lunedì 19 maggio 2008

l'Unità 19.5.08
Quell’umanità spazzatura
di Maurizio Chierici


«Nomadi, realtà orribile dell’Italia»: è la notizia di prima pagina di ogni giornale d’Europa. Tutti ci guardano; vorrebbero non fosse vero. «Incredibile che in un Paese democratico vi siano persone che vivono senza diritti e senza documenti anche se nati in famiglie “italiane” da 40 anni». Parole che stanno facendo il giro del mondo; parole del rapporto che sta per essere depositato alla Commissione UE dall’europarlamentare ungherese Victoria Monacai.
E la cronaca dei testimoni (Pais, Guardian, Pagina 12 e altri sette giornali stranieri) che hanno accompagnato la signora nella visita al Casilino, campo nomadi di Roma o nel cimitero napoletano delle ceneri di Ponticelli, baracche bruciate dalle molotov di una folla inferocita, queste cronache ricordano le nostre cronache nei viaggi africani o di quando attraversiamo le favelas dell’America senza niente. Umanità spazzatura immersa nelle immondizie. Disgusto, repulsione, per fortuna storie lontane. Invece eccole qui. Questo il made in Italy? Non è successo all’improvviso. Seduto davanti all’altare della piccola chiesa di Pratovecchio, parco del Casentino, un mattino 2003 l’Abbè Pierre compiva 91 anni ripetendo con l’ultimo fiato i versi di una sua poesia: «Ma dove siete? - C’è troppa sofferenza - C’è troppa miseria - In mezzo a tanti farabutti perbene». Il religioso che aveva dedicato la vita ai sans papiers, senza documenti, ricordava con un sorriso la definizione di Sergio Zavoli: «Chiamatemi monsignor Spazzatura perché il mio impegno continua ad essere la restituzione della dignità alla spazzatura umana».
A proposito: noi dove siamo? Per anni l’autorità morale della Chiesa ha consolato l’emarginazione dei nomadi sopravvissuti ai forni di Hitler o ancora ingabbiati nell’emarginazione del socialismo reale, paesi dell’Est. Chiesa polacca, chiesa ungherese, ma anche l’arcivescovado di Milano. Il cronista ricorda il Natale 1959. Gli zingari del campo di Porto di Mare, periferia sud, scrivono disperati al cardinale Giovanni Battista Montini. Sfumava il tepore del primo benessere e la grande città operaia soffriva «il disordine dell’emigrazione che risaliva dall’Italia del Sud»: quante Milano-Coree, ghetti per le facce diverse dal biondo Brianza. Chiusi nel ghetto dei ghetti sopravvivevano a Porto Mare nomadi impediti a trovare lavoro dalla legge che imponeva un domicilio sicuro. «In quale modo, monsignore - invocava la lettera - possiamo affittare due stanze se ci è impossibile garantire l’affitto con un lavoro che non sia in nero?». La notte di Natale il cardinale dice messa in duomo. Il mattino dopo celebra nella baraccopoli degli zingari. Non arriva da solo. Lo accompagna il sindaco Virginio Ferrari, socialdemocratico; medico dai baffi asburgici. Montini gli aveva telefonato: andiamo assieme. Al momento della predica, con la voce timida di un intellettuale che non ha mai alzato la voce, il futuro papa annuncia: «Oggi questa è la mia cattedrale. Ho portato il sindaco. Spero gli vogliate bene e che lui voglia bene a voi». E nel discorso il sindaco si impegna a distribuire 200 appartamenti: finalmente gli zingari trovano casa. E poi il lavoro: milanesi come tutti.
Cinquant’anni dopo l’Italia è cambiata, il mondo è cambiato ma la Chiesa resta il riferimento al quale i credenti affidano la speranza. Se don Luigi Ciotti chiede scusa ai Rom dalla prima pagina dell’Unità, è il quasi silenzio dei palazzi vaticani sui nomadi perseguitati da sospetti che spesso svaniscono ma che la strategia politica della paura trasforma in un odio da rafforzare per controllare l’elettorato; è questo quasi silenzio ad agitare messaggi e lettere. Continuano ad arrivare. Turbamento dei cattolici ma anche di laici che non nascondono la meraviglia. Perché tanta prudenza? Ne scelgo due. Lettera amara di Ettore Masina. È stato il primo vaticanista (la parola non gli è mai piaciuta) della Rai-TV. Due volte deputato della sinistra, fondatore di Rete Resch: solidarietà ai profughi, dalla Palestina all’America Latina. Autore di tanti libri: «L’arcivescovo deve morire», biografia di monsignor Romero pubblicata dal Gruppo Abele: «Il vinceré», edizioni san Paolo, finalista al Viareggio; e «Le nostre barche sono rotonde», da poco in vetrina. Ecco la tristezza che lo accompagna. «Non turbate il Santo Padre. Ditegli che c’è un guasto nei ripetitori di Ponte Galeria e perciò nei palazzi vaticani per qualche giorno radio e televisori sono in black out. Ditegli che c’è uno sciopero dei giornalisti di tutto il mondo, quindi non arrivano notizie. Fate che non sappia, insomma, quel che sta succedendo in Italia ai Rom, cioè che da mesi gli “zingari” vedono (non soltanto a Ponticelli ma in molte città e paesi) i loro campi assaltati da facinorosi o “rimossi”, quasi senza preavviso, dalle forze dell’ordine. È una specie di pulizia etnica, senza morti, per fortuna, ma con valanghe di odio, inasprimento di una miseria già di per sé dolorosa e terribili traumi per centinaia di bambini. La comunità europea aveva già sanzionato l’Italia come paese meno accogliente per i Rom: il nuovo governo ha deciso una soluzione radicale. Razzista. Il Papa tutto questo non lo sa. Se lo sapesse, certamente Benedetto XVI, Vicario di Gesù Cristo, Patriarca dell’Occidente e Primate d’Italia, lascerebbe i suoi preziosi paramenti per affrontare il fango dei “campi” contro cui si accaniscono le bottiglie moltov della gente bene; vi andrebbe per gridare su quelle devastazioni la parola del Cristo: “Ciò che viene fatto ai poveri è a me che viene fatto”. Papa tedesco, sicuramente non riesce a dimenticare il genocidio degli zingari compiuto dalla Germania nazista ad Auschwitz, centinaia di bambini orrendamente torturati dal dottor Mengele; e questo ricordo, se lui sapesse ciò che sta accadendo a pochi chilometri dalla sua finestra domenicale, lo spingerebbe a levare alta la voce per difendere i membri di una etnia dalle vere e proprie persecuzioni in atto. Così attento alle leggi italiane che “violano i diritti del feto”, mostrerebbe di non essere meno sensibile ai provvedimenti governativi che violano i diritti umani di migliaia di persone colpite in base alla loro nazionalità... Il Signore ha voluto che le genti “da un confine all’altro della Terra” diventassero un solo popolo, radunato dall’amore. Per questo chi odia una stirpe pecca gravemente contro Dio. Questo stanno dicendo i vescovi italiani pellegrini fra le rovine fumanti degli abituri devastati dei Rom. Come dite? Nessun vescovo è là, fra quelle roulottes sfasciate, fra le motocarrozzette caricate di poveri suppellettili e avviate verso chissà quale destino… Ahimé, i vescovi rimangono nei loro palazzi e tacciono o (vedi monsignor Bagnasco) condannano con flebili e gelide parole quelli che con bell’eufemismo definisce “estremismi”. Cristo si è fermato in Piazza San Pietro?... Non vedo una marea di indignazione levarsi contro la criminalizzazione di un popolo marcato dai segni evidenti di estrema povertà ma la cui pericolosità sociale è enormemente minore di quella dipinta dai politici della destra. La Caritas, unica e vera “esperta di umanità”, definisce “pesantemente forviante” il ritratto dei Rom disegnato da mass media. La politica della paura che ha avuto un peso tanto grande nei risultati elettorali, sventola statistiche false. L’Italia è paese più sicuro della Francia, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti… Nelle statistiche del Ministero degli Interni non c’è un solo Rom condannato per aver organizzato un omicidio…
Può darsi che la storia abbia decretato la fine dei popoli nomadi: l’evoluzione culturale e il rimodellamento della Terra (quello fisico e quello politico) sembrano imporre una definitiva stanzialità. Del resto siamo tutti discendenti da antenati nomadi perché il nomadismo è stata una tappa fondamentale della vicenda umana. Ma se davvero è finito il tempo di genti sospinte a un cammino ininterrotto dalla necessità e da un’inesauribile voglia di libertà, allora, almeno, esse hanno il diritto di attendersi l’aiuto di una società dominante che ha già compiuto da secoli un trapasso di civiltà. Invece è proprio quello che non vogliamo consentire ai Rom. La stanzialità e l’integrazione…
La citazione conclusiva viene da Bertold Brecht. Raccoglie uno scritto del pastore luterano Martin Niermoller. «Prima vennero per i comunisti e non alzai la voce perché non ero comunista. Quindi vennero per gli ebrei, e non alzai la voce perché non ero ebreo. Quindi vennero per i cattolici, e non alzai la voce perché ero protestante. Poi vennero per me e a quel punto non vi era rimasto nessuno che potesse alzare la voce». Torna la domanda dell’Abbé Pierre: «Dove siete?».
mchierici2@libero.it

l'Unità 19.5.08
Noi di Sinistra e i Rom
di Filippo Penati


Caro direttore,
non mi sento razzista né di assecondare fantasmi razzisti quando, parlando del tema dei campi rom, sostengo la necessità di espellere chi delinque e di intervenire per ridurre la presenza degli insediamenti sul territorio. Credo invece che sia questo l’unico modo responsabile per una sinistra riformista, coerente con la propria vocazione ma capace di fare i conti con la realtà dei fatti, per occuparsi del benessere di tutti e specialmente delle persone più deboli, che siano italiani, o stranieri che provenienti da situazioni di miseria o marginalità nella speranza di migliori opportunità di vita.
Penso in primo luogo a quei bambini, e l’esperienza di Milano ci dice che mediamente solo il 3% delle famiglie rom manda i propri bambini a scuola, che vengono privati dell’infanzia, educati a delinquere, sfruttati o costretti a commettere reati.
Penso alle donne, oggetto di violenza, limitate nella libertà di spostarsi in città come potrebbe fare un uomo, o costrette a educare il proprio sguardo sugli altri alla difesa e alla diffidenza. E penso a tutte quelle persone che ogni giorno subiscono quelle piccole, grandi violenze che tanto contribuiscono a diffondere sentimenti di insicurezza, diffidenza e ostilità sociale. Come chi viene spinto e derubato mentre fa la spesa al mercato, o chi non può permettersi una casa o fa fatica a pagare il canone di un alloggio popolare, mentre c’è chi sistematicamente utilizza dei beni pubblici senza contribuire a pagarne le spese. In tutti questi casi, ed è questa la cosa peggiore, sono tanti i cittadini che si sentono lasciati soli da uno Stato che non riesce a garantire la celerità della giustizia e la certezza delle pene. È anche questa solitudine che alimenta l’insicurezza, la diffidenza e l’intolleranza sociale. Un’intolleranza che rischia di colorirsi di toni razzisti perché nasce da una guerra tra poveri.C’è un problema di sicurezza e di legalità che va tenuto distinto dal tema dell’accoglienza e della solidarietà, con la consapevolezza però che non occuparsi del primo significa rendere impossibile e retorico il secondo.
Per quanto riguarda il tema specifico dei campi nomadi, la realtà dei fatti, come ben sanno tutti quei cittadini che ci convivono, è che in questi anni il numero degli insediamenti abusivi è cresciuto a dismisura. Solo per l’area metropolitana milanese, si parla di 23mila persone e oltre 200 accampamenti.
Una situazione che non si può pensare realisticamente di affrontare ridistribuendo le presenze sul territorio, spostando le persone dal centro del capoluogo nelle periferie e nei Comuni della prima cintura.Partiamo allora da un primo importante distinguo. Assicurare che chi delinque, italiano o straniero che sia, venga punito è una questione di certezza della pena che attiene al dovere dello Stato di garantire il diritto di tutti alla sicurezza.
Per coloro che, cittadini comunitari, sono da tempo stabilmente nel nostro Paese e nonostante questa lunga permanenza non sono ancora oggi in grado di dimostrare con quali mezzi di sussistenza, e che verosimilmente vivono di espedienti ai margini dell’illegalità, ho parlato di riaccompagnamento nei Paesi d’origine, come prevede la normativa europea. Questo, con la consapevolezza che ci vuole umanità perché si tratta di povera gente.
Da parte della Provincia di Milano, questa umanità e l’attenzione ai problemi dell’immigrazione straniera non sono mai mancate in tutti questi anni in cui ha messo in campo azioni, iniziative e progetti che oggi non rinnego ma rivendico. Come nel 2005, quando dopo l’intervento delle ruspe nel campo di via Capo Rizzuto abbiamo ricoverato nelle strutture della Provincia un gruppo dei nomadi sgombrati. O come quando nello stesso anno, a dicembre, abbiamo aperto le porte del Consiglio provinciale per dare conforto e un tetto caldo, in una situazione straziante di emergenza, ai rifugiati politici sgombrati dal palazzo di via Lecco dal Comune di Milano che nessuno voleva ospitare.
La Provincia di Milano ha investito, prima tra le istituzioni milanesi, 500mila euro in progetti di formazione e reinserimento sociale per i ragazzi in Romania, in collaborazione con don Gino Rigoldi.Insieme con le altre istituzioni coinvolte, abbiamo lavorato ai Patti di legalità nei campi nomadi regolari, per l’affermazione di un modello di convivenza responsabile. Abbiamo collaborato e continuiamo a collaborare con la Casa della Carità di don Colmegna con diversi progetti di inclusione sociale. Proprio nei prossimi giorni presenteremo con loro un programma di interventi per il 2008 e il 2009 del valore di 800mila euro, con la creazione di una Biblioteca di confine, interventi per la formazione e l’inserimento lavorativo e sociale, e un progetto di solidarietà e reinserimento in Romania. Stabile è la collaborazione della Provincia di Milano con la Questura e la Prefettura sui servizi per il ritiro dei permessi di soggiorno e i ricongiungimenti familiari, mentre partirà tra poco un progetto, realizzato in collaborazione con Banca Intesa, per il sostegno all’imprenditoria straniera, con il finanziamento di un fondo di rischio.
Noi, e non altri, abbiamo prodotto due film significativi per comprendere la realtà delle comunità rom sul nostro territorio come “Opera gagia”, film girato in presa diretta nel periodo delle tensioni al campo nomadi di Opera, e “Via San Dionigi 93: storia di un campo rom”. E nei prossimi giorni il Consiglio provinciale sarà chiamato a dare il via alla Casa delle Culture, ulteriore esempio concreto della capacità di dialogo e integrazione tra culture. È questa una linea che rivendico e che la Provincia di Milano continuerà a portare avanti.
Per il resto, non si tratta di usare slogan leghisti o copiare ricette di destra. Si tratta di chiedersi, con realismo e responsabilità, quante di queste persone, e chi tra loro, possiamo concretamente sostenere, dando loro un’accoglienza dignitosa: una sistemazione, assistenza, istruzione per i bambini, formazione e opportunità di inserimento per gli adulti. Per coloro di cui non possiamo realisticamente occuparci, dobbiamo chiedere che siano i Paesi d’origine con il proprio welfare a farlo, dentro le regole della Comunità europea.
Non possiamo ignorare la condizione di queste persone facendo finta di credere che una vita misera e sudicia in Italia sia migliore di un’esistenza altrettanto miserevole in Romania. Come è sempre stato nella vocazione della sinistra, spetta a noi garantire che ci siano le opportunità, attraverso il lavoro, per il riscatto e il miglioramento delle proprie condizioni di vita. Sarebbe però utopico pensare che possa essere chiesto alle istituzioni, specie quelle locali, prendersi carico di tutti, e sostituirsi a un impegno imprescindibile che tutti gli Stati europei devono assumersi, a proteggere gli ultimi della società.
Credo sia proprio su questo punto che la sinistra possa e debba fare la differenza: una sinistra riformista che si occupa dei più deboli assicurando lo stato di diritto e togliendo gli ostacoli, ma anche gli alibi, a cogliere le opportunità di vita che possono venire dal nostro sistema Paese. Mentre altri, come certi ambienti del centro destra, vogliono negare anche questo diritto.
*presidente della Provincia di Milano

l'Unità 19.5.08
Rom, viados e clandestini, il «vento» della grande caccia
di Anna Tarquini


L’ultima è di Margherita Boniver che pure non ha una storia di destra anche se ora milita nel Pdl. «Gli immigrati? Utilizziamoli per ripulire le città ed ottenere in cambio la regolarizzazione dei loro permessi di soggiorno. Il caso Campania ad esempio - osserva la Boniver - sta diventando una sorta di G8 di Genova del 2001, tanto è evidente la mano di chi vuole lasciare ulteriormente una situazione già insostenibile». Persino la Lega ieri le ha dato della schiavista. E Realacci, invece, l’ha liquidata come una boutade, una gaffe. L’Europa ci addita come razzisti. Tutti i giornali stranieri hanno messo in prima pagina la foto degli assalti ai campi Rom di Ponticelli. Ci siamo veramente svegliati xenofobi? O c’è chi ha soffiato sul fuoco dell’intolleranza o magari anche semplicemente sulla stanchezza di tollerare sempre?
Dai campi rom ai viados. Sul Web basta aprirli in questi giorni i blog. Il problema razzismo è uno dei temi e non sono pochi quelli giustificano gli assalti ai campi nomadi: «Se la legge non esiste, ognuno trova le soluzioni da solo... ». Che il vento è cambiato lo si intuisce anche guardando il comportamento degli automobilisti ai semafori. C’è chi osa di più, adesso, contro i lavavetri. L’appello denuncia dell’eurodeputata rom Viktoria Mohacsi è da ascoltare: «I fatti di Ponticelli dove sono state bruciate le baracche, dove sono esplose molotov, preoccupano e molto. Si sente e si vede l’aria brutta che tira».
Sarà, come dice Bossi, «che se lo Sato non fa il suo dovere la gente prima o poi si rompe le balle». Ci sono però tanti modi di alimentare la xenofobia. E la destra lo ha fatto. A cominciare dal sindaco Alemanno che al Teatro Brancaccio, in campagna elettorale, arringava la platea: «...Questi sono nomadi o no? E se sono nomadi prendono e se ne vanno, non stanno qua per vent’anni nei nostri quartieri...». Oppure Gianfranco Fini, il 4 novembre scorso, all’Annunziata: «A Roma andrebbero fatte almeno 20mila espulsioni e andrebbero demoliti tutti i campi nomadi. Siamo su una polveriera...». Gasparri, 20 aprile 2008: «La Roma di Prodi, Rutelli e Veltroni è il regno del terrore e dello stupro. Bisogna rimettere ordine nell’Italia e nella capitale. Allontanare subito clandestini e rom». Ignazio La Russa, il più moderato: «Io credo che bisogna accettare il fatto che per noi non sia un obbligo sostenere il modello di vita dei rom... La soluzione sono i mini campi di 10 persone al massimo, in campi troppo affollati l’illegalità è all’ordine del giorno». Il Pdl ipotizzò addirittura le «ronde della libertà» subito dopo l’omicidio Reggiani.
C’è poi un altro modo di soffiare sul fuoco, ed è quello dell’informazione scorretta, delle notizie sparate ad hoc. È il caso del maxi-blitz contro i clandestini strombazzato come fosse l’inizio del giro di vite, l’inizio dell’aria che cambiava. Trattavasi di regolari controlli, non scattati in una notte e comandati da una massima autorità che ci pensava da tempo, ma trattati e coordinati nell’arco di giorni. In gergo si chiama Pattuglione, cioè un insieme di operazioni di polizia scollegate tra loro e che normalmente valgono dieci righe. Persino il blitz nel campo nomadi di Roma, in via del Salone, faceva parte dei controlli regolari istituiti dalla giunta nella misura di uno al mese e affidati ai vigili urbani. Manganelli, il capo della polizia, non ha mentito. «C’è una percezione di insicurezza diffusa al di là della ragione - ha detto - . Un sentimento della paura che ha a che fare non solo con la criminalità ma anche con il disagio sociale, il degrado, l’inciviltà anche verbale e la mancanza di punti di riferimento per il futuro». Ieri ha parlato per la prima volta anche Tudor Lucica, la regina dei rom rumeni d’Europa. «È in atto una campagna d’odio senza precedenti. L’Italia ai miei occhi è un Paese sensibile, ci vivo da 18 anni ed è il luogo che meglio mi ha accolta. Ora mi sembra di vivere un incubo, si parla di espulsioni. C’è un odio profondo mai sentito prima. Un attacco di questo tipo coinvolge, direttamente o indirettamente, bambini e anziani senza colpa. I rom che da generazioni vivono in Italia, amano questo Paese. Riflettete bene prima di prendere qualsiasi iniziativa».

l'Unità 19.5.08
Amos Luzzatto. L’ex presidente della comunità ebraica: «Da cittadino democratico dico: i Rom non devono essere vittima di nuovi pogrom»
«I nomadi? Anche contro noi ebrei è cominciato così»
di Umberto De Giovannangeli


«Quei roghi ai campi Rom chiamano alla memoria altri fuochi della storia d’Europa: l’Inquisizione, i libri, i lager tedeschi...»

«Noi ebrei sappiamo bene cosa significhi essere perseguitati, demonizzati, sterminati. Per questo, da ebreo italiano e da cittadino democratico, non posso che guardare con orrore e preoccupazione alla campagna d’odio verso i Rom». A parlare è Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane.
Professor Luzzatto, cosa ha provato di fronte al fuoco appiccato ai campi Rom a Napoli?
«Ogni fuoco riporta alla memoria altri fuochi dei quali la storia europea è cosparsa: penso, ad esempio, ai roghi dell’Inquisizione, ai roghi dei libri maledetti, ai roghi dei campi di sterminio... In ultima analisi c’è da domandarsi cosa abbiano in comune questi roghi. E la risposta immediata e tragica è: distruggere, senza che resti traccia, tutto quello che dà fastidio al potere. In questa ottica, tutto viene ingigantito e generalizzato: all’interno di ciò che si vuole distruggere col fuoco si colloca molto di più di quanto sarebbe “strettamente necessario” proprio per essere sicuri di avere totalmente eliminato quello che s’intende distruggere. È terribile, ma è cosi».
In quale misura questo comportamento è collegato al razzismo?
«È abbastanza evidente: se si vede un uomo nero che ha violentato una donna bianca, per una induzione arbitraria, si ritiene che la violenza sia correlata al colore della pelle. E pur sapendo che la stragrande maggioranza dei neri non sono stupratori per far prima li stermino tutti, ritenendo così di aver fatto una “pulizia totale”. Il razzismo si è nutrito di queste generalizzazioni arbitrarie e di queste correlazioni sbagliate, e una volta innescato il meccanismo del rogo, questo si autoalimenta».
In questa autoalimentazione, perché i Rom?
«Prima di tutto, centrerei l’attenzione su un fenomeno sociale che comprende una serie di fattori negativi, fra i quali la precarietà del lavoro e dell’esistenza; la difficoltà di trovare alloggi adeguati, e la difficoltà di integrazione di popolazioni forestiere, soprattutto in fasi di migrazioni di massa. Il fenomeno del nomadismo va inserito in questa categoria di problemi. Isolare questo problema, e al suo interno addirittura quello dei Rom, significa rincorrere una soluzione illusoria e alquanto pericolosa. È forte la tendenza a superare quelle che sono contraddizioni, debolezze, timori, paure che colpiscono tutta la società contemporanea, selezionando quella che può essere una componente dall’immagine più facilmente riconoscibile e colpirla immaginando così di risolvere un problema molto più esteso e complesso. Coloro che appiccano il fuoco ai campi Rom sono al loro modo - un modo barbaro e criminale indegno di un Paese civile - interpreti di questo approccio sbagliato al problema. E in questo approccio, assieme parziale e colpevolizzante, inserirei anche l’ipotesi del commissariamento dei Rom...»
Una ipotesi, quella della creazione di un Commissario ai Rom, che il governo prende in seria considerazione.
«Questa ipotesi trova immediata rispondenza nelle iniziative violente e vandaliche che imputano problemi scottanti, anche di microcriminalità, non all’azione di singole persone ma alla presenza stessa di un singolo gruppo allogeno».
Quei fuochi portano alla memoria, come lei stesso ha sottolineato, i roghi dei campi di sterminio. In una intervista a l’Unità, Predrag Matvejevic ha ricordato che assieme a milioni di ebrei, nei lager nazisti furono massacrati tantissimi Rom.
«Questa è una verità storica. Un’amara, tragica verità. Noi stessi, noi ebrei, abbiamo subito sulla nostra pelle ripetutamente - fino alla più terribile persecuzione che è stata quella della Shoah - le conseguenze dell’essere prima di tutto indicati come stranieri irriducibili, poi progressivamente stranieri parassiti, quindi stranieri complottanti, infine assassini di bambini cristiani e in conclusione gruppi umani da espellere, da perseguitare, da sterminare. Noi ebrei sappiamo bene cosa significhi essere vittime di pregiudizi che si trasformano in odio e in violenza “purificatrice”. Sappiamo cosa significhi essere additati come il “Male” da estirpare. E da ebreo, oltre che da cittadino democratico, mi sento a fianco di una comunità, quella Rom, che non può, non deve essere vittima di nuovi pogrom».

l'Unità 19.5.08
Il cerino del sondaggio etnico


Prima - giovedì scorso - le due pagine con il titolo: «Ecco tutti i crimini dei rom», con sotto relativa mappa dei campi nomadi a Roma, con gli indirizzi. Poi il seguito (perchè fermarsi?) - venerdì - : e la schedatura che si allarga a tutto lo Stivale e stavolta il titolo è «Rom, l’Italia in rivolta». Ieri mattina il «Giornale» ha fatto filotto, passando direttamente al sondaggio: «Quali sono tra queste etnie quelle che lei teme di più? Ne indichi al massimo due» (chissà perchè solo due, poi... ). Insomma, siamo alla razza, al pallottoliere della rogna, di chi è più infetto. Ci manca il concorso a premi a chi ne avvista (ad andare oltre c’è sempre tempo) di più. Va da sè la classifica: zingari in testa, poi albanesi, romeni, slavi. Da notare poi che il sondaggio distingue pure: nordafricani da una parte, africani neri dall’altra. A pie’ di classifica i brasiliani - che il «Giornale» promuove per l’occasione a etnia unica, pur essendo quello paese multietnico per eccellenza - : guadagnano lo 0%.
***
La sua bambina di 5 mesi in braccio a uno sconosciuto piazzato lì nella camera da letto di un appartamento di una zona periferica di Vigevano. La paura, le urla, l’uomo che sguscia dalla finestra lasciando la piccola sul letto. La donna assieme al marito, cittadino straniero, sporge denuncia. Nessun elemento per chiarire chi fosse il «rapitore». O forse solo un ladro, visto che i cassetti della stanza erano aperti. Magari uno di Como. O magari un albanese. Il «Giornale» stesso a dire - sic - «non è ancora chiaro se italiano o straniero». Fino a ieri sera nessun elemento per chiarirlo. Nessuno. E però nell’edizione dell’ora di pranzo «Studio Aperto» ha riportato la notizia illustrandola esclusivamente con immagini prese dai campi nomadi, con annessi zoom dedicati a «rom fuori» che campeggiavano su chissà quale muro. Chiudendo con l’ennesima intervista alla mamma di Ponticelli che ha ripetuto d’esser stata lei vittima del tentato rapimento della sua piccola da parte di una zingara, poi scacciata e per poco non linciata. Insomma, come si dice, per non perdere il contesto. e.n.

l'Unità 19.5.08
La Spagna insiste: «Criminalizzate i diversi»
Altro che caso chiuso: il ministro Corbacho torna all’attacco contro Berlusconi & co.
di Toni Fontana


ILLUSIONI Nella squadra di Berlusconi c’era stato anche chi, quando la Spagna ha messo in chiaro la sua politica per l’immigrazione, ha preteso le «scuse» di Zapatero, ed altri si sono rallegrati per pentimenti e dietro front che non ci sono mai stati. Ieri il
governo di Madrid ha nuovamente messo in chiaro la differenza tra la politica del governo spagnolo e quella che l’esecutivo italiano. Stavolta a scendere in campo è stato il ministro del Lavoro e dell’Immigrazione, Celestino Corbacho, ritenuto l’esponente dell’ala moderata del governo. Corbacho non è mai stato tenero sulla questione dell’immigrazione, ma ieri ha puntato il dito contro la politica del governo Berlusconi: «Loro - ha detto - mettono al centro la discriminazione del diverso, noi cerchiamo di dare risposte. Loro criminalizzano il diverso, noi ci assumiamo la responsabilità di governare il fenomeno». Corbacho ha poi aggiunto: «Un immigrante illegale ha davanti una sola strada: quella di tornare nel suo paese. Ma per raggiungere questo scopo noi intendiamo seguire tutti i requisiti che riguardano il rispetto dei diritti umani». Anche stavolta i tanti sostenitori del pentimento degli spagnoli si sono irritati. Il più intrepido era stato il ministro dell’Interno Roberto Maroni che si è spinto a giudicare «incaute» le affermazioni della vice di Zapatero. Anche il capogruppo Pdl al Senato Gasparri aveva salutato il «tempestivo» chiarimento e si era augurato che il leader di Madrid «abbia spiegato le regole della democrazia a tutti i suoi ministri». Ieri Gasparri è saltato su tutte le furie ed ha invitato Zapatero «a mettere a tacere i suoi ministri che ci offendono». Gli ha fatto eco anche il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni che si rivolge a Zapatero: «Si vergogni, non si permetta di proferire impunemente il nome del mio paese». In serata Zapatero ha detto al ministro delegato per l’Europa, Lopez Garrido, di telefonare all’ambasciatore a Madrid Terracciano ed ha ribadito che, con Roma, «non c’è alcun problema».
La Spagna intende tuttavia seguire una strada diversa da quella dell’Italia. Ai primi di aprile Zapatero ha illustrato le linee guida. Dal 2003 (governo della destra di Aznar) è in vigore in Spagna una legge che prevede il «rimpatrio volontario» di lavoratori che hanno perso il posto e il pagamento del biglietto aereo per il viaggio di ritorno. Il provvedimento non ha funzionato. Solo 3700 immigrati ne hanno beneficiato e molti sono tornati clandestinamente in Spagna pochi giorni dopo averla lasciata. Ora Zapatero propone di corrispondere a chi torna o il sussidio di disoccupazione «una tantum» e proporzionato al periodo di lavoro svolto, oppure un microcredito che permetta all’immigrato di tornare in patria «e aprire un attività economica». L’altra iniziativa della Spagna è stata quella di coinvolgere il governo rumeno. Il ministro del Lavoro di Bucarest sta facendo il giro della Spagna (dove vi sono 600mila rumeni) per convincere «uno a uno» i suoi connazionali rimasti disoccupati a tornare a casa. La Romania offre mezzo milione di posti di lavoro a chi torna sui suoi passi. S’infiamma nuovamente anche la polemica sul governo rosa di Zapatero sulla cui composizione ha ironizzato Berlusconi. Ieri la giovane ministra delle Pari Opportunità, l’andalusa Bibiana Aido, intervistata da El Paìs ha detto di essere pronta a «pagare uno psichiatra» al premier italiano. «Ci vorrebbero molte sedute e non so se sarebbe efficace» - ha aggiunto.

Corriere della Sera 19.5.08
Ancora polemiche Spagna-Italia «L'Italia criminalizza il diverso»
Immigrati, Madrid attacca di nuovo
Una ministra: Berlusconi da psichiatra
di Fiorenza Sarzanini


Dalla Spagna nuovo attacco al governo italiano. Il ministro dell'Immigrazione Celestino Corbacho: «L'Italia criminalizza il diverso». E la ministra Bibiana Aido aggiunge: «Berlusconi è da psichiatra ». Ma il sottosegretario agli Esteri di Zapatero frena: «Nessuno scontro».

ROMA — Dopo le critiche formulate tre giorni fa contro l'Italia dalla vicepremier spagnola Fernandez de la Vega, questa volta ad attaccare è il ministro del Lavoro e dell'Immigrazione Celestino Corbacho che afferma: «La politica italiana pone l'accento più sulla discriminazione del diverso che sulla gestione del fenomeno e intende criminalizzare il diverso ». Un'accusa di razzismo.
Se dopo il primo attacco la diplomazia della Farnesina si era data da fare per chiudere l'incidente riducendo al minimo le polemiche, questa volta la maggioranza decide di replicare. E lo fa prima con il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri: «Zapatero metta a tacere i suoi ministri che tengono un comportamento difficilmente tollerabile», poi con il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Il ministro Corbacho è disinformato e la sua polemica è inutilmente provocatoria. Gli interventi non nascono per una pregiudiziale scelta razzista, ma per la violazione della nostra legge». È un uno-due che convince il governo spagnolo a rettificare. Anche perché nel frattempo da Madrid è arrivato un nuovo fendente, portato questa volta dal ministro per le Pari Opportunità, Bibiana Aido, al premier: «Pagherei uno psichiatra a Berlusconi — ha risposto all'intervistatrice che le chiedeva un giudizio su una frase del Cavaliere che aveva definito "governo rosa" l'esecutivo Zapatero per l'alto numero di donne —. Anche se non so se la cura sarebbe del tutto efficace. Comunque avrebbe bisogno di molte sedute».
È allora il sottosegretario di Stato per gli Affari europei Lopez Garrido a correre ai ripari: Corbacho ha parlato, dice, «senza conoscere bene la situazione, probabilmente non aveva pienamente chiara l'evoluzione delle cose in Italia». E sullo psichiatra da consigliare a Berlusconi? «Si tratta di opinioni del tutto personali», taglia corto Garrido.
A circoscrivere la polemica interviene ancora una volta il ministro degli Esteri Franco Frattini. Alla Farnesina dover chiedere così spesso precisazioni sta causando una certa irritazione. Frattini si dice «certo» che il primo ministro spagnolo José Luis Zapatero «Saprà porre fine a dichiarazioni individuali ed estemporanee che non rispecchiano la linea di forte collaborazione con l'Italia che lui stesso ha avuto modo di indicare ».
A due giorni dal consiglio dei ministri che dovrà varare le misure sulla sicurezza, l'Italia torna dunque al centro del dibattito internazionale. Resta confermato che nessuna aggravante potrà essere contestata a colf e badanti sorprese senza permesso di soggiorno, come invece avverrà per gli stranieri che non rispettano l'ordine di allontanamento del questore e per quelli che commettono reati.
Ma ieri è stato un giorno di polemiche anche nella maggioranza. Margherita Boniver, del Pdl, propone: utilizziamo in Campania gli immigrati irregolari ma non criminali per rimuovere i rifiuti in cambio della regolarizzazione. «Una proposta schiavista», la bolla la Lega. Critiche dure da entrambi i poli ma lei non arretra: «Solo una proposta dettata dal senso pratico, così avviene nelle emergenze anche negli Stati Uniti».

Corriere della Sera 19.5.08
I lager, i rom e l'apocalisse
di Pierluigi Battista


Il Foglio deplora le allucinazioni della «Nuova apocalisse ». L'isteria di chi equipara i Cpt ai lager e chiama «rastrellamenti» le azioni di polizia. Il parossismo comparativo che paragona alla «pulizia etnica » la battaglia contro la criminalità che alligna nell'immigrazione clandestina, e alle «leggi razziali» le norme repressive a favore della sicurezza. La civetteria intellettuale che induce Adriano Prosperi a citare un passo di Primo Levi come chiosa per l'assalto anti-rom di Ponticelli, a menzionare (Giuseppe Caldarola) le «leggi di Norimberga », a scomodare i pogrom per deplorare «le ruspe di Veltroni e Moratti» (Rossana Rossanda). I pogrom antiebraici nell'Ucraina degli inizi del Novecento, spiega sul Domenicale del Sole 24Ore Riccardo Chiaberge rileggendo le pagine fondamentali de «I cani e i lupi» di Irène Nèmirovsky, «non si limitavano ai roghi e alle distruzioni, erano veri e propri massacri», spaventosi bagni di sangue ispirati a un odio assoluto. Attenzione all'uso disinvolto della memoria storica, dunque. Piano con i paragoni spropositati.
Però. Di però ce ne sono almeno due. Il primo è dettato dalla visione raccapricciante, offerta dalle riprese dall'alto delle telecamere di Sky Tg24, della caccia all'uomo scatenata dalla teppa camorristica nel campo rom di Ponticelli. Donne terrorizzate che, a pochi metri dai furgoni della polizia inerti di fronte alle bande che avevano circondato il campo, fuggivano disperate con i bambini in braccio. Energumeni con le spranghe che inseguivano come un branco di bestie assatanate i nomadi ubriachi di panico. Bombe incendiarie che attizzavano il fuoco delle baracche lasciate precipitosamente nella fuga. Quelle scene dicevano che a Napoli era stato distrutto il monopolio della forza da parte dello Stato e che manipoli di mascalzoni avevano inscenato un linciaggio, violando la legge con arroganza sconfinata. Ma chi straccia con tanta prepotenza la legge, merita un sola sanzione: la galera. È troppo chiedere il ripristino della maestà della legge infranta, la tolleranza zero verso i teppisti, e almeno qualche parola da parte del governo (si è sentito solo il ministro Maroni, sinora) per marcare una linea di demarcazione invalicabile tra l'azione delle forze dell'ordine, e la furia violenta dei picchiatori che inseguono ululanti bambini rom sconvolti dal terrore?
Il secondo però riguarda l'obbligo culturale di distinguere, sempre, tra persone e gruppi, tra singoli colpevoli e intere comunità, tra individui su cui eventualmente grava il peso della responsabilità penale personale e etnie e nazionalità discriminate in blocco. Se si smarrisce, o se si offusca, questa fondamentale distinzione, nel lessico corrente oltreché nei comportamenti o persino nelle leggi, il richiamo alle tragedie del passato diventa per forza meno pretestuoso e dunque, paradossalmente, più plausibile. I gruppi umani colpiti in quanto tali diventano colpevoli per il solo fatto di esistere, la loro stessa presenza appare come un ingombro da rimuovere e da estirpare, un virus da sconfiggere anche con la mobilitazione purificatrice di chi si sente minacciato e circondato da una forza oscura e inquietante. Questa sì, potrebbe essere la fonte di una nuova apocalisse.

Repubblica 19.5.08
Paura nelle città, ecco l´Italia delle ronde
Volontari e vigilantes, da Padova a Bari dilaga la sorveglianza fai-da-te
di Jenner Meletti


Il leader del gruppo nel capoluogo veneto: per noi sono le "passeggiate"
Anti-bullo o interetniche, ma cresce la tentazione di farsi giustizia da soli

Partiva a mezzanotte, la «ronda del piacere». «Noi invece a quell´ora siamo già a letto, o comunque a casa. E se piove non usciamo nemmeno perché a mandare via dalla strada i tunisini che spacciano, bevono, bivaccano, urinano e fanno tutto il resto sui marciapiedi ci pensa già l´acqua che cade dal cielo. Sì, noi facciamo le ronde, ma per favore non usi questa parola. Scriva: passeggiate notturne per la legalità e il recupero del territorio». Paolo Manfrin, capo del comitato Stanga a Padova (nel 2005 eletto consigliere comunale con lo Sdi nel centro sinistra e oggi «per quanto possibile lontano dalla politica») in fondo è un uomo fortunato. «Sì, l´altra sera con la nostra ronda, insomma, con la nostra passeggiata abbiamo preso uno che stava scappando. L´abbiamo consegnato subito alla polizia». Il racconto ricorda le vecchie barzellette con un italiano, un americano… «Siamo lì vicino alla stazione - racconta Paolo Manfrin - e mentre ancora ci stiamo preparando vediamo tre persone che scappano da un bar. Dietro, a inseguirli, due cinesi, proprietari del locale. I primi due sono fuggiti, il terzo è caduto e uno della nostra ronda, un bravo senegalese, lo ha fermato. Poi è stato bloccato dai vigili urbani - erano lì anche loro - e consegnato alla polizia della stazione. Era un italiano, come gli altri due non aveva pagato il conto».
C´era anche Mohamed Lamine Diallo, senegalese, quella sera in ronda. «E tornerò a fare servizio - dice - perché la sicurezza è importante per gli italiani ma ancor di più per noi stranieri. Non a caso, in ronda, ci sono romeni, amici del Camerun, nigeriani, egiziani e noi senegalesi. La ronda serve a fare stare tranquilli, e dunque meglio, i cittadini. Fra i cittadini ci sono anche quelli arrivati come me da Paesi lontani. Allora anche noi ci dobbiamo impegnare per questa sicurezza che fa bene a tutti».
Basterebbe una fotografia della situazione padovana, per raccontare il gran bailamme delle ronde che stanno percorrendo l´Italia. Nel comitato della Stanga - è il quartiere con via Anelli, la strada del muro - ci sono anche i sotto comitati di Pescarotto («sono lì gli anziani che abitano nelle villette e non escono mai perché la strada è occupata dai tunisini», racconta il capo Manfrin) e di Piovego, «dove ormai da anni gli abitanti si chiudono nei loro appartamenti per paura degli spacciatori». Oltre al comitato della Stanga nella città patavina c´è poi il ComRes, comitato di commercianti e residenti del centro storico. Questo gruppo ha fatto un passo in più: ha assunto due vigilantes armati, con «basco, occhiali da elicotteristi, giubbotto antiproiettile e pistole». Il loro capo, Massimiliano Pellizzari, dichiara: «E´ la gente che li vuole. Siamo tutti stanchi dello spaccio di droga, della criminalità, e dei delinquenti di ogni risma che stanno abbassando la qualità della vita in città. E´ per questo che abbiamo organizzato il piantonamento del territorio». Anche in questo comitato ci sono alcuni stranieri. «Più saremo - dice l´egiziano Mohamed Ahmed - meglio sarà per tutti. Integrarci non vuol dire solo lavorare ma fare parte della società». Le guardie armate non sono piaciute però a chi tutela - e non da ieri l´altro - l´ordine pubblico. Il questore Alessandro Marangoni, alla festa della polizia, ha detto che la sicurezza fai - da - te «propone ricette intossicate di personalismo». Il prefetto Michele Lepri Gallerano non ha digerito la presenza di guardie giurate armate nelle ronde. «Compito degli istituti di vigilanza è il controllo di beni immobili e mobili di proprietà. Non possono sostituirsi alle forze dell´ordine nel controllo del territorio».
Ma la ronda fai - da - te impazza sull´intera penisola e non è difficile prevedere che, con tanti che si appuntano da soli la stella da sceriffo sul petto, presto arriveranno guai seri. A Pignataro Interamna, presso Frosinone, l´altra mattina all´alba è stato bloccato un albanese di 25 che stava tentando un furto in un appartamento. «Abbiamo chiamato i carabinieri - hanno detto «i ragazzi della ronda» - per farlo arrestare, ma qualcuno avrebbe voluto «divertirsi» un po´ prima di consegnarlo alla giustizia. Se le forze dell´ordine non riescono a tutelarci, allora faremo da soli». A Bari sotto la lente delle ronde ci sono i ragazzini. Genitori in scooter - la prima uscita c´è stata sabato sera - alla ricerca di bulletti. Primo risultato: due tredicenni che si stavano prendendo a pugni sono stati accompagnati in questura. Mentre la ronda era in missione, qualcuno è entrato nella sede dei genitori - vigilantes e ha rubato 500 euro. A Firenze sta per partire la ronda di Alleanza nazionale, subito giudicata «una puttanata» dall´assessore - sceriffo Graziano Cioni, quello dell´ordinanza anti accattoni in sosta sui marciapiede. Critiche anche da Forza Italia. Inutile - dice il segretario Alessio Bonciani - istituire le ronde: un telefonino per chiamare la polizia ce l´abbiamo tutti». Ma i ragazzi di Azione Giovani (900 i tesserati fiorentini) già fremono. Nel loro circolo, con i manifesti del Duce, per salutare non stringono la mano ma afferrano l´avambraccio. «Come facevano i legionari romani: la mano può scivolare». Ci sono anche le ragazze. «Gli zingari non ci piacciono, ci impauriscono. Come i molestatori di donne». Aspettano di poter indossare la pettorina e andare in giro «a sorvegliare la città».
Le ronde affascinano anche la sinistra. A Bologna la prima idea di costruire gruppi di volontari - vigilantes di quartiere e in zona universitaria (con bando comunale per la selezione e la formazione) è venuta all´assessore alla sicurezza Libero Mancuso, della giunta di centro sinistra. Ma nelle strade si è creato un vero e proprio ingorgo, con ronde partite o annunciate di An, Lega nord e City Angels. Poi la Lega si è ritirata per lasciare spazio ai City Angels ma anche questi ultimi hanno rinviato le loro ronde «per colpa della politica che rischia di invadere il campo e creare sovrapposizioni che possono confondere la gente». A Reggio Emilia c´è un sindaco, Graziano Delrio, che è fra i pochi a non volere i pattuglianti da strada. «Per presidiare il territorio basta coinvolgere il mondo dell´associazionismo volontario». Ma intanto ha creato la figura del «Security manager» per il Comune ed ha assunto Antonio Marturano, generale dei carabinieri in pensione. Il deputato della Lega Nord Angelo Alessandri si è arrabbiato. «La sinistra ci copia sempre le idee».

Repubblica 19.5.08
Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, del Pd
"Smettiamola di fare i poeti la gran parte dei rom delinque"
Stato inesistente La rivolta di Ponticelli? I criminali vanno espulsi dall´Italia


NAPOLI - In due anni ha smantellato gli accampamenti Rom all´esterno dello stadio Arechi, ha cancellato i lavavetri, ha setacciato le aree occupate dalle prostitute, ha fornito i vigili di manganelli. Così Vincenzo De Luca, sindaco del Pd di area Ds, guida Salerno, seconda città della Campania.
Sindaco, il suo pugno di ferro dimostra che si può difendere una città anche senza lo Stato?
«Il Comune può essere presente sul territorio ma da solo non basta. Il governo deve procedere rapidamente con decreti legge. Parcheggiatori abusivi, prostitute, extracomunitari. Oggi c´è il solo foglio di via, violato il quale non accade nulla. Per avviare l´espulsione occorre una condanna penale. Occorrono decreti legge e finanziamenti».
Si sente isolato?
«La drammatizzazione estrema di oggi è causa dei ritardi di uno Stato inesistente. I cittadini hanno percepito una situazione di abbandono, di non protezione rispetto alle esigenze elementari. Questa la realtà. Uno Stato che non c´è. Una diffusione della violenza a livelli mai visti, una sensazione di impotenza del cittadino normale in un clima di frustrazione delle forze dell´ordine per un´inadeguatezza di mezzi rispetto agli obiettivi».
Parla dei due anni di governo del centrosinistra?
«Negli ultimi due anni c´è stato un aggravamento ma i comportamenti anche prima non sono stati all´altezza. Anche l´operazione del poliziotto di quartiere della destra è stata propagandistica e inutile. Ultracinquantenni che scendevano dalle auto per fare cento metri a piedi e sedere da qualche parte».
E l´ex ministro Giuliano Amato?
«Con lui c´era la consapevolezza nuova del problema ma il quadro politico non ha consentito di intervenire per aumentare la sicurezza nelle città. Uno dei motivi della sconfitta elettorale del centrosinistra».
Come giudica la rivolta contro i rom di Ponticelli alla periferia di Napoli?
«Partiamo dalla realtà e smettiamola di fare i poeti. La maggioranza dei rom delinque. Come vivono? La mia verifica sul territorio dice che rubano auto, rubano nelle auto, rubano negli appartamenti, rubano anche i tombini nelle strade periferiche. Oltre, ovviamente, ai reati più gravi, dalle aggressioni ai tentativi di rapimento. Questi criminali vanno espulsi dall´Italia».
E i rom onesti?
«I rom che vogliono vivere onestamente devono entrare nei percorsi di inserimento sociale e scolastico dei propri figli con il massimo di attenzione da parte dello Stato per favorirne l´acquisizione di moduli di vita civile».
(o. l.)

Corriere della Sera 19.5.08
Disoccupati record ed estrema destra al 31%
Gli incubi di Bargischow la cittadina tedesca del «nazismo realizzato»
I giovani giocano alla «caccia all'ebreo»
di Danilo Taino


BARGISCHOW (Germania) — Anche da queste parti i ragazzi delle scuole medie giocano a rincorrersi. Ma non lo chiamano Fangen Spiel, come nel resto della Germania. Per loro è Judenklatschen, più o meno «becca l'ebreo»: basta toccarlo, il fuggiasco, non serve sparargli, ma già il nome racconta parecchio di questo angolo nordeuropeo. Sì, c'è un problema a Bargischow, sei chilometri dal Mar Baltico e 30 dal confine con la Polonia, e nelle zone attorno, Pomerania dell'Est, Prussia profonda. Non è solo il fatto che il partito neonazista, Npd, in questo piccolo villaggio agricolo prende il 31% dei voti: è che qui trionfano, soprattutto tra i giovani, uno stile di vita, un'ideologia e un controllo sociale che somigliano a quelli dei tempi tragici del regime hitleriano. La democrazia, la libera impresa e la libertà stessa sono concetti sconosciuti, astrazioni, in un pezzo di Germania che prima è stato dominato dagli Junker, i signori della terra, poi dai nazisti e infine dal regime di socialismo reale della Ddr. Risultato: oggi, 2008, non siamo ancora al «nazismo realizzato», ma se il governo di Berlino e il resto del Paese più potente d'Europa continueranno a essere disinteressati e latitanti, forse ci si arriverà. Una pianura trascurata dallo sviluppo, dal capitalismo, dalla modernità e dalla politica. Nella ricca Germania.
«Non so se si possa definire una cultura nazista quella dei giovani di Bargischow — dice Ulrich Höckner, berlinese dell'Est, responsabile della Caritas nella regione —. Certo è che talvolta organizzano feste con canzoni naziste.
Si incontrano per rendere omaggio al monumento della guerra. Occupano la casa della gioventù con propositi di destra. Promuovono feste dello sport militare e del raccolto. Uccidono e macellano i maiali per essere vicini alla tradizione tedesca della terra. Tengono concerti patriottici. Propongono corsi di educazione politica. Festeggiano persino il compleanno di alcuni gerarchi di Hitler. Non parlano mai di Polonia, di là dal confine, ma di terra tedesca occupata dalla Polonia».
Höckner, 52 anni, era ingegnere ai tempi della Germania Est. Ma dissidente, quindi senza lavoro e qualche volta in galera. Si avvicinò dunque alla Chiesa, si laureò in pedagogia sociale e per questa via è arrivato, una decina di anni fa, alla Caritas e a Bargischow. Ci vive tra minacce e ostracismo, assieme alla moglie bibliotecaria e a cinque figli. Campagna brulla, terra sabbiosa poco coltivata da quando la cooperativa socialista è fallita, all'inizio degli anni Novanta. Nelle vicinanze, una fabbrica di zucchero. Nient'altro. «La disoccupazione ufficiale è al 21% — racconta —. Ma se si considerano gli ein euro jobber
(lavoratori "socialmente utili" da un euro l'ora, ndr) si arriva al 40%. Ci sono un po' di posti nell'amministrazione pubblica, nelle opere di ecologia, un po' nel turismo sulle isole del Baltico. Il resto è frustrazione e sussidi pubblici». Pomerania dell'Est depressa. Come a Bargischow, stesse condizioni nelle vicine Demmin, dove il 14% dei ragazzi lascia la scuola dell'obbligo senza arrivare al certificato finale, e Uecker-Randow, il paese con la percentuale più alta di uomini di tutta la Germania, perché le donne sono scappate.
Anche i partiti tradizionali — i gloriosi Cdu e Spd — sembrano fuggiti, negli ultimi anni. Persino Karl Heinz Thurow, sindaco di Bargischow dal 1996, ha lasciato la Cdu. «La gente è delusa dai governi di Berlino — dice —. Dalla caduta del socialismo, hanno votato Cdu, niente; hanno votato Spd, niente; ora provano con l'Npd. Ma non sono scelte politiche, è protesta. Tra l'altro, molti non votano, e questo fa aumentare le percentuali del partito neonazista». Vero, conferma Höckner, «i partiti non si vedono, si vedono solo le manifestazioni di cameratismo», quelle che poi portano voti al partito. «La Npd da sola non sarebbe un grande problema — aggiunge —. Il fatto è che collabora con organizzazioni sociali di destra della zona, l'Alleanza patriottica della Pomerania, l'Alleanza social-nazionale della Pomerania e cose del genere. Gente violenta, che alla fine vota per i neonazisti perché sono gli unici che parlano a voce alta dei problemi in quest'area». La gente ha paura, racconta Höckner. Pochi reagiscono alle intimidazioni dell'estrema destra, gli altri abbassano la testa. Il dramma è che nessuno ha idea di come arginare la tendenza. «In Germania — sostiene il sindaco Thurow — c'è un programma di intervento per fermare la destra, ma per l'intero Paese sono stati stanziati 24 milioni di euro, niente. A Berlino, evidentemente, non considerano pericoloso questo estremismo». «Non vedo un meccanismo capace di fermarli — dice Höckner —. A Wolgast, non lontano da qui, il sindaco ha fatto moltissimo contro l'Npd, eppure il 15% dei cittadini ha votato comunque i neonazisti. È una tendenza, una radicalizzazione culturale contro la democrazia». Disperazione sociale finita in una rete di nazionalismo, di miti della terra, di demagogia. Ma non solo.
«C'è anche la storia — aggiunge l'uomo della Caritas —. Qui, nessuno è stato mai responsabile del proprio futuro, nessuno ha mai avuto una proprietà, ha mai preso un'iniziativa, ha mai espresso un'opinione. E ciò ha provocato una totale mancanza di identità, una debolezza esposta a qualsiasi vento». Il futuro, aggiunge, «da queste parti rischia di diventare ancora più triste». Più di un innocente gioco di bambini ad acchiapparsi.

Corriere della Sera 19.5.08
Caccia A Johannesburg 12 persone uccise. Attaccati profughi dello Zimbabwe
Sudafrica, il linciaggio degli immigrati


«Non sono fuggita dallo Zimbabwe per vedere morire i miei bambini nel libero Sudafrica. Sono pronta a tornare indietro ». In questo grido di dolore, registrato dal Mail and Guardian, c'è il dolore e la delusione che si vivono in queste ore a Johannesburg, capitale economica della patria di Nelson Mandela. Caccia agli immigrati, neri contro neri: da venerdì almeno 12 persone sono rimaste uccise. I linciaggi scoppiati nella bindonville di Alexandra si sono diffusi in altre zone, compreso il centro cittadino. Negozi saccheggiati, baracche date alle fiamme. Ieri pomeriggio 5 persone sono morte nell'area di Cleveland: due bruciate vive, tre uccise a bastonate. In 50 sono finiti all'ospedale con ferite da coltelli e armi da fuoco.
In pieno giorno mille clandestini dello Zimbabwe si erano rifugiati in una chiesa metodista, poi attaccata da bande di sudafricani armati che fortunatamente non hanno causato vittime. Il vescovo Paul Veryn ha lanciato un appello alla radio: «Situazione gravissima, la polizia ha perso il controllo». Quando è sceso il buio, centinaia di immigrati si sono riversati nelle stazioni di polizia per ripararsi. Molti, dopo aver perso i pochi averi conservati nelle baracche, temono per la vita. La Croce Rossa sta fornendo assistenza a chi ha perso tutto.
La violenza xenofoba è cominciata una settimana fa, quando gruppi armati hanno setacciato Alexandra al grido di «via gli stranieri». Le tensioni sono molto alte in Sudafrica: milioni di stranieri (soprattutto da Zimbabwe, Mozambico, Malawi) si sono riversati nel Paese dopo la fine dell'apartheid diventando spesso capri espiatori per le masse di sudafricani delusi dalla lentezza dei miglioramenti. Le forze dell'ordine sono state colte di sorpresa dalle violenze di questi giorni. Ieri il presidente Thabo Mbeki ha annunciato che una commissione investigherà sulle violenze. Jacob Zuma, leader dell'Anc (il partito di governo): «Non possiamo permettere che il Sudafrica diventi famoso per la xenofobia».

l'Unità 19.5.08
Soglie e alleanze.Oggi incontra Fava, neo-leader di Sinistra Democratica, nei giorni scorsi sentito Bertinotti. Il Pd:«No alla microdispersione»
Veltroni, sul nodo Europee prove di dialogo con la sinistra radicale


Ascoltare le novità e recuperare un livello accettabile di dialogo: dopo l’abisso del 13 aprile e il seguito di polemiche anche feroci tra sinistra radicale e Pd, Veltroni prova a ricucire. Nei giorni scorsi aveva sentito Bertinotti, questa mattina il leader del Pd vede Claudio Fava, neosegretario di Sinistra Democratica succeduto a Fabio Mussi. La linea non cambia, il Pd non insegue alcun ritorno alle allenze-contro, però c’è da rimuovere un muro di diffidenza e di rancore, cresciuto, se possibile, dopo che si è parlato di cambiare la legge elettorale per le europee: la Destra vuole uno sbarramento al 5%, anche per tagliare fuori del tutto l’Udc, Veltroni parla del 2-3%, che è una cosa molto diversa, ma non sufficiente a dissolvere le nubi nel rapporto con la sinistra radicale.
Il primo problema sulla strada del dialogo, dicono al Pd, è capire come si muoveranno le forze della Sinistra Arcobaleno uscite sconfitte dal voto di un mese fa. Veltroni ha detto a più riprese che il Pd si farà carico di interpretare anche le domande di quel mondo che non ha più rappresentanza parlamentare, ma sa che dal punto di vista elettorale le cose sono complicate: sul Pd è rifluita una quota di elettori della sinistra radicale che solo in parte resteranno nella nuova casa, soprattutto in mancanza del voto utile, come è alle europee. «La soglia del 2-3% che noi proponiamo per queste elezioni, dicono al Pd, non solo è nella media delle leggi elettorali europee degli altri paesi, ma ha l’unico scopo di evitare la microdispersione, impedendo che abbiano accesso a Strasburgo forze non rappresentative e che non hanno alcun contatto coi grandi gruppi politici presenti lì». Il Pd dovrebbe presentare la proposta già maturata la scorsa legislatura e su cui potrebbero essere d’accordo sia Di Pietro che Casini, il quale è molto preoccupato per le manovre del Pdl. Il punto è se la maggioranza in mancanza di un accordo con il Pd volesse andare avanti da sola.
In ogni caso la soglia del 2-3% di cui si parla al Pd non impedisce alla Sinistra Arcobaleno di mandare rappresentanti a Strasburgo, e non lo impedisce a Rifondazione comunista nel caso andasse da sola. Penalizzerebbe soltanto Verdi, Pdci e Sinistra democratica se andassero in ordine sparso. Per questo il primo obiettivo di Veltroni è capire che futuro si vuol dare quell’arcipelago ed è di questo che parlerà con Claudio Fava. Vale ancora la minaccia della sinistra radicale di abbandonare tutte le giunte locali in cui sono al governo col Pd? La minaccia, per la verità, non viene presa sul serio, «perchè così - dicono al loft - perderebbero gli elettori residui». Però un problema di alleanze c’è anche in vista della tornata amministrativa del 2009 e non è un mistero che una parte del Pd, a cominciare da Bersani, insiste perchè questo nodo non venga sottovalutato nemmeno nei posti dove i democratici e l’Idv sono larga maggioranza. Ai parlamentari Veltroni aveva detto che sulle alleanze si sarebbe scelto a livello locale, come avviene per qualunque partito federale. Al coordinamento nazionale il leader del Pd ha raccolto le preoccupazioni di molti e ha ribadito che vocazione maggioritaria significa non andare da soli ma impostare un programma e in base a quello valutare le alleanze.
Il tema delle legge elettorale europea, peraltro, fa parte del dialogo sulle regole avviato da Berlusconi e Veltroni ma si sa quante incognite circondano quel tavolo. Nicola Latorre ricorda che il dialogo deve riguardare le regole del gioco nel loro complesso e non sono ipotizzabili accordi separati su singoli spezzoni, ad esempio la legge elettorale e i regolamenti parlamentari. Tema difficile, visto che per alcune riforme istituzionali servono anni di lavoro, mentre per cambiare la legge elettorale per Strasburgo ci vogliono pochi mesi. Paolo Gentiloni, ad esempio, ammette che ci sono grandi rischi in questo dialogo, ma anche che l’opportunità di riforme condivise non vada dispersa. Veltroni, pare, ha accolto con sorpresa le obiezioni di quanti gli chiedono di parlare con Berlusconi anche di diritti e sicurezza. «La nostra non è una trattativa privata, ma un confronto sulle regole del gioco, su tutti i temi oggetto dell’azione di governo noi faremo opposizione, non accordi separati». b.mi.

Repubblica 19.5.08
Vendola, candidato leader del Prc: il voto ha premiato gli spiriti animali del paese, serve lavorare nel sociale e nelle istituzioni
"Quest'Italia è brutta, ma è sbagliato fuggire"


ROMA - Nichi Vendola, governatore della Puglia e candidato leader del Prc: davvero meglio fuori dal Parlamento?
«Non è vero che non ci sia alcuna relazione fra la vita quotidiana e il voto. Hai voglia. Il risultato delle ultime elezioni ha mostrato, non solo a noi della sinistra ma a tutti, il volto di un´Italia sconosciuta. Un´Italia di destra. Il voto rimanda una fotografia di quel che è accaduto nel nostro paese, e al tempo stesso la moltiplica: ecco gli spiriti animali che si liberano dopo il risultato, gli assalti ai campi rom».
Se il voto è lo specchio del paese, bisogna stare dentro le istituzioni per cambiarle.
«Di fronte alla crisi della sinistra, il dibattito che si è aperto come ha notato la Rossanda in fondo si può ridurre a due sole ricette: puntiamo tutto sul sociale, sul radicamento oppure al contrario bisogna ricostruire il campo politico? Credo l´uno e l´altro. E la rappresentanza parlamentare è funzionale a questo disegno».
Certo, se la democrazia è ridotta ad un feticcio, finta...
«L´estremismo paradossale e schematico di Bifo è un modo per scardinare i luoghi comuni. Fatta questa premessa, davvero la democrazia nel nostro paese si è indebolita».
Scoprite improvvisamente un paese a rischio?
«Io parlo di indebolimento. E va avanti da tempo. Per esempio, con la delocalizzazione dei poteri reali, dal Wto al Fmi, senza controlli democratici. La crisi delle agenzie formative classiche (scuola e famiglia) surrogate dalla tv, con risposte totalitarie nella formazione delle coscienze. Ma l´esodo dalla democrazia non è certo la risposta alla crisi della democrazia».
Non sarà che lanciate l´allarme perchè siete scomparsi dalle Camere?
«Quella semmai è una conseguenza, non l´origine. La debolezza sta nel fatto che nel nostro paese i corpi sociali sono stati schiantati. I lavoratori sono soli. E´ l´Italia della mucillagine, per dirla con De Rita. Delle piccole corporazioni. Dei clan. Degli interessi particolari, territoriali. Così si sfibra la democrazia. E nei luoghi della rappresentanza non c´è tensione ideale».
(u. r.)

Repubblica 19.5.08
"Democrazia falsa, feticcio inutile" la sinistra tra Parlamento e piazza
Parlato e Bifo scuotono i "desaparecidos" dell'Arcobaleno
di Umberto Rosso


Rinaldini, leader Fiom: grave errore consolarsi dicendo che è inutile stare nelle istituzioni
Lo storico Revelli: in effetti risolve più il volontariato della militanza politica

ROMA - Provocazione: «La democrazia è un feticcio, liberiamocene». Ergo, facciamo festa, molto meglio che la sinistra resti fuori dal Parlamento. L´ha lanciata su Liberazione "Bifo" Franco Berardi, che di assalti un po´ dadaisti è uno specialista, visto anche che qualche tempo fa sullo stesso giornale aveva menato scandalo con la teoria "meglio Berlusconi del governo Prodi". Però si scopre che in sincrono sul manifesto Valentino Parlato se ne esce mettendo sotto tiro «una democrazia che non è mai stata così falsa come ora». E quindi, interrogato sul punto per chiarimenti, spiega di non aver dubbi sul fatto che nel nostro paese «c´è stata più democrazia negli anni cinquanta e sessanta che oggi, anzi ce n´era di più ai tempi di Giolitti come dimostra nel suo libro anche il mio amico Ciocca». L´ex direttore del manifesto non arriva a celebrare la scomparsa parlamentare della sinistra come fa Bifo, «che facciamo se no, i soviet?», ma si scopre che il sasso «democrazia addio» lascia segni profondi nello stagno della sinistra radicale. Lo storico Marco Revelli, intellettuale assai ascoltato da Bertinotti, lo dichiara e lo studia da tempo. In due parole: democrazia malata. Perché come altro la puoi chiamare «una democrazia che a Genova tortura i giovani e non succede nulla», e come altro la puoi chiamare se «scatta l´assalto ai rom, fiamme e spranghe, e nessun politico dice una parola di condanna?». Appunto, democrazia malata. O magari, se si preferisce, «curvatura oligarchica» della rappresentanza come la definisce in un capitolo del suo ultimo libro, dedicato proprio ad una sorta di cupio dissolvi della democrazia nell´ultimo ventennio. Perché, e lo dice da studioso, non è mica una critica dell´ultima ora, scattata adesso solo perché la sinistra arcobaleno è rimasta fuori dalla porta del Parlamento. «Lo scollamento fra politica e paese reale va avanti da tempo, in tutto il mondo. Certo, l´Italia è particolarmente sgangherata, paese di surreali giochi di specchi. Berlusconi che fa il mimo di Veltroni attraverso la caricatura che ne è fatto un comico tv».
E siamo messi così male in questo teatrino della politica, tutta forma e niente sostanza di partecipazione, che per Revelli ormai «può risolvere di più il volontario che la militanza politica». Se non siamo alla provocazione di Bifo, fuori la sinistra dalle Camere e dintorni, poco ci manca. Anche perchè, e qui torniamo al ragionamento di Valentino Parlato, si stava meglio quando si stava peggio in quanto «c´erano i partiti, la Dc con la sua organizzazione, che certo non è la plastica di Forza Italia. C´era il sindacato. In una parola, c´erano i conflitti. Questo produceva democrazia. Tutto sparito oggi. Vedi come viaggia la controriforma del contratto nazionale di lavoro». Il sindacato, allora. Gianni Rinaldini, il leader della Fiom di questi tempi impegnato nell´ennesimo braccio di ferro con Epifani, il capo dei metalmeccanici che qualcuno vedrebbe bene domani a capo di una rinata sinistra. Ecco, come fare per riprendere il largo, tutto sul sociale e addio per sempre alla politica e alle istituzioni svuotate? Calma, distinguiamo. «La democrazia parlamentare è indebolita, così come lo stato-nazione, non c´è dubbio. Colpita e bypassata da grandi organismi finanziari, dalla Banca mondiale al Fondo monetario, privi di fatto di controllo». Ma attenzione a trarne conclusioni sbagliate, per la serie appunto restare fuori dal Parlamento. «Sarebbe un grave errore per la sinistra. Non è affatto irrilevante, per modificare le situazioni, una presenza negli organismi elettivi. Chi sostiene il contrario fa solo un´operazione consolatoria». Ovvero? «E´ come dire: siccome siamo stati sconfitti, allora teorizziamo l´assenza e il vuoto. Così non hai nemmeno bisogno di interrogarti sulle ragioni della batosta».

l'Unità 19.5.08
Niscemi, necessario un lavoro di rieducazione
di Luigi Cancrini


I ragazzi di Niscemi che hanno confessato di aver ucciso e gettato in un pozzo la loro compagna di 14 anni non sono troppo giovani per aver compiuto da soli un gesto così atroce? È possibile che siano arrivati a tanto? La loro è una patologia? La psichiatria ha una risposta per un caso come il loro se le cose sono andate così? Che cosa proporresti di fare, in un caso analogo?
Franco S.

Possibile sì perché è accaduto: anche se è difficile ammetterlo. Che la condotta di questi tre ragazzi sia stata patologica, ugualmente, mi sembra fuori di dubbio. Sul che fare con loro, sulle origini e sul possibile decorso di una patologia come questa oggi, le ricerche fatte nel corso di questi ultimi trent’anni propongono la possibilità, invece, di dire qualcosa in più di quello che si dice nei "normali" talk show televisivi. Su tre punti fondamentali. Il primo di questi punti, a lungo controverso, riguarda l’origine non genetica dei comportamenti legati all’antisocialità e, più in generale, ai disturbi di personalità. Siamo lontani, oggi, dalle ipotesi di Lombroso che collegava all’eredità e alle caratteristiche somatiche dell’individuo la sua tendenza a commettere dei delitti. C’è una letteratura ampia e concorde (consultare il bellissimo libro a cura di J.F.Clarkin e M.F.Lenzenweger "I Disturbi di Personalità", Cortina Editore) a dimostrare che quelle legate all’eredità sono alcune caratteristiche normali del temperamento (quelle che ci fanno normalmente diversi l’uno dall’altro contribuendo, come i lineamenti del volto, a darci una fisionomia psicologica particolare), non gli aspetti patologici (come in questo caso) del carattere e della personalità. Le origini di questi aspetti patologici vanno ricercate, infatti, nella storia personale dell’individuo. È nei contesti interpersonali familiari e sociali in cui il bambino viene cresciuto ed in cui l’adolescente delinea una sua autonomia ed identità che si definiscono, infatti, l’orientamento, la forza e la flessibilità di quello che sarà poi il senso morale dell’adulto. Sono le esperienze vissute nel corso di una infanzia negata o di una adolescenza sbagliata quelle su cui si struttura quel tipo di segnaletica interna cui ci riferiamo tutti parlando di coscienza: come ben indicato già negli anni 30 e 40 dai primi allievi di Freud (dalla figlia Anna, in particolare, e da August Aichorn) e come dimostrato anche sperimentalmente, oggi, da studi come quelli di Otto Kernberg, di Lorna Smith Bejiamin e di tanti altri che si sono occupati di questo problema. Ma come confermato quotidianamente, soprattutto, dalle esperienze di chi si confronta da una parte con i bambini abusati, maltrattati o gravemente trascurati e, dall’altra, con le persone che soffrono di disturbi gravi di personalità (e oggi, in particolare, di alcolisti, tossicodipendenti e autori di reati contro la persona): proponendo (io lo faccio di continuo insegnando ai più giovani e scrivendo: occupandomi ad esempio di Oceano Borderline, Cortina Editore) che il modo migliore di occuparsi del bambino che soffre è quello di immaginare l’adulto che ne verrebbe fuori se non si intervenisse terapeuticamente e che il modo migliore di occuparsi del giovane o dell’adulto che propone questo tipo di comportamenti patologici è quello di immaginare il bambino spaventato e infelice che si nasconde dietro di loro. Il secondo di questi punti, altrettanto e forse più importante, è quello che riguarda la reversibilità di queste condizioni. Una reversibilità nota già da tempo per quello che riguarda gli adolescenti per cui i manuali diagnostici sconsigliano di porre diagnosi definitive ben sapendo la facilità con cui, in una età compresa più o meno fra i 12 ed i 20 anni, si esce e si entra dalla patologia in rapporto al mutare dei contesti e delle esperienze vissute. Una reversibilità scientificamente ben dimostrata (lo studio longitudinale di Toronto in Canada su 640 ragazzi con problemi seguiti dai 13 ai 18 anni) che rende un po’ ridicola e comunque desueta la convinzione di genitori, educatori, uomini di legge e (purtroppo) psichiatri convinti dell’origine congenita della "cattiveria" e della "devianza" abituati a vedere, nelle condotte patologiche di un ragazzo o di una ragazza, come la prova evidente di una sua immutabile patologia: come accade, ancora, ai figli di tante famiglie "normali" ma come accade oggi in modo drammatico nel caso delle adozioni che vanno male. Ma una reversibilità dimostrata, oggi, anche a proposito degli adulti dove le ricerche longitudinali (quelle, costose e difficili, che seguono per anni il decorso di un certo disturbo) propongono l’idea per cui i disturbi di personalità, gravi al punto da aver richiesto dei ricoveri psichiatrici, scompaiono in una percentuale di casi vicina al 50% dopo 4 anni ed in una percentuale di casi superiore al 70% se li si valuta a distanza di sei anni. Aprendo prospettive straordinarie alla possibilità di utilizzare degli interventi terapeutici efficaci, soprattutto se di livello psicoterapeutico, in situazioni di devianza carceraria o psichiatrica considerata da molti "esperti" (e da molto "senso comune") come senza speranza. Il terzo di questi punti, particolarmente importante qui, nel caso dei tre ragazzi di Niscemi, è quello legato alla gravità del reato che hanno commesso. L’equivoco da dissipare subito è quello per cui le finestre aperte da una riflessione psicoterapeutica sulle esperienze traumatiche, lontane o vicine, di chi ha commesso un reato, sono l’espressione di una tendenza alla giustificazione retrospettiva di tale reato. Tutto al contrario, chi si occupa di psicoterapia di casi come questi deve partire sempre dall’idea per cui i meccanismi difensivi basati sulla negazione e sulla autogiustificazione ("non sono stato io", "non volevo", "la colpa è di chi mi ha provocato o di chi non mi ha insegnato cose giuste") sono ostacoli fra i più importanti sulla strada del cambiamento. Mettere a fuoco nella propria mente e nel proprio cuore l’altro e la gravità del danno che gli si è procurato è doloroso ma fondamentale nel processo di elaborazione del lutto che l’autore di un reato grave è, che se ne renda conto o no, deve vivere fino in fondo se è arrivato a colpire o ad uccide: un lutto legato alla perdita di una immagine non più recuperabile del Sé. In un caso così, quello che si dovrà fare (e si può fare: il nostro sistema penale minorile funziona spesso ad un buon livello) è un lavoro di rieducazione portato avanti da persone con competenze psicoterapeutiche sviluppato all’interno di luoghi adatti (il carcere minorile prima e la Comunità dopo): coniugando la pena collegata alla perdita temporanea della libertà ad un aiuto centrato sulla riattivazione delle parti sane di questi poveri ragazzi. Sapendo che il delitto che hanno commesso li segnerà per sempre ma sapendo anche che questo non impedirà loro di ritrovare sé stessi ed il loro progetto di vita.

Corriere della Sera 19.5.08
La scelta della regista. L'ex consigliere Rai: ho sempre votato a sinistra però il premier è l'unico tentativo che ci resta. Dobbiamo superare i sospetti reciproci
La Cavani: sto con Celentano, il Cavaliere va sostenuto
«Basta col sarcasmo di Moretti. Come per l'alluvione di Firenze all'emergenza si va tutti insieme, senza distintivi»
di V. Pic.


ROMA — «Quando ci fu l'alluvione di Firenze partirono tutti. Senza distintivi. Di fronte all'emergenza si va tutti insieme». Anche Liliana Cavani, un'icona della cinematografia di impegno sociale, autrice di capolavori come Portiere di notte e da sempre vicina alla sinistra, sceglie la fiducia. E tra Celentano, che ieri sul Corriere della Sera invitava a credere nel cambiamento di Silvio Berlusconi, e Nanni Moretti che da Cannes diceva «per me per 15 anni Berlusconi è stato pessimo. Mi sembra difficile che cambi qualcosa», non ha dubbi: «Io sto con Celentano».
Perché? «Stimo Moretti, ma non è il momento dei rimproveri, né del sarcasmo. È il tempo dell'incoraggiamento », dice la regista, impegnata nella ripresa della sua Traviata
alla Scala. «Oltretutto — aggiunge — Moretti dovrebbe ricordarsi che se fa quegli apprezzamenti negativi da Cannes fa notizia e i francesi sono ben contenti». Tacere cambierebbe qualcosa? La regista non si pone il problema. «L'intesa è indispensabile — dice con forza —. Siamo di fronte a emergenze terribili, come la legalità, la spazzatura a Napoli, la mafia. Quindi piuttosto che ricorrere all'ironia è meglio usare parole di sostegno per chi ci prova».
Quello a cui Moretti non crede è che Berlusconi sia la persona adatta a farlo giacché, fra l'altro, come ha sottolineato ieri a Cannes, «ha tre televisioni e forse anche di più, viste certe intercettazioni con i dirigenti Rai, cosa democraticamente scandalosa ». Ma per l'ex consigliere di amministrazione Rai serve realismo: «È l'unico tentativo che ci rimane. La criminalità, l'immondizia, non sono problemi né di destra né di sinistra, ma di tutti. Con la volontà di tutti potremmo riuscire a sconfiggerli. Come fu per l'alluvione. E come ha fatto la Germania. Forse sarò anche ingenua. Ma mi viene in mente De Gasperi che riuscì a far collaborare tutti per superare le difficoltà del Paese. Mi piacerebbe un politico super partes che riuscisse a risolvere le emergenze».
Berlusconi lo vede così? «No. Ma non si può perdere il tempo solo a litigare. Bisogna superare i sospetti. Loro li devono superare nei nostri confronti. E noi verso di loro». Per la regista di Al di là del bene e del male ede La pelle sperare in Berlusconi in questo momento è un «dovere».
Un'idea maturata dopo le elezioni. «Non sono mai stata un'ideologa della sinistra, però l'ho sempre votata. Ma lui ha vinto le elezioni e ha avuto il mandato istituzionale per fare. E poi nella vita si può anche cambiare per amor patrio. In un Paese a istituzioni democratiche si tenta e si ritenta. Solo le dittature non cambiano».
L'impegno della speranza Liliana Cavani lo vuole tenere anche di fronte a cose che spaventano molti della sua area culturale. Primo fra tutti il giro di vite sulla sicurezza. «Non mi piacciono le ronde. Detesto sentirne parlare. Per me la sicurezza deve essere affidata all'autorità pubblica e non privata. Però è vero che occorre ricostruire una fiducia dei cittadini che si sentono insicuri. Insomma l'importante è la buona volontà».

Repubblica 19.5.08
A Torino Canaletto e Bellotto. I grandi maestri del vedutismo


A Torino, cento opere a Palazzo Bricherasio per i due pittori che furono il punto più alto della Venezia del ´700

TORINO. Quando si calano sul panno verde due assi come Antonio Canaletto e Bernardo Bellotto chi si nutre della grande tradizione del vedutismo europeo e del Grand Tour non può che gioire: anche se chi ha di questi vizi innocenti può aver nella testa un ideal-tipo di mostra, che magari non coincide del tutto col banchetto offerto, deve deporre le riserve e godersi lo spettacolo. Ed è questo che a me è capitato in Palazzo Bricherasio, a Torino, dove si tiene "Canaletto e Bellotto. L´arte della veduta" (fino al 15 giugno) con circa cento pezzi tra dipinti e disegni.
I due veneziani sono pittori sommi che hanno rappresentato quanto di più alto ha prodotto la civiltà artistica della Serenissima nel Settecento, ebbero destini incrociati ma assai diversi. Canaletto fu il più celebre vedutista del suo tempo e trovò in Bernardo un assai degno erede e per alcuni anni il giovane attinse avidamente alla «scola» dello zio: suggendo miele dalla sua tavolozza, come solo un artista di talento sa fare. Spostando, in direzione diversa, millimetro dopo millimetro, il suo estro: sicché per anni e decenni la critica s´è industriata, e continuerà a farlo, nell´attribuire all´uno o all´altro questo disegno o questa tela negli anni d´esordio di Bernardo. Quando si lavora gomito a gomito è inevitabile che il più anziano sia maestro al secondo: il nodo di incontrovertibile evidenza si stringe a Roma dove Canaletto andò (forse) una sola volta e Bellotto giunse ventenne nell´inverno del 1742 su «consiglio del Zio», come scrisse Pietro Guarienti nell´Abecedario già nel 1753. Giunge nello stesso anno il giovane Piranesi. Passa Bernardo per Firenze dove dipinge vedute di mestiere, ma è già quella di Lucca una splendida tela che si distacca con forza da Canaletto per l´originalità dell´impianto prospettico e della fredda cromia. Ma è a Roma, con il Tempio di Antonio e Faustina e il Foro romano con i templi di Castore e Polluce, Bellotto è già Bellotto: che i disegni romani redatti con la camera oscura a mo´ dello zio siano poi serviti a questi per alcune tele di soggetto analogo è assai probabile. Il confronto tra i due disegni di Capriccio con motivi classici, medievali e palladiani che la curatrice della mostra Bozena A. Kowalcyk, assegna entrambi al Bellotto, inducono a qualche perplessità: ché il primo è secco come uno staffile, il secondo è pieno di chiaroscuri, sfumato, morbido e canalettiano; condivido invece l´attribuzione a Bernardo del Capriccio con tomba medievale a petto del medesimo soggetto del Canaletto. Non intendo tediare il lettore su questioni di tal tipo, ma per redimere molte inevitabili contese a me pare contributo rilevante quello di Carl Villis in catalogo (Silvana editoriale) che approfondisce i materiali, le tecniche e i procedimenti esecutivi di Bellotto, seguendo una metodica che non è stilistica e morelliana, da conoscitore dall´occhio fino, ma fonda su ragioni compositive più profonde che a me stanno molto a cuore da quando m´occupo di vedutismo. Il confronto tra Bellotto veneziano (Il Canal Grande con il Palazzo Dolfin Manin, 1739) e l´equivalente tela dello zio mi pare molto convincente: Bernardo abbassa l´orizzonte con gli edifici e l´acqua della laguna, in modo da assegnare al cielo uno spazio maggiore, conferendo all´insieme una tensione che è pure esaltata dalla contrazione del Ponte di Rialto e dall´ansioso affollarsi di barche in primo piano. Ma è anche la diversa cromia dei grigo-verdi di Bernardo che si distaccano dai toni rosa e perlacei di Antonio Canal. Mi paiono invece datati gli schemini geometrici proposti da Dorota Folga che seguono quelli di Corboz, ma ignorano il metodo di lettura al computer, implacabile come è lo strumento, che Daniela Stroffolino ha proposto da anni ne La città misurata (Salerno editrice), dando un svolta a questo genere di indagini.
La fortuna di Canaletto si impennò quando il Console Smith, collezionista e mecenate, gli commissionò le dodici vedute del Canal Grande alcune delle quali sono in mostra e che furono vendute nel 1762 alla Corona d´Inghilterra, facendo del veneziano il privilegiato pittore dei Milord e dei Sir che sulla rotta del Grand Tour avevano eletto Venezia a loro capitale ideale. Infatti così come non si contano in Inghilterra le tele di Canaletto, talune tra le più splendide che abbia dipinto nel corso dei lunghi soggiorni londinesi, allo stesso modo l´aristocrazia e la committenza francese lo ignorò o quasi, privilegiando i Guardi che con la loro pennellata veloce ed estrosa, con cieli gonfi di cirri e acque piene di svolazzi e virgole, erano assai più congeniali al rococò di casa, delle tele canalettiane. Esse come corde di violino vibravano su Venezia o su Londra con un´incomparabile armonia alla Vivaldi. Così come l´eco dell´organo di Bach s´ode in tele di Bellotto che si videro al Correr.
Una meraviglia è il Ponte di Walton (1754) di Canal: la struttura in legno delle tre arcate del ponte brillano nel loro biancore alla luce di un sole freddo e oscurato dalle nuvole, in primo piano le lutulente acque verdi del Tamigi solcate da una lunga barca nera, sulla riva si attestano signori che conversano tra loro e un cane corre verso qualcuno. Più statica la veduta col castello di Warwich, con quel grande prato in primo piano ornato di dame e milord e cani come grande vassoio con la più ricca aristocrazia d´Europa.
Bellotto ha altro destino, il destino di un emigrante che si guadagna il pane nelle maggiori corti della Mitteleuropa. Prima di lasciare l´Italia ci lascia memorabili vedute a cui dedicammo una mostra a Verona: con Torino (Ponte sul Po), Milano (Il palazzo dei Giuriconsulti, il Castello Sforzesco), i dintorni come Vaprio d´Adda e Canonica, e un capolavoro come la veduta di Gazzada che tanto innamorò di sé Gadda da volerla in copertina della Cognizione del dolore. Bellotto mise a bottega il figlio che non ebbe il suo talento, ma Bernardo di talento ne ha da vendere e conquistò la corte di Vienna, di Monaco, di Varsavia e di Dresda.
In mostra si vedono due splendidi panorami della città sull´Elba (1751) volti a esaltare i mirabilia architettonici che Federico Augusto re di Polonia e elettore di Sassonia aveva promosso. Morì povero a Varsavia nel 1780; Canaletto era morto nella sua ricca casa in Corte Perina nel 1769, lo stesso anno in cui nasceva Jacob Philipp Hackert, quasi un segno del destino: ché il pennello del veneziano poteva essere preso, come un testimone, nelle mani del più degno erede della veduta nella seconda metà del secolo dei lumi.

Repubblica 19.5.08
Roma. Correggio e l'antico
Galleria Borghese. Dal 22 maggio


Da vedere la prima antologica dedicata all'opera di Antonio Allegri, detto il Correggio, appartenente alla cosiddetta triade rinascimentale, con Raffaello e Michelangelo. La rassegna, curata da Anna Coliva, raccoglie sessanta capolavori, dipinti e disegni, che permettono di rivedere la sua opera, alla luce di nuovi, recenti studi, con l'obiettivo di sottolineare la sua interpretazione delle "forme" romane, appunto a partire dall'antico. Tra i lavori esposti, oltre alla celebre Danae della Galleria Borghese, da segnalare Giove ed Io e Il ratto di Ganimede del Kunsthistorische Museum di Vienna. Le opere a soggetto religioso, come la Madonna del latte di Budapest, documentano invece la maestria di Correggio, come "pittore degli affetti", della grazia, del colore.

Repubblica 19.5.08
Firenze. I Medici e le scienze. Strumenti e macchine nelle collezioni granducali
Palazzo Pitti. Fino all'11 gennaio


La mostra sottolinea attraverso un importante corpus di oggetti, belli e preziosi come opere d'arte, la sensibilità intellettuale dei Medici che non fu rivolta soltanto alla pittura e alla scultura, ma anche alle scienze fisiche e matematiche. Il granducato promosse infatti la conoscenza scientifica e il controllo tecnologico, più di qualunque altro governo europeo, in particolare nel periodo compreso tra Cosimo I e Ferdinando II. Il primo, salito al trono nel 1537 a soli diciotto anni, creò un moderno stato territoriale e patrimoniale, affrancandosi dalla tutela imperiale. Per raggiungere il suo scopo seppe circondarsi di uomini nuovi, provvisti delle capacità tecniche, scientifiche, amministrative e strategiche, adeguate alle nuove esigenze. Il secondo fu invece protettore di Galileo e fondò con il fratello la prima società europea a carattere scientifico, l'Accademia del Cimento.

Repubblica 16.5.08
Il diritto all'aborto e il dovere di praticarlo
di Corrado Augias


Gentile Dott. Augias, mi ha molto colpito la lettera del Dott. Guaragna ginecologo ospedaliero stanco di praticare aborti e, quindi, divenuto obiettore. Non discuto le sue ragioni che reputo sacrosante. Il mio disappunto, nella diatriba obiezione sì obiezione no, è dato dalla mancanza di coerenza e senso di responsabilità dovere da parte dei ginecologi obiettori. Mi spiego meglio: la maggioranza dei ginecologi attualmente esercitanti in Italia, si è specializzata dopo l'entrata in vigore della legge 194; ora, al momento della scelta del «mestiere, presumo avessero ben chiara la differenza tra un ginecologo ed un dentista e quali le responsabilità di uno e quali dell'altro. Se so (o credo...) di non poter uccidere, non intraprendo certo la carriera militare. Perché allora, mi chiedo, si intraprende una carriera professionale che inevitabilmente mi porterà a dover svolgere dei compiti dolorosi? L'aborto è previsto e regolamentato dalla legge italiana, il ginecologo è colui che la legge prevede debba attuare tale pratica, il ginecologo pratica l'aborto. O cambia mestiere.
Cristiano Puddu pudducristiano@tiscali.it

Sono meno severo del signor Puddu. Capisco e ammetto che un medico possa cominciare quel mestiere per poi rendersi conto di non sopportare più un certo tipo di interventi. Tra questi l'aborto, che va certo fatto dai medici per evitare gli scempi compiuti delle mammane, ma che è un intervento cruento e altamente ripetitivo. Stiamo parlando sia chiaro di persone in buona fede, non dei vigliacchi che si nascondono dietro l'obiezione di coscienza per sottrarsi a un intervento che non dà sufficienti gratificazioni professionali e non favorisce certo la carriera.
Del resto l'obiezione di coscienza, proprio perché inquinata dall'ideologia, si presta a pericolose estensioni analogiche. Il signor Claudio Giubilo (claudio.giubbilo@libero.it) per esempio si chiede come può accadere che «in una struttura pubblica, pubblica e non privata, dei medici adducendo problemi di etica, possano non compiere interventi legittimi su persone che soffrendo, come nel caso dell'aborto si affidano alle leggi dello stato». Pasquale Iacopino (pa. iacopino@tiscali. it) si chiede come mai il papa tedesco torni ossessivamente su questo tema ignorato dalla chiesa «quando illegalmente, se ne abusava sotto gli occhi di tutti». Roberto Martina (robertomartina@yahoo. it) scrive: «Il dovere di un medico è corrispondere alle richieste dei pazienti nel loro stesso interesse e nel rispetto delle leggi vigenti». Chi non se la sente smetta «la professione di ginecologo ospedaliero nelle strutture pubbliche, oppure faccia il cardiologo».
Giovanna Bartolozzi infine mi ha segnalato un sito (www. saveriotommasi. it/video/documentativi/aborto-clandestino/) dove si racconta l'orrore di un aborto clandestino. E' la situazione che si verrebbe a ricreare se la civilissima legge 194 venisse manipolata o abolita. Neanche la religiosità più fanatica può costarci una simile barbarie.


il Riformista 19.5.08
Insicurezza. Siamo diventati moderni troppo in fretta
La violenza non piove certo dalle nuvole
di Franco Ferrarotti



"Con la schiena dritta anche nei momenti di bufera", con questa frase inizia il libro/dialogo "Ti racconto la mia storia" (Ed. Rizzoli) tra Tullia Zevi e sua nipote Nathalia. "E' una frase che le ripetevo quando era bambina..", mi dice sorridendo quando la incontro nel suo appartamento, nel cuore del ghetto ebraico di Roma. "E' un antico detto ebraico, riuscire a farlo è indispensabile", anche perché la bufera sembra non passare mai. Stiamo attraversando un momento storico, sociale ed economico molto delicato, sia a livello mondiale che in specifico nel nostro Paese. Si percepisce una profonda inquietudine. "C'è una energia che attende di essere convogliata. Ed è per questo che è doveroso vigilare sullo svolgersi degli eventi, perché la violenza è una brutta bestia che non sai mai che direzione prenda". Di segnali preoccupanti, d'altronde, ne abbiamo tanti. Ogni giorno atti di bullismo e violenza tra adolescenti, intolleranza razziale, aggressioni in nome di vecchie ideologie. Lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione dell'inaugurazione della 21° Fiera Internazionale del Libro di Torino, che si è conclusa da poco, ha evidenziato il pericolo dell'apparire "di segni di reviviscenza di un ideologismo e simbolismo neonazisti." Le chiedo come sia possibile che ancora oggi si possa parlare di antisemitismo, anche di sinistra. "E' un fenomeno tipico delle società contemporanee il bisogno di trovare un colpevole, un obiettivo su cui scaricare la violenza. E le minoranze, nella loro stessa natura facilmente identificabile, ne pagano il prezzo". Che siano ebrei, arabi, neri o rom. "E' responsabilità di tutti gestire l'assorbimento delle minoranze senza negarne la natura e l'essenza, perché una società sviluppa dinamiche democratiche nel momento in cui esiste questo gioco tra diversità che può diventare fecondo e creativo in tempo di pace e feroce e crudele nei momenti di disagio."
Tullia Zevi è stata la prima donna presidente di una comunità ebraica nazionale, l'Ucei, che ha guidato dal 1983 al 1998. Da sempre il suo impegno è rivolto soprattutto ai giovani, affinché non dimentichino le vittime del nazifascismo. Soprattutto oggi che si parla insistentemente di revisionismo storico. "Non si può smettere di chiedersi come nella civilissima Europa sia potuto accadere lo sterminio di 6 milioni di ebrei. Una cosa epocale. Per questo è estremamente importante che il sistema educativo insista sul valore e sull'importanza della coesistenza delle diversità e sulla gestione delle loro ricchezze. Si tratta del DNA della democrazia." La ringrazio per l'incontro, la saluto e mi accingo ad andare via. Lei mi riserva lo stesso sorriso sincero e caldo con cui mi ha accolta. L'inquietudine si attenua. Grazie.

domenica 18 maggio 2008

l'Unità 18.5.08
Raid
di Vincenzo Cerami


Raid, questa la parola di oggi: irruzione improvvisa, con sovrabbondanza di manette e urlacci. La mano forte non ci piace. È vile, incivile, è violenza. Per un delinquente devono pagare tanti innocenti. Ma cos’è epurazione, repressione poliziesca, persecuzione, razzismo, odio, vendetta? Quando le vittime sono inermi, indifese, spaventate, l’aggressività diventa sadismo. Contro quella povera gente si scarica una frustrazione accumulata altrove. Forse dell’erotismo andato a male. Possibile, tra l’altro, che appena arriva la destra compaiano i manganelli? È troppo scontato, è pietosamente caricaturale, è un brutto film già visto. Tutte le destre d’Europa non sono così rozze e brutali come la nostra. Naturalmente la canea va appresso al cane che ringhia di più. A Napoli c’è uno spettacolo alla Gomorra: un leghista può anche andare in visibilio, in orgasmo.
Raid: un po’ sinonimo di scorreria, ovvero incursione armata in territorio nemico, in questo caso nei miserevoli campi rom. Caschi e giubbetti antiproiettile, con in pugno la spada dello spaccamontagne della Commedia dell’Arte. Eppure negli annali della polizia non esiste un solo episodio di bambini rapiti dagli zingari. È una leggenda metropolitana che dura da un paio di secoli.
Quale modo meschino di mostrare i muscoli! È come sparare alle zanzare con un bazooka. Ma tutti quelli che fanno la guerra ai rom sono più spiantati dei rom, guadagnano perfino di meno. Poveracci questi, poveracci quelli. I mandanti se ne stanno tranquilli alla finestra, a guardare i raid da dietro gli occhiali dalla montatura all’ultimo grido, piuttosto cafoni. Dall’estero ci guardano, e non sanno se ridere o piangere. Dicono che siamo xenofobi, invece no, ce l’abbiamo semplicemente duro.

l'Unità 18.5.08
«Napolitano è l’argine alla deriva xenofoba»
L’intervista con Fernando Savater
di Toni Fontana


Il professor Fernando Savater, lo scrittore spagnolo più tradotto nel mondo, sta, come spesso accade, partendo per Roma e ci risponde dalla scaletta dell’aereo. «In Europa - dice - sta prevalendo un inasprimento della legislazione sull’immigrazione, ciò mette a repentaglio libertà e garanzie. Anche l’Italia sta scivolando in questa deriva. Ciò accade soprattutto a causa della xenofobia della Lega. Napolitano ha fatto bene a porre dei limiti».
Professore volano scintille tra Roma e Madrid, il governo spagnolo accusa quello italiano di favorire razzismo e xenofobia..
«Sto viaggiando da una capitale all’altra dell’Europa e, consentitemi, occorre prima di tutto fare una considerazione generale. In tutto il continente si assiste ad un inasprimento delle legislazioni che disciplinano l’immigrazione. La settimana scorsa a Bruxelles si è discussa la “direttiva del ritorno” che, se approvata, aprirebbe le porte all’espulsione di molti immigranti. Mi chiedo dove è finita l’Europa dei diritti e delle libertà, quell’Europa che in tanti abbiamo sognato. Prevalgono politiche fondate sulla severità e sull’egoismo».
Anche la Spagna è contaminata da questa ondata...
«Italia, Spagna e Francia sono i paesi nei quali finora sono state assicurate le più ampie garanzie. Quanto accade in Italia suscita preoccupazione. Quando, del resto, abbiamo visto che Berlusconi tornava al governo sapevamo di non poterci aspettare qualcosa di diverso».
E la Spagna appunto?
«Per ora il mio paese non ha seguito gli altri che hanno preso la strada dell’indurimento della legislazione, le garanzie per gli immigrati sono state finora relativamente tutelate. Non so tuttavia per quanto tempo sarà così, è probabile che anche a Madrid vi sarà prima o poi un cambiamento».
Torniamo all’Italia. Lei ritiene giustificate le accuse della Spagna?
«È importante che il presidente Giorgio Napolitano abbia esortato il governo a non adottare provvedimenti che colpiscono tutti, che provocano azioni indiscriminate, che abbia sottolineato la necessità di valutare caso per caso. Quanto è accaduto nel vostro paese, le violenze, i fatti che hanno avuto per protagonisti gli zingari, hanno suscitato una forte preoccupazione in molti spagnoli. Mi auguro che non prevalgano gli orientamenti xenofobi della Lega nord. Quanto dice Umberto Bossi allarma e crea diffusi timori non solo in Italia».
Alcuni dirigenti catalani sostengono che, anche a Barcellona, potrebbe nascere un movimento di protesta come la Lega.
«Spero ardentemente che ciò non accada. Noi in Spagna abbiamo i «nostri» nazionalisti che rappresentano un problema molto serio. I «nostri» e mi riferisco a baschi, ai catalani, esprimono tuttavia tradizioni e programmi differenti da quelli della Lega nord italiana. Vi sono al tempo stesso affinità e vicinanze culturali tra queste espressioni politiche presenti nei due paesi. Mi auguro che non prevalgano nè gli uni nè gli altri».

l'Unità 18.5.08
Laura Boldrini. La portavoce per l’Italia dell’Unchr: «Un crescendo politico e mediatico, la retorica anti-immigrazione ha creato tensioni sociali»
«Dieci anni di demonizzazioni: così è cambiato il dna degli italiani»
di Umberto De Giovannangeli


«La repressione sola fa aumentare la paura. E così finiscono in secondo piano altre emergenze...»

«Quello che ho visto a Napoli, le colonne di camioncini in fuga, il terrore negli occhi dei bambini, il fuoco che si alzava dai vari insediamenti Rom dati alle fiamme mi hanno riportato alla mente scenari balcanici dove migliaia di Rom sono stati scacciati e l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati cercava di fornire loro delle soluzioni alternative in zone più sicure. Non avrei mai immaginato di dover rivedere queste scene in Italia». A parlare è Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). «Le sole misure repressive - afferma Boldrini - aumentano la paura. Invece bisognerebbe lavorare di più sulla conoscenza della realtà Rom».
L’Europa s’interroga sui campi Rom dati alle fiamme in Italia.
«La situazione risulta essere davvero molto preoccupante. Sono anni che assistiamo ad un crescendo di demonizzazione politica e mediatica di immigrati, rifugiati, minoranze - soprattutto Rom -, come se questi soggetti fossero la causa di tutti i mali italiani. E questa campagna demonizzante alla fine ha avuto come risultato una trasformazione del "dna" italiano. Negli ultimi dieci anni si è assistito ad un radicale cambiamento dell’Italia e degli italiani rispetto a queste tematiche: dieci anni che sono sembrati un secolo. La retorica anti-immigrazione ha creato tensione sociale e difficoltà per gli italiani, impauriti dalla nuova situazione, a comprendere la trasformazione della società».
Ma queste paure possono avere come risposta misure repressive?
«Le sole misure repressive aumentano la paura. Invece bisognerebbe lavorare di più sulla conoscenza di queste realtà e su una comunicazione più obiettiva e serena. È come se fosse passata a livello di opinione pubblica l’equazione immigrazione=insicurezza; questo è stato peraltro uno dei messaggi più usati nella recente campagna elettorale. Ma l’insicurezza è fatta anche da tante altre componenti: la criminalità organizzata di stampo mafioso o camorristico; la sicurezza sul lavoro, tutt’altro che garantita come dimostra il numero dei morti sui luoghi di lavoro; l’insicurezza economica, con un crescente numero di persone che faticano ad avere un reddito. Parlando di sicurezza tutti questi aspetti che ho appena elencato, sono stati messi in ombra, mentre è stata data precedenza assoluta al concetto che per avere più sicurezza bisogna accanirsi contro gli immigrati e i Rom».
Quali politiche adottare per evitare il peggio?
«Dopo quanto abbiamo visto a Napoli, le immagini scioccanti di insediamenti Rom dati alle fiamme e di colonne di camioncini in fuga, è chiaro che bisogna riconsiderare un certo modo di veicolare messaggi a forte impatto emotivo. Come Unhcr, assieme alla Federazione nazionale della stampa e all’Ordine dei giornalisti, abbiamo elaborato un codice deontologico sulle materie dell’asilo e dell’immigrazione, che dovrebbe essere definitivamente approvato ai primi di giugno, in modo da fornire un contributo ai giornalisti che si occupano di queste materie, offrendo loro delle linee guida su come coprire in maniera più corretta ed esaustiva queste tematiche. Lo scopo è di evitare la costante stigmatizzazione a mezzo stampa di immigrati, minoranze, soprattutto quella Rom».
Una stigmatizzazione che fa del Rom un potenziale criminale.
«Sui Rom è bene fare chiarezza anche sui numeri e sulla loro composizione. In Italia si stima che ci siano circa 170mila Roma, di cui il 40% sono cittadini italiani, un altro 40% sono rumeni, e poi circa un 20% - siamo intorno alle 40mila persone - sono Rom della ex-Jugoslavia, fuggiti dalla pulizia etnica e che hanno cercato e ottenuto protezione dallo Stato italiano. In Francia vivono circa 600mila Rom, in Spagna quasi 500mila. Come si vede, in Italia c’è la percentuale più bassa rispetto alla popolazione di tutti gli altri Paesi europei del Mediterraneo. Purtroppo è una caratteristica tutta italiana che i Rom vivano in squallidi campi profughi, come se questa condizione fosse connaturata al loro essere, il che non è vero. Aiuterebbe e di molto il loro processo di integrazione, poter usufruire di abitazioni alternative, in appartamenti, come tutti gli altri. Una domanda sociale che fatica ad avere risposte adeguate».

Repubblica 18.1.08
Viktoria Mohacsi, deputata ungherese a Strasburgo ha visitato i campi romani del Casilino. "Una situazione orribile"Nomadi, la parlamentare Rom: "Attenta Italia, c'è un brutto clima"
"Questa gente ha paura. Vivono in Italia da decenni senza nessun riconoscimento"
"Arrestate e tenete in galera chi commette crimini, ma evitate la confusione"
di Claudia Fusani
qui

Repubblica 18.1.08
La vita nuda del campo rom
di Beppe Savaste


Visita al Casilino 900, lo storico insediamento di "nomadi residenti" della capitale. Tra timori per gli sgomberi forzati e richieste di notizie. Per scoprire che anche una baracca può dare un´idea forte di casa e che una dimora mobile non esclude quella fissa O il desiderio di diventare cittadini con diritti e doveri
Tra una famiglia e l´altra, agnelli e maiali arrostiscono. Si prepara la festa di San Giorgio, che nella tradizione è il giorno in cui ci si chiede: che cosa abbiamo fatto fin qui della nostra esistenza?

Dopo avere svoltato a destra dalla via Casilina, poco prima dell´incrocio con via Palmiro Togliatti, e dopo aver percorso il sentiero costeggiato da un lungo muro compatto di automobili pressate del contiguo sfasciacarrozze, la prima cosa che vedo è uno spiazzo bianco sterrato avvolto da una nuvola di suoni e canti gitani, diffusi da un impianto stereo a cielo aperto. Una signora col fazzoletto sulla testa arrostisce un maialino allo spiedo sospeso su una vasca da bagno bianca. Tutt´intorno detriti, polvere, rottami. Ma la visione è pop, un quadro che sembra tratto da un film di Kusturica dai colori sgargianti, più Arizona dream che non Underground. Mi trovo invece in quello che resta del più storico campo di Rom, il Casilino 900 (ex Casilino 700), in compagnia di Francesco Careri e Lorenzo Romito, architetti e artisti del gruppo Stalker-Osservatorio Nomadi di Roma. Alcuni dei nomadi che qui risiedono (si noti l´ossimoro) senza residenza né permesso di soggiorno (i paradossi si sprecano) dimorano qui dal 1968. Quarant´anni senza essere riconosciuti, senza diritto di cittadinanza neppure per chi vi è nato e cresciuto. So che quello che vedo è così precario che mi viene in mente la frase di Cézanne, poi ripresa da Wenders: bisogna fare presto se vogliamo vedere qualcosa, tutto sta per scomparire.
Il giorno della mia visita non erano ancora avvenuti gli incendi e gli assalti stile pogrom dei campi nomadi a Napoli. Né i sondaggi che attestano un´insofferenza sempre più irrazionale degli italiani per questo popolo, la cui diversità suscita solo desiderio di eliminazione, e non di conoscere la natura di questa differenza. Ma i Rom erano ugualmente angosciati: temono i prossimi sgomberi forzati, e non pochi di essi, al nostro passaggio, donne e uomini anziani soprattutto, sono usciti dalle loro case-verande per chiedere notizie. Volti rugosi e occhi rassegnati, un fioco desiderio di sperare. Alcuni ci hanno scambiato per quelli che, tempo fa, «guidavano le ruspe» che hanno demolito decine di baracche per spianare la strada. «Motivi di sicurezza».
Ora, dall´infanzia per me gli zingari erano i giostrai e quelli del circo. Erano italiani. I Sinti. I nomadi che vivono qui da anni - quando c´erano anche immigrati del Sud che per sopravvivere vendevano aglio, e ora popolano i palazzoni popolari del quartiere - vengono dai Paesi balcanici dilaniati dalle guerre. Anche tra loro, come imparerò, sono diversi: i bosniaci dai kosovari, dai serbi, montenegrini, e così via. Diversi negli abiti femminili, nell´abitare, nel posizionare il bagno dentro o fuori casa. Quelli che hanno i furgoni sono artigiani, ecc. Eccomi dunque qui a guardare, cercare di conoscere. Dietro la signora col fazzoletto, la vasca bianca e il maialino, che già diffonde odore di carne bruciata che si confonde come vapore coi canti ipnotici, osservo la baracca di legno celeste, il suo pergolato di vite a cui sono appesi vasi di fiori, sia veri che finti. La casetta di fianco ha un balcone di legno bianco con una ringhiera di assi oblique, secondo un disegno ornamentale che ricorre in ogni veranda. Coperte e copriletti variopinti sono appesi a prendere aria, come una domenica mattina. Tra una casa e l´altra spiccano i gabinetti chimici azzurri, le cabine Sebach che si vedono nei cantieri edili per i bisogni degli operai. Qui, come in molti altri campi, non è mai stata disposta una rete idrica, né elettrica. Ma com´è che tutte queste baracche, povere e circondate di detriti, danno un´idea così forte di casa, di una vita che si stenta a riconoscere ma che ci ricorda l´idea confusa e intensa che se ne aveva nell´infanzia? È, credo, l´umanità, la vita che qui è così nuda.
Una bambinetta bionda va su e giù sorridendo con la bicicletta tra pozzanghere, pneumatici, pezzi di ferro. È bella, è una delle figlie di Najo Adzovic, il rappresentante dei Rom di cui siamo ospiti. Adesso le donne accendono il fuoco anche di fianco alla sua casa, e qui e là tra le baracche maiali e agnelli impalati arrostiscono inondando l´aria. Si prepara la festa di San Giorgio, importante quanto l´ultimo giorno dell´anno, se non di più: è la festa di mezz´estate, cioè di "mezza vita". Nella tradizione nomade è il giorno in cui ci si chiede: cosa abbiamo fatto finora della nostra vita? Si dice Upasomilai, e già in questa parola la lingua romanès rivela la sua ascendenza sanscrita. Stasera qui danzeranno a lungo.
Nonostante San Giorgio, non tutti hanno voglia di festeggiare. Beviamo un caffè turco seduti nella veranda di Zarko, completo marrone e volto triste. Lui e sua moglie ci raccontano con grande dignità le loro disgrazie. Un figlio in prigione accusato di furto. La sparizione delle loro modeste mercanzie - stracci e borse in sacchetti di plastica - gettati come monnezza da chi ha fatto l´ultimo sgombero. Non avere più quella "monnezza" da vendere significa fame. Parlano soprattutto dei figli, di cui a un certo punto ci mostrano una cartelletta con tutti i documenti tenuti in un ordine invidiabile. Sfoglio certificati ed estratti di atti di nascita, codici fiscali, pagelle scolastiche («Documenti di valutazione del Ministero della Pubblica istruzione»), certificati dell´Opera Nomadi, libretti sanitari (Servizio sanitario nazionale, Regione Lazio): tutto inutile ai fini della richiesta di una cittadinanza. Per chiedere il passaporto italiano dovrebbero esibire quello slavo. Ma né loro, né tanto meno i figli, hanno qualcosa del genere. Che cosa è oggi «slavo»? Così si perpetuano generazioni di apolidi, di senza diritti, di ontologicamente precari e clandestini. Che subiscono ricatti e violenze. Non avendo diritti, sono alla mercè di ogni sopruso. Ma mi raccontano anche l´umanità e la gentilezza di tanti poliziotti.
Per i Rom ogni "casa" vive il suo spirito nella veranda all´aperto. L´altra in cui ci sediamo a parlare, costruita da Najo, è una sorta di giardino d´inverno con rudimentali pareti mobili di legno e vetrate. Il tetto appoggia su assi disposte a raggiera, un buco al soffitto serve per la stufa, perché d´inverno qui si cucina. Najo è autore di un libro - Il popolo invisibile - che racconta la storia della sua infanzia nell´ex Jugoslavia, scolarizzato e integrato tra i gagè (quelli come noi, gli stanziali), fino all´implosione di quel Paese e la sua fuga dalla guerra (bollato come «disertore e traditore»). Il suo libro è anche un quadro prezioso della vita e della tradizione culturale dei Rom. Gli chiedo se i nomadi stanno ormai accettando di diventare stanziali. La risposta è sì, se glielo permettiamo, regolarizzandoli e dando loro diritti. Anche perché il loro nomadismo, il loro essere «stranieri», cioè uguali ma diversi (fu già così per gli ebrei, perseguitati fin dal Trecento) è qualcosa di interiore e culturale che si tramanda, come la lingua. Spiegava George Simmel: lo straniero non è chi arriva oggi e parte domani, come il turista, ma chi domani non parte, e resta ad arricchire il nostro stile di vita con una modalità altra - un´altra lingua, un´altra tradizione.
Najo ha una passione che definirei politica, ma di una politica così vera ed evidente che ha ormai poche sponde nel mondo là fuori, oltre i muri di sfasciacarrozze, insomma nella città di noi gagè. Tutti sembrano uniti dalla volontà di togliere l´ultimo barlume di visibilità a questo popolo già invisibile. Da tempo è in corso una guerra contro i poveri (non contro la povertà), e la politica difende ostinatamente uno stile di vita e di consumi che in nessun momento mette in discussione nonostante l´incombere di catastrofi ecologiche. Ma anche l´intolleranza per la diversità in genere è in aumento. Eppure Najo è animato da un progetto che sembra un´utopia, quella di un´area abitata dai Rom, una «città nella città», con laboratori artigianali di lavoro del legno, del ferro, del rame, possibilità di fare i mercatini, educazione e scuole assicurate per i loro bambini. Vuole proporre il progetto al nuovo sindaco di Roma. Loro stessi, ne è certo, dall´interno potrebbero efficacemente prevenire e reprimere la microcriminalità. Già adesso la scolarizzazione è del del 95 per cento, e cinquanta famiglie qui sopravvivono grazie all´artigianato e ai mercatini. «Se uno ha la casa», dice Najo, «se ha la dignità, il lavoro, dei diritti, non va a fare il delinquente». Mi parla del loro codice d´onore, della solidarietà che li lega. «Avete mai visto un Rom anziano in una casa di riposo?».
Ora, il lettore non fraintenda: non sono un marziano, e questa non è un´apologia degli zingari. Lo so che molti di loro rubano, lo sa anche Najo. Hanno alcune pessime abitudini. E ho anch´io la mia bella dose di pregiudizi e di barriere culturali. Ho subito due furti odiosi nell´appartamento, computer compreso: lo stile è quello dei ragazzini zingari, hanno detto i poliziotti quando hanno saputo che erano state rubate anche le felpe del bambino. Ci sono anche alcuni campi che hanno come risorsa dominante il crimine. Ma se i colpevoli sono dei singoli, perché colpevolizzare un popolo, risvegliando o rinnovando lugubri odi razziali? «Il triangolo nero - Nessun popolo è illegale»: così titolava un appello proposto da un certo numero di scrittori italiani all´epoca della prima ondata emotiva e delle rappresaglie contro i Rom, lo scorso novembre. Raccolse migliaia di firme. Quando diciamo «nomadi»racchiudiamo in una parola un coacervo di etnie, un mondo di mondi. Oggi nel suo insieme il popolo dei Rom, ovvero «uomini liberi», chiede agli stanziali, ai gagè, aiuto nel vivere dignitosamente, offrendo abilità e competenze. Chiedono un´integrazione che non sia eliminazione della loro differenza, ma la valorizzi. Chiedono di poter lavorare e di potersi muovere liberamente dopo il lavoro. Sono felici di poter testimoniare di se stessi e del loro popolo, come è accaduto quando, nel Giorno della Memoria, alcuni anziani Rom, un uomo e una donna, raccontarono la loro sopravvivenza nel campo di concentramento di Agnone ad una scolaresca romana.
Ora cammino di nuovo per il campo con gli amici del gruppo Stalker, Francesco Careri e Lorenzo Romito. Calpestiamo macerie. Il degrado, mi dicono, è evidente. Loro hanno varie persone da salutare, non solo Rom, persone che hanno scelto il nomadismo come soluzione abitativa più adatta alla loro indole. Il grande Ivan Illich scriveva che viviamo parcheggiati come automobili in garage, che l´attività umana dell´abitare si è ormai spenta nella nostra civiltà. Viviamo in un mondo prefabbricato, senza lasciare tracce. E anche i commons, gli spazi di uso comune, sono in via di estinzione. È un paradosso che i nomadi siano gli unici portatori di un´arte di abitare? Studiando le loro tipologie abitative, la loro dimensione ecologica ed economica spesso geniale - le loro misere case sono più belle e costano meno dei container forniti dai Comuni, oltre a essere a bassissimo impatto ambientale - i miei accompagnatori hanno cominciato a penetrare la loro cultura. Il gruppo Stalker ha studiato il nomadismo come categoria filosofica e pratica estetica (come nel bel libro di Francesco Careri, Walkscapes, edito da Einaudi). L´anno scorso con gli studenti hanno risalito il corso del Tevere documentando e raccontando le baracche e la vita dei più poveri. Alla Triennale di Milano, il prossimo 22 maggio, porteranno un progetto, Campus Rom, frutto di una collaborazione tra l´Università di Roma Tre e quella di Delft (che andrà in seguito alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia). Contiene precise proposte. La prima è quella di un passaporto europeo transnazionale per i Rom, per muoversi liberamente sul suolo europeo (ex Jugoslavia compresa): per sanare il debito nei loro confronti che data dalla Shoah, che come è noto riguardò anche i Rom. Nella loro lingua, Olocausto si dice Samudaripen, «tutti i morti», ma nessun Rom fu chiamato a testimoniare al processo di Norimberga. Ma va anche ricordato il loro pacifismo: il popolo Rom non ha mai fatto una guerra in tutta la Storia.
A Milano si esporrà il prototipo di una casa Rom e il video documentario della sua costruzione. Si tratta di imparare da loro ad abitare in modo ecologico, a partire dai consumi e dalla cultura del riciclaggio. Infine una proposta urbanistica e politica: chiudere tutti i campi rom e aprire delle micro-aree secondo il loro habitat evolutivo, basato sull´espansione delle famiglie. «Si tratterebbe di lasciare germogliare le case in autocostruzione, dando loro un pezzo di terra. Tanti italiani potrebbero avvantaggiarsi di questo modello abitativo, che non deve produrre ghetti, ma innesti creativi metropolitani che possono corrispondere ai bisogni e agli stili di vita di artisti, di giovani, di tanti altri». «Ma la cosa più urgente», mi dice Careri, «è cambiare l´immaginario collettivo sui Rom. Tutti ne parlano, nessuno li conosce. Nei loro campi ci va solo la polizia. O le squadre violente di questi giorni. Eppure, il mondo sarebbe più bello con loro».

Corriere della Sera 18.5.08
Linea dura del governo D'accordo 3 italiani su 4


Gli italiani — e il loro governo — sono, almeno in qualche misura, razzisti e xenofobi nei confronti dei rom? Se si pone la domanda in questi termini, la risposta non può che essere negativa, in quanto è sempre sbagliato estendere ad una intera popolazione un atteggiamento o orientamento. Ma è innegabile che i sentimenti antirom risultino oggi molto diffusi e che, anche per questo motivo, l'accoglienza da parte dei cittadini del «pacchetto sicurezza» è stata largamente favorevole. Questi hanno seguito con larga attenzione la vicenda, tanto che il 31% dichiara di conoscere «bene» i contenuti del pacchetto e il 37% afferma comunque di «averne sentito parlare». Il consenso nel merito dei provvedimenti appare più accentuato su due tematiche: la sicurezza negli stadi (il 95% degli italiani si pronuncia per l'arresto immediato dei tifosi trovati in possesso di razzi e simili) e le iniziative sui rom.
Il problema dei cosiddetti «campi nomadi» costituisce il contenuto del pacchetto di cui si è più parlato, anche se, a ben vedere, non ne rappresenta forse la componente principale. Questa grande attenzione è dovuta anche al fatto che, come si è detto, il popolo dei rom è straordinariamente malvisto dalla gran parte degli italiani. Se si chiede, ad esempio, ad un campione di cittadini quali popolazioni straniere o minoranze etniche siano «meno simpatiche», i rom si rivelano il gruppo meno amato in assoluto, risultando «antipatici » all'81% degli intervistati (per confronto, i filippini sono «antipatici» solo al 28%). Ancora, secondo il 70% degli italiani, la convivenza nello stesso paese con i rom è «difficile » o «impossibile». Sono cifre che mostrano un'intolleranza diffusa, rafforzata dal fatto che, al tempo stesso, le dimensioni del «fenomeno rom» risultano fortemente sopravvalutate: più del 25% dei cittadini ritiene erroneamente che i rom nel nostro Paese siano un milione o più.
Di fronte a questo stato dell'opinione pubblica, non è sorprendente che tre italiani su quattro ritengano come la maggiore severità decisa dal governo nei confronti dei rom sia più che giustificata. Naturalmente, il consenso per il provvedimento è assai più diffuso tra i votanti per il centrodestra (ove l'approvazione è pari all'86%), ma è maggioritario anche nel centrosinistra, tanto che il 58% degli elettori di quest'area approva i contenuti del pacchetto Maroni, specificamente riguardo ai rom.
Nel loro insieme, questi dati suscitano qualche riflessione. Se è evidente infatti che i provvedimenti del governo trovano il consenso di gran parte della popolazione, è vero, al tempo stesso, che proprio il clima rilevabile nell'opinione pubblica, per la sua estensione spesso indiscriminata ad una intera etnia, può suscitare preoccupazione. È giusto, infatti, individuare e punire i singoli individui che compiono delitti, ma sarebbe sbagliato — lo ha sottolineato peraltro lo stesso ministro Maroni — legittimare o, peggio, incentivare la già diffusa avversione degli italiani verso un'intera popolazione. Ricordando che già il secolo scorso ha visto le tragiche conseguenze dell'accanimento verso popoli nel loro insieme e verso i rom in particolare.

l'Unità Lettere 18.5.08
Anche gli ebrei erano accusati di rubare bambini
di Fabio Della Pergola


Caro Direttore,
dopo la guerra gli ebrei sopravvissuti allo sterminio nazista (150 su 24.000) tornarono nella loro cittadina di Kielce, in Polonia. Il 4 luglio ’46 una folla inferocita di buoni cattolici polacchi, con militari e poliziotti in prima fila, aggredì la comunità, massacrando 42 persone, fra cui un neonato sfracellato contro un muro, e facendo fuggire, questa volta per sempre, gli ebrei dalla città. La colpa? Si disse che un bambino polacco fosse stato rapito dagli ebrei per i loro “riti di sangue”. L’inchiesta stabilì che il bambino, ritrovato incolume, era stato a casa di un amico fuori città per due giorni, di nascosto dai genitori, ma secondo il Vescovo gli ebrei erano comunque colpevoli di collaborare con il regime comunista. Nel maggio del 2008 una folla inferocita, armata di spranghe e bastoni, assalta un campo nomadi alle porte di Napoli, poi bruciato a colpi di molotov, facendo fuggire la comunità, scortata via dalla polizia nel cuore della notte. La colpa? Si dice che una ragazzina rom abbia tentato di rapire un neonato dopo essersi introdotta in una casa per rubare. Già a Firenze accadde una cosa simile, ma non mi sembra di ricordare che la magistratura abbia poi accertato il tentato rapimento... anzi, per dirla tutta, ho sempre sentito parlare di questa storia, ma mai ho letto di zingari condannati sul serio. Il luogo comune dice che gli ebrei usano il sangue dei bambini e che gli zingari li rapiscono. L’unica cosa certa, ad oggi, ma proprio certa, è che i bravi cittadini ogni tanto fanno una bella strage di chi è “diverso” da loro. saluti (...e coraggio, che qui ce ne vuole)

l'Unità Firenze 18.5.08
Sentinelle, ronde, «pulizia». Che succede a Firenze?
Forza Italia soffia sul fuoco dell’intolleranza: «Via tutti i rom».
di Tommaso Galgani e Sonia Renzini


A Firenze il sindaco Leonardo Domenici e il prefetto Andrea De Martino assicurano: «Non c’è nessuna emergenza rom». Però il senatore e consigliere comunale di Forza Italia Paolo Amato chiede che siano cacciati tutti i rom dalla città e l’istituzione di un commissario speciale. «Forza Italia fa una vergognosa strumentalizzazione, così si buttano via 20 anni di faticoso lavoro sull’integrazione», attacca il presidente del Consiglio comunale Eros Cruccolini che invita Domenici a non chiedere più poteri per i sindaci in materia di sicurezza. Preoccupazione per il clima che si è venuto a creare intorno al popolo rom è espressa anche da Demir Mustafa, operatore sociale nei campi dell’Olmatello e del Poderaccio e da Don Alessandro Santoro della comunità di base delle Piagge.

l'Unità 18.5.08
Emilia-Romagna, Bersani apre alle alleanze con la Sinistra Arcobaleno
di Andrea Bonzi


Il Pd non chiude la porta a possibili alleanze. Anche in una regione “rossa” come l’Emilia-Romagna, in cui l’alleanza Pd-Idv ha sfiorato il 50% alle ultime elezioni, i democratici cercheranno relazioni con tutti i soggetti, a cominciare dai pezzi dell’Arcobaleno. L’ex ministro Pier Luigi Bersani, ieri all’assemblea costituente del Pd regionale, tenutasi a Forlì, detta la linea in vista delle prossime amministrative. E respinge di fatto la richiesta del sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, che, a 10 giorni dalle politiche, aveva caldeggiato una scelta «maggioritaria» omogenea per la corsa a palazzo D’Accursio (e in Provincia) nel 2009 e per le regionali del 2010. «Se noi ci facciamo il deserto attorno, l’acqua non viene da noi. Non funziona così - esemplifica Bersani -. Verdi e Rifondazione stanno discutendo, in questi giorni. Noi dobbiamo far sapere loro che quella discussione ci interessa». Fissando però dei paletti ben precisi: «L’esperienza ci ha insegnato che nessuna alleanza può prescindere dai programmi - continua Bersani -, per cui è chiaro che non si può dire: vogliamo produrre più gas, ma diciamo no ai gassificatori». Un esempio delle contraddizioni dell’Arcobaleno che avrebbero rallentato le azioni del governo Prodi. Insomma, parte la caccia alle intese programmatiche, «a livello locale gli spazi ci sono». Bersani l’Emilia-Romagna la conosce bene. E sa - come del resto anche il segretario regionale Salvatore Caronna - che in 7 capoluoghi su 9 Pd e forze della Sinistra amministrano insieme: gli unici centri dove ciò non accade sono Parma, governata dalla destra, e Bologna, città in cui il rapporto tra Cofferati e l’Arcobaleno si è rotto da anni, anticipando notevolmente lo scenario nazionale. E non pare ricucibile in chiave elettorale. Da parte sua Cofferati - che solo il 18 giugno annuncerà se candidarsi per altri 5 anni alla guida di palazzo D’Accursio - ha mancato l’appuntamento di ieri, trasformandosi in un pesante “convitato di pietra”. La linea sulle alleanze è stata ribadita anche da Dario Franceschini, numero due del Pd nazionale, che sottolinea la novità del metodo: «Prima si cercava la più grande coalizione possibile andando per esclusione delle forze che non ci stavano, ora le alleanze si fanno attorno a un programma condiviso, c’è una bella differenza». Il presidente dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani, vuole evitare di «fare come i giapponesi sull’isola» che non credevano alla fine della seconda guerra mondiale, ma «mostrare con coerenza l’idea di governo del territorio, senza cedere mai all’esclusività,che può essere vista come arroganza». Un errore che alleati e elettori «possono farci pagare seriamente», chiude Errani.

Corriere della Sera 18.5.08
In Emilia Il sindaco diserta il congresso del partito
Bersani «scarica» Cofferati: Pd solo? No, servono alleanze


BOLOGNA — A forza di gridare «andiamo soli, andiamo soli!», nel senso di correre alle amministrative del 2009 in splendida solitudine, Pd über alles a Bologna e nell'intera Emilia-Romagna con tanti saluti a ciò che resta della sinistra rifondarola e dilibertiana, Sergio Cofferati si è probabilmente reso conto ieri che attorno alla sua proposta di autosufficienza politica si è creato il vuoto e che l'unico a rischiare di restare davvero solo è proprio lui.
Da Forlì, dove è in corso il congresso del Pd emiliano-romagnolo, si è infatti abbattuta una raffica di prese di distanza dalla strategia «solista » del sindaco di Bologna, quasi dipinto come una sorta di ultimo giapponese impegnato in una guerra che nessuno dei grandi capi piddì ha intenzione di combattere. Soprattutto adesso che lo stesso Veltroni, sotto la spinta del pressing dalemiano e di un futuro reso friabile dalla batosta elettorale, ha in parte annacquato la famosa teoria della «vocazione maggioritaria», riconoscendo davanti ai deputati pd che «sarebbe da sciagurati pensare di non fare alleanze alle amministrative».
Parole che Pierluigi Bersani, riproponendo a Forlì posizioni già espresse a Roma dai dalemiani, ha amplificato in chiave anti-cofferatiana: «Un partito a vocazione maggioritaria come il Pd — ha detto il ministro ombra — sa benissimo che deve costruire sistemi di relazione con tutti i soggetti, naturalmente partendo da un confronto sul programma ». Con lui, anche se con diverse sfumature, il vice Veltroni Dario Franceschini («Alleanze sì, ma omogenee nello stesso territorio») e il governatore Vasco Errani («Il modello Unione è finito, ma l'esclusività diviene arroganza »).
Cofferati isolato? Il personaggio è collaudato. Oltre che ex icona sindacale, l'uomo che nel 2002 portò al Circo Massimo 3 milioni di lavoratori, facendo intravedere una leadership poi mai decol-lata, è da 4 anni sindaco a Bologna e ha concrete possibilità di continuare ad esserlo se deciderà di ricandidarsi nel 2009, cosa che i reggenti del Pd dicono di augurarsi. È chiaro però che, qualora optasse per il bis, dovrà rimodulare il discorso delle alleanze. Ieri Cofferati, mentre a Forlì facevano a pezzi le teorie sull'autosufficienza, era provvidenzialmente impegnato alla Festa della polizia. Ma, a quanto trapela, un riposizionamento sarebbe alle viste. Non tanto rispetto alla scelta di correre da soli: «Nella fase attuale sarebbe un errore un'apertura di credito a sinistra, data l'assenza di interlocutori chiari: e comunque lo statuto pd parla di vocazione maggioritaria». Piuttosto il ripensamento, se tale sarà, riguarda dove andare da soli: se in un primo tempo Cofferati ipotizzò un Pd «solista» anche in Regione (mandando su tutte le furie il governatore Errani), ora pare ripiegare su Comune e Provincia di Bologna. Dove il Pd ha il 49%. E la solitudine è meno rischiosa.

l'Unità 18.5.08
Legge elettorale per le Europee forse prima dell’estate
Piccoli partiti in rivolta contro la riforma. Franceschini: «Lo sbarramento aiuta la sinistra»
di Federica Fantozzi


ACCELERAZIONE La nuova legge elettorale per le Europee potrebbe arrivare prima dell’estate: è il calendario cui stanno lavorando gli sherpa del PdL e Pd.
L’unico punto che metterebbe d’accordo (quasi) tutti è una soglia di sbarramento al 3%. Sul resto, si discuterà in Parlamento. Dario Franceschini minimizza: «Lo sbarramento aiuterà la sinistra a non dividersi, a salvaguardare i processi aggregativi in modo che non si divida in 5-6 sigle destinate allo 0,9%». E Berlusconi vorrebbe l’abolizione delle preferenze.
L’Udc si sente nel mirino del premier: «Saremo vigili, il golpe non passerà». Casini e Cesa sono hanno avuto contatti con tutti, da Veltroni a Prc. Il sospetto è che la fermezza del PdL sulla soglia al 5%, ribadita ieri da Cicchitto, sia una mossa contro di loro. Né si fidano fino in fondo del leader Pd, che pure vuole mantenere aperto il canale con i centristi: «Le Europee sono la cartina tornasole se il sistema è stato modificato strutturalmente o il voto politico è stato un episodio - ragionano a Via Due Macelli - Su quel campo Veltroni che predica l’autosufficienza gioca la partita con D’Alema che cerca alleanze». Insomma, una questione di rapporti di forza interni al loft, che danneggerebbe le aspettative dei «piccoli».
Che sono tutti in allerta. Contro la proposta di legge che il Pd intende depositare: sbarramento al 2-3%, aumento delle circoscrizioni da 5 a 20 per legare la rappresentanza al dato regionale, con il mantenimento però del riparto nazionale dei voti. Prc, già extraparlamentare, trova «inaccettabile» sia qualsiasi modifica delle circoscrizioni - anche se diventassero 10 e non 20 - sia l’eliminazione del riparto nazionale. Viale del Policlinico dice sì solo alla soglia del 3%. Altrimenti, la minaccia è far saltare le giunte locali: l’unica loro arma a quel punto sarebbe rimettere in gioco le alleanze sul territorio. Stefano Ceccanti, costituzionalista e senatore veltroniano, calma le acque: «Non vogliamo 20 circoscrizioni autonome, manterremo il riparto unico. Si tratta di avvicinare eletti e elettori senza inficiare il sistema proporzionale, come il Mattarellum nel ‘93».
Sinistra Democratica con Carlo Leoni muove un’obiezione di fondo: «Perché fare una nuova legge contro la frammentazione quando, se al Parlamento nazionale c’è un’esigenza di governabilità, in Europa tutti poi si iscrivono agli stessi gruppi? Vedo solo un interesse di Pd e PdL». Leoni fa una constatazione amara: «Per errori anche nostri, già la sinistra è fuori dal Parlamento. Cacciarci da Strasburgo sarebbe una persecuzione immotivata». Protestano anche i Socialisti: «Veltroni e Berlusconi non avevano titolo per discutere di legge elettorale, inaccettabili soglie di sbarramento e comode liste bloccate senza preferenza».
Assai più tranquilli in casa IdV: «Noi abbiamo raccolto firme per il referendum sulla legge elettorale - ricorda Massimo Donadi - E non cambiamo idea. Ma una cosa è l’esigenza anti-frammentazione, altro è introdurre soglie esplicite che non stanno nella tradizione italiana o surrettizie con circoscrizioni piccole. L’obiettivo di Berlusconi è togliersi di torno le opposizioni». Più concilianti i toni con il Pd: «Il 3% è una soglia ragionevole. Sul resto, ci siederemo a un tavolo».

l'Unità 18.5.08
Silvio Lanaro: «Se l’Italia va a destra il Pd sia di sinistra»
di Bruno Gravagnuolo


PARLA SILVIO LANARO, storico dell’Italia repubblicana e docente a Padova, nel Veneto oggi leghista e forzista. «In questa regione la Dc aveva le sue roccaforti inespugnabili; il suo crollo si è travasato nel clamoroso successo elettorale della Lega»

«La cultura di governo dura e rigorista ha giocato a favore della destra. E gli italiani alla fine hanno pensato che Tremonti fosse più morbido. Scegliendo il suo populismo raffinato, oltre a quello della Lega». Sulla sconfitta, analisi amareggiata e tagliente quella di Silvio Lanaro, 65 anni, tra i massimi storici contemporanei d’Italia, allievo ideale «autodidatta» della grande scuola azionista di Chabod e Venturi. E autore di una fondamentale Storia dell’Italia repubblicana per Marsilio, di cui sta curando l’aggiornamento agli ultimi due decenni. Vicentino di Schio, ordinario all’Università di Padova, Lanaro è un interlocutore ad hoc per risalire al nord. Nel Veneto, ieri bianco democristiano e oggi leghista e forzista. Non fa sconti al Pd, e al lungo estenuamento culturale della sinistra in questi anni: «Si è dissolto - spiega - un insediamento robusto, argine dell’eterna Italia di destra, assieme al filtro della Dc. Sicché, all’insegna dell’ortopedia maggioritaria, si sono rilanciate logiche notabilari e personalistiche sui territori. Di cui ha profittato la destra, come già nell’Italia censitaria e post-unitaria». Ma non fa sconti Lanaro nemmeno alle diverse rivisitazioni della «Padania», da parte di Cacciari e Cofferati: «Per usare lo stesso linguaggio di Cacciari, le dico: sono puttanate...». E neanche a eventuali «premierati», con potere di sciogliere le Camere: «Ne ho paura, sarebbero un regalo a Berlusconi. E ancora non mi capacito di come il centrosinistra abbia in passato potuto votare un Titolo V della Costituzione che sfascia l’Italia in città e regioni, con potestà e competenze frammentate. Una sparizione dello stato, che fa il paio con suggestioni decisioniste alla Miglio. Il tutto in un paese al fondo di destra!».
Professor Lanaro, cominciamo dalla sconfitta vista dal suo Veneto. Smottamento del centrosinistra con parziali eccezioni a favore del Pd nelle città. Epilogo inevitabile oppure no?
«Devo fare una premessa generale. Non si riflette mai abbastanza su un dato: l’Italia è un paese di destra, tendenzialmente. Il primo Berlusconi è caduto per la defezione della Lega. Poi hanno perso perché si sono presentati divisi: Lega, Forza Italia e An. Quindi hanno vinto e governato cinque anni. Infine c’è stato quel pareggio, con la destra soccombente al Senato in virtù del premio regionale, pur avendo preso più voti. Dovremo fare i conti con tutto ciò per i prossimi decenni. Perché è accaduto? Perché la destra italiana, dal 1993, non è stata più tenuta a freno dalla Dc. Il che è lampante nel Veneto. Qui la Dc aveva le sue roccaforti inespugnabili. Il crollo si è “travasato” nel clamoroso successo leghista e forzista. E con la fine della Dc, sono esplosi gli spiriti animali della destra di sempre. In aggiunta Berlusconi ha spezzato l’arco costituzionale, sdoganato il Msi, e chiuso il cerchio. Con Fini presidente della Camera e Alemanno sindaco di Roma, fascisti fino a un recente passato».
Il cuore della destra emerge nel lavoro autonomo, che aggrega anche il lavoro dipendente sui territori. È la pulsione locale ormai l’anima della destra?
«L’egoismo territoriale è fortissimo, in un periodo di crisi delle culture politiche classiche e delle politiche pubbliche. Tuttavia, penso al mio Veneto, non sarei così sicuro che lavoro autonomo e piccola impresa coincidano per intero con l’universo leghista. Esistono vistose eccezioni nel Veneto stesso, da Carraro a Calearo, di là del maquillage elettorale che la sua inclusione nel Pd può aver significato. Questo mondo rivendica efficienza e federalismo fiscale seri. Altra cosa dalla demagogia leghista e xenofoba, che al momento ha messo la sordina all’antimeridionalismo, per allargare il suo raggio di consenso su basi etniche e sicuritarie. Insomma, anche in Veneto ci sono fenomeni di controtendenza, per quanto modesti e di minoranza. Prenda Vicenza. Lì il Pd ha conquistato il sindaco, anche perché la popolazione è stata incoraggiata ad esprimersi su temi di democrazia civica, come il Dal Molin. Ha vinto un ex Dc, su un ex missino poi forzista e oggi Pdl. A Padova il Pd ottiene un successo, anche per merito di Zanonato, un sindaco che la cittadinanza apprezza e sente suo».
In provincia però il centrosinistra frana. Con Rifondazione che si svuota nella Lega e il Pd che non sfonda al centro...
«Senza dubbio. E pur non essendo un analista elettorale direi che c’è stato un travaso diretto dall’estrema sinistra alla Lega. Anche in ragione di una medesima mentalità estremistica e totalizzante. E di frustrazioni e disagi sociali, vissuti in chiave analoga dai ceti deboli. Quanto al Pd, non conquista il voto moderato, salvo le ragguardevoli eccezioni citate. Ma andrebbe ricordato, di nuovo, che in Italia la mentalità moderata è tout court di destra, e dunque difficilmente convertibile in termini progressisti sia pur tenui. Pensi al successo incredibile di un giornale come Libero, emblematico di un certo costume. Aggressivo e platealmente populistico... Ecco, lì si vedono bene, culturalmente, gli spiriti animali che esplodono dopo il crollo della Dc».
L’estinzione di un partito storico della sinistra riformista, figlio del movimento operaio, non è stata decisiva per il mancato contrasto di questi spiriti animali?
«Certo, c’è stata la disgregazione di un blocco storico: lavoro e ceto medio. E posso dire che ho vissuto con profonda amarezza e delusione la nascita del Pd, e l’illusione di poter mettere insieme tutti i riformismi. Il risultato è stata una rarefazione e una perdita complessiva di consensi, di tenuta e di alleanze, attorno al nucleo del lavoro produttivo. Dipendente e no. Il Pd è altra cosa dalla sinistra storica, e non sappiamo ancora cosa può diventare. Ma al momento è la fine di una certa idea della sinistra...»
Quale? Quella dell’emancipazione del lavoro e dei ceti subalterni?
«Già. Difatti non vedo più perseguita con chiarezza quell’”emancipazione”. Vedo semmai altro: vernici modernizzanti. Il lavoro, i diritti e le retribuzioni sono cose che non colpiscono più e che stanno al margine dell’agenda. Perciò finiscono col render poco anche dal punto di vista elettorale, rispetto ai Ponti sullo stretto, alle ferrovie ultraveloci e alle privatizzazioni. Inutile dire che ha pesato anche una disgregazione oggettiva della classe operaia, e del blocco che stava attorno ad essa».
E però in Italia gli operai, magari dispersi, sono più di sette milioni e mezzo. Cinque nella sola industria. E mai nel mondo vi furono tanti venditori di forza lavoro. Sempre più penalizzati dalla forbice del reddito...
«Di recente ho letto un bel libro di Andrea Sangiovanni, sulla classe operaia italiana nel dopoguerra: Tute blu. Dedicato alle rappresentazioni della classe operaia nel cinema, nella letteratura e sui media. Mi sono reso conto, leggendolo, che che è venuta meno proprio la classe operaia come soggetto culturale, non già il sostrato materiale. A cominciare dall’autorappresentazione da parte degli operai stessi: un rifiuto inconscio del proprio lavoro e del proprio ruolo».
Negazione di sé e assorbimento delle immagini dettate da altri. Il contrario di ciò che una volta si chiamava «egemonia»..
«Sì, possiamo dire così, o in tanti altri modi... E comunque in Veneto, già cinque o sei anni fa, da un’inchiesta della Cgil, risultava che un operaio su tre votava per la Lega...»
Accade perché gli operai vogliono diventare imprenditori o perché non hanno di meglio?
«Perché non hanno di meglio. E soprattutto, lo vedo nelle città di piccole e medie dimensioni, perché hanno paura. Paura palpabile degli immigrati a vari livelli, culturale, sociale, economico. E la ricaduta del voto alla Lega è immediata».
Parliamo di giovani violenti. A Verona come in Sicilia. Bullismo? Riflesso di personalità nullificate? Logiche di branco cariche di odio per il diverso?
«Il bullismo in senso puramente antropologico non esiste. È sempre una forma di cultura. E quindi non ci vengano a raccontare che certe inclinazioni naziste non abbiano pesato a Verona. Più in generale c’è un risveglio identitario, nella violenza e nella contrapposizione. E accade che qualcuno che non si sente “niente”, magari avendo tanto materialmente, voglia contare qualcosa, proprio attraverso il gesto distruttivo. Dietro tutto questo, dal Veneto alla Sicilia, c’è uno sprofondamento culturale, familiare, scolastico. L’Italia non è mai stata culturalmente tanto povera. E oggi la Spagna, paese che ci ha sempre ammirato, ci guarda con compatimento. Da tutti i punti di vista del vivere sociale...»
Ci aspetta una lunga traversata d’opposizione. Che previsione fa, e come guarda al ruolo che incombe sul Pd?
«Gli storici generalmente sbagliano le previsioni. Tuttavia sul Pd direi quanto segue. Dopo l’estinzione della sinistra radicale, o questo partito si fa carico, almeno in parte, delle ragioni di quelle forze al momento sparite, oppure è destinato a un declino che ci garantirà Berlusconi sino alla sua estinzione naturale. Oggi il Pd, spiace dirlo, non è né carne né pesce. E anche questo ha pesato nella sconfitta. Se si va in giro a chiedere che cos’è il Pd in positivo, non molti glielo sapranno dire. Ma non lo sa nemmeno il Pd, ad oggi! E che la sconfitta derivi anche da una forte carenza identitaria e di rappresentanza sociale mi pare innegabile».

l'Unità 18.5.08
La Roma del '400 prestigiosa ma poco creativa
di Renato Barilli


AL MUSEO DEL CORSO una mostra, a cura di Strinati, documenta il ruolo che l’Urbe svolse nel XV secolo: la città fu più che altro un punto di arrivo, dove si andava spegnendo l’inventiva nata altrove

Merita ampio riconoscimento la bella attività che Claudio Strinati sta svolgendo nell’Urbe, nella sua qualità di soprintendente per il polo museale romano. Appena poche settimane fa ci siamo occupati della rassegna di opere canoviane che per suo merito è stata realizzata attorno al capolavoro dell’artista di Possagno, la Paolina Bonaparte, superba gemma incastonata nella Galleria Borghese. E in Palazzo Venezia è ancora visibile l’ampia retrospettiva dedicata a Sebastiano del Piombo. Ma ecco subito una nuova meritoria impresa, Il ’400 a Roma, che Strinati ha curato, con l’aiuto di M.G. Bernardini e M. Bussagli, per il Museo della Fondazione del Corso, tema da tempo non più affrontato, su cui di conseguenza appariva indispensabile riaprire il discorso.
Ciò detto e riconosciuto, il verdetto di fondo non può però mutare, il Quattrocento non è stato certo uno dei secoli più radiosi, per la Roma dei Papi, i centri di formazione delle proposte stilistiche più avanzate erano allora situati altrove, nella Firenze medicea o nelle capitali delle signorie, la Mantova dei Gonzaga, la Urbino dei Montefeltro, e in altre plaghe dell’Italia centrale e settentrionale, per la buona ragione, fondata sugli inevitabili intrecci tra la cultura materiale e le arti, che queste fioriscono laddove anche l’economia, i traffici, i commerci risultino floridi. Di fronte al rigoglio di altri centri italiani, la Roma dei Papi di quei tempi non era all’altezza, e non basta certo dare la colpa al lungo esilio dei Pontefici ad Avignone, il fatto è che nell’Urbe persistevano gli stessi motivi di insicurezza politica, per il soglio pontificio, minacciato dai poteri delle grandi dinastie nobiliari, che in fondo avevano consigliato la fuga avignonese. Era senza dubbio alto il prestigio della città di S. Pietro, pertanto gli artisti più reputati si sentivano altamente onorati a essere chiamati a lavorare entro le mura capitoline, molte esistenze si spinsero fin là a chiudere degnamente le rispettive carriere, ma appunto Roma fu allora, per tutto il secolo, un terminale d’arrivo, dove andavano a spegnersi onde creative nate altrove. Nulla di paragonabile a quanto l’Urbe diverrà poco dopo la svolta del 1500, per l’incidere di numerosi fattori, la politica aggressiva e di restauratio imperii intrapresa da Giulio II, il calo simultaneo delle signorie del Centro e del Nord, in caduta di potenza economica e militare, le aspre contese tra le due formazioni statuali di largo raggio, Francia e Spagna. Si dirà che la Roma papale era destinata a rimanere il proverbiale vaso di coccio, tra questi due giganti, con una persistente debolezza che avrebbe dovuto applicarsi anche agli esiti nell’arte. Ma, tra i due litiganti, il papato seppe erigersi come luogo di equilibrio e di compensazione, come ago della bilancia.
La mostra al Museo del Corso documenta assai bene questo ruolo di punto d’arrivo, che l’Urbe svolse nel Quattrocento, con la difficoltà aggiunta che le più alte imprese si svolsero sulle pareti di chiese e palazzi, dove bisogna recarsi per ammirarle, nel caso che non siano andate distrutte. Purtroppo un tale destino negativo ha inghiottito i vastissimi affreschi che, tra terzo e quarto decennio, avevano condotto in S. Giovanni in Laterano i due capofila del gotico internazionale, Pisanello e Gentile da Fabriano. A surrogare quel vuoto la mostra può fornire solo disegni, soprattutto del primo e della sua scuola. A Roma recitarono una delle scene della loro tormentata coesistenza Masolino da Panicale e Masaccio, ma di quest’ultimo è sparita ogni traccia. E invece vi giunse, e in qualche modo vi riassunse i suoi meriti, il Beato Angelico, che tra il 1447 e il 1455 dipinse in Vaticano, per il Papa di allora, la cappella Niccolina. Ma si tratta proprio di un riassunto, di un’epitome finale, di quel suo diligente allineamento di perfetti manichini, la cui matrice sta altrove, nelle cellette del fiorentino Convento di S. Marco. Forse Melozzo da Forlì, anch’egli formatosi a Nord, tra il Veneto, le Marche e la Romagna, riuscì davvero a far esplodere nel modo più pieno a Roma i suoi angeloni, gonfi, maestosi, rotondeggianti come palloni meteorologici. E poi, certo, a Roma convennero tutti i maggiori esponenti della terza generazione del Quattrocento, con Sandro Botticelli in testa, e poi il Perugino, il Pintoricchio, Cosimo Rosselli, e sembrarono chiamati a dare il meglio di sé nella cappella voluta da Sisto IV, la Sistina per antonomasia. Ma fu un canto del cigno, delle forme statiche, smunte, paratattiche che erano proprie di quella generazione, quando già tra i suoi membri sorgeva il talento ribelle di Leonardo. Sembrava un culmine, che in particolare il Pintoricchio disseminò in altre imprese parietali, nell’Appartamento Borgia, sempre in Vaticano, in S. Maria in Aracoeli. Ma la storia stava per voltar pagina, e in quella medesima Cappella Sistina di lì a poco si sarebbe manifestato il genio di Michelangelo, affiancato da quello raffaellesco nelle contigue Stanze vaticane. Si dirà che anch’essi erano nati e cresciuti altrove, ma ci volevano il nuovo volto, le nuove sorti di Roma, a far da crogiuolo, da luogo di fusione e diffusione. Solo da quel momento partiva la vocazione davvero centralizzante e universale, almeno per il mondo occidentale, di una Roma destinata ad essere egemone nell’arte per tre abbondanti secoli.

Repubblica 18.1.08
L'ultima maschera del nuovo statista
di Eugenio Scalfari


COMINCIO questa mia rassegna settimanale dei principali fatti e misfatti politici con una citazione. E´ tratta da un libro di Alexis de Tocqueville, "La democrazia in America" scritto due secoli fa e ormai diventato un classico. L´ha ricordato Umberto Eco nella sua "bustina" sull´Espresso di venerdì.
«Nella vita di ogni popolo democratico c´è un passaggio assai pericoloso, quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente dell´abitudine alla libertà. Arriva un momento in cui gli uomini non riescono più a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell´ordine è già schiava in fondo al cuore e da un momento all´alto può presentarsi l´uomo destinato ad asservirla. Non è raro vedere pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o distratta e che agiscono in mezzo all´universale immobilità cambiando le leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi. Non si può fare a meno di rimanere stupefatti di vedere in quali mani indegne possa cadere anche un grande popolo». Aggiungo per doverosa completezza l´avvertenza che spesso compare in certi film che trattano problemi e casi di stretta attualità: «Ogni riferimento a personaggi reali è infondato o puramente casuale».
Abbiamo assistito ed assistiamo, dopo la vittoria del centrodestra ad una profonda trasformazione del leader di quella parte politica, da pochi giorni asceso per la quarta volta in 14 anni alla presidenza del Consiglio. Tanto è stato demagogico e iracondo nelle sue precedenti apparizioni e tanto appare oggi uno statista pensieroso del bene comune. Molti dubitano della sincerità di questa trasformazione.
Un campione intervistato da "Sky Tg24" su questo tema, rispondendo alla domanda «è sincero o è bugiardo?» ha dichiarato per l´82 per cento «è bugiardo». Una parte consistente del campione è formata evidentemente da persone che appena pochi giorni prima avevano votato per lui. Ciò rende estremamente pertinente l´analisi di Tocqueville.
Ma io non credo – e l´ho già scritto domenica scorsa – che Silvio Berlusconi, bugiardo per antonomasia, in questo caso menta. E´ un grande attore e un grande venditore del suo prodotto, cioè di se stesso, e come tutti i grandi attori si immedesima completamente con ciò che dice. Nel momento in cui decide di assumere e interpretare il personaggio dello statista, quella maschera diventa vera, diventa realtà, l´attore si comporta da statista e lo è. Quindi va preso sul serio. Del resto in politica le parole sono pietre ed è precluso fare il processo alle intenzioni.
Tuttavia la memoria delle maschere assunte in precedenza rimane e deve rimanere perché l´attore può cambiar maschera a suo piacimento e in qualunque momento se gli ostacoli che incontra lungo la strada si rivelino troppo difficili e troppo ostici ai suoi interessi e alle sue ambizioni. Il grande attore non ha convinzioni proprie e una propria identità: si immedesima nella parte e quella è la sua forza. Finita una recita ne comincia un´altra; talvolta interpreta due parti e due personaggi diversi e addirittura contrapposti. In queste situazioni pirandelliane Berlusconi ci si ritrova molto bene e tutti noi, cittadini di questo Paese, dobbiamo ricordarcelo.
Ho detto che il grande attore non ha convinzioni proprie o, se pure ne ha, esse sono irrilevanti di fronte alla sua personalità recitante. Ma quando la recita è finita le sue pulsioni istintuali affiorano e determinano i suoi comportamenti. Abbiamo imparato a conoscerle, le pulsioni istintuali di Berlusconi che è sulla scena nazionale da ormai trent´anni. Il neo-statista va preso sul serio e gli si può e anzi gli si deve fare un´apertura di credito; del resto le elezioni le ha vinte e la sua legittimità è piena e fuori discussione. Non altrettanto la sua tempra morale e politica. Perciò con lui la disponibilità deve andare di pari passo alla memoria vigile e al riscontro costante tra parole e fatti, tra intenzioni e realizzazioni.

* * *
La sua campagna elettorale e quella dei suoi alleati Bossi e Fini è stata costruita soprattutto sul tema della sicurezza. Gli errori del centrosinistra su questo tema sono stati molti e gravi: la maggioranza si è più volte sfaldata, i dirigenti della sinistra radicale hanno frequentemente bloccato provvedimenti di energica prevenzione e di necessaria repressione predisposti a suo tempo dal ministro dell´Interno Giuliano Amato in accordo con Prodi. La magistratura, le sue lentezze e i suoi riti hanno fatto il resto e la delinquenza ha goduto di una diffusa impunità. Non tale tuttavia da rappresentare una minaccia nazionale. Se essa è balzata al primo posto nelle preoccupazioni degli italiani ciò è avvenuto perché la percezione di quella minaccia e la paura che ne è derivata sono state cavalcate senza risparmio e senza ritegno dai triumviri del centrodestra.
Cecità di fronte al fenomeno della micro-delinquenza da parte della sinistra radicale, eccitamento della paura da parte della destra: in queste condizioni i richiami alla ragione e al senso di responsabilità dei democratici sono caduti nel vuoto.
Immediatamente dopo la vittoria elettorale di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te, del giustizialismo di quartiere. Nelle province di camorra la criminalità organizzata si è trasformata in giustizialismo di piazza: la manovalanza camorrista ha preceduto la polizia e i carabinieri, l´assalto ai campi rom è venuto prima delle leggi in corso di redazione da parte del nuovo ministro dell´Interno il quale, in accordo con il sindaco di Milano e con quello di Roma, ha anche istituito la nuovissima figura del "Commissario ai rom".
Che cosa debba fare un commissario addetto ad un´etnia è un mistero, ma una cosa è certa: si tratta di un´inutile e pericolosissima criminalizzazione d´una collettività.
Maroni si affanna da qualche ora a ridimensionare gli aspetti abnormi di queste sue iniziative strombazzate a pieno volume durante la campagna elettorale. Il reato di immigrazione clandestina, che costituiva uno dei punti forti della predicazione leghista, ha dovuto essere depennato di fronte alle obiezioni del capo dello Stato e dell´opinione pubblica europea, ma resta un contesto non solo repressivo ma persecutorio che eccita ancora di più la gente di mano e il teppismo della destra estrema.
L´altro ieri a Napoli uno stuolo di mamme scarmigliate e urlanti voleva scacciare alcuni handicappati-rom che per una notte erano stati ricoverati in un convitto dopo l´incendio del campo di Ponticelli. «Bruciarli no, ma scacciarli sì e subito» urlavano quelle mamme ed una in particolare che era la più agitata. Si è poi saputo che è la moglie del boss camorrista di quel quartiere.
A questo siamo arrivati, ma c´è una logica nella follia d´aver cavalcato la paura fino a questo punto: poiché miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico interno sul quale scaricare le tensioni e doveva essere un nemico capace di concentrare su di sé l´immaginario della nazione. Ora quell´isteria dell´immaginario ha preso la mano da Napoli a Verona e può dar luogo a conseguenze assai gravi.

* * *
Walter Veltroni ha fatto bene ad incontrare Berlusconi a Palazzo Chigi venerdì mattina. Dal resoconto fatto dallo stesso segretario del Pd risulta che abbiano toccato vari e importanti argomenti: dalle riforme istituzionali da fare insieme ai programmi dei due schieramenti che restano invece, come è giusto che sia, fortemente conflittuali.
In particolare hanno parlato di Rai (qui la conflittualità è massima) di sostegno dei salari (anche su questo punto non c´è stato accordo) di legge elettorale europea (istituzione d´una soglia di sbarramento del 3 per cento).
Non si è parlato invece di sicurezza, per riguardo (così è stato detto) alle prerogative del Capo dello Stato cui spetta di controfirmare i decreti e i disegni di legge.
A noi non sembra una buona cosa avere escluso dall´agenda di questo primo incontro il tema della sicurezza. Al dà degli specifici provvedimenti di prevenzione e di repressione che si dovranno adottare, resta una visione d´insieme che riguarda – come scrive Tocqueville nella citazione sopra riportata – «il gusto di civiltà e di libertà».
La nostra visione di cittadini democratici mette strettamente insieme la legalità, la protezione dei cittadini, la certezza delle pene, la repressione rigorosa della giustizia di strada e delle ronde «volontarie», l´opposizione più ferma ad ogni criminalizzazione di etnie e di collettività.
Questo avremmo voluto che il segretario del Pd dicesse a titolo di premessa nel suo primo incontro con il presidente del Consiglio. Sappiamo che questa visione e questi valori appartengono interamente al patrimonio etico-politico di Veltroni e del partito da lui guidato. Vogliamo sperare che siano condivisi anche da Silvio Berlusconi nella sua nuova veste di statista. Ma se ci si deve impegnare in una politica di dialogo istituzionale, questi valori non possono essere sottaciuti e dati per noti; vanno viceversa proclamati e la loro condivisione va posta come premessa e condizione indispensabile al dialogo. Se non fossero condivisi e tradotti in atti legislativi e in linee guida amministrative conformi, il dialogo non potrebbe e non dovrebbe evidentemente aver luogo.

* * *
Poche altre cose vogliamo aggiungere a proposito delle riforme istituzionali che maggioranza ed opposizione dovranno portare avanti insieme.
Ben venga il riconoscimento da parte di Berlusconi del governo-ombra come interlocutore del governo governante. Ma non c´è soltanto il Partito democratico all´opposizione, sicché se si vorrà formalizzare questa novità bisognerà volgere al plurale quella parola perché tutte le opposizione hanno il diritto di interloquire. Oppure non si formalizzi nulla e si aumentino piuttosto i poteri di controllo del Parlamento in pari misura ai maggiori poteri che è giusto riconoscere al presidente del Consiglio, capo dell´Esecutivo.
E´ passato quasi sotto silenzio (se si esclude il lucido articolo di Ignazio Marino su «Repubblica» di venerdì) il fatto che nel nuovo governo non esiste più il dicastero della Sanità, derubricato come parte del dicastero del «Welfare» affidato ad un sottosegretario o vice ministro che sia.
La derubricazione d´un ministero le cui attribuzioni sono sotto l´usbergo della Costituzione sotto forma del diritto alla salute di tutti i cittadini, è incomprensibile e inaccettabile. Capisco che la derubricazione possa esser gradita ai presidenti delle Regioni più ricche ma proprio per mantenere la parità di prestazioni sanitarie secondo il bisogno e non secondo il reddito che la Costituzione sancisce, non si può abolire il ministero della Salute e disossare il Servizio sanitario nazionale.
Questa materia riporta l´attenzione sul federalismo fiscale, altro tema delicatissimo che fa parte di quelle riforme da fare insieme tra maggioranza ed opposizione.
Bossi ha programmato da tempo la sua secessione dolce del Lombardo-Veneto basata su un federalismo fiscale spinto all´estremo e Berlusconi, Tremonti e Fini gli hanno dato carta bianca. Dove ci può portare questo salto nel buio in termini politici ed economici è ancora del tutto ignoto. I primi studi effettuati da economisti indipendenti mostrano squilibri fortissimi tra Nord e Sud, tra regioni ricche e regioni povere, tra entrate tributarie incassate e fonti di reddito che le generano.
Il federalismo fiscale si ripercuote anche su alcuni principi costituzionali, sul Senato federale, sulla composizione e i poteri della Corte Costituzionale. Se non ci sarà accordo su queste complesse e delicatissime questioni il governo dovrà procedere da solo e poiché non dispone della maggioranza necessaria per leggi di natura costituzionale dovrà ricorrere ad un referendum che spaccherebbe il Paese in due.
Ci pensi bene il neo-statista di Palazzo Chigi. Noi ci auguriamo che la sua sopravvenuta saggezza gli porti consiglio e gli dia la forza di far marciare i suoi alleati in accordo con lui anziché lui in accordo con loro. In caso contrario la strada sarà tutta in salita e non sarebbe un bene per un Paese che ha bisogno di crescere crescere crescere. Crescere soprattutto moralmente, signor presidente del Consiglio, perché questa è ormai diventata la nostra principale emergenza.

Corriere della Sera 18.5.08
Sacerdoti, pochi e anziani
L'età media è 60 anni, da 33 in servizio Calo costante, nel 2023 un quarto in meno
di G. G. V.


«In Italia, c'è un'Italia antica fatta di scale ripide, anziani soli e giovani sacerdoti...». Stacco su carrugi e prospettive vertiginose, accanto a un vecchio pescatore appare don Franco, prete in erba che galleggia allegramente in un gozzo sullo sfondo di una splendida marina. «Lui e tanti come lui sono gli occhi, il cuore, la voce e l'anima di tanti piccoli paesi a volte dimenticati...». Ecco, a parte la storia del paesello «dimenticato» — in realtà si tratta di Riomaggiore, fiorente gioiello delle Cinque Terre patrimonio mondiale dell'umanità —, lo spot Cei dell'otto per mille mostra l'essenziale: che succederebbe se non ci fosse, don Franco? Perché quelli come lui non abbondano, loro sì «dimenticati». Di solito non se ne scrive, gli archivi dei giornali e la rete internet traboccano di preti pedofili, preti concubini, preti eccentrici. Di quelli normali, cioè la quasi totalità, mai. Eppure la faccenda riguarda migliaia di fedeli in tutta Italia, una quantità di quartieri, paesi e paeselli che da anni non vedono un parroco, una miriade di ragazzini ignari del catechismo che senza un oratorio non saprebbero dove giocare a pallone e di anziani che non avrebbero con chi parlare.
Per dare l'idea: all'inizio del Novecento, in Italia, c'erano 68.848 sacerdoti per 33 milioni di abitanti; ora che siamo 57 milioni i preti sono più che dimezzati. E se oggi non è facile, fare il prete in futuro lo sarà ancora meno. I sacerdoti in Italia hanno un'età media di sessant'anni e un'anzianità di servizio di trentatré. La metà è stata ordinata prima del '67, cioè prima che entrassero in vigore le riforme del Vaticano II. Con 31.179 sacerdoti diocesani e 25.817 parrocchie si arriva a poco più di un prete (il rapporto è 1,19) per parrocchia compresi gli anziani— un prete su otto viaggia sugli ottanta —, e in regioni come Emilia, Abruzzo, Molise, Toscana e Liguria ci sono da tempo più campanili che sacerdoti. Ma potrebbe andare peggio: è «praticamente certo» che ci sarà un quarto di preti in meno, «ma in alcune regioni un terzo», nel giro di quindici anni. Così, in proiezione ventennale, si calcola ne
La parabola del clero, un'approfondita ricerca curata dal sociologo Luca Diotallevi e promossa dalla Cei con la Fondazione Giovanni Agnelli. L'indagine offre uno scenario che, a «ordinazioni costanti», passa dai 32.970 preti del 2003 ai 25.407 del 2023, meno 22,9 per cento, con punte sul 40 dal Piemonte alle Marche.
Fin qui le brutte notizie. Perché anche nello scenario più fosco l'Italia del 2023 vivrebbe ciò che già adesso sperimentano le Chiese di Francia o Spagna, «realtà tutt'altro che estinte e agonizzanti», nota Diotallevi. E poi i numeri non sono tutto: lo stesso monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della Cei, nel commentare la ricerca mette in guardia dal «sopravvalutare l'aspetto quantitativo delle trasformazione del clero » e badare alle qualità richieste dalla nuova situazione, «serve una fede più pensata, il necessario rinnovamento richiederà maggiore attenzione al mondo che cambia...».
Ogni crisi è sempre fertile, basta conoscerla. Dai numeri alla realtà la prima immagine è quella di don Franco Pagano, 31 anni, il sacerdote del gozzo di Riomaggiore. Se gli si chiede cos'è cambiato, oggi, don Franco risponde deciso: «Bisogna essere ancora più preti, non imboscarsi: stare tra la gente, sì, ma come sacerdote. Come dice il nostro vescovo, Francesco Moraglia: ricordiamoci che non facciamo i preti, siamo preti». Nella vicina Biassa la gente ricorda come una figura mitologica il vecchio parroco, don Alfonso Ricciardi, quello che durante la vendemmia andava a stanare la gente con un megafono, «contadini di Tramonti!», e ormai da anni alla Chiesa romanica di San Martino badano le donne del paese. «Eh sì, è un grande problema. Se ogni settimana, per dire, riuscissi ad andare a trovare tutti gli anziani, sarebbero contenti e lo sarei anch'io. Ma devo pensare al catechismo, agli sposi, all'oratorio, all'insegnamento a scuola e in seminario, alle messe che talvolta mi chiedono di celebrare anche in altri paesi come Biassa, a tutti quei ruoli che una volta in parrocchia ci si divideva mentre adesso sono da solo», allarga le braccia don Franco. «E questo quando si richiede un ministero più attivo verso la gente. Non è più scontato che vengano da te, conta sempre più l'aspetto missionario, li devi cercare. E la risposta c'è, mai come adesso la gente avrebbe bisogno che fossimo più presenti e desidera ardentemente un parroco residente. Solo che noi non riusciamo ad essere residenti ».
Così i preti stanno già cambiando. Se l'Italia delle famiglie numerose che usavano mandare un figlio fisso in seminario è storia, in compenso un giovane che si fa oggi sacerdote, con la prospettiva di un impegno totale (a 852,93 euro al mese) è più consapevole e maturo, la stessa età media di ordinazione, dai 23 anni del 1928, ha superato i trenta, «quest'anno a Milano saranno ordinati anche due cinquantenni, casi peraltro straordinari, ma è vero che oggi si inizia per lo più dopo l'università», spiega don Luigi Panighetti, prorettore del seminario ambrosiano di Seveso, sede del primo biennio di Teologia. Scenderà l'età media e saranno più «globalizzati», visto che cresce la presenza di stranieri da tutto il mondo e già adesso il 4,5 per cento dei preti è nato all'estero, il 23 per cento a Roma e nel Lazio (per motivi di studio), mentre in Umbria la metà dei preti fino a quarant'anni è straniera. Dopo la strage di 'ndrangheta a Duisburg, il viceparroco di San Luca don Stefano Fernandez, indiano, spiegava candido: «Qui i preti italiani non ci vogliono venire». Sarà sempre meno così, le diocesi chiedono «flessibilità» e sperimentano, le «comunità pastorali» con équipe di preti, religiose e laici nate a Milano per coprire più parrocchie si diffondono da Bergamo a Venezia. In fondo non avranno il tempo d'annoiarsi né di sentirsi isolati. «C'è uno stare con se stessi educativo», sorride don Franco. «E poi non si è mai soli quando hai un interlocutore nel Signore...».

Corriere della Sera 18.5.08
Ratzinger: niente compromessi sul relativismo
di Luigi Accattoli


SAVONA — Papa Benedetto in visita a Savona ricorda Pio VII — che qui fu tenuto prigioniero da Napoleone per tre anni (1809-1812) — e paragona quella «esperienza tremenda» alle «sfide del mondo» che la Chiesa deve affrontare oggi con «coraggio» e che sono principalmente tre: «materialismo, relativismo, laicismo». La storia del Papato è una miniera per la predicazione di ogni Papa: Paolo VI nel 1966 fece un salto a Fumone (Frosinone) per visitare il castello dove Bonifacio VIII aveva tenuto prigioniero Celestino V e ieri il Papa teologo ha visitato a Savona le tre stanze appoggiate alla parete destra del Duomo che furono residenza coatta di Pio VII deciso a non cedere alle pretesa del Bonaparte che oltre a prendersi «ciò che è di Cesare» voleva decidere anche in «ciò che è di Dio». Benedetto ha potuto osservare lo studiolo dove il Papa lavorava tenuto d'occhio dai gendarmi napoleonici che potevano entravi a piacimento da una porticina, la loggia con grata dalla quale assisteva alle celebrazioni in Duomo. Nell'omelia davanti a 20 mila persone sotto la pioggia, il Papa ha ricordato «quella pagina oscura della storia dell'Europa» e ne ha tirato questa «lezione» per i nostri giorni: «Ci insegna il coraggio nell'affrontare le sfide del mondo: materialismo, relativismo, laicismo, senza mai cedere a compromessi, disposti a pagare di persona pur di rimanere fedeli al Signore e alla sua Chiesa».

Corriere della Sera 18.5.08
Le prospettive della neurobiologia
Coscienza e verità nel cervello
di Jean-Pierre Changeux


Pubblichiamo una sintesi del discorso che Jean-Pierre Changeux — padre della neurobiologia, docente al Pasteur di Parigi — ha tenuto al Simposio organizzato venerdì e ieri a Lugano dalla Fondazione Balzan. Tra i suoi saggi editi in Italia, «L'uomo di verità» (Feltrinelli) e «Geni e cultura» (Sellerio).

Che cos'è la verità? Diderot suggeriva che fosse «la corrispondenza tra le nostre idee e gli oggetti». Ciò implica non solo la corrispondenza delle nostre idee con gli oggetti esterni ma anche la coerenza interna delle nostre idee tra di loro e con quelle degli altri. La presentazione si propone di cercare di stabilire un ponte plausibile tra l'epistemologia e le neuroscienze sulla base del concetto di persona capace secondo Paul Ricoeur, cioè un individuo razionale e cosciente impegnato in relazioni sociali, dotato di identità personale e della capacità di considerare «se stesso come altro da sé». Questo porta a concepire la ricerca della verità come la produzione di una rete in evoluzione di cervelli interagenti che, grazie alla collaborazione e alla competizione, ha come risultato lo sviluppo del sapere scientifico oggettivo.
Questa posizione genera tre paradossi per il neuroscienziato.
Un primo paradosso riguarda la necessità di tratti universali specie-specifici del cervello dell'Homo sapiens e lo straordinario rapporto evolutivo non lineare tra la rapida crescita della complessità anatomica del cervello e le modeste modificazioni dell'organizzazione del genoma che ne è responsabile: si suggeriscono meccanismi genetici plausibili.
Un secondo paradosso riguarda l'apparente contraddizione tra il concetto di involucro genetico specie-specifico dell'organizzazione del cervello umano e la genesi di una ricca diversità culturale che dà luogo a un ampio spettro di sistemi simbolici e convinzioni. La risposta suggerita si basa sulla modalità di sviluppo delle connessioni cerebrali attraverso molteplici fasi successive di esuberanza seguite da momenti di stabilizzazione/ eliminazione selettiva tramite attività provocata/ spontanea implicante sistemi di valutazione/ricompensa, che dà luogo a un'appropriazione epigenetica dei circuiti in sviluppo grazie a processi culturali, creando una variabilità epigenetica tra i singoli cervelli e, come conseguenza, una diversità di opinioni e punti di vista.
Terzo punto diventa la base neurale della coscienza, il problema del pensiero razionale e la nozione dell'autovalutazione critica alla ricerca della verità. L'«ipotesi della memoria di lavoro neuronale » presume che i processi consci impegnino neuroni piramidali corticali con connessioni orizzontali a lungo raggio particolarmente abbondanti nella corteccia prefrontale e creino un'interconnettività globale a livello cerebrale comprendente il riferimento al sé, i ricordi personali, i ruoli interiorizzati e le convenzioni sociali insieme con la «lettura della mente», l'«inibizione della violenza» e la lotta per «gratificazioni condivise» socialmente.
Una neuroscienza della persona capace e la relativa ricerca della verità diventano quindi un progetto realistico.

Corriere della Sera 18.5.08
Il '68, Cannes e ciò che resta
di Tullio Kezich


«Dimenticate il '68!». L'appello del presidente Sarkozy che tanto scandalo ha suscitato presso i nostalgici della Contestazione, sembra essere stato raccolto in libreria. Dei troppi volumi recentemente apparsi sull'argomento non si è venduto quasi niente. Incluso il tascabile Cinéma 68, edito dai Cahiers, una silloge di chiacchiere in gran parte superate e filosofemi illeggibili. Eppure proprio negli orti della Decima musa il discusso movimento ha lasciato una traccia importante. Domani ricorrono i 40 anni da quel 19 maggio in cui, a mezzogiorno in punto, il delegato generale Robert Favre Le Bret fu costretto a interrompere il 21esimo festival inaugurato il 10, in sfortunata coincidenza con la notte delle barricate al Quartiere Latino. Da subito sulla Croisette erano cominciate le agitazioni guidate da Truffaut e Godard, mentre i membri della giuria presieduta dal letterato André Chamson, da Louis Malle a Roman Polanski, da Alain Delon a Monica Vitti, si erano dimessi o sembravano sul punto di farlo. Alle tre del pomeriggio del 18 Geraldine Chaplin, all'epoca ispiratrice dello spagnolo Carlos Saura, attaccandosi al sipario aveva impedito la proiezione del loro film
Peppermint Frappé, ultimo tentativo di mandare avanti il programma. Proprio per la stretta correlazione con i moti diffusi in tutto l'Esagono, quando il regime gollista appariva di giorno in giorno sempre più periclitante, gli eventi della Costa Azzurra si rivelarono una faccenda seria: il festival non pervenne alla premiazione, il successo dei cineasti rinsaldò i rapporti nella categoria e lo scossone che ne derivò alla manifestazione fu in definitiva benefico.
Tant'è vero che subito l'anno dopo nacque una rassegna parallela, la Quinzaine des Réalisateurs, riservata al film d'autore. Da tutto ciò Cannes trasse nuove motivazioni e consensi che la portarono un bel passo avanti rispetto all'eterna rivale Venezia. Dove in settembre alcuni cinematografari nostrani provvidero a inscenare una pittoresca parodia dell'evento transalpino, che pur strombazzando minacce e ottenendo ampio spazio sulla stampa si sgonfiò in meno di 48 ore senza impedire alla Mostra di svolgersi regolarmente fino alla consegna del Leone d'oro. Oltre ad approfondire la spaccatura già esistente fra i registi di supersinistra e i moderati, la baraonda del Lido non cambiò un bel niente e anzi contribuì a creare le premesse per la definitiva annessione della Biennale da parte della partitocrazia che da allora vi esercita un soffocante controllo. Ne seguì un decennio di inerzia che fra vani aneliti di rilancio, rinnovate confusioni e stolte cancellazioni lasciò a Cannes il tempo di stabilizzare un primato da allora diventato inattaccabile.