mercoledì 14 maggio 2008

l'Unità 14.5.08
Stanca di Guerra
di Anna Finocchiaro


Non sarei intervenuta se non avessi netta la percezione che in questo dopo elezioni il nostro partito sta vivendo dannose e scomposte inquietudini. La sconfitta è stata molto seria, e non solo per la percentuale di consensi, quanto perché l’analisi del voto - per molti versi ancora, almeno per me, incompiuta - ci mostra una nuova geografia politica, in termini di aree, di soggetti, e di temi di riferimento che avremmo la necessità di indagare molto profondamente. È un lavoro che va cominciato subito. Non solo nelle assise di partito. E che richiederà tempo.
Ma se certo scontiamo la «giovane età» del nostro partito, e di ciò che ne può essere derivato in termini di radicamento, se scontiamo errori circa la proposta organizzativa, c’è altro di sostanziale, di strutturale? Veniamo in prima approssimazione a due questioni. La prima: la natura politica del Partito Democratico. Ci siamo detti molte volte che è quella di una forza nazionale riformista.
Una grande forza di cambiamento dell’Italia. Il risultato dell’incontro delle grandi culture riformiste della storia politica italiana. E qui c’è un primo nodo: pensiamo che in sei mesi si sia già conclusa l’opera di costruzione del Pd? Io credo ci sia molto ancora da fare. Non possiamo pensare che la ricerca di quella identità culturale e valoriale che abbiamo cominciato a delineare si esaurisca nell’aver scritto una carta dei valori, uno Statuto e un codice etico. Io credo ci sia da lavorare, ce lo dice anche il voto, su un doppio binario: quello dell’ascolto del Paese e quello del radicamento e della costruzione dell’identità del Pd. Insisto su questa parola. Io credo sia arrivato il momento di lavorare per una più compiuta identità, che sia nuova sintesi e non compromesso tra le nostre diverse anime, che riesca ad intercettare il respiro di quella parte dell’Italia che davvero vuole rimettere in moto il Paese. Per fare questo ci vuole tenacia, fatica, tempo e sedi proprie.
Abbiamo cinque anni di tempo e sgombriamo il campo dall’illusione che questo governo nel giro di pochi mesi imploda. Lavoriamo con umiltà e senza pensare, come spesso purtroppo accade, che l’efficacia di una scelta politica si esaurisca nel giro di sei mesi o ad ogni tornata elettorale.
Tutti poi abbiamo convenuto sulla necessità di un partito a vocazione maggioritaria. Ne abbiamo derivato - e continuo a ritenere corretta questa scelta per il contesto politico in cui è maturata, e per le ragioni che ci hanno mosso ad adottarla - che alle elezioni saremmo andati da soli.
Nessuno di noi ha mai pensato che questo volesse dire splendido isolamento o autosufficienza. Ma tutti abbiamo convenuto sulla necessità di presentarci al Paese con una identità programmatica netta e definita. E se c’è un giudizio unanime e positivo che viene da tutti i commentatori e gli analisti è proprio quello sulla scelta del Pd di essersi presentato da solo alle elezioni con la propria proposta di governo.
Qualcuno ha cambiato idea? Discutiamone con chiarezza.
Peraltro dalla scelta che abbiamo compiuto in campagna elettorale è derivato un primo risultato, la semplificazione dello schema di gioco elettorale. A fronteggiarsi, sostanzialmente, solo due formazioni politiche il Pdl e il Pd. Ottimo risultato, certo, se guardiamo alla frammentazione del quadro politico di due anni fa. Viatico imprescindibile per l’avvio a soluzione del problema, drammatico per l’Italia, della stabilità dei governi e della qualità e rapidità della decisione politica. Ma abbiamo perso le elezioni. Quell’effetto sul sistema politico per noi così apprezzabile, e così specularmente apprezzato ed imitato anche dal centrodestra, non è stato determinante.
Questa affermazione conduce con sé il vero quesito a cui dobbiamo rispondere: siamo certi che un partito riformista abbia, in questa Italia, quella del 2008, una Italia in cui dal 1994 il centrosinistra non è mai riuscito ad essere stabile maggioranza, una forza elettorale superiore al 33-34%? Dico “questa Italia” perché credo sia questo uno dei punti essenziali.
Il nostro è un Paese legato dalla paura e da un diffuso senso di vera insicurezza. Non parlo solo dell’insicurezza di fronte a rischi di aggressione fisica o ai propri beni.
È un Paese che non si fida - nella sua stragrande maggioranza - del futuro e non riesce a proiettare sul cambiamento uno stato di maggiore possibilità di rischio per il conseguimento di miglioramenti nella propria condizione di vita, di lavoro.
Non è un’analisi di comodo. L’abbiamo fatta, e l’hanno fatta autorevoli studiosi e commentatori politici più volte in questi ultimi anni. L’abbiamo sperimentata di fronte alle iniziative liberalizzatrici di Pierluigi Bersani, orientate ad una maggiore democrazia economica. Il tentativo più squisitamente riformista di questi anni della storia italiana, oltre che il più intelligente antidoto al drammatico ritardo dell’Italia nell’offerta di opportunità a imprenditori professionisti, giovani generazioni.
Allora il tema è capire se la nostra offerta politica, l’offerta riformista, sia riuscita ad entrare in relazione positiva con un paese spaventato. Pare di no. Non per ora almeno.
Quanto più il Pd ha offerto il coraggio della sfida riformista, tanto più per una larga parte dell’opinione pubblica questo ha significato timore e spaesamento. Non per quel 33-34%, certo. Ma il resto non era pronto, non si sentiva solidamente assestato, certo di sé e delle proprie possibilità. Non sul piano della modernità, come noi lo intendiamo. La sfida sull’innovazione spaventa, se non hai sotto di te terreno solido. Se guadagni poco, troppo poco, se hai poco da investire e quel poco ti è carissimo, se tuo figlio sta peggio di come stavi tu alla sua età, se la competizione è un incubo, se il tuo territorio è popolato da presenze che avverti estranee, e per molte intime ragioni, ostili.
Ma anche se godi di una rendita derivante da una posizione oligopolistica, se dipendi da un rapporto parassitario con la cosa pubblica, se alla fine “ti aggiusti” in un sistema che non funziona come dovrebbe, ma proprio per questo ti consente di usufruire del piccolo o grande privilegio di un rapporto clientelare con la politica, con i governi, locali o nazionali.
In questo senso il messaggio del Pdl è apparso assai più rassicurante del nostro.
Niente riformismo, di fatto, se non quello di aumentare i redditi diminuendo il carico fiscale (e chi se ne importa di ogni domanda sulla qualità ma anche sulla quantità della spesa pubblica destinata all’assicurazione dei diritti, dall’istruzione alla sanità), e maggiore sicurezza e scacciare i fantasmi dell’immigrazione e dell’illegalità, insieme ad un sottile messaggio antieuropeista che sia d’argine a quelle innovazioni che da lì possano essere imposte.
Rassicurazione. A piene mani. Sanno perfettamente che non è così semplice. Cauti ballon d’essai in questi primi giorni, qualche preoccupazione del premier anche in campagna elettorale, ma giusto per spegnere l’eccesso. Anche la cifra, identica per tutti , con la quale i Presidenti delle Camere e, da ultimo, il Presidente del Consiglio si sono manifestati è quella della rassicurazione.
Dialogo, riforme bipartisan, confronto, talvolta pieno elogio dei predecessori. Perfetto. Sembra vero. Ma sarà vero?
Risponde di certo all’insicurezza dell’Italia. Ma non vedo né intenzione, né la forza di volerla cambiare davvero l’Italia. L’equità compare nelle indicazioni di politica economica, in rassicuranti propositi di colpire i veri “capitalisti”, ma non una parola sulla democrazia economica, sulla liberalizzazione dei mercati, sull’abbattimento degli oligopoli. Il Mezzogiorno è opere pubbliche, subito il Ponte sullo Stretto, alta velocità. E va bene.
Ma il resto, cioè tutto il resto?
Per il resto ci si offre, in sostanza, di associarci alla responsabilità.
È nel crinale della definizione del rapporto tra noi e la maggioranza così come oggi la maggioranza ce lo offre che dobbiamo definire la cifra della nostra opposizione. È molto difficile, perché lavoriamo su un terreno reso abilmente molto scivoloso. Non discuto, com’è ovvio, della naturale attitudine, in un regime bipolare finalmente adulto, di una intesa tra maggioranza e opposizione sulle questioni istituzionali e sulle questioni strategiche per il futuro del Paese. L’ho predicato, peraltro inutilmente, per due anni da capogruppo di maggioranza. Parlo del compito, assai più difficile, dell’opposizione di tenere viva, e motivata, e ansiosa di provarci, quella parte dell’Italia che rischia di essere anestetizzata o neutralizzata da una politica rassicurante che lasci però tutto com’è.
Il nostro lavoro è di lunga lena. Noi dobbiamo prima di tutto consolidare il bacino di consensi del Pd. E cercare di farlo diventare più grande a partire dal lavoro di opposizione che saremo capaci di svolgere. Certo preoccupandoci di dialogare con le altri parti di opposizione, in Parlamento e nel Paese, cercando alleanze anche strategiche. Ma il nostro primo compito è quello di stabilizzare e insieme di allargare l’area del Pd. Nell’inedita responsabilità, peraltro, alla quale siamo chiamati, di offrire il Pd anche come luogo della rappresentanza di valori e interessi e bisogni di riferimento di quell’area della sinistra che è rimasta esclusa dai luoghi della rappresentanza politica. Non parlo di annessioni. Parlo della possibilità di definire, anche in ragione di questo, profili politici e piattaforme di proposte che non guardino, e rispondano, a quei valori, a quegli interessi, a quei bisogni. Per fare tutto questo, per definire tutto questo abbiamo bisogno di tempo e di tutta la nostra forza. Tutta. E abbiamo perciò bisogno di solidarietà e sincerità tra i gruppi dirigenti. E di molta capacità di reciproco self-restrain.
Questo mi piacerebbe fare, questo mi appassionerebbe.
Io, come la Teresa Batista di Jorge Amado, sono stanca di guerra.

Corriere della Sera 14.5.08
«Sto creando una nuova struttura legata al Pd ma aperta a tutti»
intervista a Massimo D'alema di Maria Teresa Meli


Diranno che mi sto facendo il mio partito? Sarebbe sbagliato: la politica non si fa solo con i partiti
«Berlusconi? Da innovatore "eversivo" a doroteo»

ROMA — Onorevole D'Alema, come giudica il discorso di Berlusconi?
«Sono sempre stato contrario alla logica di un bipolarismo rozzo e di una contrapposizione frontale, per questo non posso che apprezzare la volontà di stabilire un clima di normalità nei rapporti politici e di correttezza nei rapporti istituzionali. In particolare ho colto il riferimento al presidente della Repubblica e al suo ruolo istituzionale. Berlusconi ha fatto un discorso indubbiamente abile... quasi doroteo. Con una sorprendente rivalutazione, nei contenuti e nello stile, della Prima Repubblica. Tuttavia mi è parso un discorso povero di contenuti di carattere programmatico, con un approccio dimesso e poco ambizioso rispetto ai problemi del Paese. Insomma abbiamo avuto un Berlusconi innovatore, che si proponeva quasi in termini "eversivi", e adesso ci troviamo di fronte un Berlusconi in doppio petto, volto a consolidare la sua posizione di egemonia sulla vita politica italiana».
Comunque ha fatto molte aperture di credito all'opposizione.
«E' abbastanza paradossale che non avendo mai voluto riconoscere la legittimità dei governi in carica di centrosinistra, Berlusconi sia stato così generoso nel riconoscere la legittimità del governo ombra. E' chiaro che è molto più comodo riconoscere la legittimità degli sconfitti, ma, insisto, registriamo il passo in avanti. Certo, bisogna vedere se il Berlusconi che non vuole scontentare nessuno sarà all'altezza della sfida e della drammaticità dei problemi italiani, che mi sembravano assenti dal suo discorso. Se si limiterà alla pura occupazione del potere, seppure con modi più garbati, o se questa nuova visione della dialettica politica sarà produttiva di cambiamenti e innovazioni. Temo che Berlusconi si illuda di poter gestire l'esistente».
Secondo lei il Pd deve aprire al confronto con Berlusconi?
«Di fronte al Pd c'è una sfida impegnativa. Non si può reagire in modo nervoso, non cogliendo le novità di impostazione dei rapporti tra maggioranza e opposizione, ma non ci si può nemmeno accontentare solo di questo. La sfida va portata sui contenuti. E richiede riforme coraggiose, in grado di sfidare corporazioni e privilegi: ci vorrebbe una destra liberale e non dorotea. In secondo luogo, la questione italiana più drammatica è l'aumento delle distanze sociali e l'impoverimento di una parte della società. Anche affrontare questo problema richiede scelte coraggiose e determinate. Infine l'altro terreno di sfida riguarda la concezione di Stato moderno. Io dubito che la risposta stia nel federalismo, che rischia — oltre un certo limite — di disarticolare ulteriormente il Paese e moltiplicare i costi e la complessità della democrazia».
Che tipo di opposizione dovrebbe fare il Pd?
«Un'opposizione in grado di incalzare il governo sulla base del nostro programma, ma anche e soprattutto capace di darsi un respiro e una prospettiva di medio periodo, perché si tratta di costruire un rapporto più robusto con la società italiana, di elaborare una cultura politica più moderna, in grado di interpretare i cambiamenti del Paese. Si tratta di costruire risposte più convincenti e alternative. In fondo è un discorso non diverso da quello che impegna i riformisti in altri Paesi europei e negli Usa».
Il Pd sembra piuttosto impegnarsi in guerre intestine.
«Forse c'è stato un equivoco nei giorni scorsi. Si è data la sensazione che le cose potessero precipitare verso una resa dei conti, che non era interesse di nessuno, che nessuno ricercava e di cui non si capirebbe il senso».
E' stato lei nei giorni scorsi a fare rilievi...
«Ci dovrà pur essere una possibilità di discutere senza che questo debba essere interpretato come contrapposizione, dualismo, guerra. Da parte mia ci sono state semplicemente due preoccupazioni. La prima, che ci fosse una discussione vera, all'altezza di una sconfitta di questa portata. Una sconfitta che si "legge" anche nel discorso di Berlusconi, che ha dato il senso di una fase che si chiude e di un'ambizione di egemonia di lungo periodo. Perciò io ho chiesto una discussione vera e non un'interpretazione in qualche modo riduttiva del risultato, legata semplicemente agli errori del governo. La seconda preoccupazione che ho voluto esprimere è quella di coinvolgere le forze migliori del partito, uscendo da logiche abbastanza spartitorie di mantenimento degli equilibri. Come ha detto giustamente Bersani, abbiamo bisogno di rimescolare le carte. I segnali in questo senso non erano convincenti e io l'ho detto, non per stabilire un dualismo, ma perché lo ritenevo utile e necessario. Quel che è avvenuto dopo nel Pd dimostra che era così: ci sono state delle correzioni di rotta. Infatti nella compagine del governo ombra c'è stato uno sforzo effettivo di rinnovamento e apertura. E anche la discussione politica ha cominciato a prendere un respiro diverso. Credo che rispetto alle ragioni iniziali di diversità di giudizio e anche, se si vuole di polemica, le cose adesso si siano avviate in termini più convincenti».
Berlusconi vi ha invitato al dialogo sulla riforma elettorale.
«Bisogna affrontare con prudenza la discussione sulle riforme istituzionali e della legge elettorale. Sono a favore della semplificazione ma trovo sbagliato per il nostro Paese l'introduzione forzosa del biparitismo. Su questo si deve fare una discussione seria, non imprigionata nello schema "o sei per il bipartitismo o sei per la vecchia politica". Una semplificazione del genere, e solo per ragioni di propaganda interna, non servirebbe a nulla. E sulle questioni che toccano la sostanza della democrazia un partito come il nostro deve essere attento e rispettoso del pluralismo ».
Dicono che lei è stato fatto fuori dagli organismi dirigenti.
«Veltroni mi ha chiesto che cosa volessi fare e sono stato io a dirgli che non intendevo essere impegnato nel governo ombra né in compiti di direzione operativa del Pd e quindi non so chi abbia messo in giro questa voce».
Se è per questo dicono che anche Marini è stato emarginato.
«Non ho idea di che cosa pensi Marini ma un'idea di quel che pensa D'Alema grosso modo ce l'ho. Io non voglio incarichi perché penso di fare altro, di fare cose diverse ma utili. E non è vero che le personalità contano se stanno in un organismo dirigente. Tra l'altro, è giusto che chi ha la responsabilità di guidare il Pd metta alla prova forze nuove e non sempre le stesse persone. Comunque, visto che parliamo sempre di politica nuova, bisogna anche cercare di farla e questo è quel che sto cercando di fare».
Non è che sta facendo una sua corrente?
«No. Io voglio cercare di fare una cosa differente, che consiste nel mettere insieme trasversalmente persone di diversa provenienza, magari anche con diverse opinioni politiche su determinati temi ma che sono interessate a un progetto di ricerca, di formazione e di informazione. Il che è assolutamente il contrario di vecchie logiche di appartenenza o di cordata». Con lo strumento della Fondazione Italianieuropei?
«Sì, anche. Ci sono già e continueranno a esserci dei gruppi di ricerca sui problemi del Paese, perché c'è una grandissima domanda di capire e di partecipare. Abbiamo già una rivista, vogliamo poi creare un'associazione di personalità politiche, del mondo della cultura e della società civile che affianchi il lavoro della fondazione. Vogliamo arricchire il patrimonio — già straordinario — di collegamenti internazionali con i think thank progressisti e riformisti dell'Europa, degli Usa e di altri continenti. Siccome vogliamo fare un lavoro rivolto alle nuove generazioni, intendiamo occuparci anche della formazione. E inoltre stiamo cercando di fare un salto di qualità dal punto di vista informativo: abbiamo avviato una collaborazione con la televisione satellitare Nessuno tv. Insomma, daremo vita a una struttura che sarà un pezzo di politica nuova rispetto ai partiti tradizionali. Naturalmente, questo progetto è legato organicamente alla costruzione del Pd, anche se nelle nostre iniziative vogliamo dialogare con tutti, compresi il governo, la maggioranza e le altre forze di opposizione».
Lo sa che diranno che si sta facendo il suo partito?
«Sarebbe un commento sbagliato da parte di chi pensa che la politica si faccia solo con i partiti e forse non conosce il modo in cui i grandi partiti democratici e riformisti, dagli Usa all'Europa, elaborano le loro politiche e costruiscono il loro rapporto con la società».

Corriere della Sera 14.5.08
Bertone ai politici: giusto collaborare per il bene comune
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — A deputati e senatori cattolici il cardinale Segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha rivolto un preciso invito a «prendersi cura della cosa pubblica difendendo i valori che non sono negoziabili», contrastando il «crescente relativismo» culturale e morale.
E' stato questo il cuore dell'omelia letta dal principale collaboratore del Papa («che sa che sono qui e prega per voi e vi dà la sua benedizione») durante una messa che ha celebrato nella chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza, insieme a monsignor Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, davanti a una ventina di parlamentari, agli appartenenti all'Associazione Paolo VI, e all'associazione "Cultori dell'etica".
Bertone ha additato ai politici l'esempio di san Tommaso Moro che testimoniò con il sangue «il primato della verità sul potere». E pur augurandosi che non si debba giungere fino al martirio, ha voluto ricordare ai parlamentari due lunghi passaggi della Nota dottrinale che l'ex Sant'Uffizio emanò all'inizio del 2003 (Ratzinger era prefetto e Bertone il suo vice). Un documento cui si è richiamata allora la maggioranza era di centrosinistra - la Cei lo scorso anno, mentre si discuteva dei Dico per le coppie conviventi anche omosessuali. Bertone ha anche riportato un passaggio del discorso di Benedetto XVI all'Onu quando ha messo in guardia a non collegare «nuove situazioni» che sorgono nella storia «a nuovi diritti».
Complessivamente erano presenti forse più parlamentari di centrosinistra che di centrodestra. Del governo, i sottosegretari Giovanardi, con delega alla famiglia, e Mantovano. Con il presidente del Senato Renato Schifani, Bertone è stato anche a colloquio (venticinque minuti) prima della celebrazione. «È stato un incontro molto cordiale. Abbiamo auspicato un clima di serenità e di pace nel Paese.
Lavoreremo per questo», ha commentato Schifani. Della «distensione tra le diverse componenti, e un progetto di collaborazione tra maggioranza ed opposizione» ha parlato anche Bertone: «Certo non vogliamo la conflittualità permanente. Vogliamo anche la serenità non solo dell'azione ma anche nel linguaggio». Nell'incontro anche i problemi della famiglia e del governo.
Quanto all'assenza di ministri cattolici nel nuovo esecutivo, il cardinale dice di «non sentirsi deluso, l'importante è che i cattolici vivano da cattolici e si proiettino con quell'impegno che la dottrina sociale della Chiesa propone». In serata alla Camera un'altra messa d'inizio legislatura è stata celebrata dal rettore dell'Università Lateranense, Rino Fisichella, presenti i ministri Alfano e Gelmini, Casini e la Bindi, e altri ottanta deputati.

Corriere della Sera 14.5.08
La lettera di Einstein sulla fede: «Superstizione infantile»
di Paola de Carolis


LONDRA — Ebreo sì, ma solo nel senso di appartenenza a un popolo e di affinità mentale con la sua gente. Perché credere in Dio è «superstizione infantile », e la Bibbia è «un insieme di storie primitive». Così si esprimeva Albert Einstein il 3 gennaio 1954, in una lettera scritta in tedesco al filosofo di Princeton Eric Gutkind, che a sua volta gli aveva mandato copia di un suo libro. Uno scambio epistolare nel quale il padre della relatività, che rinunciò a essere il secondo presidente di Israele, non lascia dubbi sul suo agnosticismo.
«La parola Dio — scrive Einstein — per me non è altro che l'espressione e il prodotto delle debolezze umane, la Bibbia una collezione di leggende dignitose, ma pur sempre primitive e abbastanza infantili, nessuna interpretazione, per quanto sottile, può cambiare questo fatto. Per me la religione ebraica è, come tutte le altre, l'incarnazione delle superstizioni più infantili ». E ancora: «Il popolo ebraico, al quale sono felice di appartenere e con la cui mentalità ho una profonda affinità, non ha qualità diverse rispetto ad altri popoli — sottolinea lo scienziato —. Per quanto mi riguarda, non è migliore di altri gruppi umani, anche se è protetto dai cancri peggiori dalla sua mancanza di potere. A parte questo, non ci vedo nulla di "eletto"».
Parole inequivocabili, che però difficilmente metteranno fine alla lunga disputa sulla religiosità del genio per antonomasia, voluto come portabandiera da scienziati credenti e non, e invece contento, come sempre, di cercare una sua chiave di lettura. Come ha precisato al quotidiano britannico Guardian il professor John Brooke, docente dell'università di Oxford, «etichettare il pensiero di Einstein, come spesso avviene con i grandi scienziati, è impossibile. Senz'altro ha più volte espresso rispetto per i valori religiosi adottati dalle tradizioni ebraiche e cristiane. Ma la religione, intesa da Einstein, è qualcosa di molto complesso e astuto».
Su questi argomenti Einstein si era già interrogato nel 1940, quando in un articolo pubblicato dalla rivista scientifica Nature
sottolineava, con una frase rimasta storica, che «la scienza senza religione è zoppa, la religione senza scienza è cieca». Scriveva Einstein: «Il conflitto tra religione e scienza è nato da errori fatali», spiegando che «la persona religiosa è colui che al meglio delle proprie abilità si è liberato dalle catene dei desideri personali e si occupa di pensieri, emozioni e aspirazioni in cui crede per via del loro valore sovra-personale, senza necessariamente riconciliare tutto ciò con l'Essere Divino, altrimenti né Buddha, né Spinoza potrebbero essere considerati personalità religiose».
Della lettera a Gutkind non c'è menzione nel libro che Max Jammer, amico di Einstein, dedicò al rapporto tra il premio Nobel per la fisica e la religione. Secondo la casa d'aste Bloomsbury, che la metterà in vendita domani a Londra, venne acquistata da un collezionista privato subito dopo la morte dello scienziato, nel 1955. Solo ora viene alla luce.

Repubblica 14.5.08
Firenze. Pronto il nuovo regolamento di polizia
Mendicanti e lavavetri Firenze, tutti i divieti per il "decoro urbano"
di Massimo Vanni


Dai picnic davanti alle chiese fino alla pulizia delle finestre, 45 pagine punto per punto

FIRENZE - Non solo lavavetri. E´ vietato andare in giro ubriachi e prostituirsi vicino a scuole e chiese. Vietato lavare fari ai semafori. Vietato mendicare sdraiati sui marciapiedi, esporre menomazioni o ferite che suscitano ribrezzo, ciondolare sulle statue e sguazzare nelle vasche pubbliche. Vietato bivaccare e fare pic-nic sulle gradinate delle chiese. Vietato lanciare petardi anche a San Silvestro, stendere i panni sulle facciate dei palazzi, lavare vetri e finestre dopo le 9.30.
E´ il nuovo regolamento di polizia municipale di Firenze. Il testo che aggiorna le norme che risalgono al Ventennio, voluto dall´assessore-sceriffo Graziano Cioni, quello che da un anno a questa parte fa discutere l´Italia con le sue decisioni sui mendicanti e i lavavetri. Adesso, dalle ordinanze singole si passa alle 45 pagine del nuovo regolamento. E quel che ne viene fuori è un elenco di divieti in nome del buon vivere cittadino.
«Nessuna norma inventata o leggi speciali: il regolamento è uno strumento attuativo delle leggi, serve a farle rispettare», tiene a dire il sindaco Leonardo Domenici a proposito dei paletti nuovi e vecchi che per ora è stato solo discusso in giunta. «Entro settembre sarà operativo», annuncia l´assessore.
Un intero capitolo è riservato al sociale: gli accattoni riconosciuti come indigenti non saranno multati, ma affidati ai servizi sociali e condotti presso centri di accoglienza. Quanto all´abusivismo commerciale, d´ora in poi i vigili potranno non solo sequestrare la merce in evidenza ma anche «aprire i borsoni o i lenzuoli». E se i venditori non potranno dimostrarne l´uso personale, scatterà una multa da 160 euro più il sequestro della merce.

il Riformista 14.5.08
Rifondazione Pronta la mozione per sfidare Ferrero
Vendola archivia il comunismo e l'Arcobaleno

Aveva dichiarato, dopo aver accettato di correre per la guida di Rifondazione: «So di essere un candidato eccentrico per un'impresa ardimentosa». Al ritorno in Puglia, negli ultimi due giorni, Vendola ha chiarito l'impresa: guidare sia la regione che il partito. Le due cose, per lui, non sono incompatibili. Anzi, ha pure annunciato che si preparerà, alla prossima tornata del 2010, a succedere a se stesso. Almeno per ora. Ma l'impresa sembra «ardimentosa» anche per un altro motivo. Un ruolo determinante nel trovare la quadratura del cerchio, a Roma e in Puglia, dicono i fedelissimi di Nichi, l'avrebbe giocato D'Alema in persona. Per l'ex ministro degli Esteri si tratterebbe del primo tassello della sua politica delle alleanze tesa a recuperare un rapporto con la sinistra-sinistra. D'accordo, negli incontri romani che avrebbero dato il via libera all'operazione, anche Letta. E persino Boccia, il competitor pugliese di Vendola alle primarie del 2005, che a Letta è assai vicino. Che la Puglia, almeno nelle intenzioni di D'Alema e Vendola, possa diventare il laboratorio per le alleanze di nuovo conio lo ha poi lasciato intendere, in modo neanche troppo velato, proprio il governatore: «So di essere un candidato eccentrico perché presidente di una Regione che è un laboratorio politico del cambiamento, un laboratorio contro Berlusconi».
Fin qui la Puglia, e non solo. Ma in questi giorni Nichi ha trovato un'altra quadratura del cerchio: è pronta la mozione con cui sfiderà Ferrero al congresso di luglio, alla quale ha lavorato in prima persona insieme a un gruppo di lavoro ristrettissimo. Titolo: «Manifesto per la Rifondazione. Il nostro partito e la sfida della sinistra». Manca solo qualche «abbellimento», dicono, ma il messaggio è fin troppo chiaro, nelle oltre trentadue pagine che - come nelle migliori tradizioni della sinistra - parlano di tutto, dai mali del capitalismo alla «questione sarda», oltre a quella «meridionale», of course: Rifondazione non si scioglie, ma si deve avviare una «costituente della sinistra».
E il comunismo? Di fatto è archiviato, ma non si dice. Prima c'è il congresso. E l'obiettivo è la riconquista del partito senza lasciare a Ferrero l'orgoglio dell'identità, una carta che si annuncia decisiva, in un appuntamento ad alta intensità emotiva: «Noi, tutti noi, siamo chiamati in questo congresso al compito più arduo della nostra storia: salvare Rifondazione comunista» è la frase (solenne) che, in forme diverse, è ripetuta ovunque. E, se non fosse chiaro, la parola «superamento di Rifondazione» che pure Giordano e Bertinotti avevano usato ai tempi dell'Arcobaleno, non è mai usata. È la carta dell'orgoglio identitario quella che Vendola giocherà fino in fondo. A partire dal tema della cultura di governo: «Se Prodi è apparso timoroso e a volte succube dei poteri forti, la sinistra è parsa prigioniera di Prodi». E a una base che non ha mai digerito fino in fondo il governo, Vendola fornisce massicce dosi di autocritica: «La materialità della vita quotidiana, i suoi pesi, le sue fatiche si sono letteralmente schiantate addosso a noi: la "casta" della sinistra». E ancora: «I gruppi dirigenti della sinistra "non sono" il popolo, stanno "altrove"». Via libera dunque alla riscoperta delle radici popolari: «La nostra capacità di resistenza è stata troppo debole. Ha pesato l'assenza di un radicamento sui luoghi di lavoro e sul territorio».
Archiviato il governo, Vendola archivia pure l'Arcobaleno. Cogliendo l'occasione per attaccare il suo rivale Ferrero: la Cosa rossa è fallita perché assomigliava alla federazione proposta dall'ex ministro: «Un'esperienza di tipo federativo che non solo è rimasta imprigionata all'interno dei partiti e non è riuscita a coinvolgere parti significative della "sinistra diffusa", ma non ha neppure avviato, nel corso della campagna elettorale, alcun lavoro comune tra le forze promotrici». Nichi, che nell'appello diretto al popolo ha sempre trovato la sua forza, proverà comunque ad andare oltre ciò che c'è. Con l'obiettivo di intercettare quella sinistra diffusa che sta a sinistra del Pd. Il nome «comunista» non è in discussione, e nemmeno il simbolo, ma il partito che disegna Vendola, pur essendo antagonista non è più comunista nel senso letterale del termine: il centralismo democratico va in soffitta. Al suo posto per la «costituente» della sinistra Vendola lancia il metodo Vassallo, in salsa rossa: «Una testa un voto, la più semplice e la più rivoluzionaria delle parole democratiche». Direzione? «Una nuova soggettività della sinistra, nella politica, nella società e nella cultura». Ma Rifondazione non si scioglie. Per ora. Parola di Nichi.

martedì 13 maggio 2008

l’Unità 13.5.08
Il Papa ordina: cancellate la legge 194
Affondo senza precedenti di Ratzinger contro una legge dello Stato
Dice: ha aperto una grave ferita. In realtà ha evitato milioni di aborti
di Roberto Monteforte


Affondo senza precedenti del Papa contro la legge 194. A detta di Ratzinger - che ha incontrato il Movimento per la vita - avrebbe creato «una mentalità di progressivo svilimento del valore della vita» e avrebbe «aperto una ulteriore ferita nelle nostre società». E poco importa che proprio grazie a questa legge il numero degli aborti sia stato drasticamente ridotto come confermano tutti i dati ufficiali: dall’entrata in vigore 30 anni fa sono stati evitati almeno un milione e mezzo di aborti clandestini. Non a caso, anche a destra, questa volta la legge viene difesa.

TUTTA COLPA della legge 194. «In questi trent’anni non ha risolto il problema dell’aborto. Ha svilito il valore della vita e ha aperto nuove ferite nella società». È stato un vero affondo e tutto in chiave italiana quello lanciato ieri da papa Benedetto XVI contro la legge che regolamenta l’interruzione volontaria della gravidanza. Ad applaudirlo gli 800 delegati del Movimento per la Vita ricevuti in udienza in Vaticano. Così il Papa, proprio alla vigilia della presentazione alle Camere del Berlusconi IV, rilancia il suo no all’aborto e il tema dei «valori non negoziabili». Il ragionamento di Ratzinger parte dagli «effetti umani e sociali» della 194. Sotto accusa pone quella «mentalità di progressivo svilimento del valore della vita» che si sarebbe creata negli ultimi trent’anni, proprio «da quando è stata introdotta la legge che permette l’interruzione di gravidanza». Tutto negativo il suo bilancio, ma nessun cenno alla realtà selvaggia che ha preceduto l’approvazione della legge, alla piaga dell’aborto clandestino: «Non solo non sono stati risolti i problemi che affliggono molte donne, ma si è aperta una ulteriore ferita nelle nostre società». È effetto di questa mentalità, aggiunge, se «è diventato oggi praticamente più difficile difendere la vita umana», «perché si è creata una mentalità di progressivo svilimento del suo valore, affidato al giudizio del singolo». Come conseguenza - aggiunge il pontefice - «ne è derivato un minor rispetto per la stessa persona umana, valore questo che sta alla base di ogni civile convivenza». Il Papa non si nasconde le «molte e complesse» le cause che conducono alla «decisione dolorosa» di abortire. Ricorda le iniziative assunte dalla Chiesa a sostegno delle donne e della famiglia «per creare condizioni favorevoli all’accoglienza della vita» e invita a lavorare sulle cause che portano all’aborto. Le indica. «La mancanza di lavoro sicuro, legislazioni spesso carenti in materia di tutela della maternità, l’impossibilità di assicurare un sostentamento adeguato ai figli». Tutti «impedimenti» al «desiderio di sposarsi e formare una famiglia». Il suo messaggio politico si fa esplicito. Chiede alle «diverse istituzioni» di porre al centro della loro azione «la difesa della vita umana e l’attenzione prioritaria alla famiglia», attivando «ogni strumento legislativo».
Sono parole che scuotono il mondo politico. Interviene la neoministra per le Pari Opportunità, Mara Carfagna: «Il problema non è discutere la legge, ma applicare la cultura della vita che in questi trent’anni, come dice giustamente il Papa, è stata svilita. Serve una normativa a favore della famiglia che incentivi le nascite e a favore delle donne affinché rinuncino ad abortire». Difende la 194 la ministra «ombra» alle Pari Opportunità, Vittoria Franco (Pd): «È una legge che ha funzionato, dimezzando in questi 30 anni gli aborti in Italia. Non va cambiata, ma applicata in tutte le sue parti, potenziando la prevenzione». «L’aborto nel nostro Paese esiste ancora - aggiunge - ma per sconfiggerlo non serve rendere la legge più restrittiva e riaprire una battaglia ideologica nociva per le donne, ma- conclude - applicare la 194 in tutte le sue parti, puntando sulla prevenzione e sulla contraccezione, potenziando i consultori, insegnando l’educazione sessuale nelle scuole e rafforzando il rapporto con le donne immigrate». Per la ministra della Sanità del governo Prodi, Livia Turco «il Papa è troppo pessimista». La legge 194 è «saggia, lungimirante ed efficacie» e «non ha creato l’aborto - ricorda -. L’aborto esisteva già e la legge lo ha ridotto perché è cresciuta la responsabilità delle donne». Semmai, conclude, «esiste il problema di creare una società accogliente della maternità, ma questo non centra nulla con la 194». «Una bestemmia contro la verità e la religiosità di molte persone» commenta Marco Pannella.

l’Unità 13.5.08
La forza dei numeri. Una legge che funziona
di Livia Turco


L’aborto è un dramma e uno scacco. Mai un diritto. Il giudizio più duro contro l’aborto lo hanno pronunciato e lo pronunciano le donne. È il tribunale della loro coscienza a esprimere il verdetto più inflessibile. Anche perché esso non scaturisce dalla gelida elencazione di princìpi o dall’astratta predicazione di valori, ma da quel grembo materno che ha corpo e spirito. Carne ed anima. È da quel grembo materno che scaturisce la capacità di accogliere un figlio. Solo quel grembo materno che desidera un figlio ma non è in grado di accoglierlo conosce il dolore della rinuncia, della costrizione, della impossibilità. Sa quanto sia duro dire: «Non ti accolgo»-

Quel grembo materno merita rispetto. Sempre. Perché è il luogo dell’incontro tra l’io della madre e il tu del figlio. È il luogo di nascita di quella specialissima relazione madre-figlio: la sola che può accogliere la vita umana. Luogo fisico, psichico, morale. Si sconfigge l’aborto solo riconoscendo, sostenendo e promuovendo la capacità di accoglienza della donna, della coppia e della società. Non si sconfigge l’aborto senza e contro le donne. Ovvero, continuando a considerarle bisognose di tutela morale in quanto incapaci di esercitare una scelta responsabile.
Amareggiano le parole del Papa contro la legge 194, perché di fatto disconoscono il mistero e la moralità del grembo materno. Accusare la 194, dopo 30 anni di applicazione, di non aver cancellato l’aborto, significa non solo attaccare una legge ma disconoscere il grande cammino che le donne italiane hanno compiuto per liberarsi dalla necessità dell’aborto. Un cammino che ha prodotto una cultura più attenta e responsabile verso i figli, verso la vita umana, verso gli altri. Attaccare la legge e non nominare la drastica riduzione del ricorso all’aborto significa non voler ammettere ciò che la realtà dice: solo la legalizzazione e il riconoscimento del principio morale della scelta possono comportare la riduzione del ricorso all’aborto. Lasciamo parlare i dati: nel 2007 sono state effettuate 127.038 Ivg (interruzione volontaria di gravidanza), con un decremento del 3% rispetto al dato definitivo del 2006 (131.018 casi) e un decremento del 45,9% rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più alto numero di Ivg (234.801 casi). Il tasso di abortività, l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza al ricorso all’Ivg, nel 2007 si è attestato al 9,1 per mille, con un decremento dello 0,3 per mille rispetto al 2006 (9,4 per mille) e un decremento del 47,1% rispetto al 1982 (dal 17,2 al 9,1 per mille).
Questi dati dicono che la legge 194 è efficace, saggia e lungimirante, proprio perché contiene in sé il punto di equilibrio tra la tutela del nascituro e la tutela della salute della donna. Perché fa leva sulla responsabilità delle donne, delle coppie e sulla scienza e coscienza medica.
Bisogna applicare la legge in tutte le sue parti per prevenire l’aborto. Attraverso il potenziamento dei consultori, l’educazione dei giovani, il sostegno alle maternità difficili facendo sì che nessuna donna rinunci a un figlio per ragioni economiche e sociali. Bisogna prevenire l’aborto terapeutico attraverso un accurato percorso della diagnosi prenatale prevedendo tutto il sostegno psicologico e sociale per le donne e le coppie che stanno per accogliere figli portatori di disabilità. Bisogna che le donne che scelgono di abortire possano vivere questa dolorosa esperienza in un contesto di dignità, rispetto e piena tutela della loro salute.
Su questi temi molte azioni sono state attivate dal Governo Prodi, molte si sono interrotte. Bisogna insistere per una piena e corretta applicazione della 194 e impegnarsi per costruire una società accogliente nei confronti della maternità e della paternità. Occorre una politica “forte” a sostegno della famiglia che consenta alle donne di conciliare il lavoro e la famiglia e solleciti gli uomini ad assumersi le loro responsabilità verso i figli, partecipando al lavoro di cura.
Le dure parole del Papa contro la legge 194 pongono una questione più di fondo: fino a quando nel nostro Paese sui temi etici ci sarà belligeranza, guerra fredda, scontro, è questa la strada per affermare i valori da tutti condivisi come della vita umana e della famiglia? Credo proprio di no. Lo dico ricordando anche la fatica e gli insuccessi della precedente legislatura. C’è bisogno di un cambio di passo e di approccio sui temi etici. Un cambio di passo all’insegna della pacatezza, del rispetto, del reciproco riconoscimento della ricerca delle soluzioni condivise. È disponibile il centrodestra a promuovere questo cambio di passo?

l’Unità 13.5.08
Il progetto Maroni «Sospendere Schengen»
Piano anti-sbarchi, alt della Marina
di Maristella Iervasi


Il decreto anti-immigrati del ministro leghista Bobo Maroni è quasi pronto. Le ultime limature oggi, in un vertice interministeriale a Palazzo Chigi. All’ordine del giorno, il reato di immigrazione clandestina e la conversione del Cpt in centri di detenzione. La «macchina da guerra» contro i migranti irregolari, a sentire gli uomini di Berlusconi, sta per partire. Il provvedimento sull’immigrazione che fa il paio con quello sulla sicurezza (40 articoli) verrà «scongelato» e le misure più urgenti illustrae in un decreto di immediata esecuzione, il resto in un disengo di legge. Il tutto sarà presentto nel Consiglio dei ministri in trasferta a Napoli. In realtà, molti dei provvedimenti difficilmente potranno essere messi in pratica. A cominciare dall’espulsione su due piedi dei 650mila extracomunitari senza permesso di soggiorno, frutto della Bossi-Fini. Lo stesso Maroni ieri è stato costretto a dire: «Il reato di ingresso clandestino, se questo verrà introdotto nel codice penale, non potrà essere applicato ai 650mila non essendo possibile la retroattività delle norme penali».
Ma c’è di più: «Non ho mai considerato restrizioni al diritto d’asilo», ribadisce che nel suo «lessico» non esistono i termini «sanatoria» e «impossibile» e che il tutto avverrà in una cornice di garanzia: i diritti previsti dalla Costituzione e dai trattati europei, «senza subordinarli al diritto alla sicurezza». Per dirla con il suo predecessore al Viminale, Giuliano Amato: «Maroni non deve promettere ciò che non può accadere, come estirpare tutto il crimine».
Il piano anti-sbarchi: già flop
Il salvataggio in mare è nel Dna del marinaio. La salvaguardia della vita umana è cosa sacra che non ha confini, nè colori di nazione. È questo il «succo» della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 10 dicembre 1982 e ratificata in Italia nel 1994. La Lega dovrà di nuovo dire addio alle navi di guerra della Marina: ci provò Bossi nel 2001, in sede di discussione della Boss-Fini. E oggi Maroni ripropone lo stesso schema: il pattugliamento in alto mare per impedire l’ingresso in acque territoriali e quindi l’attracco nei porti di Sicilia e Calabria. Ma il reato di immigrazione clandestina non è previsto dal diritto internazionale marittimo. Ieri al tal riguardo ha fatto sentire la sua voce il generale Vincenzo Camporini, capo di Stato maggiore della Difesa: «Respingere i clandestini in alto mare non è consentito dalle norme internazionali». La Marina militare con 2 pattugliatori già da tempo è impegnata nel controllo dei flussi migratori. Il loro compito è quello di monitorare il fenomeno, di segnalare l’imbarcazione di clandestini ed eventualmente soccorrere il natante se questo è in difficoltà.
Il caro-espulsioni
Per ogni espulsione si devono mobilitare mezzi di trasporto per il rimpatrio (autobus, aerei e navi, uomini della forza pubblica). Una singola espulsione (stima Polizia di Stato, fonte www.stranieriinitalia.com) costa in media 3.000 euro. Rimpatriare tutti gli irregolari significarebbe spendere quasi 2 miliardi. Maroni è conscio del problema della copertura finanziaria: «La sicurezza è una priorità del governo e le risorse di devono trovare. Avendo anche questa volta davanti Tremonti so come si fa, senza contare che ci sono anche fondi europei non utilizzati».
Allontanamenti e contenziosi
Il migrante che non vuole farsi identificare arriva persino a bruciarsi i polpastrelli con l’acido per non fornire le proprie impronte. Se comunque - come è accaduto spesso nel 2001-2004 - coloro che vengono espulsi e non hanno documenti vengono comunque consegnanti all’autorità presunta dei propri paesi, accade che le polizie straniere si rifiutano di accoglierli. L’espulsione di queste persone comporta lunghi contenziosi, duranti i quali gli interessati riescono quasi sempre a scappare e rientrare in Italia.
Cpt-prigioni
Ne servirebbero almeno uno in ogni regione e provincia per soddisfare la «fame» leghista. Per sospendere Schengen e rinchiudere i clandestini per 18 mesi nei Cpt, «basta fare come si fatto per il G8 di Genova». Promessa da ministro.

l’Unità 13.5.08
La Romania: no a misure xenofobe
«Non permetteremo che i diritti dei romeni onesti vengano lesi». Frattini: non ci saranno espulsioni di massa
di Cinzia Zambrano


«Non consentiremo che i rumeni onesti in Italia siano lesi e che nascano sentimenti antirumeni e xenofobi». Colpito dagli annunci di drastici provvedimenti del neonato governo Berlusconi sul fronte della sicurezza, il ministro della Difesa di Bucarest, Teodor Melescanu, alza la voce e ricorda le 25.000 imprese a capitale italiano in Romania e «il contributo dei rumeni che lavorano in Italia al Pil della Penisola...». Intanto, il governo ombra ammonisce: niente spot sull’immigrazione, porte aperte a chi viene per lavorare.

L’AVVERTIMENTO «Non consentiremo che i romeni onesti in Italia siano lesi e che nascano sentimenti antiromeni e xenofobi nella Penisola». Bucarest alza i toni contro il governo italiano. Il duro avvertimento lanciato dal ministro della Difesa romeno Teodor Melescanu arriva a pochi giorni dalla presentazione del pacchetto di sicurezza che il ministro dell’Interno Roberto Maroni si appresta a varare. «Siamo convinti - dice Melescanu - che esista un reale interesse affinché le relazioni tra Romania e Italia, che sono ottime, siano protette dalle conseguenze negative di certe misure che potrebbero danneggiarle». E tanto per essere chiari sulle possibili ritorsioni, ricorda le circa 25.000 imprese a capitale italiano in Romania e «il contributo dei romeni che lavorano in Italia al Pil (dell’1%) della Penisola». Melescanu non lesina critiche. Definisce «debole» la reazione delle autorità italiane nei confronti della criminalità del nomadi che provengono dalla Romania. «Chi delinque deve rispondere dei suoi reati», e promette: «Il governo romeno segue attentamente le evoluzioni in Italia, con l’insediamento del nuovo governo».
Insomma, la Romania non permetterà misure xenofobe verso i romeni. Ma si dice pronta a cooperare con Roma al meglio. Il premier Tariceanu, dopo una riunione sulla situazione dei romeni in Italia, ha fatto sapere ieri che in settimana il suo ministro degli Interni, Cristian David, sarà a Roma per discutere delle iniziative che il governo italiano sta preparando in materia di immigrazione: «Proporremo al governo di Roma l’invio urgente in Italia di poliziotti e procuratori romeni per sostenere le autorità italiane negli sforzi di contrasto della criminalità», ha annunciato. «Riteniamo che in questo momento alimentare atteggiamenti xenofobi può danneggiare le relazioni bilaterali tra Romania e Italia, il che non è nell’interesse di nessuno», ha puntualizzato, difendendo i «romeni onesti in Italia, che sono la maggioranza» e avvertendo: «Non vorrei che davanti a un atteggiamento xenofobo in Italia sorgano reazioni negative in Romania», nei confronti degli italiani.
Al monito di Bucarest risponde nel pomeriggio il ministro degli Esteri Franco Frattini, che rassicura: «La linea del governo romeno è giusta, i romeni onesti e che lavorano sono necessari all’economia dell’Italia, quelli che hanno violato le leggi devono essere puniti come sarebbero puniti in Romania», sottolinea. e precisa: «C’è stata confusione tra espulsioni di massa e individuali: non ci possono essere espulsioni di massa». Quanto al problema della libera circolazione, il ministro spiega che «la Romania non è ancora parte dell’accordo di Schengen, la Romania è soggetta a tutte le regole cui sono soggetti gli altri paesi europei, fino al 2011 ci saranno i normali controlli alle frontiere». «Non si mette in discussione la libertà di circolazione ma il recepimento di una direttiva europea non ancora recepita» ha sottolineato ancora il titolare della Farnesina, sottolineando di aver già proposto «l’intensificazione delle ispezioni a sorpresa dei controlli che ci sono alle frontiere».

l’Unità 13.5.08
La corrispondente della Bbc: sul ripristino del visto Bucarest è furiosa, a rischio 12 miliardi di affari
«Contro gli exploit della destra pronta la rappresaglia economica»
di Gabriel Bertinetto


Dana Enulescu, corrispondente dall’Italia per la sezione romena della Bbc, spiega all’Unità come si viva a Bucarest l’ondata xenofoba che sembra attraversare il nostro Paese.
Che reazioni suscita fra i romeni in patria, Dana, il clima di ostilità che si respira da noi nei confronti dei loro connazionali emigrati in Italia?
«Il colpo è stato immediato e forte, soprattutto dopo le dichiarazioni di Fini sulla possibilità che venga ripristinato il visto d’ingresso per i romeni in Italia. Mi hanno contattato molti conoscenti, che vorrebbero venire qua, e si chiedono se fra qualche mese sarà ancora possibile. Anche nel mondo politico l’impatto è stato duro».
Tutti compatti, governo e opposizione, contro i progetti del nuovo governo italiano?
«Qualche differenza c’è. Al Parlamento europeo ad esempio alcuni deputati popolari si sono detti disposti a lasciare al nuovo esecutivo il tempo di sistemarsi e formulare meglio i suoi piani. Il capo di Stato rispetto a certe infuocate affermazioni di politici italiani ha detto di poterle comprendere nel clima acceso della campagna elettorale. Non però a urne chiuse. Roma non può in particolare avanzare proposte come quelle sul ripristino dei visti, e quanto alle idee di Maroni sulla chiusura delle frontiere e la sospensione degli accordi di Schenghen, sono semplicemtne irrealizzabili. Bucarest ha riflettuto sull’ondata xenofoba montata in Italia dopo l’omicidio della signora Reggiani, ed ha capito che deriva dalla confusione che alcuni politici italiani hanno fatto fra romeni e rom, fra immigrati regolari e clandestini, fra onesti lavoratori e criminali».
Avete l’impressione insomma che si faccia di ogni erba un fascio?
«Sì, ed inoltre si scaricano su di noi le deficienze del vostro sistema. Anche da noi ci sono persone che delinquono, rom o non rom. Ma vengono punite subito e messe in prigione. Voi dimenticate troppo facilmente quanto più numerosi sono comunque i romeni che partecipano alla vita economica italiana, quanti sono i miei connazionali attivi nel settore edile, soprattutto al Nord».
Che effetti può avere l’atteggiamento della destra al governo sulle relazioni con Bucarest?
«Rischiano di essere distrutti rapporti che fra i nostri Paesi sono strategici. Se questa ondata xenofoba continua, la Romania può avere a sua volta una reazione di tipo nazionalista. E questo metterebbe a rischio l’attività di 20mila ditte italiane che operano nel mio Paese».
Dunque c’è il rischio di una rappresaglia economica?
«Sì, e sarebbe grave per tutti. L’interscambio fra i due Paesi è pari a dodici miliardi di euro all’anno. Le aziende italiane alimentano il lavoro di ottocentomila romeni. Certo non sono i leader più importanti ad evocare il boicottaggio commerciale. Per ora a livello ufficiale ne parlano solo i dirigenti del partito nazionalista Grande Romania. Però quel tipo di discorsi hanno eco su tutti i giornali, e l’opinione pubblica è sensibile a quelle argomentazioni».
Che risultati ha dato l’intesa fra l’ex-sindaco Veltroni e Bucarest sull’invio di poliziotti romeni a Roma per vigilare sui campi rom?
«Era un esperimento a tempo, che è durato solo tre mesi, ma ha prodotto buoni risultati. Quei trenta fra agenti e specialisti, conoscitori della cultura e dei dialetti rom, sono stati di grande aiuto per identificare e distinguere i singoli compomenti all’interno delle comunità, in maniera che le autorità locali potessero controllarle meglio».
Tu vivi in Italia da diversi anni. Hai anche tu la percezione che la criminalità sia in aumento, in particolare da parte dei tuoi connaizonali?
«Conosco anch’io le statistiche che vedono i romeni al primo posto fra gli stranieri per molti tipi di reato. Ma i numeri vanno letti con intelligenza. Cinque anni fa i romeni in Italia erano presenti in numero infinitamente minore. Oggi sono molti di più. E la probabilità che una parte maggiore di loro commetta crimini, ovviamente sale. Quello che certamente ho notato è la manipolazione della realtà operata da una parte della stampa italiana soprattutto dopo il delitto Reggiani. Si sono distinti soiprattutto alcuni giornali di destra, come la Padania, Libero, Il Tempo. Sono stati pubblicati articoli insultanti, che facevano leva sulla mancata distinzione fra romeni e rom, delinquenti e onesti, clandestini e regolari. Troppi italiani poi ancora credono che i romeni siano degli extracomunitari. Non sanno che facciamo parte a pieno titolo dell’Unione europea».

l’Unità 13.5.08
Noi, i romeni e la xenofobia
di Luigi Bonanate


È incoerente che, nel momento in cui un problema sorge all’interno di una società, la prima risposta immaginata sia l’inasprimento delle leggi. Si deve certo reprimere il reato che è in via di commissione (anzi, è un dovere), e a questo sono adibite le forze dell’ordine. Ma non serve por mano alla legislazione se le leggi che ci sono non vengono rispettate. Perché leggi nuove dovrebbero essere più rispettate soltanto perché più dure? Quando i governi si sostituiscono ai poliziotti fanno nascere, come è noto, lo stato di polizia. Sfido qualsiasi giurista (di destra o di sinistra) a dimostrarci che il sistema legislativo italiano è incapace di determinare le fattispecie criminose o che le sue forze di polizia sono inette o negligenti. Leggi e poliziotti fanno quel che possono, mentre la politica deve far maturare, all’interno del dibattito pubblico, un consenso generalizzato sulle soluzioni migliori per la società. Le leggi servono a indicare le regole della convivenza sociale. Per questo, detta anche i regolamenti, cioé il «come si fa» che comprende a sua volta le indicazioni relative alle violazioni. E una cosa è certa: fin dalla nascita dei principi della legislazione il diritto è stato concepito come un sistema di convivenza e non di repressione. Nasce non per proibire e punire, ma per indirizzare e organizzare.
Mi si dirà: belle parole, ma astratte, e intanto che noi discutiamo la delinquenza rom/romena continua a impazzare, e anzi se ci vede deflettere da una linea di rigore e di durezza, dilagherà. Cerchiamo di vedere chi ha ragione. Da una parte, il nostro Paese è invaso di decine di migliaia di immigrati, una notevole parte dei quali è clandestina. Di questi ultimi non pochi sono romeni. I romeni, a loro volta, provengono da uno stato sovrano che è da poco entrato nell’Unione Europea e nel sistema-Schengen che regolamenta i movimenti delle persone all’interno dell’intera comunità (di tutto ciò l’Italia è, consapevolmente, un ventisettesimo). La legislazione italiana, quella romena e anche quella europea sono lì pronte a sorvegliare e regolamentare il movimento delle persone. Possiamo pensare che queste ultime siano tutte delinquenti e criminali? La badante di mia madre è una futura ladra, che non attende che il momento propizio per derubarla? I maschi romeni sono tutti stupratori che si appostano dietro i cespugli prima di saltare addosso alle nostre donne?
Come mai tanti romeni? Da parte loro, si adattano bene alla nostra lingua e alle nostre abitudini, così come dev’essere successo a molti nostri imprenditori, se è vero che 25.000 imprese romene lavorano grazie a capitale italiano. Diremo che il denaro ha più diritto di muoversi che le persone? Ora il ministro della Difesa Melescanu ci taccia di xenofobia e ci ricorda che i romeni — come gli inglesi, i francesi o gli spagnoli — sono, fino a prova contraria, ugualmente concittadini dell’Unione che hanno diritto di abitarla come noi e ci diffida dal maltrattarli. Dovevamo votare contro la loro ammissione nell’Unione, o non facevamo sul serio? E pensare che avevamo creduto che l’apertura dei confini verso l’Est europeo fosse una buona cosa, una grande occasione di indennizzo e di rinascita per dei Paesi che per 50 anni avevamo compatito perché sotto il giogo sovietico: per poi scoprire che erano tutti delinquenti? Dovremmo ora invece riflettere attentamente all’accusa che ci è stata rivolta e che è una delle più gravi che un Paese possa rivolgere a un altro: una volta avrebbe provocato una dichiarazione di guerra!
Lo xenofobo è chi ha pregiudizialmente in odio gli stranieri, e questo nostro atteggiamento verso i romeni potrebbe dispiacere anche ai tedeschi o ai danesi... Come rintuzzeremo la sfida di Melescanu? Fermeremo gli immigrati sul bagnasciuga? Sarebbe meglio che tutti insieme ci sforzassimo di affrontare quello che è uno dei grandi problemi dell’umanità nell’era della globalizzazione: né gli italiani hanno inventato la criminalità né i rumeni sono santi, ma stiamo partecipando (ci piaccia o no) alla formazione di una nuova struttura sociale universale. Le razze si confondono, non perché ci piaccia di più Naomi Campbell rispetto alla figlia (o al figlio) della lattaia all’angolo, ma perché la composizione delle classi sociali, la crescita della popolazione qui meno e là più, le disuguaglianze di reddito e di chances di vita, di fortuna di nascita o di sfortuna (tutte cose che una volta condannavano irrimediabilmente e senza appello chi era nato dalla parte «sbagliata»), non sono più accettate e subite passivamente. Non risolveremo mai nulla se ci affideremo ai ministri della Difesa; servono ad altro. Noi non siamo in guerra, ma dobbiamo fronteggiare una immensa transizione umanitaria. La soluzione repressiva è persin ridicola, se ci si pensa: riusciremo mai a mettere in galera tutti i criminali che ci sono al mondo? Dovremmo piuttosto preoccuparci di creare condizioni di partenza (per ogni essere umano) sempre meno differenziate, che riequilibrino, almeno in parte, le condizioni di partenza di tutti. Non è forse questa una clausola elementare di ogni sano pensiero liberal-democratico?
E nel frattempo? Spiace che quei tratti di particolarismo xenofobo che sembravano esclusivi della Padania sbarchino a Roma e colorino l’attuale governo (le cui prime dichiarazioni trasudano aggressività). Nessuno desidera neppure che quest’ultimo debba affannarsi a risolvere problemi non suoi; ma dobbiamo capire che se la strategia è repressione+espulsione, il governo imbocca una via difficilissima, certamente violenta e tendenzialmente poco democratica. L’alternativa è quella dell’accoglienza unita all’integrazione: anche a costo... che ci costi! Perché mai non dovremmo poter essere chiamati a fare dei sacrifici per affrontare una situazione che è prodotta da trasformazioni storiche epocali, che possiamo governare ma non bloccare?

l’Unità 13.5.08
Schifani ai giudici: io, Mandalà e la Sicula Brokers
Gli atti del processo sul caso sollevato da Travaglio. Il presidente del Senato querela il giornalista
di Enrico Fierro


Che conoscesse Nino Mandalà, il presidente del Senato Renato Schifani lo ha ammesso il 18 ottobre 2004 davanti ai giudici della Terza sezione penale del Tribunale di Palermo. In quella sede ha riconosciuto di aver avuto rapporti di affari con il suddetto Mandalà nella società «Sicula brokers». Nino Mandalà è ritenuto il capomafia del mandamento di Villabate, comune dove il presidente Schifani, all’epoca avvocato senza cariche parlamentari, ebbe anche un delicatissimo incarico di consulente per le questioni urbanistiche.

NINO MANDALÀ e suo figlio Nicola sono i personaggi che hanno favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, organizzando il viaggio del boss in un clinica di Marsiglia per curarsi. Nel processo sulla mafia di Villabate un ruolo centrale è rivestito dalle dichia-
razioni di Giuseppe Campanella, ex impiegato di banca, consulente dell’amministrazione comunale e galoppino politico ad ampio raggio. È stato nell’Udeur di Mastella, ha avuto rapporti con Forza Italia e con Totò Cuffaro, fino a stabilire solidi legami con i Mandalà. Ma veniamo alla deposizione del Presidente Schifani. Che ammette di aver avuto un ruolo nella società della quale Mandalà era amministratore delegato. «Io ebbi, facendo parte dello studio La Loggia (Giuseppe, avvocato, padre dell’onorevole di Fi Enrico, ndr)...il vecchio la Loggia mi chiese se volevo far parte simbolicamente di questa struttura, sottoscrissi il 3% e dopo un anno e mezzo lo dismisi. E quindi, se pur formalmente alla costituzione feci parte del consiglio di amministrazione, cedute le quote cessai perché non avevo nessun interesse alla società». Quando il pm domanda al senatore Schifani se conosceva Mandalà la risposta è affermativa. «Nella costituzione venne indicato questo Mandalà che io non conoscevo prima, come amministratore...Poi esco dallo studio, lo perdo di vista completamente...Mandalà poi l’ho rincontrato in occasione della politica». Conoscenza che il pm vuole approfondire, ed a questo punto si passa al discorso sulla consulenza che l’allora avvocato Schifani fornisce al comune di Villabate in materia di urbanistica. Circostanza che Schifani ammette, «Il rapporto è stato nel 1995. Nei primi mesi era una consulenza gratuita e finalmente poi vi è stata la copertura e sono stato retribuito secondo le tariffe previste dalla legge regionale». In quell’epoca, chiede il pm, «lei ebbe modo di rivedere Mandalà?». «Sì, ma l’ho incontrato credo una volta, ma non in Comune, a Villabate ma per caso...». Sui rapporti con Mandalà, successivi alla comune presenza nella «Sicula brokers», è l’avvocato Restivo a porre altre domande: «Le risulta se Mandalà aveva un ruolo all’interno del partito, del movimento Forza Italia?». Schifani, visibilmente contrariato, replica che lui ha «già risposto a domanda specifica del pm». L’avvocato insiste e il senatore, finalmente, offre la sua versione. «A livello istituzionale non vi era nessuna responsabilità, all’interno del partito sì, credo che facesse parte di un organismo provinciale, venuto fuori dalla celebrazione di un congresso. Credo che fosse il coordinamento provinciale, il consiglio provinciale, non ricordo bene l’espressione, comunque era l’organismo consultivo e non decisionale del partito». L’avvocato insiste: «Quindi faceva parte del movimento Forza Italia?». Schifani ammette, ma si spazientisce ancora quando il legale chiede se quella di Mandalà fosse una «partecipazione elettiva sia pure da parte degli iscritti di Forza Italia». «Ho chiarito - dice il senatore - che era stato eletto all’interno di un congresso che si era tenuto a livello provinciale nel nostro partito».
La deposizione finisce qui. In sintesi: l’attuale presidente del Senato ammette di aver fatto parte negli anni 1978-1979 di una società al cui vertice c’era Antonino Mandalà, che solo dopo anni si scoprirà essere un potente boss della mafia di Villabate legato a doppia mandata agli interessi di Bernardo Provenzano. Di quella società facevano parte l’onorevole Enrico La Loggia, Giuseppe Lombardo (che tra le sue molteplici attività rivestiva anche quella di amministratore di alcune società degli esattori Ignazio e Nino Salvo, nel 1987 condannati per mafia), e l’ingegner Benny D’Agostino (condannato due volte per associazione mafiosa e vicinissimo al boss Michele Greco, il Papa). Anche la consulenza sulla delicata materia urbanistica al Comune di Villabate è ammessa dal presidente Schifani («perché il mio ruolo era riconosciutamente scientifico...»). Il pentito Campanella, invece, parla di affari e in una sua deposizione dice che «il prg di Villabate, strumento di programmazione fondamentale in funzione del centro commerciale che si voleva realizzare e attorno al quale ruotavano gli interessi di mafiosi e politici, sarebbe stato concordato con La Loggia...Schifani avrebbe cooordinato con il progettista di fiducia tutte le richieste che Mandalà avesse voluto inserire in materia urbanistica». La gola profonda riferisce anche di tangenti, sia l’onorevole La Loggia che il senatore Schifani hanno deciso di querelare Campanella. Pentiti a parte, si tratta di dichiarazioni pubbliche, di documenti facilmente consultabili che ieri sera Radio Radicale ha messo in onda in uno «Speciale giustizia». Insomma, non è Travaglio da Fazio, ma il racconto di una storia fatta di frequentazioni molto imbarazzanti è lo stesso. A dirci tutto, però, questa volta è il diretto protagonista, Renato Schifani, presidente del Senato della Repubblica italiana.

l’Unità 13.5.08
1943, dal diario di guerra di Trentin
di Igino Ariemma


SCRITTO A DICIASSETTE ANNI, il Journal de guerre venne tenuto nascosto dal grande sindacalista. Dopo la sua morte quella vecchia agenda in tela nera scritta a mano è tornata alla luce ed è stata riprodotta in un libro dall’editore Donzelli

Il Diario di guerra di Bruno Trentin è stato trovato tra le sue carte, qualche settimana dopo la morte, avvenuta il 23 agosto 2007. Nessuno ne conosceva l’esistenza, neppure i familiari e gli amici più stretti. Il suo autore, evidentemente, aveva deciso di non renderlo pubblico, di non dargli importanza, anche se aveva continuato a conservarlo con grande cura. Lo aveva compilato quando non aveva ancora diciassette anni: tra il 22 settembre e il 15 novembre 1943. Quattro giorni dopo, il 19 novembre, sarebbe stato arrestato a Padova, con suo padre Silvio, presidente dell’Esecutivo militare del Comitato di Liberazione del Veneto. Rimasto in carcere per dieci giorni, Bruno sarebbe stato rilasciato in libertà vigilata, come sorvegliato speciale della polizia della Rsi. Qualche giorno dopo, il 9 dicembre, avrebbe compiuto diciassette anni. Era stato già in carcere l’anno prima, a Tolosa. Quando ricordava quella sua giovane stagione, con tono semiserio diceva che aveva passato in galera, prima in Francia e poi in Italia, due compleanni: il sedicesimo e il diciassettesimo.
Bruno era giunto nel Veneto, col padre, la madre e il fratello Giorgio (la sorella Franca era rimasta a Tolosa) il 4 settembre del 1943. Avevano viaggiato in treno, attraverso la pianura padana, tutta la giornata del 3, provenendo da Nizza. La famiglia era stata a lungo in esilio in Francia. Nel 1926 le leggi «fascistissime» avevano costretto il padre Silvio a lasciare l’Italia. Bruno era nato nel 1926 a Cédon de Pavie, un paesino della Guascogna. A Auch e poi a Tolosa aveva frequentato i vari ordini di scuola fino al baccellierato, il nostro liceo. Era naturale per lui, allora, sentirsi francese, più che italiano. La Francia, non certamente l’Italia che aveva sopportato oltre vent’anni di fascismo, era per lui il paese delle rivoluzioni: di quella borghese e liberale e anche di quella presente e futura, che Bruno auspicava. Per questo, avendo deciso di seguire il padre nel rientro in Italia, gli aveva chiesto però di sottoscrivere un patto che gli garantisse la libertà di ritornare in Francia dopo la guerra.
L’accoglienza a suo padre, nel Veneto, era stata entusiasmante. A Mestre, il 4 settembre, era stato ricevuto e salutato da parecchi amici. Il 5 settembre, alla stazione di Treviso, una nutrita folla lo aveva atteso e applaudito (…). Nel giro di tre giorni, mentre i tedeschi si avvicinano, il clima muta completamente. Bruno segue il padre che incontra il generale Coturri. Silvio Trentin sollecita il supremo comandante del corpo d’armata italiano nel Veneto perché organizzi la Resistenza; si incontra con altri generali. Ma tutti rifiutano: «non si vogliono compromettere». (…) «Di fronte all’impossibilità di organizzare in città una resistenza armata», l’11 settembre, padre e figlio vanno via da Treviso e si nascondono in campagna. «Comincia in Italia - scrive nel diario - una nuova vita: la vita clandestina».
Bruno è impaziente, vuole agire, combattere. «Sono 11 giorni che aspettiamo; la vita calma e indolente è insopportabile, al pensiero che dappertutto gli uomini si battono e muoiono per il loro ideale. La nostra esistenza si concentra attorno alla radio e al giornale». Ecco dunque l’autentica motivazione che lo spinge a iniziare il diario il 22 settembre. Non potendo imbracciare il fucile, Bruno trascrive le notizie più rilevanti della guerra, ritaglia gli articoli di giornale, incolla mappe e cartine che illustrano la situazione dei diversi fronti, annota, sottolinea, esprime impressioni, preoccupazioni, commenti, giudizi politici. Il diario gli serve a non stare fermo e soprattutto a capire più a fondo cosa fare; a dare un ordine e forse anche una rotta più precisa alla sua scelta antifascista e alla passione civile che lo tormenta. ( …) Il diario non è un taccuino di appunti, un notes, un calepino. Tanto meno un diario interiore. Vi sono raccontati qua e là anche episodi di vita vissuta, ma non sono molti (…). Non per caso, nel raccontare, Bruno è sempre molto vigile e cauto. Pochissimi sono i nomi di località. Rarissimi quelli di persona(…). Il diario muta registro dopo la dichiarazione di guerra del governo Badoglio alla Germania, del 13 ottobre. Dalla semiclandestinità Bruno e il padre passano alla clandestinità vera e propria, e dall’attività di contatti e di propaganda passano alle azioni militari.(…)
Il diario di guerra, di conseguenza, rallenta. Non ha più una cadenza quotidiana. «In avvenire - scrive Bruno il 19 ottobre -, le notizie trascritte su questo diario diventeranno sempre più personali, pur rimanendo “notizie di guerra”. Infatti l’azione che ho iniziato a intraprendere per la liberazione del mio paese mi obbliga a cambiare casa molto di frequente. Talvolta non ho un posto dove andare». Infatti, i Trentin si spostano continuamente, presso diverse famiglie di amici, in prevalenza collegati al Pd’A: a Castelfranco, Noale, Mira, Stra e all’interno della città di Padova. La rete di amicizie, soprattutto politiche, del padre è davvero estesa e radicata nel territorio.
Il 15 novembre il diario si interrompe. E finisce con una frase secca, scritta a matita: «Tempo perduto. Ora all’opra!». La frase è scritta, significativamente, in italiano e con una grafia che sembrerebbe di mano diversa da quella di Bruno. Potrebbe essere stata aggiunta anche in un momento successivo. In ogni caso, ne è chiaro il significato: agli occhi del suo autore, da quel momento in avanti il diario non serve più, può essere riposto in un cassetto. Ora tocca alle armi.(…)
Silvio e Bruno Trentin vengono arrestati a Padova il 19 novembre. La cattura avviene in via del Santo 47, nella casa dei signori Monici, da parte della squadra fascista «Ettore Muti». I due sono portati prima alla federazione fascista e poi nel carcere giudiziario dei Paolotti. Nel tragitto verso la casa littoria, Bruno ingoia tutte le carte compromettenti che aveva con sé, tant’è che, durante la notte, gli sopravviene una occlusione intestinale. Nelle interviste successive, Bruno ha sempre sostenuto che l’arresto era stato causato, probabilmente, da una spiata. Infatti il 15, giorno in cui termina il diario, avevano lasciato casa Monici perché erano stati avvertiti che li stavano cercando. Si erano rifugiati nell’edificio della clinica oculistica diretta dal prof. Palmieri, aderente al Pd’A. Ma il 19 erano ritornati dai Monaci, avendo avuto assicurazione che ogni pericolo era cessato.
Il diario di guerra respira a pieni polmoni l’aria che spirava in Italia e nel mondo nel 1943. «Nel 1943 - ha scritto Claudio Pavone nella sua magistrale opera sulla Resistenza - sembrava arrivato il momento di cominciare davvero a rifare tutto da capo».
Senza il vento di quell’anno, forse, il diario non sarebbe stato scritto. Alla fine di gennaio c’era stata Stalingrado con la resa tedesca; nel marzo gli scioperi alla Fiat e nelle grandi industrie del Nord; a luglio lo sbarco dell’esercito alleato in Sicilia e la caduta e l’arresto di Mussolini; a settembre l’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati, lo sbarco alleato a Salerno, l’occupazione del territorio italiano da parte delle truppe tedesche, la fuga da Roma del re Vittorio Emanuele, la costituzione del regno del Sud a Brindisi e parallelamente quella della Repubblica fascista di Salò nel Nord. Il clima politico è così caldo che, in quei giorni in cui Bruno si accinge a scrivere, germinano anche conati insurrezionali, miseramente falliti ancor prima di prendere l’avvio, alimentando per anni la polemica tra le forze antifasciste sull’inerzia dei 45 giorni e sulle responsabilità. Questo è lo scenario da cui prende le mosse il diario. La vittoria contro il nazifascismo sembrava imminente. La guerra sembrava che potesse finire entro pochi mesi. Il diario di Bruno riflette questi stati d’animo, e soprattutto l’impazienza di agire che c’era dietro. (…)
Le sensazioni che si trovano nel diario di guerra sono fiducia nel popolo, e più in generale nella vita e nell’umanità, processo di rinnovamento collettivo, che trascina anche l’individuo, un nesso molto forte tra pubblico e privato, tra collettivo e individuale, l’inveramento della politica nell’etica, il futuro che vive nel presente, nell’azione, in ciò che si fa. E, come conseguenza, quasi un’armonia dell’anima, in quella «primordiale dialettica di morte e felicità» che è stata la vita partigiana secondo la definizione di Italo Calvino. Sono i caratteri e i sentimenti di una generazione che non soltanto ha avuto in comune l’età, ma per aver vissuto insieme fatti e tempi di quella «grande storia» ha maturato una comunanza di idee e di valori, quali la democrazia, la libertà e la giustizia, che è stata alla radice della Resistenza e della nostra Repubblica.
Il diario di guerra di Bruno Trentin è parte di questo comune sentire ed è, per tanti aspetti, testimonianza di questa generazione.

l’Unità 13.5.08
«La mia vita da ebreo nella Russia razzista»
di Maria Serena Palieri


BORIS ZAIDMAN: il romanzo d’esordio dello scrittore che nel 1975 lasciò l’Urss per Israele è un gioco di specchi beffardo e nostalgico. Ce ne parla l’autore, ospite nei giorni scorsi della Fiera del Libro di Torino

Il quinto angolo era il titolo di un romanzo che nel 1989, pubblicato a vent’anni dalla stesura grazie alla perestrojka (e tradotto in italiano da Einaudi nel 1992), ci fece conoscere la commovente grandezza dello scrittore ebreo-russo Izrail Metter. Trovare il luogo del titolo, impossibile in una stanza normale a quattro pareti, era la grottesca sfida che in epoca staliniana gli agenti della Gpu lanciavano durante i pestaggi alle loro vittime: «Ora nasconditi nel quinto angolo». L’espressione ci viene in mente leggendo, nel romanzo dell’ebreo-ex moldavo-israeliano Boris Zaidman, Hemingway e la pioggia di uccelli morti, appena uscito per il Saggiatore, l’espressione «la quinta riga».
Un’espressione altrettanto infida: perché la riga in questione, nei passaporti sovietici, era quella in cui bisognava dichiarare la propria «nazionalità». Ovvero, per ciò che concerneva gli ebrei, la propria razza. Vedremo poi, con Boris Zaidman, con quali conseguenze.
Quarantacinque anni, sguardo ironico, fisico minuto e ginnico, lo scrittore, di professione copywriter pubblicitario, sposato, due figli, residenza tra la Galilea e Tel Aviv, era presente nei giorni scorsi alla Fiera del Libro. Fiera che - continuando con le associazioni mentali - era intitolata all’espressione dostojevskiana «Ci salverà la bellezza». Frase a proposito della quale il suo connazionale e correligionario Metter obiettava: «Non ho mai capito cosa Dostoievskij volesse dire. Ci salverà la bontà, piuttosto».
Hemingway e la pioggia di uccelli morti è un’opera d’esordio scanzonata e dolorosa. Racconta di un uomo trentenne, Tal Shani, scrittore telaviviano, che una voce al cellulare all’improvviso riporta al passato: in russo, la voce gli chiede di tornare nella sua città di origine, un’immaginaria Dniestrograd, che nasconde la vera Kišinëv, capitale moldava, da dove con i genitori è emigrato negli anni Settanta, per tenere una conferenza agli aspiranti immigrati in Israele. Così Shani si mette in viaggio in aereo, con la El Al anziché la russa Aeroflot per salvaguardare per un po’ la propria acquisita personalità israeliana. Ma viaggia anche con la mente, verso la sua infanzia in quella Urss dove, bambino frastornato di propaganda, sognava il giorno in cui sarebbe nato un nuovo Paese Fratello, la Repubblica Popolare Ebraica. Shani spera di trovare all’arrivo ad accoglierlo l’unico frammento di sé rimasto lì, un amichetto d’infanzia quasi omonimo, e ne immagina la vita dopo che gli ha detto addio. È un gioco di specchi - Tal, Tolka, Tolik - attraverso cui il romanzo ci restituisce, con humour beffardo e intelligente nostalgia, la vita nella Moldavia sovietica degli anni Sessanta. Ma anche i sentimenti con cui nel 1975 il tredicenne Boris Zaidman e i suoi genitori, tra i primi ebrei a ottenere il permesso, lasciarono l’Urss per la nuova patria, Israele.
Che peso ha avuto la «quinta riga», l’essere ebreo in Urss, nella sua infanzia?
«Il mio primo incontro-scontro l’ho sperimentato nel cortile del mio palazzo a sette anni, quando un ragazzo più grande mi sbattè al muro e mi chiese “qual è la tua nazionalità”? Fino a quel momento non avevo avvertito nessuna differenza tra me e i miei coetanei. I miei genitori, quando non volevano farsi capire da me, parlavano in una lingua strana simile al tedesco, ma avrei capito dopo che era yiddish. E, fino ai tredici anni, quando sono partito, ero allevato nella convinzione che l’Urss fosse il miglior paese del mondo, dove eravamo tutti uguali e ciascuno con possibilità uguali. A parte, appunto, quel neo della “nazionalità”».
Dire nazionalità anziché razza era un’ipocrisia burocratica?
«Tutti, in Urss, sul passaporto erano catalogati per nazionalità: estoni, lituani, ucraini. Il concetto di religione non vigeva, perciò non si definivano i baltici cattolici né gli altri cristiani ortodossi. Ma noi ebrei non avevamo un territorio nazionale di riferimento, da qui l’ambiguità di quella definizione, religiosa e di razza. In più il mio cognome suonava tedesco, cioè non russo. E questo è l’inizio. Poi c’è il processo freudiano che ha messo in moto dentro di me quell'aggressione subita a sette anni. Come una persona che scopre di essere invalida e che lo sarà tutta la vita. L’infanzia felice sovietica viene corrotta dalla quinta riga: è un cucchiaio di catrame in un barattolo di miele».
Il padre che in russo o in yiddish non trattiene battute sarcastiche, la madre che spaventata cerca di farlo tacere, la grassa Rosa che accoglie Tolik per le vacanze in campagna, il bambino che si perde nella città fra tram ed erotizzanti statue alla Madre Patria: nel suo romanzo quanto c’è di autobiografia?
«Quasi tutto. Agli esordi si scrive di sé».
«Quando l’impero del male dello zio Sam cadrà, crolleranno come tessere del domino tutti i regimi capitalisti e sfruttatori» è uno dei pensieri con cui si fa coraggio il suo piccolo Tolik… Lei lavora come copywriter. Quale differenza corre tra il linguaggio pubblicitario e quello usato dalla propaganda sovietica?
«Il principio della pubblicità è venderti qualcosa di cui non hai necessità creandotene artificialmente il bisogno. La propaganda sovietica, anch’essa, ci vendeva ciò che non ci era necessario: i cittadini sovietici volevano più soldi e supermercati più forniti e ricevevano concetti come l’uguaglianza tra i popoli e la rivoluzione mondiale. Il bello è che arrivato in Israele nel 1975 ho capito che in quella propaganda c’era spesso del vero: quello che ci dicevano sugli Usa in Vietnam, per esempio, o il fatto che, a quel tempo, Israele fosse il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti. Ora no, oggi Israele si sente un pezzo d’Europa».
Nel suo romanzo corre costante la nostalgia. È rimpianto della sua infanzia o della vita nel «socialismo reale»?
«È un insieme. È impossibile dimenticare che nell’Urss noi avevamo uno stupendo Prozac ideologico: un meraviglioso futuro ci attende tutti, la pace nel mondo, la libertà dal denaro, a ciascuno secondo i suoi bisogni... Sto citando Marx. E, da Lenin in poi, ci promettevano che il mondo capitalista avrebbe venduto al mondo comunista la corda con cui lo stesso capitalismo si sarebbe impiccato. Perché il capitalismo è pronto a vendere anche la propria madre. È vero. Attenzione, è quello che l’Europa sta facendo col mondo islamico».
Lei racconta come alla prima intifada, stando nell’esercito, fosse chiamato a reprimere gli «indigeni»: «A ogni Robinson il suo Venerdì», commenta, ecco «la catena alimentare dell’arroganza». Da russo, in Israele, aveva subito altre forme di razzismo?
«Non c’è società al mondo dove non sussista uno sguardo razzista. Anche nella Francia fondata su liberté, egalité, fraternité. Gli antagonismi tra israeliani di primo insediamento e noi arrivati dopo il ’75 non mancano, ma noi russi in Israele oggi siamo un milione, un settimo della popolazione, quindi siamo una forza politica e sociale. E, comunque, siamo considerati “meglio” degli arabi».
Nel suo romanzo si intuisce che qualche familiare del piccolo protagonista è stato vittima della Shoah. Anche questo è un dato autobiografico?
«Tutta la mia famiglia dal versante paterno ne è stata vittima. Mio padre si salvò perché arruolato nell’Armata Rossa, ebbe l’opportunità, eventualmente, di cadere al fronte e non nel lager. Nel 1941 il governo sovietico propose a tutti gli ebrei residenti nel centro del paese di spostarsi a oriente. Ma in molti la presero per propaganda, pensarono che un popolo civile come i tedeschi non potesse nutrire quella volontà di annientamento».
Quindi morirono perché erano scettici verso ogni messaggio pubblico?
«Sì. Ancora oggi la comunità ebrea ex-sovietica non crede in niente, né in Dio né nei discorsi politici. I russi di Israele credono solo in se stessi, hanno proprie scuole per i propri figli, nell’esercito abbiamo una nostra divisione».
Dopo questo esordio è al lavoro su un nuovo romanzo?
«Ho già consegnato il testo all’editore. Il protagonista è un uomo che non si sente a casa in nessun luogo. Personalmente, ho vissuto un’esperienza paradossale: a diciannove anni, sei anni dopo essere emigrato in Israele, sono venuto per la prima volta in Europa. Ed è lì dove abitava “il diavolo più terribile” che mi sono sentito a casa mia: in Germania. Il diavolo mi è apparso molto più simile a me dell’israeliano medio. Sono un israeliano perfettamente assimilato, ma vivo questa costante schizofrenia. Però, le assicuro, non cambierei la mia vita con nessun’altra».

l’Unità 13.5.08
Il fascismo moderno di Alemanno
Quello che abbiamo davanti è il fascismo del Duemila senza i gas lanciati in Etiopia e senza le camicie nere
di Bruno Bongiovanni


Gianni Alemanno, in una intervista al Sunday Times riportata e commentata ieri dal Corriere della Sera e da la Stampa, ha dichiarato che il fascismo - quello storico - fu fondamentale per modernizzare l’Italia. Alemanno rifiuta inoltre di dichiararsi ora fascista. Giù però con le intenerite litanie sulle paludi prosciugate e sulle infrastrutture. C’è comunque dell’autentico in tutto ciò. Il sindaco di Roma deve tuttavia ammettere che l’altro fascismo, quello nordico, ovverosia il prezioso alleato nazionalsocialista, fu, pur con qualche nibelungico arcaismo, ben più moderno del regime italiano: non si dimentichino le autostrade, l’amministrazione, le Università.
E poi l’esercito, la marcia verso il rapido conseguimento della piena occupazione, i prodromi di un Welfare ariano e solo ariano, i campi di concentramento assai meglio funzionanti, e letali, dei Lager del duce collaborazionista. Alemanno, a ogni buon conto, ritiene evidentemente che la modernizzazione, quella piccola di Mussolini, e verosimilmente anche quella grande del Führer, sia sempre e comunque una cosa buona e giusta. Anche il Ku-Klux Klan, forse Alemanno non lo sa, si è espresso, linciando i neri, a favore della modernità. E il modernissimo businessman Henry Ford, uno dei più grandi industriali del XX secolo, ha pubblicato e diffuso più volte, negli Usa, con finalità antisemitiche, «I protocolli dei Savi dei Sion».
Fini, del resto, nel luglio 1991 dichiarò che «il Msi deve saper essere anche figlio di puttana». Nel luglio del 1991 che «siamo il Fascismo del duemila». Nel maggio 1992 che «il fascismo è idealmente vivo». Nel settembre 1992 che «Mussolini è stato il più grande statista del secolo», frase ripetuta ancora nel giugno 1994, a elezioni sdogananti già vinte insieme a Berlusconi e Bossi. Ora sostiene che si è svincolato dalla nostalgia. Forse, come ebbe a dire proprio Mussolini - una gran frase con brividi staliniani, quella del duce - avverte solo la nostalgia del futuro. Ossia il culto della modernità alemanniana. Ha ragione oggi, come aveva ragione nel 1992. È questo, quello che abbiamo davanti, il fascismo del duemila, senza i gas lanciati in Etiopia, senza camicie nere, senza uno straccio di Hitler con cui fare merenda, ma con turgori xenofobi, populismi demagogici, uno smandrappato autoritarismo nostalgico non di Roma 1922 ma forse di Genova 2001, e qualche saluto romano - un citazionismo postmoderno? - davanti al Campidoglio. Con questo non voglio dire che si devono girare le spalle alla modernità. Tutt’altro. Ma che si deve scegliere tra modernità e modernità.
Non ci siamo del resto mossi granché. Norberto Bobbio, infatti, ebbe precocemente a scrivere il 20 marzo 1994, su la Stampa, che il berlusconismo, diversissimo per carità dal fascismo storico, è gobettianamente l’autobiografia della nazione. Ossia una malattia morale e ridanciana che ci ha contagiati tutti. L’autobiografia ha soprattutto subito inglobato i post-fascisti storici (An ex-Msi), rendendoli veramente i fascisti del duemila, nuovi, moderni, senza manganello e senza doppiopetto. Siamo ancora ben dentro tutto questo. Quella “parentesi” là, per dirla con Croce, durò vent’anni più venti mesi in toto nazificati. Questa qua, decisamente più soft grazie a Dio, è già durata quattordici anni, sia pure con qualche interludio. Alla fine le due avranno la stessa lunghezza.

l’Unità 13.5.08
Partendo da Cartesio, passando da Marx
di Giorgio Ruffolo


Caro Direttore,
su l’Unità del 7 maggio, che ho letto in ritardo, Bruno Gravagnuolo, filosofo e giornalista valoroso, mi invita sostanzialmente, anche se amabilmente, a non occuparmi di filosofia. Mi accusa di aver travisato, in una mia recensione del libro di Scalfari, il pensiero di Husserl, Heidegger e Sartre a proposito di Cartesio e del rapporto tra l’io e il mondo. Non sono e non mi atteggio a filosofo. Gravagnuolo può stare tranquillo. In quell’articolo mi sono limitato a esporre, «con consapevole arbitrio», lo dico io stesso, una tesi che è ragionata in termini ben più ampi e complessi di quelli di un articolo di giornale, da uno, come Karl Lovith (Dio Uomo e Mondo, nella metafisica da Cartesio a Nietszsche, Donzelli, 2000) che Gravagnuolo certamente conosce bene e di cui tutto si può dire tranne che non abbia “studiato filosofia”. In quel libro, accompagnato da una importante “presentazione2 di Orlando Franceschelli (Eclissi di Dio e ritorno alla natura) si svolge una critica ai critici di Cartesio sulla “rivoluzione copernicana” che egli non avrebbe portato a compimento, restando, come lo scienziato che era, legato alla visione del mondo come realtà esterna, indipendente dalla coscienza dell’Uomo. Si chiede, per esempio, in proposito, Lowith: «In chi c’è più bon sens: in Cartesio che non ha mai messo in dubbio che le stesse forze della natura, che egli mirava a controllare, esistessero però indipendentemente dalla sua coscienza del mondo, o nell’idealismo fenomenologico di Husserl, che costituisce radicalmente il mondo “realmente esistente” a partire dalle prestazioni della coscienza?». E sempre a proposito delle critiche a Cartesio su questo punto da parte di Husserl, Heidegger e Sartre si rivolge la stessa domanda ironica formulata da Paul Valéry: «di che cosa Cartesio farebbe oggi tabula rasa: forse dell’intera civiltà tecnico scientifica i cui fondamenti egli ha contribuito a porre; forse però anche delle resistenze sentimentali che si oppongono all’universale progresso della erazionalizzazione». Io, quelle resistenze le ho definite, “con consapevole arbitrio”, romantiche e mistiche.
Ma l’ottimo Gravagnuolo (gli restituisco volentieri il complimento che mi rivolge) mi accusa di una colpa, per la mia formazione di economista, assai più grave. Di avere frainteso Karl Marx quando, nel libro terzo del Capitale, parlerebbe della espropriazione della società per azioni come di una sciocchezza. No, Gravagnuolo. Io ho detto: afferma implicitamente. E lo ridico, appoggiato anche questa volta a una autorevole testimonianza: quella di uno studioso di Marx come Guido Carandini, che nel suo libro (Un altro Marx, lo scienziato liberato dall’Utopia, Laterza 2005) ricorda, con le parole dello stesso Marx, che egli intese la trasformazione dell’impresa capitalistica in società per azioni come «la soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso». Ora, come si potrebbe pretendere l’espropriazione di una proprietà già espropriata? Come una sciocchezza, per l’appunto. Ed è lo stesso Marx, come Carandini ricorda, ad affermare a proposito dell’impresa cooperativa, che «a un certo grado di sviluppo delle forze produttive e delle forme di produzione sociale ad esse corrispondenti, si forma e si sviluppa naturalmente da un modo di produzione un nuovo modo di produzione». «L’antagonismo tra capitale e lavoro è abolito all’interno di esse (le imprese cooperative) anche se dapprima soltanto nel senso che gli operai, come associazione, sono capitalisti di se stessi» (K.Marx, Il capitale, Libro terzo, Editori Riuniti, 1965, pag.523). Ora, che cosa significa un nuovo modo di produzione associativo che nasce entro il modo di produzione capitalistico senza colpo ferire se non la «abolizione dell’antagonismo fra capitale e lavoro» come dice esplicitamente, non “l’ottimo Ruffolo”, ma Karl Marx, nel testo citato?
Del resto, la questione è risolta radicalmente da Carandini, il quale ci assicura, nel delizioso incipit del suo libro, di avere incontrato personalmente Karl Marx e di essersi spiegato con lui stesso, anche su questo punto. Il che, putroppo, non è capitato né a me, né a Gravagnuolo.

Tra «ottimi» ci si può intendere ottimamente. Ma precisiamo che non volevamo affatto invitare Ruffolo a non occuparsi di filosofia. Solo a non semplificare oltremisura. Husserl, Heidegger e Sartre non erano tre mistici deliranti che fanno nascere il mondo dalla coscienza. Bensì il primo un razionalista che «costituisce» il Mondo: nella «coscienza trascendentale», come Kant! Il secondo un metafisico negativo: con l’Essere che si «svela» alla coscienza. E il terzo un materialista esistenzialista. E quanto alla «coscienza», Husserl e Sartre sono molto più «cartesiani» di quel non veda Loewith nel passo citato. Senza dire che Cartesio stesso alla fine «costituiva» il mondo nella Perfezione «innatistica» del pensiero divino. Su Marx, ribadiamo: la società per azioni supera solo il «capitalismo privato individuale». E il «dirigente» amministra «capitali altrui». Assieme ai propri se resta azionista, benché dirigente. La nascita della figura impersonale del «dirigente» quindi, non toglie in Marx la natura privata della produzione: la rende solo più complessa. E pronta ad essere superata in qualcos’altro. La «fabbrica cooperativa» ad esempio. Che per Marx «espropria gli espropriatori». Ma a questo punto per Marx sono gli operai a «possedere tutti gli strumenti dell’orchestra», magari anche tramite i dirigenti. Tutto questo purtroppo senza aver parlato con Marx, come l’ottimo Carandini. Semplicemente leggendo il libro XXIII e XXVII del Capitale.
b.g.

l’Unità Roma 13.5.08
Bambine molestate nel buio della sagrestia
di Valeria Viganò


E.M., 49 anni, è stato condannato per aver abusato sessualmente di due bambine di dieci anni nella parrocchia di santa Rosa di Viterbo a Tor di Quinto. Secondo il capo di imputazione formulato dal Pm Francesco Scavo, il sacerdote ha ripetutamente approfittato della autorità derivantegli dall’essere il padre spirituale delle bambine che frequentavano il corso di catechismo. (da Repubblica, 10 maggio)

La sagrestia è buia, c'è odore di candele e incenso. C'è freddo, c'è l'ombra che sa di vecchio in mezzo a vecchi mobili. Lì il sole quasi non arriva e non ci passa quasi nessuno. Era lì che lui le toccava. Io l'avevo visto dalla serratura, perché sentivo dei sussurri e lo scricchiolio del legno. Avevo visto cosa il prete faceva alle bambine. Erano bambine che frequentavano il catechismo, venivano accompagnate dai genitori e con i loro quadernetti seguivano le parole del prete. Lui spiegava e spiegava la trinità e i comandamenti, e il bene di Dio e di Cristo. Parlava elegante, come io non saprei fare, e guardava dritto negli occhi tutti i ragazzini che lo guardavano a loro volta, pendendo dalle sue labbra. Quando arriva l'età della comunione, del rito che viene dopo il battesimo, per noi in chiesa è un momento solenne. È la comunione con la fede, la chiesa di Santa Rosa a Tor di Quinto era sempre gremita di famiglie, e la parrocchia raccoglieva delle belle cifre con le offerte. Gli insegnamenti del prete davano al catechismo un'aura di santità, le bambine erano soggiogate, e quando lui le invitava in sagrestia pensavano che avrebbe insegnato loro qualcosa di speciale. Qualcosa di speciale per proseguire la via della bontà nel nome di Dio, non bisognerebbe smettere mai di studiare il catechismo. E poi bisogna confessarsi, che anche a dieci anni si commettono peccati, si dicono bugie, si nascondono brutti voti, si risponde male alla mamma. Una volta passando davanti al confessionale, stavo andando a accendere le candele, ho sentito gli stessi sussurri e lo scricchiolio del legno. Poi il prete prendeva per mano le bambine e andava in sagrestia. Io avevo sempre da fare, la cera da dare ai pavimenti, i calici da pulire. Era stato quando ho messo a posto i detersivi. L'armadietto è proprio in fondo al corridoio dove c'era la porta chiusa. Ma la porta normalmente era aperta. Per questo avevo spiato dalla serratura. E lì, davanti ai miei occhi increduli, il prete accarezzava le bambine, le baciava e nei loro piccoli occhi tutto diventava grande e incomprensibile, a lui non si poteva dire di no. Poi ho saputo che quella è stata l'ultima volta, che andava avanti da tanto, l'ho saputo dopo, quando hanno arrestato il prete e mi hanno fatto tante domande e io ho detto sì, sì.
Adesso l'hanno condannato a quattro anni con rito abbreviato, ma a me quattro anni, per questo orrore, sembrano niente. Lui sembrava un buon prete, gentile, premuroso. E in parrocchia, alla condanna, non hanno battuto ciglio, nessuno ha detto niente, e il silenzio mi è sembrato ancora più tremendo.

Repubblica 13.5.08
Nell’ultimo decreto flussi 720 mila domande datoriali per 170 mila posti. L’allarme delle comunità straniere
E per i 500 mila che hanno un lavoro ora l´unica strada è restare in nero
di Vladimiro Polchi


ROMA - Per l´esercito degli invisibili è uno schiaffo doloroso: nessuna sanatoria in arrivo e decreti flussi col contagocce. Il messaggio che il ministro dell´Interno, Roberto Maroni, manda al popolo degli irregolari allarma le comunità immigrate: «Mezzo milione di lavoratori rimarranno in nero, senza diritti e senza protezione». Non solo. «Di fatto, centinaia di migliaia di famiglie italiane resteranno in una situazione di illegalità».
L´ultima sanatoria in Italia risale al 2002 e ha portato alla regolarizzazione di 700mila immigrati irregolari. Poi più nulla. Così ai lavoratori clandestini non è rimasto che partecipare ogni anno alla "lotteria delle quote". Col decreto flussi, l´Italia fissa annualmente il tetto massimo (appunto le "quote") di cittadini extracomunitari, che possono entrare nel Paese per motivi di lavoro. Questo solo sulla carta. In verità, il decreto è l´unica chance per mettere in regola chi già si trova in Italia: si fa domanda, si spera di rientrare nelle quote, si esce dal Paese e si ritorna da regolari. Nel 2007 su 170mila posti a disposizione, le domande sono state oltre 720mila: una buona (seppure approssimativa) fotografia dell´esercito dei clandestini che lavorano in Italia. Secondo la fondazione Ismu, infatti, gli immigrati irregolari con un lavoro sarebbero 650mila. Secondo molti esperti, tra i quali Fulvio Vassallo Paleologo dell´università di Palermo, i clandestini sarebbero però ben di più: poco meno di un milione. Chi sono? In base ai dati dell´ultimo decreto flussi, in maggioranza sono colf e badanti (60%). Per lo più marocchini (120mila al 7 febbraio 2008), cinesi (72mila), bengalesi (70mila), indiani (50mila) e ucraini (44mila). Dove vivono? Soprattutto in provincia di Milano (76mila) e di Roma (45mila).
Ora, però, oltre mezzo milione di immigrati rischiano di restare nella clandestinità. Solo 170mila infatti riusciranno a "vincere" uno dei posti del decreto flussi 2007. Il ministro Maroni ieri ha escluso ogni possibile sanatoria. Bisognerà dunque aspettare il nuovo decreto 2008. «Ma molti ne resteranno ancora una volta fuori – avverte Wu Zhiqiang del Sindacato cinese nazionale – senza documenti e senza tutela. Lo Stato – prosegue Zhiqiang – in questo modo rinuncia anche a una serie di benefici, conseguenti alla regolarizzazione, come il versamento di tasse e contributi. Non solo. Senza legalità, gli immigrati restano vittime dei loro tanti sfruttatori». «La regolarità porta contanti nelle casse dello Stato – sostiene Valdimir Kosturi, presidente dell´associazione albanese "Illiria" – però a qualcuno non conviene: finché gli immigrati restano clandestini, lavorano in nero, costano di meno e non reclamano diritti. E´ insomma una forma di concorrenza sleale ai lavoratori italiani, che fa comodo a molti».

Repubblica 13.5.08
E Silvio offre un patto a Walter "Riconosciamo il governo ombra"
di Goffredo De Marchis


Già pronta una bozza di riforma dei regolamenti parlamentari
La proposta prevede tempi certi per le leggi e più visibilità all´opposizione
Stefania Craxi sostituisce il fratello, c´è Cossiga jr, un posto per Pizza

ROMA - Una mossa preparata con largo anticipo da Silvio Berlusconi. Con un testo di riforma dei regolamenti parlamentari già pronto e fatto arrivare nei giorni scorsi a Walter Veltroni. Il documento prevede un accordo tra maggioranza e opposizione sui rispettivi ruoli e sulla possibilità del governo di avere più «forza» in Parlamento. Per Berlusconi è «indispensabile la certezza dei tempi quando l´esecutivo presenta alle Camere i suoi provvedimenti». Si può arrivare a un sì o a un no, ma con un calendario certo. E l´esercizio dell´ostruzionismo, del filibustering come viene garantito in Paesi dalla democrazia anche più solida della nostra? «Deve diventare una pratica veramente eccezionale». In cambio il Cavaliere sembra disponibile a concedere al Partito democratico lo Statuto dell´opposizione, con un ruolo formale per il capo della minoranza, con il riconoscimento del governo ombra. Come? Per esempio aumentando la «visibilità» dei rappresentanti dell´opposizione nel question time, la procedura diretta di botta e risposta tra governo e minoranza mutuata dal sistema anglosassone.
Dunque, Veltroni, con la telefonata del premier e il futuro incontro, si garantisce una legittimazione come leader dell´opposizione che gli permette di uscire dalle secche del dibattito interno al Pd. Ha anche l´occasione per non subire passivamente l´agenda del Cavaliere e magari per infilare il dito nella piaga dei problemi del centrodestra. Lo dice chiaramente quando parla della Rai: «Noi chiederemo a Berlusconi di non votare un nuovo consiglio di amministrazione fino alla modifica della legge Gasparri», avverte il segretario del Pd. Altri interessi possono diventare comuni come lo soglia di sbarramento alle elezioni europee che il Partito democratico ha invocato pubblicamente e che serve sicuramente più al loft che al Pdl. Veltroni infatti deve confermare almeno il voto delle politiche sapendo che non sarà facile: si riorganizzerà la sinistra radicale e per l´Europarlamento non varrà il richiamo al voto utile. Ma la mossa, pur preparata attraverso canali diplomatici, arriva da Berlusconi e Veltroni vuole usare le molle. Alla prima riunione del governo ombra cerca di galvanizzare i "ministri" spiegando di crede nello strumento: «È una struttura molto importante e nel colloquio che avrò con Berlusconi proporrò di riconoscerla anche a livello istituzionale». Però aggiunge: «Noi dobbiamo fare innanzitutto l´opposizione. Non facciamoci conquistare dall´idea che siamo al governo, mi raccomando». Proposte, iniziative, contrasto di progetti e nel Paese, «incontro con tutti i soggetti che lavorano nella materia di competenza». Per incalzare i ministri veri punto su punto.
L´apertura di Berlusconi certo non dispiace al segretario del Pd. Gli offre uno spazio di manovra. Ma può essere un´arma a doppio taglio. E in caso di fallimento, acuire la battaglia dentro il partito. Il sindaco di Torino e ministro ombra delle Riforme Sergio Chiamparino è più prudente che aperturista. «Il reciproco riconoscimento va benissimo - dice -, è la strada giusta da seguire. Ma il carattere dell´opposizione dipende anche dalle proposte della maggioranza. Il Pd deve andare a vedere le carte di Berlusconi». Chiamparino non esclude che la telefonata del Cavaliere sia ispirata soprattutto a «un´abilità tattica»: «Berlusconi sa di avere davanti un cammino complicato, capisco bene che sia alla ricerca di corsie preferenziali in Parlamento, e di un dialogo con la minoranza sui provvedimenti più delicati. Ecco, noi dobbiamo stare attenti al pericolo della corresponsabilità».
Il dialogo diretto con il Pdl può da una parte confermare il ruolo di vera (e quasi unica) opposizione del Partito democratico, ma anche pregiudicare quella politica delle alleanze che con diversi gradi di passione, un po´ tutti i leader del Pd dicono di perseguire. Con Antonio Di Pietro, per esempio, è già un nuovo argomento di scontro. Ma una legislatura costituente è l´obiettivo che il loft ha perseguito anche prima delle elezioni, oggi non può certo tornare indietro. Anche le dichiarazioni sul caso Travaglio dicono che il Pd punta a mantenere il clima sereno. Ora bisogna capire se Berlusconi ha lo stesso traguardo o cerca scorciatoie.

Repubblica 13.5.08
La recessione delle democrazie
di Thomas L. Friedman


Attualmente nel mondo sono in atto due importanti recessioni. Una ha attirato enorme attenzione: è la recessione economica americana, ma alla fine la supereremo e il mondo non si ritroverà poi così rovinato. L´altra recessione, invece, non ha ricevuto finora attenzione alcuna: è la "recessione democratica" e nell´eventualità che non la si invertisse cambierà il nostro pianeta per lungo tempo a venire. La definizione di "recessione democratica" è stata coniata da Larry Diamond, politologo della Stanford University, nel suo libro appena pubblicato che si intitola The Spirit of Democracy.

A spiegare come stanno andando le cose sono le cifre: alla fine dell´anno scorso Freedom House – che segue da vicino i trend democratici e le elezioni nel globo – ha segnalato che il 2007 è stato di gran lunga l´anno peggiore per la libertà nel mondo dai tempi della fine della Guerra Fredda. Gli Stati nei quali la libertà è diminuita sono stati il quadruplo (per l´esattezza38) di quelli (10) nei quali la libertà è aumentata.
Come spiegare questo fenomeno? Buona parte di questa inversione di rotta è dovuta all´ascesa del "petro-dispotismo". Da tempo sostengo che il prezzo del petrolio e il cammino della libertà sono correlati in modo inversamente proporzionale, e questa è quella che io definisco "La prima legge della Petro-Politica": tanto più sale il prezzo del greggio, tanto più cala la libertà; non appena il prezzo del petrolio scende, la libertà aumenta.

«Ci sono 23 Paesi al mondo per i quali almeno il 60 per cento delle esportazioni è costituito dal petrolio e dal gas e nessuno di essi è una vera democrazia» scrive Diamond, per poi precisare che "Russia, Venezuela, Iran e Nigeria sono esempi eloquenti di questo trend", Paesi i cui leader si impadroniscono del rubinetto del greggio per istallarsi al potere.

Se il petrolio è di importanza cruciale nell´arginare l´ondata democratica, non è in ogni caso l´unico fattore. Il declino dell´influenza e dell´autorità morale degli Stati Uniti ha reclamato anch´esso un pesante tributo. Il tentativo di Bush di esportare la democrazia in Iraq è stato talmente raffazzonato e malriuscito, e da parte nostra e degli iracheni, che le possibilità e l´aspirazione americana di promuovere la democrazia altrove ne risultano ormai pregiudicate. Gli scandali per le torture di Abu Ghraib e della Baia di Guantanamo non hanno certo giovato e hanno fatto il resto. «Negli ultimi anni si è registrato uno spreco immenso di soft power e di hard power americani» prosegue Diamond, che ha lavorato in Iraq in qualità di esperto.

I "cattivi" lo sanno e se ne stanno approfittando. Uno dei Paesi nei quali lo si comprende meglio è lo Zimbabwe, dove il presidente Robert Mugabe ha cercato di manipolare le elezioni a suo favore, dopo aver mandato in rovina il suo Paese per anni. Oserei dire che oggi non c´è al mondo leader più rivoltante di Mugabe. L´unico a competere con lui è il suo vicino, il suo sostenitore, il suo garante, il presidente sudafricano Thabo Mbeki.
Lo Zimbabwe si è recato alle urne il 29 marzo, ma il governo ha reso noto il risultato soltanto una settimana fa: a quanto pare Mugabe ha deciso di non poter reclamare la vittoria, viste le molteplici prove del contrario, e quindi il suo governo ha fatto sapere che il leader dell´opposizione, Morgan Tsvangirai, ha vinto con il 47,9 per cento dei voti rispetto al 42,3 per cento di Mugabe, e poiché nessuno dei due si è aggiudicato il 50 per cento come impone la legge dello Zimbabwe è necessario andare al ballottaggio. Tsvangirai e il Movement for Democratic Change affermano di aver ottenuto invece il 50,3 per cento dei voti e devono decidere se prendere parte o meno al ballottaggio, che sarà segnato da grandi violenze. Già adesso alcuni protagonisti dell´opposizione sono stati presi di mira da una campagna manovrata dallo Stato, fatta di aggressioni e intimidazioni.

Se il sudafricano Mbeki avesse ritirato il suo appoggio economico e politico al governo di Mugabe, quest´ultimo avrebbe dovuto dimettersi già da tempo. Ma Mbeki non prova interesse nei confronti degli zimbabwesi e di quello che stanno patendo: si dimostra interessato soltanto al suo amicone anticolonialista Mugabe. A che cosa è servito il movimento anticolonialista? A far sì che la popolazione fosse schiavizzata da un leader africano invece che da un leader europeo? Ciò che Mugabe ha fatto al suo Paese è uno dei più insensati atti di malgoverno di tutti i tempi. L´inflazione è talmente galoppante che gli zimbabwesi devono portare in giro i loro soldi – se li hanno – in borse e sporte. Gli scaffali dei negozi sono vuoti. L´agricoltura è praticamente al collasso. La criminalità tra la popolazione che muore di fame è dilagante. L´elettricità è talmente insufficiente da non consentire di tenere accese le luci.

Che cosa possono fare gli Stati Uniti? Nello Zimbabwe dobbiamo lavorare con leader africani degni di questo nome – per esempio Levy Mwanawasa dello Zambia – per esercitare pressioni per una transizione pacifica. Con i nostri alleati dovremmo minacciare di portare la cricca di Mugabe all´Aja, di fronte alla Corte Penale Internazionale – come facemmo con i leader serbi – qualora continuassero ad alterare il responso delle urne.

Ma dobbiamo fare ancora di più, ovvero tutto il possibile, per sviluppare alternative al petrolio, per indebolire i petro-dittatori. Questa è un´altra delle ragioni per le quali la proposta di John McCain e di Hillary Clinton di togliere la tassa federale sulla benzina in estate – così che gli americani possano guidare di più, mantenendo alto il prezzo del petrolio – non è una concessione da poco, senza conseguenze. Non è neppure la fine della civiltà, certo. È soltanto un altro piccolo chiodo in più nella bara della democrazia in questo pianeta.
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 13.5.08
Le nuove madonne
L'ultima apparizione appena riconosciuta dalla Chiesa a Saint Etienne le Laus in Francia. Radiografia di un fenomeno in crescita
di Jenner Meletti


Il sapone lo devi portare da casa, la camera viene rifatta ogni sei giorni. Ma è davvero speciale, la stanza 143 dell´"hotellerie", l´albergo dei pellegrini, proprietà della diocesi di Gap ed Embrun. Un letto, un asciugamani, un tavolino, un crocefisso sul muro. Meglio affrettarsi a prenotare, prima che tutto finisca. Il santuario dedicato a Notre- Dame du Laus, sulle Alpi francesi, da domenica 4 maggio è diventato "la nuova Lourdes", perché la Congregazione per la dottrina della fede ha dichiarato che qui, davvero, il 29 agosto 1664 e poi per altri 53 anni la Madonna è apparsa a una ragazza di nome Benoit (Benedetta) Rencurel. Il vescovo e sette cardinali hanno dato l´annuncio del "placet" a seimila fedeli, una folla mai vista su queste montagne. La tv francese ha trasmesso in diretta la Santa Messa dedicata alla "Reconnaissance officielle des apparitions" e adesso il santuario montanaro rischia di entrare nel circuito dei tour operator. La stanza 143 e le altre duecento camere dell´hotel del vescovo, di colpo, diventeranno un retaggio del passato. Una camera senza bagno con solo il lavabo (a 16,50 euro con prima colazione, 28 euro la pensione completa in stanza con tre letti) va bene per i pellegrini di un tempo, non per le comitive del "turismo religioso" che recitano il rosario in tutta fretta ma poi vogliono la tv satellitare in camera.

Gianni Gennari, studioso della religiosità popolare
"Quei santuari del sentimento"

Gianni Gennari, teologo, cura la rubrica «Lupus in pagina» su Avvenire ed è attento studioso della religiosità popolare. «Io credo - dice - che chi non comprende il valore e il significato di un santuario non riesca nemmeno a capire tanti altri aspetti della nostra società, e non solo sotto il punto di vista religioso».
A cosa si riferisce?
«Penso ad esempio alla recente esposizione del corpo di Padre Pio. Anche in questa occasione ho letto pareri di intellettuali moderni, per così dire scafati, che non hanno nascosto il loro disprezzo per questo fenomeno di religiosità popolare. Ma si sono chiesti, questi stessi intellettuali, perché 700.000 persone hanno prenotato una visita a San Giovanni Rotondo? Sono riusciti a trovare una risposta? Se non comprendi i sentimenti di milioni di persone, sarà difficile anche presentare proposte politiche che trovino consenso. E si è visto anche alle recenti elezioni».
Da un punto di vista dottrinale, cos´è un santuario?
«Il vero santuario, secondo la teologia, è l´uomo vero. Il credente cerca e trova Cristo nell´Eucarestia, nella Parola e, come detto, nell´uomo che soffre, che subisce ingiustizia… "Se non ami il fratello che vedi - dice il Vangelo - non puoi amare il Dio che non vedi". Ma c´è anche un´esperienza religiosa concreta che nei secoli ha preso la forma di luoghi. Già dai primi secoli è nato il culto delle reliquie dei Martiri e sono stati venerati i luoghi della presenza storica di Cristo, degli Apostoli e poi dei Santi. È un fenomeno, questo, che ha toccato tutti i secoli e tutti i continenti e che ancora oggi continua».
Il riconoscimento ufficiale di un´apparizione, come avvenuto a Saint Etiènne le Laus, cambia qualcosa nella vita di un santuario?
«Non credo. I santuari sopravvivono solo se già sono legati a una tradizione e a una devozione popolare. Il riconoscimento ufficiale, arrivato come in Francia dopo tre secoli e mezzo, dimostra soltanto che la Chiesa è attenta. E vigila contro superstizione, paganesimo e soprattutto simonia».
(j. m.)

Repubblica 13.5.08
Leonardo è il "Personaggio più influente della cultura" Lo dicono 140mila cittadini del Vecchio Continente
Genio e mistero è lui il più amato dagli europei
"Ma il Maestro ha origini mediorientali La prova? Le impronte su carte e dipinti"
di Elena Dusi


Dal volo allo studio delle valvole, tutta la sua opera ancora oggi aiuta l´uomo
In fondo alla classifica dei super 50 un altro toscano: Niccolò Machiavelli

Tutte le strade portano a Leonardo. Quando Roma perde la sua centralità, chi resta nel cuore dell´Europa è l´intramontabile da Vinci. "Personaggio più influente della cultura europea" lo hanno eletto in 140mila in un sondaggio che celebra i 50 anni del Trattato di Roma. Nelle urne aperte otto mesi fa su iniziativa delle associazioni "Ufficio internazionale delle capitali culturali" e "Capitale della cultura catalana" hanno inserito i loro voti digitali i cittadini di tutta l´Unione. E per l´Italia del Rinascimento c´è stata la soddisfazione di aver superato la Gran Bretagna di William Shakespeare e l´Austria di Wolfgang Amadeus Mozart. Perché se il genio non si misura ed è impossibile fare classifiche fra personaggi di tanta levatura, nessuno come Leonardo è ancora vivo nelle cronache di oggi con i suoi misteri in cerca di rivelazioni.
Il sorriso della Gioconda è solo il primo di questi enigmi. La seconda palestra per giallisti riguarda le origini di Leonardo: sembra che sua madre fosse originaria del medio oriente o di quella Turchia che alle porte dell´Europa si sta affacciando con una qualche fatica. I disegni tecnici offrono pane per i denti degli ingegneri. E non manca chi alle macchine volanti del genio toscano affida la propria vita: alla fine di aprile un avventuroso svizzero si è lanciato da 650 metri con il paracadute a forma di piramide disegnato da Leonardo mezzo millennio fa. «Sono atterrato al centro della pista. Il paracadute si è comportato in maniera impeccabile» ha raccontato Olivier Vietti-Teppa, che ha unito design rinascimentale e materiali moderni per il suo tuffo dall´elicottero. Francis Wells fa invece il cardiochirurgo di mestiere. E a Leonardo ha affidato la vita dei suoi pazienti nell´ospedale di Cambridge. «I suoi disegni sul funzionamento delle valvole - ha detto in un´intervista alla Bbc - sono stati rivelatori. Mi hanno suggerito una tecnica migliore per correggere dei difetti del cuore».
Per rompere gli incantesimi di cui il beffardo fiorentino ha circondato le sue opere c´è chi pensa di usare la potenza di fuoco della tecnologia moderna. Ma i risultati fanno spesso scuotere la testa. Alcuni scienziati canadesi hanno analizzato con il laser e i raggi infrarossi la Gioconda per decifrarne il sorriso. «Sguardo e lineamenti - ha concluso Bruno Mottin del French Museums´Center for Research and Restoration - sono caratteristici di una donna che è incinta o ha appena partorito». L´ipotesi non ha convinto nessuno. I disegni delle macchine belliche di Leonardo, poi, conterrebbero dei difetti nascosti. Il genio che definì la guerra "una follia bestiale" non avrebbe mai permesso che le sue tecnologie fomentassero gli istinti di sangue. Così nel disegno del suo prototipo di carro armato le ruote sono montate in maniera tale da spingere il mezzo all´indietro, anziché in avanti. E in questo senso la vittoria di Leonardo è stata vista dagli ideatori del concorso come un buon auspicio per l´Europa. Anche perché dal fondo della classifica, al cinquantesimo e ultimo posto, a guardare il primato di Leonardo è finito un altro toscano del Rinascimento: Niccolò Machiavelli. Geniale anche lui, ma con un retrogusto mefistofelico che sarà forse frutto di pregiudizio, ma ai volonterosi e idealisti elettori del concorso europeo non poteva andare giù.

Repubblica 13.5.08
Destra. Dopo le vittorie in italia e in Inghilterra
Come ha messo in crisi la sinistra
di Gabriele Romagnoli


Un nazionalismo strano che affida la difesa del Paese a chi vuole smembrarlo
Si vuole tenere Alitalia in mani nazionali quasi Spinetta fosse come Zidane

C´è stato un momento divinatorio, in cui il futuro imminente dell´Italia è apparso chiaro a chiunque avesse occhi per vederlo. Era il luglio del 2006, la Nazionale aveva appena vinto i Mondiali di calcio e i trionfatori sfilavano ai Fori Imperiali, vestiti di scuro, sul tetto di un autobus. Li accompagnavano una folla immensa e uno striscione con la scritta: "Fieri di essere italiani". A un certo punto apparivano, dalle parti dell´eroico portiere Buffon, simboli inequivocabilmente nazisti. "Forse non se ne è accorto", commentò sospesa tra ipocrisia e superficialità la giovane Giorgia Meloni, attualmente ministro in quota Alleanza Nazionale. Quello di cui era necessario accorgersi era che tutta la scenografia della celebrazione, l´evento stesso che il destino aveva partorito recava i crismi della storia in fieri, conteneva gli elementi del Dna, del paradossale Dna della destra italiana che si avviava, di lì a due anni, a una vittoria paragonabile a quella ottenuta dai calciatori nel lugubre, hitleriano, stadio di Berlino.
Primo elemento: il nazionalismo. "Fieri di essere italiani" si proclamavano a decine di migliaia, soprattutto giovani. Un´intera generazione si è andata riappropriando di una caratteristica che non solo i padri, ma i fratelli maggiori avevano rinnegato, perfino con disdegno. Globalisti, localisti, ma patriottici mai. Da qualche anno covava invece una rinascita del sentimento nazionale, celebrata con la rabbia e l´orgoglio del pamphlet di Oriana Fallaci, sublimata nell´ammirazione per il modo di affrontare la morte di Fabrizio Quattrocchi, giustiziato in Iraq. L´alimentava la paura e il disprezzo per l´altro, l´usurpatore del presunto diritto a godere della posizione migliore, fosse l´odiato francese che vinceva le finali o il maghrebino che attecchiva nella provincia settentrionale (entità mirabilmente fuse nella figura, infine umiliata, di Zinedine Zidane). Un nazionalismo ingenuo e contraddittorio, al punto da finire per demandare la difesa contro lo straniero a un partito, la Lega, che contemporaneamente teorizzava il superamento dell´Italia. Un feticcio, ma a larga diffusione.
Secondo elemento: il carro dei vincitori. Tutti su, insieme con Buffon, non importa se si è accorto di portare la svastica: è campione del mondo. La destra ha cominciato a vincere quando è stata predetta vincente. Ha allargato il consenso quanto più questa predizione si è rafforzata. Viviamo in tempi di incertezze, morali prima ancora che economiche: si corre ai ripari forti. Viviamo, ancor più, in un´epoca che propone un´infinità di sfide, illumina chi le supera e oscura chi non ce la fa. Il mondo dello spettacolo, ormai fuso con quello reale, proclama con scadenze sempre più ravvicinate vincitori e vinti. Gli uni restano in gara, gli altri scompaiono nella botola. Vincere è percepito, a distanza di decenni, nuovamente come un imperativo, ma per sopravvivere. Il Moretti di Caro diario che proclamava, anche lui fiero a suo modo: «Voglio restare minoranza», giacché se diventi maggioranza qualcosa hai sbagliato è un modello da irridere. Come lo è il Vecchioni di : «Vincere significa accettare e questo, lo dovessi mai fare, tu questo non me lo perdonare». Di nuovo spinge verso destra un misto di entusiasmo e paura.
Terzo elemento: il superamento della legalità. I ragazzi sul tetto dell´autobus e del mondo erano, due mesi prima, alle soglie della squalifica. Travolti a vario titolo nelle nefandezze del calcio italiano. I più rappresentativi di loro (Cannavaro e, inevitabilmente, Buffon) erano sotto accusa. Si era parlato addirittura di lasciarli a casa, di sostituire l´intera Nazionale con una rosa di ragazzi, in segno di simbolica rinascita. Scampati all´abisso, avevano trovato risalendone le motivazioni per vincere. E la vittoria aveva cancellato ogni passato, assolto tutti. C´è, nella destra italiana, lo stesso percorso autoassolutorio. Vincendo si emenda da ogni colpa. In un paradosso superiore a ogni altro ha ceduto ad altri la propria bandiera legalitaria. Ha sospinto a sinistra personaggi che antropologicamente e idealmente le appartengono (Di Pietro), indotto a mutuarne i metodi altri che le sono estranei (Cofferati). Nell´abbraccio tutt´altro che mortale, anzi rigenerante e salvifico, con Berlusconi ha perduto le proprie caratteristiche. Un purista come Pietrangelo Buttafuoco diceva anni fa in una intervista al settimanale Diario: «Un tempo il missino lo riconoscevi, nel condominio, quartiere, paese, per la sua rispettabilità, la pignoleria nell´applicare la legge, per come era inflessibile». Ora, pur di conquistare il potere, la destra ha acquisito la predisposizione nazionale e la berlusconiana necessità di venire a patti con la legge: gabbandola, aggirandola, se non resta altra via modificandola. Era difficile riconoscersi negli uomini tutti d´un pezzo, molto più facile riconoscersi in questi, inclini se non al perdono, almeno al condono.
E veniamo qui al quarto elemento: l´identificazione. Antropologicamente gli esponenti politici della destra sono molto più vicini all´italiano medio. Lo sono intellettualmente, e non è un giudizio di valore, del tipo scolastico. È questa un´epoca di grande complessità. Di fronte alla complessità la sinistra reagisce da sempre con la pretesa di spiegarla, in scala 1 a 1, cadendo in un pozzo borgesiano. La destra reagisce tentando di semplificarla. Noam Chomsky contro Ronald Reagan, Toni Negri contro Ignazio La Russa, non c´è partita: è Ucraina-Italia. Piuttosto che un modulo poco comprensibile e per nulla ottimista, meglio le ricette semplici, il linguaggio forte. I giornali della destra italiana hanno stili di titolazione all´incrocio tra quelli sportivi e (ennesimo paradosso) quelli storici della sinistra extra-parlamentare. Gli esponenti politici si adeguano, con successo: il pubblico capisce i propri interlocutori, si sente più vicino a loro, anche umanamente. Da una parte i cupi, i secchioni, i monogami a vita. Dall´altra i nottambuli con le amanti vallette e i figli in arrivo da una donna che non è la moglie. È un paradosso avere una destra che rispolvera l´identità cristiana e celebra il Family Day mentre vive paganamente e fa la fortuna degli avvocati divorzisti? Non più di quanto lo sia una destra che, infischiandosene dei diritti umani e dei trascorsi comunisti (altrove considerati marchio d´infamia), fa affari con Putin ed evita di pronunciarsi sul Tibet per non infastidire la Cina. In questa contraddittorietà l´elettorato, il popolo, la curva del Circo Massimo non rileva un elemento negativo, anzi: ci si adagia riconoscendosi. Si può dunque proseguire nell´abiura, abdicando a ogni elemento storico. "Meno Stato, più mercato" dovrebbe essere una regola d´oro della destra, ma nella vicenda Alitalia quella italiana fa esattamente l´opposto, cercando di salvare a spese dello Stato (con prestiti ponte, con l´idea di comprarsela tramite le Ferrovie) un´azienda bocciata dal mercato. Perché? Perché ama l´Italia, la sua bandiera, la sua compagnia di bandiera, perché non finisca in mano agli odiati francesi, manco Spinetta fosse Zidane, venuto a prenderci a testate. Si chiude il cerchio, tornando al frainteso nazionalismo, alla fierezza di essere italiani in una notte d´estate, a questa versione di destra che per i giovani è una scelta di appartenenza a qualcosa di vincente come lo fu quella Nazionale, per gli impauriti (che sono tanti) una via d´uscita più immediata, per quelli che non capiscono il presente una spiegazione più facile e apparentemente efficace. Per tutti qualcosa, o meglio ancora qualcuno più vicino: nella condotta, nei ragionamenti e nelle aspettative. Non è il facile folclore dei giornali stranieri, non è TelePredappio, è qualcosa di molto più profondo, contraddittorio e duraturo. È l´immagine del Paese, reale e non spettacolare. Chi la giudica distorta sta guardando da troppo tempo lo specchio invece di quel che ci si riflette.

NORBERTO BOBBIO;
C´è in Europa un´antica tradizione di destra reazionaria, che è religiosa, da De Maistre, a Donoso Cortes, a Carl Schmitt; ma c´è anche una destra irreligiosa e pagana, che si serve della religione come instrumentum regni. Tutta la "nouvelle droite" di questi ultimi decenni non è religiosamente orientata. Non attinge a nessuna delle fonti religiose della destra tradizionalista. Se poi si tiene presente la distinzione tra estremismo e moderatismo, bisogna fare i conti con una destra moderata che ha una visione completamente laica della politica: penso a un personaggio come Vilfredo Pareto, le cui simpatie per la destra storica lo conducono sino alle soglie del fascismo nei suoi ultimi anni e la cui irrisione delle credenze religiose di tutte le specie lo ha fatto paragonare con buone ragioni a Voltaire.

Repubblica 13.5.08
I conti con il passato. “La loro forza è il capo carismatico”
di Antonio Gnoli


Sia a destra che a sinistra siamo ancora prigionieri di una retorica dalla quale non riusciamo a liberarci: pensare che esistano ancora un pericolo comunista e un pericolo fascista. Esperienze storiche tramontate
Parla Alessandro Campi, insegna dottrine politiche e dirige la fondazione FareFuturo

L´Europa si sposta a destra. E l´Italia fa da modello. Ma di quale destra parliamo? Alessandro Campi, che insegna Storia delle dottrine politiche all´università di Perugia e dirige la fondazione "FareFuturo" di Gianfranco Fini, ha dedicato vari studi all´argomento. L´ultimo in una chiave storico politica è appena uscito dall´editore Marsilio con il titolo L´ombra lunga di Napoleone, da Mussolini a Berlusconi.
Che cosa è il fenomeno della nuova destra?
«Intanto non parlerei di una "nuova destra", o meglio se vogliamo stare dentro questo contenitore dovremmo farlo con alcune cautele. Nel senso che non so ad esempio fino a che punto l´etichetta "nuova destra" ci faccia capire la natura autentica del berlusconismo e della Lega».
Qual è la sua preoccupazione?
«Che si perda il grande eclettismo ideologico di questi due fenomeni politici. C´è uno stereotipo che interpreta la destra come un partito attestato in difesa dell´ordine e dello Stato. E se questo può essere in parte vero per Alleanza Nazionale, non lo più per il berlusconismo e per la Lega. Entrambi, io credo, si presentano come due forme diverse di reazione nei confronti dello Stato».
Lei sostiene, insomma, che Lega e berlusconismo violano i codici di base della destra?
«Quanto meno non ne rappresentano l´immagine convenzionale. Da un lato la Lega è la periferia che si rivolta contro il centro e nel farlo rivendica una propria autonomia; dall´altro il berlusconismo è una rivolta contro lo Stato, nel nome dell´individuo. Sono convinto che le spinte propulsive di quel movimento siano molto più anarchiche di quanto si pensi».
Diciamo caratterizzate da un liberalismo estremo.
«È un liberalismo continentale che interseca due linee: quella che da Constant e Tocqueville giunge ad Aron e l´altra capitanata da Von Hayek. Ed è evidente che la capacità aggregativa che Lega e berlusconismo hanno, difficilmente è interpretabile con la categoria di "nuova destra"».
Perché?
«Perché si è creato un consenso trasversale. Gli operai che a Nord votano per la Lega non lo fanno perché è di destra, ma perché è un partito radicato sul territorio. Quegli operai votano innanzitutto per se stessi. L´affiliazione è territoriale e per niente ideologica. Servono molto meno le categorie destra-sinistra e molto più periferia-centro per capire ciò che è accaduto nel nord d´Italia».
Lei dice che la Lega è "per niente ideologica", su cosa avviene l´aggregazione?
«Il mito politico della lega non nasce da una crisi epocale, come accadde con il fascismo. Non è su quelle basi che essa capitalizza il consenso popolare. Il mito politico fondante è qui un federalismo a corrente alternata: un po´ secessionista e un po´ autonomismo politico territoriale».
La destra ha cavalcato in questi anni anche il mito dell´ordine e della sicurezza. Facendo leva sul sentimento della paura.
«È vero. Si tratta di uno degli argomenti sul quale la sinistra, debitrice dello schema illuministico, insegue, ma con molte contraddizioni al suo interno. Per molto tempo la sinistra ha ignorato la componente prepolitica ed emozionale. In politica non ci sono solo interessi ma anche fantasmi. La destra, invece, si muove più a suo agio nella politica che non è solo calcolo razionale ma anche emotività. La destra ha capito meglio della sinistra che esistono paure nel mondo reale che vanno combattute e incanalate dentro strutture formali».
Ma si ha anche l´impressione che questa destra oltre che a registrarle, le paure le crei.
«È un pericolo che la politica può correre. Se ciò accadesse sarebbe comunque un fatto grave».
Ha ancora senso la distinzione classica: destra individualistica, sinistra egualitaria?
«Non è scritto da nessuna parte che la destra è per definizione individualistica. Semmai la destra, la grande destra culturale e politica del Novecento, ha avuto un forte carattere antiindividualistico, basato sull´idea unificante di nazione».
Mi riferivo all´esperienza del liberalismo di questi anni, in particolare al mito tatcheriano dell´individuo.
«È vero. Ma anche qui sono intervenute alcune correzioni successive. David Cameron, leader dei conservatori inglesi, reinterpreta questo mito secondo cui non esiste la società ma solo gli individui, inventandosi il concetto di individualismo responsabile e facendone il manifesto di un nuovo conservatorismo».
Che rapporto si è stabilito, secondo lei, tra le destre italiane e il loro passato?
«Per ragioni diverse hanno un rapporto molto labile con la tradizione storica. Nessuna di esse si pone in un rapporto di continuità con il passato. La memoria del berlusconismo coincide geneticamente con Berlusconi. Il rapporto controverso di An con il passato nasce anche dal bisogno di chiudere con il fascismo, rimuovendolo in modo chirurgico. Infine la Lega ha con la tradizione storica un rapporto inventato. Tutto il suo apparato liturgico attiene più al folclore politico che alla realtà storica».
Le tre destre non hanno quindi un rapporto lineare con la propria storia.
«Questo spiega la loro forte carica innovativa. Almeno in linea teorica, perché altra cosa è se riescono davvero a innovare».
In che cosa le destre sarebbero innovatrici?
«Tutte e tre contengono alcune istanze modernizzatrici: la Lega a livello politico istituzionale; il berlusconismo sul piano economico e la parte riguardante An con una proiezione nel futuro come raggruppamento pragmatico».
Mi pare che proprio An abbia problemi con la propria base e il proprio passato.
«C´è ancora una divaricazione tra testa e corpo, quest´ultimo è più conservatore e tradizionalista sul piano dei valori, di quanto non lo sia la testa».
Ma questa testa, come lei la chiama, ha fatto fino in fondo i conti con il proprio passato?
«Il richiamo al fascismo e al rischio che si ripresentino situazioni e fantasmi del ventennio, li considero il frutto di un cattivo automatismo ideologico. Il Movimento sociale fu l´erede nostalgico del fascismo. Ma è una storia che si è obiettivamente chiusa. Quello che vediamo in giro, collegato a quella vicenda, sono solo degli strascichi. Credo che sia a destra che a sinistra siamo ancora prigionieri di una retorica dalla quale non riusciamo a liberarci».
E sarebbe?
«Quella di pensare che esistano ancora un pericolo comunista e un pericolo fascista. Sono esperienze storiche tramontate».
Oggi le destre vivono all´ombra del populismo.
«Anche qui distinguerei. Intanto il mio primo pensiero è che il populismo è inscindibile dalle grandi democrazie di massa contemporanee, nelle quali la propaganda politica è soprattutto affidata al messaggio televisivo. E poi non confonderei il populismo come stile dal populismo come sostanza. Quello di Berlusconi, per esempio, è un populismo retorico, nasce da uno stile che si è formato nella logica pubblicitaria - tra l´altro Berlusconi si è laureato con una tesi sulla pubblicità - esce dalle convention aziendali dove devi sempre risultare simpatico e ammaliante. Non è Peron che accusa gli Stati Uniti o le multinazionali».
E il populismo della Lega?
«Nel caso di Bossi più che davanti a una destra populista siamo in presenza di una destra popolare che si nutre di un linguaggio volutamente semplificato, a tratti volgare. La forza di queste destre è nella stabilità delle loro leadership. E ritengo che la fase della personalizzazione della politica spieghi perché tra le ragioni della sconfitta della sinistra ci sia anche questa, la scomparsa di leader carismatici».

Repubblica 13.5.08
Come le diverse "destre" interpretano la modernità
Tutti i volti di una tradizione
di Carlo Galli


A seconda dei diversi contesti politici sono carismatiche e tecnocratiche, personalistiche e razziste, nazionalistiche e localistiche

Come ha insegnato, fra gli altri, Norberto Bobbio, la destra e la sinistra si sono differenziate, in età moderna, secondo coordinate valoriali (uguaglianza o differenza fra gli uomini), politiche (autorità o libertà, gerarchia o autonomia), temporali (progresso o conservazione).
Già fra il 1789 e il 1848 si è visto (lo ricordava Marco Revelli) che sono molte le destre possibili. In questi decenni si presentano infatti sulla scena politica i controrivoluzionari, cioè la destra che sostiene il radicamento della politica in un fondamento che la precede (la tradizione, la religione, la natura, la storia) e che deve essere conservato senza poter essere criticato dalla ragione umana, pena il crollo dell´ordine politico; c´è poi l´orleanismo, la destra del movimento, della libera iniziativa individuale che produce ricchezza per i singoli e per la società, mentre seleziona vincitori e vinti, capaci e incapaci, secondo le leggi oggettive del merito e del successo; e infine il bonapartismo, la destra del comando politico dall´alto, della decisione che ri-organizza la politica con armi extra-legali e extra-istituzionali. Da queste a ben guardare derivano anche le successive destre, quelle populiste, quelle localiste e quelle irrazionalistiche.
Si tratta, evidentemente, di destre diverse; alcune si confrontano con la modernità al suo nascere, altre invece si formano al suo interno; vi sono destre economiche e destre politiche, destre moderate e destre estreme, destre conservatrici, reazionarie, autoritarie, totalitarie, statalistiche e antistatalistiche, individualistiche e comunitarie. Si tratta, dal punto di vista teorico e pratico, di diverse possibilità (anche molto differenziate tra loro, a volte reciprocamente ostili e teoricamente incompatibili) che si aprono nella lotta politica moderna – alla quale la destra appartiene (a volte con suo disappunto, a volte con compiaciuta consapevolezza) – per chi non ne vuole assecondare tutte le logiche, ma ne seleziona alcune a scapito di altre: che pretenda di attingere l´Originario più arcaico o che si proietti nel Futuro più visionario, che si percepisca come destino di potenza o come semplice strumento di amministrazione, che si serva della tecnica o che la rifiuti, la politica di destra non ha come obiettivo l´emancipazione dei singoli e dei gruppi, e la loro inclusione razionale e paritaria in uno spazio politico giuridificato.
Che la destra non sia sinonimo di inerzia né di chiusura al mondo, è evidente oggi, nell´età globale, cioè nel ciclo storico innescato dalle politiche conservatrici ma assai dinamiche di Reagan e della Thatcher, e caratterizzato dal fatto che l´economia e la politica hanno come spazio un mondo unico ma non unito né unificato. Un mondo, anzi, sempre più attraversato da conflitti, paure, incertezze, in cui la politica tende a non presentarsi secondo le coordinate ugualitarie dell´illuminismo e le istituzioni includenti dello Stato sociale, ma si struttura prevalentemente secondo molteplici differenze, contrapposizioni, esclusioni (di fatto o di principio): la differenza fra amico e nemico, fra occidente e islam, fra civiltà e terrorismo, fra cittadino e migrante, fra ricchi e poveri, fra istruiti e ignoranti.
È in questo spazio politico che la destra trova la sua grande occasione. Ben lungi dal voler ricostituire ordini del passato, le destre – sono infatti tutte all´opera, oggi, quale più quale meno a seconda dei diversi contesti politici statali: carismatiche e tecnocratiche, fondazionistiche e nichilistiche, personalistiche e razziste (o biopolitiche), nazionalistiche e localistiche – agiscono con grande spregiudicatezza e abilità dall´interno della pluralità e della complessità delle società di oggi. Su cui intervengono con politiche che assecondano divisioni corporative e paure allarmistiche, risentimenti sociali e frammentazioni culturali, chiusure e esclusioni (o subordinazione) dei non-integrati.
Incorporare la pluralità, lasciare che le contraddizioni sociali si organizzino e trovino combinazioni gerarchiche, prospettare politiche contraddittorie – libertà del mercato (il neoliberismo) e libertà dal mercato (il neoprotezionismo) –, far stare insieme la paura della concorrenza e del nemico con la speranza di vincere la lotta per l´esistenza o di scavarsi una nicchia protetta, esercitare l´individualismo egoistico mentre si coltivano identità collettive in comunità reali o immaginate, col folklore o con le ronde che creano l´illusione che si possano ritrovare i territori e gli spazi sociali perduti, scaricare verso l´Altro (simbolico ma concreto: ogni Diverso è a rischio) le tensioni a cui non si dà una risposta lineare e razionale: tutto ciò significa che l´immagine di società che le destre promuovono politicamente non trova il suo centro in un progetto razionale di emancipazione ma proprio negli interessi e nelle pulsioni che la dividono e la gerarchizzano; è al livello simbolico che vengono offerte forme di unificazione identitaria (la nazione, la religione, la comunità locale) con evidente valore risarcitorio, mentre la tenuta del sistema sta nella fiducia verso il leader carismatico, del quale è quindi decisiva la capacità comunicativa.
Questo combinarsi di inclusione e di esclusione non è incoerenza o dilettantismo, ma anzi è una diversa risposta alla questione politica moderna: come si possa far stare insieme l´unità e la pluralità, la forma e il conflitto. E la risposta della destra è la complexio oppositorum, ovvero un´unità politica simbolico-carismatica che nella pluralità delle contraddizioni sociali vede non un problema da risolvere né una ricchezza da dispiegare secondo un progetto razionale ma un´occasione per esercitare la forza che differenzia, la potenza nella differenza. Una modernizzazione postmoderna, davanti alla quale la sinistra – con le sue politiche aggiornate, ma pur sempre modernamente orientate all´uguaglianza e alla razionalità progressiva – finora non casualmente boccheggia.

Repubblica 13.5.08
E Basaglia liberò tutti
Compie oggi trent’anni la legge 180
di Luciana Sica


Con Eugenio Borgna, che ora pubblica "Nei luoghi perduti della follia", ripercorriamo i punti chiave di una riforma sotto accusa
"In ogni epoca storica e in ogni forma di società ci sono stati i malati mentali"
"Oggi la cultura psichiatrica tende ancora a ignorare i contenuti umani della sofferenza"

Dimenticare la legge Basaglia? Un punto di vista sconcertante, almeno a dare ascolto a Eugenio Borgna, psichiatra di grande esperienza clinica - ma anche uomo di idee, raffinato conoscitore di filosofia e di letteratura, di poesia in particolare, per non dire della passione che da sempre coltiva per l´arte e per la musica.
La questione andrebbe vista forse da un´altra angolazione: più culturale che medica, ma non proprio irrilevante. Approvata il 13 maggio del ´78, oggi compie trent´anni la legge nota anche col numero 180: cancellando la barbarie dei manicomi, ha tentato innanzitutto di restituire il sentimento della dignità ai malati, di considerare le loro vite "degne di essere vissute", non proprio un accidenti della natura più matrigna. Un tentativo nobile, sorretto da una forte idealità, segno - tra l´altro - che quegli anni non potranno restare nella memoria soltanto come la stagione plumbea del terrorismo o della collusione di massa con la "violenza giusta".
Quel tentativo - bisogna riconoscerlo - è comunque almeno in parte fallito: ma non "per colpa" della legge, voluta da un gruppo di psichiatri eccellenti prima che "rivoluzionari", aggettivo retorico di cui ormai si può fare a meno - sempre che sulle questioni di civiltà non ci siano tentazioni di sapore regressivo. Non c´è infatti un bilancio negativo di quello che è stato fatto rispetto a quello che resta da fare: sarebbe impossibile dimostrare il contrario, se non alterando i dati ufficiali.
Il punto è un altro e riguarda piuttosto le discutibili scelte nella modalità delle cure, il "come" viene ancora oggi affrontato il dolore mentale, prima ancora dei "luoghi" più o meno adeguati all´assistenza di chi sta male e a volte malissimo. Il problema riguarda una certa miserrima cultura psichiatrica, priva di qualsiasi orizzonte etico, che continua con ostinazione a oggettivare gli esseri più sofferenti, a racchiuderli in gabbie diagnostiche senza senso prima ancora che senza anima, a utilizzare sempre e solo lo strumento dei farmaci: magari per sedarli se sono maniacali o per eccitarli se sono depressi. Il ricorso alla chimica, molto spesso utile, a volte indispensabile, diventa sempre una scorciatoia brutale in assenza di una disponibilità all´ascolto e quindi alla comprensione, alla capacità di cogliere un senso in quell´affondare tragico nella notte nera della follia, in quella condizione fatale che si traduce in esperienze segnate dall´ossessione e dall´enigma.
Già molto tempo fa questo genere di riflessioni coinvolgevano Eugenio Borgna, che oggi ha 78 anni, è primario emerito dell´ospedale maggiore di Novara - per suo merito non più un manicomio, ormai da tanto - e autore d´innumerevoli saggi, uno più brillante dell´altro: psichiatra da sempre in trincea ("dove si spara da tutte le parti"), uomo dalla sensibilità e dall´emotività molto accese, del tutto privo delle varianti intellettuali dell´algore.
Il tragitto del suo pensiero teorico è ora tracciato in un´antologia intitolata Nei luoghi perduti della follia (Feltrinelli, pagg. 474, euro 32): il volume raccoglie scritti pubblicati tra il 1964 e il 1984 e in qualche modo somiglia al "laboratorio di un autore", come scrive Federico Leoni nell´introduzione molto ben curata. «Èuna definizione più o meno accettabile - fa invece notare Borgna - trattandosi di scritti autonomi, completi, molto ramificati. Di sicuro non li sento datati e tanto meno estranei, non sono "schegge" successivamente ricomposte, ma lavori complessi che rimandano alla colpa, la morte, la nostalgia, il dolore, il concetto dell´io, il tema della schizofrenia…». Sono scritti piuttosto tecnici, seppure di grande intensità, sottratti agli scaffali di biblioteche e archivi, che precorrono brillantemente i contenuti dei libri successivi pensati per un pubblico più ampio, meno specialistico.
In questo libro ad apparire credibile, agguerrita del suo antiriduzionismo, è comunque la psichiatria di area fenomenologica (Borgna ne è un esponente di punta, insieme con Bruno Callieri): decisamente estranea all´utopia farmacologica e alle pure classificazioni diagnostiche, ma anche a certe derive "antipsichiatriche" di un tempo, all´idea tutta ideologica che fosse la società cattiva a produrre la malattia. Oggi è facile sorridere di queste sciocchezze dovute ai furori anticapitalistici dell´epoca, ma allora a sinistra un po´ tutti…
Non nel caso di Borgna. Basta dare un´occhiata a un suo testo datato 1978 che ha per titolo "La parabola agonica della psichiatria", messo in chiusura alla raccolta antologica - uno scritto davvero sorprendente per chiarezza e lucidità. In un passaggio si legge: «La contestazione radicale delle ideologie psichiatriche (di quelle ancorate al positivismo scientifico-naturalistico in particolare) e la drastica riaffermazione della problematicità di ogni definizione articolativa di "malattia" mentale (e di "ab-normalità") sono state condotte avanti con estremo rigore dai movimenti antipsichiatrici; e sono in sé del tutto accettabili nella misura nondimeno in cui esse non ripropongano una diversa ideologia: l´assolutizzazione ideologica (cioè) delle categorie (conoscitive) sociologiche e sociogenetiche». E ancora, più direttamente: «In ogni epoca storica e in ogni forma di società ci sono stati (e ci sono) i "malati" mentali. Le moderne indagini epidemiologiche non sono riuscite a dimostrare differenze qualitative nella frequenza d´insorgenza della schizofrenia nei diversi strati sociali».
Lo stesso Basaglia, nei dieci anni precedenti all´approvazione della "sua" legge, aveva scritto testi di grande interesse teorico. «Erano - dice Borgna - lavori rigorosi di psichiatria fenomenologica, seppure più legati a Jaspers che a Binswanger. Poi, però, nell´enfasi "rivoluzionaria", su un piano più politico che del rigore indispensabile al metodo scientifico, in parte è scivolato anche lui su quel terreno molto franoso: il continente vastissimo e sempre inesplorato della follia diventava la conseguenza più o meno diretta di situazioni di ordine generale assegnando alla società il ruolo del diavolo».
Ci sono state delle forzature o anche delle ingenuità, ma Borgna non è in linea con i critici più severi della legge, non la trova culturalmente rozza, schematica, demagogica, tecnicamente sbagliata, socialmente ingiusta… «Sono argomenti che - già sul piano del metodo - trovo inconsistenti. La fuoriuscita dai manicomi lager è stata un´impresa che ancora oggi meriterebbe un consenso assoluto e senza riserve. Non è l´architettura di quella legge che dovrebbe scuotere le coscienze, ma piuttosto la violenza spropositata della psichiatria ufficiale, l´accademia orientata esclusivamente in senso farmacologico, le scuole di specializzazione segnate dalla sindrome del deserto emozionale e affettivo nei confronti dei pazienti».
Dalla lettura degli scritti di Borgna, è chiaro come anche la fenomenologia di matrice husserliana non gli sia stata sufficiente: poco alla volta l´interrogazione incessante sulla follia viene investita di tutti i grandi dilemmi filosofici della seconda metà del Novecento. Con un rimando costante anche alla grande letteratura, spesso utilissima a rischiarare le oscurità dell´anima. «Ad esempio - dice Borgna - le cose che Goethe ha scritto di Ottilia nelle Affinità elettive rappresentano un´anticipazione straordinaria, quasi profetica di quella sindrome clinica, oggi quanto mai problematica, che è l´anoressia».
Dire però che la follia è la sorella sfortunata della poesia, pensare alla disperazione degli schizofrenici come a qualcosa di non troppo dissimile dalla nostra angoscia, può forse dissimulare gli aspetti più sgradevoli e alienanti della psicosi. «È vero», dice Borgna. «Guai a precipitare nel gorgo della trionfalizzazione della malattia, guai però a non cogliere i significati umani che sopravvivono al suo interno, e in forme molto più intense e originali che in noi così spaventosamente "normali", divorati dalla banalità e dal vuoto, rapinati dalle chiacchiere e dall´incapacità di dare ascolto al dolore che sempre lo implora».

Corriere della Sera 13.5.08
Berlusconi telefona a Veltroni: col Pd confronto e collaborazione
La mossa del Cavaliere e le incognite per l'opposizione
di Massimo Franco


La telefonata di Silvio Berlusconi a Walter Veltroni è il primo accenno distensivo dopo il voto del 13 e 14 aprile. La volontà del presidente del Consiglio di riprendere il dialogo col Pd tende ad archiviare le asprezze della campagna elettorale. E a non abbandonare il tentativo di riforma, inaugurato alla fine del 2007 proprio dal segretario del Pd. La mossa non è soltanto un segno di sicurezza del nuovo premier, che rispetto al passato può trattare da posizioni di forza. Dimostra che per il Pdl la sponda veltroniana è necessaria, e viceversa. Serve ad impedire che l'opposizione sia risucchiata dall'oltranzismo; e si rassegni al muro contro muro col centrodestra, confinandosi in un ruolo ancora più subalterno.
La cautela delle prime reazioni fa capire che non sarà un'operazione facile. A sinistra esiste una lettura più diffidente della mano tesa di Palazzo Chigi. È quella di chi vede nel dialogo non un'opportunità ma un'insidia. E ritiene che l'invito rivolto al Pd dal suo avversario storico miri a dividere l'opposizione; e comunque possa avere quell'effetto. L'incontro fra premier e segretario del Pd avverrà a giorni, dopo la fiducia al governo. Ma l'incognita riguarda la capacità veltroniana di portare al confronto un partito frustrato dalla sconfitta e da un'ostilità istintiva.
Sulla carta, il segretario ha dalla sua quasi tutti. Solo i nostalgici dell'Unione antiberlusconiana si sono mostrati insofferenti verso la nuova gerarchia del potere interno. Ma il sospetto è che le resistenze a un rapporto ravvicinato col Cavaliere siano più estese di quanto non dicano le apparenze: anche perché emerge un fronte esterno al Pd, pronto ad accusare Veltroni di cedevolezza, se non peggio. Basta registrare l'altolà dell'ex ministro ed ex pm Antonio Di Pietro, alleato del Pd. «Consiglierei a Veltroni cautela con l'apertura di dialogo e di credito ». Berlusconi va affrontato «senza cadere nel tranello dell'inciucio ».
Di Pietro spera di trovare terreno fertile. Le tensioni provocate dagli attacchi televisivi a Renato Schifani, hanno indotto il presidente del Senato a querelare. Le solidarietà espresse anche dal Pd farebbero pensare che la voglia di dialogo sia più forte di tutto. È indicativa l'udienza cordiale di ieri fra il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e Schifani. A prima vista, insomma, esagera chi sostiene che gli attacchi contro il presidente del Senato provengono da chi vuole sabotare un'intesa sulle riforme istituzionali. Ma uno scontro radicale può complicarla.
«È normale», ha cercato di spiegare ieri Veltroni, «che il capo dell'opposizione discuta con il capo del governo». Ed ha confermato che vedrà Berlusconi a giorni. Tuttavia, non è escluso che presto sia costretto a muoversi in un contesto avvelenato artificiosamente dal rapporto politica-giustizia. Dire che il dialogo sta naufragando prima ancora di cominciare sarebbe esagerato e prematuro. Ma già si indovina un Pd accerchiato da minoranze che sembrano ritenere immorale, oltre che inutile, qualunque approccio col Cavaliere. Ed alzano il tiro preventivamente allo scopo di sabotare la trattativa; o magari per colpire lo stesso Veltroni.

Corriere della Sera 13.5.08
Capezzone con Silvio Il radicale «prodigio» voce di Forza Italia
di Fabrizio Roncone


ROMA — Vecchia tecnica radicale. Ci sono scuole politiche che segnano a fondo.
Così, anche adesso che è stato eletto portavoce di Forza Italia, ti parla per dieci minuti — quasi complice, molto sincero, cordiale: perché poi Daniele Capezzone è uno dei rari politici a saper essere persino cortese — solo che alla fine della chiacchierata, ti fa: «Oh, sia chiaro: io non le ho detto mezza parola. Non mi virgoletti, eh?». Va bene. «No, va bene: ho la sua parola, sì o no?». Capezzone, ha la mia parola. Tanto più che la notizia di maggior gusto, secondo quanto lei giura, non c'è. Perché nemmeno adesso, che pure è un momento importante, lei ammette di aver risentito Marco Pannella, il suo grande e anziano padre politico dai lunghi capelli bianchi, con le rughe profonde, che aveva scelto proprio lei come ultimo segretario, discepolo, delfino, figlioccio, di una serie di figliocci (Negri, Cappato, etc) poi all'improvviso divorati da un palco, nel bel mezzo di qualche congresso, con il solito discorso lungo mezza giornata. No. Capezzone ha resistito: non s'è fatto deglutire da Pannella e poi digerire dall'apparato radicale. Capezzone, dopo lunghi mesi di piccolo cabotaggio mediatico, lui che è un signor professionista della parola, lui che ha memorizzati i numeri di tutti noi cronisti, lui che quando lo chiami, ti risponde: «Oh, carissimo! Come stai?», ecco lui torna per ricoprire il ruolo per cui sembra nato. Il portavoce. Un talento.
Potenzialmente, uno dei pochi, in Transatlantico. Con curriculum adeguato.
Bambino precoce, salta la prima elementare e viene iscritto direttamente alla seconda: istituto cattolico San Giuseppe de Merode, piazza di Spagna, Roma. Non una scuola qualsiasi. Poi l'Università alla Luiss, facoltà di Giurisprudenza, molti 30 e lode, senza, però, riuscire a presentare la tesi. Si presenta, invece, a Marco Pannella. Che lo scorge a un sit-in. Seguono petizioni, scioperi della fame, conferenze stampa con lui che arriva sempre con quest'aria da primo della classe. Precisino, preparato, sicuro. Nel 2001, diventa segretario dei radicali italiani. Cinque anni dopo, viene eletto deputato nella Rosa del Pugno e assume la carica di presidente della Commissione Attività produttive. Nel 2007, con Nicola Rossi, Paolo Messa e Bruno Tabacci organizza a Milano la prima uscita pubblica dei cosiddetti «volenterosi», movimento trasversale che aspira a modernizzare la politica. Ha 36 anni, Berlusconi l'apprezzava da tempo.
Un paio di incontri riservati, molte telefonate. Un'intesa, non forte ma sincera, con Sandro Bondi. Che, poetico e cattolico, non ha mai commentato l'ammissione, più clamorosa, fatta da Capezzone: «Sono bisessuale». E poi precisata. «Io penso che non sia importante a chi vuoi bene, ma se sai voler bene. La vita è fatta di tanti incontri, diversi e plurali...». Disinvolto, e anche ambizioso e tattico. Prima, al cellulare, non finiva di raccomandarsi: «D'accordo che non riporterà mie frasi...
ma mica vorrà scrivere un pezzo di colore in agrodolce, eh?».

Corriere della Sera 13.5.08
Judith Herrin contro i luoghi comuni
Bisanzio, la culla della modernità
di Carlo Bertelli


Judith Herrin, docente ordinaria di storia bizantina al King's College di Londra, si rivelò a un'ampia cerchia di lettori nel 1987 con un libro che, nonostante il suo grande interesse, ancora attende di essere tradotto in italiano, The Formation of Christendom, ovvero «La formazione della cristianità » (pubblicato in Gran Bretagna da Basil Blackwell e negli Stati Uniti da Princeton University Press). Uno studio originale del processo per cui, nei quattro secoli tra il sacco di Roma nel 410 d.C. e l'incoronazione di Carlo Magno in San Pietro, venne formandosi un'unità di popoli cristiani in Europa. Un libro formativo, spesso consultato e chiosato.
Il suo nuovo saggio Bisanzio. Storia straordinaria di un impero millenario
(Corbaccio, pagine 480, e 22,60), che appare ora quasi contemporaneamente all'edizione inglese, non è un libro meno ambizioso del primo. Con la stessa facilità di attingere ai documenti originali, che affascina nell'altro volume, anche in questo Judith Herrin trasmette la gioia d'una ricerca che non ha esitato ad andare contro gli stereotipi. Contro un pregiudizio di lunga data, che vede nel millennio bizantino soltanto una prolungata decadenza, il libro registra l'incredibile inventiva e la novità della civiltà bizantina.
«L'impero d'Oriente — scrive Judith Herrin — fu capace di sviluppare il fuoco greco, adattarlo all'impiego navale e mantenere nei secoli il segreto della sua preparazione. Seppe provocare e quindi superare una lacerante controversia sul ruolo delle icone, dell'identità e della fede religiosa. Mentre la cristianità occidentale e l'Oriente musulmano decisero di mantenere le loro Scritture e le lingue sacre latina e araba, Bisanzio ebbe l'audacia di tradurre la Bibbia greca in una lingua scritta inventata dai suoi stessi studiosi, al fine di facilitare la conversione degli slavi. L'impero ebbe anche un sufficiente senso della disciplina per continuare a mantenere stabile la propria moneta aurea per oltre settecento anni, e l'abilità di elaborare forme di potere monarchico conservando l'amministrazione statale romana».
Nel 674-80 le mura di Costantinopoli resistettero al lungo assedio arabo e impedirono che l'Islam arrivasse fino all'Adriatico. Quando la città cadde nelle mani degli crociati occidentali, nel 1204, la civiltà bizantina resistette e dette origine a nuovi Stati. Insegnò allora la «maniera greca» ai pittori italiani. Infine, quando Bisanzio fu decapitata dagli ottomani, ancora i suoi intellettuali dettero un contributo sostanziale al rinascimento italiano.
In breve, è questa l'apologia di Bisanzio, il ritratto, tracciato con scrittura elegante e precisa, di una «società vivace e inventiva, appassionatamente fiduciosa in se stessa».
La traduzione italiana cade in un momento quanto mai opportuno, quando, purtroppo, ben pochi si rendono conto di quanto sia vitale per l'Europa conservare e incrementare il lascito della civiltà bizantina nei Balcani.

Rosso di Sera 13.5.08
Ricominciamo per la sinistra
di Claudio Fava


Permettetemi di ringraziare in modo non rituale Fabio Mussi, non solo per l’impegno che ha investito in questi mesi difficili nel nostro movimento e nel nostro progetto. Penso che se siamo qui, tutti qui, dopo gli anni trascorsi nei DS, cercando di mantenere ferma in modo convinto e trasparente la nostra posizione politica, se abbiamo superato tre congressi dei Democratici di Sinistra continuando a ritrovarci nel progetto fondativo di un nuovo soggetto di sinistra lo dobbiamo anzitutto a Mussi, al modo in cui ha offerto guida e riferimento, sempre in punta di coerenza, per questo progetto. E dice bene Mussi nel ricordarci che la sinistra ha ancora una funzione importante da svolgere in questo paese. Io aggiungo: a patto di essere spietati con noi stessi, di indagare senza pudore i nostri limiti, di rivedere le categorie interpretative, i linguaggi e le forme organizzative di questa sinistra. Cercando di mettere a frutto quel “3” politico che il nostro progetto ha ricevuto il 14 aprile dagli elettori. In quella bocciatura c’è anzitutto un nostro debito di verità. Verità su un progetto che abbiamo tentato di far passare come la prima prova di un nuovo soggetto politico di sinistra, pur sapendo che Sinistra Arcobaleno, nelle pratiche di alcuni soci fondatori, nel gioco delle reciproche diffidenze, nella vetustà dei linguaggi, non era un soggetto politico, e non era affatto nuovo: era solo un cartello elettorale. Abbiamo mentito, sapendo che ogni nostra rassicurazione sulla cifra comune e condivisa di questo percorso era una gentile ma sfacciata menzogna. Negli stessi giorni della campagna elettorale, mentre dal palco dei comizi ci ritrovavamo tutti insieme per recitare una liturgia rassicurante, alcuni partiti della Sinistra Arcobaleno aprivano il loro tesseramento. Siamo apparsi poco credibili, invecchiati precocemente, costretti a linguaggi, asserzioni, certezze che apparivano abissalmente distanti dal paese reale. Abbiamo continuato ad interpretare il malessere sociale, la povertà diffusa di milioni di italiani con la categoria semplificatoria di “classe” senza comprendere che questa povertà è trasversale, affligge ceti medi e piccola borghesia, operai e salariati. In quella povertà non c’è una classe ma l’insicurezza sociale e la precarietà esistenziale che ha profondamente modificato il senso comune del paese. Solo che in questi quindici anni, mentre il paese precipitava lungo la china delle nuove paure e dei nuovi nemici, noi siamo rimasti a guardare, lasciando alle forze più conservatrici il compito di interpretare e assecondare questo nuovo, devastante senso comune. Eppure più volte abbiamo avuto la possibilità di intercettare la domanda di cambiamento che la società rivolgeva alla sinistra. Dalla provocazione di Moretti a Piazza Navona ai tre milioni a Roma per la manifestazione a sostegno dell’articolo 18, agli autoconvocati di piazza san Giovanni fino ai centomila di Bari per la grande manifestazione antimafia di due mesi fa: abbiamo lasciato che questa richiesta d’un nuovo senso politico, di nuove forme di partecipazioni e di rappresentanza scorresse sotto il nostro sguardo come se si trattasse d’un film, una finzione, un paese che non c’era. Quel paese c’era, e il 14 aprile ci hanno presentato il conto. Abbiamo pagato la diffidenza con cui la sinistra ha interpretato questa fase costituente, abbiamo pagato il nostro linguaggio da piccoli maestri che credevano di parlare ad un paese che non esiste più. Da dove ripartiamo? Da noi stessi, anzitutto. Dal progetto costituente che ci tiene insieme, da questa idea forte e necessaria di una nuova costituente di sinistra. Partendo però da alcuni chiarimenti di merito e di metodo. Intanto, un cantiere per una nuova sinistra si fa con chi ci sta. Non con tutti. Il tema dell’unità di tutte le forze di sinistra è un falso problema, una mitologia, una sovrastruttura. C’è chi ritiene oggi (e forse ha sempre pensato) di dare vita ad una costituente comunista: è un progetto che io rispetto, ma che nulla ha a che fare con il nostro percorso e il nostro punto di arrivo. Sono incompatibili, e non per il repertorio dei simboli e delle identità che pure è cosa che comprendo e rispetto. Ma perché in quel dirsi ad alta voce anzitutto comunisti sento il limite di una sinistra che non accetta di guardarsi dentro, che non vuole rinunziare alle proprie ridotte, alle proprie categorie, alla deriva identitaria, e poco importa se oltre quell’identità c’è un altro mondo, un altro paese, un’altra dinamica di conflitti sociali ed economici. Ecco, è quella loro certezza a separarci. E a farci dire che una costituente di sinistra ha senso se si ripensa con onesta concretezza all’identità stessa della sinistra, alla sua capacità di porsi come motore di rappresentanza e di trasformazione non più di un paese virtuale ma di questo disperato e reale paese in cui viviamo. E qui si arriva a un secondo elemento di chiarezza necessaria: Sinistra Democratica vuole lavorare, con il contributo della sua autonomia, alla costruzione di un nuovo centrosinistra per il governo del paese. Questo vuol dire superare il concetto di una sinistra e di un Partito democratico, ciascuno per sé autosufficiente: in quella autosufficienza, già bocciata dal voto degli elettori, non c’è una scelta politica: c’è solo una fuga. Un nuovo centrosinistra, dunque, che nulla della vecchia esperienza dell’Unione abbia in sé. Superando, da parte nostra, la ridicola contrapposizione tra sinistra di governo e di opposizione. Come scriveva bene Occhetto qualche giorno fa sull’Unità, non esiste una sinistra che sia sempre di governo o sempre di opposizione: la sinistra sta dove gli elettori le hanno offerto di stare, conservando sempre la cifra della propria coerenza e dei propri obiettivi.
Dove si collocherà questa nuova sinistra rispetto alle grandi culture politichesi riferimento? La famiglia di Sinistra Democratica resta quella del Socialismo europeo: ma dev’essere intesa come una risorsa, non come un limite o un rifugio identitario. Tanto più che la domanda inevasa in questa campagna elettorale non è a quale famiglia politica avrebbe aderito la Sinistra arcobaleno, se al Pse o alla Sinistra europea. C’era un’altra domanda, ben più urgente: in cosa quel progetto mostrava una vocazione realmente unitaria? In cosa era davvero “nuovo” il nostro progetto? In quali pratiche organizzative, in quali forme di partecipazione, in quali linguaggi eravamo altro da una coalizione di partiti? La risposta è stata spesso solo un balbettio.
E’ tempo di dire. E di rivedere anche il nostro rapporto con il PD. E’ stata una scelta consapevole quella di non aderire a quel progetto, e di quella scelta restiamo tutti assolutamente convinti. E se un dialogo deve costruirsi con il Partito democratico, va fatto su posizioni di reciproco rispetto e autonomia. Il problema non è solo la dinamica delle alleanza, ma la politica che essa sottende. Davvero il Pd ritiene con il 33 per cento di poter rappresentare metà di questo paese e di poter puntare al governo dell’Italia? Se così non è, siamo pronti a un confronto. Ma, ripeto, pari dignità reciproca autonomia e coerenza nel dialogo: se quel dialogo non serve a Roma, non esisterà nemmeno nelle periferie. La sinistra, e certamente Sinistra Democratica, non può essere una shopping list dalla quale prelevare voti e alleanze solo quando le coalizioni servono ai governi locali. Tutto ciò, un nuovo cantiere a sinistra e un diverso rapporto con il PD, pretende da Sinistra Democratica la capacità di definire se stessa, il proprio contributo, il proprio orizzonte politico di riferimento. Senza aspettare i congressi degli altri partiti ma sviluppando una propria fase costituente che restituisca al movimento anche quelle dosi di democrazia e partecipazione interna che fino ad oggi sono state carenti. E’ l’unico modo per uscire dalla dimensione della “mozione congressuale”: le compagne e i compagni del comitato promotore, al 90%, provengono dall’esperienza dei DS. I nostri quadri dirigenti, i nostri (pochi) eletti, i mostri militanti: siamo quasi tutti la prosecuzione inerziale della mozione congressuale di due anni fa. Questo non è un limite: è la certezza della nostra superfluità. Sinistra Democratica deve scegliere di essere altro, di aprirsi, allargarsi, contaminarsi con percorsi e storie diverse, di rinnovare profondamente i propri gruppi dirigenti, di proporli come la rappresentazione di una nuova, possibile sinistra che sappia parlare non solo ai reduci di una battaglia congressuale ma a una parte vasta e attenta del paese.
A questo servirà l’assemblea nazionale convocata per i primi di luglio: certo, a rinnovare i gruppi dirigenti, a offrire a questo processo un imprinting democratico, ma soprattutto a fare di Sinistra Democratica altro e di più, trasformando ciascuna delle 500 assemblee locali che convocheremo nei prossimi giorni in altrettanti momenti di iniziativa e di proposta politica.
Ritrovarci per questa discussione a trent’anni dalla morte di Peppino Impastato forse non ha solo il sapore d’una coincidenza. E’ la dimostrazione che trent’anni fa come oggi, esiste un altro paese fatto di donne e di uomini liberi, che vogliono vivere per cambiare le cose, non per subirle. Né per rassegnarsi alle malinconie del senso comune.

il Riformista 13.5.08
Torino l'incontro tra Bertinotti e Paco Ignacio Taibo II
L'ultima rivoluzione di Fausto è demografica
di Luca Mastrantonio


Torino. Meno Zapata e più Pancho Villa. È il nuovo slogan del subcomandante Fausto Bertinotti, finalmente presente alla Fiera del libro di Torino, domenica scorsa. Dopo che sabato, per l'incontro sul Socialismo, si era sottratto per non "irritare" i quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due al corteo anti-Israele. Ha incontrato un suo vecchio amico, Paco Ignacio Taibo II, che si è auto-ribattezzato il "karateca azteca" e ha un po' di problemi di salute, visto che non ha più la sua consueta lattina di Coca cola quando parla in pubblico: troppo zucchero nel sangue. L'ex presidente della Camera coglie la presentazione della biografia scritta da Taibo II su Pancho Villa per misurare la profondità delle ferite per la sconfitta elettorale. Non perde il gusto per la battuta, ma il tono è più malinconico che umoristico. «Siamo nella sala azzurra, tre anni fa eravamo nella sala rossa, un vero segno dei tempi».
Confessa di aver, per anni, idolatrato «Zapata, mentre il povero Villa l'ho trascurato, e invece ho scoperto con questo libro che era un uomo complicato, un bandito, un governatore, un analfabeta ma anche uno che come prima cosa aveva fatto delle scuole. Non apparteneva ai miei moduli», però, ora, è una figura utile alla «nostra rivoluzione». Rivoluzione? Le guardie azzurre della Fiera drizzano le antenne, alla parola rivoluzione, ma poi si chiarisce qual è la rivoluzione. «Non la presa del palazzo d'Inverno, non l'assassinio del re». La rivoluzione è proletaria. Ma nel senso letterale, demografico. Fare molti figli. Sarà mica la svolta casiniana di Bertinotti? Taibo II racconta che durante la presentazione del libro, in giro per il Messico e non solo, ha trovato decine di persone che dicevano di essere discendenti di Villa. «Nel libro ho certificato 36 figli, 100 nipoti e 32 mogli, lui credeva nel matrimonio, non nel divorzio». Bertinotti sorride.
Gusto il siparietto sull'estetica del beautiful looser. «Venendo qui con Paco - racconta Bertinotti - ci siamo chiesti chi è più esperto in sconfitte». Lo scrittore sostiene che i messicani sono secondi solo agli argentini, in quanto a gusto per le sconfitte, ma non ha fatto i conti con il bertinottismo. Il subcomandante Fausto non ha perso la grinta e il gusto per il paradosso: «Loro sono molto bravi a perdere - sorride amaro - ma anche noi abbiamo buone chance… è un buon punto di partenza, la sconfitta, ci sono sconfitte che insegnano più di tante vittorie». Visto che sarebbe un peccato sprecare tutto questo sapere, Bertinotti ha poi fatto sapere di appoggiare la candidatura di Nichi Vendola alla guida di Rifondazione comunista.
Una piccola diatriba, tra Paco e Fausto, è avvenuta sulle letture che compongono la educazione sentimentale di un vero comunista. Paco, più veltronianamente, racconta dei libri, e un film, che segnano in maniera indelebile l'appartenenza alla sinistra. «Robin Hood, Sandokan e La Battaglia di Algeri . Ricordo che una volta, usciti dal cinema, ci ritrovammo i militari che battevano le armi sugli scudi, come nel film di Pontecorvo. Allora ci mettemmo a urlare come donne algerine, i messicani sono molto bravi nella imitazioni». Per Bertinotti, invece, «non ci si deve illudere che l'arte immunizzi» dal male, cioè il capitale. «Meglio leggere il capitolo Quinto del Capitale», sostiene, mentre il pubblico, perplesso, registra la perplessità di Paco. «Altrimenti poi ci stupiamo che colti musicisti siano nazistoidi». Paco dissente, perché ricorda di come la maggior parte dei suoi amici che avevano seguito un seminario marxista all'università sono poi andati a lavorare per le peggiori organizzazioni di destra, mentre a lottare, per la sinistra, sono rimasti in tre o poco più, i tre Moschettieri.
Non pago, di Paco, da buon paroliere, rosso-azzurro, Fausto tira fuori due espressioni che Pietro Cheli, moderatore, deve spiegare a Paco. «Non servono nuovi pifferai per la rivoluzione, ma ognuno, nel suo ambito di produzione artistica o meno, deve tener presente la classe, il popolo, metteteci la parola che volete voi, per combattere l'alienazione». E poi, memore anche di come «militanti del '68 adesso siano al servizio del capitale», avvisa del rischio del «tradimento dei chierici». Comunque, la vera «sovversione», per Bertinotti, è quella dei «manager». È contro di loro, sabotando il loro bieco interesse, che bisogna fare la rivoluzione. Come? Facendo figli e prendendo maternità e paternità per bloccare la macchia alienante del capitale. Lavorate di meno e fate di più l'amore. Senza precauzioni. Hasta la sconfitta, siempre!