Raid
di Vincenzo Cerami
Raid, questa la parola di oggi: irruzione improvvisa, con sovrabbondanza di manette e urlacci. La mano forte non ci piace. È vile, incivile, è violenza. Per un delinquente devono pagare tanti innocenti. Ma cos’è epurazione, repressione poliziesca, persecuzione, razzismo, odio, vendetta? Quando le vittime sono inermi, indifese, spaventate, l’aggressività diventa sadismo. Contro quella povera gente si scarica una frustrazione accumulata altrove. Forse dell’erotismo andato a male. Possibile, tra l’altro, che appena arriva la destra compaiano i manganelli? È troppo scontato, è pietosamente caricaturale, è un brutto film già visto. Tutte le destre d’Europa non sono così rozze e brutali come la nostra. Naturalmente la canea va appresso al cane che ringhia di più. A Napoli c’è uno spettacolo alla Gomorra: un leghista può anche andare in visibilio, in orgasmo.
Raid: un po’ sinonimo di scorreria, ovvero incursione armata in territorio nemico, in questo caso nei miserevoli campi rom. Caschi e giubbetti antiproiettile, con in pugno la spada dello spaccamontagne della Commedia dell’Arte. Eppure negli annali della polizia non esiste un solo episodio di bambini rapiti dagli zingari. È una leggenda metropolitana che dura da un paio di secoli.
Quale modo meschino di mostrare i muscoli! È come sparare alle zanzare con un bazooka. Ma tutti quelli che fanno la guerra ai rom sono più spiantati dei rom, guadagnano perfino di meno. Poveracci questi, poveracci quelli. I mandanti se ne stanno tranquilli alla finestra, a guardare i raid da dietro gli occhiali dalla montatura all’ultimo grido, piuttosto cafoni. Dall’estero ci guardano, e non sanno se ridere o piangere. Dicono che siamo xenofobi, invece no, ce l’abbiamo semplicemente duro.
l'Unità 18.5.08
«Napolitano è l’argine alla deriva xenofoba»
L’intervista con Fernando Savater
di Toni Fontana
Il professor Fernando Savater, lo scrittore spagnolo più tradotto nel mondo, sta, come spesso accade, partendo per Roma e ci risponde dalla scaletta dell’aereo. «In Europa - dice - sta prevalendo un inasprimento della legislazione sull’immigrazione, ciò mette a repentaglio libertà e garanzie. Anche l’Italia sta scivolando in questa deriva. Ciò accade soprattutto a causa della xenofobia della Lega. Napolitano ha fatto bene a porre dei limiti».
Professore volano scintille tra Roma e Madrid, il governo spagnolo accusa quello italiano di favorire razzismo e xenofobia..
«Sto viaggiando da una capitale all’altra dell’Europa e, consentitemi, occorre prima di tutto fare una considerazione generale. In tutto il continente si assiste ad un inasprimento delle legislazioni che disciplinano l’immigrazione. La settimana scorsa a Bruxelles si è discussa la “direttiva del ritorno” che, se approvata, aprirebbe le porte all’espulsione di molti immigranti. Mi chiedo dove è finita l’Europa dei diritti e delle libertà, quell’Europa che in tanti abbiamo sognato. Prevalgono politiche fondate sulla severità e sull’egoismo».
Anche la Spagna è contaminata da questa ondata...
«Italia, Spagna e Francia sono i paesi nei quali finora sono state assicurate le più ampie garanzie. Quanto accade in Italia suscita preoccupazione. Quando, del resto, abbiamo visto che Berlusconi tornava al governo sapevamo di non poterci aspettare qualcosa di diverso».
E la Spagna appunto?
«Per ora il mio paese non ha seguito gli altri che hanno preso la strada dell’indurimento della legislazione, le garanzie per gli immigrati sono state finora relativamente tutelate. Non so tuttavia per quanto tempo sarà così, è probabile che anche a Madrid vi sarà prima o poi un cambiamento».
Torniamo all’Italia. Lei ritiene giustificate le accuse della Spagna?
«È importante che il presidente Giorgio Napolitano abbia esortato il governo a non adottare provvedimenti che colpiscono tutti, che provocano azioni indiscriminate, che abbia sottolineato la necessità di valutare caso per caso. Quanto è accaduto nel vostro paese, le violenze, i fatti che hanno avuto per protagonisti gli zingari, hanno suscitato una forte preoccupazione in molti spagnoli. Mi auguro che non prevalgano gli orientamenti xenofobi della Lega nord. Quanto dice Umberto Bossi allarma e crea diffusi timori non solo in Italia».
Alcuni dirigenti catalani sostengono che, anche a Barcellona, potrebbe nascere un movimento di protesta come la Lega.
«Spero ardentemente che ciò non accada. Noi in Spagna abbiamo i «nostri» nazionalisti che rappresentano un problema molto serio. I «nostri» e mi riferisco a baschi, ai catalani, esprimono tuttavia tradizioni e programmi differenti da quelli della Lega nord italiana. Vi sono al tempo stesso affinità e vicinanze culturali tra queste espressioni politiche presenti nei due paesi. Mi auguro che non prevalgano nè gli uni nè gli altri».
l'Unità 18.5.08
Laura Boldrini. La portavoce per l’Italia dell’Unchr: «Un crescendo politico e mediatico, la retorica anti-immigrazione ha creato tensioni sociali»
«Dieci anni di demonizzazioni: così è cambiato il dna degli italiani»
di Umberto De Giovannangeli
«La repressione sola fa aumentare la paura. E così finiscono in secondo piano altre emergenze...»
«Quello che ho visto a Napoli, le colonne di camioncini in fuga, il terrore negli occhi dei bambini, il fuoco che si alzava dai vari insediamenti Rom dati alle fiamme mi hanno riportato alla mente scenari balcanici dove migliaia di Rom sono stati scacciati e l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati cercava di fornire loro delle soluzioni alternative in zone più sicure. Non avrei mai immaginato di dover rivedere queste scene in Italia». A parlare è Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). «Le sole misure repressive - afferma Boldrini - aumentano la paura. Invece bisognerebbe lavorare di più sulla conoscenza della realtà Rom».
L’Europa s’interroga sui campi Rom dati alle fiamme in Italia.
«La situazione risulta essere davvero molto preoccupante. Sono anni che assistiamo ad un crescendo di demonizzazione politica e mediatica di immigrati, rifugiati, minoranze - soprattutto Rom -, come se questi soggetti fossero la causa di tutti i mali italiani. E questa campagna demonizzante alla fine ha avuto come risultato una trasformazione del "dna" italiano. Negli ultimi dieci anni si è assistito ad un radicale cambiamento dell’Italia e degli italiani rispetto a queste tematiche: dieci anni che sono sembrati un secolo. La retorica anti-immigrazione ha creato tensione sociale e difficoltà per gli italiani, impauriti dalla nuova situazione, a comprendere la trasformazione della società».
Ma queste paure possono avere come risposta misure repressive?
«Le sole misure repressive aumentano la paura. Invece bisognerebbe lavorare di più sulla conoscenza di queste realtà e su una comunicazione più obiettiva e serena. È come se fosse passata a livello di opinione pubblica l’equazione immigrazione=insicurezza; questo è stato peraltro uno dei messaggi più usati nella recente campagna elettorale. Ma l’insicurezza è fatta anche da tante altre componenti: la criminalità organizzata di stampo mafioso o camorristico; la sicurezza sul lavoro, tutt’altro che garantita come dimostra il numero dei morti sui luoghi di lavoro; l’insicurezza economica, con un crescente numero di persone che faticano ad avere un reddito. Parlando di sicurezza tutti questi aspetti che ho appena elencato, sono stati messi in ombra, mentre è stata data precedenza assoluta al concetto che per avere più sicurezza bisogna accanirsi contro gli immigrati e i Rom».
Quali politiche adottare per evitare il peggio?
«Dopo quanto abbiamo visto a Napoli, le immagini scioccanti di insediamenti Rom dati alle fiamme e di colonne di camioncini in fuga, è chiaro che bisogna riconsiderare un certo modo di veicolare messaggi a forte impatto emotivo. Come Unhcr, assieme alla Federazione nazionale della stampa e all’Ordine dei giornalisti, abbiamo elaborato un codice deontologico sulle materie dell’asilo e dell’immigrazione, che dovrebbe essere definitivamente approvato ai primi di giugno, in modo da fornire un contributo ai giornalisti che si occupano di queste materie, offrendo loro delle linee guida su come coprire in maniera più corretta ed esaustiva queste tematiche. Lo scopo è di evitare la costante stigmatizzazione a mezzo stampa di immigrati, minoranze, soprattutto quella Rom».
Una stigmatizzazione che fa del Rom un potenziale criminale.
«Sui Rom è bene fare chiarezza anche sui numeri e sulla loro composizione. In Italia si stima che ci siano circa 170mila Roma, di cui il 40% sono cittadini italiani, un altro 40% sono rumeni, e poi circa un 20% - siamo intorno alle 40mila persone - sono Rom della ex-Jugoslavia, fuggiti dalla pulizia etnica e che hanno cercato e ottenuto protezione dallo Stato italiano. In Francia vivono circa 600mila Rom, in Spagna quasi 500mila. Come si vede, in Italia c’è la percentuale più bassa rispetto alla popolazione di tutti gli altri Paesi europei del Mediterraneo. Purtroppo è una caratteristica tutta italiana che i Rom vivano in squallidi campi profughi, come se questa condizione fosse connaturata al loro essere, il che non è vero. Aiuterebbe e di molto il loro processo di integrazione, poter usufruire di abitazioni alternative, in appartamenti, come tutti gli altri. Una domanda sociale che fatica ad avere risposte adeguate».
Repubblica 18.1.08
Viktoria Mohacsi, deputata ungherese a Strasburgo ha visitato i campi romani del Casilino. "Una situazione orribile"Nomadi, la parlamentare Rom: "Attenta Italia, c'è un brutto clima"
"Questa gente ha paura. Vivono in Italia da decenni senza nessun riconoscimento"
"Arrestate e tenete in galera chi commette crimini, ma evitate la confusione"
di Claudia Fusani
qui
Repubblica 18.1.08
La vita nuda del campo rom
di Beppe Savaste
Visita al Casilino 900, lo storico insediamento di "nomadi residenti" della capitale. Tra timori per gli sgomberi forzati e richieste di notizie. Per scoprire che anche una baracca può dare un´idea forte di casa e che una dimora mobile non esclude quella fissa O il desiderio di diventare cittadini con diritti e doveri
Tra una famiglia e l´altra, agnelli e maiali arrostiscono. Si prepara la festa di San Giorgio, che nella tradizione è il giorno in cui ci si chiede: che cosa abbiamo fatto fin qui della nostra esistenza?
Dopo avere svoltato a destra dalla via Casilina, poco prima dell´incrocio con via Palmiro Togliatti, e dopo aver percorso il sentiero costeggiato da un lungo muro compatto di automobili pressate del contiguo sfasciacarrozze, la prima cosa che vedo è uno spiazzo bianco sterrato avvolto da una nuvola di suoni e canti gitani, diffusi da un impianto stereo a cielo aperto. Una signora col fazzoletto sulla testa arrostisce un maialino allo spiedo sospeso su una vasca da bagno bianca. Tutt´intorno detriti, polvere, rottami. Ma la visione è pop, un quadro che sembra tratto da un film di Kusturica dai colori sgargianti, più Arizona dream che non Underground. Mi trovo invece in quello che resta del più storico campo di Rom, il Casilino 900 (ex Casilino 700), in compagnia di Francesco Careri e Lorenzo Romito, architetti e artisti del gruppo Stalker-Osservatorio Nomadi di Roma. Alcuni dei nomadi che qui risiedono (si noti l´ossimoro) senza residenza né permesso di soggiorno (i paradossi si sprecano) dimorano qui dal 1968. Quarant´anni senza essere riconosciuti, senza diritto di cittadinanza neppure per chi vi è nato e cresciuto. So che quello che vedo è così precario che mi viene in mente la frase di Cézanne, poi ripresa da Wenders: bisogna fare presto se vogliamo vedere qualcosa, tutto sta per scomparire.
Il giorno della mia visita non erano ancora avvenuti gli incendi e gli assalti stile pogrom dei campi nomadi a Napoli. Né i sondaggi che attestano un´insofferenza sempre più irrazionale degli italiani per questo popolo, la cui diversità suscita solo desiderio di eliminazione, e non di conoscere la natura di questa differenza. Ma i Rom erano ugualmente angosciati: temono i prossimi sgomberi forzati, e non pochi di essi, al nostro passaggio, donne e uomini anziani soprattutto, sono usciti dalle loro case-verande per chiedere notizie. Volti rugosi e occhi rassegnati, un fioco desiderio di sperare. Alcuni ci hanno scambiato per quelli che, tempo fa, «guidavano le ruspe» che hanno demolito decine di baracche per spianare la strada. «Motivi di sicurezza».
Ora, dall´infanzia per me gli zingari erano i giostrai e quelli del circo. Erano italiani. I Sinti. I nomadi che vivono qui da anni - quando c´erano anche immigrati del Sud che per sopravvivere vendevano aglio, e ora popolano i palazzoni popolari del quartiere - vengono dai Paesi balcanici dilaniati dalle guerre. Anche tra loro, come imparerò, sono diversi: i bosniaci dai kosovari, dai serbi, montenegrini, e così via. Diversi negli abiti femminili, nell´abitare, nel posizionare il bagno dentro o fuori casa. Quelli che hanno i furgoni sono artigiani, ecc. Eccomi dunque qui a guardare, cercare di conoscere. Dietro la signora col fazzoletto, la vasca bianca e il maialino, che già diffonde odore di carne bruciata che si confonde come vapore coi canti ipnotici, osservo la baracca di legno celeste, il suo pergolato di vite a cui sono appesi vasi di fiori, sia veri che finti. La casetta di fianco ha un balcone di legno bianco con una ringhiera di assi oblique, secondo un disegno ornamentale che ricorre in ogni veranda. Coperte e copriletti variopinti sono appesi a prendere aria, come una domenica mattina. Tra una casa e l´altra spiccano i gabinetti chimici azzurri, le cabine Sebach che si vedono nei cantieri edili per i bisogni degli operai. Qui, come in molti altri campi, non è mai stata disposta una rete idrica, né elettrica. Ma com´è che tutte queste baracche, povere e circondate di detriti, danno un´idea così forte di casa, di una vita che si stenta a riconoscere ma che ci ricorda l´idea confusa e intensa che se ne aveva nell´infanzia? È, credo, l´umanità, la vita che qui è così nuda.
Una bambinetta bionda va su e giù sorridendo con la bicicletta tra pozzanghere, pneumatici, pezzi di ferro. È bella, è una delle figlie di Najo Adzovic, il rappresentante dei Rom di cui siamo ospiti. Adesso le donne accendono il fuoco anche di fianco alla sua casa, e qui e là tra le baracche maiali e agnelli impalati arrostiscono inondando l´aria. Si prepara la festa di San Giorgio, importante quanto l´ultimo giorno dell´anno, se non di più: è la festa di mezz´estate, cioè di "mezza vita". Nella tradizione nomade è il giorno in cui ci si chiede: cosa abbiamo fatto finora della nostra vita? Si dice Upasomilai, e già in questa parola la lingua romanès rivela la sua ascendenza sanscrita. Stasera qui danzeranno a lungo.
Nonostante San Giorgio, non tutti hanno voglia di festeggiare. Beviamo un caffè turco seduti nella veranda di Zarko, completo marrone e volto triste. Lui e sua moglie ci raccontano con grande dignità le loro disgrazie. Un figlio in prigione accusato di furto. La sparizione delle loro modeste mercanzie - stracci e borse in sacchetti di plastica - gettati come monnezza da chi ha fatto l´ultimo sgombero. Non avere più quella "monnezza" da vendere significa fame. Parlano soprattutto dei figli, di cui a un certo punto ci mostrano una cartelletta con tutti i documenti tenuti in un ordine invidiabile. Sfoglio certificati ed estratti di atti di nascita, codici fiscali, pagelle scolastiche («Documenti di valutazione del Ministero della Pubblica istruzione»), certificati dell´Opera Nomadi, libretti sanitari (Servizio sanitario nazionale, Regione Lazio): tutto inutile ai fini della richiesta di una cittadinanza. Per chiedere il passaporto italiano dovrebbero esibire quello slavo. Ma né loro, né tanto meno i figli, hanno qualcosa del genere. Che cosa è oggi «slavo»? Così si perpetuano generazioni di apolidi, di senza diritti, di ontologicamente precari e clandestini. Che subiscono ricatti e violenze. Non avendo diritti, sono alla mercè di ogni sopruso. Ma mi raccontano anche l´umanità e la gentilezza di tanti poliziotti.
Per i Rom ogni "casa" vive il suo spirito nella veranda all´aperto. L´altra in cui ci sediamo a parlare, costruita da Najo, è una sorta di giardino d´inverno con rudimentali pareti mobili di legno e vetrate. Il tetto appoggia su assi disposte a raggiera, un buco al soffitto serve per la stufa, perché d´inverno qui si cucina. Najo è autore di un libro - Il popolo invisibile - che racconta la storia della sua infanzia nell´ex Jugoslavia, scolarizzato e integrato tra i gagè (quelli come noi, gli stanziali), fino all´implosione di quel Paese e la sua fuga dalla guerra (bollato come «disertore e traditore»). Il suo libro è anche un quadro prezioso della vita e della tradizione culturale dei Rom. Gli chiedo se i nomadi stanno ormai accettando di diventare stanziali. La risposta è sì, se glielo permettiamo, regolarizzandoli e dando loro diritti. Anche perché il loro nomadismo, il loro essere «stranieri», cioè uguali ma diversi (fu già così per gli ebrei, perseguitati fin dal Trecento) è qualcosa di interiore e culturale che si tramanda, come la lingua. Spiegava George Simmel: lo straniero non è chi arriva oggi e parte domani, come il turista, ma chi domani non parte, e resta ad arricchire il nostro stile di vita con una modalità altra - un´altra lingua, un´altra tradizione.
Najo ha una passione che definirei politica, ma di una politica così vera ed evidente che ha ormai poche sponde nel mondo là fuori, oltre i muri di sfasciacarrozze, insomma nella città di noi gagè. Tutti sembrano uniti dalla volontà di togliere l´ultimo barlume di visibilità a questo popolo già invisibile. Da tempo è in corso una guerra contro i poveri (non contro la povertà), e la politica difende ostinatamente uno stile di vita e di consumi che in nessun momento mette in discussione nonostante l´incombere di catastrofi ecologiche. Ma anche l´intolleranza per la diversità in genere è in aumento. Eppure Najo è animato da un progetto che sembra un´utopia, quella di un´area abitata dai Rom, una «città nella città», con laboratori artigianali di lavoro del legno, del ferro, del rame, possibilità di fare i mercatini, educazione e scuole assicurate per i loro bambini. Vuole proporre il progetto al nuovo sindaco di Roma. Loro stessi, ne è certo, dall´interno potrebbero efficacemente prevenire e reprimere la microcriminalità. Già adesso la scolarizzazione è del del 95 per cento, e cinquanta famiglie qui sopravvivono grazie all´artigianato e ai mercatini. «Se uno ha la casa», dice Najo, «se ha la dignità, il lavoro, dei diritti, non va a fare il delinquente». Mi parla del loro codice d´onore, della solidarietà che li lega. «Avete mai visto un Rom anziano in una casa di riposo?».
Ora, il lettore non fraintenda: non sono un marziano, e questa non è un´apologia degli zingari. Lo so che molti di loro rubano, lo sa anche Najo. Hanno alcune pessime abitudini. E ho anch´io la mia bella dose di pregiudizi e di barriere culturali. Ho subito due furti odiosi nell´appartamento, computer compreso: lo stile è quello dei ragazzini zingari, hanno detto i poliziotti quando hanno saputo che erano state rubate anche le felpe del bambino. Ci sono anche alcuni campi che hanno come risorsa dominante il crimine. Ma se i colpevoli sono dei singoli, perché colpevolizzare un popolo, risvegliando o rinnovando lugubri odi razziali? «Il triangolo nero - Nessun popolo è illegale»: così titolava un appello proposto da un certo numero di scrittori italiani all´epoca della prima ondata emotiva e delle rappresaglie contro i Rom, lo scorso novembre. Raccolse migliaia di firme. Quando diciamo «nomadi»racchiudiamo in una parola un coacervo di etnie, un mondo di mondi. Oggi nel suo insieme il popolo dei Rom, ovvero «uomini liberi», chiede agli stanziali, ai gagè, aiuto nel vivere dignitosamente, offrendo abilità e competenze. Chiedono un´integrazione che non sia eliminazione della loro differenza, ma la valorizzi. Chiedono di poter lavorare e di potersi muovere liberamente dopo il lavoro. Sono felici di poter testimoniare di se stessi e del loro popolo, come è accaduto quando, nel Giorno della Memoria, alcuni anziani Rom, un uomo e una donna, raccontarono la loro sopravvivenza nel campo di concentramento di Agnone ad una scolaresca romana.
Ora cammino di nuovo per il campo con gli amici del gruppo Stalker, Francesco Careri e Lorenzo Romito. Calpestiamo macerie. Il degrado, mi dicono, è evidente. Loro hanno varie persone da salutare, non solo Rom, persone che hanno scelto il nomadismo come soluzione abitativa più adatta alla loro indole. Il grande Ivan Illich scriveva che viviamo parcheggiati come automobili in garage, che l´attività umana dell´abitare si è ormai spenta nella nostra civiltà. Viviamo in un mondo prefabbricato, senza lasciare tracce. E anche i commons, gli spazi di uso comune, sono in via di estinzione. È un paradosso che i nomadi siano gli unici portatori di un´arte di abitare? Studiando le loro tipologie abitative, la loro dimensione ecologica ed economica spesso geniale - le loro misere case sono più belle e costano meno dei container forniti dai Comuni, oltre a essere a bassissimo impatto ambientale - i miei accompagnatori hanno cominciato a penetrare la loro cultura. Il gruppo Stalker ha studiato il nomadismo come categoria filosofica e pratica estetica (come nel bel libro di Francesco Careri, Walkscapes, edito da Einaudi). L´anno scorso con gli studenti hanno risalito il corso del Tevere documentando e raccontando le baracche e la vita dei più poveri. Alla Triennale di Milano, il prossimo 22 maggio, porteranno un progetto, Campus Rom, frutto di una collaborazione tra l´Università di Roma Tre e quella di Delft (che andrà in seguito alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia). Contiene precise proposte. La prima è quella di un passaporto europeo transnazionale per i Rom, per muoversi liberamente sul suolo europeo (ex Jugoslavia compresa): per sanare il debito nei loro confronti che data dalla Shoah, che come è noto riguardò anche i Rom. Nella loro lingua, Olocausto si dice Samudaripen, «tutti i morti», ma nessun Rom fu chiamato a testimoniare al processo di Norimberga. Ma va anche ricordato il loro pacifismo: il popolo Rom non ha mai fatto una guerra in tutta la Storia.
A Milano si esporrà il prototipo di una casa Rom e il video documentario della sua costruzione. Si tratta di imparare da loro ad abitare in modo ecologico, a partire dai consumi e dalla cultura del riciclaggio. Infine una proposta urbanistica e politica: chiudere tutti i campi rom e aprire delle micro-aree secondo il loro habitat evolutivo, basato sull´espansione delle famiglie. «Si tratterebbe di lasciare germogliare le case in autocostruzione, dando loro un pezzo di terra. Tanti italiani potrebbero avvantaggiarsi di questo modello abitativo, che non deve produrre ghetti, ma innesti creativi metropolitani che possono corrispondere ai bisogni e agli stili di vita di artisti, di giovani, di tanti altri». «Ma la cosa più urgente», mi dice Careri, «è cambiare l´immaginario collettivo sui Rom. Tutti ne parlano, nessuno li conosce. Nei loro campi ci va solo la polizia. O le squadre violente di questi giorni. Eppure, il mondo sarebbe più bello con loro».
Corriere della Sera 18.5.08
Linea dura del governo D'accordo 3 italiani su 4
Gli italiani — e il loro governo — sono, almeno in qualche misura, razzisti e xenofobi nei confronti dei rom? Se si pone la domanda in questi termini, la risposta non può che essere negativa, in quanto è sempre sbagliato estendere ad una intera popolazione un atteggiamento o orientamento. Ma è innegabile che i sentimenti antirom risultino oggi molto diffusi e che, anche per questo motivo, l'accoglienza da parte dei cittadini del «pacchetto sicurezza» è stata largamente favorevole. Questi hanno seguito con larga attenzione la vicenda, tanto che il 31% dichiara di conoscere «bene» i contenuti del pacchetto e il 37% afferma comunque di «averne sentito parlare». Il consenso nel merito dei provvedimenti appare più accentuato su due tematiche: la sicurezza negli stadi (il 95% degli italiani si pronuncia per l'arresto immediato dei tifosi trovati in possesso di razzi e simili) e le iniziative sui rom.
Il problema dei cosiddetti «campi nomadi» costituisce il contenuto del pacchetto di cui si è più parlato, anche se, a ben vedere, non ne rappresenta forse la componente principale. Questa grande attenzione è dovuta anche al fatto che, come si è detto, il popolo dei rom è straordinariamente malvisto dalla gran parte degli italiani. Se si chiede, ad esempio, ad un campione di cittadini quali popolazioni straniere o minoranze etniche siano «meno simpatiche», i rom si rivelano il gruppo meno amato in assoluto, risultando «antipatici » all'81% degli intervistati (per confronto, i filippini sono «antipatici» solo al 28%). Ancora, secondo il 70% degli italiani, la convivenza nello stesso paese con i rom è «difficile » o «impossibile». Sono cifre che mostrano un'intolleranza diffusa, rafforzata dal fatto che, al tempo stesso, le dimensioni del «fenomeno rom» risultano fortemente sopravvalutate: più del 25% dei cittadini ritiene erroneamente che i rom nel nostro Paese siano un milione o più.
Di fronte a questo stato dell'opinione pubblica, non è sorprendente che tre italiani su quattro ritengano come la maggiore severità decisa dal governo nei confronti dei rom sia più che giustificata. Naturalmente, il consenso per il provvedimento è assai più diffuso tra i votanti per il centrodestra (ove l'approvazione è pari all'86%), ma è maggioritario anche nel centrosinistra, tanto che il 58% degli elettori di quest'area approva i contenuti del pacchetto Maroni, specificamente riguardo ai rom.
Nel loro insieme, questi dati suscitano qualche riflessione. Se è evidente infatti che i provvedimenti del governo trovano il consenso di gran parte della popolazione, è vero, al tempo stesso, che proprio il clima rilevabile nell'opinione pubblica, per la sua estensione spesso indiscriminata ad una intera etnia, può suscitare preoccupazione. È giusto, infatti, individuare e punire i singoli individui che compiono delitti, ma sarebbe sbagliato — lo ha sottolineato peraltro lo stesso ministro Maroni — legittimare o, peggio, incentivare la già diffusa avversione degli italiani verso un'intera popolazione. Ricordando che già il secolo scorso ha visto le tragiche conseguenze dell'accanimento verso popoli nel loro insieme e verso i rom in particolare.
l'Unità Lettere 18.5.08
Anche gli ebrei erano accusati di rubare bambini
di Fabio Della Pergola
Caro Direttore,
dopo la guerra gli ebrei sopravvissuti allo sterminio nazista (150 su 24.000) tornarono nella loro cittadina di Kielce, in Polonia. Il 4 luglio ’46 una folla inferocita di buoni cattolici polacchi, con militari e poliziotti in prima fila, aggredì la comunità, massacrando 42 persone, fra cui un neonato sfracellato contro un muro, e facendo fuggire, questa volta per sempre, gli ebrei dalla città. La colpa? Si disse che un bambino polacco fosse stato rapito dagli ebrei per i loro “riti di sangue”. L’inchiesta stabilì che il bambino, ritrovato incolume, era stato a casa di un amico fuori città per due giorni, di nascosto dai genitori, ma secondo il Vescovo gli ebrei erano comunque colpevoli di collaborare con il regime comunista. Nel maggio del 2008 una folla inferocita, armata di spranghe e bastoni, assalta un campo nomadi alle porte di Napoli, poi bruciato a colpi di molotov, facendo fuggire la comunità, scortata via dalla polizia nel cuore della notte. La colpa? Si dice che una ragazzina rom abbia tentato di rapire un neonato dopo essersi introdotta in una casa per rubare. Già a Firenze accadde una cosa simile, ma non mi sembra di ricordare che la magistratura abbia poi accertato il tentato rapimento... anzi, per dirla tutta, ho sempre sentito parlare di questa storia, ma mai ho letto di zingari condannati sul serio. Il luogo comune dice che gli ebrei usano il sangue dei bambini e che gli zingari li rapiscono. L’unica cosa certa, ad oggi, ma proprio certa, è che i bravi cittadini ogni tanto fanno una bella strage di chi è “diverso” da loro. saluti (...e coraggio, che qui ce ne vuole)
l'Unità Firenze 18.5.08
Sentinelle, ronde, «pulizia». Che succede a Firenze?
Forza Italia soffia sul fuoco dell’intolleranza: «Via tutti i rom».
di Tommaso Galgani e Sonia Renzini
A Firenze il sindaco Leonardo Domenici e il prefetto Andrea De Martino assicurano: «Non c’è nessuna emergenza rom». Però il senatore e consigliere comunale di Forza Italia Paolo Amato chiede che siano cacciati tutti i rom dalla città e l’istituzione di un commissario speciale. «Forza Italia fa una vergognosa strumentalizzazione, così si buttano via 20 anni di faticoso lavoro sull’integrazione», attacca il presidente del Consiglio comunale Eros Cruccolini che invita Domenici a non chiedere più poteri per i sindaci in materia di sicurezza. Preoccupazione per il clima che si è venuto a creare intorno al popolo rom è espressa anche da Demir Mustafa, operatore sociale nei campi dell’Olmatello e del Poderaccio e da Don Alessandro Santoro della comunità di base delle Piagge.
l'Unità 18.5.08
Emilia-Romagna, Bersani apre alle alleanze con la Sinistra Arcobaleno
di Andrea Bonzi
Il Pd non chiude la porta a possibili alleanze. Anche in una regione “rossa” come l’Emilia-Romagna, in cui l’alleanza Pd-Idv ha sfiorato il 50% alle ultime elezioni, i democratici cercheranno relazioni con tutti i soggetti, a cominciare dai pezzi dell’Arcobaleno. L’ex ministro Pier Luigi Bersani, ieri all’assemblea costituente del Pd regionale, tenutasi a Forlì, detta la linea in vista delle prossime amministrative. E respinge di fatto la richiesta del sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, che, a 10 giorni dalle politiche, aveva caldeggiato una scelta «maggioritaria» omogenea per la corsa a palazzo D’Accursio (e in Provincia) nel 2009 e per le regionali del 2010. «Se noi ci facciamo il deserto attorno, l’acqua non viene da noi. Non funziona così - esemplifica Bersani -. Verdi e Rifondazione stanno discutendo, in questi giorni. Noi dobbiamo far sapere loro che quella discussione ci interessa». Fissando però dei paletti ben precisi: «L’esperienza ci ha insegnato che nessuna alleanza può prescindere dai programmi - continua Bersani -, per cui è chiaro che non si può dire: vogliamo produrre più gas, ma diciamo no ai gassificatori». Un esempio delle contraddizioni dell’Arcobaleno che avrebbero rallentato le azioni del governo Prodi. Insomma, parte la caccia alle intese programmatiche, «a livello locale gli spazi ci sono». Bersani l’Emilia-Romagna la conosce bene. E sa - come del resto anche il segretario regionale Salvatore Caronna - che in 7 capoluoghi su 9 Pd e forze della Sinistra amministrano insieme: gli unici centri dove ciò non accade sono Parma, governata dalla destra, e Bologna, città in cui il rapporto tra Cofferati e l’Arcobaleno si è rotto da anni, anticipando notevolmente lo scenario nazionale. E non pare ricucibile in chiave elettorale. Da parte sua Cofferati - che solo il 18 giugno annuncerà se candidarsi per altri 5 anni alla guida di palazzo D’Accursio - ha mancato l’appuntamento di ieri, trasformandosi in un pesante “convitato di pietra”. La linea sulle alleanze è stata ribadita anche da Dario Franceschini, numero due del Pd nazionale, che sottolinea la novità del metodo: «Prima si cercava la più grande coalizione possibile andando per esclusione delle forze che non ci stavano, ora le alleanze si fanno attorno a un programma condiviso, c’è una bella differenza». Il presidente dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani, vuole evitare di «fare come i giapponesi sull’isola» che non credevano alla fine della seconda guerra mondiale, ma «mostrare con coerenza l’idea di governo del territorio, senza cedere mai all’esclusività,che può essere vista come arroganza». Un errore che alleati e elettori «possono farci pagare seriamente», chiude Errani.
Corriere della Sera 18.5.08
In Emilia Il sindaco diserta il congresso del partito
Bersani «scarica» Cofferati: Pd solo? No, servono alleanze
BOLOGNA — A forza di gridare «andiamo soli, andiamo soli!», nel senso di correre alle amministrative del 2009 in splendida solitudine, Pd über alles a Bologna e nell'intera Emilia-Romagna con tanti saluti a ciò che resta della sinistra rifondarola e dilibertiana, Sergio Cofferati si è probabilmente reso conto ieri che attorno alla sua proposta di autosufficienza politica si è creato il vuoto e che l'unico a rischiare di restare davvero solo è proprio lui.
Da Forlì, dove è in corso il congresso del Pd emiliano-romagnolo, si è infatti abbattuta una raffica di prese di distanza dalla strategia «solista » del sindaco di Bologna, quasi dipinto come una sorta di ultimo giapponese impegnato in una guerra che nessuno dei grandi capi piddì ha intenzione di combattere. Soprattutto adesso che lo stesso Veltroni, sotto la spinta del pressing dalemiano e di un futuro reso friabile dalla batosta elettorale, ha in parte annacquato la famosa teoria della «vocazione maggioritaria», riconoscendo davanti ai deputati pd che «sarebbe da sciagurati pensare di non fare alleanze alle amministrative».
Parole che Pierluigi Bersani, riproponendo a Forlì posizioni già espresse a Roma dai dalemiani, ha amplificato in chiave anti-cofferatiana: «Un partito a vocazione maggioritaria come il Pd — ha detto il ministro ombra — sa benissimo che deve costruire sistemi di relazione con tutti i soggetti, naturalmente partendo da un confronto sul programma ». Con lui, anche se con diverse sfumature, il vice Veltroni Dario Franceschini («Alleanze sì, ma omogenee nello stesso territorio») e il governatore Vasco Errani («Il modello Unione è finito, ma l'esclusività diviene arroganza »).
Cofferati isolato? Il personaggio è collaudato. Oltre che ex icona sindacale, l'uomo che nel 2002 portò al Circo Massimo 3 milioni di lavoratori, facendo intravedere una leadership poi mai decol-lata, è da 4 anni sindaco a Bologna e ha concrete possibilità di continuare ad esserlo se deciderà di ricandidarsi nel 2009, cosa che i reggenti del Pd dicono di augurarsi. È chiaro però che, qualora optasse per il bis, dovrà rimodulare il discorso delle alleanze. Ieri Cofferati, mentre a Forlì facevano a pezzi le teorie sull'autosufficienza, era provvidenzialmente impegnato alla Festa della polizia. Ma, a quanto trapela, un riposizionamento sarebbe alle viste. Non tanto rispetto alla scelta di correre da soli: «Nella fase attuale sarebbe un errore un'apertura di credito a sinistra, data l'assenza di interlocutori chiari: e comunque lo statuto pd parla di vocazione maggioritaria». Piuttosto il ripensamento, se tale sarà, riguarda dove andare da soli: se in un primo tempo Cofferati ipotizzò un Pd «solista» anche in Regione (mandando su tutte le furie il governatore Errani), ora pare ripiegare su Comune e Provincia di Bologna. Dove il Pd ha il 49%. E la solitudine è meno rischiosa.
l'Unità 18.5.08
Legge elettorale per le Europee forse prima dell’estate
Piccoli partiti in rivolta contro la riforma. Franceschini: «Lo sbarramento aiuta la sinistra»
di Federica Fantozzi
ACCELERAZIONE La nuova legge elettorale per le Europee potrebbe arrivare prima dell’estate: è il calendario cui stanno lavorando gli sherpa del PdL e Pd.
L’unico punto che metterebbe d’accordo (quasi) tutti è una soglia di sbarramento al 3%. Sul resto, si discuterà in Parlamento. Dario Franceschini minimizza: «Lo sbarramento aiuterà la sinistra a non dividersi, a salvaguardare i processi aggregativi in modo che non si divida in 5-6 sigle destinate allo 0,9%». E Berlusconi vorrebbe l’abolizione delle preferenze.
L’Udc si sente nel mirino del premier: «Saremo vigili, il golpe non passerà». Casini e Cesa sono hanno avuto contatti con tutti, da Veltroni a Prc. Il sospetto è che la fermezza del PdL sulla soglia al 5%, ribadita ieri da Cicchitto, sia una mossa contro di loro. Né si fidano fino in fondo del leader Pd, che pure vuole mantenere aperto il canale con i centristi: «Le Europee sono la cartina tornasole se il sistema è stato modificato strutturalmente o il voto politico è stato un episodio - ragionano a Via Due Macelli - Su quel campo Veltroni che predica l’autosufficienza gioca la partita con D’Alema che cerca alleanze». Insomma, una questione di rapporti di forza interni al loft, che danneggerebbe le aspettative dei «piccoli».
Che sono tutti in allerta. Contro la proposta di legge che il Pd intende depositare: sbarramento al 2-3%, aumento delle circoscrizioni da 5 a 20 per legare la rappresentanza al dato regionale, con il mantenimento però del riparto nazionale dei voti. Prc, già extraparlamentare, trova «inaccettabile» sia qualsiasi modifica delle circoscrizioni - anche se diventassero 10 e non 20 - sia l’eliminazione del riparto nazionale. Viale del Policlinico dice sì solo alla soglia del 3%. Altrimenti, la minaccia è far saltare le giunte locali: l’unica loro arma a quel punto sarebbe rimettere in gioco le alleanze sul territorio. Stefano Ceccanti, costituzionalista e senatore veltroniano, calma le acque: «Non vogliamo 20 circoscrizioni autonome, manterremo il riparto unico. Si tratta di avvicinare eletti e elettori senza inficiare il sistema proporzionale, come il Mattarellum nel ‘93».
Sinistra Democratica con Carlo Leoni muove un’obiezione di fondo: «Perché fare una nuova legge contro la frammentazione quando, se al Parlamento nazionale c’è un’esigenza di governabilità, in Europa tutti poi si iscrivono agli stessi gruppi? Vedo solo un interesse di Pd e PdL». Leoni fa una constatazione amara: «Per errori anche nostri, già la sinistra è fuori dal Parlamento. Cacciarci da Strasburgo sarebbe una persecuzione immotivata». Protestano anche i Socialisti: «Veltroni e Berlusconi non avevano titolo per discutere di legge elettorale, inaccettabili soglie di sbarramento e comode liste bloccate senza preferenza».
Assai più tranquilli in casa IdV: «Noi abbiamo raccolto firme per il referendum sulla legge elettorale - ricorda Massimo Donadi - E non cambiamo idea. Ma una cosa è l’esigenza anti-frammentazione, altro è introdurre soglie esplicite che non stanno nella tradizione italiana o surrettizie con circoscrizioni piccole. L’obiettivo di Berlusconi è togliersi di torno le opposizioni». Più concilianti i toni con il Pd: «Il 3% è una soglia ragionevole. Sul resto, ci siederemo a un tavolo».
l'Unità 18.5.08
Silvio Lanaro: «Se l’Italia va a destra il Pd sia di sinistra»
di Bruno Gravagnuolo
PARLA SILVIO LANARO, storico dell’Italia repubblicana e docente a Padova, nel Veneto oggi leghista e forzista. «In questa regione la Dc aveva le sue roccaforti inespugnabili; il suo crollo si è travasato nel clamoroso successo elettorale della Lega»
«La cultura di governo dura e rigorista ha giocato a favore della destra. E gli italiani alla fine hanno pensato che Tremonti fosse più morbido. Scegliendo il suo populismo raffinato, oltre a quello della Lega». Sulla sconfitta, analisi amareggiata e tagliente quella di Silvio Lanaro, 65 anni, tra i massimi storici contemporanei d’Italia, allievo ideale «autodidatta» della grande scuola azionista di Chabod e Venturi. E autore di una fondamentale Storia dell’Italia repubblicana per Marsilio, di cui sta curando l’aggiornamento agli ultimi due decenni. Vicentino di Schio, ordinario all’Università di Padova, Lanaro è un interlocutore ad hoc per risalire al nord. Nel Veneto, ieri bianco democristiano e oggi leghista e forzista. Non fa sconti al Pd, e al lungo estenuamento culturale della sinistra in questi anni: «Si è dissolto - spiega - un insediamento robusto, argine dell’eterna Italia di destra, assieme al filtro della Dc. Sicché, all’insegna dell’ortopedia maggioritaria, si sono rilanciate logiche notabilari e personalistiche sui territori. Di cui ha profittato la destra, come già nell’Italia censitaria e post-unitaria». Ma non fa sconti Lanaro nemmeno alle diverse rivisitazioni della «Padania», da parte di Cacciari e Cofferati: «Per usare lo stesso linguaggio di Cacciari, le dico: sono puttanate...». E neanche a eventuali «premierati», con potere di sciogliere le Camere: «Ne ho paura, sarebbero un regalo a Berlusconi. E ancora non mi capacito di come il centrosinistra abbia in passato potuto votare un Titolo V della Costituzione che sfascia l’Italia in città e regioni, con potestà e competenze frammentate. Una sparizione dello stato, che fa il paio con suggestioni decisioniste alla Miglio. Il tutto in un paese al fondo di destra!».
Professor Lanaro, cominciamo dalla sconfitta vista dal suo Veneto. Smottamento del centrosinistra con parziali eccezioni a favore del Pd nelle città. Epilogo inevitabile oppure no?
«Devo fare una premessa generale. Non si riflette mai abbastanza su un dato: l’Italia è un paese di destra, tendenzialmente. Il primo Berlusconi è caduto per la defezione della Lega. Poi hanno perso perché si sono presentati divisi: Lega, Forza Italia e An. Quindi hanno vinto e governato cinque anni. Infine c’è stato quel pareggio, con la destra soccombente al Senato in virtù del premio regionale, pur avendo preso più voti. Dovremo fare i conti con tutto ciò per i prossimi decenni. Perché è accaduto? Perché la destra italiana, dal 1993, non è stata più tenuta a freno dalla Dc. Il che è lampante nel Veneto. Qui la Dc aveva le sue roccaforti inespugnabili. Il crollo si è “travasato” nel clamoroso successo leghista e forzista. E con la fine della Dc, sono esplosi gli spiriti animali della destra di sempre. In aggiunta Berlusconi ha spezzato l’arco costituzionale, sdoganato il Msi, e chiuso il cerchio. Con Fini presidente della Camera e Alemanno sindaco di Roma, fascisti fino a un recente passato».
Il cuore della destra emerge nel lavoro autonomo, che aggrega anche il lavoro dipendente sui territori. È la pulsione locale ormai l’anima della destra?
«L’egoismo territoriale è fortissimo, in un periodo di crisi delle culture politiche classiche e delle politiche pubbliche. Tuttavia, penso al mio Veneto, non sarei così sicuro che lavoro autonomo e piccola impresa coincidano per intero con l’universo leghista. Esistono vistose eccezioni nel Veneto stesso, da Carraro a Calearo, di là del maquillage elettorale che la sua inclusione nel Pd può aver significato. Questo mondo rivendica efficienza e federalismo fiscale seri. Altra cosa dalla demagogia leghista e xenofoba, che al momento ha messo la sordina all’antimeridionalismo, per allargare il suo raggio di consenso su basi etniche e sicuritarie. Insomma, anche in Veneto ci sono fenomeni di controtendenza, per quanto modesti e di minoranza. Prenda Vicenza. Lì il Pd ha conquistato il sindaco, anche perché la popolazione è stata incoraggiata ad esprimersi su temi di democrazia civica, come il Dal Molin. Ha vinto un ex Dc, su un ex missino poi forzista e oggi Pdl. A Padova il Pd ottiene un successo, anche per merito di Zanonato, un sindaco che la cittadinanza apprezza e sente suo».
In provincia però il centrosinistra frana. Con Rifondazione che si svuota nella Lega e il Pd che non sfonda al centro...
«Senza dubbio. E pur non essendo un analista elettorale direi che c’è stato un travaso diretto dall’estrema sinistra alla Lega. Anche in ragione di una medesima mentalità estremistica e totalizzante. E di frustrazioni e disagi sociali, vissuti in chiave analoga dai ceti deboli. Quanto al Pd, non conquista il voto moderato, salvo le ragguardevoli eccezioni citate. Ma andrebbe ricordato, di nuovo, che in Italia la mentalità moderata è tout court di destra, e dunque difficilmente convertibile in termini progressisti sia pur tenui. Pensi al successo incredibile di un giornale come Libero, emblematico di un certo costume. Aggressivo e platealmente populistico... Ecco, lì si vedono bene, culturalmente, gli spiriti animali che esplodono dopo il crollo della Dc».
L’estinzione di un partito storico della sinistra riformista, figlio del movimento operaio, non è stata decisiva per il mancato contrasto di questi spiriti animali?
«Certo, c’è stata la disgregazione di un blocco storico: lavoro e ceto medio. E posso dire che ho vissuto con profonda amarezza e delusione la nascita del Pd, e l’illusione di poter mettere insieme tutti i riformismi. Il risultato è stata una rarefazione e una perdita complessiva di consensi, di tenuta e di alleanze, attorno al nucleo del lavoro produttivo. Dipendente e no. Il Pd è altra cosa dalla sinistra storica, e non sappiamo ancora cosa può diventare. Ma al momento è la fine di una certa idea della sinistra...»
Quale? Quella dell’emancipazione del lavoro e dei ceti subalterni?
«Già. Difatti non vedo più perseguita con chiarezza quell’”emancipazione”. Vedo semmai altro: vernici modernizzanti. Il lavoro, i diritti e le retribuzioni sono cose che non colpiscono più e che stanno al margine dell’agenda. Perciò finiscono col render poco anche dal punto di vista elettorale, rispetto ai Ponti sullo stretto, alle ferrovie ultraveloci e alle privatizzazioni. Inutile dire che ha pesato anche una disgregazione oggettiva della classe operaia, e del blocco che stava attorno ad essa».
E però in Italia gli operai, magari dispersi, sono più di sette milioni e mezzo. Cinque nella sola industria. E mai nel mondo vi furono tanti venditori di forza lavoro. Sempre più penalizzati dalla forbice del reddito...
«Di recente ho letto un bel libro di Andrea Sangiovanni, sulla classe operaia italiana nel dopoguerra: Tute blu. Dedicato alle rappresentazioni della classe operaia nel cinema, nella letteratura e sui media. Mi sono reso conto, leggendolo, che che è venuta meno proprio la classe operaia come soggetto culturale, non già il sostrato materiale. A cominciare dall’autorappresentazione da parte degli operai stessi: un rifiuto inconscio del proprio lavoro e del proprio ruolo».
Negazione di sé e assorbimento delle immagini dettate da altri. Il contrario di ciò che una volta si chiamava «egemonia»..
«Sì, possiamo dire così, o in tanti altri modi... E comunque in Veneto, già cinque o sei anni fa, da un’inchiesta della Cgil, risultava che un operaio su tre votava per la Lega...»
Accade perché gli operai vogliono diventare imprenditori o perché non hanno di meglio?
«Perché non hanno di meglio. E soprattutto, lo vedo nelle città di piccole e medie dimensioni, perché hanno paura. Paura palpabile degli immigrati a vari livelli, culturale, sociale, economico. E la ricaduta del voto alla Lega è immediata».
Parliamo di giovani violenti. A Verona come in Sicilia. Bullismo? Riflesso di personalità nullificate? Logiche di branco cariche di odio per il diverso?
«Il bullismo in senso puramente antropologico non esiste. È sempre una forma di cultura. E quindi non ci vengano a raccontare che certe inclinazioni naziste non abbiano pesato a Verona. Più in generale c’è un risveglio identitario, nella violenza e nella contrapposizione. E accade che qualcuno che non si sente “niente”, magari avendo tanto materialmente, voglia contare qualcosa, proprio attraverso il gesto distruttivo. Dietro tutto questo, dal Veneto alla Sicilia, c’è uno sprofondamento culturale, familiare, scolastico. L’Italia non è mai stata culturalmente tanto povera. E oggi la Spagna, paese che ci ha sempre ammirato, ci guarda con compatimento. Da tutti i punti di vista del vivere sociale...»
Ci aspetta una lunga traversata d’opposizione. Che previsione fa, e come guarda al ruolo che incombe sul Pd?
«Gli storici generalmente sbagliano le previsioni. Tuttavia sul Pd direi quanto segue. Dopo l’estinzione della sinistra radicale, o questo partito si fa carico, almeno in parte, delle ragioni di quelle forze al momento sparite, oppure è destinato a un declino che ci garantirà Berlusconi sino alla sua estinzione naturale. Oggi il Pd, spiace dirlo, non è né carne né pesce. E anche questo ha pesato nella sconfitta. Se si va in giro a chiedere che cos’è il Pd in positivo, non molti glielo sapranno dire. Ma non lo sa nemmeno il Pd, ad oggi! E che la sconfitta derivi anche da una forte carenza identitaria e di rappresentanza sociale mi pare innegabile».
l'Unità 18.5.08
La Roma del '400 prestigiosa ma poco creativa
di Renato Barilli
AL MUSEO DEL CORSO una mostra, a cura di Strinati, documenta il ruolo che l’Urbe svolse nel XV secolo: la città fu più che altro un punto di arrivo, dove si andava spegnendo l’inventiva nata altrove
Merita ampio riconoscimento la bella attività che Claudio Strinati sta svolgendo nell’Urbe, nella sua qualità di soprintendente per il polo museale romano. Appena poche settimane fa ci siamo occupati della rassegna di opere canoviane che per suo merito è stata realizzata attorno al capolavoro dell’artista di Possagno, la Paolina Bonaparte, superba gemma incastonata nella Galleria Borghese. E in Palazzo Venezia è ancora visibile l’ampia retrospettiva dedicata a Sebastiano del Piombo. Ma ecco subito una nuova meritoria impresa, Il ’400 a Roma, che Strinati ha curato, con l’aiuto di M.G. Bernardini e M. Bussagli, per il Museo della Fondazione del Corso, tema da tempo non più affrontato, su cui di conseguenza appariva indispensabile riaprire il discorso.
Ciò detto e riconosciuto, il verdetto di fondo non può però mutare, il Quattrocento non è stato certo uno dei secoli più radiosi, per la Roma dei Papi, i centri di formazione delle proposte stilistiche più avanzate erano allora situati altrove, nella Firenze medicea o nelle capitali delle signorie, la Mantova dei Gonzaga, la Urbino dei Montefeltro, e in altre plaghe dell’Italia centrale e settentrionale, per la buona ragione, fondata sugli inevitabili intrecci tra la cultura materiale e le arti, che queste fioriscono laddove anche l’economia, i traffici, i commerci risultino floridi. Di fronte al rigoglio di altri centri italiani, la Roma dei Papi di quei tempi non era all’altezza, e non basta certo dare la colpa al lungo esilio dei Pontefici ad Avignone, il fatto è che nell’Urbe persistevano gli stessi motivi di insicurezza politica, per il soglio pontificio, minacciato dai poteri delle grandi dinastie nobiliari, che in fondo avevano consigliato la fuga avignonese. Era senza dubbio alto il prestigio della città di S. Pietro, pertanto gli artisti più reputati si sentivano altamente onorati a essere chiamati a lavorare entro le mura capitoline, molte esistenze si spinsero fin là a chiudere degnamente le rispettive carriere, ma appunto Roma fu allora, per tutto il secolo, un terminale d’arrivo, dove andavano a spegnersi onde creative nate altrove. Nulla di paragonabile a quanto l’Urbe diverrà poco dopo la svolta del 1500, per l’incidere di numerosi fattori, la politica aggressiva e di restauratio imperii intrapresa da Giulio II, il calo simultaneo delle signorie del Centro e del Nord, in caduta di potenza economica e militare, le aspre contese tra le due formazioni statuali di largo raggio, Francia e Spagna. Si dirà che la Roma papale era destinata a rimanere il proverbiale vaso di coccio, tra questi due giganti, con una persistente debolezza che avrebbe dovuto applicarsi anche agli esiti nell’arte. Ma, tra i due litiganti, il papato seppe erigersi come luogo di equilibrio e di compensazione, come ago della bilancia.
La mostra al Museo del Corso documenta assai bene questo ruolo di punto d’arrivo, che l’Urbe svolse nel Quattrocento, con la difficoltà aggiunta che le più alte imprese si svolsero sulle pareti di chiese e palazzi, dove bisogna recarsi per ammirarle, nel caso che non siano andate distrutte. Purtroppo un tale destino negativo ha inghiottito i vastissimi affreschi che, tra terzo e quarto decennio, avevano condotto in S. Giovanni in Laterano i due capofila del gotico internazionale, Pisanello e Gentile da Fabriano. A surrogare quel vuoto la mostra può fornire solo disegni, soprattutto del primo e della sua scuola. A Roma recitarono una delle scene della loro tormentata coesistenza Masolino da Panicale e Masaccio, ma di quest’ultimo è sparita ogni traccia. E invece vi giunse, e in qualche modo vi riassunse i suoi meriti, il Beato Angelico, che tra il 1447 e il 1455 dipinse in Vaticano, per il Papa di allora, la cappella Niccolina. Ma si tratta proprio di un riassunto, di un’epitome finale, di quel suo diligente allineamento di perfetti manichini, la cui matrice sta altrove, nelle cellette del fiorentino Convento di S. Marco. Forse Melozzo da Forlì, anch’egli formatosi a Nord, tra il Veneto, le Marche e la Romagna, riuscì davvero a far esplodere nel modo più pieno a Roma i suoi angeloni, gonfi, maestosi, rotondeggianti come palloni meteorologici. E poi, certo, a Roma convennero tutti i maggiori esponenti della terza generazione del Quattrocento, con Sandro Botticelli in testa, e poi il Perugino, il Pintoricchio, Cosimo Rosselli, e sembrarono chiamati a dare il meglio di sé nella cappella voluta da Sisto IV, la Sistina per antonomasia. Ma fu un canto del cigno, delle forme statiche, smunte, paratattiche che erano proprie di quella generazione, quando già tra i suoi membri sorgeva il talento ribelle di Leonardo. Sembrava un culmine, che in particolare il Pintoricchio disseminò in altre imprese parietali, nell’Appartamento Borgia, sempre in Vaticano, in S. Maria in Aracoeli. Ma la storia stava per voltar pagina, e in quella medesima Cappella Sistina di lì a poco si sarebbe manifestato il genio di Michelangelo, affiancato da quello raffaellesco nelle contigue Stanze vaticane. Si dirà che anch’essi erano nati e cresciuti altrove, ma ci volevano il nuovo volto, le nuove sorti di Roma, a far da crogiuolo, da luogo di fusione e diffusione. Solo da quel momento partiva la vocazione davvero centralizzante e universale, almeno per il mondo occidentale, di una Roma destinata ad essere egemone nell’arte per tre abbondanti secoli.
Repubblica 18.1.08
L'ultima maschera del nuovo statista
di Eugenio Scalfari
COMINCIO questa mia rassegna settimanale dei principali fatti e misfatti politici con una citazione. E´ tratta da un libro di Alexis de Tocqueville, "La democrazia in America" scritto due secoli fa e ormai diventato un classico. L´ha ricordato Umberto Eco nella sua "bustina" sull´Espresso di venerdì.
«Nella vita di ogni popolo democratico c´è un passaggio assai pericoloso, quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente dell´abitudine alla libertà. Arriva un momento in cui gli uomini non riescono più a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell´ordine è già schiava in fondo al cuore e da un momento all´alto può presentarsi l´uomo destinato ad asservirla. Non è raro vedere pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o distratta e che agiscono in mezzo all´universale immobilità cambiando le leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi. Non si può fare a meno di rimanere stupefatti di vedere in quali mani indegne possa cadere anche un grande popolo». Aggiungo per doverosa completezza l´avvertenza che spesso compare in certi film che trattano problemi e casi di stretta attualità: «Ogni riferimento a personaggi reali è infondato o puramente casuale».
Abbiamo assistito ed assistiamo, dopo la vittoria del centrodestra ad una profonda trasformazione del leader di quella parte politica, da pochi giorni asceso per la quarta volta in 14 anni alla presidenza del Consiglio. Tanto è stato demagogico e iracondo nelle sue precedenti apparizioni e tanto appare oggi uno statista pensieroso del bene comune. Molti dubitano della sincerità di questa trasformazione.
Un campione intervistato da "Sky Tg24" su questo tema, rispondendo alla domanda «è sincero o è bugiardo?» ha dichiarato per l´82 per cento «è bugiardo». Una parte consistente del campione è formata evidentemente da persone che appena pochi giorni prima avevano votato per lui. Ciò rende estremamente pertinente l´analisi di Tocqueville.
Ma io non credo – e l´ho già scritto domenica scorsa – che Silvio Berlusconi, bugiardo per antonomasia, in questo caso menta. E´ un grande attore e un grande venditore del suo prodotto, cioè di se stesso, e come tutti i grandi attori si immedesima completamente con ciò che dice. Nel momento in cui decide di assumere e interpretare il personaggio dello statista, quella maschera diventa vera, diventa realtà, l´attore si comporta da statista e lo è. Quindi va preso sul serio. Del resto in politica le parole sono pietre ed è precluso fare il processo alle intenzioni.
Tuttavia la memoria delle maschere assunte in precedenza rimane e deve rimanere perché l´attore può cambiar maschera a suo piacimento e in qualunque momento se gli ostacoli che incontra lungo la strada si rivelino troppo difficili e troppo ostici ai suoi interessi e alle sue ambizioni. Il grande attore non ha convinzioni proprie e una propria identità: si immedesima nella parte e quella è la sua forza. Finita una recita ne comincia un´altra; talvolta interpreta due parti e due personaggi diversi e addirittura contrapposti. In queste situazioni pirandelliane Berlusconi ci si ritrova molto bene e tutti noi, cittadini di questo Paese, dobbiamo ricordarcelo.
Ho detto che il grande attore non ha convinzioni proprie o, se pure ne ha, esse sono irrilevanti di fronte alla sua personalità recitante. Ma quando la recita è finita le sue pulsioni istintuali affiorano e determinano i suoi comportamenti. Abbiamo imparato a conoscerle, le pulsioni istintuali di Berlusconi che è sulla scena nazionale da ormai trent´anni. Il neo-statista va preso sul serio e gli si può e anzi gli si deve fare un´apertura di credito; del resto le elezioni le ha vinte e la sua legittimità è piena e fuori discussione. Non altrettanto la sua tempra morale e politica. Perciò con lui la disponibilità deve andare di pari passo alla memoria vigile e al riscontro costante tra parole e fatti, tra intenzioni e realizzazioni.
* * *
La sua campagna elettorale e quella dei suoi alleati Bossi e Fini è stata costruita soprattutto sul tema della sicurezza. Gli errori del centrosinistra su questo tema sono stati molti e gravi: la maggioranza si è più volte sfaldata, i dirigenti della sinistra radicale hanno frequentemente bloccato provvedimenti di energica prevenzione e di necessaria repressione predisposti a suo tempo dal ministro dell´Interno Giuliano Amato in accordo con Prodi. La magistratura, le sue lentezze e i suoi riti hanno fatto il resto e la delinquenza ha goduto di una diffusa impunità. Non tale tuttavia da rappresentare una minaccia nazionale. Se essa è balzata al primo posto nelle preoccupazioni degli italiani ciò è avvenuto perché la percezione di quella minaccia e la paura che ne è derivata sono state cavalcate senza risparmio e senza ritegno dai triumviri del centrodestra.Cecità di fronte al fenomeno della micro-delinquenza da parte della sinistra radicale, eccitamento della paura da parte della destra: in queste condizioni i richiami alla ragione e al senso di responsabilità dei democratici sono caduti nel vuoto.
Immediatamente dopo la vittoria elettorale di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te, del giustizialismo di quartiere. Nelle province di camorra la criminalità organizzata si è trasformata in giustizialismo di piazza: la manovalanza camorrista ha preceduto la polizia e i carabinieri, l´assalto ai campi rom è venuto prima delle leggi in corso di redazione da parte del nuovo ministro dell´Interno il quale, in accordo con il sindaco di Milano e con quello di Roma, ha anche istituito la nuovissima figura del "Commissario ai rom".
Che cosa debba fare un commissario addetto ad un´etnia è un mistero, ma una cosa è certa: si tratta di un´inutile e pericolosissima criminalizzazione d´una collettività.
Maroni si affanna da qualche ora a ridimensionare gli aspetti abnormi di queste sue iniziative strombazzate a pieno volume durante la campagna elettorale. Il reato di immigrazione clandestina, che costituiva uno dei punti forti della predicazione leghista, ha dovuto essere depennato di fronte alle obiezioni del capo dello Stato e dell´opinione pubblica europea, ma resta un contesto non solo repressivo ma persecutorio che eccita ancora di più la gente di mano e il teppismo della destra estrema.
L´altro ieri a Napoli uno stuolo di mamme scarmigliate e urlanti voleva scacciare alcuni handicappati-rom che per una notte erano stati ricoverati in un convitto dopo l´incendio del campo di Ponticelli. «Bruciarli no, ma scacciarli sì e subito» urlavano quelle mamme ed una in particolare che era la più agitata. Si è poi saputo che è la moglie del boss camorrista di quel quartiere.
A questo siamo arrivati, ma c´è una logica nella follia d´aver cavalcato la paura fino a questo punto: poiché miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico interno sul quale scaricare le tensioni e doveva essere un nemico capace di concentrare su di sé l´immaginario della nazione. Ora quell´isteria dell´immaginario ha preso la mano da Napoli a Verona e può dar luogo a conseguenze assai gravi.
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Walter Veltroni ha fatto bene ad incontrare Berlusconi a Palazzo Chigi venerdì mattina. Dal resoconto fatto dallo stesso segretario del Pd risulta che abbiano toccato vari e importanti argomenti: dalle riforme istituzionali da fare insieme ai programmi dei due schieramenti che restano invece, come è giusto che sia, fortemente conflittuali.In particolare hanno parlato di Rai (qui la conflittualità è massima) di sostegno dei salari (anche su questo punto non c´è stato accordo) di legge elettorale europea (istituzione d´una soglia di sbarramento del 3 per cento).
Non si è parlato invece di sicurezza, per riguardo (così è stato detto) alle prerogative del Capo dello Stato cui spetta di controfirmare i decreti e i disegni di legge.
A noi non sembra una buona cosa avere escluso dall´agenda di questo primo incontro il tema della sicurezza. Al dà degli specifici provvedimenti di prevenzione e di repressione che si dovranno adottare, resta una visione d´insieme che riguarda – come scrive Tocqueville nella citazione sopra riportata – «il gusto di civiltà e di libertà».
La nostra visione di cittadini democratici mette strettamente insieme la legalità, la protezione dei cittadini, la certezza delle pene, la repressione rigorosa della giustizia di strada e delle ronde «volontarie», l´opposizione più ferma ad ogni criminalizzazione di etnie e di collettività.
Questo avremmo voluto che il segretario del Pd dicesse a titolo di premessa nel suo primo incontro con il presidente del Consiglio. Sappiamo che questa visione e questi valori appartengono interamente al patrimonio etico-politico di Veltroni e del partito da lui guidato. Vogliamo sperare che siano condivisi anche da Silvio Berlusconi nella sua nuova veste di statista. Ma se ci si deve impegnare in una politica di dialogo istituzionale, questi valori non possono essere sottaciuti e dati per noti; vanno viceversa proclamati e la loro condivisione va posta come premessa e condizione indispensabile al dialogo. Se non fossero condivisi e tradotti in atti legislativi e in linee guida amministrative conformi, il dialogo non potrebbe e non dovrebbe evidentemente aver luogo.
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Poche altre cose vogliamo aggiungere a proposito delle riforme istituzionali che maggioranza ed opposizione dovranno portare avanti insieme.Ben venga il riconoscimento da parte di Berlusconi del governo-ombra come interlocutore del governo governante. Ma non c´è soltanto il Partito democratico all´opposizione, sicché se si vorrà formalizzare questa novità bisognerà volgere al plurale quella parola perché tutte le opposizione hanno il diritto di interloquire. Oppure non si formalizzi nulla e si aumentino piuttosto i poteri di controllo del Parlamento in pari misura ai maggiori poteri che è giusto riconoscere al presidente del Consiglio, capo dell´Esecutivo.
E´ passato quasi sotto silenzio (se si esclude il lucido articolo di Ignazio Marino su «Repubblica» di venerdì) il fatto che nel nuovo governo non esiste più il dicastero della Sanità, derubricato come parte del dicastero del «Welfare» affidato ad un sottosegretario o vice ministro che sia.
La derubricazione d´un ministero le cui attribuzioni sono sotto l´usbergo della Costituzione sotto forma del diritto alla salute di tutti i cittadini, è incomprensibile e inaccettabile. Capisco che la derubricazione possa esser gradita ai presidenti delle Regioni più ricche ma proprio per mantenere la parità di prestazioni sanitarie secondo il bisogno e non secondo il reddito che la Costituzione sancisce, non si può abolire il ministero della Salute e disossare il Servizio sanitario nazionale.
Questa materia riporta l´attenzione sul federalismo fiscale, altro tema delicatissimo che fa parte di quelle riforme da fare insieme tra maggioranza ed opposizione.
Bossi ha programmato da tempo la sua secessione dolce del Lombardo-Veneto basata su un federalismo fiscale spinto all´estremo e Berlusconi, Tremonti e Fini gli hanno dato carta bianca. Dove ci può portare questo salto nel buio in termini politici ed economici è ancora del tutto ignoto. I primi studi effettuati da economisti indipendenti mostrano squilibri fortissimi tra Nord e Sud, tra regioni ricche e regioni povere, tra entrate tributarie incassate e fonti di reddito che le generano.
Il federalismo fiscale si ripercuote anche su alcuni principi costituzionali, sul Senato federale, sulla composizione e i poteri della Corte Costituzionale. Se non ci sarà accordo su queste complesse e delicatissime questioni il governo dovrà procedere da solo e poiché non dispone della maggioranza necessaria per leggi di natura costituzionale dovrà ricorrere ad un referendum che spaccherebbe il Paese in due.
Ci pensi bene il neo-statista di Palazzo Chigi. Noi ci auguriamo che la sua sopravvenuta saggezza gli porti consiglio e gli dia la forza di far marciare i suoi alleati in accordo con lui anziché lui in accordo con loro. In caso contrario la strada sarà tutta in salita e non sarebbe un bene per un Paese che ha bisogno di crescere crescere crescere. Crescere soprattutto moralmente, signor presidente del Consiglio, perché questa è ormai diventata la nostra principale emergenza.
Corriere della Sera 18.5.08
Sacerdoti, pochi e anziani
L'età media è 60 anni, da 33 in servizio Calo costante, nel 2023 un quarto in meno
di G. G. V.
«In Italia, c'è un'Italia antica fatta di scale ripide, anziani soli e giovani sacerdoti...». Stacco su carrugi e prospettive vertiginose, accanto a un vecchio pescatore appare don Franco, prete in erba che galleggia allegramente in un gozzo sullo sfondo di una splendida marina. «Lui e tanti come lui sono gli occhi, il cuore, la voce e l'anima di tanti piccoli paesi a volte dimenticati...». Ecco, a parte la storia del paesello «dimenticato» — in realtà si tratta di Riomaggiore, fiorente gioiello delle Cinque Terre patrimonio mondiale dell'umanità —, lo spot Cei dell'otto per mille mostra l'essenziale: che succederebbe se non ci fosse, don Franco? Perché quelli come lui non abbondano, loro sì «dimenticati». Di solito non se ne scrive, gli archivi dei giornali e la rete internet traboccano di preti pedofili, preti concubini, preti eccentrici. Di quelli normali, cioè la quasi totalità, mai. Eppure la faccenda riguarda migliaia di fedeli in tutta Italia, una quantità di quartieri, paesi e paeselli che da anni non vedono un parroco, una miriade di ragazzini ignari del catechismo che senza un oratorio non saprebbero dove giocare a pallone e di anziani che non avrebbero con chi parlare.
Per dare l'idea: all'inizio del Novecento, in Italia, c'erano 68.848 sacerdoti per 33 milioni di abitanti; ora che siamo 57 milioni i preti sono più che dimezzati. E se oggi non è facile, fare il prete in futuro lo sarà ancora meno. I sacerdoti in Italia hanno un'età media di sessant'anni e un'anzianità di servizio di trentatré. La metà è stata ordinata prima del '67, cioè prima che entrassero in vigore le riforme del Vaticano II. Con 31.179 sacerdoti diocesani e 25.817 parrocchie si arriva a poco più di un prete (il rapporto è 1,19) per parrocchia compresi gli anziani— un prete su otto viaggia sugli ottanta —, e in regioni come Emilia, Abruzzo, Molise, Toscana e Liguria ci sono da tempo più campanili che sacerdoti. Ma potrebbe andare peggio: è «praticamente certo» che ci sarà un quarto di preti in meno, «ma in alcune regioni un terzo», nel giro di quindici anni. Così, in proiezione ventennale, si calcola ne
La parabola del clero, un'approfondita ricerca curata dal sociologo Luca Diotallevi e promossa dalla Cei con la Fondazione Giovanni Agnelli. L'indagine offre uno scenario che, a «ordinazioni costanti», passa dai 32.970 preti del 2003 ai 25.407 del 2023, meno 22,9 per cento, con punte sul 40 dal Piemonte alle Marche.
Fin qui le brutte notizie. Perché anche nello scenario più fosco l'Italia del 2023 vivrebbe ciò che già adesso sperimentano le Chiese di Francia o Spagna, «realtà tutt'altro che estinte e agonizzanti», nota Diotallevi. E poi i numeri non sono tutto: lo stesso monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della Cei, nel commentare la ricerca mette in guardia dal «sopravvalutare l'aspetto quantitativo delle trasformazione del clero » e badare alle qualità richieste dalla nuova situazione, «serve una fede più pensata, il necessario rinnovamento richiederà maggiore attenzione al mondo che cambia...».
Ogni crisi è sempre fertile, basta conoscerla. Dai numeri alla realtà la prima immagine è quella di don Franco Pagano, 31 anni, il sacerdote del gozzo di Riomaggiore. Se gli si chiede cos'è cambiato, oggi, don Franco risponde deciso: «Bisogna essere ancora più preti, non imboscarsi: stare tra la gente, sì, ma come sacerdote. Come dice il nostro vescovo, Francesco Moraglia: ricordiamoci che non facciamo i preti, siamo preti». Nella vicina Biassa la gente ricorda come una figura mitologica il vecchio parroco, don Alfonso Ricciardi, quello che durante la vendemmia andava a stanare la gente con un megafono, «contadini di Tramonti!», e ormai da anni alla Chiesa romanica di San Martino badano le donne del paese. «Eh sì, è un grande problema. Se ogni settimana, per dire, riuscissi ad andare a trovare tutti gli anziani, sarebbero contenti e lo sarei anch'io. Ma devo pensare al catechismo, agli sposi, all'oratorio, all'insegnamento a scuola e in seminario, alle messe che talvolta mi chiedono di celebrare anche in altri paesi come Biassa, a tutti quei ruoli che una volta in parrocchia ci si divideva mentre adesso sono da solo», allarga le braccia don Franco. «E questo quando si richiede un ministero più attivo verso la gente. Non è più scontato che vengano da te, conta sempre più l'aspetto missionario, li devi cercare. E la risposta c'è, mai come adesso la gente avrebbe bisogno che fossimo più presenti e desidera ardentemente un parroco residente. Solo che noi non riusciamo ad essere residenti ».
Così i preti stanno già cambiando. Se l'Italia delle famiglie numerose che usavano mandare un figlio fisso in seminario è storia, in compenso un giovane che si fa oggi sacerdote, con la prospettiva di un impegno totale (a 852,93 euro al mese) è più consapevole e maturo, la stessa età media di ordinazione, dai 23 anni del 1928, ha superato i trenta, «quest'anno a Milano saranno ordinati anche due cinquantenni, casi peraltro straordinari, ma è vero che oggi si inizia per lo più dopo l'università», spiega don Luigi Panighetti, prorettore del seminario ambrosiano di Seveso, sede del primo biennio di Teologia. Scenderà l'età media e saranno più «globalizzati», visto che cresce la presenza di stranieri da tutto il mondo e già adesso il 4,5 per cento dei preti è nato all'estero, il 23 per cento a Roma e nel Lazio (per motivi di studio), mentre in Umbria la metà dei preti fino a quarant'anni è straniera. Dopo la strage di 'ndrangheta a Duisburg, il viceparroco di San Luca don Stefano Fernandez, indiano, spiegava candido: «Qui i preti italiani non ci vogliono venire». Sarà sempre meno così, le diocesi chiedono «flessibilità» e sperimentano, le «comunità pastorali» con équipe di preti, religiose e laici nate a Milano per coprire più parrocchie si diffondono da Bergamo a Venezia. In fondo non avranno il tempo d'annoiarsi né di sentirsi isolati. «C'è uno stare con se stessi educativo», sorride don Franco. «E poi non si è mai soli quando hai un interlocutore nel Signore...».
Corriere della Sera 18.5.08
Ratzinger: niente compromessi sul relativismo
di Luigi Accattoli
SAVONA — Papa Benedetto in visita a Savona ricorda Pio VII — che qui fu tenuto prigioniero da Napoleone per tre anni (1809-1812) — e paragona quella «esperienza tremenda» alle «sfide del mondo» che la Chiesa deve affrontare oggi con «coraggio» e che sono principalmente tre: «materialismo, relativismo, laicismo». La storia del Papato è una miniera per la predicazione di ogni Papa: Paolo VI nel 1966 fece un salto a Fumone (Frosinone) per visitare il castello dove Bonifacio VIII aveva tenuto prigioniero Celestino V e ieri il Papa teologo ha visitato a Savona le tre stanze appoggiate alla parete destra del Duomo che furono residenza coatta di Pio VII deciso a non cedere alle pretesa del Bonaparte che oltre a prendersi «ciò che è di Cesare» voleva decidere anche in «ciò che è di Dio». Benedetto ha potuto osservare lo studiolo dove il Papa lavorava tenuto d'occhio dai gendarmi napoleonici che potevano entravi a piacimento da una porticina, la loggia con grata dalla quale assisteva alle celebrazioni in Duomo. Nell'omelia davanti a 20 mila persone sotto la pioggia, il Papa ha ricordato «quella pagina oscura della storia dell'Europa» e ne ha tirato questa «lezione» per i nostri giorni: «Ci insegna il coraggio nell'affrontare le sfide del mondo: materialismo, relativismo, laicismo, senza mai cedere a compromessi, disposti a pagare di persona pur di rimanere fedeli al Signore e alla sua Chiesa».
Corriere della Sera 18.5.08
Le prospettive della neurobiologia
Coscienza e verità nel cervello
di Jean-Pierre Changeux
Pubblichiamo una sintesi del discorso che Jean-Pierre Changeux — padre della neurobiologia, docente al Pasteur di Parigi — ha tenuto al Simposio organizzato venerdì e ieri a Lugano dalla Fondazione Balzan. Tra i suoi saggi editi in Italia, «L'uomo di verità» (Feltrinelli) e «Geni e cultura» (Sellerio).
Che cos'è la verità? Diderot suggeriva che fosse «la corrispondenza tra le nostre idee e gli oggetti». Ciò implica non solo la corrispondenza delle nostre idee con gli oggetti esterni ma anche la coerenza interna delle nostre idee tra di loro e con quelle degli altri. La presentazione si propone di cercare di stabilire un ponte plausibile tra l'epistemologia e le neuroscienze sulla base del concetto di persona capace secondo Paul Ricoeur, cioè un individuo razionale e cosciente impegnato in relazioni sociali, dotato di identità personale e della capacità di considerare «se stesso come altro da sé». Questo porta a concepire la ricerca della verità come la produzione di una rete in evoluzione di cervelli interagenti che, grazie alla collaborazione e alla competizione, ha come risultato lo sviluppo del sapere scientifico oggettivo.
Questa posizione genera tre paradossi per il neuroscienziato.
Un primo paradosso riguarda la necessità di tratti universali specie-specifici del cervello dell'Homo sapiens e lo straordinario rapporto evolutivo non lineare tra la rapida crescita della complessità anatomica del cervello e le modeste modificazioni dell'organizzazione del genoma che ne è responsabile: si suggeriscono meccanismi genetici plausibili.
Un secondo paradosso riguarda l'apparente contraddizione tra il concetto di involucro genetico specie-specifico dell'organizzazione del cervello umano e la genesi di una ricca diversità culturale che dà luogo a un ampio spettro di sistemi simbolici e convinzioni. La risposta suggerita si basa sulla modalità di sviluppo delle connessioni cerebrali attraverso molteplici fasi successive di esuberanza seguite da momenti di stabilizzazione/ eliminazione selettiva tramite attività provocata/ spontanea implicante sistemi di valutazione/ricompensa, che dà luogo a un'appropriazione epigenetica dei circuiti in sviluppo grazie a processi culturali, creando una variabilità epigenetica tra i singoli cervelli e, come conseguenza, una diversità di opinioni e punti di vista.
Terzo punto diventa la base neurale della coscienza, il problema del pensiero razionale e la nozione dell'autovalutazione critica alla ricerca della verità. L'«ipotesi della memoria di lavoro neuronale » presume che i processi consci impegnino neuroni piramidali corticali con connessioni orizzontali a lungo raggio particolarmente abbondanti nella corteccia prefrontale e creino un'interconnettività globale a livello cerebrale comprendente il riferimento al sé, i ricordi personali, i ruoli interiorizzati e le convenzioni sociali insieme con la «lettura della mente», l'«inibizione della violenza» e la lotta per «gratificazioni condivise» socialmente.
Una neuroscienza della persona capace e la relativa ricerca della verità diventano quindi un progetto realistico.
Corriere della Sera 18.5.08
Il '68, Cannes e ciò che resta
di Tullio Kezich
«Dimenticate il '68!». L'appello del presidente Sarkozy che tanto scandalo ha suscitato presso i nostalgici della Contestazione, sembra essere stato raccolto in libreria. Dei troppi volumi recentemente apparsi sull'argomento non si è venduto quasi niente. Incluso il tascabile Cinéma 68, edito dai Cahiers, una silloge di chiacchiere in gran parte superate e filosofemi illeggibili. Eppure proprio negli orti della Decima musa il discusso movimento ha lasciato una traccia importante. Domani ricorrono i 40 anni da quel 19 maggio in cui, a mezzogiorno in punto, il delegato generale Robert Favre Le Bret fu costretto a interrompere il 21esimo festival inaugurato il 10, in sfortunata coincidenza con la notte delle barricate al Quartiere Latino. Da subito sulla Croisette erano cominciate le agitazioni guidate da Truffaut e Godard, mentre i membri della giuria presieduta dal letterato André Chamson, da Louis Malle a Roman Polanski, da Alain Delon a Monica Vitti, si erano dimessi o sembravano sul punto di farlo. Alle tre del pomeriggio del 18 Geraldine Chaplin, all'epoca ispiratrice dello spagnolo Carlos Saura, attaccandosi al sipario aveva impedito la proiezione del loro film
Peppermint Frappé, ultimo tentativo di mandare avanti il programma. Proprio per la stretta correlazione con i moti diffusi in tutto l'Esagono, quando il regime gollista appariva di giorno in giorno sempre più periclitante, gli eventi della Costa Azzurra si rivelarono una faccenda seria: il festival non pervenne alla premiazione, il successo dei cineasti rinsaldò i rapporti nella categoria e lo scossone che ne derivò alla manifestazione fu in definitiva benefico.
Tant'è vero che subito l'anno dopo nacque una rassegna parallela, la Quinzaine des Réalisateurs, riservata al film d'autore. Da tutto ciò Cannes trasse nuove motivazioni e consensi che la portarono un bel passo avanti rispetto all'eterna rivale Venezia. Dove in settembre alcuni cinematografari nostrani provvidero a inscenare una pittoresca parodia dell'evento transalpino, che pur strombazzando minacce e ottenendo ampio spazio sulla stampa si sgonfiò in meno di 48 ore senza impedire alla Mostra di svolgersi regolarmente fino alla consegna del Leone d'oro. Oltre ad approfondire la spaccatura già esistente fra i registi di supersinistra e i moderati, la baraonda del Lido non cambiò un bel niente e anzi contribuì a creare le premesse per la definitiva annessione della Biennale da parte della partitocrazia che da allora vi esercita un soffocante controllo. Ne seguì un decennio di inerzia che fra vani aneliti di rilancio, rinnovate confusioni e stolte cancellazioni lasciò a Cannes il tempo di stabilizzare un primato da allora diventato inattaccabile.