martedì 20 maggio 2008

l’Unità 20.5.08
Rom, l’Italia diventa un caso al Parlamento Ue
Oggi il dibattito. Schulz: «Dobbiamo evitare che succeda altrove». Frattini alla Spagna: basta interferenze
di Umberto De Giovannangeli


«FRANCAMENTE È ORA DI FINIRLA con queste invasioni di campo». Non è lo strascico velenoso di un infuocato finale di campionato. Ma la metafora calcistica utilizzata dal ministro degli Esteri Franco Frattini dà conto di un clima tutt’altro che rasserenato tra Italia e Spagna. E come se non bastasse, ecco che il «caso Italia-Rom» deflagra anche a Strasburgo. Il Parlamento europeo ha approvato con 106 sì, 100 no e due astenuti, la proposta avanzata dal gruppo dei socialisti europei di tenere oggi un dibattito in aula sulla situazione in Italia e in tutta Europa dei Rom. «Dobbiamo evitare che succeda anche altrove ciò che è successo in Italia, e vogliamo sapere che cosa ha fatto in passato e che cosa intende fare in futuro la Commissione europea», spiega il capogruppo del Pse Martin Schulz. «Abbiamo voluto, noi socialisti, che il Parlamento europeo desse un messaggio chiaro e forte sulla questione dei Rom ed in particolare sul grave clima di intolleranza e di odio che è stato alimentato nelle ultime ore in Italia», sostiene Gianni Pittella, presidente della delegazione italiana del Pse presso il Parlamento europeo. Il tema dell'integrazione dei Rom, rimarca Pittella, «è tema europeo e, pertanto, domani (oggi, ndr) chiederemo alla Commissione europea di attivarsi subito perchè chi delinque sia punito ma - conclude l'europarlamentare del Pse- chi vive onestamente, e sono la stragrande maggioranza, sia tutelato nei suoi diritti di cittadino al pari degli altri». «La campagna elettorale italiana, così focalizzata sui temi della sicurezza e della paura dell'immigrazione incontrollata, ha generato una “cultura dell'impunità” per chi oggi commette violenze nei campi Rom e stigmatizza gli immigrati”: il capogruppo dell'Alleanza dei Democratici e Liberali per l'Europa lo scozzese Graham Watson, ha utilizzato il suo minuto d'intervento libero, ieri pomeriggio a Strasburgo, per lanciare in plenaria il suo pesante e argomentato j'accuse contro gli episodi d'intolleranza verso i Rom accaduti recentemente in Italia, e che stanno preoccupando l'Europa. «Nei giorni recenti ci sono stati dei raid della polizia contro le comunità Rom a Roma, e tra i fermati 118 hanno ricevuto un ordine di espulsione immediata. Il nuovo sindaco della Capitale (Gianni Alemanno, ndr) ha detto che espellerà 20.000 persone», ricorda Watson, menzionando poi anche «gli attacchi ai campi nomadi di Roma e della periferia di Napoli, con gruppi di facinorosi che hanno impedito ai pompieri di spegnere i roghi». Il capogruppo euroliberale ha poi sottolineato che «centinaia di famiglie di immigrati sono fuggite per salvarsi la vita e ci sono rapporti che riferiscono di alcuni bambini dispersi. «Sappiamo che in molti nostri Stati membri ci sono problemi di attacchi contro le comunità immigrate, ma il livello di violenza in Italia è insolito», ha sottolineato il leader liberaldemocratico. «Persino il commissario Frattini, che era il primo a fare la lezione ai nuovi Stati membri sull'integrazione delle minoranze etniche, rimette ora in questione gli accordi di Schengen», incalza Watson, secondo il quale «la preoccupazione per questa questione è di portata europea, perché arriva al cuore delle ragioni che motivarono la fondazione dell'Unione europea». È «cruciale» fare una distinzione fra chi commette delitti e la «stragrande maggioranza» e «questa distinzione non viene fatta da tutti coloro che stanno partecipando alla discussione in Italia e questo è molto triste», annota Thomas Hammaberg, commissario per i Diritti dell'uomo del Consiglio d'Europa, riferendosi alla questione dei Rom, davanti alla commissione Libertà civili del Parlamento europeo durante la discussione della relazione sullo stato dei diritti fondamentali nell'Ue. «Per quanto riguarda la situazione in Italia - prosegue Hammaberg - è necessario riconoscere che esiste la libertà di movimento e che questa vale per tutti i gruppi etnici» Piove sul bagnato per l’Italia. Da Strasburgo a Madrid. Che la crisi tra Roma e Madrid sia tutt’altro che rientrata, lo si comprende dai toni, irritati, e dai contenuti, non proprio concilianti, utilizzati dal titolare della Farnesina in due interviste radiotelevisive. «Confido che Zapatero voglia in qualche modo indicare, ordinare, ai suoi ministri di evitare queste dichiarazioni che sono inutilmente polemiche e contro l’indirizzo dello stesso governo spagnolo», afferma in mattinata Frattini, commentando le dichiarazioni dell’altro ieri del ministro del Lavoro e dell’Immigrazione spagnolo, Celestino Corbacho. Si tratta di dichiarazioni «imprudenti ed estemporanee», rileva il ministro degli Esteri intervistato da Maurizio Belpietro su Canale 5. Passano poche ore, è l'irritazione del titolare della Farnesina si appalesa dai microfoni del Gr1. «In primo luogo - sottolinea Frattini - credo che non siano accettabili le dichiarazioni di ministri (spagnoli) che interferiscono con l’attività di un governo eletto dai cittadini italiani, tra l’altro, in materia di immigrazione per la quale occorre una cooperazione strettissima tra Spagna e Italia perché si tratta di un interesse comune». L’intervista radiofonica avviene dopo che il titolare della Farnesina aveva tenuto a rapporto l’ambasciatore italiano a Madrid, Pasquale Terraciano. Frattini incarica l’ambasciatore di promuovere un incontro, tra domani e giovedì, tra il ministro Andrea Ronchi e il suo omologo spagnolo delle Politiche europee per illustrare «ai colleghi spagnoli quello che non conoscono» sulla politica dell’immigrazione dell’attuale governo italiano.

l’Unità 20.5.08
«In 120mila vivono in campi tremendi»
Accampati in baracche tra amianto e rifiuti
La denuncia dell’europarlamentare Mohacsi


Illegalità diffuse, carenza di servizi igienici e di acqua potabile, sicurezza totalmente assente, retate notturne: la vita dei rom in Italia è tra «le peggiori in Europa». È l’analisi dell’eurodeputata ungherese di origine rom, Viktoria Mohacsi, dopo due giorni di visita negli insediamenti nomadi di Roma (Castel Romano e Casilino 900) e Napoli (Poggioreale). L’europarlamentare, ospite dei radicali, denuncia: «Il vostro Paese è tra i peggiori dell’Unione europea». Particolarmente grave la situazione a Napoli, dove «centinaia di rom. tra cui moltissimi bambini, vivono tra cumuli di rifiuti, in baracche costruite anche con amianto».
Mohacsi denuncia la vicenda di dodici bambini rom tolti ai genitori dal Tribunale dei minori, perché accusati di accattonaggio: «Di loro si sono perse le tracce; da due anni i genitori non sanno più nulla della loro sorte». Mohacsi sottolinea anche un altro aspetto anomalo: «l’Italia non ha chiesto neanche i soldi previsti dalla Unione europea per l’integrazione delle minoranze etniche. Da voi vivono 120 mila Rom in condizioni di semilegalità o illegalità totale. Ma se a questi aggiungiamo gli 80 mila che hanno la cittadinanza italiana, il numero totale in Italia è di 200 mila Rom». Quasi tutti, spiega l’eurodeputata, «sono fuggiti dalla Romania per lo più per scappare dalla fame e dalla miseria. E avrebbero per questo diritto allo status di rifugiati». Ad accompagnare Mohacsi a Napoli, una delegazione di deputati radicali eletti nelle liste del Pd tra cui Rita Bernardini, Maria Antonietta Farina Coscioni e Elisabetta Zamparutti.
«Durante la nostra visita nel napoletano - continua Mohacsi- abbiamo scoperto che questi campi vengono regolarmente visitati dalla polizia, soprattutto nelle ore notturne». Gli abitanti dei campi hanno raccontato infatti che alcuni poliziotti si presentano verso le 24 negli insediamenti, e «prendono a botte i rom senza dire nulla. Alcuni li arrestano per poi rilasciarli dopo 48 ore». Quei campi rom di Napoli, conferma la Bernardini, sono un’indecenza, «si vive lì in condizioni disumane ma tutta la città sta tra degrado e di abbandono». E avverte: attenzione «a non soffiare sul fuoco, a non far precipitare la situazione. Occorrono misure efficaci. Puntare tutto sul carcere e sull’innalzamento delle pene non porta da nessuna parte».

Repubblica 20.5.08
Il caso rom irrompe alla Ue accuse di "torture" all'Italia
L’eurodeputata Mohacsi: nei campi la polizia picchia
di Alberto D’Argenio


Hammarberg, del Consiglio d´Europa: evitare parole che scate-nano nuove fobie
Oggi a Strasburgo dibattito chiesto dal Pse. Schulz: non si parlerà solo del vostro paese

BRUXELLES - Situazioni di illegalità diffuse, mancanza di servizi igienici e acqua potabile, condizioni di sicurezza pubblica totalmente assenti, retate notturne: la realtà dei rom in Italia è «tra le peggiori in Europa». E´ la denuncia che l´eurodeputata ungherese di origine rom, Viktoria Mohacsi, lancia dopo due giorni di visita negli insediamenti nomadi di Roma (Castel Romano e Casilino 900) e Napoli (Poggioreale). Prima parlando ad un convegno organizzato a Roma dai Radicali, poi, in serata, intervenendo di fronte alla commissione Libertà pubbliche dell´europarlmento, dove rincara la dose: «La polizia tortura i rom». La Mohacsi aggiunge poi che la responsabilità politica degli ultimi casi di violenza, vedi l´assalto ai campi, a suo avviso è del governo Berlusconi.
Trentadue anni, tre figli, la parlamentare ungherese che milita nel gruppo liberale di Strasburgo è una vera specialista di rom. «Il vostro Paese - denuncia - è tra i peggiori dell´Unione». Particolarmente grave la situazione a Napoli, dove «centinaia di rom, tra cui moltissimi bambini, vivono tra cumuli di rifiuti, in baracche costruite anche con materiale in amianto». Quindi denuncia la vicenda di 12 bambini rom («ma potrebbero essere centinaia») tolti ai genitori dal tribunale dei minori, perchè accusati di accattonaggio: «Di loro si sono perse le tracce, da due anni i genitori non sanno più nulla della loro sorte». La Mohacsi aggiunge che l´Italia non ha mai chiesto fondi Ue per l´integrazione delle minoranze etniche.
Poi altri aspetti inquietanti che - dice - le sono stati raccontati da chi abita nei campi nomadi: «Questi campi vengono regolarmente visitati dalla polizia, soprattutto nelle ore notturne. Ci hanno spiegato che alcuni poliziotti si presentano verso mezzanotte e prendono a botte i rom che ci vivono, senza dire nulla. Alcuni li arrestano per poi rilasciarli dopo 48 ore». Insomma, aggiunge l´europarlamentare in serata di fronte ai colleghi della commissione parlamentare di Strasburgo, «ci sono dei veri e propri casi di tortura da parte delle forze dell´ordine, ci sono violenze che non vengono mai denunciate perché chi le subisce non ha i documenti». E la responsabilità politica degli assalti contro i campi della settimana scorsa, denuncia, è del clima che si è venuto a creare dopo le dichiarazioni «del ministro dell´Interno Roberto Maroni». Ha scatenato «un dibattito xenofobico che propaga il pregiudizio e promuove l´equazione rom uguale a criminale, il che va contro i valori dell´Unione europea». Parole durissime seguite da quelle di Thomas Hammarberg, responsabile per i diritti umani del Consiglio d´Europa intervenuto a Strasburgo subito dopo la Mohacsi: «I politici devono evitare affermazione che portano alla fobia, è necessario distinguere i criminali dagli altri, cosa che in molti oggi in Italia non fanno, il che è molto triste».
Proprio oggi il caso-rom irrompe nell´agenda dell´europarlamento. Ieri pomeriggio il Pse, sostenuto dai Verdi e dai Liberali della Mohacsi, ha chiesto a gran voce che oggi in plenaria si tenga un dibattito sul tema con tanto di intervento della Commissione Ue. Discussione, precisa Martin Schulz, capogruppo socialista a Strasburgo, che «non deve toccare solo la situazione in Italia, che oggi è particolarmente difficile, ma quella in tutta Europa». La richiesta è stata respinta dal Partito popolare europeo, di cui fa parte Forza Italia, e poi messa ai voti. Alla fine hanno vinto i socialisti (106 sì contro 100 no) e oggi se ne parlerà nell´emiciclo. Soddisfatto il capogruppo italiano nel Pse, Gianni Pittella: «Nelle ultime ore in Italia è stato alimentato un grave clima di intolleranza e di odio».

Repubblica 20.5.08
Dioniso e Venere. Il mito dello straniero e l’ospite sgradito
di Marino Niola


Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita culturale

Dalla parola latina "hostis" si può ricavare l´ambiguità di certe figure che arrivano dell’esterno

La rabbia contro gli immigrati monta impetuosa come un´onda. La nostra società sembra attraversata da un improvviso rigetto di ogni corpo estraneo. Pare ormai superata quella soglia oltre la quale la presenza degli stranieri viene percepita come una ragione d´allarme. Un pericolo fuori controllo. I fatti sono nuovi, ma la questione è antica. Nelle cronache di questi giorni si avverte, infatti, l´eco profonda di problemi e parole che vengono da molto lontano, da quel mondo greco e romano di cui siamo figli, in cui nascono i principi e i valori che ancora oggi professiamo. È il caso dei nomi che usiamo per parlare del rapporto con lo straniero, delle paure che esso suscita e al tempo stesso della necessità dell´accoglienza. Termini come straniero, ospite e nemico, che per noi hanno significati ben distinti, in origine sono strettamente interconnessi tra di loro. Che si tratti di un groviglio di problemi inseparabili lo rivela anche la confusione, solo apparente, della nostra lingua che definisce come ospite sia chi accoglie sia chi viene accolto.
In certi casi le parole parlano da sole e ci dicono che siamo di fronte a figure e questioni inestricabilmente intrecciate sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. In latino uno stesso vocabolo, hostis, definisce sia lo straniero sia il nemico sia l´ospite. Solo più tardi compare la parola hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto. Il che indica che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. E proprio per tale ambivalenza esso va accuratamente regolamentato. E il greco xenos, prima ancora di significare il forestiero, indica soprattutto l´ospite. Così è per esempio nell´Iliade e nell´Odissea. I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l´altro, ricco di possibilità, ma anche di insidie. Fattore di crescita, ma anche veicolo di contaminazione.
Il mito greco - che dalle sue profondità lontane continua a coniugare il nostro tempo al "presente remoto" - designa proprio col termine epidemie i rituali celebrati per l´arrivo degli dei stranieri. Come Dioniso, il simbolo della mobilità e del fermento vitale.
Dioniso era per i Greci lo straniero per antonomasia. Il dio che giunge da lontano. Inatteso, sconosciuto e spesso sgradito. Un dio epidemico nel senso più profondo del termine. Secondo il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne, il termine epidemia in origine non apparteneva al vocabolario della medicina, bensì a quello della religione arcaica e veniva impiegato proprio per indicare la manifestazione improvvisa di una presenza ignota. Dioniso irrompeva nella vita dei Greci come un ospite non invitato, portato dalle onde su un´imbarcazione di fortuna, una carretta del mare.
I rituali che lo celebravano, le cosiddette epidemie dionisiache, consistevano spesso nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente respinta. Il rito si caricava dunque di un profondo significato politico e sociale, elaborando i sogni e gli incubi del cittadino greco poiché rappresentava il pericolo e al tempo stesso la necessità dell´ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.
E se lo sbarco di Dioniso era chiamato epidemia, uno dei nomi di Venere, la dea dello scambio erotico e del contatto fra i corpi, era addirittura Pandemia. Un nome che aveva in sé tutta l´insidiosa doppiezza dello scambio. Che è contatto ma anche contagio. Un´ambiguità chiaramente fotografata nella nostra lingua che usa ancora parole come venereo per definire certe conseguenze dell´amore. Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita economica e culturale. È sorprendente come il mito riesca a farci interpretare e capire il presente con la chiarezza di un fotogramma originario che illumina le profondità dell´essere individuale e collettivo, facendo balenare una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.
Ostilità, ospitalità, xenofobia. Le parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell´apertura agli stranieri. Apertura che è tuttavia indispensabile, ora come allora. Ma sempre a certe condizioni. Nemmeno gli ospitalissimi Greci accoglievano chiunque e comunque. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto, e perciò garantito, dalla condizione del semplice sconosciuto. Del clandestino, dell´homeless, del sans-papier, dell´asylant, per dirla con le parole di adesso.
Ieri come oggi i rapporti tra noi e gli altri attraversano fasi che dipendono dallo stato di salute dell´economia e dalla tenuta del legame sociale. Alternando sistole e diastole, contrazione e dilatazione dell´ospitalità. La sicurezza e il benessere rendono tutti più solidali. Al contrario, più cresce il senso d´insicurezza e più l´altro viene vissuto come un nemico potenziale. Perché quando si ha paura tutto fruscia, diceva Sofocle. E la sensazione di essere assediati ci chiude la mente e il cuore.

Repubblica 20.5.08
L’altro da sé. Perché ci sentiamo sempre più minacciati. "Vi racconto come pensa uno xenofobo"
Intervista a Alain Touraine


PARIGI. «Viviamo in una società in cui ci sentiamo spesso minacciati. La mondializzazione, le catastrofi naturali, la crisi economica, le difficoltà della vita quotidiana. Abbiamo la sensazione di non riuscire più a far fronte a minacce che sono spesso indefinite e imprevedibili. Ci sentiamo senza difese e incapaci di agire, di conseguenza abbiamo paura. Una paura indistinta che trasferiamo sugli altri, soprattutto sugli stranieri». Alain Touraine non ha dubbi, la xenofobia è una reazione che rivela le contraddizioni di una società sempre più disgregata e incerta. «Attraverso la xenofobia si manifesta la paura di chi, al di là del passaporto, è diverso da noi fisicamente, ma anche sul piano della cultura, della religione o degli stili di vita. Le caratteristiche dell´altro però sono solo un pretesto per poter proiettare su di esso le nostre angosce», spiega il sociologo francese che ha appena pubblicato La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore), un volume che viene ad aggiungersi ai molti altri già tradotti in italiano. «Rifiutando l´altro a partire da questa o quella caratteristica, la xenofobia mette in moto una dinamica che giunge perfino a negare l´umanità dell´altro, dichiarandolo non umano in quanto integralmente diverso da noi. La disumanizzazione dell´altro è una delle conseguenze più gravi della xenofobia».
Significa che lo xenofobo irrigidisce e assolutizza la nozione di altro da sé?
«Per lo xenofobo diventa impossibile vivere insieme agli altri, nei confronti dei quali agisce un vero e proprio tabù. Gli altri sono percepiti come essere impuri, la cui presenza minaccia una comunità idealizzata come pura e quindi da preservare da eventuali contaminazioni. In questo modo, nasce lo straniero assoluto, che diventa una minaccia globale da cui ci si deve difendere. Condotto alle estreme conseguenze, tale ragionamento produce il razzismo, vale a dire la forma più radicale della xenofobia. Naturalmente, chi è xenofobo si muove sempre sul piano generale, stigmatizzando un´intera comunità, anche se poi, sul piano personale, avrà sempre un amico arabo, senegalese o rumeno da esibire per respingere ogni accusa di xenofobia».
Le sembra che oggi la xenofobia sia in crescita?
«Sì e naturalmente ciò mi preoccupa molto, perché si tratta di un segno inquietante per la nostra società. Certo, se ci si colloca in una prospettiva storica, dobbiamo riconoscere che la storia del mondo è spesso stata dominata dal rifiuto degli altri, dei barbari, dei diversi. In passato, abbiamo avuto situazioni molto più gravi di quelle odierne, come quelle nate dalla tratta degli schiavi e dal colonialismo. Oggi però, dopo un lungo periodo in cui la xenofobia sembrava progressivamente arretrare, mi sembra che si stia tornando indietro. Si ritorna alla barbarie. E la xenofobia è una delle sue manifestazioni».
Quali sono le cause di tale evoluzione?
«Viviamo in una società più aperta e mobile, nella quale i contatti tra popolazioni differenti sono più facili e costantemente in crescita. È una situazione che produce conseguenze contraddittorie. Accanto all´apertura e alla disponibilità, si manifesta anche l´esasperazione dell´inquietudine che alimenta il rifiuto degli altri. Ma quando un´intera comunità viene osteggiata e respinta, finisce per ripiegarsi su se stessa, sprofondando nel risentimento. Il riflusso comunitario e la xenofobia sono strettamente intrecciati. Si alimentano vicendevolmente».
La xenofobia nasce anche da una crisi d´identità?
«Certamente, ma non è combattendo chi è diverso da noi che si rafforza la nostra identità. Al contrario, la coscienza della propria identità si accresce nel dialogo con l´altro da sé. In ogni caso, è vero che la xenofobia nasce quando un´identità si sente fragilizzata da minacce non immediatamente riconoscibili. Oltretutto, la mondializzazione, oltre a rimettere in discussione la nostra identità, minaccia la nostra capacità di agire. Sempre più spesso ci sentiamo deboli e impotenti. In alcune situazioni, come ha sottolineato il sociologo Alain Ehrenberg, assistiamo a un vero e proprio crollo dell´io. Allora diventa facile scaricare la responsabilità di tale situazione su qualcun altro che è riconoscibile attraverso questa o quella caratteristica specifica. La minaccia imprecisa e sfuggente diventa così immediatamente identificabile e quindi più facile da respingere. È la dinamica del capro espiatorio».
Di fronte a queste problematiche, la sinistra è spesso accusata d´ingenuità e d´eccessiva comprensione per gli stranieri. Che ne pensa?
«In passato, in nome dei valori dell´Illuminismo, la sinistra ha giustificato la colonizzazione. Quindi non è vero che essa sia sempre stata dalla parte degli altri. Detto ciò, è vero che oggi la sinistra viene spesso accusata di essere troppo accondiscendente nei confronti degli immigrati. Personalmente, non credo sia vero. Semplicemente cerca di resistere a un discorso dominante che utilizza il tema della sicurezza per giustificare un discorso xenofobo. Naturalmente, la sicurezza è un diritto di tutti che va garantito, specie alle popolazioni più deboli e precarie. Non bisogna però cadere nella demagogia, rendendo responsabile delle nostre difficoltà interi gruppi di popolazioni. Oggi tutte le statistiche ci dicono che la criminalità è opera soprattutto di giovani non immigrati. La minaccia criminale quindi viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Non sono gli immigrati che vivono nell´insicurezza a minacciare la nostra sicurezza. Bisogna continuare a ripeterlo e cercare di elaborare politiche in grado di tenere insieme accoglienza degli altri e diritto alla sicurezza. Anche se certo ciò non è sempre facile».
Cosa si può fare concretamente per far arretrare la xenofobia?
«Al di là del discorso classico che tenta d´intervenire sulle cause sociali ed economiche che alimentano la paura, mi sembra importante favorire il dibattito e le decisioni politiche a livello locale. È importante che ci sia un dialogo diretto tra i cittadini e gli amministratori politici, perché solo così diventa possibile elaborare politiche efficaci che non siano xenofobe. La discussione è insostituibile, perché consente di smontare e decostruire il discorso della xenofobia, mostrando ai cittadini che gli immigrati non sono una minaccia. La riflessione e la discussione consentono di evitare le reazioni irrazionali. Solo così si sfugge alla paura».

Corriere della Sera 20.5.08
Patto a quattro Pse, liberaldemocratici, verdi e sinistre hanno i numeri per censurare Roma
Strasburgo, maggioranza anti Berlusconi
di Ivo Caizzi


BRUXELLES — Nell'Europarlamento si sta formando una maggioranza per attaccare il governo Berlusconi sul rispetto dei diritti dei rom e degli immigrati romeni. La prima indicazione è arrivata quando l'Aula semivuota di inizio sessione a Strasburgo ha fatto passare con un 106 a 100 la proposta del partito socialista europeo (Pse) di dibattere oggi l'argomento e chiedere l'intervento della Commissione europea, respingendo l'opposizione del partito popolare europeo (Ppe), che accoglie Forza Italia ed è il più numeroso dell'Assemblea Ue.
Anche ad Aula piena Pse e liberaldemocratici (a cui aderiscono le componenti del Pd), insieme a Verdi e Sinistre, hanno i numeri per mettere in minoranza il Ppe e la Destra, che accoglie An e Lega Nord. Già prima dei soliti incontri notturni del lunedì trapelava un accordo di massima tra i quattro gruppi in vista del dibattito di oggi. Il numero uno dei socialisti, il tedesco Martin Schulz, «nemico» storico di Berlusconi, spicca tra i promotori dell'iniziativa politica a tutela dei diritti dei rom e degli immigrati romeni. Ha precisato che la sua richiesta di dibattito «prende avvio dall'Italia, ma non si limita ad essa» e punta a «evitare che succeda altrove quello che è successo in Italia». Per dopo la discussione, i parlamentari romeni del Pse hanno organizzato una cena con molti giornalisti per denunciare internazionalmente la difficile realtà dei connazionali immigrati in Italia. Il leader dei liberaldemocratici, il britannico Graham Watson, ha parlato di «un livello di violenza inusuale» in Italia contro le minoranze straniere anche a causa della campagna elettorale, che «ha portato avanti una cultura dell'impunità » per chi attacca gli immigrati. Watson ha rilanciato il rapporto dell'eurodeputata ungherese rom, Viktoria Mohacsi, che denuncia violazioni in Italia contro la sua etnia e accusa le autorità giudiziarie di Napoli della scomparsa di almeno 12 bambini, tolti ai genitori perché usati per l'accattonaggio.
Differenze restano tra Pse, liberali, Verdi e Sinistre sull'intensità dell'attacco al governo Berlusconi. Le componenti più aggressive premono per far chiedere alla Commissione di verificare eventuali violazioni dei Trattati Ue sul rispetto dei diritti umani come quando esplose il caso del leader austriaco Haider. Anche la co-presidente dei Verdi, Monica Frassoni, ha sostenuto che il dibattito dovrebbe affrontare la questione degli strumenti europei ancora «non utilizzati ». Il Consiglio d'Europa, l'organismo allargato ai Paesi europei extra-Ue, ha richiamato a distinguere tra i pochi immigrati colpevoli di reati e la stragrande maggioranza impegnata nel lavoro affermando che «questa distinzione non viene fatta da tutti coloro che stanno partecipando alla discussione in Italia».

l’Unità 20.5.08
Veltroni-Sd: confronto per un nuovo centrosinistra
Faccia a faccia tra il leader Pd e il segretario Fava
Rassicurazioni sulle Europee: no a sbarramento-capestro
di Bruno Miserendino


VELTRONI E CLAUDIO FAVA, neosegretario di Sinistra Democratica, lo chiamano «patto di consultazione». Traduzione, il dialogo riprende con una rassicurazione: il Pd non si muoverà sulla legge elettorale per le europee senza consultare le forze alla sua sinistra. Insomma non avallerà sbarramenti capestro. Veltroni l’aveva già chiarito, ma ieri l’ha ribadito nell’incontro con Fava. Il succo è che dopo l’abisso del 13 aprile il Pd tenta di capire cosa accade alla sua sinistra e se ci sono le condizioni per «ritrovarsi» con quell’arcipelago uscito devastato dalle elezioni. Al momento il dialogo sembra avviato solo con Sinistra Democratica. Vendola, candidato alla segreteria di Rc, per ora chiude la porta a possibili incontri col leader del Pd. Sortita considerata troppo dura da molti di Sinistra Democratica e del Pd e condizionata dagli equilibri della partita congressuale. Invece Veltroni e Fava hanno stabilito di rincontrarsi a breve e su una cosa sembrano d’accordo: nessuna nostalgia del «vecchio» centrosinistra, Sinistra democratica non prevede di confluire nel Pd, ma l’obiettivo comune è capire se si può costruire qualcosa di nuovo. Indicative le parole usate nel comunicato congiunto: «Veltroni e Fava hanno registrato sintonia sulla necessità di avviare un confronto politico per costruire, in Italia e a livello locale, le condizioni di un nuovo centrosinistra basato su reali intese programmatiche e su una sfida di governo capace di innovare il paese». Parole soppesate: il termine nuovo centrosinistra, che sembra qualcosa di diverso dalla vocazione maggioritaria proclamata alle elezioni dal Pd, è bilanciato dal riferimento alle reali intese programmatiche e alla sfida del governo. «Niente di nuovo - spiegano dalle parti di Veltroni - la linea non cambia, abbiamo già spiegato che vocazione maggioritaria non ha mai voluto dire autosufficienza, significa che il Pd punta sempre al rapporto diretto con gli elettori e condiziona le alleanze alla chiarezza programmatica». In fondo, aggiungono al loft, lo disse in tempi non sospetti Goffredo Bettini, dopo la divisione consensuale con la sinistra radicale: «Separarsi per ritrovarsi». Solo che l’apertura non piace a tutti, e gli ex popolari del Pd sono un po’ guardinghi.
Naturalmente in questa ripresa del dialogo ognuno ha le sue attese. Veltroni si aspetta che l’Arcipelago della sinistra trovi linguaggi nuovi e che emerga una realtà pronta a sfide riformiste di governo, in modo che un’alleanza futura, almeno a livello locale, sia credibile. Per questo vuole il dialogo ed è pronto a rappresentare in parlamento anche le sensibilità della sinistra radicale. Il patto di consultazione con chi ci sta serve a questo e a coordinare politicamente l’opposizione a Berlusconi. Come in fondo hanno chiesto a Veltroni nella riflessione post voto: si dialoga con tutto ciò che c’è intorno, dall’Udc alla sinistra che non è entrata in parlamento. Il problema è che il rapporto con Casini, che sta a cuore a diverse anime del Pd, non decolla. L’Udc è ancora molto attratta dalla Destra.
Quanto al nodo della legge per le europee, a cui comunque bisognerà mettere mano, Veltroni spiega che uno sbarramento al 2-3‰, come vorrebbe il Pd, conviene sia a Casini, che all’Idv e anche alla nuova sinistra che verrà. Ma qui non c’è ancora sintonia. Fava ha ribattuto che una nuova legge per le europee non è una priorità: «È un falso problema», dice spiegando però che in ogni caso Sinistra Democratica non andrà da sola. «Noi non entreremo nel Pd e ci fa piacere - aggiunge - che si stia superando il mito dell’autosufficienza». Tuttavia sulle alleanze locali avverte: «Non è una shopping-list, non ci si allea in una realtà sì e in una no, a seconda delle convenienze, come vorrebbe il Pd, o si lavora per un nuovo centrosinistra o la nostra disponibilità non c’è. Non è una minaccia...». Fava e Sinistra democratica, a quanto pare, si assegnano il compito di favorire la nascita di una nuova sinistra che faccia un salto rispetto all’oggi, e ci tengono a precisare che non c’è una corsia preferenziale tra loro e il Pd. Come dire: bisogna riflettere e scremare, se la sinistra si presenta con la falce e il martello non va distante. Messaggio diretto a Rifondazione.

l’Unità 20.5.08
Ma Vendola prende le distanze: niente incontri
No al bipartitismo, «non ci avvitiamo in gomitoli di furbizia». E propone una costituente di sinistra
di Simone Collini


ALTRO che patto di consultazione permanente. Nichi Vendola prende le distanze dal Pd e mette in chiaro che Walter Veltroni lui non intende neanche incontrarlo.
«Questo non è il tempo delle parole che si avvitano in gomitoli di furbizia». E poi, altro che nuovo centrosinistra: «Se l’ambizione di Veltroni è ancora quella di passare dal bipolarismo al bipartitismo, questo è il nostro principale obiettivo di polemica».
Vuole il caso (ma fino a un certo punto) che nel giorno in cui il neocoordinatore di Sinistra democratica Claudio Fava vede il leader del Pd, il governatore della Puglia arriva all’Alpheus di Roma per presentare la mozione congressuale con cui si candida a segretario di Rifondazione comunista. Inevitabile, prima che Vendola prenda la parola in una sala gremita all’inverosimile, domandargli dei rapporti con il Pd: «L’interlocuzione è fondamentale, ma solo con l’auspicio che questo possa spostare l’asse della politica di Veltroni a sinistra. Oggi il rapporto è quello di una contesa e di un conflitto molto aspri». Il Pd può rappresentare le istanze della Sinistra in Parlamento? «Tenderei ad escluderlo. Il partito che Veltroni ha immaginato con la sua deriva neo-centrista difficilmente può inglobare la nostra voce». Si può parlare di un nuovo centrosinistra? «È un auspicio di Fava, aspettiamo di leggere queste parole dalla bocca di Veltroni. Anche perché il veltronismo in questa fase è stato la costruzione del mito dell’autosufficienza. Il Pd per uscire da questo pantano e da questo angolo ha bisogno di gesti chiari e coraggiosi».
Parole dettate dall’analisi che Vendola fa della situazione politica, ma che non sono indifferenti rispetto al dibattito interno al Prc. Il governatore della Puglia può spingersi a cancellare la parola «comunista» - «Manifesto per la Rifondazione» è il titolo della mozione con cui si candida a segretario - e proporre una «costituente» della sinistra che vada al di là dei confini del Prc (l’Arcobaleno, dice, è stato «una cartolina illustrata che copriva vecchi cimeli») perché va abbandonata «l’icona del nemico, soprattutto se interno». Ma sa anche che per perdere il non facile congresso di luglio può bastare che i suoi avversari (da Ferrero a Grassi) gli attribuiscano l’intenzione di un rapporto privilegiato col Pd, o peggio. Da qui le parole dure nei confronti dei democratici, tese a sgombrare il campo da ogni dubbio. «Diciamo al Pd che i suoi giochi sono pericolosi», scandisce nella sala gremita di militanti e simpatizzanti (poco il ceto politico, Bertinotti firma la mozione ma non si fa vedere, Giordano arriva a iniziativa cominciata e si mischia tra la folla). Ma c’è anche un altro obiettivo polemico. Dopo aver esortato a «liberarci della spocchia», ad abbandonare l’idea che basti presentarsi con falce e martello per recuperare, Vendola dice: «Altri del partito ascoltino. Non usate il Pd come una clava al nostro interno. E soprattutto non indicate me come se fossi pronto ad andare dall’altra parte. Sono comunista da decenni e se avessi voluto il salto della quaglia lo avrei già fatto. Tagliate queste miserie dal confronto interno perché così ci facciamo solo del male».

l’Unità 20.5.08
Aborto. «Rompiamo il mito»
Famiglia cristiana: «Cambiamo la 194 i numeri ci sono»


Rompere il «tabu» della legge 194, divenuta quasi un mito «intoccabile». Famiglia Cristiana, nell’editoriale di apertura, parte all’attacco e dice: ci sono i numeri per cambiare questa legge. «È ora di sgretolare il mito della legge 194», titola l'editoriale, una legge che - aggiunge - ha sicuramente contribuito, lo dicono i numeri, all' inverno demografico, ma che non si riesce a rivedere, un tabù intoccabile, in un Paese dove si cambia perfino la Costituzione, una norma che intendeva far emergere l'aborto ma che, in pratica, l' ha legalizzato».
La legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza compie 30 anni tra pochi giorni e, a suo favore, porta numeri che non possono essere ignorati: nel trentennio secondo i dati dell'Istituto Superiore di sanità (Iss) sono state evitate oltre 3.300.000 interruzioni, tra cui 1.000.000 di aborti clandestini, e sono stati scongiurati centinaia di decessi legati appunto alla clandestinità. In realtà - sottolinea Famiglia Cristiana - una verifica dell'efficacia della legge 194 era nei programmi anche dei promotori, tra i quali il senatore del Pci Giovanni Berlinguer, ma poi non se ne sarebbe mai fatto nulla. «Oggi - si legge poi nell’editoriale - non è più sufficiente proporre una migliore applicazione senza toccare nulla dal punto di vista legislativo. Tutti ormai, se si escludono frange femministe fuori dalla storia, Pannella e la solita rumorosa pattuglia radicale (sempre più esigua), hanno abbandonato la vecchia formula che l'aborto è «questione di coscienza», affare privato che non attiene alla sfera del bene comune». Tutti d'accordo, insomma, secondo Famiglia Cristiana, che «l'aborto è un fatto di rilevanza pubblica e politica» e «oggi in Parlamento ci sono i numeri per sgretolare il mito della 194», una «maggioranza trasversale» che fa appello, in primo luogo, ai politici cattolici. Rivedere la legge, dunque - chiede il giornale - a partire dal «diritto di non abortire», ma anche sostenere e incoraggiare la vita con atti concreti. In proposito, il settimanale ricorda le parole del Papa.

l’Unità 20.5.08
«Presto pronto il mio nuovo film»
De Oliveira farà 100 anni. E Cannes lo festeggia


Manoel De Oliveira quest’anno compie il secolo di vita e ieri sera Cannes l’ha giustamente omaggiato nella sala Lumiere. Il pubblico è scattato in piedi per applaudirlo e il festival ha presentato la copia restaurata del suo esordio quando nel suo Portogallo il cinema era ancora muto, Il fiume. L’autore di oltre 50 titoli ha annunciato che presto il prossimo sarà pronto. Lo hanno salutato tra i tanti Clint Eastwood, il presidente dell’Unione Europea Barroso (portoghese), il cineasta tedesco Fatih Akin, il presidente del festival, Gilles Jacob. «A dire il vero - sussurra De Oliveira - avrei preferito essere qui con un film nuovo, ma non vi preoccupate, non mi commuoverà rivedere le mie vecchie immagini. Al massimo penserò che ero un po’ presuntuoso e che la vita mi ha insegnato tante cose».

l’Unità 20.5.08
Perché l’opposizione deve essere Doc
di Giuseppe Tamburrano


Vorrei riprendere le argomentazioni contenute nell’editoriale di Padellaro (17 maggio) perché la svolta nei rapporti tra governo e opposizione è talmente importante che richiede di essere dibattuta a fondo per essere decifrata.
Osservo preliminarmente che è stato Veltroni che nel corso di tutta la campagna elettorale ha insistito sulla necessità che i rapporti tra maggioranza e opposizione fossero sveleniti e all’“odio” subentrasse un sereno confronto e un costruttivo dialogo. Dunque questo nuovo clima è merito (colpa?) suo.
Che interesse ha Berlusconi di respingere la posizione di Veltroni? Nessuno! Oggi egli ha risolto i suoi problemi ad personam, è sostenuto da una larga maggioranza di tutto riposo; essere generoso, disponibile, dialogante gli dà forza; l’atteggiamento dell’opposizione gli rende più agevole la gestione del governo. Si può mettere nel conto che il “buonismo” nei rapporti col Pd mette all’angolo l’opposizione di Casini, isola Di Pietro. Ma questi sono effetti collaterali, secondari; non i fattori principali del nuovo clima. E infine l’atteggiamento di gran signore magnanimo e sorridente verso l’opposizione, che si alza dal suo seggio per congratularsi con Veltroni e Finocchiaro, gli è congeniale più della faccia feroce.
Anche io preferisco un Parlamento in cui non ci siano scontri, odi, insulti, ma questo riguarda l’etica o l’etichetta parlamentare. Quello che interessa e intriga è la ricaduta politica della svolta: cui prodest? A chi gioverà? Forse la domanda è prematura perché siamo ai preliminari della nuova gestione. Epperò è importante prevedere scenari futuri perché può aiutare ad evitare errori. Cominciamo dalle prime intese tra Veltroni e Berlusconi. Ottima quella sullo “statuto dell’opposizione”, che tuttavia non sarà di facile realizzazione per la diversità oggettiva dei punti di vista, avendo la maggioranza interesse a regole che rendano veloce l’iter delle procedure e la minoranza invece a norme che consentano spazi perché il suo concorso sia incisivo.
L’altra intesa nell’incontro del 16 maggio tra i due leader riguarda la legge elettorale europea e in particolare il proposito di introdurre uno sbarramento. Non c’è per ora accordo sul livello: 5 o 3 per cento, ma sicuramente ci si arriverà, forse al 4 per cento. Mi chiedo se i due schieramenti si rendono conto che la soglia può essere dribblata dai piccoli partiti che possono fare una lista comune per separarsi dopo il voto: e nessuna legge o regolamento può impedirlo. Dunque, l’effetto semplificazione del pluripartitismo e la riduzione della frammentazione ottenuti con le elezioni del 13 aprile non si raggiungerà. Di più: è prevedibile che le sinistre, dai socialisti a Rifondazione, saranno «scatenate», vorranno prendersi la rivincita e questa volta non potrà funzionare il “voto utile” che ha depauperato i ranghi della sinistra a favore del Pd. Quei voti al Pd, che hanno compensato le perdite dell’elettorato tradizionale, non ci saranno, torneranno all’ovile, sospinti anche dall’ostilità di quei settori antiberlusconiani che giudicheranno arrendevole la politica di Veltroni. Il quale rischia di andare incontro ad una nuova sconfitta. Con prevedibili ricadute all’interno del partito: D’Alema avrebbe qualche argomento in più nel suo ragionamento.
Sulla questione generale del corretto rapporto tra governo e opposizione, se è da escludere l’ostilità pregiudiziale, non è consigliabile la collaborazione pregiudiziale. Il compito del Pd, nell’ora difficile che vive il Paese, è di far valere le ragioni dei più deboli, dei lavoratori, dei disoccupati, dei precari, delle famiglie, dei pensionati. E questo non è solo il suo dovere di partito che si pretende “riformista”, è anche il suo interesse se vuole recuperare un rapporto costruttivo con la sinistra e contenere una deriva elettorale verso quei lidi.

l’Unità Roma 20.5.08
Prc, Smeriglio lascia: spazio a un giovane
Le sale dell’Alpheus gremite per l’assemblea con Vendola: «Mai vista tanta gente esterna al partito»
di Luciana Cimino


«ESCO DA QUI CONTENTO, non ho mai visto tanta gente esterna al partito». A parlare è Marco Ascione, giovanissimo segretario di una sezione di borgata, quella di Spinaceto. La sala dell'Alpheus dove è appena intervenuto Nichi Vendola, candidato alla guida di Rifondazione Comunista, è strapiena. Si cerca lo scatto d'orgoglio per ricostruire la sinistra, si cerca di accompagnare il partito ai congressi di luglio senza i veleni del post elezioni. Quello nazionale, a Chianciano, dove Vendola e l'ex ministro Paolo Ferrero presenteranno le loro mozioni, e quello cittadino, ai primi di luglio, dove il partito sarà chiamato a esprimere il nuovo segretario. Ascione nega categoricamente di essere in corsa per la carica, eppure la sua figura, come quella di Vezio Ferrucci, segretario della Garbatella, si avvicina al ritratto che molti immaginano alla guida del partito nel dopo Smeriglio. «C'è bisogno d'innovazione generazionale – dice l'attuale segretario, ora assessore provinciale – spero che sia giovane, capace, ci sono diversi segretari di circoli di periferia che hanno fatto esperienza sul campo e rappresentano la novità». E aggiunge Patrizia Sentinelli, «una persona della statura di Nichi, che comunichi non solo con gli iscritti ma con un mondo più vasto, anche complesso come quello cittadino attuale». Gran parte del gruppo dirigente romano di Prc è in sala a sostenere il documento di cui è primo firmatario il governatore della Puglia, perché «è l'unico che può unire», dice Smeriglio; perché «suscita entusiasmo in quanto non spinge a mettersi dietro un simbolo come a cercare protezione dalle sconfitte future», per Sentinelli. Ma l'analisi della sconfitta capitolina continua ed è severa. Severa verso il Partito democratico, colpevole, per l'assessore regionale Nieri, «di aver inseguito la destra sul terreno della sicurezza», e verso la stessa sinistra, che per Sandro Medici, presidente del X Municipio, è stata «subalterna a Veltroni e ha perso il contatto con la sua gente». «Alemanno è stato un Masaniello che ha raccolto una malintesa rivolta popolare contro l'atteggiamento padronale che ha avuto il centrosinistra nella città, ma non certo noi», accusa Medici. La priorità è ora l’apertura all'esterno, a parlare di «contenuti, valori, diritti» e non di «marketing, se fosse stato per quello Veltroni – spiega Vendola - avrebbe vinto le elezioni ma si vince quando si è credibili». Re – imparare a leggere la società, quindi, e non puramente in vista del congresso, che i militanti auspicano avvenga in un clima di serenità e senza la ricerca di capri espiatori, ma come metodo per ricostruire la sinistra. La sala gremita non solo d'iscritti ma di molti simpatizzanti che s'infiammanno al lungo discorso di Vendola fa ben sperare dirigenti e amministratori capitolini di Prc. «In città il clima è cambiato – osserva Smeriglio – e non possiamo dare risposte che siano di mera amministrazione, serve una costruzione di senso». «Una società moderna lotta contro la povertà e non lotta contro i poveri», conclude Vendola, che immagina «una rifondazione dei principi della speranza nella politica, che faccia da argine alle barbarie, che si ribelli alla caccia al rom, alla rifondazione di una cultura che sia contro la violenza e dalla parte dei diritti umani».

Repubblica 20.5.08
Edimburgo. Scienziati annunciano la pillola della libido


LONDRA - Esperti di riproduzione a Edimburgo dicono di aver decifrato il segreto del desiderio sessuale, e di essere in stato avanzato di ricerca per la creazione di una pillola della libido, capace di stimolare il desiderio in uomini e donne. Un prodotto, dicono, che sarà molto più efficace del Viagra. La perdita di libido colpisce oltre un terzo delle donne, e un uomo su sei: ma quest´ultimo dato statistico è in rapida crescita.

Repubblica 20.5.08
Inghilterra, via libera agli embrioni-chimera respinto l'emendamento che voleva cancellarli


LONDRA - Sì agli embrioni-chimera. La Camera dei Comuni britannica ha respinto un emendamento che avrebbe impedito agli scienziati di creare embrioni umani con parti di dna animale a fini di ricerca. L´emendamento che proponeva il divieto a questi esperimenti, parte della più ampia legge sulla fertilità in discussione, è stato respinto con 336 voti contro 176. Il premier Gordon Brown aveva lasciato libertà di coscienza su questo punto, ma aveva chiesto di dare via libera ai cosiddetti embrioni-chimera, affermando che questi embrioni contribuiranno alla ricerca sulle cellule staminali. L´embrione ibrido è un mix di tessuto animale ed umano, per oltre il 99% umano, con la componente animale dello 0,1%

Repubblica 20.5.08
Perché la sinistra ha divorziato dalla società
di Marc Lazar


TALUNI anniversari sono tristi, in modo particolare quelli che celebrano un quarantennale. Nel 1968 il vento della contestazione – che si era levato da qualche tempo e che si sarebbe rafforzato nel decennio seguente – soffiava sull´Europa, per lo meno quella occidentale. Il capitalismo fu dichiarato in fin di vita, le gerarchie furono sovvertite, l´autorità fu messa alla berlina, i poteri ripudiati. La liberazione, l´emancipazione, la rivoluzione erano concetti in buona parte rivendicati e messi in pratica finanche nella vita di tutti i giorni.

Combattuta tra un marxismo tradizionale, benché rivestito di nuovi orpelli, e la scoperta di tematiche inedite da parte del movimento operaio (il femminismo e l´ecologia, tanto per citarne alcune), la sinistra aveva nondimeno il vento in poppa, consolidava la propria egemonia culturale e si dimostrava vittoriosa. Il contrasto rispetto alla situazione del 2008 non potrebbe essere più grande e sconcertante.
In un solo anno su dieci consultazioni elettorali politiche generali che si sono svolte in Europa soltanto una, quella in Spagna, ha confermato il mandato ai socialisti. Da qualsiasi altra parte la sinistra non è riuscita a scalzare la destra al potere (Francia, Estonia, Finlandia, Polonia, Belgio, Danimarca, Grecia, Irlanda), mentre in Italia ha addirittura perso a vantaggio dell´opposizione guidata da Silvio Berlusconi. Naturalmente questi dati devono essere analizzati con grande accortezza. Ogni suffragio nazionale ha una propria specificità, determinata dalla storia politica del Paese, dalle modalità di scrutinio vigenti e dal gioco dei partiti. Ciò non toglie che si profila una tendenza generale che sarebbe assurdo confutare: la destra domina il continente europeo. La sinistra è in difficoltà, quale che sia la sua strategia – unione delle sinistre, alleanza con il centro o con i Verdi, o ancora corsa solitaria – e quale che sia la collocazione prescelta – programma classico della sinistra statale o ridefinizione della linea politica sul modello di Tony Blair.
Come interpretare dunque questa situazione? Una delle spiegazioni proposte, a sinistra, è che gli europei non resistono alle sirene del "populismo", della xenofobia, per non dire del razzismo: insomma, si starebbero orientando inesorabilmente a destra. La deduzione è errata e non esente da pericoli, in quanto rischia, appunto, di condurre la sinistra a ripiegarsi su una delle posizione a lei più care. Ostentando le sue certezze, convinta di essere in possesso della verità, la sinistra dispera di quel famoso popolo che evoca continuamente ma che adula soltanto quando esso vota a sinistra. Come disse con una battuta ironica Bertolt Brecht ai dirigenti di partito della Germania Est dopo i moti di Berlino del 1953, non resta che un´unica soluzione: "sciogliere" il popolo. La realtà, però, è diversa: la destra oggi ha la meglio e vince perché ha effettuato un´opera di rinnovamento alquanto coordinata, o tramite i contatti tra i partiti e i parlamentari europei, in seno al Partito popolare europeo, oppure grazie a fondazioni e think tanks. Si è dotata di veri leader, spesso comunicatori eccellenti. Tende ad aggregarsi, un po´ ovunque. Cerca di rafforzare le proprie organizzazioni e non trascura di lavorare sul terreno. Si occupa di un vasto spettro politico, che va dai confini dell´estrema destra al centro, e nel frattempo se occorre si impossessa anche di temi tipici della sinistra. Propone alle differenti popolazioni che ne sono in attesa un insieme di valori contraddittori, ma presentati in modo coerente: individualismo e compassione sociale, liberalismo e protezione, modernità e tradizione, sicurezza e lotta all´immigrazione, Europa e identità regionale o nazionale. La destra dell´era post-ideologica è pragmatica, in procinto forse di imporre la propria egemonia culturale sulla stessa lunghezza d´onda delle società europee che oscillano tra l´accettazione della globalizzazione e un cauto ripiegamento sul locale o il nazionale, tra la ricerca di avventura rivendicata dalle giovani generazioni e le paure delle persone anziane, il cui peso si fa sentire in modo crescente.
Il predominio della destra non ha nulla di ineluttabile. L´opinione pubblica in Europa non è passata in blocco a destra. È senza dubbio molto sensibile ai cavalli di battaglia prediletti della destra, l´insicurezza e l´immigrazione, ma al contempo una buona parte di essa reclama ed esige protezione sociale. L´Europa oltre tutto conosce veri e propri cicli elettorali: negli anni Novanta la sinistra era al governo in undici dei quindici Paesi dell´Unione Europea. La sinistra commetterebbe tuttavia un grave errore se pensasse di attendere passivamente un´inversione di tendenza, per esempio con un ipotetico ritorno del benessere economico che le sarebbe a priori più vantaggioso, perché l´autorizzerebbe a patrocinare la causa di politiche di più vasta redistribuzione sociale. E sbaglierebbe qualora desse per scontato di approfittarsi in maniera automatica della delusione degli elettori che le decisioni dei governi di destra inevitabilmente comporteranno, sull´esempio di quanto accade oggi in Francia, dopo che i loro responsabili in campagna elettorale avevano promesso l´esatto contrario.
Da oltre vent´anni la sinistra non è rimasta immobile. Anzi, ha risposto alle sfide della globalizzazione e ai mutamenti della società. Pur restando fedele ai suoi ideali di eguaglianza e di giustizia sociale, ha rinnovato le sue proposte, ha accettato di adeguare ai tempi il welfare, ha assimilato una parte del liberalismo economico, ha scommesso sulle rivendicazioni libertarie, ha tentato di rivolgersi ai precari e agli esclusi, e si è essa stessa impossessata dei temi della legge, dell´ordine e della sicurezza. Nonostante tutto, però, la sinistra risente di molteplici difetti: le sue ininterrotte e profonde spaccature tra la sua ala radicale e le sue correnti riformiste l´indeboliscono. La sua mancanza di credibilità sulle questioni della sicurezza è palese. I suoi leader mancano spesso di levatura. La sua indolenza a lavorare sul terreno ha spianato la strada ad altre forze politiche. Soprattutto, la sua base sociologica si è ridotta a individui sulla cinquantina, che vivono nelle grandi città, hanno un alto livello di istruzione e lavorano nel settore pubblico. La sinistra ha perso terreno negli strati più popolari, presso i dipendenti del settore privato, ha mancato di attirare a sé i precari e non ha fatto breccia tra i liberi professionisti. Questo divorzio da una – considerevole – fetta della società attesta e comprova le sue difficoltà a comprendere senza i suoi paraocchi ideologici le trasformazioni sociali più recenti che, innegabilmente, non le sono di aiuto. E infine, alla sinistra manca un corpus di valori in grado di mobilitare l´opinione pubblica, qualcosa che la differenzierebbe chiaramente da quelli presentati dalle destre. È al superamento di questi ostacoli che la sinistra deve assolutamente impegnarsi al fine di presentare una proposta politica convincente, unica condizione per ritornare a vincere.
Traduzione di Anna Bissanti

il Riformista 20.5.08
Sbarramento. Il dialogo con Sd. Ma Vendola chiude la porta
Veltroni fa una mezza retromarcia e apre ai satelliti
di Alessandro De Angelis


Non è proprio un "contrordine compagni" sulla via dell'autosufficienza. Ma da ieri la corsa di Veltroni un po' meno solitaria lo è, eccome. Nell'incontro col leader di Sd, Claudio Fava, suo fedelissimo ai tempi dei Ds, è emersa più di una convergenza: Pd e Sd daranno vita a un «patto di consultazione» esteso, a sinistra, a chi ci sta, e a un confronto «permanente» sulle riforme. E soprattutto dialogheranno per realizzare - si legge nella nota congiunta diramata al termine dell'incontro - un «nuovo centrosinistra basato su reali intese programmatiche». E, precisa Fava, «basato sulla reciproca autonomia». Nessuno, affermano, vuole rispolverare la vecchia Unione, ma da ieri è ritornato in voga il tema delle alleanze. Ciò non significa che Sd confluirà nel Pd, almeno per ora. Ma il dialogo è ripreso, e la prossima settimana è previsto un nuovo incontro.
La fine delle ostilità sarebbe testimoniata anche dall'accantonamento di un tema che - solo pochi giorni fa - aveva fatto infuriare la sinistra-sinistra: lo sbarramento alle prossime europee. «Se continua così, usciamo dalle giunte» aveva detto Fava e tutto lo stato maggiore della Cosa rossa dopo l'incontro tra Veltroni e Berlusconi. Ieri il segretario del Pd ha declassato l'argomento: «Non è una priorità del paese». E anche Fava ha deposto l'ascia di guerra: «Se si dovesse andare ad una riforma, questa dovrà avvenire attraverso un confronto che tenga conto delle sensibilità e dei punti di vista di tutte le forze politiche, anche la sinistra che non è presente in Parlamento».
Al loft negano l'inversione di marcia. Un veltroniano di rango la spiega così: «Ora siamo entrati in un sistema nuovo segnato dal primato dei programmi sulle coalizioni. È ovvio che il Pd dialoghi con i vari partiti satelliti, come Sd, Italia dei valori, radicali anche se questi in parte stanno dentro. Anche perché è un fatto che la sinistra radicale ci ha votato». E proprio lo schema "il Pd e i satelliti" - la variante democrat del film di dieci anni fa "la quercia e i cespugli" - è diventato il modulo su cui Veltroni starebbe giocando la sua controffensiva verso D'Alema.
Il segretario del Pd si è trovato infatti accerchiato negli ultimi giorni dai fautori della politica delle alleanze. A partire dai suoi parlamentari europei. Che oggi incontreranno a Strasburgo quelli di tutti gli altri gruppi su iniziativa dell'eurodeputato del Pdl Gargani, per discutere di sbarramento. L'orientamento sembra definito: un conto è evitare l'accesso a liste dello zero virgola, un conto è vietare l'accesso a forze rappresentative. Tanto che ieri il tetto di cui si parlava è sceso al due per cento: «Si parte dal due e poi, se ci sono convergenze, si passa al capitolo circoscrizioni» dice Gargani. A Gianni Pittella, capo della delegazione italiana nel gruppo Pse, l'idea dello sbarramento non piace molto: «Il parlamento europeo non è l'organo che assicura la stabilità di un governo. Quindi l'esigenza di semplificazione non è trasferibile, automaticamente, dal piano nazionale a quello europeo. Oltre una soglia minima è un tentativo maldestro di penalizzare alcune forze politiche che non sono in Parlamento, ma sono radicate nella società italiana». Gli fa eco Lavarra: «Effettivamente con questa legge si elegge anche chi ha l'1 per cento. Tuttavia è sbagliato applicare un tetto elevato». Una posizione, questa, che trova ampi consensi tra i parlamentari europei del Pd. Qualcuno, in relazione alla dinamica del voto utile dell'elettorato di Rifondazione, a microfoni spenti, si spinge oltre: «Non è che se li ammazzi poi ti votano». Per altri, come l'ex margheritino Cocilovo «il problema non è la soglia ma operare affinché le attuali circoscrizioni diventino collegi. In modo che ogni collegio esprima parlamentari in base a un equilibrio più democratico di quello attuale». Quindi, se proprio ci deve essere una soglia, mandano a dire i parlamentari europei a Veltroni, più bassa è meglio è.
Su queste premesse, e dopo che D'Alema e Bersani hanno mandato a tutta la sinistra più di un segnale, Veltroni, da ieri, ha messo in campo la strategia dei satelliti tesa a escludere Rifondazione. Ed è riuscito a incrinare l'asse Prc-Sd che è sempre stato solido: «Un nuovo centrosinistra è un auspicio di Fava. Noi aspettiamo di leggere queste parole dalla bocca di Veltroni» ha detto Nichi Vendola in occasione della presentazione della sua mozione ieri a Roma. E sul segretario del Pd ha aggiunto: «Il veltronismo in questa fase è stato la costruzione del mito dell'autosufficienza. Il Pd per uscire da questo pantano e da questo angolo ha bisogno di gesti chiari e coraggiosi che non spetta né a me né a Fava fare». Tradotto: non è Veltroni il nostro interlocutore nel Pd. Quindi niente patto di consultazione: «Penso di non incontrare Veltroni perché credo che non sia questo il tempo delle parole che si avvitano anche in gomitoli di furbizia» ha tagliato corto Vendola.

il manifesto 18.5.08
Stranieri in patria
di Gabriele Polo

Migliaia di persone in piazza contro la violenza nutrita dalle paure profonde, le ideologie cui si appoggia e il razzismo dell'egoismo sociale, sono una bella notizia. Meno bello è che il teatro sia stato una città che in buona misura è rimasta in disparte; ma ciò è in qualche modo alla base dei tempi in cui viviamo e dello stesso delitto contro cui si è manifestato ieri a Verona. E meno bello è pure che quelle migliaia di persone - divise in due tronconi poco comunicanti - siano state oscurate dai media; ma questo un po' si iscrive nella traduzione mediatica degli italici cupi umori, un po' è il risultato di una crescente incapacità di parlare al resto del paese da parte di ciò che sopravvive a sinistra. Afonia di cui anche le divisioni - a volte un po' incomprensibili - danno conto.
In realtà la freddezza dei veronesi e le afonie a sinistra sono una cosa sola, un dato di realtà da cui partire per affrontare le difficoltà con cui si misurano i valori universali su cui siamo cresciuti. Se una città, che certamente è trasecolata di fronte all'omicidio di Nicola Tommasoli, non si sente coinvolta da un valore come l'antifascismo e rimane indifferente verso chi denuncia il razzismo dilagante, significa che è stato l'agire pubblico - prima che il quadro istituzionale - ad aver subìto un terremoto. E non si può ridurre il problema alla deriva politica verso destra che quella città attraversa. Sarebbe consolatorio e inutile. In fondo lì succede ciò che sta accadendo nei confronti dei rom: la grande maggioranza delle persone non condivide i pogrom di Napoli, ma la stragrande maggioranza del paese pensa che i rom siano un problema da risolvere con l'ordine pubblico, cacciandoli. E' la stessa relazione che è in campo tra l'opinione comune e l'agire concreto sul terreno dell'immigrazione: quasi nessuno si pensa razzista, quasi tutti vedono nello straniero una semplice risorsa economica, fuori dalla quale «l'alieno» incarna la paura della propria decadenza individuale.
La destra offre a tutto ciò soluzioni semplici e «popolari»: bene le badanti, meno bene chi arranca nel lavoro in nero, malissimo chi si avventura sul terreno della sopravvivenza, sperando in un futuro diverso. Il Pd rincorre impaurito dai suoi stessi elettori. Fuori dal quadro politico ufficiale restano gli sforzi del volontariato, la carità cristiana. Oppure la testimonianza dei valori universali da cui nasce la storia della sinistra: doverosa, ma a perenne rischio d'irrilevanza.
Forse nulla come il tema dell'immigrazione - insieme a quello del lavoro - oggi esemplifica l'assenza di una prospettiva politica alternativa agli umori dilaganti. Vale per le soluzioni che sono in campo - tutte a senso unico, verso destra -, vale per le chiusure comunitarie che determinano comportamenti mostruosi. Questo è ciò che, in una ricca città del nord, ha reso possibile un omicidio per una sigaretta negata. Questo è il problema da affrontare, ciò che ci rende stranieri in patria.

lunedì 19 maggio 2008

l'Unità 19.5.08
Quell’umanità spazzatura
di Maurizio Chierici


«Nomadi, realtà orribile dell’Italia»: è la notizia di prima pagina di ogni giornale d’Europa. Tutti ci guardano; vorrebbero non fosse vero. «Incredibile che in un Paese democratico vi siano persone che vivono senza diritti e senza documenti anche se nati in famiglie “italiane” da 40 anni». Parole che stanno facendo il giro del mondo; parole del rapporto che sta per essere depositato alla Commissione UE dall’europarlamentare ungherese Victoria Monacai.
E la cronaca dei testimoni (Pais, Guardian, Pagina 12 e altri sette giornali stranieri) che hanno accompagnato la signora nella visita al Casilino, campo nomadi di Roma o nel cimitero napoletano delle ceneri di Ponticelli, baracche bruciate dalle molotov di una folla inferocita, queste cronache ricordano le nostre cronache nei viaggi africani o di quando attraversiamo le favelas dell’America senza niente. Umanità spazzatura immersa nelle immondizie. Disgusto, repulsione, per fortuna storie lontane. Invece eccole qui. Questo il made in Italy? Non è successo all’improvviso. Seduto davanti all’altare della piccola chiesa di Pratovecchio, parco del Casentino, un mattino 2003 l’Abbè Pierre compiva 91 anni ripetendo con l’ultimo fiato i versi di una sua poesia: «Ma dove siete? - C’è troppa sofferenza - C’è troppa miseria - In mezzo a tanti farabutti perbene». Il religioso che aveva dedicato la vita ai sans papiers, senza documenti, ricordava con un sorriso la definizione di Sergio Zavoli: «Chiamatemi monsignor Spazzatura perché il mio impegno continua ad essere la restituzione della dignità alla spazzatura umana».
A proposito: noi dove siamo? Per anni l’autorità morale della Chiesa ha consolato l’emarginazione dei nomadi sopravvissuti ai forni di Hitler o ancora ingabbiati nell’emarginazione del socialismo reale, paesi dell’Est. Chiesa polacca, chiesa ungherese, ma anche l’arcivescovado di Milano. Il cronista ricorda il Natale 1959. Gli zingari del campo di Porto di Mare, periferia sud, scrivono disperati al cardinale Giovanni Battista Montini. Sfumava il tepore del primo benessere e la grande città operaia soffriva «il disordine dell’emigrazione che risaliva dall’Italia del Sud»: quante Milano-Coree, ghetti per le facce diverse dal biondo Brianza. Chiusi nel ghetto dei ghetti sopravvivevano a Porto Mare nomadi impediti a trovare lavoro dalla legge che imponeva un domicilio sicuro. «In quale modo, monsignore - invocava la lettera - possiamo affittare due stanze se ci è impossibile garantire l’affitto con un lavoro che non sia in nero?». La notte di Natale il cardinale dice messa in duomo. Il mattino dopo celebra nella baraccopoli degli zingari. Non arriva da solo. Lo accompagna il sindaco Virginio Ferrari, socialdemocratico; medico dai baffi asburgici. Montini gli aveva telefonato: andiamo assieme. Al momento della predica, con la voce timida di un intellettuale che non ha mai alzato la voce, il futuro papa annuncia: «Oggi questa è la mia cattedrale. Ho portato il sindaco. Spero gli vogliate bene e che lui voglia bene a voi». E nel discorso il sindaco si impegna a distribuire 200 appartamenti: finalmente gli zingari trovano casa. E poi il lavoro: milanesi come tutti.
Cinquant’anni dopo l’Italia è cambiata, il mondo è cambiato ma la Chiesa resta il riferimento al quale i credenti affidano la speranza. Se don Luigi Ciotti chiede scusa ai Rom dalla prima pagina dell’Unità, è il quasi silenzio dei palazzi vaticani sui nomadi perseguitati da sospetti che spesso svaniscono ma che la strategia politica della paura trasforma in un odio da rafforzare per controllare l’elettorato; è questo quasi silenzio ad agitare messaggi e lettere. Continuano ad arrivare. Turbamento dei cattolici ma anche di laici che non nascondono la meraviglia. Perché tanta prudenza? Ne scelgo due. Lettera amara di Ettore Masina. È stato il primo vaticanista (la parola non gli è mai piaciuta) della Rai-TV. Due volte deputato della sinistra, fondatore di Rete Resch: solidarietà ai profughi, dalla Palestina all’America Latina. Autore di tanti libri: «L’arcivescovo deve morire», biografia di monsignor Romero pubblicata dal Gruppo Abele: «Il vinceré», edizioni san Paolo, finalista al Viareggio; e «Le nostre barche sono rotonde», da poco in vetrina. Ecco la tristezza che lo accompagna. «Non turbate il Santo Padre. Ditegli che c’è un guasto nei ripetitori di Ponte Galeria e perciò nei palazzi vaticani per qualche giorno radio e televisori sono in black out. Ditegli che c’è uno sciopero dei giornalisti di tutto il mondo, quindi non arrivano notizie. Fate che non sappia, insomma, quel che sta succedendo in Italia ai Rom, cioè che da mesi gli “zingari” vedono (non soltanto a Ponticelli ma in molte città e paesi) i loro campi assaltati da facinorosi o “rimossi”, quasi senza preavviso, dalle forze dell’ordine. È una specie di pulizia etnica, senza morti, per fortuna, ma con valanghe di odio, inasprimento di una miseria già di per sé dolorosa e terribili traumi per centinaia di bambini. La comunità europea aveva già sanzionato l’Italia come paese meno accogliente per i Rom: il nuovo governo ha deciso una soluzione radicale. Razzista. Il Papa tutto questo non lo sa. Se lo sapesse, certamente Benedetto XVI, Vicario di Gesù Cristo, Patriarca dell’Occidente e Primate d’Italia, lascerebbe i suoi preziosi paramenti per affrontare il fango dei “campi” contro cui si accaniscono le bottiglie moltov della gente bene; vi andrebbe per gridare su quelle devastazioni la parola del Cristo: “Ciò che viene fatto ai poveri è a me che viene fatto”. Papa tedesco, sicuramente non riesce a dimenticare il genocidio degli zingari compiuto dalla Germania nazista ad Auschwitz, centinaia di bambini orrendamente torturati dal dottor Mengele; e questo ricordo, se lui sapesse ciò che sta accadendo a pochi chilometri dalla sua finestra domenicale, lo spingerebbe a levare alta la voce per difendere i membri di una etnia dalle vere e proprie persecuzioni in atto. Così attento alle leggi italiane che “violano i diritti del feto”, mostrerebbe di non essere meno sensibile ai provvedimenti governativi che violano i diritti umani di migliaia di persone colpite in base alla loro nazionalità... Il Signore ha voluto che le genti “da un confine all’altro della Terra” diventassero un solo popolo, radunato dall’amore. Per questo chi odia una stirpe pecca gravemente contro Dio. Questo stanno dicendo i vescovi italiani pellegrini fra le rovine fumanti degli abituri devastati dei Rom. Come dite? Nessun vescovo è là, fra quelle roulottes sfasciate, fra le motocarrozzette caricate di poveri suppellettili e avviate verso chissà quale destino… Ahimé, i vescovi rimangono nei loro palazzi e tacciono o (vedi monsignor Bagnasco) condannano con flebili e gelide parole quelli che con bell’eufemismo definisce “estremismi”. Cristo si è fermato in Piazza San Pietro?... Non vedo una marea di indignazione levarsi contro la criminalizzazione di un popolo marcato dai segni evidenti di estrema povertà ma la cui pericolosità sociale è enormemente minore di quella dipinta dai politici della destra. La Caritas, unica e vera “esperta di umanità”, definisce “pesantemente forviante” il ritratto dei Rom disegnato da mass media. La politica della paura che ha avuto un peso tanto grande nei risultati elettorali, sventola statistiche false. L’Italia è paese più sicuro della Francia, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti… Nelle statistiche del Ministero degli Interni non c’è un solo Rom condannato per aver organizzato un omicidio…
Può darsi che la storia abbia decretato la fine dei popoli nomadi: l’evoluzione culturale e il rimodellamento della Terra (quello fisico e quello politico) sembrano imporre una definitiva stanzialità. Del resto siamo tutti discendenti da antenati nomadi perché il nomadismo è stata una tappa fondamentale della vicenda umana. Ma se davvero è finito il tempo di genti sospinte a un cammino ininterrotto dalla necessità e da un’inesauribile voglia di libertà, allora, almeno, esse hanno il diritto di attendersi l’aiuto di una società dominante che ha già compiuto da secoli un trapasso di civiltà. Invece è proprio quello che non vogliamo consentire ai Rom. La stanzialità e l’integrazione…
La citazione conclusiva viene da Bertold Brecht. Raccoglie uno scritto del pastore luterano Martin Niermoller. «Prima vennero per i comunisti e non alzai la voce perché non ero comunista. Quindi vennero per gli ebrei, e non alzai la voce perché non ero ebreo. Quindi vennero per i cattolici, e non alzai la voce perché ero protestante. Poi vennero per me e a quel punto non vi era rimasto nessuno che potesse alzare la voce». Torna la domanda dell’Abbé Pierre: «Dove siete?».
mchierici2@libero.it

l'Unità 19.5.08
Noi di Sinistra e i Rom
di Filippo Penati


Caro direttore,
non mi sento razzista né di assecondare fantasmi razzisti quando, parlando del tema dei campi rom, sostengo la necessità di espellere chi delinque e di intervenire per ridurre la presenza degli insediamenti sul territorio. Credo invece che sia questo l’unico modo responsabile per una sinistra riformista, coerente con la propria vocazione ma capace di fare i conti con la realtà dei fatti, per occuparsi del benessere di tutti e specialmente delle persone più deboli, che siano italiani, o stranieri che provenienti da situazioni di miseria o marginalità nella speranza di migliori opportunità di vita.
Penso in primo luogo a quei bambini, e l’esperienza di Milano ci dice che mediamente solo il 3% delle famiglie rom manda i propri bambini a scuola, che vengono privati dell’infanzia, educati a delinquere, sfruttati o costretti a commettere reati.
Penso alle donne, oggetto di violenza, limitate nella libertà di spostarsi in città come potrebbe fare un uomo, o costrette a educare il proprio sguardo sugli altri alla difesa e alla diffidenza. E penso a tutte quelle persone che ogni giorno subiscono quelle piccole, grandi violenze che tanto contribuiscono a diffondere sentimenti di insicurezza, diffidenza e ostilità sociale. Come chi viene spinto e derubato mentre fa la spesa al mercato, o chi non può permettersi una casa o fa fatica a pagare il canone di un alloggio popolare, mentre c’è chi sistematicamente utilizza dei beni pubblici senza contribuire a pagarne le spese. In tutti questi casi, ed è questa la cosa peggiore, sono tanti i cittadini che si sentono lasciati soli da uno Stato che non riesce a garantire la celerità della giustizia e la certezza delle pene. È anche questa solitudine che alimenta l’insicurezza, la diffidenza e l’intolleranza sociale. Un’intolleranza che rischia di colorirsi di toni razzisti perché nasce da una guerra tra poveri.C’è un problema di sicurezza e di legalità che va tenuto distinto dal tema dell’accoglienza e della solidarietà, con la consapevolezza però che non occuparsi del primo significa rendere impossibile e retorico il secondo.
Per quanto riguarda il tema specifico dei campi nomadi, la realtà dei fatti, come ben sanno tutti quei cittadini che ci convivono, è che in questi anni il numero degli insediamenti abusivi è cresciuto a dismisura. Solo per l’area metropolitana milanese, si parla di 23mila persone e oltre 200 accampamenti.
Una situazione che non si può pensare realisticamente di affrontare ridistribuendo le presenze sul territorio, spostando le persone dal centro del capoluogo nelle periferie e nei Comuni della prima cintura.Partiamo allora da un primo importante distinguo. Assicurare che chi delinque, italiano o straniero che sia, venga punito è una questione di certezza della pena che attiene al dovere dello Stato di garantire il diritto di tutti alla sicurezza.
Per coloro che, cittadini comunitari, sono da tempo stabilmente nel nostro Paese e nonostante questa lunga permanenza non sono ancora oggi in grado di dimostrare con quali mezzi di sussistenza, e che verosimilmente vivono di espedienti ai margini dell’illegalità, ho parlato di riaccompagnamento nei Paesi d’origine, come prevede la normativa europea. Questo, con la consapevolezza che ci vuole umanità perché si tratta di povera gente.
Da parte della Provincia di Milano, questa umanità e l’attenzione ai problemi dell’immigrazione straniera non sono mai mancate in tutti questi anni in cui ha messo in campo azioni, iniziative e progetti che oggi non rinnego ma rivendico. Come nel 2005, quando dopo l’intervento delle ruspe nel campo di via Capo Rizzuto abbiamo ricoverato nelle strutture della Provincia un gruppo dei nomadi sgombrati. O come quando nello stesso anno, a dicembre, abbiamo aperto le porte del Consiglio provinciale per dare conforto e un tetto caldo, in una situazione straziante di emergenza, ai rifugiati politici sgombrati dal palazzo di via Lecco dal Comune di Milano che nessuno voleva ospitare.
La Provincia di Milano ha investito, prima tra le istituzioni milanesi, 500mila euro in progetti di formazione e reinserimento sociale per i ragazzi in Romania, in collaborazione con don Gino Rigoldi.Insieme con le altre istituzioni coinvolte, abbiamo lavorato ai Patti di legalità nei campi nomadi regolari, per l’affermazione di un modello di convivenza responsabile. Abbiamo collaborato e continuiamo a collaborare con la Casa della Carità di don Colmegna con diversi progetti di inclusione sociale. Proprio nei prossimi giorni presenteremo con loro un programma di interventi per il 2008 e il 2009 del valore di 800mila euro, con la creazione di una Biblioteca di confine, interventi per la formazione e l’inserimento lavorativo e sociale, e un progetto di solidarietà e reinserimento in Romania. Stabile è la collaborazione della Provincia di Milano con la Questura e la Prefettura sui servizi per il ritiro dei permessi di soggiorno e i ricongiungimenti familiari, mentre partirà tra poco un progetto, realizzato in collaborazione con Banca Intesa, per il sostegno all’imprenditoria straniera, con il finanziamento di un fondo di rischio.
Noi, e non altri, abbiamo prodotto due film significativi per comprendere la realtà delle comunità rom sul nostro territorio come “Opera gagia”, film girato in presa diretta nel periodo delle tensioni al campo nomadi di Opera, e “Via San Dionigi 93: storia di un campo rom”. E nei prossimi giorni il Consiglio provinciale sarà chiamato a dare il via alla Casa delle Culture, ulteriore esempio concreto della capacità di dialogo e integrazione tra culture. È questa una linea che rivendico e che la Provincia di Milano continuerà a portare avanti.
Per il resto, non si tratta di usare slogan leghisti o copiare ricette di destra. Si tratta di chiedersi, con realismo e responsabilità, quante di queste persone, e chi tra loro, possiamo concretamente sostenere, dando loro un’accoglienza dignitosa: una sistemazione, assistenza, istruzione per i bambini, formazione e opportunità di inserimento per gli adulti. Per coloro di cui non possiamo realisticamente occuparci, dobbiamo chiedere che siano i Paesi d’origine con il proprio welfare a farlo, dentro le regole della Comunità europea.
Non possiamo ignorare la condizione di queste persone facendo finta di credere che una vita misera e sudicia in Italia sia migliore di un’esistenza altrettanto miserevole in Romania. Come è sempre stato nella vocazione della sinistra, spetta a noi garantire che ci siano le opportunità, attraverso il lavoro, per il riscatto e il miglioramento delle proprie condizioni di vita. Sarebbe però utopico pensare che possa essere chiesto alle istituzioni, specie quelle locali, prendersi carico di tutti, e sostituirsi a un impegno imprescindibile che tutti gli Stati europei devono assumersi, a proteggere gli ultimi della società.
Credo sia proprio su questo punto che la sinistra possa e debba fare la differenza: una sinistra riformista che si occupa dei più deboli assicurando lo stato di diritto e togliendo gli ostacoli, ma anche gli alibi, a cogliere le opportunità di vita che possono venire dal nostro sistema Paese. Mentre altri, come certi ambienti del centro destra, vogliono negare anche questo diritto.
*presidente della Provincia di Milano

l'Unità 19.5.08
Rom, viados e clandestini, il «vento» della grande caccia
di Anna Tarquini


L’ultima è di Margherita Boniver che pure non ha una storia di destra anche se ora milita nel Pdl. «Gli immigrati? Utilizziamoli per ripulire le città ed ottenere in cambio la regolarizzazione dei loro permessi di soggiorno. Il caso Campania ad esempio - osserva la Boniver - sta diventando una sorta di G8 di Genova del 2001, tanto è evidente la mano di chi vuole lasciare ulteriormente una situazione già insostenibile». Persino la Lega ieri le ha dato della schiavista. E Realacci, invece, l’ha liquidata come una boutade, una gaffe. L’Europa ci addita come razzisti. Tutti i giornali stranieri hanno messo in prima pagina la foto degli assalti ai campi Rom di Ponticelli. Ci siamo veramente svegliati xenofobi? O c’è chi ha soffiato sul fuoco dell’intolleranza o magari anche semplicemente sulla stanchezza di tollerare sempre?
Dai campi rom ai viados. Sul Web basta aprirli in questi giorni i blog. Il problema razzismo è uno dei temi e non sono pochi quelli giustificano gli assalti ai campi nomadi: «Se la legge non esiste, ognuno trova le soluzioni da solo... ». Che il vento è cambiato lo si intuisce anche guardando il comportamento degli automobilisti ai semafori. C’è chi osa di più, adesso, contro i lavavetri. L’appello denuncia dell’eurodeputata rom Viktoria Mohacsi è da ascoltare: «I fatti di Ponticelli dove sono state bruciate le baracche, dove sono esplose molotov, preoccupano e molto. Si sente e si vede l’aria brutta che tira».
Sarà, come dice Bossi, «che se lo Sato non fa il suo dovere la gente prima o poi si rompe le balle». Ci sono però tanti modi di alimentare la xenofobia. E la destra lo ha fatto. A cominciare dal sindaco Alemanno che al Teatro Brancaccio, in campagna elettorale, arringava la platea: «...Questi sono nomadi o no? E se sono nomadi prendono e se ne vanno, non stanno qua per vent’anni nei nostri quartieri...». Oppure Gianfranco Fini, il 4 novembre scorso, all’Annunziata: «A Roma andrebbero fatte almeno 20mila espulsioni e andrebbero demoliti tutti i campi nomadi. Siamo su una polveriera...». Gasparri, 20 aprile 2008: «La Roma di Prodi, Rutelli e Veltroni è il regno del terrore e dello stupro. Bisogna rimettere ordine nell’Italia e nella capitale. Allontanare subito clandestini e rom». Ignazio La Russa, il più moderato: «Io credo che bisogna accettare il fatto che per noi non sia un obbligo sostenere il modello di vita dei rom... La soluzione sono i mini campi di 10 persone al massimo, in campi troppo affollati l’illegalità è all’ordine del giorno». Il Pdl ipotizzò addirittura le «ronde della libertà» subito dopo l’omicidio Reggiani.
C’è poi un altro modo di soffiare sul fuoco, ed è quello dell’informazione scorretta, delle notizie sparate ad hoc. È il caso del maxi-blitz contro i clandestini strombazzato come fosse l’inizio del giro di vite, l’inizio dell’aria che cambiava. Trattavasi di regolari controlli, non scattati in una notte e comandati da una massima autorità che ci pensava da tempo, ma trattati e coordinati nell’arco di giorni. In gergo si chiama Pattuglione, cioè un insieme di operazioni di polizia scollegate tra loro e che normalmente valgono dieci righe. Persino il blitz nel campo nomadi di Roma, in via del Salone, faceva parte dei controlli regolari istituiti dalla giunta nella misura di uno al mese e affidati ai vigili urbani. Manganelli, il capo della polizia, non ha mentito. «C’è una percezione di insicurezza diffusa al di là della ragione - ha detto - . Un sentimento della paura che ha a che fare non solo con la criminalità ma anche con il disagio sociale, il degrado, l’inciviltà anche verbale e la mancanza di punti di riferimento per il futuro». Ieri ha parlato per la prima volta anche Tudor Lucica, la regina dei rom rumeni d’Europa. «È in atto una campagna d’odio senza precedenti. L’Italia ai miei occhi è un Paese sensibile, ci vivo da 18 anni ed è il luogo che meglio mi ha accolta. Ora mi sembra di vivere un incubo, si parla di espulsioni. C’è un odio profondo mai sentito prima. Un attacco di questo tipo coinvolge, direttamente o indirettamente, bambini e anziani senza colpa. I rom che da generazioni vivono in Italia, amano questo Paese. Riflettete bene prima di prendere qualsiasi iniziativa».

l'Unità 19.5.08
Amos Luzzatto. L’ex presidente della comunità ebraica: «Da cittadino democratico dico: i Rom non devono essere vittima di nuovi pogrom»
«I nomadi? Anche contro noi ebrei è cominciato così»
di Umberto De Giovannangeli


«Quei roghi ai campi Rom chiamano alla memoria altri fuochi della storia d’Europa: l’Inquisizione, i libri, i lager tedeschi...»

«Noi ebrei sappiamo bene cosa significhi essere perseguitati, demonizzati, sterminati. Per questo, da ebreo italiano e da cittadino democratico, non posso che guardare con orrore e preoccupazione alla campagna d’odio verso i Rom». A parlare è Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane.
Professor Luzzatto, cosa ha provato di fronte al fuoco appiccato ai campi Rom a Napoli?
«Ogni fuoco riporta alla memoria altri fuochi dei quali la storia europea è cosparsa: penso, ad esempio, ai roghi dell’Inquisizione, ai roghi dei libri maledetti, ai roghi dei campi di sterminio... In ultima analisi c’è da domandarsi cosa abbiano in comune questi roghi. E la risposta immediata e tragica è: distruggere, senza che resti traccia, tutto quello che dà fastidio al potere. In questa ottica, tutto viene ingigantito e generalizzato: all’interno di ciò che si vuole distruggere col fuoco si colloca molto di più di quanto sarebbe “strettamente necessario” proprio per essere sicuri di avere totalmente eliminato quello che s’intende distruggere. È terribile, ma è cosi».
In quale misura questo comportamento è collegato al razzismo?
«È abbastanza evidente: se si vede un uomo nero che ha violentato una donna bianca, per una induzione arbitraria, si ritiene che la violenza sia correlata al colore della pelle. E pur sapendo che la stragrande maggioranza dei neri non sono stupratori per far prima li stermino tutti, ritenendo così di aver fatto una “pulizia totale”. Il razzismo si è nutrito di queste generalizzazioni arbitrarie e di queste correlazioni sbagliate, e una volta innescato il meccanismo del rogo, questo si autoalimenta».
In questa autoalimentazione, perché i Rom?
«Prima di tutto, centrerei l’attenzione su un fenomeno sociale che comprende una serie di fattori negativi, fra i quali la precarietà del lavoro e dell’esistenza; la difficoltà di trovare alloggi adeguati, e la difficoltà di integrazione di popolazioni forestiere, soprattutto in fasi di migrazioni di massa. Il fenomeno del nomadismo va inserito in questa categoria di problemi. Isolare questo problema, e al suo interno addirittura quello dei Rom, significa rincorrere una soluzione illusoria e alquanto pericolosa. È forte la tendenza a superare quelle che sono contraddizioni, debolezze, timori, paure che colpiscono tutta la società contemporanea, selezionando quella che può essere una componente dall’immagine più facilmente riconoscibile e colpirla immaginando così di risolvere un problema molto più esteso e complesso. Coloro che appiccano il fuoco ai campi Rom sono al loro modo - un modo barbaro e criminale indegno di un Paese civile - interpreti di questo approccio sbagliato al problema. E in questo approccio, assieme parziale e colpevolizzante, inserirei anche l’ipotesi del commissariamento dei Rom...»
Una ipotesi, quella della creazione di un Commissario ai Rom, che il governo prende in seria considerazione.
«Questa ipotesi trova immediata rispondenza nelle iniziative violente e vandaliche che imputano problemi scottanti, anche di microcriminalità, non all’azione di singole persone ma alla presenza stessa di un singolo gruppo allogeno».
Quei fuochi portano alla memoria, come lei stesso ha sottolineato, i roghi dei campi di sterminio. In una intervista a l’Unità, Predrag Matvejevic ha ricordato che assieme a milioni di ebrei, nei lager nazisti furono massacrati tantissimi Rom.
«Questa è una verità storica. Un’amara, tragica verità. Noi stessi, noi ebrei, abbiamo subito sulla nostra pelle ripetutamente - fino alla più terribile persecuzione che è stata quella della Shoah - le conseguenze dell’essere prima di tutto indicati come stranieri irriducibili, poi progressivamente stranieri parassiti, quindi stranieri complottanti, infine assassini di bambini cristiani e in conclusione gruppi umani da espellere, da perseguitare, da sterminare. Noi ebrei sappiamo bene cosa significhi essere vittime di pregiudizi che si trasformano in odio e in violenza “purificatrice”. Sappiamo cosa significhi essere additati come il “Male” da estirpare. E da ebreo, oltre che da cittadino democratico, mi sento a fianco di una comunità, quella Rom, che non può, non deve essere vittima di nuovi pogrom».

l'Unità 19.5.08
Il cerino del sondaggio etnico


Prima - giovedì scorso - le due pagine con il titolo: «Ecco tutti i crimini dei rom», con sotto relativa mappa dei campi nomadi a Roma, con gli indirizzi. Poi il seguito (perchè fermarsi?) - venerdì - : e la schedatura che si allarga a tutto lo Stivale e stavolta il titolo è «Rom, l’Italia in rivolta». Ieri mattina il «Giornale» ha fatto filotto, passando direttamente al sondaggio: «Quali sono tra queste etnie quelle che lei teme di più? Ne indichi al massimo due» (chissà perchè solo due, poi... ). Insomma, siamo alla razza, al pallottoliere della rogna, di chi è più infetto. Ci manca il concorso a premi a chi ne avvista (ad andare oltre c’è sempre tempo) di più. Va da sè la classifica: zingari in testa, poi albanesi, romeni, slavi. Da notare poi che il sondaggio distingue pure: nordafricani da una parte, africani neri dall’altra. A pie’ di classifica i brasiliani - che il «Giornale» promuove per l’occasione a etnia unica, pur essendo quello paese multietnico per eccellenza - : guadagnano lo 0%.
***
La sua bambina di 5 mesi in braccio a uno sconosciuto piazzato lì nella camera da letto di un appartamento di una zona periferica di Vigevano. La paura, le urla, l’uomo che sguscia dalla finestra lasciando la piccola sul letto. La donna assieme al marito, cittadino straniero, sporge denuncia. Nessun elemento per chiarire chi fosse il «rapitore». O forse solo un ladro, visto che i cassetti della stanza erano aperti. Magari uno di Como. O magari un albanese. Il «Giornale» stesso a dire - sic - «non è ancora chiaro se italiano o straniero». Fino a ieri sera nessun elemento per chiarirlo. Nessuno. E però nell’edizione dell’ora di pranzo «Studio Aperto» ha riportato la notizia illustrandola esclusivamente con immagini prese dai campi nomadi, con annessi zoom dedicati a «rom fuori» che campeggiavano su chissà quale muro. Chiudendo con l’ennesima intervista alla mamma di Ponticelli che ha ripetuto d’esser stata lei vittima del tentato rapimento della sua piccola da parte di una zingara, poi scacciata e per poco non linciata. Insomma, come si dice, per non perdere il contesto. e.n.

l'Unità 19.5.08
La Spagna insiste: «Criminalizzate i diversi»
Altro che caso chiuso: il ministro Corbacho torna all’attacco contro Berlusconi & co.
di Toni Fontana


ILLUSIONI Nella squadra di Berlusconi c’era stato anche chi, quando la Spagna ha messo in chiaro la sua politica per l’immigrazione, ha preteso le «scuse» di Zapatero, ed altri si sono rallegrati per pentimenti e dietro front che non ci sono mai stati. Ieri il
governo di Madrid ha nuovamente messo in chiaro la differenza tra la politica del governo spagnolo e quella che l’esecutivo italiano. Stavolta a scendere in campo è stato il ministro del Lavoro e dell’Immigrazione, Celestino Corbacho, ritenuto l’esponente dell’ala moderata del governo. Corbacho non è mai stato tenero sulla questione dell’immigrazione, ma ieri ha puntato il dito contro la politica del governo Berlusconi: «Loro - ha detto - mettono al centro la discriminazione del diverso, noi cerchiamo di dare risposte. Loro criminalizzano il diverso, noi ci assumiamo la responsabilità di governare il fenomeno». Corbacho ha poi aggiunto: «Un immigrante illegale ha davanti una sola strada: quella di tornare nel suo paese. Ma per raggiungere questo scopo noi intendiamo seguire tutti i requisiti che riguardano il rispetto dei diritti umani». Anche stavolta i tanti sostenitori del pentimento degli spagnoli si sono irritati. Il più intrepido era stato il ministro dell’Interno Roberto Maroni che si è spinto a giudicare «incaute» le affermazioni della vice di Zapatero. Anche il capogruppo Pdl al Senato Gasparri aveva salutato il «tempestivo» chiarimento e si era augurato che il leader di Madrid «abbia spiegato le regole della democrazia a tutti i suoi ministri». Ieri Gasparri è saltato su tutte le furie ed ha invitato Zapatero «a mettere a tacere i suoi ministri che ci offendono». Gli ha fatto eco anche il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni che si rivolge a Zapatero: «Si vergogni, non si permetta di proferire impunemente il nome del mio paese». In serata Zapatero ha detto al ministro delegato per l’Europa, Lopez Garrido, di telefonare all’ambasciatore a Madrid Terracciano ed ha ribadito che, con Roma, «non c’è alcun problema».
La Spagna intende tuttavia seguire una strada diversa da quella dell’Italia. Ai primi di aprile Zapatero ha illustrato le linee guida. Dal 2003 (governo della destra di Aznar) è in vigore in Spagna una legge che prevede il «rimpatrio volontario» di lavoratori che hanno perso il posto e il pagamento del biglietto aereo per il viaggio di ritorno. Il provvedimento non ha funzionato. Solo 3700 immigrati ne hanno beneficiato e molti sono tornati clandestinamente in Spagna pochi giorni dopo averla lasciata. Ora Zapatero propone di corrispondere a chi torna o il sussidio di disoccupazione «una tantum» e proporzionato al periodo di lavoro svolto, oppure un microcredito che permetta all’immigrato di tornare in patria «e aprire un attività economica». L’altra iniziativa della Spagna è stata quella di coinvolgere il governo rumeno. Il ministro del Lavoro di Bucarest sta facendo il giro della Spagna (dove vi sono 600mila rumeni) per convincere «uno a uno» i suoi connazionali rimasti disoccupati a tornare a casa. La Romania offre mezzo milione di posti di lavoro a chi torna sui suoi passi. S’infiamma nuovamente anche la polemica sul governo rosa di Zapatero sulla cui composizione ha ironizzato Berlusconi. Ieri la giovane ministra delle Pari Opportunità, l’andalusa Bibiana Aido, intervistata da El Paìs ha detto di essere pronta a «pagare uno psichiatra» al premier italiano. «Ci vorrebbero molte sedute e non so se sarebbe efficace» - ha aggiunto.

Corriere della Sera 19.5.08
Ancora polemiche Spagna-Italia «L'Italia criminalizza il diverso»
Immigrati, Madrid attacca di nuovo
Una ministra: Berlusconi da psichiatra
di Fiorenza Sarzanini


Dalla Spagna nuovo attacco al governo italiano. Il ministro dell'Immigrazione Celestino Corbacho: «L'Italia criminalizza il diverso». E la ministra Bibiana Aido aggiunge: «Berlusconi è da psichiatra ». Ma il sottosegretario agli Esteri di Zapatero frena: «Nessuno scontro».

ROMA — Dopo le critiche formulate tre giorni fa contro l'Italia dalla vicepremier spagnola Fernandez de la Vega, questa volta ad attaccare è il ministro del Lavoro e dell'Immigrazione Celestino Corbacho che afferma: «La politica italiana pone l'accento più sulla discriminazione del diverso che sulla gestione del fenomeno e intende criminalizzare il diverso ». Un'accusa di razzismo.
Se dopo il primo attacco la diplomazia della Farnesina si era data da fare per chiudere l'incidente riducendo al minimo le polemiche, questa volta la maggioranza decide di replicare. E lo fa prima con il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri: «Zapatero metta a tacere i suoi ministri che tengono un comportamento difficilmente tollerabile», poi con il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Il ministro Corbacho è disinformato e la sua polemica è inutilmente provocatoria. Gli interventi non nascono per una pregiudiziale scelta razzista, ma per la violazione della nostra legge». È un uno-due che convince il governo spagnolo a rettificare. Anche perché nel frattempo da Madrid è arrivato un nuovo fendente, portato questa volta dal ministro per le Pari Opportunità, Bibiana Aido, al premier: «Pagherei uno psichiatra a Berlusconi — ha risposto all'intervistatrice che le chiedeva un giudizio su una frase del Cavaliere che aveva definito "governo rosa" l'esecutivo Zapatero per l'alto numero di donne —. Anche se non so se la cura sarebbe del tutto efficace. Comunque avrebbe bisogno di molte sedute».
È allora il sottosegretario di Stato per gli Affari europei Lopez Garrido a correre ai ripari: Corbacho ha parlato, dice, «senza conoscere bene la situazione, probabilmente non aveva pienamente chiara l'evoluzione delle cose in Italia». E sullo psichiatra da consigliare a Berlusconi? «Si tratta di opinioni del tutto personali», taglia corto Garrido.
A circoscrivere la polemica interviene ancora una volta il ministro degli Esteri Franco Frattini. Alla Farnesina dover chiedere così spesso precisazioni sta causando una certa irritazione. Frattini si dice «certo» che il primo ministro spagnolo José Luis Zapatero «Saprà porre fine a dichiarazioni individuali ed estemporanee che non rispecchiano la linea di forte collaborazione con l'Italia che lui stesso ha avuto modo di indicare ».
A due giorni dal consiglio dei ministri che dovrà varare le misure sulla sicurezza, l'Italia torna dunque al centro del dibattito internazionale. Resta confermato che nessuna aggravante potrà essere contestata a colf e badanti sorprese senza permesso di soggiorno, come invece avverrà per gli stranieri che non rispettano l'ordine di allontanamento del questore e per quelli che commettono reati.
Ma ieri è stato un giorno di polemiche anche nella maggioranza. Margherita Boniver, del Pdl, propone: utilizziamo in Campania gli immigrati irregolari ma non criminali per rimuovere i rifiuti in cambio della regolarizzazione. «Una proposta schiavista», la bolla la Lega. Critiche dure da entrambi i poli ma lei non arretra: «Solo una proposta dettata dal senso pratico, così avviene nelle emergenze anche negli Stati Uniti».

Corriere della Sera 19.5.08
I lager, i rom e l'apocalisse
di Pierluigi Battista


Il Foglio deplora le allucinazioni della «Nuova apocalisse ». L'isteria di chi equipara i Cpt ai lager e chiama «rastrellamenti» le azioni di polizia. Il parossismo comparativo che paragona alla «pulizia etnica » la battaglia contro la criminalità che alligna nell'immigrazione clandestina, e alle «leggi razziali» le norme repressive a favore della sicurezza. La civetteria intellettuale che induce Adriano Prosperi a citare un passo di Primo Levi come chiosa per l'assalto anti-rom di Ponticelli, a menzionare (Giuseppe Caldarola) le «leggi di Norimberga », a scomodare i pogrom per deplorare «le ruspe di Veltroni e Moratti» (Rossana Rossanda). I pogrom antiebraici nell'Ucraina degli inizi del Novecento, spiega sul Domenicale del Sole 24Ore Riccardo Chiaberge rileggendo le pagine fondamentali de «I cani e i lupi» di Irène Nèmirovsky, «non si limitavano ai roghi e alle distruzioni, erano veri e propri massacri», spaventosi bagni di sangue ispirati a un odio assoluto. Attenzione all'uso disinvolto della memoria storica, dunque. Piano con i paragoni spropositati.
Però. Di però ce ne sono almeno due. Il primo è dettato dalla visione raccapricciante, offerta dalle riprese dall'alto delle telecamere di Sky Tg24, della caccia all'uomo scatenata dalla teppa camorristica nel campo rom di Ponticelli. Donne terrorizzate che, a pochi metri dai furgoni della polizia inerti di fronte alle bande che avevano circondato il campo, fuggivano disperate con i bambini in braccio. Energumeni con le spranghe che inseguivano come un branco di bestie assatanate i nomadi ubriachi di panico. Bombe incendiarie che attizzavano il fuoco delle baracche lasciate precipitosamente nella fuga. Quelle scene dicevano che a Napoli era stato distrutto il monopolio della forza da parte dello Stato e che manipoli di mascalzoni avevano inscenato un linciaggio, violando la legge con arroganza sconfinata. Ma chi straccia con tanta prepotenza la legge, merita un sola sanzione: la galera. È troppo chiedere il ripristino della maestà della legge infranta, la tolleranza zero verso i teppisti, e almeno qualche parola da parte del governo (si è sentito solo il ministro Maroni, sinora) per marcare una linea di demarcazione invalicabile tra l'azione delle forze dell'ordine, e la furia violenta dei picchiatori che inseguono ululanti bambini rom sconvolti dal terrore?
Il secondo però riguarda l'obbligo culturale di distinguere, sempre, tra persone e gruppi, tra singoli colpevoli e intere comunità, tra individui su cui eventualmente grava il peso della responsabilità penale personale e etnie e nazionalità discriminate in blocco. Se si smarrisce, o se si offusca, questa fondamentale distinzione, nel lessico corrente oltreché nei comportamenti o persino nelle leggi, il richiamo alle tragedie del passato diventa per forza meno pretestuoso e dunque, paradossalmente, più plausibile. I gruppi umani colpiti in quanto tali diventano colpevoli per il solo fatto di esistere, la loro stessa presenza appare come un ingombro da rimuovere e da estirpare, un virus da sconfiggere anche con la mobilitazione purificatrice di chi si sente minacciato e circondato da una forza oscura e inquietante. Questa sì, potrebbe essere la fonte di una nuova apocalisse.

Repubblica 19.5.08
Paura nelle città, ecco l´Italia delle ronde
Volontari e vigilantes, da Padova a Bari dilaga la sorveglianza fai-da-te
di Jenner Meletti


Il leader del gruppo nel capoluogo veneto: per noi sono le "passeggiate"
Anti-bullo o interetniche, ma cresce la tentazione di farsi giustizia da soli

Partiva a mezzanotte, la «ronda del piacere». «Noi invece a quell´ora siamo già a letto, o comunque a casa. E se piove non usciamo nemmeno perché a mandare via dalla strada i tunisini che spacciano, bevono, bivaccano, urinano e fanno tutto il resto sui marciapiedi ci pensa già l´acqua che cade dal cielo. Sì, noi facciamo le ronde, ma per favore non usi questa parola. Scriva: passeggiate notturne per la legalità e il recupero del territorio». Paolo Manfrin, capo del comitato Stanga a Padova (nel 2005 eletto consigliere comunale con lo Sdi nel centro sinistra e oggi «per quanto possibile lontano dalla politica») in fondo è un uomo fortunato. «Sì, l´altra sera con la nostra ronda, insomma, con la nostra passeggiata abbiamo preso uno che stava scappando. L´abbiamo consegnato subito alla polizia». Il racconto ricorda le vecchie barzellette con un italiano, un americano… «Siamo lì vicino alla stazione - racconta Paolo Manfrin - e mentre ancora ci stiamo preparando vediamo tre persone che scappano da un bar. Dietro, a inseguirli, due cinesi, proprietari del locale. I primi due sono fuggiti, il terzo è caduto e uno della nostra ronda, un bravo senegalese, lo ha fermato. Poi è stato bloccato dai vigili urbani - erano lì anche loro - e consegnato alla polizia della stazione. Era un italiano, come gli altri due non aveva pagato il conto».
C´era anche Mohamed Lamine Diallo, senegalese, quella sera in ronda. «E tornerò a fare servizio - dice - perché la sicurezza è importante per gli italiani ma ancor di più per noi stranieri. Non a caso, in ronda, ci sono romeni, amici del Camerun, nigeriani, egiziani e noi senegalesi. La ronda serve a fare stare tranquilli, e dunque meglio, i cittadini. Fra i cittadini ci sono anche quelli arrivati come me da Paesi lontani. Allora anche noi ci dobbiamo impegnare per questa sicurezza che fa bene a tutti».
Basterebbe una fotografia della situazione padovana, per raccontare il gran bailamme delle ronde che stanno percorrendo l´Italia. Nel comitato della Stanga - è il quartiere con via Anelli, la strada del muro - ci sono anche i sotto comitati di Pescarotto («sono lì gli anziani che abitano nelle villette e non escono mai perché la strada è occupata dai tunisini», racconta il capo Manfrin) e di Piovego, «dove ormai da anni gli abitanti si chiudono nei loro appartamenti per paura degli spacciatori». Oltre al comitato della Stanga nella città patavina c´è poi il ComRes, comitato di commercianti e residenti del centro storico. Questo gruppo ha fatto un passo in più: ha assunto due vigilantes armati, con «basco, occhiali da elicotteristi, giubbotto antiproiettile e pistole». Il loro capo, Massimiliano Pellizzari, dichiara: «E´ la gente che li vuole. Siamo tutti stanchi dello spaccio di droga, della criminalità, e dei delinquenti di ogni risma che stanno abbassando la qualità della vita in città. E´ per questo che abbiamo organizzato il piantonamento del territorio». Anche in questo comitato ci sono alcuni stranieri. «Più saremo - dice l´egiziano Mohamed Ahmed - meglio sarà per tutti. Integrarci non vuol dire solo lavorare ma fare parte della società». Le guardie armate non sono piaciute però a chi tutela - e non da ieri l´altro - l´ordine pubblico. Il questore Alessandro Marangoni, alla festa della polizia, ha detto che la sicurezza fai - da - te «propone ricette intossicate di personalismo». Il prefetto Michele Lepri Gallerano non ha digerito la presenza di guardie giurate armate nelle ronde. «Compito degli istituti di vigilanza è il controllo di beni immobili e mobili di proprietà. Non possono sostituirsi alle forze dell´ordine nel controllo del territorio».
Ma la ronda fai - da - te impazza sull´intera penisola e non è difficile prevedere che, con tanti che si appuntano da soli la stella da sceriffo sul petto, presto arriveranno guai seri. A Pignataro Interamna, presso Frosinone, l´altra mattina all´alba è stato bloccato un albanese di 25 che stava tentando un furto in un appartamento. «Abbiamo chiamato i carabinieri - hanno detto «i ragazzi della ronda» - per farlo arrestare, ma qualcuno avrebbe voluto «divertirsi» un po´ prima di consegnarlo alla giustizia. Se le forze dell´ordine non riescono a tutelarci, allora faremo da soli». A Bari sotto la lente delle ronde ci sono i ragazzini. Genitori in scooter - la prima uscita c´è stata sabato sera - alla ricerca di bulletti. Primo risultato: due tredicenni che si stavano prendendo a pugni sono stati accompagnati in questura. Mentre la ronda era in missione, qualcuno è entrato nella sede dei genitori - vigilantes e ha rubato 500 euro. A Firenze sta per partire la ronda di Alleanza nazionale, subito giudicata «una puttanata» dall´assessore - sceriffo Graziano Cioni, quello dell´ordinanza anti accattoni in sosta sui marciapiede. Critiche anche da Forza Italia. Inutile - dice il segretario Alessio Bonciani - istituire le ronde: un telefonino per chiamare la polizia ce l´abbiamo tutti». Ma i ragazzi di Azione Giovani (900 i tesserati fiorentini) già fremono. Nel loro circolo, con i manifesti del Duce, per salutare non stringono la mano ma afferrano l´avambraccio. «Come facevano i legionari romani: la mano può scivolare». Ci sono anche le ragazze. «Gli zingari non ci piacciono, ci impauriscono. Come i molestatori di donne». Aspettano di poter indossare la pettorina e andare in giro «a sorvegliare la città».
Le ronde affascinano anche la sinistra. A Bologna la prima idea di costruire gruppi di volontari - vigilantes di quartiere e in zona universitaria (con bando comunale per la selezione e la formazione) è venuta all´assessore alla sicurezza Libero Mancuso, della giunta di centro sinistra. Ma nelle strade si è creato un vero e proprio ingorgo, con ronde partite o annunciate di An, Lega nord e City Angels. Poi la Lega si è ritirata per lasciare spazio ai City Angels ma anche questi ultimi hanno rinviato le loro ronde «per colpa della politica che rischia di invadere il campo e creare sovrapposizioni che possono confondere la gente». A Reggio Emilia c´è un sindaco, Graziano Delrio, che è fra i pochi a non volere i pattuglianti da strada. «Per presidiare il territorio basta coinvolgere il mondo dell´associazionismo volontario». Ma intanto ha creato la figura del «Security manager» per il Comune ed ha assunto Antonio Marturano, generale dei carabinieri in pensione. Il deputato della Lega Nord Angelo Alessandri si è arrabbiato. «La sinistra ci copia sempre le idee».

Repubblica 19.5.08
Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, del Pd
"Smettiamola di fare i poeti la gran parte dei rom delinque"
Stato inesistente La rivolta di Ponticelli? I criminali vanno espulsi dall´Italia


NAPOLI - In due anni ha smantellato gli accampamenti Rom all´esterno dello stadio Arechi, ha cancellato i lavavetri, ha setacciato le aree occupate dalle prostitute, ha fornito i vigili di manganelli. Così Vincenzo De Luca, sindaco del Pd di area Ds, guida Salerno, seconda città della Campania.
Sindaco, il suo pugno di ferro dimostra che si può difendere una città anche senza lo Stato?
«Il Comune può essere presente sul territorio ma da solo non basta. Il governo deve procedere rapidamente con decreti legge. Parcheggiatori abusivi, prostitute, extracomunitari. Oggi c´è il solo foglio di via, violato il quale non accade nulla. Per avviare l´espulsione occorre una condanna penale. Occorrono decreti legge e finanziamenti».
Si sente isolato?
«La drammatizzazione estrema di oggi è causa dei ritardi di uno Stato inesistente. I cittadini hanno percepito una situazione di abbandono, di non protezione rispetto alle esigenze elementari. Questa la realtà. Uno Stato che non c´è. Una diffusione della violenza a livelli mai visti, una sensazione di impotenza del cittadino normale in un clima di frustrazione delle forze dell´ordine per un´inadeguatezza di mezzi rispetto agli obiettivi».
Parla dei due anni di governo del centrosinistra?
«Negli ultimi due anni c´è stato un aggravamento ma i comportamenti anche prima non sono stati all´altezza. Anche l´operazione del poliziotto di quartiere della destra è stata propagandistica e inutile. Ultracinquantenni che scendevano dalle auto per fare cento metri a piedi e sedere da qualche parte».
E l´ex ministro Giuliano Amato?
«Con lui c´era la consapevolezza nuova del problema ma il quadro politico non ha consentito di intervenire per aumentare la sicurezza nelle città. Uno dei motivi della sconfitta elettorale del centrosinistra».
Come giudica la rivolta contro i rom di Ponticelli alla periferia di Napoli?
«Partiamo dalla realtà e smettiamola di fare i poeti. La maggioranza dei rom delinque. Come vivono? La mia verifica sul territorio dice che rubano auto, rubano nelle auto, rubano negli appartamenti, rubano anche i tombini nelle strade periferiche. Oltre, ovviamente, ai reati più gravi, dalle aggressioni ai tentativi di rapimento. Questi criminali vanno espulsi dall´Italia».
E i rom onesti?
«I rom che vogliono vivere onestamente devono entrare nei percorsi di inserimento sociale e scolastico dei propri figli con il massimo di attenzione da parte dello Stato per favorirne l´acquisizione di moduli di vita civile».
(o. l.)

Corriere della Sera 19.5.08
Disoccupati record ed estrema destra al 31%
Gli incubi di Bargischow la cittadina tedesca del «nazismo realizzato»
I giovani giocano alla «caccia all'ebreo»
di Danilo Taino


BARGISCHOW (Germania) — Anche da queste parti i ragazzi delle scuole medie giocano a rincorrersi. Ma non lo chiamano Fangen Spiel, come nel resto della Germania. Per loro è Judenklatschen, più o meno «becca l'ebreo»: basta toccarlo, il fuggiasco, non serve sparargli, ma già il nome racconta parecchio di questo angolo nordeuropeo. Sì, c'è un problema a Bargischow, sei chilometri dal Mar Baltico e 30 dal confine con la Polonia, e nelle zone attorno, Pomerania dell'Est, Prussia profonda. Non è solo il fatto che il partito neonazista, Npd, in questo piccolo villaggio agricolo prende il 31% dei voti: è che qui trionfano, soprattutto tra i giovani, uno stile di vita, un'ideologia e un controllo sociale che somigliano a quelli dei tempi tragici del regime hitleriano. La democrazia, la libera impresa e la libertà stessa sono concetti sconosciuti, astrazioni, in un pezzo di Germania che prima è stato dominato dagli Junker, i signori della terra, poi dai nazisti e infine dal regime di socialismo reale della Ddr. Risultato: oggi, 2008, non siamo ancora al «nazismo realizzato», ma se il governo di Berlino e il resto del Paese più potente d'Europa continueranno a essere disinteressati e latitanti, forse ci si arriverà. Una pianura trascurata dallo sviluppo, dal capitalismo, dalla modernità e dalla politica. Nella ricca Germania.
«Non so se si possa definire una cultura nazista quella dei giovani di Bargischow — dice Ulrich Höckner, berlinese dell'Est, responsabile della Caritas nella regione —. Certo è che talvolta organizzano feste con canzoni naziste.
Si incontrano per rendere omaggio al monumento della guerra. Occupano la casa della gioventù con propositi di destra. Promuovono feste dello sport militare e del raccolto. Uccidono e macellano i maiali per essere vicini alla tradizione tedesca della terra. Tengono concerti patriottici. Propongono corsi di educazione politica. Festeggiano persino il compleanno di alcuni gerarchi di Hitler. Non parlano mai di Polonia, di là dal confine, ma di terra tedesca occupata dalla Polonia».
Höckner, 52 anni, era ingegnere ai tempi della Germania Est. Ma dissidente, quindi senza lavoro e qualche volta in galera. Si avvicinò dunque alla Chiesa, si laureò in pedagogia sociale e per questa via è arrivato, una decina di anni fa, alla Caritas e a Bargischow. Ci vive tra minacce e ostracismo, assieme alla moglie bibliotecaria e a cinque figli. Campagna brulla, terra sabbiosa poco coltivata da quando la cooperativa socialista è fallita, all'inizio degli anni Novanta. Nelle vicinanze, una fabbrica di zucchero. Nient'altro. «La disoccupazione ufficiale è al 21% — racconta —. Ma se si considerano gli ein euro jobber
(lavoratori "socialmente utili" da un euro l'ora, ndr) si arriva al 40%. Ci sono un po' di posti nell'amministrazione pubblica, nelle opere di ecologia, un po' nel turismo sulle isole del Baltico. Il resto è frustrazione e sussidi pubblici». Pomerania dell'Est depressa. Come a Bargischow, stesse condizioni nelle vicine Demmin, dove il 14% dei ragazzi lascia la scuola dell'obbligo senza arrivare al certificato finale, e Uecker-Randow, il paese con la percentuale più alta di uomini di tutta la Germania, perché le donne sono scappate.
Anche i partiti tradizionali — i gloriosi Cdu e Spd — sembrano fuggiti, negli ultimi anni. Persino Karl Heinz Thurow, sindaco di Bargischow dal 1996, ha lasciato la Cdu. «La gente è delusa dai governi di Berlino — dice —. Dalla caduta del socialismo, hanno votato Cdu, niente; hanno votato Spd, niente; ora provano con l'Npd. Ma non sono scelte politiche, è protesta. Tra l'altro, molti non votano, e questo fa aumentare le percentuali del partito neonazista». Vero, conferma Höckner, «i partiti non si vedono, si vedono solo le manifestazioni di cameratismo», quelle che poi portano voti al partito. «La Npd da sola non sarebbe un grande problema — aggiunge —. Il fatto è che collabora con organizzazioni sociali di destra della zona, l'Alleanza patriottica della Pomerania, l'Alleanza social-nazionale della Pomerania e cose del genere. Gente violenta, che alla fine vota per i neonazisti perché sono gli unici che parlano a voce alta dei problemi in quest'area». La gente ha paura, racconta Höckner. Pochi reagiscono alle intimidazioni dell'estrema destra, gli altri abbassano la testa. Il dramma è che nessuno ha idea di come arginare la tendenza. «In Germania — sostiene il sindaco Thurow — c'è un programma di intervento per fermare la destra, ma per l'intero Paese sono stati stanziati 24 milioni di euro, niente. A Berlino, evidentemente, non considerano pericoloso questo estremismo». «Non vedo un meccanismo capace di fermarli — dice Höckner —. A Wolgast, non lontano da qui, il sindaco ha fatto moltissimo contro l'Npd, eppure il 15% dei cittadini ha votato comunque i neonazisti. È una tendenza, una radicalizzazione culturale contro la democrazia». Disperazione sociale finita in una rete di nazionalismo, di miti della terra, di demagogia. Ma non solo.
«C'è anche la storia — aggiunge l'uomo della Caritas —. Qui, nessuno è stato mai responsabile del proprio futuro, nessuno ha mai avuto una proprietà, ha mai preso un'iniziativa, ha mai espresso un'opinione. E ciò ha provocato una totale mancanza di identità, una debolezza esposta a qualsiasi vento». Il futuro, aggiunge, «da queste parti rischia di diventare ancora più triste». Più di un innocente gioco di bambini ad acchiapparsi.

Corriere della Sera 19.5.08
Caccia A Johannesburg 12 persone uccise. Attaccati profughi dello Zimbabwe
Sudafrica, il linciaggio degli immigrati


«Non sono fuggita dallo Zimbabwe per vedere morire i miei bambini nel libero Sudafrica. Sono pronta a tornare indietro ». In questo grido di dolore, registrato dal Mail and Guardian, c'è il dolore e la delusione che si vivono in queste ore a Johannesburg, capitale economica della patria di Nelson Mandela. Caccia agli immigrati, neri contro neri: da venerdì almeno 12 persone sono rimaste uccise. I linciaggi scoppiati nella bindonville di Alexandra si sono diffusi in altre zone, compreso il centro cittadino. Negozi saccheggiati, baracche date alle fiamme. Ieri pomeriggio 5 persone sono morte nell'area di Cleveland: due bruciate vive, tre uccise a bastonate. In 50 sono finiti all'ospedale con ferite da coltelli e armi da fuoco.
In pieno giorno mille clandestini dello Zimbabwe si erano rifugiati in una chiesa metodista, poi attaccata da bande di sudafricani armati che fortunatamente non hanno causato vittime. Il vescovo Paul Veryn ha lanciato un appello alla radio: «Situazione gravissima, la polizia ha perso il controllo». Quando è sceso il buio, centinaia di immigrati si sono riversati nelle stazioni di polizia per ripararsi. Molti, dopo aver perso i pochi averi conservati nelle baracche, temono per la vita. La Croce Rossa sta fornendo assistenza a chi ha perso tutto.
La violenza xenofoba è cominciata una settimana fa, quando gruppi armati hanno setacciato Alexandra al grido di «via gli stranieri». Le tensioni sono molto alte in Sudafrica: milioni di stranieri (soprattutto da Zimbabwe, Mozambico, Malawi) si sono riversati nel Paese dopo la fine dell'apartheid diventando spesso capri espiatori per le masse di sudafricani delusi dalla lentezza dei miglioramenti. Le forze dell'ordine sono state colte di sorpresa dalle violenze di questi giorni. Ieri il presidente Thabo Mbeki ha annunciato che una commissione investigherà sulle violenze. Jacob Zuma, leader dell'Anc (il partito di governo): «Non possiamo permettere che il Sudafrica diventi famoso per la xenofobia».

l'Unità 19.5.08
Soglie e alleanze.Oggi incontra Fava, neo-leader di Sinistra Democratica, nei giorni scorsi sentito Bertinotti. Il Pd:«No alla microdispersione»
Veltroni, sul nodo Europee prove di dialogo con la sinistra radicale


Ascoltare le novità e recuperare un livello accettabile di dialogo: dopo l’abisso del 13 aprile e il seguito di polemiche anche feroci tra sinistra radicale e Pd, Veltroni prova a ricucire. Nei giorni scorsi aveva sentito Bertinotti, questa mattina il leader del Pd vede Claudio Fava, neosegretario di Sinistra Democratica succeduto a Fabio Mussi. La linea non cambia, il Pd non insegue alcun ritorno alle allenze-contro, però c’è da rimuovere un muro di diffidenza e di rancore, cresciuto, se possibile, dopo che si è parlato di cambiare la legge elettorale per le europee: la Destra vuole uno sbarramento al 5%, anche per tagliare fuori del tutto l’Udc, Veltroni parla del 2-3%, che è una cosa molto diversa, ma non sufficiente a dissolvere le nubi nel rapporto con la sinistra radicale.
Il primo problema sulla strada del dialogo, dicono al Pd, è capire come si muoveranno le forze della Sinistra Arcobaleno uscite sconfitte dal voto di un mese fa. Veltroni ha detto a più riprese che il Pd si farà carico di interpretare anche le domande di quel mondo che non ha più rappresentanza parlamentare, ma sa che dal punto di vista elettorale le cose sono complicate: sul Pd è rifluita una quota di elettori della sinistra radicale che solo in parte resteranno nella nuova casa, soprattutto in mancanza del voto utile, come è alle europee. «La soglia del 2-3% che noi proponiamo per queste elezioni, dicono al Pd, non solo è nella media delle leggi elettorali europee degli altri paesi, ma ha l’unico scopo di evitare la microdispersione, impedendo che abbiano accesso a Strasburgo forze non rappresentative e che non hanno alcun contatto coi grandi gruppi politici presenti lì». Il Pd dovrebbe presentare la proposta già maturata la scorsa legislatura e su cui potrebbero essere d’accordo sia Di Pietro che Casini, il quale è molto preoccupato per le manovre del Pdl. Il punto è se la maggioranza in mancanza di un accordo con il Pd volesse andare avanti da sola.
In ogni caso la soglia del 2-3% di cui si parla al Pd non impedisce alla Sinistra Arcobaleno di mandare rappresentanti a Strasburgo, e non lo impedisce a Rifondazione comunista nel caso andasse da sola. Penalizzerebbe soltanto Verdi, Pdci e Sinistra democratica se andassero in ordine sparso. Per questo il primo obiettivo di Veltroni è capire che futuro si vuol dare quell’arcipelago ed è di questo che parlerà con Claudio Fava. Vale ancora la minaccia della sinistra radicale di abbandonare tutte le giunte locali in cui sono al governo col Pd? La minaccia, per la verità, non viene presa sul serio, «perchè così - dicono al loft - perderebbero gli elettori residui». Però un problema di alleanze c’è anche in vista della tornata amministrativa del 2009 e non è un mistero che una parte del Pd, a cominciare da Bersani, insiste perchè questo nodo non venga sottovalutato nemmeno nei posti dove i democratici e l’Idv sono larga maggioranza. Ai parlamentari Veltroni aveva detto che sulle alleanze si sarebbe scelto a livello locale, come avviene per qualunque partito federale. Al coordinamento nazionale il leader del Pd ha raccolto le preoccupazioni di molti e ha ribadito che vocazione maggioritaria significa non andare da soli ma impostare un programma e in base a quello valutare le alleanze.
Il tema delle legge elettorale europea, peraltro, fa parte del dialogo sulle regole avviato da Berlusconi e Veltroni ma si sa quante incognite circondano quel tavolo. Nicola Latorre ricorda che il dialogo deve riguardare le regole del gioco nel loro complesso e non sono ipotizzabili accordi separati su singoli spezzoni, ad esempio la legge elettorale e i regolamenti parlamentari. Tema difficile, visto che per alcune riforme istituzionali servono anni di lavoro, mentre per cambiare la legge elettorale per Strasburgo ci vogliono pochi mesi. Paolo Gentiloni, ad esempio, ammette che ci sono grandi rischi in questo dialogo, ma anche che l’opportunità di riforme condivise non vada dispersa. Veltroni, pare, ha accolto con sorpresa le obiezioni di quanti gli chiedono di parlare con Berlusconi anche di diritti e sicurezza. «La nostra non è una trattativa privata, ma un confronto sulle regole del gioco, su tutti i temi oggetto dell’azione di governo noi faremo opposizione, non accordi separati». b.mi.

Repubblica 19.5.08
Vendola, candidato leader del Prc: il voto ha premiato gli spiriti animali del paese, serve lavorare nel sociale e nelle istituzioni
"Quest'Italia è brutta, ma è sbagliato fuggire"


ROMA - Nichi Vendola, governatore della Puglia e candidato leader del Prc: davvero meglio fuori dal Parlamento?
«Non è vero che non ci sia alcuna relazione fra la vita quotidiana e il voto. Hai voglia. Il risultato delle ultime elezioni ha mostrato, non solo a noi della sinistra ma a tutti, il volto di un´Italia sconosciuta. Un´Italia di destra. Il voto rimanda una fotografia di quel che è accaduto nel nostro paese, e al tempo stesso la moltiplica: ecco gli spiriti animali che si liberano dopo il risultato, gli assalti ai campi rom».
Se il voto è lo specchio del paese, bisogna stare dentro le istituzioni per cambiarle.
«Di fronte alla crisi della sinistra, il dibattito che si è aperto come ha notato la Rossanda in fondo si può ridurre a due sole ricette: puntiamo tutto sul sociale, sul radicamento oppure al contrario bisogna ricostruire il campo politico? Credo l´uno e l´altro. E la rappresentanza parlamentare è funzionale a questo disegno».
Certo, se la democrazia è ridotta ad un feticcio, finta...
«L´estremismo paradossale e schematico di Bifo è un modo per scardinare i luoghi comuni. Fatta questa premessa, davvero la democrazia nel nostro paese si è indebolita».
Scoprite improvvisamente un paese a rischio?
«Io parlo di indebolimento. E va avanti da tempo. Per esempio, con la delocalizzazione dei poteri reali, dal Wto al Fmi, senza controlli democratici. La crisi delle agenzie formative classiche (scuola e famiglia) surrogate dalla tv, con risposte totalitarie nella formazione delle coscienze. Ma l´esodo dalla democrazia non è certo la risposta alla crisi della democrazia».
Non sarà che lanciate l´allarme perchè siete scomparsi dalle Camere?
«Quella semmai è una conseguenza, non l´origine. La debolezza sta nel fatto che nel nostro paese i corpi sociali sono stati schiantati. I lavoratori sono soli. E´ l´Italia della mucillagine, per dirla con De Rita. Delle piccole corporazioni. Dei clan. Degli interessi particolari, territoriali. Così si sfibra la democrazia. E nei luoghi della rappresentanza non c´è tensione ideale».
(u. r.)

Repubblica 19.5.08
"Democrazia falsa, feticcio inutile" la sinistra tra Parlamento e piazza
Parlato e Bifo scuotono i "desaparecidos" dell'Arcobaleno
di Umberto Rosso


Rinaldini, leader Fiom: grave errore consolarsi dicendo che è inutile stare nelle istituzioni
Lo storico Revelli: in effetti risolve più il volontariato della militanza politica

ROMA - Provocazione: «La democrazia è un feticcio, liberiamocene». Ergo, facciamo festa, molto meglio che la sinistra resti fuori dal Parlamento. L´ha lanciata su Liberazione "Bifo" Franco Berardi, che di assalti un po´ dadaisti è uno specialista, visto anche che qualche tempo fa sullo stesso giornale aveva menato scandalo con la teoria "meglio Berlusconi del governo Prodi". Però si scopre che in sincrono sul manifesto Valentino Parlato se ne esce mettendo sotto tiro «una democrazia che non è mai stata così falsa come ora». E quindi, interrogato sul punto per chiarimenti, spiega di non aver dubbi sul fatto che nel nostro paese «c´è stata più democrazia negli anni cinquanta e sessanta che oggi, anzi ce n´era di più ai tempi di Giolitti come dimostra nel suo libro anche il mio amico Ciocca». L´ex direttore del manifesto non arriva a celebrare la scomparsa parlamentare della sinistra come fa Bifo, «che facciamo se no, i soviet?», ma si scopre che il sasso «democrazia addio» lascia segni profondi nello stagno della sinistra radicale. Lo storico Marco Revelli, intellettuale assai ascoltato da Bertinotti, lo dichiara e lo studia da tempo. In due parole: democrazia malata. Perché come altro la puoi chiamare «una democrazia che a Genova tortura i giovani e non succede nulla», e come altro la puoi chiamare se «scatta l´assalto ai rom, fiamme e spranghe, e nessun politico dice una parola di condanna?». Appunto, democrazia malata. O magari, se si preferisce, «curvatura oligarchica» della rappresentanza come la definisce in un capitolo del suo ultimo libro, dedicato proprio ad una sorta di cupio dissolvi della democrazia nell´ultimo ventennio. Perché, e lo dice da studioso, non è mica una critica dell´ultima ora, scattata adesso solo perché la sinistra arcobaleno è rimasta fuori dalla porta del Parlamento. «Lo scollamento fra politica e paese reale va avanti da tempo, in tutto il mondo. Certo, l´Italia è particolarmente sgangherata, paese di surreali giochi di specchi. Berlusconi che fa il mimo di Veltroni attraverso la caricatura che ne è fatto un comico tv».
E siamo messi così male in questo teatrino della politica, tutta forma e niente sostanza di partecipazione, che per Revelli ormai «può risolvere di più il volontario che la militanza politica». Se non siamo alla provocazione di Bifo, fuori la sinistra dalle Camere e dintorni, poco ci manca. Anche perchè, e qui torniamo al ragionamento di Valentino Parlato, si stava meglio quando si stava peggio in quanto «c´erano i partiti, la Dc con la sua organizzazione, che certo non è la plastica di Forza Italia. C´era il sindacato. In una parola, c´erano i conflitti. Questo produceva democrazia. Tutto sparito oggi. Vedi come viaggia la controriforma del contratto nazionale di lavoro». Il sindacato, allora. Gianni Rinaldini, il leader della Fiom di questi tempi impegnato nell´ennesimo braccio di ferro con Epifani, il capo dei metalmeccanici che qualcuno vedrebbe bene domani a capo di una rinata sinistra. Ecco, come fare per riprendere il largo, tutto sul sociale e addio per sempre alla politica e alle istituzioni svuotate? Calma, distinguiamo. «La democrazia parlamentare è indebolita, così come lo stato-nazione, non c´è dubbio. Colpita e bypassata da grandi organismi finanziari, dalla Banca mondiale al Fondo monetario, privi di fatto di controllo». Ma attenzione a trarne conclusioni sbagliate, per la serie appunto restare fuori dal Parlamento. «Sarebbe un grave errore per la sinistra. Non è affatto irrilevante, per modificare le situazioni, una presenza negli organismi elettivi. Chi sostiene il contrario fa solo un´operazione consolatoria». Ovvero? «E´ come dire: siccome siamo stati sconfitti, allora teorizziamo l´assenza e il vuoto. Così non hai nemmeno bisogno di interrogarti sulle ragioni della batosta».

l'Unità 19.5.08
Niscemi, necessario un lavoro di rieducazione
di Luigi Cancrini


I ragazzi di Niscemi che hanno confessato di aver ucciso e gettato in un pozzo la loro compagna di 14 anni non sono troppo giovani per aver compiuto da soli un gesto così atroce? È possibile che siano arrivati a tanto? La loro è una patologia? La psichiatria ha una risposta per un caso come il loro se le cose sono andate così? Che cosa proporresti di fare, in un caso analogo?
Franco S.

Possibile sì perché è accaduto: anche se è difficile ammetterlo. Che la condotta di questi tre ragazzi sia stata patologica, ugualmente, mi sembra fuori di dubbio. Sul che fare con loro, sulle origini e sul possibile decorso di una patologia come questa oggi, le ricerche fatte nel corso di questi ultimi trent’anni propongono la possibilità, invece, di dire qualcosa in più di quello che si dice nei "normali" talk show televisivi. Su tre punti fondamentali. Il primo di questi punti, a lungo controverso, riguarda l’origine non genetica dei comportamenti legati all’antisocialità e, più in generale, ai disturbi di personalità. Siamo lontani, oggi, dalle ipotesi di Lombroso che collegava all’eredità e alle caratteristiche somatiche dell’individuo la sua tendenza a commettere dei delitti. C’è una letteratura ampia e concorde (consultare il bellissimo libro a cura di J.F.Clarkin e M.F.Lenzenweger "I Disturbi di Personalità", Cortina Editore) a dimostrare che quelle legate all’eredità sono alcune caratteristiche normali del temperamento (quelle che ci fanno normalmente diversi l’uno dall’altro contribuendo, come i lineamenti del volto, a darci una fisionomia psicologica particolare), non gli aspetti patologici (come in questo caso) del carattere e della personalità. Le origini di questi aspetti patologici vanno ricercate, infatti, nella storia personale dell’individuo. È nei contesti interpersonali familiari e sociali in cui il bambino viene cresciuto ed in cui l’adolescente delinea una sua autonomia ed identità che si definiscono, infatti, l’orientamento, la forza e la flessibilità di quello che sarà poi il senso morale dell’adulto. Sono le esperienze vissute nel corso di una infanzia negata o di una adolescenza sbagliata quelle su cui si struttura quel tipo di segnaletica interna cui ci riferiamo tutti parlando di coscienza: come ben indicato già negli anni 30 e 40 dai primi allievi di Freud (dalla figlia Anna, in particolare, e da August Aichorn) e come dimostrato anche sperimentalmente, oggi, da studi come quelli di Otto Kernberg, di Lorna Smith Bejiamin e di tanti altri che si sono occupati di questo problema. Ma come confermato quotidianamente, soprattutto, dalle esperienze di chi si confronta da una parte con i bambini abusati, maltrattati o gravemente trascurati e, dall’altra, con le persone che soffrono di disturbi gravi di personalità (e oggi, in particolare, di alcolisti, tossicodipendenti e autori di reati contro la persona): proponendo (io lo faccio di continuo insegnando ai più giovani e scrivendo: occupandomi ad esempio di Oceano Borderline, Cortina Editore) che il modo migliore di occuparsi del bambino che soffre è quello di immaginare l’adulto che ne verrebbe fuori se non si intervenisse terapeuticamente e che il modo migliore di occuparsi del giovane o dell’adulto che propone questo tipo di comportamenti patologici è quello di immaginare il bambino spaventato e infelice che si nasconde dietro di loro. Il secondo di questi punti, altrettanto e forse più importante, è quello che riguarda la reversibilità di queste condizioni. Una reversibilità nota già da tempo per quello che riguarda gli adolescenti per cui i manuali diagnostici sconsigliano di porre diagnosi definitive ben sapendo la facilità con cui, in una età compresa più o meno fra i 12 ed i 20 anni, si esce e si entra dalla patologia in rapporto al mutare dei contesti e delle esperienze vissute. Una reversibilità scientificamente ben dimostrata (lo studio longitudinale di Toronto in Canada su 640 ragazzi con problemi seguiti dai 13 ai 18 anni) che rende un po’ ridicola e comunque desueta la convinzione di genitori, educatori, uomini di legge e (purtroppo) psichiatri convinti dell’origine congenita della "cattiveria" e della "devianza" abituati a vedere, nelle condotte patologiche di un ragazzo o di una ragazza, come la prova evidente di una sua immutabile patologia: come accade, ancora, ai figli di tante famiglie "normali" ma come accade oggi in modo drammatico nel caso delle adozioni che vanno male. Ma una reversibilità dimostrata, oggi, anche a proposito degli adulti dove le ricerche longitudinali (quelle, costose e difficili, che seguono per anni il decorso di un certo disturbo) propongono l’idea per cui i disturbi di personalità, gravi al punto da aver richiesto dei ricoveri psichiatrici, scompaiono in una percentuale di casi vicina al 50% dopo 4 anni ed in una percentuale di casi superiore al 70% se li si valuta a distanza di sei anni. Aprendo prospettive straordinarie alla possibilità di utilizzare degli interventi terapeutici efficaci, soprattutto se di livello psicoterapeutico, in situazioni di devianza carceraria o psichiatrica considerata da molti "esperti" (e da molto "senso comune") come senza speranza. Il terzo di questi punti, particolarmente importante qui, nel caso dei tre ragazzi di Niscemi, è quello legato alla gravità del reato che hanno commesso. L’equivoco da dissipare subito è quello per cui le finestre aperte da una riflessione psicoterapeutica sulle esperienze traumatiche, lontane o vicine, di chi ha commesso un reato, sono l’espressione di una tendenza alla giustificazione retrospettiva di tale reato. Tutto al contrario, chi si occupa di psicoterapia di casi come questi deve partire sempre dall’idea per cui i meccanismi difensivi basati sulla negazione e sulla autogiustificazione ("non sono stato io", "non volevo", "la colpa è di chi mi ha provocato o di chi non mi ha insegnato cose giuste") sono ostacoli fra i più importanti sulla strada del cambiamento. Mettere a fuoco nella propria mente e nel proprio cuore l’altro e la gravità del danno che gli si è procurato è doloroso ma fondamentale nel processo di elaborazione del lutto che l’autore di un reato grave è, che se ne renda conto o no, deve vivere fino in fondo se è arrivato a colpire o ad uccide: un lutto legato alla perdita di una immagine non più recuperabile del Sé. In un caso così, quello che si dovrà fare (e si può fare: il nostro sistema penale minorile funziona spesso ad un buon livello) è un lavoro di rieducazione portato avanti da persone con competenze psicoterapeutiche sviluppato all’interno di luoghi adatti (il carcere minorile prima e la Comunità dopo): coniugando la pena collegata alla perdita temporanea della libertà ad un aiuto centrato sulla riattivazione delle parti sane di questi poveri ragazzi. Sapendo che il delitto che hanno commesso li segnerà per sempre ma sapendo anche che questo non impedirà loro di ritrovare sé stessi ed il loro progetto di vita.

Corriere della Sera 19.5.08
La scelta della regista. L'ex consigliere Rai: ho sempre votato a sinistra però il premier è l'unico tentativo che ci resta. Dobbiamo superare i sospetti reciproci
La Cavani: sto con Celentano, il Cavaliere va sostenuto
«Basta col sarcasmo di Moretti. Come per l'alluvione di Firenze all'emergenza si va tutti insieme, senza distintivi»
di V. Pic.


ROMA — «Quando ci fu l'alluvione di Firenze partirono tutti. Senza distintivi. Di fronte all'emergenza si va tutti insieme». Anche Liliana Cavani, un'icona della cinematografia di impegno sociale, autrice di capolavori come Portiere di notte e da sempre vicina alla sinistra, sceglie la fiducia. E tra Celentano, che ieri sul Corriere della Sera invitava a credere nel cambiamento di Silvio Berlusconi, e Nanni Moretti che da Cannes diceva «per me per 15 anni Berlusconi è stato pessimo. Mi sembra difficile che cambi qualcosa», non ha dubbi: «Io sto con Celentano».
Perché? «Stimo Moretti, ma non è il momento dei rimproveri, né del sarcasmo. È il tempo dell'incoraggiamento », dice la regista, impegnata nella ripresa della sua Traviata
alla Scala. «Oltretutto — aggiunge — Moretti dovrebbe ricordarsi che se fa quegli apprezzamenti negativi da Cannes fa notizia e i francesi sono ben contenti». Tacere cambierebbe qualcosa? La regista non si pone il problema. «L'intesa è indispensabile — dice con forza —. Siamo di fronte a emergenze terribili, come la legalità, la spazzatura a Napoli, la mafia. Quindi piuttosto che ricorrere all'ironia è meglio usare parole di sostegno per chi ci prova».
Quello a cui Moretti non crede è che Berlusconi sia la persona adatta a farlo giacché, fra l'altro, come ha sottolineato ieri a Cannes, «ha tre televisioni e forse anche di più, viste certe intercettazioni con i dirigenti Rai, cosa democraticamente scandalosa ». Ma per l'ex consigliere di amministrazione Rai serve realismo: «È l'unico tentativo che ci rimane. La criminalità, l'immondizia, non sono problemi né di destra né di sinistra, ma di tutti. Con la volontà di tutti potremmo riuscire a sconfiggerli. Come fu per l'alluvione. E come ha fatto la Germania. Forse sarò anche ingenua. Ma mi viene in mente De Gasperi che riuscì a far collaborare tutti per superare le difficoltà del Paese. Mi piacerebbe un politico super partes che riuscisse a risolvere le emergenze».
Berlusconi lo vede così? «No. Ma non si può perdere il tempo solo a litigare. Bisogna superare i sospetti. Loro li devono superare nei nostri confronti. E noi verso di loro». Per la regista di Al di là del bene e del male ede La pelle sperare in Berlusconi in questo momento è un «dovere».
Un'idea maturata dopo le elezioni. «Non sono mai stata un'ideologa della sinistra, però l'ho sempre votata. Ma lui ha vinto le elezioni e ha avuto il mandato istituzionale per fare. E poi nella vita si può anche cambiare per amor patrio. In un Paese a istituzioni democratiche si tenta e si ritenta. Solo le dittature non cambiano».
L'impegno della speranza Liliana Cavani lo vuole tenere anche di fronte a cose che spaventano molti della sua area culturale. Primo fra tutti il giro di vite sulla sicurezza. «Non mi piacciono le ronde. Detesto sentirne parlare. Per me la sicurezza deve essere affidata all'autorità pubblica e non privata. Però è vero che occorre ricostruire una fiducia dei cittadini che si sentono insicuri. Insomma l'importante è la buona volontà».

Repubblica 19.5.08
A Torino Canaletto e Bellotto. I grandi maestri del vedutismo


A Torino, cento opere a Palazzo Bricherasio per i due pittori che furono il punto più alto della Venezia del ´700

TORINO. Quando si calano sul panno verde due assi come Antonio Canaletto e Bernardo Bellotto chi si nutre della grande tradizione del vedutismo europeo e del Grand Tour non può che gioire: anche se chi ha di questi vizi innocenti può aver nella testa un ideal-tipo di mostra, che magari non coincide del tutto col banchetto offerto, deve deporre le riserve e godersi lo spettacolo. Ed è questo che a me è capitato in Palazzo Bricherasio, a Torino, dove si tiene "Canaletto e Bellotto. L´arte della veduta" (fino al 15 giugno) con circa cento pezzi tra dipinti e disegni.
I due veneziani sono pittori sommi che hanno rappresentato quanto di più alto ha prodotto la civiltà artistica della Serenissima nel Settecento, ebbero destini incrociati ma assai diversi. Canaletto fu il più celebre vedutista del suo tempo e trovò in Bernardo un assai degno erede e per alcuni anni il giovane attinse avidamente alla «scola» dello zio: suggendo miele dalla sua tavolozza, come solo un artista di talento sa fare. Spostando, in direzione diversa, millimetro dopo millimetro, il suo estro: sicché per anni e decenni la critica s´è industriata, e continuerà a farlo, nell´attribuire all´uno o all´altro questo disegno o questa tela negli anni d´esordio di Bernardo. Quando si lavora gomito a gomito è inevitabile che il più anziano sia maestro al secondo: il nodo di incontrovertibile evidenza si stringe a Roma dove Canaletto andò (forse) una sola volta e Bellotto giunse ventenne nell´inverno del 1742 su «consiglio del Zio», come scrisse Pietro Guarienti nell´Abecedario già nel 1753. Giunge nello stesso anno il giovane Piranesi. Passa Bernardo per Firenze dove dipinge vedute di mestiere, ma è già quella di Lucca una splendida tela che si distacca con forza da Canaletto per l´originalità dell´impianto prospettico e della fredda cromia. Ma è a Roma, con il Tempio di Antonio e Faustina e il Foro romano con i templi di Castore e Polluce, Bellotto è già Bellotto: che i disegni romani redatti con la camera oscura a mo´ dello zio siano poi serviti a questi per alcune tele di soggetto analogo è assai probabile. Il confronto tra i due disegni di Capriccio con motivi classici, medievali e palladiani che la curatrice della mostra Bozena A. Kowalcyk, assegna entrambi al Bellotto, inducono a qualche perplessità: ché il primo è secco come uno staffile, il secondo è pieno di chiaroscuri, sfumato, morbido e canalettiano; condivido invece l´attribuzione a Bernardo del Capriccio con tomba medievale a petto del medesimo soggetto del Canaletto. Non intendo tediare il lettore su questioni di tal tipo, ma per redimere molte inevitabili contese a me pare contributo rilevante quello di Carl Villis in catalogo (Silvana editoriale) che approfondisce i materiali, le tecniche e i procedimenti esecutivi di Bellotto, seguendo una metodica che non è stilistica e morelliana, da conoscitore dall´occhio fino, ma fonda su ragioni compositive più profonde che a me stanno molto a cuore da quando m´occupo di vedutismo. Il confronto tra Bellotto veneziano (Il Canal Grande con il Palazzo Dolfin Manin, 1739) e l´equivalente tela dello zio mi pare molto convincente: Bernardo abbassa l´orizzonte con gli edifici e l´acqua della laguna, in modo da assegnare al cielo uno spazio maggiore, conferendo all´insieme una tensione che è pure esaltata dalla contrazione del Ponte di Rialto e dall´ansioso affollarsi di barche in primo piano. Ma è anche la diversa cromia dei grigo-verdi di Bernardo che si distaccano dai toni rosa e perlacei di Antonio Canal. Mi paiono invece datati gli schemini geometrici proposti da Dorota Folga che seguono quelli di Corboz, ma ignorano il metodo di lettura al computer, implacabile come è lo strumento, che Daniela Stroffolino ha proposto da anni ne La città misurata (Salerno editrice), dando un svolta a questo genere di indagini.
La fortuna di Canaletto si impennò quando il Console Smith, collezionista e mecenate, gli commissionò le dodici vedute del Canal Grande alcune delle quali sono in mostra e che furono vendute nel 1762 alla Corona d´Inghilterra, facendo del veneziano il privilegiato pittore dei Milord e dei Sir che sulla rotta del Grand Tour avevano eletto Venezia a loro capitale ideale. Infatti così come non si contano in Inghilterra le tele di Canaletto, talune tra le più splendide che abbia dipinto nel corso dei lunghi soggiorni londinesi, allo stesso modo l´aristocrazia e la committenza francese lo ignorò o quasi, privilegiando i Guardi che con la loro pennellata veloce ed estrosa, con cieli gonfi di cirri e acque piene di svolazzi e virgole, erano assai più congeniali al rococò di casa, delle tele canalettiane. Esse come corde di violino vibravano su Venezia o su Londra con un´incomparabile armonia alla Vivaldi. Così come l´eco dell´organo di Bach s´ode in tele di Bellotto che si videro al Correr.
Una meraviglia è il Ponte di Walton (1754) di Canal: la struttura in legno delle tre arcate del ponte brillano nel loro biancore alla luce di un sole freddo e oscurato dalle nuvole, in primo piano le lutulente acque verdi del Tamigi solcate da una lunga barca nera, sulla riva si attestano signori che conversano tra loro e un cane corre verso qualcuno. Più statica la veduta col castello di Warwich, con quel grande prato in primo piano ornato di dame e milord e cani come grande vassoio con la più ricca aristocrazia d´Europa.
Bellotto ha altro destino, il destino di un emigrante che si guadagna il pane nelle maggiori corti della Mitteleuropa. Prima di lasciare l´Italia ci lascia memorabili vedute a cui dedicammo una mostra a Verona: con Torino (Ponte sul Po), Milano (Il palazzo dei Giuriconsulti, il Castello Sforzesco), i dintorni come Vaprio d´Adda e Canonica, e un capolavoro come la veduta di Gazzada che tanto innamorò di sé Gadda da volerla in copertina della Cognizione del dolore. Bellotto mise a bottega il figlio che non ebbe il suo talento, ma Bernardo di talento ne ha da vendere e conquistò la corte di Vienna, di Monaco, di Varsavia e di Dresda.
In mostra si vedono due splendidi panorami della città sull´Elba (1751) volti a esaltare i mirabilia architettonici che Federico Augusto re di Polonia e elettore di Sassonia aveva promosso. Morì povero a Varsavia nel 1780; Canaletto era morto nella sua ricca casa in Corte Perina nel 1769, lo stesso anno in cui nasceva Jacob Philipp Hackert, quasi un segno del destino: ché il pennello del veneziano poteva essere preso, come un testimone, nelle mani del più degno erede della veduta nella seconda metà del secolo dei lumi.

Repubblica 19.5.08
Roma. Correggio e l'antico
Galleria Borghese. Dal 22 maggio


Da vedere la prima antologica dedicata all'opera di Antonio Allegri, detto il Correggio, appartenente alla cosiddetta triade rinascimentale, con Raffaello e Michelangelo. La rassegna, curata da Anna Coliva, raccoglie sessanta capolavori, dipinti e disegni, che permettono di rivedere la sua opera, alla luce di nuovi, recenti studi, con l'obiettivo di sottolineare la sua interpretazione delle "forme" romane, appunto a partire dall'antico. Tra i lavori esposti, oltre alla celebre Danae della Galleria Borghese, da segnalare Giove ed Io e Il ratto di Ganimede del Kunsthistorische Museum di Vienna. Le opere a soggetto religioso, come la Madonna del latte di Budapest, documentano invece la maestria di Correggio, come "pittore degli affetti", della grazia, del colore.

Repubblica 19.5.08
Firenze. I Medici e le scienze. Strumenti e macchine nelle collezioni granducali
Palazzo Pitti. Fino all'11 gennaio


La mostra sottolinea attraverso un importante corpus di oggetti, belli e preziosi come opere d'arte, la sensibilità intellettuale dei Medici che non fu rivolta soltanto alla pittura e alla scultura, ma anche alle scienze fisiche e matematiche. Il granducato promosse infatti la conoscenza scientifica e il controllo tecnologico, più di qualunque altro governo europeo, in particolare nel periodo compreso tra Cosimo I e Ferdinando II. Il primo, salito al trono nel 1537 a soli diciotto anni, creò un moderno stato territoriale e patrimoniale, affrancandosi dalla tutela imperiale. Per raggiungere il suo scopo seppe circondarsi di uomini nuovi, provvisti delle capacità tecniche, scientifiche, amministrative e strategiche, adeguate alle nuove esigenze. Il secondo fu invece protettore di Galileo e fondò con il fratello la prima società europea a carattere scientifico, l'Accademia del Cimento.

Repubblica 16.5.08
Il diritto all'aborto e il dovere di praticarlo
di Corrado Augias


Gentile Dott. Augias, mi ha molto colpito la lettera del Dott. Guaragna ginecologo ospedaliero stanco di praticare aborti e, quindi, divenuto obiettore. Non discuto le sue ragioni che reputo sacrosante. Il mio disappunto, nella diatriba obiezione sì obiezione no, è dato dalla mancanza di coerenza e senso di responsabilità dovere da parte dei ginecologi obiettori. Mi spiego meglio: la maggioranza dei ginecologi attualmente esercitanti in Italia, si è specializzata dopo l'entrata in vigore della legge 194; ora, al momento della scelta del «mestiere, presumo avessero ben chiara la differenza tra un ginecologo ed un dentista e quali le responsabilità di uno e quali dell'altro. Se so (o credo...) di non poter uccidere, non intraprendo certo la carriera militare. Perché allora, mi chiedo, si intraprende una carriera professionale che inevitabilmente mi porterà a dover svolgere dei compiti dolorosi? L'aborto è previsto e regolamentato dalla legge italiana, il ginecologo è colui che la legge prevede debba attuare tale pratica, il ginecologo pratica l'aborto. O cambia mestiere.
Cristiano Puddu pudducristiano@tiscali.it

Sono meno severo del signor Puddu. Capisco e ammetto che un medico possa cominciare quel mestiere per poi rendersi conto di non sopportare più un certo tipo di interventi. Tra questi l'aborto, che va certo fatto dai medici per evitare gli scempi compiuti delle mammane, ma che è un intervento cruento e altamente ripetitivo. Stiamo parlando sia chiaro di persone in buona fede, non dei vigliacchi che si nascondono dietro l'obiezione di coscienza per sottrarsi a un intervento che non dà sufficienti gratificazioni professionali e non favorisce certo la carriera.
Del resto l'obiezione di coscienza, proprio perché inquinata dall'ideologia, si presta a pericolose estensioni analogiche. Il signor Claudio Giubilo (claudio.giubbilo@libero.it) per esempio si chiede come può accadere che «in una struttura pubblica, pubblica e non privata, dei medici adducendo problemi di etica, possano non compiere interventi legittimi su persone che soffrendo, come nel caso dell'aborto si affidano alle leggi dello stato». Pasquale Iacopino (pa. iacopino@tiscali. it) si chiede come mai il papa tedesco torni ossessivamente su questo tema ignorato dalla chiesa «quando illegalmente, se ne abusava sotto gli occhi di tutti». Roberto Martina (robertomartina@yahoo. it) scrive: «Il dovere di un medico è corrispondere alle richieste dei pazienti nel loro stesso interesse e nel rispetto delle leggi vigenti». Chi non se la sente smetta «la professione di ginecologo ospedaliero nelle strutture pubbliche, oppure faccia il cardiologo».
Giovanna Bartolozzi infine mi ha segnalato un sito (www. saveriotommasi. it/video/documentativi/aborto-clandestino/) dove si racconta l'orrore di un aborto clandestino. E' la situazione che si verrebbe a ricreare se la civilissima legge 194 venisse manipolata o abolita. Neanche la religiosità più fanatica può costarci una simile barbarie.


il Riformista 19.5.08
Insicurezza. Siamo diventati moderni troppo in fretta
La violenza non piove certo dalle nuvole
di Franco Ferrarotti



"Con la schiena dritta anche nei momenti di bufera", con questa frase inizia il libro/dialogo "Ti racconto la mia storia" (Ed. Rizzoli) tra Tullia Zevi e sua nipote Nathalia. "E' una frase che le ripetevo quando era bambina..", mi dice sorridendo quando la incontro nel suo appartamento, nel cuore del ghetto ebraico di Roma. "E' un antico detto ebraico, riuscire a farlo è indispensabile", anche perché la bufera sembra non passare mai. Stiamo attraversando un momento storico, sociale ed economico molto delicato, sia a livello mondiale che in specifico nel nostro Paese. Si percepisce una profonda inquietudine. "C'è una energia che attende di essere convogliata. Ed è per questo che è doveroso vigilare sullo svolgersi degli eventi, perché la violenza è una brutta bestia che non sai mai che direzione prenda". Di segnali preoccupanti, d'altronde, ne abbiamo tanti. Ogni giorno atti di bullismo e violenza tra adolescenti, intolleranza razziale, aggressioni in nome di vecchie ideologie. Lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione dell'inaugurazione della 21° Fiera Internazionale del Libro di Torino, che si è conclusa da poco, ha evidenziato il pericolo dell'apparire "di segni di reviviscenza di un ideologismo e simbolismo neonazisti." Le chiedo come sia possibile che ancora oggi si possa parlare di antisemitismo, anche di sinistra. "E' un fenomeno tipico delle società contemporanee il bisogno di trovare un colpevole, un obiettivo su cui scaricare la violenza. E le minoranze, nella loro stessa natura facilmente identificabile, ne pagano il prezzo". Che siano ebrei, arabi, neri o rom. "E' responsabilità di tutti gestire l'assorbimento delle minoranze senza negarne la natura e l'essenza, perché una società sviluppa dinamiche democratiche nel momento in cui esiste questo gioco tra diversità che può diventare fecondo e creativo in tempo di pace e feroce e crudele nei momenti di disagio."
Tullia Zevi è stata la prima donna presidente di una comunità ebraica nazionale, l'Ucei, che ha guidato dal 1983 al 1998. Da sempre il suo impegno è rivolto soprattutto ai giovani, affinché non dimentichino le vittime del nazifascismo. Soprattutto oggi che si parla insistentemente di revisionismo storico. "Non si può smettere di chiedersi come nella civilissima Europa sia potuto accadere lo sterminio di 6 milioni di ebrei. Una cosa epocale. Per questo è estremamente importante che il sistema educativo insista sul valore e sull'importanza della coesistenza delle diversità e sulla gestione delle loro ricchezze. Si tratta del DNA della democrazia." La ringrazio per l'incontro, la saluto e mi accingo ad andare via. Lei mi riserva lo stesso sorriso sincero e caldo con cui mi ha accolta. L'inquietudine si attenua. Grazie.