, l’importanza del comunicare, dello sforzo di stare nelle cose e di aiutare chi forse fa piú fatica degli altri, a starci. Restituire, come dice il titolo del libro, la parola ai matti. Che sono, prima di tutto, persone, uomini e donne, con il medesimo, taciuto, urlato, disperato, inconfessato bisogno di riconoscersi e di essere riconosciuti come soggetti della propria esistenza, del proprio qui e ora. Stare nelle contraddizioni, anche la contraddizione di essere «diversi», «malati» e nel contempo con gli stessi sentimenti, le medesime pulsioni, i desideri di tutti. Gli «uguali», i «sani». Questa capacità dialettica che tuttora manca ovunque, e senza la quale è difficile, se non impossibile, avere e riprodurre direzione, senso, spessore, umanità. Comunicare questo, a se stessi, al mondo, a chi ci sta curando o dovrebbe farlo, è Basaglia, il suo lascito, il suo insegnamento. Il libro di Nico Pitrelli coglie sicuramente questa attenzione, questa urgenza che Basaglia ha posto nel rompere le barriere comunicative all’interno dell’istituzione manicomiale – il luogo della negazione assoluta della comunicazione.
L’altro aspetto che il libro certamente sottolinea è quello della capacità di sviluppare una comunicazione al di fuori del campo cosiddetto psichiatrico. L’Ospedale psichiatrico cosí come nasce e si costruisce – e Nico lo spiega bene nella parte storica del suo libro – è la frattura di questa comunicazione: le mura dell’ospedale chiudono un discorso e da quel momento in poi si tende sempre piú a far prevalere la ragione sulla follia, e la ragione diventa sempre piú «pulita», eliminando sistematicamente tutte le contraddizioni. Il discorso diventa sempre piú asettico, fino a rimandarci la freddezza, l’igienicità delle macellerie, delle camere mortuarie, dei tavoli di marmo, dove ogni cosa è al suo posto, in «ordine». Questo modo di comunicare intorno alla follia, alle persone che ne soffrono, è ancora oggi impregnato di questa logica, perché tutto viene comunicato a partire dalla negazione della persona. E tutto ciò che ha a che vedere con l’umano viene cancellato, non ha piú senso vedere che cosa le persone mangiano, come si lavano, come vestono, dove vivono, che rapporti hanno. Tutto nasce e viene riportato a una diagnosi. Se si leggono, oggi, i lavori «scientifici» della psichiatria si coglie la scomparsa dei luoghi, delle Istituzioni, delle persone. Della sofferenza, delle urla, dell’opposizione muta e sorda. Degli ambienti miseri, sporchi, vuoti. Delle porte chiuse, delle persone legate, dei corpi violati. Tutto viene restituito in quell’asettico linguaggio dove la singolarità scompare e ogni cosa viene riportata a medie, numeri, definizioni evidenti e indiscutibili.
Quando Basaglia si interroga su che cos’è la psichiatria e tenta di rispondervi, apre in realtà gli armadi, fa venire fuori gli scheletri, e nel momento in cui si denuncia, si svela, ecco che si apre anche il campo della comunicazione. Senza questo svelamento, Basaglia non avrebbe nulla da comunicare se non la piatta riproduzione della psichiatria stessa. Altri sguardi, altre orecchie, altre bocche possono finalmente giocare ora in questo campo comunicativo. L’apertura ai media, agli amministratori, ai politici, ai filosofi, agli artisti, agli architetti, diventa possibile perché finalmente questo terreno conquistato dalla psichiatria e difeso da muri alti e impenetrabili tanto concreti quanto simbolici è un terreno che mostra tutta la sua inconsistenza e tutta la sua violenza...Basaglia fa la prima grande campagna contro il pregiudizio e lo stigma, senza mai dichiararlo. Da quel momento, e nel libro ciò appare chiaro, il pregiudizio non ha piú niente a che vedere con quello che la gente pensa ma piuttosto con quanto i poteri e la scienza psichiatrica producono e riproducono instancabilmente, in termini di fratture, esclusioni, sottrazioni. Che cosa fa la psichiatria, è la domanda da farsi. In questo senso la chiusura dell’Ospedale psichiatrico assume il significato dell’unico intervento oggi possibile per far fronte allo stigma. Il libro mi sembra utile a partire da due considerazioni. La prima, molto generale e che però mi colpisce continuamente, è che i giovani dell’età di Nico sanno poco e i giovani che io incontro ogni anno al mio corso di psicologia sono desiderosi, sono proprio come terre secche che hanno voglia e bisogno di sapere...
L’impegno che Nico si è preso dicendo «quanto ci manca un Basaglia» lo ha mantenuto in questo libro, cercando di offrire ai giovani, ai suoi coetanei e molti altri, uno strumento piú che necessario. Credo che dicendo che ci manca un Basaglia, Nico voglia dire che ci manca uno sguardo obliquo, trasversale, dinamico, uno sguardo dialettico insomma. Oggi la spinta all’omologazione è irresistibile e nulla veramente mette in discussione un impianto di pensiero dominante; è difficile trovare uno spiraglio, un filo, una posizione dislocata per contrapporsi. La seconda considerazione è che questo libro mi tranquillizza rispetto al futuro. Ho avuto e ce l’ho tuttora, l’ansia che tutto vada dissipato, che la memoria di questa vicenda, di cui io penso non bisogna perdere nulla, vada invece perduta. Il libro di Nico contribuisce, assieme ad altri che mi auguro continueranno a venire, a costruire mattone su mattone una disponibilità di conoscenza utilissima alle generazioni del presente e a quelle future. Oggi tutti i percorsi di formazione in medicina, in psichiatria, in psicologia, in scienze infermieristiche sono percorsi che di nuovo hanno trovato il loro specialismo, la loro separatezza, la loro assoluta incapacità di rapportarsi a radici, di costruire continuità, coerenza, ponti, campi di tensione, possibilità di opposizione.

l'Unità 12.5.08
Storia della «180». Conquista minacciata da destra
di Stefania Scateni


Trent’anni fa, il 13 maggio 1978, veniva varata la legge 180, conosciuta anche come legge Basaglia perché fu dal pensiero e dal lavoro di Franco Basaglia e dei colleghi che lo sostennero nella battaglia per riportare i matti a essere considerati persone, che tale legge nacque. L’abolizione dell’istituto manicomiale ne era l’aspetto più evidente. In realtà incarnava (se una legge può farlo) una vera e propria rivoluzione culturale. Che ha cambiato il volto della salute mentale nel nostro paese: vi si considerava la malattia mentale come una «malattia», alla stregua cioè delle altre malattie, e non uno stigma incancellabile, e capovolgeva il modello manicomiale precedente basato sul segregamento, la custodia, il controllo, riconoscendo alle persone sofferenti di disagio mentale una dignità e una cittadinanza fino a quel momento negate. Fu un progetto ambizioso, che chiuse i manicomi e vietò di costruirne altri e che prevedeva un progetto di rete territoriale diffusa per l’accoglienza e la cura delle malattie mentali. Un progetto pilota: nel 2001, anno dedicato alla salute mentale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ricordato l’esperienza italiana come modello da seguire. Ma cosa è successo in questi trent’anni? È successo che nella maggior parte del nostro paese sono presenti servizi attivi giorno e notte, centri diurni di riabilitazione e cooperative sociali, ma sono ancora molto forti le resistenze alla piena applicazione della legge (sono ancora tanti i centri di Salute Mentale senza fondi sufficienti, ad esempio) e numerosi i tentativi di modifica della 180 (tutte le proposte di riforma sono state presentate in Parlamento dal centro destra) che vorrebbero chiudere i ponti tra strutture sanitarie e territorio per riesumare gli ospedali psichiatrici sotto forma di cliniche private. Ecco perché continuiamo a parlare della legge di riforma psichiatrica 180/78 e a ricordare Franco Basaglia. Perciò vi proponiamo di leggere, nella nostra collana «Le chiavi del tempo», (curata da Bruno Gravagnuolo), il libro Editori Riuniti di Nico Pitrelli L’uomo che restituì la parola ai matti (da domani in edicola con l’Unità a 6,90 euro più il prezzo del quotidiano), che ripercorre lavoro e impegno dello psichiatra che sperimentò per primo l’apertura dei manicomi a Trieste e che, con la sua intelligenza, umanità e capacità comunicativa, aprì la strada a una rivoluzione. In questa pagina anticipiamo l’introduzione al libro firmata dal direttore del Distretto di salute mentale di Trieste, Peppe Dell’Acqua, che con Basaglia ha condiviso questa rivoluzione.

l'Unità 12.5.08
La psicoanalisi spiegata da Trevi


Decano degli junghiani italiani, Mario Trevi è uno psicoanalista che non ha mai smesso di interrogarsi sulla natura del suo sapere e del suo lavoro, né di collocare questo lavoro su uno sfondo culturale ampio, libero da rigide appartenenze di scuola o da tentazioni dogmatiche. Ecco che ora, grazie a un lungo dialogo con Alessandro Fedrigo, ci regala un «manuale» che spiega cos’è il percorso psicoanalitico e psicoterapeutico. Dal setting (l’ambiente di lavoro) ai metodi, agli obiettivi e ai principi fondamentali che guidano il viaggio dentro se stessi. Trevi è un maestro nell’usare un linguaggio accessibile e del tutto privo di tecnicismi senza scadere nella banale semplificazione. Al centro della sua visione c’è il dialogo, chiave di volta della relazione terapeutica. «Penso che una psicoterapia che consista innanzitutto nella relazione dialogica non debba mai imporre verità ma sempre proporre modelli interpretativi utili in una particolare circostanza del dialogo. È in questo senso che lo psicoterapeuta esercita quel rispetto del paziente che è implicito nel concetto di dialogo».
Dialogo sull’arte del dialogo, M. Trevi, A cura di A. Fedrigo pagg.156, e.12,00 Feltrinelli

l'Unità 12.5.08
Pacchetto sicurezza. Giustizieri di governo
di Luigi Manconi


Secondo l’antica tecnica della Caricatura dell’Avversario, utilizzata fin troppo spesso nei confronti degli esponenti del centrodestra, mi è capitato talvolta di definire gli uomini più vicini a Silvio Berlusconi come «garantisti verso i potenti, giustizialisti verso i deboli». Come in una tardiva rappresentazione dadaista, quella tecnica della Caricatura ha preso vita, animandosi scompostamente nelle ultime ore e materializzandosi, non ancora negli atti, ma già nelle parole del governo appena insediatosi. Se si intersecano alcune dichiarazioni del nuovo ministro della Giustizia, Angelino Alfano, raccolte dal Corriere della Sera, e un’intervista a Niccolò Ghedini, pubblicata dal Sole 24 Ore, si ha una plastica - e a tratti imbarazzante - raffigurazione di ciò che Giovanni Sartori ha definito «l’incompetenza al governo».
E, infatti, la truculenza di alcune dichiarazioni risulta tanto tronfia quanto priva di plausibilità e di credibili fondamenti. Il nuovo ministro della Giustizia afferma che non ci saranno più indulti con la sbrigatività propria di chi intende voltare una brutta pagina scritta dal governo precedente.
Dimentica, così, di esser stato tra coloro che, quella misura di clemenza, approvarono: così come fece la maggioranza dei membri dell’attuale esecutivo, incluso il ministro delle Infrastrutture, il dirigente di Alleanza Nazionale Altiero Matteoli (uno di quei pochi galantuomini che, quel voto a favore dell’indulto, non ha mai rinnegato). Per contro, il ministro Alfano si affida, anche lui, all’utopia negativa del «più carcere per tutti», ignorando evidentemente alcuni elementari dati di realtà: 1) la realizzazione di un nuovo istituto penitenziario richiede un tempo medio equivalente a circa tre legislature. E nel frattempo? 2) l’indice di carcerizzazione del nostro paese (la percentuale di detenuti sulla popolazione complessiva) è pari a quello registrato alla fine del secondo conflitto mondiale, in una società allora attraversata da una crisi sociale ed economica, politica ed istituzionale, oggi inimmaginabile; 3) il governo Prodi ha fatto sì che, attraverso opere di ristrutturazione, nei prossimi mesi e anni saranno disponibili circa quattromilacinquecento posti in più. Complessivamente, la capienza delle carceri italiane è adeguata a un paese che non è sull’orlo di una guerra civile né preda inerme di bande criminali che lo assediano. Se, poi, combiniamo le dichiarazioni di Alfano con quelle di Ghedini, parlamentare del Popolo delle Libertà e avvocato del premier, ecco che le anticipazioni sul «pacchetto sicurezza», annunciato dal governo assumono quel tono, appunto caricaturale, di cui si diceva. Non si tratta solo della brutale negazione di alcuni principi fondamentali dello stato di diritto, ma anche dei tratti, un po’ farseschi e un po’ temibili, di una maschera dalla «faccia feroce». Intanto, una pirotecnica rappresentazione minacciosa, poi si vedrà. Ghedini evoca una revisione della «legge Gozzini» e di una drastica limitazione del ricorso a benefici come le «pene alternative». Sorprende che a un avvocato, e del suo calibro, sfugga ciò che qualunque agente di polizia penitenziaria potrebbe confermagli. Ovvero che proprio la «legge Gozzini» è stata, e tuttora è, la ragione principale che ha bloccato la spirale di rivolte violente all’interno delle carceri italiane negli ultimi decenni. E sorprende che alla competente giornalista, Donatella Stasio, che gli ricorda come la recidiva tra quanti scontano l’intera pena in carcere sia più di cinque volte maggiore della recidiva di chi sconta la pena in misure alternative, Ghedini non abbia semplicemente saputo rispondere. Infine, sono numerose in queste ore le voci che annunciano l’intenzione di configurare come reato la violazione delle norme sull’ingresso di soggiorno nel nostro paese. Anche questo corrisponde a una utopia negativa, costantemente riproposta dalla destra: basterebbe considerare come una tale misura si sia rivelata totalmente inefficace negli Stati Uniti per riconoscerne il carattere tutto velleitario. E tutto ideologico. Non solo: c’è un problema, e tutt’altro che secondario. La libertà di movimento è diritto fondamentale della persona: è comprensibile, e può considerarsi persino ragionevole, che gli stati nazionali vogliano contenere e controllare i flussi migratori attraverso misure di vigilanza, restrizione degli accessi e, se necessario, respingimento. Ma ciò attiene alla sfera delle politiche, appunto, delle scelte di governo, dei provvedimenti di controllo, dettati da criteri di opportunità, da necessità congiunturali, da esigenze di ordine pubblico. Tutto ciò, se pure accolto, non si traduce - non deve tradursi - nella negazione di quel diritto fondamentale alla libertà di movimento, che - se classificato come fattispecie penale - risulterebbe gravemente conculcato. Grazie al cielo «c’è un giudice» a Roma (o almeno dovrebbe esserci): e la costituzionalità di una simile alterazione del diritto appare davvero dubbia. In ogni caso, staremo a vedere: si dovrà capire, in primo luogo, se siamo in presenza degli ultimi sussulti di una campagna elettorale diretta alla «galvanizzazione sentimentale delle masse» in senso xenofobo, o dell’annuncio di una stagione davvero brutta. E inclemente.

l'Unità 12.5.08
Se la sinistra si scopre antica
di Luigi Cancrini


Caro professor Cancrini,
vedo vincere il partito del non senso, del non pensare, quello che ci ha abituato a una informazione acritica, di poco spessore, che dal 1980 a questa parte, ci ha prima affascinato ad un edonismo possibile, di facile accesso a chiunque, poi, lentamente, ci ha sbattuto in faccia l’altra faccia della medaglia, il degrado e la violenza di quella civiltà che l’edonismo lo sposa, per poi, quando non ha più i mezzi, soppiantarlo con un relativismo compensatorio. E quando anche questo non regge più, perché non offre “stile”, si cerca allora di mettersi all’ombra del pragmatismo più spicciolo, quello del conveniente riflusso, del grido allo straniero interno, del morte tua, vita mea. Dove dei comunisti si ha paura e si dice (ti parlo di mio nipote e due suoi compagni diciottenni) che Marx è un pazzo, uno che voleva attentare alla proprietà privata! Forse ci siamo giocati la testa, la riflessione, il confronto, l’appartenenza, la causa, la morale, l’etica, il divino, il qualcosa in più che, lotta o non lotta, ci differenziava dagli altri esseri viventi. Certo, quello che accade e accadrà, porterà forse a disseminare i semi di una rinascita, di solito nelle crisi sociali e nei mutamenti già esistono i semi in germoglio di una rinascita ma quelli, per sbocciare hanno bisogno di qualcuno che li annaffi, anche se la provvidenza divina, con il vento e la pioggia ci penserà autonomamente. Ma forse pensando così sono antica. Forse tutto questo modo di ragionare (e di educare o di rieducare nelle nostre comunità) non è più di moda, non serve o non basta. Tu che ne pensi?
Antonella Vitti

Penso che sia vero. Che può darsi, sul serio, che chi la pensa come te (me) sia “antico”. Fuori dalla storia di questi anni, da questo modificarsi insidioso del costume e delle gerarchie dei valori. Davvero, essere a sinistra suona sempre più vecchio, superato, nobile ma “inutile”. Incapace di incidere sul presente: un presente che si riconosce, anche se dispiace, nei sorrisi di Mara Carfagna e di Stefania Prestigiacomo e, più in generale, nei volti degli uomini e delle donne che formano il nuovo Governo del paese. Che ne penserebbe se fosse vivo, oggi, Marx? Che giudizio darebbe, del conflitto sociale alla base di questa società che è insieme gaudente e tesa, ricca di risorse e segnata da contraddizioni così forti? Il primo punto su cui insisterebbe, penso, è quello legato alla forbice sempre più drammatica fra le aspettative e le possibilità che si sta determinando per un numero sempre più grande di persone. La realtà delle fiction pubblicitarie legate al mondo dei consumi possibili, è una realtà riservata ad una quota minoritaria della popolazione. Il mondo dei Vip, un mondo, su cui si strutturano i sogni di tanti adolescenti è un mondo che somiglia, forse, a quello delle corti (sto pensando a Versailles ed al Re Sole) cui pochi avevano accesso e che sono restate nei manuali di storia, tuttavia, come il simbolo di un tempo e di una civiltà. Ne ho avuta una sensazione mentre sul video scorrevano le immagini del party tenuto al Quirinale in occasione del giuramento e ho pensato (rabbrividendo?) che il settecento francese, fino al 1798, è ricordato per le persone (i Vip del tempo) che mangiavano brioche non per quelle che avevano fame. Quando quelli che non esistono e di cui non si prende in considerazione l’esistenza sono troppi tuttavia, qualcosa accade. Anche se i tempi di questi accadimenti sono lunghi e difficili da reggere per gente che, come te (me), sta dedicando il suo lavoro e la sua vita ai tossicodipendenti che arrivano, in Comunità. Affrontando sé stessi, il dolore che li ha condizionati e la fatica di un vivere segnato a lungo comunque, comunque vada, dalla loro diversità. Dalle loro fragilità. Di cui si pensa, quando riprendono a vivere ed a lottare, che avrebbero diritto ad un mondo diverso. Migliore di quello da cui sono stati emarginati.
Il secondo punto su cui Marx rifletterebbe, credo, è la differenza straordinaria fra la cultura all’interno della quale lui operò, una cultura del libro in cui le cose sono scritte ed hanno una loro esistenza concreta e quella in cui crescono ed operano i giovani di oggi, una cultura del segno e del messaggio rapido in cui le informazioni corrono e si sovrappongono continuamente senza lasciare traccia. Tessere di un mosaico che si compone e si scompone su uno schermo. In cui le idee (Berlusconi l’ha capito prima di noi) vanno suggerite invece che argomentate. L’operazione dell’intelligenza, mi viene da pensare, corrisponde oggi sempre di più al tentativo di ordinare, catalogandole in fretta, il flusso di informazioni in cui siamo immersi e che sono, in qualche modo, essenziali per la nostra sopravvivenza. C’è una differenza fondamentale di (forma delle) operazioni intellettuali necessarie per mettere in piedi uno scambio di lettere ed uno scambio di Sms. La scrittura e la lettura di una lettera presuppongono sviluppi temporali e tentativi di capire sé stesso o l’altro possibili solo all’interno di quei tempi mentre quella che serve a scambiare Sms è un’intelligenza basata sulla rapidità della comprensione e sulla flessibilità della reazione. Passare dal grande numero di vocaboli che serve per dettagliare i propri stati d’animo, le richieste e le aspettative a quello ristretto di chi comunica oggi su stati d’animo in continuo e leggero mutamento corrisponde ad un mutamento antropologico di fondamentale importanza nella comunicazione personale e politica. I tempi della riflessione e dell’approfondimento diventano un lusso per chi vive un tempo come il nostro. Sta nella difficoltà di capirlo la ragione più semplice del nostro sentirci (e probabilmente) di essere “antichi”. Questo modo di essere “antico” continua ad essere utile, forse, nel lavoro che facciamo, cara Antonella, nel confronto con chi sta in crisi e cerca di riorientarsi ma funziona poco o niente nel rapporto con quelli che in crisi non sono o non si sentono. Con cui dobbiamo cercare altri modi di comunicare o di “suggerire”.
Quelli che si sono accorciati con le nuove generazioni, penso, sono i tempi dell’attenzione che ti viene accordata quando parli. Loro, i giovani di oggi, hanno bisogno di comunicazioni semplici e rapide. A noi che da sinistra crediamo che la storia abbia un senso e un divenire, il difficile compito di trasmettere quello che abbiamo capito nel modo che loro possono sopportare ed utilizzare. Suscitando interesse, curiosità, simpatia senza pretendere (o sognare) di indottrinarli. Il mondo verso cui si va è più loro che nostro e sarebbe un peccato se, per una incapacità nostra di trovare il linguaggio giusto, dovessero affrontarlo senza mettere a frutto quello che noi abbiamo capito con tanta fatica. Le cose che abbiamo da raccontare e da spiegare saranno perse per sempre se non ci riusciamo.

Corriere della Sera 12.5.08
Lo storico Canfora: attenti ai manuali per le scuole, qualcuno cercherà di infilarci questi concetti
«Rivalutazioni striscianti da bloccare subito»
di Monica Guerzoni


ROMA — Avrà pure prosciugato le paludi e realizzato il quartiere del-l'Eur, ma non si può affermare che il fascismo abbia modernizzato l'Italia. E bisogna andarci cauti con le «rivalutazioni striscianti» avverte Luciano Canfora — storico e saggista — perché se si legge la storia restando alla superficie si rischia, via via, di «mettere in pericolo l'architrave della Repubblica».
Il Ventennio «fondamentale» per la modernizzazione. Concorda con Alemanno, professore?
«Posso fare una premessa?».
Prego.
«L'autoproclamazione del sindaco, che dice di non essere fascista, vale fino a un certo punto. Può darsi anche che si sia pentito, ma una persona adulta non cambia repentinamente i propri convincimenti profondi. Rispettiamo l'autoconversione, però conserviamo un punto interrogativo sulla sua profondità».
Alemanno superficiale?
«La conferma della superficialità è proprio nella sostanziale rivalutazione del bilancio positivo del fascismo. Ricordo che nei primi anni '90 Berlusconi e Fini tracciarono un bilancio positivo del fascismo fino alle leggi razziali del '38. È una frase buffa, perché il fascismo sin dal '19 proclamò di essere razzista. Un dato che non può essere camuffato».
Però Alemanno parla solo della modernizzazione. Secondo lei non ci fu?
«Il sindaco riecheggia notizie prese di qua e di là. Gli storici dicono che negli anni '30 l'intera Europa vide un processo di modernizzazione, connessa al grande sviluppo industriale e al capitalismo maturo. Si sarebbe prodotto comunque, indipendentemente dal regime politico».
Mussolini prosciugò le paludi, fece edificare l'Eur e realizzare le infrastrutture.
«Anche Cesare aveva pensato modifiche di quel tipo. Fa parte dell'esercizio del potere dare corpo a un piano di lavori pubblici in un'epoca di relativa pace, ma non può essere il biglietto da visita di un regime. C'è un campo in cui è doverosa l'osservazione critica e cioè i fortissimi passi indietro dal punto di vista del principio di rappresentanza. L'Italia fascista fu imbrigliata nel corporativismo e le donne ottennero il diritto di voto solo dopo la Liberazione».
Non avrà paura che si torni ai figli della lupa, al sabato fascista, al salto nei cerchi di fuoco...
«In quegli aspetti c'è una forma supplementare di equivoco. Nessuno è contrario all'educazione completa, anche fisica. Ma nel caso del fascismo, con cose tipo libro e moschetto, si fece un uso distorto del culto del corpo e della violenza».
Nulla da rivalutare, dunque?
«Questo tipo di rivalutazione strisciante è nell'aria e bisogna stare attenti ai manuali per le scuole, dove prima o poi qualcuno comincerà a infilare questi concetti. Noi abbiamo una Costituzione scritta che discende direttamente dalla Resistenza e dalla lotta di liberazione, attenti a non mettere in pericolo l'architrave della nostra Repubblica».

Corriere della Sera 12.5.08
Il caso Maria Sciancati della Fiom fece parlare in assemblea un presunto neo Br, poi prosciolto. Il leader Rinaldini solidale con lei
La dirigente che sta spaccando la Cgil: sono una vittima
di Marco Cremonesi


La dura della Fiom Ex operaia Maria Sciancati, 66 anni, 30 passati alla Borletti. No al neoterrorismo
«La Fiom permeabile al neoterrorismo? Sono sciocchezze». La «sberla» elettorale e il no a Veltroni

MILANO — Nessuna difficoltà ad ammetterlo: «Sono una vecchia comunista». Maria Sciancati, classe 1942, da due anni è a capo della Fiom milanese, i metalmeccanici, la più antica (e antagonista) delle categorie Cgil. Il sindacato l'ha sospesa per sei mesi perché un anno fa permise che un ex delegato finito nell'inchiesta sulle «Nuove Br» (poi prosciolto) partecipasse a un'assemblea. La decisione è piovuta nel bel mezzo dell'aspra discussione sul nuovo modello contrattuale, e ha incendiato le polveri nella Cgil. Con il segretario Fiom Gianni Rinaldini che ha minacciato di seguire la Sciancati in caso di conferma del provvedimento. Ma in discussione di fatto è la tenuta unitaria della maggiore confederazione.
Lei, di questo non vuole parlare: «Mi considero una vittima di questa vicenda. Ma da vecchia comunista, sono molto rispettosa delle regole». Come pure non si esprime sulla possibilità che la Fiom sia permeabile al neoterrorismo: «Son sciocchezze: Ma ora, qualunque cosa si dica, è sbagliata». Sciancati è proprio della vecchia scuola. Entra in Borletti poco più che adolescente e ci rimane per trent'anni: «Era molto dura, Borletti era un padrone-padrone, e nei primi dieci anni non ho fatto un mese intero senza scioperi. Però, io amavo la fabbrica. Al 70 per cento eravamo donne, la solidarietà era concreta». E c'era la sezione interna del Pci: «Il punto di riferimento era Pietro Ingrao. A Milano, nessuno in particolare: c'era Cervetti, i miglioristi, non faceva per me». Poi gli anni più duri, quelli delle ristrutturazioni: «Da cinque stabilimenti ne rimase uno». E negli anni Novanta, qualcosa si rompe: «Un certo tipo di lavoratori va in pensione e finisce un'era, quella della solidarietà tra generazioni».
Nel 2000 il salto nella Fiom a tempo pieno. Dirigente della zona Sempione, la fabbrica per eccellenza si chiama Alfa di Arese. Sciancati non accetta che si consideri il maxistabilimento come un qualcosa di residuale: «Guardi che ci sono ancora oltre mille lavoratori. È una cosa che la Fiom può rivendicare». Dire Alfa è anche dire Cobas: «La rottura con loro è stata nettissima. Al mio passaggio, me ne gridavano di ogni colore. In assemblea, peggio».
Ma l'altra rottura, la più dolorosa, si era già consumata: «La Bolognina fu un dramma. Però, me ne andai senza esitare: sapevo che là dentro era finita». Con Veltroni, nulla a che spartire: «Non mi piace il suo nuovismo, il puntare tutto su comunicazione e immagine. E poi: io non penso che per essere di sinistra si debba avere le pezze al culo. Ma l'idea che si possa metter d'accordo tutti, beh, non ci credo ». Parla dei Colaninno e dei Calearo? «Massì, dai... Gli interessi sono oggettivamente diversi. E poi, ci sono molti imprenditori che padroni erano e padroni restano».
La sconfitta della Sinistra arcobaleno l'aveva annusata: «Una sberla terribile. Ma a prendere i mezzi pubblici lo si sentiva, i discorsi eran tremendi. Ma chiari». Però, «la sinistra neanche ci ha provato a far vedere una prospettiva. Sono arrivate le elezioni e abbiam fatto un cartello elettorale. Punto». Ma cosa c'è di così tragico nella contrattazione territoriale: «Eppure è semplice. Andrebbe bene se la contrattazione fosse estesa a tutte le imprese. Grandi e piccole. Purtroppo, così non è».

Corriere della Sera 12.5.08
1908-2008 Cent'anni fa nasceva il fondatore dell'epistemologia italiana. Fu antifascista e comunista
Geymonat, la scienza come pensiero
«Superò lo steccato tra le due culture per un sapere rigoroso»
di Giulio Giorello


Ciò che caratterizza la scienza come si è venuta definendo da Galileo Galilei in poi è la consapevolezza che «la conquista della conoscenza è opera non del singolo uomo, ma della comunità degli scienziati, i quali costituiscono una società aperta di spiriti liberi, insofferente a ogni controllo esterno». Così Ludovico Geymonat nel 1979.
Aveva ben presente che le maggiori difficoltà per una filosofia che si confrontasse seriamente con il patrimonio tecnico- scientifico stavano sia nello specialismo dei ricercatori sia in una sorta di «analfabetismo scientifico» di cui spesso si compiacevano in un misto di ignoranza e di supponenza non pochi «dotti» pensatori italiani. Ovviamente, Ludovico amava la cultura di quegli «umanisti» che sapevano capire come l'impresa scientifica stesse cambiando radicalmente le nostre vite: scrittori come Carlo Emilio Gadda, Italo Calvino o Primo Levi. Amava anche quegli scienziati che non si erano accontentati di conquiste specifiche ma avevano osato cercare la filosofia nelle «pieghe» delle singole discipline: illustri matematici come Federigo Enriques e Bruno de Finetti o maestri della fisica come Enrico Persico o, infine, biologi come Giuseppe Montalenti.
Non sopportava, invece, gli «accademici» che si trinceravano dietro una qualche formula come la celebre battuta di Benedetto Croce per cui la scienza non sarebbe altro che un «mero libro di cucina offerto agli uomini perché se ne valgano per produrre i tanti oggetti a loro utili nella vita». Geymonat, che era ben lontano dal negare la rilevanza teorica della tecnologia, considerava atteggiamenti del genere come una vera e propria fuga dalle responsabi-lità, a cominciare da quelle politiche. Detestava soprattutto «la timidezza di chi non osa affrontare direttamente i grandi problemi o cerca mediazioni equivoche tra concezioni antitetiche», specie quando diventava il tratto distintivo delle burocrazie di partito o dei velleitarismi pseudorivoluzionari. Era disposto a pagare il prezzo di qualsiasi «società aperta di spiriti liberi», accettando lo scontro più duro purché emergessero con la «massima chiarezza» le divergenze e fossero analizzate con «rigore spietato tutte le prove a favore e tutte le difficoltà» dei programmi in competizione.
A suo tempo Norberto Bobbio ha ricordato proprio sulle pagine di questo giornale (2001) la forza, talvolta caparbia, con cui Ludovico difendeva le sue idee, «sino a suscitare avversione da parte di persone meno concitate». A mio parere, quell'impeto era non solo la manifestazione di una «personalità fiera», ma anche una componente ineliminabile della sua «disperata sete di chiarezza». Per Ludovico «il rinnovamento autentico della cultura» non esclude il conflitto, lo promuove: in fisica, che si tratti di relatività o di meccanica quantistica, come in politica, quando si cerchi di modellare le istituzioni di una società libera e giusta. Antifascista convinto e coerente, militante del Pci e poi dissidente, democratico appassionato, amava ripetere: «Le idee sono pericolose, i fanatici di qualsiasi totalitarismo lo sanno bene». Ed erano davvero «pericolose» la cosmologia degli infiniti mondi di Giordano Bruno, arso in Campo dei Fiori, o la nuova astronomia di Galileo Galilei, costretto all'abiura dall'Inquisizione; ma anche la concezione evoluzionistica di Charles Darwin, attaccata dai bigotti dell'Intelligent Design, per non dire della «sovversiva » fisica di Albert Einstein, messa al bando dai nazisti, o della genetica «borghese » umiliata dagli stalinisti.
Oggi appaiono tali i traguardi raggiunti dalle biotecnologie come le insidiose concezioni della neurofisiologia che cominciano a gettare luce sulle basi materiali della coscienza. Per Geymonat «pericoli » del genere erano occasioni per sbarazzarsi di superstizioni e pregiudizi, intesi come veri e propri ostacoli sia alla crescita della conoscenza sia a una completa fioritura umana. Ostacoli prodotti talvolta dal vecchio «senso comune» che le nuove audaci concezioni non cessano mai di sfidare. Diceva David Hume che era bastato Galileo a insinuare il dubbio là dove prima c'erano solo «solide» certezze. Per Ludovico, quella «rivoluzione » non era ancora finita — e forse era questa sorta di rivoluzione permanente l'unica che valesse la pena di perseguire fino in fondo.
Il filosofo della scienza Ludovico Geymonat era nato nel 1908 a Torino

Corriere della Sera 12.5.08
Il conduttore di «Zelig» nei panni di un sindacalista in «Si può fare», storia del recupero di un gruppo di disagiati psichici
I matti di Bisio
«Commedia amara sui malati di mente Scene ispirate anche da Jack Nicholson»
di Valerio Cappelli


ROMA — Certo che quel titolo, Si può fare...
«Dovremmo chiedere il copyright a Veltroni — scherza il regista Giulio Manfredonia —, il film l'ho scritto nel 2004, molto prima che lui adottasse queste parole come slogan della campagna elettorale. È una frase che ricorre spesso nei nostri dialoghi». «Che possa portar sfiga, non so dirtelo», dice Claudio Bisio, il protagonista di questa storia che pesca dalla cronaca, trasferita da Noncello, in provincia di Pordenone, alla Milano degli anni 80. Poiché, come dice Manfredonia, l'Italia è il paese delle discriminazioni «ma anche del volontariato», siamo in pieno veltronismo. Bisio è un sindacalista, mestiere non proprio alla moda di questi tempi, li chiamano professionisti del veto. «Infatti lo emarginano. Le sue idee erano troppo avanti, è per la flessibilità ». E all'epoca il posto fisso era più fisso di oggi... «Infatti è lui che viene segato in una specie di mobbing. I capi del sindacato lo mandano a dirigere una cooperativa. Si ritrova in mezzo a una comitiva di matti. Lui li recupera, si rimbocca le maniche. È successo per davvero». Per il regista, è un ruolo inedito per Bisio il battutista. «Che mi piace essere e lo sarò ancora». Qui però niente battute. «Beh, non è una commedia, anche se ci sono diverse occasioni di divertimento». La scommessa è trattare con leggerezza un tema per niente leggero. Bisio è tornato a pieno regime al cinema, presto girerà I mostri di Enrico Oldoini con Abatantuono e Ex di Fausto Brizzi. «Non so perché tutti questi progetti insieme, forse è l'età. Sono contento».
Nel clima e in una scena, il film prodotto da Angelo Rizzoli (torna al cinema dopo 14 anni) e distribuito nel prossimo inverno da Warner, attinge alla splendida follia di Qualcuno volò sul nido del cuculo con Jack Nicholson, cinque premi Oscar. «Ci piacerebbe che in qualche modo fosse una continuazione— osserva Manfredonia —, lì c'è la metafora della vita sotto tutela, l'ordine e la rivolta. Qui è il dopo: una volta che la legge Basaglia stabilì che la gente non può più essererinchiusa,cosane facciamo, come renderli attivi?». E la scena in comune? «Nel percorso dei malati di mente esiste il problema dei farmaci, all'epoca erano potenti sedativi che ti stordivano con effetti collaterali che inibivano le funzioni sessuali». Quando il giovane psichiatra interpretato da Giuseppe Battiston ha la meglio sul collega vecchio stampo, Giorgio Colangeli, ai matti della cooperativa torna la voglia e in gita scolastica, il sabato pomeriggio, con la scusa di farsi finanziare un corso di socializzazione assoldano due prostitute. Sono consapevoli? «Altroché, si presentano tutti eleganti. Vanno a puttane e se ne innamorano ».
Uno dei «folli» del Cuculo, Christopher Lloyd, disse: «Non abbiamo fatto altro che essere noi stessi se fossimo pazzi». Manfredonia ne ha seguito le orme: «Il confine tra follia e normalità è labile. E il cinema deve ricostruire la realtà. Gli undici matti non lo sono anche se lo sembrano. Sono attori ancora poco conosciuti. È bastato un po' di trucco, un paio di occhiali, piccoli aggiustamenti. Abbiamo lavorato molto sulla recitazione, è servito il training coi veri disabili». Cos'ha scoperto? «Che dove pensi di trovare angoscia e disperazione, trovi vitalità, energia. La vita si infila nei posti più impensati. I veri matti sono ironici, fantasiosi. Dopo il training abbiamo riscritto il film da capo perché i suggerimenti dei disabili erano più divertenti ». Bisio il training non l'ha fatto: «Avevo letto che anche Nicholson non aveva incontrato i matti. Un giorno però il regista mi dice che era utile che andassi anch'io. Uno mi pulisce ossessivamente la giacca, un altro mi fissa, uno piange. Erano gli attori che si rapportavano ai personaggi. Ero sicuro d'essere finito a Scherzi a parte. Il mio personaggio all'inizio non sa bene dove l'hanno mandato, non distingue uno schizofrenico da un depresso». Sulla Tiburtina si gira la scena nel dormitorio della Caritas, c'è pure l'ufficio scalcagnato del sindacalista, il megafono, l'eroica Olivetti Lettera 32... «Ho le mie zone d'ombra, per esempio nel rapporto turbolento con la mia ragazza, interpretata da Anita Caprioli, che lavora nella moda». Così come il vero protagonista inventò dei mestieri per gli ultimi della società, il sindacalista Bisio spinge i «diversamente abili» a un mestiere vero: montare parquet. Il tentativo fallisce. Ma due schizofrenici hanno il gusto ossessivo di comporre pezzi irregolari e mentre Bisio va ai funerali di Berlinguer inventano il parquet «a mosaico», fatto con gli scarti. L'idea ha successo. Rischio buonismo? «Il rischio c'è — risponde il regista, 40 anni, cresciuto come aiuto di Comencini padre —, l'antidoto è la verità, per me che venivo da due favole al cinema, una bella sfida. Questa è una galoppata eroica. Ora che ci penso, anche il recupero delle anime perse è una favola».

Repubblica 12.5.08
Le idee nuove per l'opposizione
di Stefano Rodotà


Come fare opposizione oggi in Italia? Domanda ineludibile, risposta difficilissima. Spero, infatti, che nessuno pensi davvero che bastino le formule che circolano in questi giorni: "dialogo, dialogo"; "saremo severissimi, ma aperti, e voteremo ogni provvedimento condivisibile"; "ripartiremo dal sociale"; "e noi faremo come Attali"; e via banalizzando. La questione, peraltro non è solo italiana, e le difficoltà sono determinate da un insieme di fattori: la personalizzazione, che respinge i programmi sullo sfondo; la campagna elettorale permanente e la prepotenza dei sondaggi.
Sondaggi che immergono la politica in un eterno presente, rendendo sempre più difficile non dirò l´utopia, ma la stessa possibilità di considerazioni di medio periodo; il marketing politico, che "taglia" le proposte sul bisogno del consenso immediato e, quindi, sui diversi segmenti dell´elettorato, con il risultato che i programmi finiscono con l´essere, a un tempo, contraddittori, compromissori, illusori, sottoposti a tali e tante clausole "rebus sic stantibus" da risultare alla fine inutili. Quali strade seguire, allora, visto che contrapporre programma a programma è difficile, se non si cambia il modo in cui l´opposizione costruisce la propria cultura?
La riscoperta del governo ombra da parte del Pd non può essere un toccasana. Al massimo è un segno di buona volontà, ma è impresa non facile da gestire (quali i rapporti con i gruppi parlamentari e i loro presidenti?) e, soprattutto, può dare l´ingannevole sensazione che basti tallonare il vero governo per svolgere il ruolo che oggi si chiede ad una opposizione. L´esperienza italiana, invece, ci dice chiaramente che il punto essenziale è ormai rappresentato dal modo in cui si definisce l´agenda politica, dunque i temi nei quali l´opinione pubblica si riconosce e intorno ai quali si coagula il consenso. Il centrodestra, tanto nel 2001 che quest´anno, ha vinto le elezioni proprio imponendo la propria agenda, cancellando così quella di maggioranza e governo, che si sono giustificati sostenendo "non siamo stati capaci di comunicare", mentre era evidente che non si trattava di un problema di comunicazione, ma di inadeguatezza della propria proposta.
La costruzione di una seria agenda politica non può nascere da una attitudine mimetica, dal tentativo di muoversi sullo stesso terreno già individuato dall´avversario. L´imitazione, in politica, non è mai vincente. L´agenda proposta dall´opposizione deve sempre presentarsi come alternativa, anche quando affronta gli stessi temi al centro dell´azione della maggioranza. Questo richiede una cultura diversa, che è proprio quella mancata nella fase più recente, in cui centrosinistra e sinistra si sono caratterizzati per subalternità o genericità.
E´ dunque sul terreno della cultura politica che bisogna lavorare, come tanti sottolineano. Ma questo esige capacità di visione globale e di individuazione delle questioni davvero rilevanti, analizzandole con rigore e portandole davanti all´opinione pubblica in modo convincente. A titolo puramente esemplificativo ne elenco qui di seguito alcune.
1) La vicenda della pubblicazione su Internet dei dati riguardanti i redditi degli italiani, profili giuridici e risvolti grotteschi a parte, ha rivelato brutalmente l´enorme deficit di cultura tecnologica della quasi totalità della nostra classe politica. Ben prima di tecnologi e futurologi, gli antropologi avevano mostrato come il passaggio da un equilibrio tecnologico all´altro produca profondi effetti qualitativi. Ed è proprio qui che la politica deve esercitarsi, per comprenderli, valutarli, governarli. Viviamo, invece, immersi in un eccesso di attenzione per i temi eticamente sensibili, mentre l´innovazione tecnologica è percepita come qualcosa di inevitabile, e comunque da accettare perché portatrice di efficienza. Così la politica si consegna alla tecnologia, abbandonandosi a declamazioni ("un computer per ogni studente", "banda larga per tutti"), mentre l´avvento dell´Internet "sociale" e di quello "delle cose" esige strumenti affilati di analisi per comprendere la portata di quella che, da tempo e non a caso, è stata indicata come una "rivoluzione" quasi senza precedenti.
2) Anche nel corso dell´ultima campagna elettorale è affiorato il rapporto tra debito pubblico e dismissione di parti significative del patrimonio dello Stato. Di nuovo una semplificazione non più accettabile, accompagnata anche da qualche segno di schizofrenia. Per ripianare il debito, infatti, si è tornati a parlare di vendita di immobili pubblici adibiti ad abitazione e, al tempo stesso, si prometteva la costruzione da parte dello Stato e dei comuni di decine di migliaia di nuove abitazioni. Contraddizioni a parte, vale la pena di ricordare (lo ha fatto in un recente convegno dell´Accademia dei Lincei un grande esperto come Pellegrino Capaldo) che in questo modo si rischia di fare un gran regalo alla rendita fondiaria, mentre sarebbe tempo di una rinnovata riflessione sul regime giuridico dei suoli. Inoltre, grazie anche ai lavori svolti dall´Agenzia delle entrate e da commissioni ministeriali, disponiamo di elementi che permettono di guardare a modalità di gestione di particolari categorie di beni pubblici che possono renderli fruttiferi in forme significative anche in termini di Pil. Ed è ineludibile la questione dei vecchi e nuovi beni comuni, davvero tema cardine per l´assetto futuro delle relazioni sociali ed economiche all´interno degli Stati e nella dimensione globale.
3) Dopo anni di critiche alle politiche redistributive pubbliche ed alle "agenzie sociali della redistribuzione" (in chiaro: i sindacati) si aspetterebbe qualche parola netta sull´enorme redistribuzione delle risorse economiche operata attraverso il mercato tra 1983 e 2005. La Banca dei regolamenti internazionali ha documentato come la quota del prodotto interno lordo destinata ai profitti sia cresciuta in quel periodo dell´8.2%, mentre parallelamente precipitava quella destinata ai lavoratori. Dobbiamo continuare ad assistere silenziosi a questa vicenda, considerando intoccabile quel meccanismo di produzione dei profitti, magari benedicendoli in nome di una grossolana logica weberian-protestante? O siamo di fronte al più insidioso "fallimento" del mercato che, insieme a tanti altri, rappresenta un potente fattore, continuamente rimosso, di molte tra le insicurezze e le tensioni che ci circondano, e che incidono pesantemente anche sullo spostamento a destra del consenso?
4) E i diritti civili? Cancellati dalla campagna elettorale, non possono esserlo in eterno o venir sacrificati in nome di nuove alleanze al centro. Anche qui serve una strategia d´insieme. Che cosa si intende fare per quanto riguarda i temi eticamente sensibili e, per essere più chiari, quali saranno le iniziative riguardanti testamento biologico, unioni di fatto, procreazione assistita ? E che idee si hanno sulla deriva verso una società del controllo, della sorveglianza, della classificazione (torna qui il tema della tecnologia)? E le innegabili derive razziste? E sul terreno delle riforme istituzionali, che sembrano il terreno privilegiato delle intese bipartisan, si ha consapevolezza degli effetti sul sistema dei diritti che possono essere determinati dalle modifiche della forma di Stato e di governo, della legge elettorale?
5) E l´Europa? Il primo segnale, riguardante la sospensione del trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone, conferma le diffidenze mai negate da parte di settori significativi della maggioranza. Grande diventa, allora, la responsabilità dell´opposizione, perché è urgente ratificare il Trattato di Lisbona e soprattutto perché, dal primo gennaio dell´anno prossimo, diventerà giuridicamente vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea che espande proprio libertà ed autonomia delle persone.
Su tutti questi temi, e su altri che si possono aggiungere, si deve cominciare subito a lavorare. Parlando di nuova cultura, è qui la vera pietra di paragone.

Repubblica 12.5.08
Critiche da Ferrero. così si spacca la sinistra. E Diliberto: operazione di nuovismo
Prc, Bertinotti appoggia la candidatura di Vendola
L´ex premier in tv con Crozza. "Ci vorrebbe molto silenzio, farebbe bene molto bene per pensare il futuro"


ROMA - Appello al silenzio, stoccate agli alleati e al Pd veltroniano nel ritorno tv di Romano Prodi, ma anche recriminazioni per «il governo fascista» che oggi ha conquistato il paese. Collegamento telefonico con un salotto a lui caro, quello di Maurizio Crozza, col quale si era intrattenuto mesi fa nel pieno dei poteri del suo governo. Allora aveva garantito: «Resteremo in carica cinque anni». Poco profetico. Oggi torna per smentire l´intenzione di volersi candidare a sindaco di Bologna e togliersi qualche sassolino.
«Ci vorrebbe molto silenzio, il silenzio farebbe molto bene per pensare al futuro e invece tutti parlano, parlano, parlano» dice il Professore a proposito dei tanti big che a sinistra stanno discutendo delle cause della sconfitta e del Pd da costruire e radicale. Al comico che gli ricordava l´infausta previsione sulla durata del suo esecutivo, Prodi ha risposto: «Io ero tranquillo e sereno, soprattutto dopo l´approvazione della Finanziaria, certo di durare. Poi mi è arrivato un martello ad acqua... «. Quindi, i rapporti turbolenti con la coalizione che ha sostenuto il suo governo e che poi, in campagna elettorale, sembra avergli voltato le spalle. «Ma cos´è successo? Tutti che cercavano di evitarla, quasi non la conoscessero» infierisce Maurizio Crozza in diretta. E l´ex premier: «Io so solo che tempo fa ho incontrato un tizio che mi ha guardato un po´ storto e che mi ha detto: "Per colpa dei suoi amici oggi abbiamo un governo fascista. Glielo dica ai suoi amici"». Ad ogni modo, «in politica chi perde va a casa: applico a me stesso per primo questo principio che credo tutto il Paese si aspetta da tutti gli uomini politici».
Quindi, Prodi ha ribadito di non essere interessato a candidarsi alla poltrona di sindaco di Bologna: «Quando ho detto che mi sarei presentato al Senato per chiedere il voto l´ho fatto. Quando ho detto che non mi sarei presentato più, anche quella volta nessuno ci credeva, ma l´ho fatto». Tutto questo per concludere perentorio: «Quando dico una cosa la mantengo. Oggi sono un iscritto al Pd e basta». Semplice iscritto, insomma, nessun coinvolgimento nella guida e nella dirigenza del partito di Walter Veltroni. Poi il Professore si è fatto molto serio, quando Crozza gli ha chiesto se è vero, come dicono a destra, che ci sarebbe un buco nei conti. «Nessun buco, al contrario. L´Unione europea ha certificato che abbiamo operato bene. Vedremo tra qualche mese se l´Ue ha detto la verità o meno».
Su una cosa si è detto certo, l´ex presidente del Consiglio, a proposito del suo futuro che certo non sarà da nonno ai giardinetti. Ha spiegato che «nel mondo ci sono tanti problemi, basti pensare alle risorse energetiche disponibili, a come si può riflettere su cosa fare per la Cina o per l´Africa per capire come la mia esperienza può assumere significato».

Repubblica 12.5.08
Schiele, Klimt, Kokoscha. "Finis Austriae" e i suoi capolavori
"L´abbraccio di Vienna" a Como
Ottanta le opere esposte. La rassegna è un grande affresco dell'arte mitteleuropea
di Achille Bonito Oliva


COMO. Una mostra di solito documenta il proprio tempo oppure storicizza un´epoca che può riguardare un singolo artista o interi contesti culturali. Una mostra può anche progettare il passato. Produrre un evento espositivo che realizzi questo apparente ossimoro. Prova ne è "L´abbraccio di Vienna. Klimt, Schiele e i capolavori del Belvedere" (Como, Villa Olmo, fino al 20 luglio 2008, a cura di Sergio Gaddi e Franz Smola, catalogo Silvana Editoriale). L´esposizione raccoglie capolavori del Museo del Belvedere di Vienna, 80 opere che tracciano un itinerario dal Barocco attraverso la Belle Époque, il Biedermeier viennese, del Classicismo e del Romanticismo, i Nazareni, fino ad approdare alla Secessione, a Klimt, Schiele e l´Espressionismo di Kokoschka.
La scrittura espositiva permette di constatare o perlomeno sospettare, a partire dal Barocco, una sorta di vertigine culturale che prepara la finis Austriae, che Vienna sia precocemente la capitale di ogni dissoluzione dell´io e dissolutezza delle forme. Progressivamente si sviluppa il declino di una superbia, un´ideologia imperiale a cui fa riscontro lo sguardo totale di un´arte capace di sviluppare modelli di trasformazione simbolica del mondo. Nelle forme e nelle opere esposte si avverte l´affermarsi di una relatività della ragione, impulsi e desideri che interdicono la capacità progettuale di misurare il mondo. La realtà sembra manifestarsi come un nodo inestricabile dove prevalgono disseminazione di sentieri e frantumazione di intenti. Tutto sembra disporre l´arte a un´opera del frammento, piccole vibrazioni della sensibilità producono smottamenti e crepe della "tenuta dell´immagine". Vibrazioni discontinue trascinano l´artista verso un´opera che si forma di moltissimi accidenti linguistici fino al «fuori» da ogni coerenza interna. In questo senso premonitrici sembrano le tele di Paul Troger con l´Allegoria della Immacolata Concezione di Maria (1750), di Martin van Meytens con l´Imperatore Francesco I di Lorena (1745) o la Famiglia del Conte Nicola VIII (1752-1753) oppure le grottesche "teste di carattere" realizzate dallo scultore Franz Xavier Messerschmidt (1736-1783).
Il percorso espositivo registra lo stato sensibile e nervoso del tessuto culturale viennese, che imprime bene i caratteri della ritrattistica e pittura di genere, come nel caso di Friedrich von Amerling e Ferdinand Georg Waldmuller, passando per il Nazareno Johann Evangelist Scheffer von Leonhardshoff (Santa Cecilia morente) per il viaggio romantico in Italia di von Alt, Rebell e Koch e per la figura femminile di Danhauser e Reiter. Fino ad arrivare alla Belle Époque, rappresentata dalla monumentale Caccia sul Nilo di Hans Makart che, nonostante la sua prematura scomparsa, sembra preparare l´avvento della Secessione viennese (Klimt e Schiele) e dell´Espressionismo (Kokoschka).
Gustav Klimt è presente con sei olii su tela che documentano progressivamente, dalla Signora davanti al camino (1897-1898), a Dopo la pioggia (1898) fino a Ritratto di Johanna Staude (1917-1918), il rivolgimento linguistico che pone sullo stesso piano narrazione e decorazione, sfondo e oggetto, quando già per Hegel l´ornamento è il sintomo di uno smarrimento e per Loos è propriamente un delitto. Per Klimt, l´opera ormai destituita dalla sua consueta funzione, quello di veicolo di senso, acquista l´arbitrio e la necessità di essere capriccio, stati interni della sensibilità, affezioni, insomma emblemi di luoghi interni al "sensibile". Solo un distaccato erotismo che confina con l´estetismo sorregge la composizione. Il suo dato esplicito è reso dalla miniaturizzazione dell´evento ornamentale che avvolge la figura e la fa dilagare verso i bordi dell´opera, creando una connessione e un processo di crescita che fluisce in tutte le direzioni della composizione. Fisso e centrale resta il volto, disegnato e dipinto in maniera decisa e precisa, mentre il corpo è attraversato da una perturbazione stilistica che ne dissolve i contorni e ne stabilisce l´integrazione con lo sfondo.
La Secessione ha tra i suoi esponenti artisti di rilievo come Koloman Moser e Otto Friedrich, operanti tra arti applicate, architettura e sintesi delle arti e qui presenti con, rispettivamente, Lago di Garda e il Ritratto di Elsa Galafrès, paesaggi naturali e geografie dell´anima.
Massimo della dissoluzione dell´io e dissolutezza delle forme è senza dubbio l´opera di Egon Schiele, sei lavori che documentano la negazione spaziale di ogni movimento, il protagonismo maniacale della figura, il suo schiacciamento e occlusione nello spazio bidimensionale del quadro. Ben presto l´artista abbandonò l´estetica dello Jugendstil. La città sul fiume blu del 1911 apre a una libertà linguistica che lo porta prima a una pittura di denuncia (Madre con due bambini) per arrivare al lancinante erotismo dell´Abbraccio (1917). Qui viene pienamente rappresentata la finis Austriae.
Vienna sembra diventare l´epicentro del vuoto europeo. L´imminente crollo dell´impero asburgico trova nei sistemi d´allarme dell´arte e del pensiero teorico le sue premonizioni e un metodo di arrovellamento che poi significa capacità storica di sopportare il sospetto di un futuro sbarrato. Capacità attraversata da un sentimento di angosciosa precarietà, effetto di una sensibilità debilitata dalla coscienza del vuoto incombente, una mancanza di punti di appoggio e di ancoraggio che trasformano la vita in una indicibile peripezia: «l´essere è il delirio di molti», dirà Musil.
La rappresentazione dell´eros è il portato di un´ossessione, una fantasia covata dall´artista come risarcimento di un mondo imprendibile e tanto quanto normalizzato da rigide regole. Allora il corpo si automutila, arriva a una sorta di autocannibalismo che asporta gambe e braccia, lascia sempre un tronco sormontato dalla testa che porta su di sé l´espressione dello sguardo senza possibilità di aiuto. «Tutto nella vita è morte», annota nel suo diario Schiele. La vita si situa sulla rotta di collisione tra spazio e tempo, tra eros e tanathos, dove l´uomo cerca l´intensa somma delle proprie emozioni, la profondità baluginante di un sentimento totale seppure precario.
Così il ‘900, stravolto da altre e nuove connessioni, ne amplifica la rete (dall´inconscio a Internet) e trova in Oskar Kokoschka un traghettatore, che dalla finis Austriae ha attraversato tutto il XX secolo. La sua opera è una sorta di specchio anamorfico capace di alterare la distanza simmetrica tra il modello e il dipinto, di impedire la vista semplice dell´uomo qualsiasi che crede di usare l´occhio come organo di registrazione visiva, per agganciarsi a tutte le funzioni nervose che si accendono nello sguardo.

Repubblica 12.5.08

La memoria e le idee
L'incontro con il fondatore di "Repubblica" al salone di Torino
Scalfari racconta l'autobiografia
di Simonetta Fiori


"Il volume nasce dall´indagine su come le proprie convinzioni condizionano l´esistenza"
Nel libro compaiono frammenti di vita e di pensiero. Emozioni private e vicende pubbliche
"La visione morale della politica" di Berlinguer e La Malfa
"Nietzsche è il filosofo che ha chiuso la stagione della metafisica"

Torino. «Quando ho cominciato a scrivere questo libro, non avevo un progetto preciso. M´è venuto naturale fare un salto all´indietro, un salto di ottant´anni, tornare al primo ricordo con mia madre. Un´urgenza dettata dall´anagrafe: vedo molti amici andarsene, e con loro anche un pezzo di me. Alla mia età si è consapevoli che tra pochi metri l´autostrada finisce, ti viene spontaneo voltarti indietro, verso la stagione in cui l´autostrada l´hai imboccata». Eugenio Scalfari racconta la genesi di L´uomo che non credeva in Dio (Einaudi, pagg. 150, euro 16,50), autoritratto insolito che tesse insieme frammenti di vita e di pensiero, racconto e meditazione, tra emozioni private, vicende politiche e domande filosofiche sollecitate da quelle esperienze. «Una singolare autobiografia», ha scritto Claudio Magris sul Corriere, che sembra imprimere «un sigillo di saggezza» alle tante battaglie giornalistiche, editoriali, politiche e culturali che hanno fatto di Scalfari una figura centrale della vita nazionale.
Ad accoglierlo domenica pomeriggio alla Fiera del Libro è una platea affollatissima ed eterogenea, trecentotrenta posti già esauriti in mattinata e molti spettatori in piedi. In prima fila il vertice dello Struzzo con il direttore editoriale Ernesto Franco, l´amministratore delegato Antonio Baravalle e Roberto Cerati, presidente e testimone storico («È forse presuntuoso per me dirlo, ma penso che Giulio Einaudi sarebbe stato molto contento di avere Scalfari in catalogo»). In sala sono rappresentate le tre generazioni di italiani cresciute con l´Espresso e la Repubblica, lettori incanutiti e lettrici giovanissime. «Siete il pubblico più colto e civile d´Italia», dice tra gli applausi Ernesto Ferrero, timoniere della Fiera. «Anche io sono cresciuto a "pane e Scalfari", ma quando gliel´ho detto lui ha replicato "Spero non solo…"». In tempi di "urlo e furore" è bene avere una salda bussola civile. «E in fondo anche questo libro», interviene Cerati, «più che un´autobiografia è una guida alla formazione, una sorta di breviario da leggere lentamente», nel quale a ogni ricordo è associato un pensiero.
Sollecitato dalle domande di Antonio Gnoli, Scalfari spiega l´originale fisionomia del suo libro. «Ho tenuto il primo capitolo per alcuni anni nel cassetto, vicende private molto dolorose m´impedivano di lavorarvi con serenità. Poi l´ho ripreso con l´intenzione sì di tracciare un bilancio esistenziale, ma soprattutto di continuare la ricerca su cosa è l´io. Non avevo mai messo sotto la lente qual è il rapporto tra vita e pensiero, in che modo la vita può condizionare il pensiero e, viceversa, in che modo i pensieri riescono a condizionare l´esistenza. Il libro nasce da questa indagine, poi sono scaturite altre domande sul senso e sulla trascendenza, sul rapporto tra intelletto e istinto».
Il gran teatro della memoria, nelle pagine di Scalfari, appare di frequente accompagnato dalle "stelle danzanti" di Nietzsche. «È il filosofo che ha chiuso definitivamente la stagione della metafisica. Ed è quello che ha inventato un modo nuovo di comunicare i pensieri: scrittore, poeta, anche profeta. S´esprime per frammenti, talvolta per enigmi e formule. Dopo Nietzsche non si può più comporre un trattato di filosofia».
La conversazione scivola fatalmente verso la politica, che Scalfari ritiene fondata non sulla "morale" ma sulla "volontà di potenza". Nella galleria di leader osservati in oltre sessant´anni di giornalismo, egli ravvisa due luminose eccezioni in Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer, accomunati da una solida, pur diversa, «visione morale della politica». Del leader repubblicano ricorda una passeggiata notturna tra le nebbie della Maremma. «Dopo aver chiacchierato di varia umanità trovammo un bar aperto, sul retro c´era anche un biliardo. "Sai giocare?", mi chiese mentre beveva un caffè. Sì, sapevo giocare. "Allora conosci le sponde". "Me la cavo", risposi perplesso. "Ecco, non si può far politica se non si sa giocare a biliardo e se non si conosce il gioco di sponda. Il politico non arriva mai al successo in modo diretto. Ci arriva di sponda, la biglia fa un percorso talvolta complicato…" Lui non sapeva andare al di sopra del cinque per cento di voti. Glielo dissi. "Ma a me non importa fare aumentare i voti del mio partito. Io voglio che i comunisti diventino democratici, la destra italiana diventi democratica, il capitalismo italiano diventi democratico. A quel punto potrò morire in pace». Tempi lontani e dimenticati. Quella della "borghesia illuminata" è un´altra illusione lungamente coltivata dal gruppo del Mondo e dell´Espresso: «Ma in questo paese è mancata la luce elettrica», dice Scalfari tra i battimani.
Le pagine più toccanti ne L´uomo che non credeva in Dio, nota in chiusura Gnoli, investono il rapporto sereno e pacificato con la morte. Ne legge poche righe. «Chi non cerca ricompense ultraterrene aspira soltanto all´innocenza dell´albero della vita. E i frutti di quell´albero, vedi che cosa strana, puoi gustarli soltanto quando sei più prossimo alla morte. Sono dolcissimi quei frutti, perciò io sostengo che la vecchiaia è una bella stagione e vale la pena di viverla in una quiete senza ignavia. La sola innocenza possibile è quella che ti fa scordare la terribilità della morte perché è anch´essa un atto della tua vita». Un´incursione nelle parti più intime del libro che forse imbarazza Scalfari. Ma il lungo applauso del pubblico sembra confortarlo.

domenica 11 maggio 2008

l'Unità 11.5.08
«Correnti? Il vero problema sono i contenuti»
Cuperlo: manca ancora un’identità «Troppe nomine decise dall’alto»
di Maria Zegarelli


VELTRONI gli aveva proposto il ministero ombra della Semplificazione, quello di Calderoli, ma la risposta è stata un gentile «Caro Walter apprezzo molto il fatto che tu me lo abbia proposto, ma non è nelle mie competenze». Gianni Cuperlo, parlamentare Pd, nella casella delle correnti viene piazzato in quella dalemiana.
Cuperlo, Iniziamo dal governo ombra: Lei è tra chi ci crede o tra gli scettici?
«Spero che sia in grado di incalzare il governo vero e non solo con dei “no”, ma anticiparne le soluzioni sui temi di fondo. Detto ciò, a noi non basta avere delle buone proposte di legge alternative. Il voto ci ha detto che abbiamo fatto la migliore campagna elettorale possibile, e questo grazie alla scelta di andare “liberi” e alla brillante iniziativa di Veltroni che ha il merito oggettivo di aver messo in sicurezza il progetto del Pd. Ma ci ha anche detto che non siamo riusciti a far passare la nostra idea del paese, della crescita, della sicurezza, dei diritti, della responsabilità del singolo».
Perché non è arrivato questo messaggio?
«Perché non basta su ciascuno di questi terreni inseguire il vocabolario degli altri. Noi abbiamo la necessità di adottarne uno nostro e possibilmente nuovo. Quindi, bene il radicamento territoriale del Pd, ma conta anche cosa andiamo a dire. Soprattutto a quei pezzi di società che ci hanno chiesto negli anni scorsi un benessere materiale e che invece hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita. Anche per questo è maturato “il rancore”, di cui parla Aldo Bonomi. Ma verso un sentimento di quel tipo non basta un buon programma di governo, e noi ne avevamo uno ottimo: occorre arrivare a alla pancia e alla testa della maggioranza delle persone con una identità e una idea del paese».
Allora come se lo spiega questo dibattito sulla resa dei conti interna al Pd se la priorità è un’altra?
«Il nostro problema è proprio discutere nel merito alcuni di questi contenuti. Prendiamo la sicurezza, ritenuta una delle cause della sconfitta. Quando Blair, nel 1993 aggredisce l’emergenza sicurezza parla “della coscienza addormentata del paese”. Investe su una concezione alta della responsabilità dell’individuo, parla di valori, per prevenire quello che definisce “un caos morale”. Ne discendono nuove politiche pubbliche, anche repressive, ma non solo. Punta su una crescita civile della comunità. E vince anche per questo».
Lei ha detto che nel Pd manca democrazia interna. Si riferisce alle nomine degli organismi dirigenti?
«Vedo oggi nella vita democratica di questo partito, anche nei suoi assetti, compresi gli ultimi, un problema di metodo e uno di merito. Partiamo dal metodo: in questi mesi dopo le primarie abbiamo avuto un esecutivo, un Comitato politico, la composizione delle liste, il governo ombra e il coordinamento, tutti nominati dal leader. Abbiamo confermato le presidenze dei gruppi senza prima un confronto politico. Capisco la fase transitoria, ma servono regole diverse. Quanto al merito: si dice che le correnti sarebbero la tomba del Pd. Ma finora tutte le scelte, o quasi, si sono fondate su una logica correntizia. Liste, caminetto, coordinamento, presidenze dei gruppi, fino agli incarichi istituzionali in Parlamento».
D’Alema si è chiamato fuori...
«D’Alema ha promosso un incontro dei parlamentari, in veste di presidente dell’associazione Italianieuropei,dove si è parlato di come arricchire in termini di idee il lavoro dell’opposizione e del Pd. È scoppiato un caso. Ma non è un mistero che nei mesi scorsi si sono riunite e legittimamente correnti e componenti di vario tipo, da Morando a Fassino ai Popolari. Sa quale è la verità? Considero D’Alema un pensatore libero, un leader che dice cose intelligenti e utili, ma quanto a capo corrente, lascia molto a desiderare. Sono dodici anni che aspetto una convocazione della corrente dalemiana. E temo che ormai non accadrà più».
E del coordinamento cosa pensa?
«Faccio i miei migliori auguri di buon lavoro, ma faccio sommessamente notare - oltre al fatto che è composto da nove uomini e una donna - che sono più o meno gli stessi di quindici anni. Li stimo uno per uno, comprerei da loro non un auto usata ma tutta la concessionaria. Però forse non basta più. Penso che vada superata la logica della decorazione sulla torta, singole ciliegine a rappresentare il rinnovamento, quando la torta è sempre la stessa. Comincio a pensare che c’è un tappo e che vada fatto saltare perché ci sono risorse che vanno valorizzate: penso a nomi come Zingaretti, Fassina, Orlando, che è il capo dell’organizzazione. E a figure di altre generazioni, perché non credo che l’innovazione vera sia un dato solo generazionale. Ovunque dopo un risultato simile si aprirebbe un confronto sincero. E si rimescolerebbero ole energie. Abbiamo davanti cinque anni di opposizione. Cambieranno l’Italia. Cerchiamo di non essere i soli a restare fermi».

l'Unità 11.5.08
Sd sceglie Claudio Fava. Prove di dialogo col Pd
L’europarlamentare eletto coordinatore al posto di Mussi
Veltroni: «Incontriamoci». La risposta: «Sì, lavoriamo insieme»
di Roberto Brunelli


«CARO CLAUDIO...». «CARO WALTER...». Quel pezzo d’Arcobaleno che si chiama Sinistra democratica per primo alza la testa dalle macerie del dopo voto, per primo inizia a ricostruire il suo futuro: che è quello di dare vita a una nuova fase costi-
tuente del centrosinistra. Mentre il prisma della Cosa Rossa va in frantumi, con Rifondazione e Pdci in cerca di una nuova radicalità e i Verdi alla riconquista dell’ambiente perduto, dentro Sd la parola è dialogo. Dialogo con il Pd, per la precisione, attenzione al suo dibattito interno, «a cominciare da quello delle alleanze». Ieri il comitato promotore di Sd si è riunito per scegliere il nuovo coordinatore, l’uomo che seguirà Fabio Mussi alla guida del movimento. Quell’uomo è Claudio Fava, eletto all’unanimità dai trecento presenti (due soli astenuti). E l’europarlamentare è stato eletto con un mandato preciso: rimettere insieme i cocci della sinistra a sinistra del Pd, sì, ma nell’ottica di ricostruire un centrosinistra di governo. «Chi ritiene di essere autosufficiente è fuori da questo percorso», dice Fava. «Ritenteremo l’innesco di un percorso unitario», gli fa eco Mussi al termine della riunione del comitato. Vietato, insomma, «chiudersi nel ghetto dell’opposizione».
E un segnale dal Pd, da Veltroni in persona, è arrivato subito. Il segretario del Partito democratico ha inviato una lettera di auguri al neoeletto coordinatore. «Ho seguito con rispetto l’avvio della discussione dentro Sd: diverse sono oggi le nostre analisi, ma certamente il voto ci consegna una situazione politica profondamente mutata e impone a ciascuno di dare risposte ai problemi del paese». Per questo motivo, aggiunge il leader del Pd, «nel pieno rispetto delle diverse posizioni, credo sia opportuno fissare in tempi ravvicinati un incontro di lavoro». Dopo poco di più di mezz’ora la risposta: «Caro Walter, sono pronto a incontrarti. Sarà occasione per mettere nuovamente al centro il nostro comune sforzo per un nuovo centrosinistra in questo paese. Ciascuno con l’autonomia delle proprie posizioni e del proprio percorso, ma sapendo che, su un piano di pari dignità, una collaborazione proficua è possibile tra il Pd e il nostro progetto di Costituente di sinistra».
Insomma, qualcosa si è messo in moto, al di là delle cortesie, al di là delle battute (diceva Mussi ieri: «Il match Veltroni-D’Alema? Dejà vu, sembra una delle tante finali di coppia Italia tra Roma e Inter...»), al di là delle critiche («Il governo ombra? Pratiche antiche. Il Paese ha bisogno di un’opposizione alla luce del sole», commenta Fava alla sua prima uscita pubblica). Il nuovo coordinatore ha chiaro quale sia il suo mandato: è «il nostro contributo alla costruzione di un forte soggetto politico di sinistra». Un percorso non facile: il nuovo coordinamento guiderà Sd fino a luglio, quando ci sarà la prima assemblea nazionale. Ma già fin d’ora è lampante la presa di distanza rispetto agli altri ex dell’Arcobaleno, per esempio per quello che riguarda la diatriba sui simboli: «La comunità a cui ci rivolgiamo non misura la sua affidabilità sui simboli e sul richiamo di memorie anche visibili, ma su noi stessi». E a proposito della débacle, Claudio Fava parla di «profonda miopia della sinistra», dice dell’«eccessiva attenzione a ciò che accade nelle nostre stanze, scarsa attenzione alle cose profonde che stravolgono il paese nel suo senso comune».
È tutto lì, il punto. Anche Mussi, di cui si parla come futuro presidente Sd («certo non intendo andare in pensione») fa una valutazione severa sul voto. Gli errori sono stati tanti, c’è stato il problema di un percorso «del tutto immaturo al momento della caduta del governo». L’esito è stato devastante, ma non solo per l’Arcobaleno. Per questo «c’è bisogno di una sinistra che si rinnovi, che esca dalle trincee: è sì necessaria una selezione, è necessario ricostruire un dialogo col Pd». Ma è un processo dal quale il Pd non può ritenersi immune: intanto perché «c’è bisogno di un soggetto forte alla sua sinistra», e poi perché «la scelta centrista non ha portato, di fatto, alla conquista dei voti di centro». Rinnovamento, s’è detto: mentre in Germania «Die Linke» è riuscita a darsi una connotazione di forte novità, in Italia l’Arcobaleno ha trasmesso un che di conservativo. Ora è necessario costruire un orizzonte più ampio. Fava l’ha detta così: «Scommettiamo sulla capacità di mettere insieme sinistra di governo e sinistra di opposizione facendo capire una volta per tutte che non esiste una sinistra solo per il governo e una sinistra solo per l’opposizione». Si comincia dunque dalle prime file di Sd. Per Mussi non c’è dubbio: è Fava l’uomo giusto. Ma bisogna ripartire dal territorio. «Rispetto alle politiche, alle amministrative l’Arcobaleno ha preso il triplo dei voti: ci sono milioni di voti a sinistra del Pd». È lì che si guarda, rimuovendo le prime macerie.

CHI È. Europarlamentare, giornalista, sceneggiatore... e nel ’99 Walter lo volle segretario Pds in Sicilia

NON È DA IERI che si incrociano le strade del nuovo coordinatore di Sinistra democratica e di Walter Veltroni. Infatti, fu nel febbraio 1999 che l’allora neo segretario dei Ds volle Claudio Fava come segretario regionale del partito in Sicilia e capolista alle elezioni europee del 1999. Laureato in giurisprudenza, giornalista professionista dal 1982, figlio di Giuseppe Fava (fondatore de I Siciliani e assassinato dalla mafia il 5 gennaio 1984), Claudio Fava è nato nel ‘57 a Catania. Ha lavorato per il Corriere della Sera, L'espresso, l'Europeo e la Rai, in Italia e dall'estero, incrociando quasi da subito l’attività professionale con l’impegno politico. Tra i fondatori de La Rete di Leoluca Orlando, è stato deputato dell'Assemblea regionale siciliana (1991), deputato alla Camera dal 1992 al 1994, anno in cui lascia La Rete e aderisce a Italia Democratica di Nando Dalla Chiesa. In effetti Fava diverrà, non senza polemiche, segretario regionale dei Ds (dal marzo 1999 al giugno 2001), membro della direzione nazionale dei Ds. Nel 2003 si è candidato alla presidenza della provincia di Catania, venendo sostenuto da tutto il centrosinistra tranne lo Sdi: ha ottenuto però solo il 31,3% dei consensi ed è risultato sconfitto dal rappresentante della Casa delle Libertà Raffaele Lombardo. Eletto due volte deputato del Parlamento europeo (nel 2004, per la lista di Uniti nell'Ulivo, circoscrizione isole, ha ricevuto 222 mila preferenze), iscritto al gruppo parlamentare del Partito Socialista Europeo, vicepresidente della Commissione per lo sviluppo regionale e membro della Commissione per gli affari esteri, ha aderito nel maggio del 2007 ha aderito a Sinistra Democratica. Per le polithce 2008 era candidato per il Senato come capolista della Sinistra Arcobaleno nella circoscrizione Sicilia. È autore del libro La mafia comanda a Catania 1960/1991 del 1992 ( Laterza). Ha scritto, assieme a Monica Zapelli e Marco Tullio Giordana, la sceneggiatura de I cento passi, premiata, nel 2001, con il Leone d'Oro, con il Davide di Donatello e con il Nastro d'Argento. Assieme a Domenico Starnone e Stefano Bises, ha curato anche la sceneggiatura della fiction Il capo dei capi (2007) sul boss mafioso Totò Riina.

l'Unità 11.5.08
Rifondazione. È battaglia sulle regole
Vendola si candida


ROMA Rifondazione si avvia al congresso (che si terrà a Chianciano dal 24 al 27 luglio) prigioniera di un inestricabile viluppo di diffidenze, rancori, rimpianti. Nella riunione del Comitato politico nazionale che deve licenziare i documenti congressuali la vera contesa è attorno al regolamento congressuale: l’area bertinottiana spinge per votazioni aperte per ore, nei circoli, dopo il dibattito; chi avversa questo sistema, è la tesi, non vuole «un partito di massa». Dall’altra parte si insinua che gli uomini di Giordano vogliano vincere il congresso grazie ai signori delle tessere, agli assessori che fanno votare parenti e clienti. Il voto sulle regole è previsto oggi, nella seconda giornata di riunione. In questo clima di sfiducia così aspro cade nel vuoto l’ultimo rituale appello di Claudio Grassi e Paolo Ferrero a fare un congresso a tesi, per «difendere il corpo del partito» da lacerazioni ulteriori. E già oggi Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia, dovrebbe annunciare la sua candidatura alla segreteria, come leader della mozione congressuale bertinottiana. Per ora il leader pugliese si limita a dire «rifletterò», ma è il segreto di Pulcinella. Intanto accusa gli avversari di volere un congresso «con il torcicollo», cioè con la testa rivolta al passato. E a chi gli chiede come pensa di conciliare i ruoli di leader del Prc e governatore retto dai voti del Pd, replica ricordando con orgoglio le sue competizioni elettorali disperate sempre vinte sul filo di lana: «Sono l’uomo delle sfide impossibili». Al congresso di Chianciano, oltre alla mozione bertinottiana ci saranno quella Ferrero-Grassi-Mantovani e quella delle due minoranze organizzate, Falce e martello guidata da Claudio Bellotti e l’Ernesto di Gianluigi Pegolo, Fosco Giannini e Leonardo Masella. Probabile anche la quinta mozione, scritta da Walter De Cesaris e Franco Russo della ex maggioranza, che rappresenta un tentativo di mediazione fra i due gruppi principali in lotta, e che raccoglierà probabilmente l’adesione di una parte delle femministe del partito.
Il segretario, secondo le regole in vigore, sarà eletto dal nuovo Comitato politico nazionale eletto al Congresso. Chi vorrà governare il partito, quindi, avrà bisogno della maggioranza assoluta. Sembra tramontata, al momento, l’ipotesi che Fausto Bertinotti si schieri apertamente nel dibattito interno, sottoscrivendo la mozione dei suoi fedelissimi: «Troverà il modo - dicono gli uomini di Giordano - di far conoscere il suo orientamento, ma se firmasse sarebbe la mozione di Bertinotti». Un biglietto da visita che evidentemente a Rifondazione non aiuta. Ma sulla mozione Giordano si addensano malumori anche all’interno dell’area dell’ex maggioranza interna. Chi ha letto le prime bozze, parla di una mozione tutta sulla difensiva.

l'Unità 11.5.08
Metalmeccanici, il caso Rinaldini scuote la Cgil
Dura risposta della confederazione alla minaccia di dimissioni. Posizioni divergenti nella Fiom
di Laura Matteucci


DIVISIONI Tensione, valutazioni scarne ma dure nella Cgil. Divisioni sempre più marcate ed esplicite in Fiom. Il caso di Gianni Rinaldini, che si dice pronto a seguire le sorti dei quattro dirigenti della Fiom milanese colpiti da provvedimenti disciplinari di sospen-
sione, fa emergere le divergenze interne al sindacato nella loro effettiva gravità. Prima in un’intervista, adesso in una lettera all’Unità, Rinaldini forma e precisa la sua posizione, dopo lo strappo di settimana scorsa, quando si è allontanato dal direttivo sulla riforma della contrattazione. Lo stesso direttivo in cui ha dichiarato di assumersi la responsabilità per i dirigenti sospesi. La conferenza nazionale di organizzazione della categoria di giovedì e venerdì prossimi, presente anche Guglielmo Epifani, diventa così una sorta di redde rationem complessivo. Al centro della discussione, in realtà, la riforma del modello contrattuale di cui è stata appena approvata la piattaforma unitaria. E qui le opinioni divergono anche massicciamente.
Un caso disciplinare, un episodio avvenuto un anno fa, si è trasformato insomma in un terremoto sindacale e ha acuito lo scontro interno alla Fiom e tra la Fiom e la «casa madre».
La Cgil per il momento fa quadrato e affida la sua replica alla segretaria Carla Cantone, che definisce le dichiarazioni di Rinaldini «incredibili e inaccettabili», sottolinea l’autonomia del comitato di garanzia interno al sindacato, evita di parlare di conflitti politici in corso con l’organizzazione dei metalmeccanici, e anzi ricorda che «nessuno ha mai considerato tali procedure come atti politici».
Ma, intanto, quelle di Rinaldini rischiano di non essere le uniche autosospensioni possibili in casa Fiom. Da posizioni quasi antitetiche, il segretario nazionale Fausto Durante si dichiara «molto amareggiato» e arriva a conclusioni analoghe: «La discussione va fatta fino in fondo. Non si può confondere la vicenda di Milano con un attacco al dissenso - dice - Altrimenti, non vedo perchè dovrei rimanere lì». «Siamo di fronte ad un processo lento ma costante di definizione dell’identità della Fiom come alternativa alla Cgil», continua.
Durante ha una sua tesi già da tempo: è convinto sia in atto «un tentativo di opa sulla Fiom da parte di Rifondazione», un tentativo che la scomparsa della sinistra dal Parlamento renderebbe anche più pressante.
Giorgio Airaudo, segretario della Fiom di Torino, la mette giù diversamente, e stigmatizza un processo di «centralizzazione» da parte della Cgil, che «in effetti un vulnus democratico lo apre». Ancora: «La Cgil ha sempre ospitato un po’ tutte le posizioni della sinistra, spero si eviti la direzione di semplificazioni poco democratiche - continua Airaudo - Nel caso specifico, la sanzione per i dirigenti milanesi la trovo sproporzionata. Colpisce il clima di intolleranza crescente nelle strutture confederali verso tutto ciò che riguarda la Fiom». E, secondo Airaudo, le parole di Rinaldini ne sono un’evidente conferma: «Perchè lui, a differenza di quanto forse può sembrare, è persona molto pacata e per nulla estremista».
Di centralizzazione, anzi più apertamente dell’esistenza ormai di «modello autoritario di organizzazione», parla anche un altro segretario nazionale, Giorgio Cremaschi: «Sono in discussione i fondamentali nella Cgil - dice - Siamo di fronte ad un’involuzione moderata. La Cgil di oggi è lontana anni luce da quella dei 3 milioni in piazza nel 2002. E la vicenda di Milano è un’aggravante, un’altra spia della tendenza a risolvere per via amministrativa le difficoltà dell’organizzazione. Che invece vanno affrontate aprendosi e discutendo».

l'Unità 11.5.08
Tra un mese Maselli torna sul set (delle fatiche e dei dolori della sinistra)


Dovrebbero cominciare fra poco più di un mese le riprese di «Il fuoco e la cenere» (il titolo non è confermato), il nuovo film di Francesco Maselli, prodotto da Cattleya.
Il regista, che era tornato l’anno scorso dietro la macchina da presa con il mix di documentario e fiction «Civico zero» (candidato ai Nastri d’Argento), preferisce non dire nulla del progetto («Ho firmato un accordo di riservatezza con i produttori»), ma a quanto si apprende, sarà una storia corale ambientata nell’Italia di oggi. Fra gli interpreti, anche se in un piccolo ruolo, ci sarà Luca Lionello.
Maselli aveva già accennato alla pellicola in un’intervista di qualche mese fa a Il Mattino di Napoli, dicendo che sarà «un film sulle difficoltà che incontrano le diverse anime della sinistra italiana.
Dopo la caduta del governo Prodi abbiamo rinviato le riprese, non volevamo infierire». Il cineasta aveva già girato qualche scena lo scorso autunno all’interno e all’esterno del Padiglione ungherese della Biennale d’arte di Venezia.
Fin qui il testo dell’agenzia Ansa. Non possiamo che accodarci al coro di quanti sono in attesa di questo nuovo lavoro del regista. Anche perché, a quanto pare, ci servirà da specchio. E non è detto che quanto riflette uno specchio debba piacere a tutti. Ma servirà.

Repubblica 11.5.08
La dolce dittatura della nuova democrazia
di Eugenio Scalfari


Con quello che capita nel mondo e soprattutto nel Medio Oriente, terra rivierasca del lago Mediterraneo, verrebbe voglia di sorvolare sui fatti di casa nostra, i primi passi del Berlusconi-Quater, il governo-ombra del Partito democratico, l´eterno duello eternamente smentito tra Veltroni e D´Alema. A paragone dell´orizzonte planetario sono cosette di provincia, ma quella provincia è casa nostra e quindi ci tocca da vicino. Ne va dei nostri interessi, delle nostre convinzioni e delle nostre speranze.
L´impatto della crisi libanese provocata da Hezbollah e di quella israeliano-palestinese provocata da Hamas è comunque troppo violento per esser trascurato. Per di più abbiamo in Libano un contingente di tremila soldati, la nostra più importante missione militare la cui sorte condizionerà inevitabilmente le altre nostre presenze all´estero a cominciare da quella in Afghanistan.
A questo punto si pone la prima domanda: esiste un legame strategico tra le iniziative militari e politiche di Hezbollah e quelle di Hamas? E – seconda domanda – si tratta di iniziative autonome o ispirate dall´esterno? C´è un´indubbia affinità tra quei due movimenti: entrambi hanno caratteristiche strutturali nei rispettivi teatri d´operazione; entrambi sono al tempo stesso milizie armate e strutture assistenziali, educative, sociali. Anche religiose, soprattutto per quanto riguarda Hezbollah.
Probabilmente Hamas ha in se stessa la sua referenza ideologica e politica ma subisce ovviamente un forte condizionamento dal contesto della regione; la tuttora mancata pacificazione irachena e la presenza da ormai cinque anni di un´armata americana impantanata dalla guerriglia sciita e sunnita tra Bagdad e Bassora ha impedito il rafforzamento dell´Autorità palestinese favorendo invece il nazionalismo di Hamas e la sua identificazione con il panarabismo radicale e con il terrorismo.
Per Hezbollah il fattore religioso ha sempre giocato un ruolo primario; il vincolo sciita ha progressivamente spostato la sua dipendenza da Damasco a Teheran. Allo stato attuale si gioca sullo scacchiere libanese una triplice partita: quella d´una grande Siria in funzione antisraeliana, quella d´un blocco sciita contro i governi arabi filo-americani e quella di un nazionalismo libanese come nuova potenza islamica e mediterranea.
In un quadro così complesso emerge drammaticamente l´assenza d´una politica unitaria europea e la pochezza della politica mediorientale americana. Emerge altresì la catena di errori commessi dai governi d´Israele dalla fondazione di quello Stato fino ad oggi: sessant´anni di occasioni perdute, una guerra diventata endemica, l´evocazione dal nulla d´una nazione palestinese inesistente sessant´anni fa e il miraggio d´una pace che si allontana sempre di più. La formula "due paesi due Stati" ha un fascino lessicale che corrisponde sempre meno alla realtà. Il solo modo di realizzarla sarebbe quello di collocarla in un quadro internazionale sponsorizzato dall´Onu, dalla Nato e dall´Unione europea, impensabile tuttavia fino a quando l´Europa non disponga di istituzioni federali e di una sua politica estera e militare. Siamo cioè più nel regno dei sogni che in quello della realtà.
* * *
Nel frattempo il nuovo governo italiano si è installato ed è iniziata la quarta reincarnazione berlusconiana all´insegna di una dolce dittatura, come abbiamo già avuto modo di scrivere domenica scorsa.
Dittatura dolce è un ossimoro con il quale cerchiamo di configurare un´entità politica inconsueta ma reale. Ci sono due polarità nel Berlusconi-Quater, che si confronteranno tra loro nei prossimi cinque anni e che convivono all´interno del triumvirato Forza Italia-An-Lega ma perfino all´interno di ciascuno dei tre partiti alleati. Convivono addirittura nella personalità dei tre leader e dei loro stati maggiori.
Il "lider maximo" è probabilmente il più consapevole di questa duplice polarità e della blindatura zuccherosa che è l´immagine più realistica del governo testé insediato. Per questa ragione egli ha privilegiato la compattezza sul prestigio collocando nei dicasteri e nelle posizioni più sensibili persone clonate sulla fedeltà al capo piuttosto che sul prestigio e sulla competenza.
Blindatura zuccherosa evoca sia il populismo sia il trasformismo, due elementi connaturati a tutto il quindicennio berlusconiano e profondamente radicati nella storia politica e antropologica del nostro Paese. Nei suoi primi atteggiamenti di nuova maggioranza tutti i dirigenti già insediati nelle varie cariche istituzionali, ministri, sindaci, presidenti di Regione e di Provincia, non fanno che lanciare appelli di collaborazione ai talenti individuali lasciando in ombra il ruolo dell´opposizione.
Questa a sua volta tende a concentrare la sua forma-partito per esorcizzare tentazioni centrifughe e fughe in avanti verso ipotesi immaginarie.
L´aspetto più visibile della blindatura zuccherosa è il tentativo di coinvolgere il Capo dello Stato effettuato da Berlusconi il giorno stesso del giuramento nella sala del Quirinale durante il brindisi augurale con i nuovi ministri e in assenza del presidente Napolitano appena ritiratosi per urgenti impegni istituzionali. «Questa legislatura - ha detto il neo-presidente del Consiglio - procederà sotto il segno di un patto con il presidente della Repubblica che avrà il nostro pieno appoggio e al quale sottoporremo le linee guida del governo per averne consiglio e preventivo incoraggiamento».
Una simile dichiarazione era del tutto inattesa dopo una fase di crescente disagio reciproco tra i due massimi poteri istituzionali. Essa rivela la preoccupazione di Berlusconi di fronte alla complessità dei problemi da affrontare e il suo bisogno di collocare il governo nel quadro d´una "moral suasion" preventiva e preventivamente sollecitata e ascoltata come tramite e garanzia di fronte ad un´opinione pubblica frammentata e instabile.
Il Quirinale non ha fatto alcun commento alle parole del presidente del Consiglio né poteva farlo essendo esse del tutto informali; del resto i rapporti tra la presidenza della Repubblica e il potere esecutivo si sono sempre basati sulla collaborazione, ferma restando la netta distinzione dei reciproci ruoli. La "moral suasion" è sempre stata uno degli strumenti di quella collaborazione nell´interesse dello Stato, a cominciare dai "biglietti" tra Quirinale e Palazzo Chigi ai tempi di Luigi Einaudi. Ma altro è la collaborazione istituzionale tra due poteri dello Stato, altro la confusione dei ruoli e un patto di legislatura che equivarrebbe ad una sorta di "annessione" del Capo dello Stato alla maggioranza parlamentare.
Annessioni del genere ci furono durante la Prima repubblica e raggiunsero il culmine con la presidenza Leone, ma dalla presidenza Pertini in poi scomparvero del tutto e i ruoli riacquistarono la doverosa nettezza prevista dalla Costituzione. Nettezza tanto più necessaria in una fase in cui - al di là del conteggio dei seggi parlamentari - la maggioranza è stata votata dal 47 per cento degli elettori.
* * *
Sappiamo che il nuovo governo, subito dopo il voto di fiducia, si appresta ad affrontare i due primi e importanti appuntamenti: quello della sicurezza e quello dell´economia per un rilancio della domanda interna. Questioni complesse e irte di difficoltà. Il ministro dell´Interno, Maroni e quello della Giustizia, Alfano, stanno lavorando sul primo tema; il ministro dell´Economia, Tremonti, sul secondo.
La premessa al pacchetto "sicurezza" è una direttiva europea in corso di avanzato esame, che dovrebbe prolungare la permanenza degli immigrati nei centri di accoglienza e custodia fino a 18 mesi. Se e quando questa direttiva entrerà in vigore, essa darebbe tempo di esaminare in modo approfondito la figura dei vari immigrati e accoglierli o rispedirli ai paesi di provenienza.
Ma di ben più incisivo contenuto sono le misure di pertinenza del governo, predisposte dall´avvocato Ghedini, uno dei difensori di Berlusconi e membro del Parlamento. Si va da un elenco di reati particolarmente sensibili ai quali applicare le nuove misure, ad aumenti di pena rilevanti, all´obbligo di processi per direttissima nei casi di semi-flagranza, all´abolizione dei benefici di legge per i reati reiterati, all´istituzione del reato d´immigrazione clandestina. Infine alla chiusura delle frontiere per i "rom" provenienti dalla Romania, e al rimpatrio immediato di quelli irregolarmente entrati e residenti in Italia.
Quest´ultimo punto è particolarmente delicato perché richiede un accordo con il governo di Bucarest che non sembra affatto disposto a concederlo ed anzi minaccia eventuali rappresaglie sugli italiani residenti in Romania.
Il pacchetto nel suo complesso configura una politica assai dura e non priva di efficace deterrenza almeno in una prima fase, anche se è generale convinzione che politiche anti-immigrazione non avranno, sul tempo medio, alcuna efficacia se non nel quadro di un´assunzione di responsabilità europea e di accordi con i Paesi dai quali i flussi migratori provengono.
Dal punto di vista della politica immediata il governo trarrebbe indubbio giovamento di popolarità da queste misure, visto che quello della sicurezza è il tema principale intorno al quale si è formato il consenso degli elettori. Proprio per questo Berlusconi punta su un decreto legge d´immediata esecutività a dispetto della complessità e delicatezza della materia. Sarà decisiva su questo specifico tema la posizione del Capo dello Stato cui spetta di decidere se l´urgenza debba prevalere sull´esame approfondito ed ampio in sede parlamentare.
* * *
Ancora più ardua l´apertura di partita sul terreno dell´economia. Tremonti ha ieri affermato che non esiste alcun "tesoretto" spendibile. Affermazione discutibile dopo le dichiarazioni di Padoa-Schioppa nel momento del passaggio di consegne, anche considerando che l´ex ministro non è certo incline agli ottimismi contabili.
Comunque questa è la posizione di Tremonti, dalla quale discende che non c´è copertura né per il taglio dell´Ici né per la defiscalizzazione degli straordinari e dei premi di produzione per i lavoratori dipendenti.
L´ammontare delle risorse necessarie per questi provvedimenti oscilla tra i cinque e i sette miliardi di euro. Se non ci sono non ci sono e si resterà al palo oppure, come Tremonti ha dichiarato, si tasseranno altri soggetti che il ministro ha indicato nelle banche e nelle società petrolifere.
Ha certamente coraggio, Giulio Tremonti: tassare i ricchi (banche e petrolieri) per dare ai meno ricchi. Però attenzione: l´abolizione dell´Ici non premia i proprietari di case modeste, già esentati da Prodi, bensì i proprietari di immobili di qualità e prestigio. Questo provvedimento è classicamente elettoralistico, costa due miliardi e mezzo e non ha alcuna utilità né sociale né economica. Meglio sarebbe se Tremonti lo levasse di mezzo, ma Berlusconi ci ha costruito una buona parte della sua vittoria elettorale, ecco il guaio per il ministro dell´Economia.
Le misure sulla detassazione degli straordinari sono invece importanti per ragioni sia sociali sia economiche.
Abbiamo ragione di credere che per quella operazione la copertura ci sia.
Pensiamo che le minacce di Tremonti alle banche e ai petrolieri abbiano come obiettivo quello di indurre le prime a sostanziali sconti sui mutui e i secondi a ribassi sui prezzi dei carburanti.
Comunque sarà bene che il ministro proceda confrontandosi in Parlamento con le proposte alternative dell´opposizione: se vuole dare prove di ascolto politico, questo è il tema più adatto.
* * *
Non parlerò oggi del Partito democratico, in fase di riassetto e presa di coscienza della sconfitta elettorale.
Condivido in proposito la diagnosi fatta l´altro ieri su questo giornale da Aldo Schiavone: Veltroni ha puntato sulla voglia di cambiamento della società italiana, Berlusconi invece sulla insicurezza e la voglia di protezione nonché su un sussulto identitario, localistico e tradizionale. La maggioranza degli elettori ha condiviso.
Si deve per questo abbandonare la visione d´una società più moderna e dinamica? Credo di no. Bisognerà riproporla in modi più efficaci e meno dispersivi, concentrando l´attenzione su punti e provvedimenti concreti.
Questo è mancato e questo va fatto a cominciare da subito.
Ciò che non va fatto è di aprire di nuovo scontri interni e regolamenti di conti. Ciò che non va fatto è rimettere in scena lo scontro Veltroni-D´Alema. Riproporre un duello così trito sarebbe esiziale per i duellanti e per il loro partito.
Temo che nessuno dei due abbia fatto abbastanza per evitare che l´ipotesi di un rinnovato scontro prendesse consistenza. Penso che debbano entrambi provvedere, ciascuno per la parte che gli compete, a dissipare l´immagine che si è formata.
Se sono responsabili certamente lo faranno.

Repubblica 11.5.08
Bucarest avverte l´Italia "Errore chiudere le frontiere"
La Ue: cambiare Schengen priorità solo vostra
Il commissario Orban: restringere la libertà di circolazione è un passo indietro
di Alberto D'Argenio


BRUXELLES - Forzare la mano per chiudere le frontiere italiane ai cittadini romeni potrebbe precipitare i rapporti tra Bucarest e Roma. Il commissario europeo romeno, Leonard Orban, non nasconde le sue preoccupazioni: «L´unico modo per risolvere il problema sicurezza è quello di rinforzare la cooperazione bilaterale tra i due paesi, altrimenti ci saranno conseguenze negative».
Le proposte per far fronte all´emergenza criminalità di Roberto Maroni, neo ministro degli Interni, sono destinate a confrontarsi con le regole Ue. La più spinosa è quella su Schengen, che a Bruxelles non scatena grandi entusiasmi: «Modificare la libera circolazione dei nostri cittadini non è una cosa che si può fare in una notte - spiega un portavoce della Commissione Ue Friso Roscam Abbing - tutte le idee delle capitali vengono esaminate e se trovano sostegno da parte di tutti i governi si procede, ma al momento questa sembra essere una priorità solo italiana. E comunque per farlo ci potrebbero volere anche tre o quattro anni».
Oggi, infatti, le frontiere possono essere chiuse solo in casi straordinari e limitati nel tempo: basti pensare alle Olimpiadi di Torino, ai mondiali tedeschi o al matrimonio del principe spagnolo Felipe. Tutti casi in cui era in gioco la sicurezza nazionale.
Certo, il governo potrebbe far passare l´emergenza immigrati come tale, ma il via libera Ue è tutto da verificare. Ecco perché Pdl e Lega pensano di modificare le regole Schengen alla radice, magari sfruttando la revisione della direttiva avviata dallo stesso Frattini nelle vesti di vicepresidente della Commissione e collaborando con la Francia. Sarkozy, che da luglio sarà presidente di turno della Ue, punterà molto proprio sull´immigrazione. Un progetto comunque difficile, per i tempi e per le difficoltà di convincere tutti i governi e l´Europarlamento.
La manovra rischia anche di far precipitare le relazioni bilaterali tra Italia e Romania. Avverte il romeno Orban: «L´unico modo per evitare conseguenze negative è quello di rinforzare la cooperazione bilaterale a livello politico e tra le forze dell´ordine di Roma e Bucarest, strada che ha permesso all´Austria di risolvere molti problemi». Ipotesi, questa, che non a caso già circola tra gli staff dei ministri italiani coinvolti nella stesura del pacchetto Maroni. «E poi - osserva ancora il commissario Ue - la libertà di circolazione è uno dei principi fondamentali dell´Ue, restringerla significherebbe fare un passo indietro nell´integrazione del Vecchio Continente».
Ma sul tavolo di Maroni ci sono anche altre proposte, come quella di aumentare il periodo di detenzione nei Cpt dei clandestini extracomunitari. Su questo fronte le cose potrebbero essere più facili (e rapide), visto che entro luglio la Ue potrebbe permettere alle capitali di farlo fino a 18 mesi.
Discorso simile sulla stretta alle espulsione di cittadini comunitari. Leggi romeni. La direttiva Ue del 2004 già permette questo genere di provvedimenti, ma in Italia non è mai stata applicata. Negli ultimi mesi ci ha provato Giuliano Amato, ex ministro degli interni, ma il famoso decreto sicurezza è rimasto bloccato in Parlamento. Il governo Berlusconi riprenderà in mano il dossier e cercherà di interpretare le regole europee nel modo più restrittivo possibile. Ma dovrà farlo con grande attenzione. Per non essere bocciato da Bruxelles, infatti, il provvedimento non dovrà permettere allontanamenti di massa, severamente vietati. Le espulsioni potranno essere attuate solo caso per caso e in seguito a condanne per reati gravi, per mancanza di sostentamento o per salvaguardare salute o sicurezza pubblica. Intesa, però, come terrorismo, non come un generico rischio criminalità che sarebbe difficile difendere a Bruxelles.

Repubblica 11.5.08
L'ex presidente della Camera era già stato contestato a Torino il primo maggio scorso
Bertinotti rinuncia al dibattito La Bresso: in piazza i soliti mille
di Paolo Griseri


TORINO - Per uno scherzo della cronaca parte da corso Marconi, già luogo simbolo del capitalismo italiano, la prima manifestazione della sinistra radicale dopo la sconfitta del 13 aprile. Nel corteo che propone il boicottaggio della Fiera del Libro c´è la fotografia di quel che resta oltre il Pd dopo il bombardamento delle urne. Le macerie consegnano un movimento a egemonia antagonista dove i centri sociali occupano i due terzi della manifestazione e la sinistra dei partiti è un frammentato fondo di bottiglia fatto di decine di striscioni e pochissimi militanti.
La presidente del Piemonte, Mercedes Bresso, liquida tutto questo con un´analisi semplice: «Sono sempre i soliti mille, il partito del no che oggi boicotta la Fiera e ieri boicottava l´alta velocità». In realtà il Pd sa bene che non è così. Che i democratici non possono dormire tranquilli se tutto ciò che si muove oltre il partito di Veltroni è egemonizzato dal centro Akatasuna di Torino o dal Gramigna di Padova. Perché, spiegavano ieri gli stessi militanti dei centri torinesi, «per noi quel che conta è l´antagonismo, la capacità di entrare in sintonia con la protesta della gente. Non ci interessa il palazzo». Una versione di sinistra del grillismo, ecco quel che vinceva ieri tra gli striscioni del corteo. Dove l´idea di bruciare la bandiera di Israele non viene vissuta per quel che è, per il suo messaggio di annientamento morale di un popolo, ma come la strada più diretta per entrare nei tg: «Figurati se siamo contro gli ebrei, siamo mica fascisti».
La selva di sigle, partiti e partitini che seguiva in coda il corteo segnalava un disagio ben più degli slogan e delle accuse a Bertinotti: «Quelli come lui sono entrati nel palazzo e adesso fanno fatica a uscirne con la testa». La rappresentanza in piazza era inversamente proporzionale a quella nelle urne. Così Rifondazione non c´era per scelta: non ha aderito, anzi ha condannato la protesta. I Comunisti italiani hanno cavalcato l´onda ma ieri dietro il loro striscione si sono ritrovati un centinaio di militanti, nessun dirigente di rilievo e 27 bandiere. Lo striscione più grande e il partito più seguito era quello di Marco Ferrando, fino a ieri considerato una specie di matto volante nel panorama politico nazionale. Se questo emerge dalle macerie del 13 aprile si può ben capire perché ieri pomeriggio, mentre il corteo avanzava verso il Lingotto, Fausto Bertinotti abbia deciso di non partecipare al dibattito sulle ragioni della sconfitta della sinistra. Oggi l´ex presidente della Camera sarà in Fiera per parlare della Costituzione. Ma un accenno a quelle macerie sarà inevitabile.

Corriere della Sera 11.5.08
Appena conclusa la mappatura del genoma. Ecco le sorprese dell'animale più strano
L'ornitorinco sconfigge Darwin
«Il suo patrimonio genetico mette in crisi l'evoluzionismo»
di Massimo Piattelli Palmarini


L'ornitorinco è la dimostrazione che perfino il Padreterno ha un sense of humour. Tra tutte le strane creature che si incontrano in natura, questo mammifero australiano semiacquatico, palmato, potentemente velenoso, con il becco, che depone uova, ma poi allatta i piccoli, e che ha una temperatura corporea piuttosto bassa, è forse la più strana di tutte. È sintomatico che, quando il capitano John Hunter inviò alla Royal Society di Londra, nel 1798, una pelliccia di ornitorinco e un disegno accurato dell'intera bestia, gli scienziati pensarono si trattasse di uno scherzo. Non a caso, sia il filosofo americano Jerry Fodor che Umberto Eco, in un suo magistrale saggio ( Kant e l'Ornitorinco), sostengono che, in un mondo in cui esiste tale creatura, forse tutto è possibile.
Adesso, interi laboratori di biologi australiani, tedeschi ed americani ne hanno sequenziato il genoma ed è di questi giorni la pubblicazione congiunta su Nature esu
Genome Research di una serie di scoperte microscopiche non meno sbalorditive di quelle macroscopiche, quelle date dalla semplice, superficiale vista dell'animale intero. I mammiferi normali, come è noto, hanno una coppia di cromosomi sessuali, XX nelle femmine, XY nei maschi. Ebbene l'ornitorinco ha ben 10 cromosomi sessuali, cinque paia di X nelle femmine, cinque X e cinque Y nei maschi. E ha in tutto la bellezza di 52 cromosomi, contro i nostri 46. Anche al livello genetico fine, si identifica un misto di discendenze, da altri mammiferi, certo, ma anche dai rettili e dagli uccelli. I cromosomi sessuali, per esempio, sono derivati evolutivamente dagli uccelli, mentre il feroce veleno dell'ornitorinco, iniettato da due speroni posti dietro ai gomiti posteriori, contro il quale non esistono per ora antidoti, replica l'evoluzione del veleno dei serpenti. Derivati entrambi originariamente da sostanze anti-batteriche, questi veleni offrono un caso esemplare di evoluzione convergente, cioè di come rami divergenti dell'albero evolutivo abbiano trovato, per così dire, una stessa soluzione dopo essersi separati.
Scendendo veramente all'interno dei geni, fino a pescare delle importanti molecole di regolazione fine dell'attività dei geni (chiamate micro-Rna), Gregory Hannon dei laboratori di Cold Spring Harbor (Stato di New York) e Jurgen Schmidtz dell'Università di Münster (Germania) hanno scoperto strette somiglianze con i mammiferi, ma anche con i rettili e con gli uccelli. Inoltre, mentre nei mammiferi una particolare varietà di queste molecole regolatrici resta prigioniera nel nucleo delle cellule, nell'ornitorinco migra e si moltiplica fino a quarantamila volte.
Questi scienziati non esitano a parlare di «una biologia diversa» da quella fino ad adesso nota. Sembrerà strano che i pediatri di Stanford si siano interessati da presso all'ornitorinco, ma bisogna pensare che circa un terzo dei bimbi maschi che nascono prematuramente hanno il difetto che i loro testicoli non scendono normalmente nello scroto. Ebbene, l'ornitorinco ha permesso di individuare due geni responsabili di questa discesa, tipica dei mammiferi, ma assente negli uccelli e nei rettili e, potevate scommetterci, nell'ornitorinco. L'esperto delle malattie del sistema riproduttivo, Sheau Yu Teddy Hsu, di Stanford, autore di uno degli studi appena pubblicati su Genome Research,
ha dichiarato che l'ornitorinco è un eccellente «ponte» tra i mammiferi, gli uccelli e i rettili. Le peripezie dei testicoli e i geni che le pilotano non hanno adesso più segreti, perché i geni «rilassinici» responsabili sono stati sequenziati in varie specie.
Una considerazione su questo punto ci interessa tutti, però, perché depone contro l'idea darwiniana classica che l'evoluzione biologica proceda sempre e solo per piccoli cambiamenti cumulativi. Hsu ha, infatti, scoperto, che il gene ancestrale della famiglia dei «rilassinici» si è scisso in due famiglie distinte, una famiglia presiede alla discesa dei testicoli nei maschi, mentre l'altra famiglia presiede alla formazione della placenta, delle mammelle, delle ghiandole lattee e dei capezzoli nelle femmine. Questi tessuti molli, ovviamente, non lasciano testimonianze fossili, ma la ricostruzione dei geni ha rivelato che c'è stato, milioni di anni fa, uno sdoppiamento: una famiglia di geni, d'un tratto, ha prodotto due famiglie di geni che potevano pilotare due tipi di eventi. In sostanza, potevano permettere la comparsa dei mammiferi dotati di placenta.
L'ornitorinco, mammifero privo di placenta e di mammelle, ma con la femmina dotata di latte che viene secreto attraverso la pelle, era l'anello mancante, il ponte evolutivo che adesso connette tutti questi remoti e subitanei eventi evolutivi. Hsu dichiara testualmente: «È difficile immaginare che processi fisiologici tanto complessi e tra loro intimamente compenetrati (discesa dei testicoli nei maschi, placenta, mammelle, capezzoli e ghiandole lattee nelle femmine) possano avere avuto un'evoluzione per piccoli passi, attraverso molti cambiamenti scoordinati». Come dire, ma questo Hsu non lo dice in queste parole: ornitorinco uno, Darwin zero.
Ma allarghiamo l'orizzonte oltre l'Australia e l'ornitorinco. Da molti anni ormai i genetisti e gli studiosi dell'evoluzione dei sistemi genetici hanno scoperto svariati casi di moltiplicazione dei geni, cioè si constata che, mentre in un remoto antenato esiste una copia di un gene, o di una famiglia di geni, nelle specie più recenti se ne hanno due copie, poi quattro. Una regoletta generale facile facile, che ha le sue eccezioni, dice uno, due, quattro.
Queste moltiplicazioni genetiche sono, sulla lunghissima scala dell'evoluzione, eventi subitanei. Pilotati dai meccanismi microscopici che presiedono alla replicazione dei geni, avvengono per conto loro, prima che i loro effetti sbattano la faccia contro la selezione naturale, e non procedono per piccoli passi. Non si hanno due copie e mezzo, o tre copie e un decimo. Il gradualismo, cioè i piccoli passi fatti a casaccio, uno dopo l'altro, della teoria darwiniana classica vanno a farsi benedire. Il macchinario genetico fa i suoi salti, e poi altri fattori di sviluppo decidono quali di questi salti producono una specie capace di sopravvivere e moltiplicarsi. Tra queste e solo tra queste, la selezione naturale porterà ulteriori cambiamenti. Ma sono dettagli, non il motore della produzione di specie nuove. L'ornitorinco fa parte di una piccolissima famiglia, quella dei monotremi (un solo canale per escrementi e deposizione delle uova). Il compianto Stephen Jay Gould fece notare, giustamente, che differenti ordini di animali hanno un potenziale interno molto diverso di produrre specie nuove. Ottocentomila specie di scarafaggi, qualche decina di specie di fringuelli, poche specie di ippopotami, elefanti, monotremi e, sì, ammettiamolo, di scimmie antropomorfe come noi.
Sono tutti «ottimi» animali, cioè sono tutte ottime riuscite dei processi biologici, ma per alcune soluzioni la porta è aperta a tante varianti, a tante specie, per altri, invece, no. Il segreto, ancora largamente misterioso, risiede senz'altro in proprietà interne, nell'organizzazione dei sistemi genetici, non nella selezione naturale. La selezione naturale della teoria darwiniana classica può agire solo su quello che le complesse interazioni della fisica, la chimica, l'organizzazione interna dei sistemi genetici e le leggi dello sviluppo corporeo possono offrire. Perfino in un mondo in cui esiste l'ornitorinco non proprio tutto è possibile.