mercoledì 21 maggio 2008

l’Unità 21.5.08
La faccia feroce della destra: in manette i migranti irregolari
Il reato di clandestinità arriverà col disegno di legge
ma in forma «mascherata» compare già nel decreto Maroni
di Maristella Iervasi


FACCIA FEROCE L’equilibrio tra sicurezza e diritti invocato da tutti - opposizione ombra, agenzia dei vescovi, Caritas e tutto il mondo che ruota attorno ai migranti - è andato a farsi benedire. Il reato d’immigrazione clandestina è nel pacchetto sicurezza Ma-
roni. La misura punitiva contro i migranti e le badanti senza permesso di soggiorno non avrà carattere d’urgenza ma Lega e An - come promesso - hanno preferito la faccia feroce all’equilibrio. Il nuovo reato è stato inserito in tutta fretta in un disegno di legge (art.7 bis, modifica al testo unico sull’immigrazione) e prevede una pena da sei mesi a quattro anni di carcere. Ma un’anticipazione «mascherata» di tale reato figura già nel decreto in via d’urgenza (che dev’essere convertito in legge entro 60 giorni) che oggi il Consiglio dei ministri in trasferta approverà. Si legge all’art. 4 del decreto sulla sicurezza, comma 1 circostanza aggravante: quando uno straniero clandestino commette uno scippo, un furto o una rapina, «la pena prevista è aumentata di un terzo e le attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti».
Marco Minniti, ministro ombra dell’Interno che proprio ieri ha incontrato il suo omologo al Viminale, ribadisce la contrarietà del Pd manifestata da Walter Veltroni e sottolinea che il reato di immigrazione clandestina «è una norma-manifesto che può rivelarsi un vero e proprio boomerang» per le politiche di sicurezza. «Il rischio - sottolinea - è quello di collassare la giustizia e le carceri italiane, aumentando l’insicurezza dei cittadini». Il nuovo reato mette infatti sullo stesso piano coloro che hanno una casa e un lavoro e non sono stati regolarizzati (circa 700mila persone) per il collo di bottiglia della Bossi-Fini con il clandestino che delinque. Ieri sera, nel corso della trasmissione Ballarò, il segretario del Pd Walter Veltroni ribadisce il no dei democratici alla misura prevista nel ddl del governo. «Così - ha detto Veltroni - diventerebbero tutti perseguibili con le conseguenze sui tempi della giustizia e sulle carceri che già scoppiano». Veltroni ha poi precisato però che, se all’interno del pacchetto «ci sarà una parte delle proposte che erano nel pacchetto Amato e che sono assolutamente condivisibili», il Pd le appoggerà.
Il sottosegretario alla famiglia Carlo Giovanardi sembra già temere gli strali d’oltreTevere: «Lavorerò in Parlamento per modificare il reato d’immigrazione clandestina. Non è possibile che colf e badanti se fermate per un controllo possano subire una condanna per il solo fatto di essere irregolari». Ma Maroni difende con i denti la sua scelta: «È previsto in molti paesi Ue, serve a redere più facili le espulsioni». Il pacchetto Maroni sulla sicurezza è composto di un decreto legge in 8 articoli che dà anche più poteri ai sindaci da subito, un disegno di legge e 3 decreti legislativi. E in uno di quest’ultimi è prevista anche una forte «stretta» sull’asilo. In pratica si torna ai tempi bui della Bossi-Fini: il richiedente asilo che ha ottenuto il diniego dalla commissione territoriale per lo status di rifugiato può presentare ricorso ma dal suo paese. Vale dire: lo straniero che proviene da un paese un guerra o fugge da persecuzioni politiche, viene comunque «rispedito» da dove è scappato: anche se lì la sua vita è palesamente in pericolo. Il tutto, in barba alla direttiva europea recepita nel marzo scorso dall’Italia: il dlgs prevede infatti l’abrogazione dell’effetto sospensivo del ricorso che blocca il decreto d’espulsione. E non finisce qui: il prefetto - cosa mai accaduta prima - potrà decidere la limitazione della libertà di movimento del richiedente asilo.
Ma torniamo al reato di clandestinità e al pacchetto sicurezza. Proprio alla vigilia del varo delle misure, l’agenzia dei vescovi ha chiesto di «non buttarla per l’ennesima volta in politica» e ha invitato l’Europa a non farsi «prendere dalla nevrosi» nell’ora delle decisioni. Mentre il direttore della Caritas don Vittorio Nozza ha giudicato «sproporzionata» la trasformazione dell’immigrazione in reato, «illegittime» le restrizioni per i ricongiungimenti familiari e ha definito «simili a caceri» i Cpt, visto che il tempo di permanenza verrà esteso a 18 mesi. Tutte norme che fanno il paio con lo stop agli sbarchi, la condanna minima per l’espulsione a 2 anni, la confisca degli affitti in nero e la stretta sui matrimoni misti.

l’Unità 21.5.08
L’Ue all’Italia: no a espulsioni di massa
Rom, dibattito a Strasburgo dopo le polemiche: i nomadi non sono delinquenti, punire violenze razziste


È TOCCATO al praghese Vladimir Spidla, già primo ministro della Repubblica ceca, ricordare con civile fermezza, a nome della Commissione europea, alcuni punti fermi che nei giorni scorsi per il governo italiano si erano fatti ballerini. Primo: «La lotta contro la criminalità deve farsi nel rispetto dello Stato di diritto». Secondo: «I governi devono fare il possibile per migliorare l’inclusione dei rom, per dotarli di infrastrutture e istruzione, che sono di competenza degli Stati membri». Terzo: «Il principio della libera circolazione è consacrato nella legislazione dell’Unione europea e anche dalla Corte di Giustizia. I romeni hanno la stessa libertà di movimento degli altri cittadini Ue». Quarto: «Nei casi di espulsione bisogna tener conto del comportamento personale dell’individuo, se costituisca una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave. Sono questioni che vanno esaminate caso per caso». Quinto: «Gli Stati membri hanno il dovere di indagare sugli attacchi razzisti e xenofobi e di punire coloro che li incitano oppure li conducono». Ha aggiunto anche che i rom «non nascono delinquenti», e che se vivono ai margini della società è l’Europa intera che perde una risorsa. Parole e regole di civiltà, come quelle sul carattere personale della pena, che escludono categoricamente ogni provvedimento di tipo collettivo, assimilato più a deportazioni di antica memoria che a soluzioni in chiave di «sicurezza».
Parole, quelle del commissario Spidla, che hanno aperto un dibattito teso e serrato al parlamento di Strasburgo. All’ordine del giorno, su iniziativa del gruppo socialista, figurava ieri pomeriggio «la situazione dei rom in Italia», dopo gli incendi e i tentativi di pogrom a Ponticelli e dintorni. Dibattito che, con l’accordo di tutti, si è concluso senza voto, quindi senza risoluzioni. Si trattava piuttosto di ripescare il problema dal fondo melmoso dell’Unione europea e di portarlo in superfice, alla vista e all’udito di tutti. Martin Schulz, il presidente del gruppo socialista che Berlusconi trattò da «kapò» in quella stessa aula, ha ben pesato le parole: «Non vogliamo accusare l’Italia, ma chiederci assieme alle autorità italiane come risolvere il problema dei rom». Nessuna «vendetta» da parte sua, come aveva invece preannunciato la stampa italiana più vicina al governo. In mattinata Schulz aveva parlato «cordialmente» con Franco Frattini, ministro degli Esteri, sullo stesso tono cooperativo: «Perché il problema non è solo italiano», e perché «i rom non possono diventare il bersaglio di una destra populista». Destra che in aula, nel corso della discussione, si è confermata tale.
Ad illustrarsi, più di altri, è stato il deputato Luca Romagnoli. Ha la soluzione pronta: «Controllare il Dna di tutti i bambini rom per accertarne la genia, e avviare la creazione di uno Stato per i rom, possibilmente nell’Europa orientale». Gli ha risposto Claudio Fava, ricordando come un certo Goebbels avesse avanzato la stessa idea per zingari ed ebrei, ed avendone verificato la difficoltà di messa in opera, avesse poi ripiegato sui forni crematori. Si è messo in luce, per i colori nazionali, anche Roberto Fiore, che ha definito «insormontabile» il problema dei rom, a meno di non sospendere il trattato di Schengen per almeno sei mesi, di istituire il reato di immigrazione clandestina e di negoziare con i paesi balcanici, comunitari o meno che siano, il rapido rimpatrio dei rom. Non poteva mancare, in tale sinfonia, l’acuto di Mario Borghezio: i rom sono «delinquenti che emigrano, non emigranti che delinquono», visto che la famiglia rom realizza perfettamente «il reato associativo a delinquere». All’inventore delle ronde padane, con annesso incendio di giacigli d’immigrati, ha replicato Gianni Pittella indicando tre regole ineludibili: «Accoglienza, integrazione, sicurezza». Cose da realizzarsi «per mano dello Stato e non di milizie e di ronde fai da te».
Sia il commissario Spidla che Martin Schulz hanno evocato i fondi sociali europei per aiutare tanto i rom quanto chi abita nelle stesse, disgraziate zone come la periferia napoletana. Ma il nocciolo del problema, ieri, non erano gli aiuti comunitari e il modo in cui vengono spesi. Era piuttosto un ammonimento politico, che la Commissione europea non ha mancato di impartire all’Italia.
g.m.

l’Unità 21.5.08
Roma, al Verano distrutta l’urna dei deportati dei lager
Conteneva le ceneri raccolte nel campo di Mauthausen
di Giuseppe Vittori


L’ARIA CHE TIRA è anche un piccolo monumento in memoria dei deportati che viene devastato in segno di sfregio come mai era accaduto prima. A Roma, nel cimitero del Verano, c’è un muro della memoria con segnati i nomi di chi non tornò più, di tutti
i deportati dalla capitale nei lager nazisti. Incastrata nel muro c’è una piccola urna che nel Memoriale dei deportati custodiva le ceneri raccolte nel Krematorium di Mauthausen. Quell’urna è stata distrutta, sfregiata. Non è chiaro quando è avvenuta la profanazione, probabilmente la notte scorsa, ma il segnale è chiaro. «È un’offesa terribile - dice Emanuele Fiano, deputato Pd - alla memoria di decine di migliaia di vite di italiani, stroncate nei lager nazisti. E per favore, questa volta - ha aggiunto - non si dica che si tratta di atti sconsiderati, compiuti da ragazzotti ignoranti, disadattati, senza guida o riferimenti».
Se ne è accorto Eugenio Iafrate che l’urna era stata divelta e lo ha subito segnalato all’associazione deportati. «Ieri mattina ero in giro con la mia famiglia - ha raccontato nel sito dell’Associazione deportati - a portare un fiore ai nostri morti presso il cimitero del Verano. Arrivati al Muro che ricorda i nomi dei Deportati da Roma, fra cui il fratello di mio nonno, mia madre è rimasta impressionata dalle condizione in cui era ridotta l’urna contenente le ceneri di alcuni deportati. Sul momento io non mi ero accorto di nulla. Poi, sconfortato, ho preso il mio cellulare e ho fotografato il tutto». È da tempo che Iafrate lavora per rintracciare i nomi da aggiungere al monumento e si batte perché quel luogo torni ad essere un simbolo da ricordare nelle celebrazioni. «Ora c’è solo qualche fiore e qualche candela portati dalle famiglie».
L’Associazione ha chiesto immediatamente al sindaco Gianni Alemanno di intervenire. E Alemanno ha risposto. «Abbiamo appreso solo adesso del gravissimo atto di profanazione commesso nel Memoriale dei deportati nei lager nazisti al Cimitero romano del Verano - ha detto - . È un atto che condanniamo nella maniera più dura. Il Comune di Roma è pronto a essere in prima linea per poter fare un gesto riparatorio in tutti i sensi». L’Aned, in un comunicato, si è detta «sdegnata ed offesa, dopo aver denunciato alle competenti Autorità l’accaduto, ritiene doveroso portare a conoscenza dei cittadini e delle loro Istituzioni il volgare atto criminale – perché di ciò di tratta – portato in offesa alla memoria di decine di migliaia di vite di nostri concittadini, stroncate nei lager nazifascismi. Bambini, donne, uomini sacrificati all’odio razzista, all’intolleranza, alla negazione dei principi fondamentali della vita umana stessa».

<span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">l’Unità 21.5.08
Bologna: Via libera ai manganelli per i vigili
di Pierpaolo Velonà


BOLOGNA Via libera dalla giunta Cofferati all’utilizzo di spray urticanti e manganelli per la polizia municipale. Il «sì» dell’esecutivo arriva qualche ora dopo l’approvazione del nuovo regolamento in Consiglio comunale. Una lunga seduta notturna interrotta dall’irruzione dei collettivi studenteschi e dei centri sociali al grido di «Il degrado siete voi». Decisivo il voto compatto dei 21 consiglieri Pd che da soli hanno approvato la nuova strumentazione, vista l’astensione di Sd e di tutto il centro-destra. I «no» sono arrivati da Prc, Verdi e Cantiere dopo un dibattito che per settimane aveva coinvolto anche i sindacati della polizia municipale, che hanno accolto molto tiepidamente la novità. Scettici Cgil, Cisl ed Rdb. Soddisfatto invece Cofferati, che si appoggia ai numeri ottenuti in in Consiglio per rilanciare la vocazione maggioritaria del Pd in vista delle prossime amministratrive (nel 2009). «Abbiamo fatto quello che bisognava fare - ha detto il sindaco -. L’applicazione avverrà attraverso il confronto con le organizzazioni sindacali e con il ministero dell’Interno». Ma è proprio al tavolo con i sindacati che l’entrata in scena di spray e manganelli potrebbe essere rimandata ben oltre i tempi previsti da Cofferati («Dipendesse da me anche la prossima settimana»). Il pericolo, secondo la Cgil, è che il nuovo regolamento si presti a interpretazioni troppo elastiche, che non tutelano l’incolumità dei vigili né tanto meno quella dei cittadini. Nonostante la delibera chiarisca che «spray e manganelli hanno scopi e natura esclusivamente difensiva» e la loro assegnazione potrà avvenire solo dopo «un apposito corso», i timori sono legati a regole d’ingaggio troppo incerte e alla mancanza di tutele assicurative e legali. «Non c’è niente di scritto che stabilisca in quali occasioni questi strumenti potranno essere utilizzati. Chi pagherà l’assicurazione se un agente, magari non volendolo, causerà un danno grave?», si chiede Vanni Albertin, responsabile regionale Cgil della polizia municipale. Secondo il sindacalista i nuovi strumenti possono essere interpretati come una provocazione, e «nelle città dove sono già in uso, come Milano e Torino, non hanno risolto di una virgola l’allarme sicurezzza. L’ordine pubblico non dev’essere una responsabilità della polizia municipale».

l’Unità 21.5.08
Pound, il ’68 in camicia nera
di Bruno Gravagnuolo


Alemanno beat. Ci rallegra che il sindaco Alemanno abbia riscoperto il ’68 e la «beat generation», dinanzi a uno stupito Ferlinghetti ospite poetico al teatro India di Roma. Scoperta tardiva però, a parte certe rivisitazioni «anarchiche» in passato della destra extraparlamentare. E visto che la destra da cui Alemanno viene, plaudiva in Italia alla polizia che bastonava i capelloni. E detestava il pacifismo, Bob Dylan etc. Ma davvero i post-fascisti amano oggi il ’68? In realtà a sentire lo stesso Alemanno qualcosa non quadra. Ad esempio: «Fu il marxismo a uccidere il ’68». No, è pura propaganda domestica. Perché il «marxismo» non fu l’unico ingrediente nel ’68, e nemmeno vi fu un solo marxismo, ma vi furono tante altre culture: situazioniste, freudiane radicali, marcusiane, hippies, umanistiche e libertarie. Certo, c’era un filo di sinistra. E dove fu egemone il «marxismo», lo fu in forma secolarizzata e democratica, come in Italia col Pci. Che contrastò l’estremismo dogmatico marxista. Ma l’equivoco di Alemanno esplode nel richiamo ad Ezra Pound: «Il rifiuto del modello materialista che fu anche di Pound, il poeta che si batté contro l’omologazione consumista...». Eccolo l’imbroglio populista e anarco fascista: Ezra Pound. Grande poeta sì, ma fascistissimo e antisemita, che propugnava, dalla radio fascista e poi di Salò, la lotta all’«ebraismo massonico» e al suo «complotto» finanziario. Sorta di socialismo in camicia nera, gerarchico e rurale, combattentista ed etnico. Come quello di cui parlava a suo tempo Marx: il «socialismo feudale che getta la bisaccia del mendicante» contro il capitalista. In nome dell’aristocrazia (dell’«onore e del sangue» per Ezra Pound). Pound? Ben più che un «lapsus» in Alemanno. È il segno delle sue antiche idee, dei suoi debiti emotivi. Sempre gli stessi. Come il suo ’68 e il suo sogno «beat». Dal colore inconfondibile. Indovinate quale?
Il pogrom di Pansa Che ancora, nei Tre inverni della paura (Rizzoli), rimescola «storia», invettiva, narrativa, slogan, in un unico pastiche a tema. E il tema è: fare giustizia, mostrare che il Pci non era democratico, che l’antifascismo si è retto su bugie, etc. Ma non si rende conto Pansa che questa è una logica stralunata da pogrom, destinata ad alimentare fantasmi e isterie? No, non se ne rende conto.

Corriere della Sera 21.5.08
Gli italiani e lo Stato. Se si invoca lo straniero
di Ernesto Galli Della Loggia


Ha ragione il direttore dell'Unità Antonio Padellaro a intitolare il suo fondo di ieri: «Meno male che c'è l'Europa». Sì, meno male che c'è, ma a una condizione: che noi italiani riusciamo a intendere davvero la lezione che essa da tempo ci impartisce, e che oggi si rinnova a proposito dei rifiuti in Campania e della condizione dei rom. Capire quella lezione vuol dire innanzi tutto non servirsene per regolare i conti con i propri avversari interni, per nascondere le proprie debolezze dietro la forza e l'autorevolezza altrui. Vuol dire rinunciare all'antica, sciagurata abitudine delle classi dirigenti della penisola di invocare l'aiuto dello straniero per avere la meglio sui rivali di casa, così suggellando la minorità propria e di tutto il Paese.
Vuol dire, invece, meditare senza spirito di parte su ciò che l'Europa ci manda a dire. Per esempio sulle parole pronunciate l'altro giorno dall'eurodeputata Viktoria Mohacsi inviata appositamente da Bruxelles, la quale ha trovato i campi rom di Roma e Napoli in «condizioni tremende », ricordando che «l'Italia non ha chiesto neanche i soldi previsti dall'Ue per l'integrazione delle minoranze etniche» e infine accusando il nostro sistema giudiziario di aver «perso le tracce ( sic!) da due anni di 12 bambini rom tolti ai genitori dal Tribunale dei minori perché accusati di accattonaggio». Ebbene, non sarebbe un gioco facile proprio sulla base di queste dichiarazioni (che traggo dalla cronaca della stessa Unità), non sarebbe facile ricordare che fino a prova contraria Roma e Napoli sono state governate negli ultimi 15 anni da giunte di sinistra, le quali hanno preferito evidentemente impiegare le loro risorse in modi diversi che per i rom (forse anche perché i rom non votano)? E non sarebbe altrettanto facile ricordare che evidentemente anche il governo Prodi è colpevole di essersi dimenticato negli ultimi due anni di chiedere i soldi dell'Ue destinati ai rom? O ricordare, a proposito dei 12 bambini scomparsi nel nulla, che in generale è proprio la sinistra che si precipita regolarmente a prendere le difese del nostro vergognoso sistema- apparato giudiziario, opponendosi a qualunque sua radicale riforma?
Sì, sarebbe un gioco facile, ma disdicevole e alla fine inutile. Perché in verità — si tratti dei rifiuti o delle disfunzioni della giustizia, ovvero delle altre mille questioni che suscitano contro di noi critiche e condanne dall'Ue o da altrove — è l'Italia, è il Paese nel suo complesso, sia quando a governarlo è la destra che la sinistra, che mostra la propria ormai trentennale incapacità di tenere il ritmo dei suoi principali partner, di eguagliarne gli standard fondamentali. E' tutto il Paese che da troppo tempo è incapace di dirsi la verità, di rinunciare al suo vizio antico dei rinvii o del lasciar correre, che da troppo tempo rifugge dal prendere i problemi di petto. Come non vedere però che ormai siamo vicini all'ultima ora? Adesso è il momento di capire che il bene collettivo e l'avvenire della politica passano attraverso un primo momento decisivo: il ristabilimento dell'autorità dello Stato. Cominciando in queste ore da Napoli: contro gli incendiari e gli istigatori di cacce all'uomo, contro la camorra, contro le amministrazioni locali incapaci o corrotte da mandare subito a casa. Senza riguardi per nessuno. Senza se e senza ma, e, bisogna sperarlo, con l'appoggio di tutti.

Corriere della Sera 21.5.08
Nel Pd la tentazione dell'astensione. E c'è chi vota «sì»
di Monica Guerzoni


ROMA — Dirigenti del Pd non cadete nella «trappola» di Berlusconi, cedere alle sirene «populiste» sull'abbattimento dell'Ici e la detassazione degli straordinari sarebbe «un gravissimo errore». Sull'Unità l'economista pdStefanoFassinaammonisce i democrats di Veltroni. E l'asprezza dell'avvertimento autorizza a pensare che l'idea di astenersi in aula al momento del voto sia molto più di una suggestione.
Spuntata tra i liberal di Enrico Morando e Giorgio Tonini, la tentazione di non bocciare le prime misure economiche del nuovo governo sta contagiando i «coraggiosi» di Francesco Rutelli, cui spetta la paternità della proposta di eliminare la tassa sulla casa. «Non faremo le barricate », è il via libera che prende forma tra cautela e distinguo. Durante il dibattito sulla fiducia al Senato il regista della veltronomics Enrico Morando ha teso criticamente la mano a Berlusconi, che lo ascoltava con grande attenzione. Ha detto di ritenere «molto più ragionevole» l'ipotesi di ridurre l'Ici al 55 per cento degli italiani e impiegare la parte maggiore delle risorse per un intervento «serio e strutturale» sul trattamento fiscale degli affitti. Ma ha detto anche che intervenire sulla tassa più odiata dagli italiani è «un'opera buona» e, aggiunge ora il coordinatore del governo ombra, «non una bestemmia in Chiesa». Quanto alla trappola fiutata da Fassina, Morando assicura che il Pd non cadrà in errore: «Astenerci? Vedremo cosa il governo ci propone. Se accetterà il confronto saremo disponibili, se faranno finta di non aver sentito le nostre proposte ci comporteremo di conseguenza».
Sulla stessa linea l'onorevole Stefano Ceccanti e il senatore Giorgio Tonini, che sulla defiscalizzazione degli straordinari annuncia l'intenzione di «non fare le barricate» ma spiega le perplessità del Loft: «È una riforma molto popolare tra i lavoratori, però c'è il rischio che si riveli un piatto di lenticchie». La vostra proposta? «La contrattazione di secondo livello». E in Aula, che farete? «Dobbiamo far capire le nostre perplessità, poi se insistono decideremo se votare contro oppure astenerci ». Luigi Lusi ha già deciso, voterà due volte sì. «Per noi è davvero difficile dire che non siamo d'accordo a eliminare l'Ici — ammette il senatore vicino a Rutelli —. E con quale faccia diciamo no alla defiscalizzazione degli straordinari, che incentiva le imprese e aiuta i lavoratori? Dobbiamo pensare per contenuti, non per bandiere».
Pierluigi Bersani ha altre priorità: il potere d'acquisto di salari e pensioni. Eppure il ministro ombra dell'Economia giura di non avere «alcuna remora» sulla detassazione degli straordinari, «purché sia parte di una operazione che cammina su più gambe». E l'Ici? Prodi ha fatto «un bel passo» e se ne possono fare «di ulteriori». Anche Cesare Damiano ha altre priorità per il Paese e poiché le risorse (a sentire Tremonti) sono difficili da trovare, lui suggerisce di impiegarle per diminuire la pressione fiscale su retribuzioni e pensioni. «Ciò detto — apre uno spiraglio l'ex ministro del Lavoro — valuteremo il carattere di questa manovra, alla luce del dialogo con le parti sociali». E l'ipotesi astensione? «Sono della vecchia scuola, sentirò l'opinione del mio partito». L'ultima parola spetta al senatore Tiziano Treu, il quale ritiene «non sbagliatissimo» ma neppure utile detassare gli straordinari e «buttare via altri miliardi» per tagliare l'Ici a case di valore. «Come voterò? Calma e gesso. Nessuna pregiudiziale. Certo, se Tremonti scopre un tesoretto di 20 miliardi allora si fa tutto e dico di sì anch'io...».

Corriere della Sera 21.5.08
Critiche Usa: Dal Wall Street Journal nuovo attacco al Cavaliere: è anti romeni
di G. R.


MILANO — «L'Italia è di nuovo infiammata dalla retorica e dalla violenza anti-immigrati», in linea con le dichiarazioni di «esponenti della sua classe politica», in particolare del governo Berlusconi. È un commento durissimo quello con cui ieri il Wall Street Journal è tornato ad affrontare il tema dell'immigrazione in Italia. Più che un atteggiamento anti-italiano il giornale sembra riflettere la maggiore aggressività che il suo neo-editore, Rupert Murdoch, pretende che cronisti e commentatori «politici» adottino verso tutti i governi. Ma è altrettanto vero che quella di ieri è la seconda «bocciatura» verso Berlusconi (con la prima arrivata nei giorni del voto elettorale), mentre nei due anni del governo Prodi il giornale aveva più volte appoggiato le posizioni del Cavaliere.
Il commento di ieri parte dal caso del campo rom preso d'assalto da «cittadini-vigilantes» di una metropoli, Napoli, «rovinata dalla mafia locale», dove «la spazzatura si accumula nelle strade da mesi». E da qui, si passa ad analizzare le parole provenienti dalla classe politica nazionale.
C'è la citazione del Berlusconi che verso i «fuorilegge» extracomunitari ha parlato di «armata del male». E ci sono persino «quei politici» che sono arrivati a proporre «deportazioni di massa». «Dai rom la campagna persecutoria si è subito estesa a tutti i romeni», scrive il quotidiano Usa. Con il nuovo ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha appena suggerito la revisione delle legge Ue del 2004 sul diritto di residenza dei cittadini comunitari in qualsiasi Paese dell'Unione.
«I politici di Roma pretendono di stabilire quali europei sono più uguali di altri — conclude il giornale — ma questa è proprio la cosa meno europea da fare».

Corriere della Sera 21.5.08
Curzi: il «mio» tg è diventato la Beirut della tv italiana
di Paolo Conti


ROMA — «In quel filmato ho avvertito una carica di anarchia, confusione, rancore... Il bel viso di Bianca Berlinguer con la scritta: "cancellato". Una cosa orribile. E che facciamo? Chi non è d'accordo con una decisione del vertice aziendale manda in onda un filmato? Dopo, chi la pensa diversamente ne manda in onda un altro per replicare? Qui, se non stiamo attenti, diventa la Beirut della tv italiana.»
Sandro Curzi, lei è il padre del «tiggitrè». E dice questo?
«Mi accuseranno di essere diventato un reazionario. Anch'io, ai tempi del mio Tg3, amavo le trasgressioni. Ma sempre nel pieno rispetto delle regole aziendali. Qui c'è stato un uso del mezzo pubblico per qualcosa che non ha senso».
In sostanza lei è d'accordo con Giovanni Minoli quando dice: le decisioni sui palinsesti riguardano i vertici dell'azienda.
«Minoli ha ragione, ha detto con chiarezza ciò che molti di noi alla Rai pensavano su quel filmato. Il piano editoriale? Una scelta ponderata e attenta, ne abbiamo discusso per mesi in Consiglio. E ne avevo parlato tempo fa informalmente da consigliere, nel mio studio, coi ragazzi del Tg3. Lo sapevano, insomma. Immaginavo che ne avessero già discusso tra loro»
Aveva affrontato il tema anche con Bianca Berlinguer?
«Sì, il tempo di un caffè. Bianca era già molto ostile, qualche mese fa. Io sono affezionato ai miei ragazzi del tempo della direzione. In fondo sono come dei miei figli...»
Figli che hanno sbagliato?
«Direi meglio che non hanno capito. Quel blocco d'informazione a metà serata, con orari incerti, non aveva senso. Il prodotto non era straordinario, si finiva col ripetere in gran parte l'edizione di prima sera senza idee particolari. Lo stesso "Primo piano" dopo dieci anni andava innovato. Su quella fascia c'era tanta roba: Vespa, "Ballarò", "Annozero"... un carico pesante. Infatti gli ascolti non sono saliti ma diminuiti proprio mentre la politica premiava invece sia Floris che Santoro. Era arrivato il tempo di cambiare».
La squadra di «Primo piano» parla di marginalizzazione per la collocazione a mezzanotte.
«Invece giudico questa scommessa straordinaria. Sarebbe il primo appuntamento di informazione e approfondimento del giorno che nasce nel cuore di una intera nottata di informazione: prima il Tg3 poi Rainews 24. Ci si può inventare di tutto: la grande intervista, il dibattito a due rivisto e corretto, l'inchiesta, il documento. I ragazzi dovrebbero considerarla come una meravigliosa opportunità professionale. Ai tempi del mio Tg3 inventammo in piena notte "Roma chiama New York", le notizie fresche dagli Usa... Ma gli ottimi colleghi del Tg3 e di "Primo piano" sono bravissimi. Sono sicuro che ricorreranno a intelligenza e creatività».
In quanto al piano editoriale?
«L'ho votato e sono d'accordo. Mi dissocio solo da una scelta della direzione generale: l'aver rinviato la prima serata del Tg1 del mercoledì a gennaio. Sarebbe stato meglio presentare da ottobre il nuovo volto della Rai compatto... boom, boom, boom, un palinsesto pieno di novità. Forse qualcuno ha avuto paura dei tempi. Ma si sapeva da marzo... Una formula innovativa si poteva trovare per ottobre».
Vi accusano di aver rivoluzionato i palinsesti mentre avete le valigie in mano.
«È vero, abbiamo le valigie in mano. Ma quando stai per lasciare una casa devi controllare che sia tutto in ordine. Altrimenti chi arriva dopo sente subito il cattivo odore dell'immondizia dimenticata ».
Il presidente Petruccioli spera in un direttore unico per le news della Rai. D'accordo con lui?
«Sinceramente no. Penso piuttosto che ciascuna testata debba conservare una propria caratteristica. Purtroppo sono troppo vecchio, non vedrò l'approdo ideale: un tg a Milano, uno a Roma, uno a Napoli. Tre testate che raccontino l'Italia con sensibilità territoriali diverse. Questa sarebbe una rivoluzione. Ma senza metterci a fare Beirut».

Corriere della Sera 21.5.08
Opposizione e strategie Il leader pd: non sono pentito dell'alleanza con Di Pietro. L'Arcobaleno? Ragioni sul suo 3%
«Sì al dialogo. Anche Berlinguer fu criticato»
Veltroni: le riforme si fanno con il Pdl. Tradito dalle piazze piene ma mi ricandiderei
di Roberto Zuccolini


«Cosa direbbe la gente se si decidesse di ridurre il numero dei parlamentari e io non fossi d'accordo?»

ROMA — Difende la scelta del dialogo con Berlusconi, riconosce di avere commesso errori, ma annuncia anche che si ricandiderebbe. E si toglie un po' di sassolini dalle scarpe. Come il giudizio sulla sinistra radicale, con la quale ha appena riaperto un confronto: «Hanno preso appena il 3 per cento: ci ragionino sopra ». Walter Veltroni a Ballarò si confessa e punta al rilancio. Il dialogo con il governo è «necessario» perché le riforme si cambiano insieme: «Cosa direbbe la gente se si decidesse di ridurre il numero dei parlamentari e non fossi d'accordo?
». E ricorda che capitò anche ad Aldo Moro e ad Enrico Berlinguer di essere criticati ai tempi del compromesso storico: «A dialogare su quegli argomenti non ci guadagno io, ma il Paese». Riconosce quindi che in campagna elettorale è stato abbagliato «dalle piazze piene e dai giovani», ma comunque «se ci fossero le condizioni » lo rifarebbe. La sconfitta di Roma? Ammette: «È stata scottante». E Antonio Di Pietro, l'alleato che dal giorno dopo le elezioni sembra sempre più distante? «Non mi pento di avere fatto con lui il patto elettorale. Però ora fa un'opposizione facile. E poi è favorevole al reato di immigrazione clandestina».
Poi, c'è tutto il rapporto con la sinistra radicale: «Deve analizzare le ragioni della sconfitta, anziché dedicarsi allo "sport" di dire che la colpa è del Pd. A me dispiace se hanno preso il 3,2 per cento. Però ragionassero sul fatto che hanno tagliato per 2 anni l'albero sul quale erano seduti». E precisa che quando parla di «nuovo centrosinistra» vuole «lanciare una sfida di governo».
Ieri mattina ne ha parlato al coordinamento del Pd rassicurando tutti, a partire dai popolari che temono una svolta socialdemocratica del partito, che sulle alleanze «non si torna al passato». Proprio mentre Massimo Cacciari lo incalzava sull'argomento: «Se si torna all'Ulivo si perde per l'eternità. C'è un'opposizione a Berlusconi che è di centrosinistra e bisognerà pure concordare una linea comune con questa opposizione, che sia o meno in Parlamento. Però una riedizione della vecchia Unione è fuori dalla ragionevolezza: il Pd deve mantenere la sua vocazione maggioritaria perché lo vuole il Paese ».
Certamente però l'incontro del giorno prima con il nuovo leader di Sd, Claudio Fava, ha riaperto il dialogo del Pd con la sinistra. E anche i sospetti. Oggi ad un convegno romano ne parlerà lo stesso Fava con Niki Vendola, in competizione con Paolo Ferrero, suo rivale al prossimo congresso del Prc. Il primo è più favorevole del secondo ad aperture con il partito di Walter Veltroni. Ma entrambi temono che ad essere attratta nell'orbita del Pd possa essere, in tempi brevi, quella Sinistra democratica che aveva deciso di rompere i ponti con la maggioranza dei Ds.
Il Pd continua a guardare anche al centro: il ministro ombra dell'Economia, Pierluigi Bersani, ha incontrato i vertici dell'Udc per cercare punti di convergenza. Ma al suo partito ha anche detto che bisogna «incalzare Rifondazione comunista sul fronte del riformismo ».

Corriere della Sera 21.5.08
Soru compra l'Unità: ho voluto difendere un patrimonio culturale
di R. Zuc.


ROMA — La voce girava ormai da giorni, ma da ieri è ufficiale: l'Unità, quotidiano fondato dal sardo Antonio Gramsci, esce dallo stato di crisi passando nelle mani del sardo Renato Soru ( foto). Si conclude così, con una impegnativa operazione finanziaria (dato che dietro c'è il patron di Tiscali), una vicenda che durava da mesi e che rischiava di indebolire in modo grave lo storico giornale già del Pci, già del Pds, già dei Ds ed ora del Pd (a mezzo con altre testate, più piccole e meno storiche, ma rappresentative dell'area che attualmente copre il Partito Democratico).
Il presidente della Regione Sardegna spiega di averlo fatto per difendere «il patrimonio di cultura e di democrazia» che rappresenta l'Unità. Ha firmato un protocollo con Ad, la società che controlla attualmente il quotidiano, con l'obiettivo di creare una Fondazione che avrà la responsabilità di gestirlo. Si dichiara in una nota che la Fondazione «vuole proseguire la tradizione di solidarietà sociale e di impegno che hanno caratterizzato da sempre il giornale».
Il cdr dell'Unità esulta: «Siamo pienamente soddisfatti». E ringrazia sia i sindacati che lo stesso Pd «per essersi impegnati a rilanciare il giornale». La redazione del quotidiano era in agitazione da mesi e temeva soprattutto l'ipotesi che a inizio anno sembrava diventata realtà, di un acquisto da parte degli Angelucci, già proprietari sia del Riformista che di
Libero. Ora promette di «verificare i piani» della nuova Fondazione. Anche la Federazione nazionale della stampa si unisce al coro: «Finalmente si diradano le nubi minacciose che si stavano addensando sul futuro del giornale fondato da Antonio Gramsci».
Ed è contento Walter Veltroni, che fu a suo tempo, come altri dirigenti dei Ds, un suo direttore: «Si chiude una lunga fase di incertezza finanziaria per il giornale, segnata da momenti difficili e segnali allarmanti. Crediamo che per l'Unità possa aprirsi una nuova fase di sviluppo e di rafforzamento».
Ma c'è anche chi, invece di gioire per la soluzione di una crisi che si portava avanti da tempo, denuncia nuovi problemi all'orizzonte. Mario Diana di An fa presente che «si profila un conflitto di interessi». Per il fatto che Soru è presidente della giunta sarda e quindi «potrebbe influenzare la prossima campagna elettorale di quella regione». E lo stesso rischio viene denunciato dall'Italia dei Valori, pure alleata del Partito Democratico: «Soru è un buon imprenditore, ma bisogna scegliere: l'informazione non deve essere controllata dalla politica».

Corriere della Sera 21.5.08
Cattolici No a «Famiglia cristiana»
Roccella: è sbagliato voler cambiare la 194


ROMA- Oggi alla conferenza stampa organizzata presso la Camera dei deputati dal Movimento per la vita a trent'anni della legge sull'aborto, per «ridiscutere la 194», Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare, non ci sarà.
Il mondo cattolico è in pressing contro la legge 194 e Famiglia cristiana ha lanciato quasi un altolà per modificarla subito. Lei è stata uno dei due portavoce del Family Day, come giudica questi interventi?
«Spostare l'attenzione dalle politiche familiari, per chiedere la modifica della legge 194, secondo me, vuol dire aprire un discorso inevitabilmente ideologico che crea un'immediata spaccatura nel Paese e che quindi è controproducente proprio nell'ottica di chi vuole ridurre il ricorso all'aborto ».
Perché?
«Perché l'approvazione di quella legge e la campagna referendaria che ne seguì, crearono nel Paese una lacerazione che fa ancora male. Ecco, con questi appelli non si fa altro che riaprire quelle vecchie ferite. Nessuna legge è un tabù, naturalmente, ma la fuga in avanti rischia di compromettere la reale possibilità di agire, in positivo, per una diminuzione concreta ed effettiva degli aborti nel nostro Paese. Io, invece, sono sicura che questo obiettivo sia a portata di mano».
Cosa glielo fa credere?
«C'è il clima adatto: anche nel centrosinistra, come dimostra la lettera della precaria Sandra, la risposta del presidente della Repubblica, Napolitano, gli interventi di Miriam Mafai».
Come mai chi va all'attacco della 194 non si rende conto di un possibile effetto boomerang?
«Da parte di Famiglia cristiana
mi è sembrato un intervento ingeneroso nei confronti del governo appena insediato, dovuto forse alla volontà di mettere alla prova il centrodestra, dopo che per due anni, il governo di centrosinistra è stato sempre all'attacco (rispetto alle posizioni della Chiesa) su tutti i temi etici: dai Dico fino alle ultime linee guida della Turco sulla legge 40 sulla fecondazione assistita ».
Cosa farà il nuovo governo?
«La modifica della legge 194 non fa parte del programma del Pdl ed entrambi i leader, Berlusconi e Fini, hanno detto che non si farà. Ma noi abbiamo l'occasione storica di cambiare in concreto. Nel suo discorso programmatico Berlusconi ha parlato di rimuovere le cause economiche del ricorso all'aborto e di un grande piano nazionale per la vita» .
Secondo il settimanale dei paolini, l'aborto è la causa della crisi della natalità in Italia. E' così?
«Non si può scambiare la causa con l'effetto: il problema non è la denatalità, ma la maternità. Oggi in Italia le donne non sono libere di essere madri. Le famiglie non sono libere di avere dei figli. Oggi fare un figlio vuol dire impoverire il proprio reddito del 20 per cento. Proprio per questo intendo istituire subito, all'interno del ministero del Welfare, un coordinamento sulla maternità».

Corriere della Sera 21.5.08
Oltre 4 mila le feste dove i giovani «no sex» si impegnano all'astinenza fino alle nozze. Anche Harvard ha il suo club
Con papà al ballo della purezza. L'America delle nuove vergini
di Paolo Valentino


Il clou dell'incontro: il padre giura di proteggere la castità della ragazza I critici: residuo patriarcale da combattere

DES MOINES (Iowa) — All'inizio fu una festa fra amici, nella piccola comunità evangelica di Colorado Springs. Per celebrare la raggiunta pubertà della figlia più grande, Randy e Lisa Wilson si inventarono il Purity Ball, il ballo della purezza. Una serata di gala, nella quale si alternano danze e rituali, come il passaggio sotto due spade incrociate su un tappeto di rose bianche. E dove il clou è il giuramento del padre a proteggere la castità della ragazza, l'impegno pubblico a vegliare sulla sua astinenza sessuale fino al matrimonio.
Sono passati dieci anni e i «Purity Ball» sono diventati un fenomeno americano. Secondo l'Abstinence Clearinghouse, un gruppo che promuove il digiuno sessuale prima delle nozze, l'anno scorso ne sono stati organizzati 4400, soprattutto negli Stati conservatori del Sud e del Midwest degli Stati Uniti. Venerdì sera, a Colorado Springs, l'originale dei Wilson ha festeggiato la sua nona edizione, consacrata da una copertura mediatica quasi hollywoodiana e animata da padri e figlie venuti da ogni parte dell'America.
Non tutti i Purity Ball sono uguali. In molti di questi, anche alle ragazze è richiesto un «virginity pledge», un giuramento a rimanere vergini. I Wilson non condividono l'idea. Ma la sfida alla cosiddetta «hook up culture», la cultura permissiva dell'abbordaggio è la stessa: «Le nostre figlie si aspettano una mano da noi, per salvarsi da una mentalità dominante, che considera del tutto normale andare a letto con chiunque si desideri, una ricetta per il caos», dice Randy Wilson.
Criticati dagli osservatori femministi come «un residuo patriarcale, teso a perpetuare la sottomissione delle donne, quasi che la sessualità di una ragazza appartenga a suo padre o a suo marito», i balli della purezza sono però la parte più nazional- popolare e «kitsch» di un trend, che rivela aspetti molto più sofisticati e sorprendenti.
Veniva proprio da Colorado Springs, Janie Fredell, quando nel 2005 fu ammessa alla Harvard University. Le occorsero poche settimane per accorgersi che nel campus di Cambridge «fare sesso è assolutamente OK» e che «perfino l'Università ti spiega quali precauzioni usare ». Janie, forte del suo «virginity pledge», decise di reagire. Scrisse un articolo per il Crimson, il giornale di Harvard diretto, pensato e scritto dagli studenti, nel quale difese il «fascino misterioso della verginità, radicato non tanto nell'innocenza ma nella forza», che le costò lazzi e ironie nell'intero campus. Poi, nel 2006, incontrò il minuscolo drappello del True Love Revolution, un gruppo quasi catacombale che teorizza e pratica l'astinenza sessuale per ragazze e ragazzi, originato a Princeton già qualche anno prima e poi emerso anche in altre università della Ivy League, da Yale al Massachusetts Institute of Technology, tradizionali bastioni della cultura permissiva.
Due anni dopo, Fredell ne è co-presidente. Ad Harvard, il manipolo dei seguaci è cresciuto con parecchie centinaia di adesioni, acquistando soprattutto rispetto e influenza. E Janie ha lavorato molto per dare al gruppo basi meno religiose e più intellettuali, ricorrendo all'aiuto di pensatori cattolici come Elizabeth Anscombe e di filosofi come Ludwig Wittgenstein o John Stuart-Mill. Soprattutto, Janie rivendica la modernità del suo approccio: «Il femminismo convenzionale sostiene che controllare il proprio corpo significa la libertà di fare sesso senza conseguenze, come un uomo. Io sono una femminista anti-convenzionale, prendo possesso del mio corpo attraverso la scelta di non farlo, dicendo no agli uomini». Il massimo di popolarità, Janie lo ha raggiunto a ottobre, quando affrontò in una disputa pubblica la campionessa del sesso a go-go, Lena Chen, la provocante sex blogger del Crimson, che titolò a tutta pagina: «Belzebù contro la Vergine Maria».
Che i «virginity pledge» funzionino è tutto da discutere. Secondo lo studio di due sociologi della Columbia University, le statistiche mostrano che «chi ha preso l'impegno alla castità, conserva la sua verginità tecnica 18 mesi più a lungo delle adolescenti che non l'hanno fatto », ma «ha una probabilità sei volte più grande di praticare il sesso orale». Di più, quando ha la prima esperienza, «avviene di rado che usi un preservativo ».
Ma il punto è in fondo secondario. Pur contestata e discussa, l'astinenza sessuale diventa sempre più una scelta possibile per molti giovani americani, irrompendo anche nella cultura pop. Da Miley Cyrus, la quindicenne star di Disney criticata per sue foto troppo osé, a Adriana Lima, testimonial di una casa di biancheria intima, all'attrice Jessica Simpson, fino alla più celebre, la cantante Britney Spears, sono sempre più numerose le celebrità che hanno giurato di restare vergini.

Corriere della Sera 21.5.08
Un convegno celebra il romanzo di D.H. Lawrence a ottant'anni dalla pubblicazione
Lady Chatterley, scandalo fiorentino
Nel capoluogo toscano lo scrittore trovò ispirazione e passione
di Ranieri Polese


Ottanta anni fa, nel 1928, a Firenze veniva stampata la prima edizione di Lady Chatterley's Lover («L'amante di Lady Chatterley»), il romanzo di David Herbert Lawrence destinato a subire una serie di censure e proibizioni lunga oltre trent'anni. Vietato in Inghilterra (ma anche negli Stati Uniti, Australia, India) perché osceno (scandalizzò moltissimo il frequente e ripetuto uso del verbo «fuck»), il libro verrà assolto in un processo celebrato a Londra nell'autunno del 1960, intentato contro Penguin che aveva pubblicato il libro nonostante il divieto. Famose le parole del pubblico ministero che chiese ai giurati se pensavano che un libro simile potesse «essere letto dalle vostre mogli o dai vostri domestici». Prima del 1960, comunque, avrebbe circolato in molte edizioni pirata, tratte appunto da quelle prime 1.000 copie (cui se ne aggiunsero 200, visto le richieste internazionali), piene di refusi e di errori.
Lawrence, che viveva a Firenze dal 1926 con la moglie Frieda von Richtofen (avevano preso in affitto la villa Mirenda, sulle colline a sudovest di Firenze, sopra Scandicci), si era rivolto all'amico libraio Pino Orioli, il quale a sua volta lo presentò a Leo Samuel Olschki, proprietario della piccola Tipografia Giuntina. Il libro, stampato a spese dell'autore in carta color avorio, aveva una copertina di colore rosso, con su impressa una fenice disegnata dallo stesso Lawrence.
Per celebrare questo anniversario Firenze ha organizzato un convegno (29-31 maggio) a cui partecipano studiosi italiani, inglesi, americani; tra i promotori, la Regione Toscana, il British Institute, il Gabinetto Vieusseux, la University of New York (villa la Pietra). Ci saranno anche proiezioni di film da o su Lawrence: «Donne in amore», 1969, di Ken Russell; la biografia dello scrittore, «The Priest of Love», 1981, di Christopher Miles, e la recente versione per lo schermo del romanzo, 2006, firmata dalla francese Pascale Ferran. Venerdì 30 maggio, visita guidata (con lettura di brani del libro) a villa Mirenda, dove si può ancora vedere l'affresco «Borea e Crizia », che presumibilmente ritrae D.H. Lawrence e Frieda.
Tra le questioni affrontate dai relatori, un'attenzione speciale viene dedicata al rapporto di Lawrence con l'Italia e in particolare con Firenze, la città dove appunto lavorò, tra il 1926 e il 1928, al suo romanzo più famoso (di cui restano due versioni, poi rifiutate, precedenti l'edizione definitiva). Viaggiatore instancabile, sempre in cerca di climi più salubri necessari alla pessima condizione dei suoi polmoni, lo scrittore scende in Italia la prima volta nel 1912-13, in compagnia di Frieda von Richtofen, l'aristocratica tedesca (lontana parente di Manfred von Richtofen, il futuro Barone rosso dell'aviazione del Kaiser) che per lui aveva lasciato il marito Ernest Weekley (un inglese professore di letteratura a Nottingham) e tre figli. La coppia, dopo un soggiorno sul Garda, si stabilisce a Fiascherino, dove rimane fino allo scoppio della guerra, che li costringerà a tornare in Inghilterra. Bloccati in Cornovaglia, David e Frieda — si erano sposati nel 1914 — riprenderanno a viaggiare già dal 1919: prima tappa, l'Italia: l'Abruzzo, Capri, Taormina, la Sardegna. Del primo soggiorno a Firenze, avvenuto in quegli anni, Lawrence ha scritto nel romanzo La verga di Aronne (1922): ospite in una pensione economica vicino a piazza Mentana (di cui descrive l'awful monument,
il «terribile monumento», ai caduti garibaldini) racconta la scoperta di piazza della Signoria, delle sue statue, della sua imponenza esclamando «qui un tempo vissero dei giganti! ».
Nel '22 lasciano l'Europa per Ceylon, l'Australia e finalmente il New Mexico dove la miliardaria Mabel Dodge regala loro una villa a Taos in cambio del manoscritto di Figli e amanti. Nel '25 le condizioni di salute peggiorano e Lawrence decide di tornare in Italia. Prima a Spotorno, poi (1926) a Firenze, nella villa Mirenda sopra Scandicci. Negli oltre due anni passati in Toscana, oltre a dedicarsi al lavoro di scrittura del romanzo, Lawrence perlustra i luoghi etruschi, da Cerveteri a Volterra: da queste visite nascono le pagine di Luoghi etruschi, in cui si legge l'ammirazione per la vitalità «fallica» degli etruschi e il fastidio per l'Italia fascista. Morirà a Vence, nel 1930. Le sue ceneri verranno portate, anni dopo, a Taos da Frieda e dal suo nuovo marito, l'italiano Angelo Ravagli.
Sul libro odiato e amato con pari intensità sono fiorite interpretazioni e indiscrezioni a non finire. Per esempio sulla vera identità dei protagonisti. Per alcuni, il guardiacaccia Oliver Mellors e Lady Constance sarebbero Lawrence, di umili origini, e l'aristocratica Frieda. All'epoca, però, la relazione tra i due era praticamente esaurita e Lawrence, ormai minato dalla malattia, confessava apertamente l'infelicità di quel rapporto. Altri invece dicono che lo scrittore si era ispirato all'avventura dell'amica Lady Ottoline Morrell con un giovane tagliapietre (soprannominato Tiger) che lavorava nel parco della sua villa. Resta comunque il fatto che quel romanzo, dopo il verdetto del 1960, avrebbe accompagnato il decennio della rivoluzione sessuale, della liberazione dai tabù. Come ricorda il poeta Philip Larkin in Annus mirabilis: «Cominciai ad avere rapporti sessuali nel 1963 (abbastanza tardi): tra la fine del divieto di Lady Chatterley e il primo lp dei Beatles».

Corriere della Sera 21.5.08
Scoperte Ritrovato un articolo, che si credeva perduto, scritto a 16 anni dal futuro poeta maledetto
Così il giornalista Rimbaud attaccava Bismarck
di Stefano Bucci


«Hi! Povero!». Così, per ben tre volte viene apostrofato (a quanto pare la citazione in italiano si ispirerebbe direttamente al «nostro» Garibaldi) il cancelliere Otto von Bismarck descritto mentre si addormenta «dopo aver a lungo sognato ad occhi aperti», mentre «immerge il proprio naso nel fornello incandescente della pipa», mentre punta «la sua piccola unghia malvagia» su Parigi. Un breve «pezzo» (titolo «Il sogno di Bismarck») tutto giocato sul sarcasmo e sulla rabbia allo scopo di sbeffeggiare quel Cancelliere di Ferro responsabile della disfatta dei francesi a Sedan ad opera dei prussiani. Dietro l'anonima firma di Jean Baudry non si nasconde però un giornalista qualsiasi, ma Arthur Rimbaud, il più maledetto dei poeti francesi (1854-1891), l'autore di Una stagione all'inferno. Che, però, probabilmente non vide mai pubblicato quell'articolo, datato 25 novembre 1870, sul «Progrès des Ardennes», il giornale di tendenze repubblicane della sua città Charleville- Mézières cui lo aveva inviato. Visto che al momento della pubblicazione Rimbaud viveva una delle sue ennesime fughe, stavolta verso Charleroi come più tardi verso Parigi e Verlaine. Di questo articolo (destinato «a rendere incomplete le biografie del poeta finora scritte») si sapeva ben poco, tranne qualche accenno all'amico Delahaye, anche se già si conoscevano le velleità giornalistiche di Rimbaud. Ora quell'articolo torna alla luce grazie all'intuito di un giovane cineasta francese Patrick Taliercio che ha trovato la fatidica copia del «Progrès» in una bottega di libri usati delle Ardenne dove era capitato per girare un documentario appunto su Rimbaud e sulle sue fughe. Il sarcasmo di Arthur non sarebbe comunque servito a salvare la sua città: seimila granate avrebbero distrutto Charleville-Mézières pochi mesi più tardi l'uscita dell'articolo, il 31 dicembre 1870, e con essa la tipografia del «Progrès des Ardennes » con tutti i suoi archivi e con quell'articolo contro Bismarck firmato dal giovane Jean Baudry alias Rimbaud.

Corriere della Sera 21.5.08
La traduzione sarà presentata al Papa
Parole, storia. fede: ecco la nuova Bibbia
di Alberto Melloni


La storia della Bibbia in italiano — alla quale l'episcopato italiano aggiungerà la prossima settimana un nuovo capitolo, offrendo al papa una traduzione riveduta — è lunga e affascinante.
Essa inizia con le traduzioni delle Sacre Scritture nel toscano parlato di cui oggi si ritrovano testimoni manoscritti della seconda metà del Duecento: quasi a ricordarci che anche in Italia il testo biblico e la nuova lingua colta tentavano di nascere insieme, all'interno di una grande svolta di civiltà. Ciò che impedì il fiorire di quell'incontro fu la dura lotta contro eresie o mere istanze riformatrici nell'ascesa di quella che Walter Ullmann chiamava la «monarchia papale ». E così il volgare italiano crebbe senza che la Bibbia ne plasmasse l'espressione, come invece fu con l'inglese della «Standard Version » o il tedesco della «Bibbia di Lutero».
Anzi: proprio le riforme del XVI secolo segnarono il destino della Bibbia italiana. Infatti quando il concilio di Trento tentò di identificare pochi e netti elementi di distinzione fra le confessioni, la distanza dalla Bibbia diventò un marker cattolico. Immobilizzata nel latino della Vulgata, riservata a un ceto clericale, le Sacre Scritture diventarono un oggetto ritenuto «delicato» nella sensibilità romana, distante dal processo di formazione della cultura nazionale. La Bibbia in italiano, così, fu quella d'un esule riformato, il lucchese Giovanni Diodati uscita nel 1607 e rimasta inaccessibile al grosso dei fedeli, anche quando le sue revisioni ottocentesche le tolsero la patina più antica o quando le traduzioni in più volumi (dal Martini in poi, spesso partendo dal latino!) si offrivano come oggetti da preti.
Per questo la «Bibbia del Novecento» rimane oggetto raro o sospetto o sconosciuto ai cattolici: qualcuno usa la revisione Diodati fatta dal pastore valdese Giovanni Luzzi nel 1925 (è questa la Bibbia che le Br consegnano a Moro nel 1978), appaiandosi dagli anni Trenta a versioni cattoliche in un volume, fra le quali spicca quella aulica e severa di Fulvio Nardoni uscita nel 1960, proprio alla vigilia del concilio che avrebbe decretato di restituire alla Bibbia la sua dignità nella liturgia e alla Parola di Dio la sua signoria sulla chiesa.
Per questo, fra il 1965 e il 1971, l'episcopato italiano produsse una nuova traduzione, emancipata dal latino e anche dalla versione greca dell'Antico Testamento: quel testo — al quale misero mano esegeti, pastori e poeti come Quasimodo — si diffuse e s'impose anche quando dal 1974 iniziò ad uscire la «Bibbia di Gerusalemme» che tutt'attorno al testo della Cei forniva le note e i rinvii preparati dall'École biblique
alle porte della città santa. Oggetto di critiche, quella traduzione non fu di fatto soppiantata né da quella in lingua corrente che nel 1976 cercava inutilmente di superare le difficoltà di comprensione «quotidianizzando» il testo né dalla traduzione ecumenica che voleva affermare la forza unificante della Parola né dalla «Nuovissima » curata, fra gli altri, dal cardinale Carlo Maria Martini.
Il testo Cei, forte della mediazione del lezionario, giustamente ha prevalso. E ha lasciato la Bibbia ove oggi essa è nella fede e nella cultura: diffusa dalla liturgia, ma esiliata dall'insegnamento scolastico comune; centrale nella formazione dei seminaristi, ma predicata nella più orgogliosa ignoranza del dato esegetico. La pubblicazione di una nuova Bibbia in italiano, che l'episcopato offrirà al suo primate Benedetto XVI fra otto giorni, riconosce tutte queste sfide e le legittima. Le pone nell'agenda della cultura che lì sente risuonare ciò che la impasta e che essa beatamente ignora. Le iscrive nell'agenda della chiesa, che lì ascolta la Parola, norma della sua forma e della sua riforma.

Corriere della Sera 21.5.08
Dibattito Il presidente della Società italiana di biologia evoluzionistica replica a Piattelli Palmarini
Ma l'ornitorinco non contraddice le teorie di Darwin
di Giorgio Bertorelle


Ci mancava l'ornitorinco! Al variegato mondo degli anti- Darwin all'italiana si è aggiunta nei giorni scorsi questa fantastica e velenosa specie australiana, reclutata dalle pagine del Corriere
dell'11 maggio scorso da Massimo Piattelli Palmarini: «Ornitorinco uno, Darwin zero», scrive in un articolo facendo credere che i recenti dati pubblicati dalla rivista Nature
sul genoma dell'ornitorinco contraddicano la teoria dell'evoluzione per selezione naturale.
Piattelli Palmarini sembra non conoscere gli studi che hanno integrato negli ultimi decenni la teoria darwiniana, ancora valida nelle sue fondamenta. L'articolo che descrive parla di duplicazioni geniche, di convergenza evolutiva, di evoluzione di cromosomi sessuali e di molti altri processi noti da tempo a tutti e interamente compatibili con la moderna teoria dell'evoluzione. Processi che sono avvenuti a partire dai nostri antenati simili ai rettili e dopo l'antica separazione, più di 150 milioni di anni fa, dei mammiferi monotremi (ornitorinco ed echidna) da tutti gli altri mammiferi. Curiosamente, a nessuno degli oltre 100 autori di questo studio è venuto in mente che, come dice Piattelli Palmarini, «il patrimonio genetico dell'ornitorinco mette in crisi l'evoluzionismo». Di più, lo stesso Piattelli Palmarini cita a supporto delle sue idee un secondo articolo uscito in questi giorni sempre sull'ornitorinco, senza far riferimento al fatto che gli autori dello studio sostengono invece, testualmente: «L'evoluzione a passi successivi di queste vie indipendenti di segnale attraverso la duplicazione genica e la seguente divergenza è consistente con la teoria darwiniana di selezione e adattamento ». È possibile che questa frase, ben in evidenza nell'articolo originale, sia sfuggita a Piattelli Palmarini?
La teoria dell'evoluzione, come insegna il metodo scientifico, è quotidianamente esposta al vaglio e alla verifica dei fatti e dei dati sperimentali. Ed è un peccato che a volte non prove e fatti, ma parole in libertà, si trasformino in pericolosa disinformazione sotto un titolo perentorio che recitava «L'ornitorinco sconfigge Darwin». Gli sconfitti, in questo caso, sono la cultura scientifica e la sua diffusione.

Repubblica 21.5.08
Trent'anni di 194 in una testimonianza molto documentata di Giovanni Fattorini
Un medico cattolico racconta
di Miriam Mafai


Una questione sociale dovuta alle condizioni economiche
Nel corso dei tre decenni il numero delle interruzioni si è dimezzato

All´inizio, negli anni Settanta quando se ne chiedeva l´uscita dall´illegalità, l´aborto si presentava essenzialmente come un problema delle donne, che chiedevano piena assoluta autorità sul proprio corpo. Negli anni successivi, con le nuove scoperte della medicina, il problema cambiò in certa misura fisionomia e diventò (fatta salva l´autorità della donna cui spettava sempre l´ultima parola) anche un problema, sia pure controverso, di bioetica. Più recentemente, infine, alcuni dolorosi casi di cronaca, hanno proposto il tema dell´aborto come questione sociale, una scelta amara dovuta essenzialmente dalle condizioni economiche dalla donna.
A trent´anni dalla approvazione della legge 194 che ha reso legale, anche in Italia come in tutti i paesi europei, l´interruzione volontaria di gravidanza, è possibile, certamente augurabile, una riflessione meno ideologica e conflittuale sull´argomento. Che parta da una conoscenza approfondita del fenomeno, in tutti i suoi risvolti. Ci aiuta in questo percorso il libro, in uscita il 5 giugno, di un medico, cattolico ma non obiettore, che da anni si occupa del problema (Giovanni Fattorini, Aborto, un medico racconta trent´anni di 194, Guerini e associati, pagg. 256, euro 22).
Prima di tutto Fattorini ci offre i dati completi del fenomeno, indispensabili per una sua valutazione complessiva. E dunque per i primi quattro anni, tra il 1978, data di approvazione della legge, fino al 1982, il numero degli aborti in Italia è rimasto sostanzialmente invariato, 234.000 aborti l´anno. Poi, negli anni successivi si è registrato un calo netto degli interventi che nel 1994 saranno soltanto 142.657. Da allora però, e sono passati ormai quattordici anni, il fenomeno si è stabilizzato. Nel 2005, ultimo anno per il quale disponiamo di cifre definitive, si sono operate in Italia 132.790 interruzioni volontarie di gravidanza.
Ma i numeri assoluti non dicono tutto... Dietro queste cifre c´è infatti una realtà in rapido mutamento. Cambia, in primo luogo, il profilo sociale delle donne italiane che fanno ricorso all´aborto. Erano, nei primi anni di applicazione della legge, donne sposate, non giovanissime, con un buon titolo di studio, con uno o più figli. Sono, oggi, donne più giovani, con scarsi requisiti di cultura e di mezzi, tanto che, scrive Fattorini, si può parlare della esistenza «di fasce di popolazione femminile oggettivamente a rischio di gravidanze non volute». Un altro dato su cui riflettere: secondo i dati del 2005 (e niente fa pensare che il fenomeno si sia ridotto) almeno un terzo di tutti gli aborti vengono ormai effettuati su donne immigrate. Vi ricorrono prevalentemente le donne che provengono dai paesi dell´est europeo nei quali il tasso di abortività è tanto elevato (arriva al 78 per mille in Romania) da far pensare che in realtà l´interruzione volontaria di gravidanza sia vissuta in quei paesi, e quindi dalle donne che da lì provengono, come una normale ed economica forma di contraccezione. (Se pensiamo, come molti di noi pensano che l´aborto debba costituire soltanto l´extrema ratio cui una donna ha diritto di ricorrere, in caso di una gravidanza indesiderata, sarebbe quindi necessario incentivare, a tutti i livelli il ricorso a metodi contraccettivi efficaci, checché ne pensi la nostra Chiesa.)
Ricco di tabelle, dati e cifre, ma anche attraversato dal racconto di tante storie di donne che a lui si sono rivolte con fiducia, con pudore, con difficoltà, questa ricerca di Giovanni Fattorini andrebbe letta e studiata con attenzione da tutti coloro che non potendo, o non volendo, proporre l´abolizione della legge 194, chiedono almeno che la stessa legge venga sottoposta, come suol dirsi «a un tagliando».
Queste 256 pagine rappresentano esattamente l´auspicato «tagliando». Un medico cattolico, non obiettore, con una lunga esperienza sul campo ci racconta non solo come ha funzionato la legge, i suoi successi, le sue insufficienze, le sue ambiguità, ma ci dice anche come funzionano e dove non funzionano e perché i consultori previsti da una legge, la 405, che precede quella sulle IVG; ci spiega perché le donne italiane (e ancor più le immigrate) fanno così scarso ricorso ai metodi anticoncezionali e come tale situazione potrebbe essere superata; ci dice infine come funziona, e le polemiche che ha sollevato, il cosiddetto «aborto medico», che, grazie all´adozione della RU 486, può sostituire l´attuale «aborto chirurgico».
Da cattolico «adulto», Fattorini affronta anche, in un apposito capitolo il delicato problema della presenza del volontariato all´interno dei consultori. Si tratta, ricorda Fattorini, di un volontariato cattolico, che ha irrigidito nel tempo le sue posizioni, «con l´obiettivo di trasformare sostanzialmente e indipendentemente dal nome i Consultori in veri e propri centri di aiuto alla vita», con il risultato di dissuadere una donna ad abortire nelle strutture pubbliche, e il rischio conseguente di un ricorso agli aborti clandestini. Un pericolo reale, grave e da evitare in tutti i modi.

Repubblica 21.5.08
Domani il trentennale della legge sull’aborto
di Anna Bravo


L´interruzione di gravidanza era perseguita come un delitto contro l´integrità e la sanità della stirpe ed era vietato parlare di anticoncezionali
Per la Dc e per la Chiesa ogni forma di depenalizzazione era inconcepibile
Il movimento femminista si mosse allora in tutta Europa

Chi avrebbe immaginato, nel 1968, ‘69, ‘70, che nel giro di qualche anno in Italia si sarebbe varata una normativa per la legalizzazione dell´aborto? All´epoca il tema non rientra negli obiettivi dei movimenti, e neppure del preoccupato Pci. Per la democrazia cristiana e per la Chiesa qualsiasi forma di depenalizzazione è inconcepibile. L´opinione pubblica, oltre che divisa, sembra pigra. A sollevare la questione, il Movimento di liberazione della donna, vicino al Partito Radicale, alcuni dei primi gruppi femministi, qualche giornale di impegno civile, qualche esponente socialista, in prima fila Loris Fortuna. Non è poco, ma non basta.
Eppure su come vanno le cose si sa tutto o quasi. Le donne abortiscono clandestinamente - il che, se qualcuno l´avesse dimenticato, voleva dire ricerca affannosa di un medico, un´ostetrica, una praticona, soldi da trovare, appartamenti - scannatoio senza nome sul campanello, prezzo pagato in anticipo, un tavolo da cucina come letto operatorio, metodi pericolosi, a volte letali. In questi anni si può morire perché non si riesce a ottenere un intervento più sicuro. E perché la Repubblica non ha ancora trovato modo di abrogare la legge fascista, che fa dello Stato il titolare della fecondità nazionale, persegue l´aborto come delitto contro l´integrità e la sanità della stirpe, e con l´articolo 553 del Codice penale vieta l´informazione sugli anticoncezionali, assimilati a materiale pornografico. Senza questi dati elementari, oggi sarebbe difficile capire il senso di slogan come «io sono mia», oppure «l´utero è mio e lo gestisco io», così simili al «potere studentesco» del ‘68 nell´utopismo sovrano e nella capacità di rendere lo spessore della storia.
Un corpo sociale minimamente sensibile vedrebbe l´aborto clandestino come una ferita, una classe politica e intellettuale responsabile come un´urgenza. Ma tutto resta fermo finché non si fa strada il movimento delle donne, più variegato, ampio, influente, di quanto si aspettavano le stesse femministe. La campagna per la depenalizzazione è anzi in tutto l´occidente la svolta verso una dimensione di massa - anche le legislazioni democratiche criminalizzano l´aborto, sia pure con motivazioni diverse da quelle del codice fascista - e verso un nuovo clima più benevolo e solidale.
L´interessante è che la lotta esplode quasi contemporaneamente in paesi molto diversi, e che segue una strategia per certi aspetti simile. Spesso si parte da un processo altamente scandaloso per la condizione dell´accusata - giovane età, gravidanza in seguito a stupro, problemi economici o di salute - e se ne fa un «caso» capace di scuotere l´opinione pubblica. In Italia spiccano il processo del ‘73 alla giovane Gigliola Pierobon, e l´incriminazione nel ‘74 a Trento di 273 donne. E´ comune anche il passaggio alla pratica degli obiettivi, come si diceva allora, con la creazione di Centri in cui si praticano aborti o si organizzano viaggi in Inghilterra e Olanda.
L´impalcatura delle leggi proibizioniste crolla dovunque più rapidamente del previsto. Perché i tempi sono cambiati, ma soprattutto perché fra le donne ha prevalso una strategia saggia, visibilità e provocazione da un lato, realismo dall´altro, vale a dire ancoraggio all´esperienza. E grazie a questo legame che il femminismo sostituisce alla contrapposizione aborto/non aborto quella fra aborto legale e aborto clandestino, che insiste sul destino dei figli non voluti, che si interroga sul concetto di diritto all´aborto, sul senso stesso di una legge.
E qui le strade divergono. Nei gruppi del femminismo storico si teme che quel concetto riduca l´aborto a una tappa fra le altre nell´allargamento dei diritti civili; ci si chiede se sia il caso di sostenere una legge che pretenda di decidere sul corpo delle donne, cui spettano invece «la prima parola e l´ultima». L´Udi preme per una regolamentazione, salvando però la facoltà di decidere delle donne. Le femministe della «nuova sinistra», che puntano alla depenalizzazione e insistono sul gap di classe, vedono nella lotta sull´aborto anche l´amata opportunità di uscire «all´esterno»; e uscita all´esterno vuol dire raccolte di firme, grandi manifestazioni, lavoro nei quartieri a fianco delle donne. E risultati. Una legge lo è. Sarà una buona legge, non la migliore possibile.
Questo è un pezzo di storia studiato e chiarito. Ce n´è un altro più in ombra, fitto di contraddizioni. Lo schieramento per la depenalizzazione - femministe, politici, intellettuali - insiste quasi in blocco sui costi fisici e psichici dell´aborto, fino a fare del dolore femminile un assoluto. Non è sempre stato così: nel ‘71 una femminista nota, Elvira Banotti (La sfida femminile, De Donato), aveva sostenuto che l´aborto può essere anche un momento di libertà e di pienezza; che se qualcuna lo vive come un trauma, è perché da secoli lo si considera un peccato e un crimine: una tesi che semplifica l´insemplificabile, e che viene accantonata senza discuterla. Nel medesimo schieramento, si parla delle donne come di vittime, ma senza spiegare se siano o no le uniche. Si definisce mortifero l´aborto, ma lo si dice in senso simbolico.
Si crea così un modello di racconto, un copione in cui la donna soffre e agisce per stretta necessità. E questa diventa l´unica cifra socialmente accettabile per raccontare un´esperienza che è invece carica di ambivalenze, a cominciare dal rapporto con il feto.
Dietro quel copione ci sono buone ragioni di ordine politico. Il fronte antidepenalizzazione assimila l´aborto all´omicidio, alcuni gruppi «pro life» usano (e osano) mostrare fotografie di minuscoli feti con braccia gambe testa, bambini in miniatura. I partiti di sinistra esitano; più che una mediazione si profila un compromesso. Ma ci sono anche altre inquietudini. Parlare di aborto implica definire cos´è vita, quando comincia, in che rapporto stia con la coscienza, e forse concentrarsi sul dolore è un modo per non chiedersi chi o cosa lo provoca, chi o cosa viene rimpianto. A dispetto delle sue molte voci, su questo punto il femminismo rimane quasi del tutto silenzioso, le donne rischiano di consegnare il monopolio dell´etica ai credenti, alla Chiesa - o ai suoi politici di fiducia.
Eppure fra i due estremi del feto-persona e del feto-grumo di cellule, anche in questi anni c´è uno spazio in cui lavorare. Fra le studiose americane di filosofia morale, qualcuna si confronta seriamente con gli argomenti «pro life», ma spostando l´attenzione dalle caratteristiche del feto al suo rapporto con la donna.
Passaggio importante: una cosa è attribuirgli i diritti fondamentali, altra cosa è sancire il suo diritto specifico a ricevere tutto quel che gli è necessario per vivere. Judith Jarvis Thomson ricorre a un paradosso: ammettiamo, scrive, che un cittadino prezioso, per esempio un violinista inarrivabile, possa restare in vita solo se una donna - quella e nessun´altra - accetta di metterglisi al fianco e di restarci ininterrottamente, collegata a lui da una macchina. Per lei, dire di sì diventa un obbligo morale? O, più sensatamente, è un´opzione che è libera o no di scegliere, anche se il rifiuto porta alla morte di lui?
Troppo astratto, aveva detto qualcuna all´epoca.
Ma anni dopo se ne trova eco in un atto unico di Jane Martin, Keely and Du, dove una giovane donne violentata dal marito e decisa a abortire viene rapita da un prete e dalla sua aiutante, che per scongiurare quello che giudicano un omicidio decidono di tenerla incatenata fino al parto, ridotta a puro contenitore del feto. «Per amore», dicono, e l´autrice, raccontando la relazione che nasce fra le due donne, lascia capire che, per quanto deviato, è in parte reale. Programmato in Italia a marzo, Keely and Du è stato ben accolto. Segno, forse, che la disponibilità a misurarsi con il nucleo etico dell´aborto è aumentata. Qualcuno lo considera un guadagno: parlando degli anni Settanta, un uomo raccontava tempo fa di aver sottoscritto tutti gli appelli per la depenalizzazione. Oggi li avrebbe firmati ugualmente, spiegava, ma dopo aver pensato di più e a molte più cose di allora.

Liberazione 21.5.08
I dolori (e le capriole) di Walter
Le manovre di Veltroni e le inquietudini nel Pd
di Rina Gagliardi


All'apparenza, sembrerebbe proprio un cambiamento di linea politica: Veltroni apre a sinistra e si dichiara disponibile, nientemeno, che a "verificare le condizioni di un nuovo centrosinistra" - insomma, di una nuova alleanza con le forze della sinistra radicale. E la strategia dell'autosufficienza? E la "vocazione maggioritaria"? E la più che conclamata volontà di non ripetere gli errori del passato, leggi l"ammucchiata" che fu l'Unione? Va bene che in politica domina oramai la legge della memoria corta, anche e soprattutto su se stessi.
Ma se fosse davvero così, saremmo a una svolta relativamente clamorosa, o a una disinvoltura tattica francamente esagerata. Allora? Allora forse è il caso di andare oltre l'apparenza, per tentar di capire che cosa sta succedendo nel Partito Democratico, ovvero nelle sue non pacifiche dinamiche.
Il fatto è che a un mese e più da quel disgraziato 14 aprile, Veltroni continua a non riconoscere quel che era già allora palese: che, se Berlusconi aveva vinto, anzi stravinto le elezioni, il Pd le aveva perse. E le aveva perse non solo, ovviamente, sul piano quantitativo, ma su quello, per così dire, "strategico": cioè spolpando la sinistra e il suo bacino di consenso, ma fallendo nell'obiettivo (cruciale) del così detto "sfondamento al centro", al quale, all'opposto, il Pd cedeva porzioni significative di elettorato. Dunque, era proprio l'idea-clou della strategia veltroniana ad esser messa in discussione: il partito del centro "riformista", da solo, non ce la fa a vincere. Almeno in Italia, almeno per cinque o dieci anni, l'architettura bipartitica funziona cioè a senso unico, a favore di una destra non solo sempre più forte, ma sempre più abilmente inclusiva e "moderata" - e inchioda lo stesso centro riformista, suo malgrado, a una (insopportabile) "vocazione minoritaria". Il leader del Pd, dicevamo, non ha mai avviato questo genere, o un altro consimile, di riflessioni ed anzi si trincera, a tutt'oggi, dietro la consolazione del "grande successo" elettorale ottenuto. Ma l'altro fatto è che nel Pd non tutti si sentono così appagati del "secondo posto" ottenuto (come l'ottima Roma). Non tutti sono così convinti che, per il futuro, ci si possa rigidamente attestare sulla rottura di ogni alleanza a sinistra. Non tutti, infine, sono così intimamente soddisfatti del profilo di "co-governo" che il cabinet shadow veltroniano ha assunto, nelle sue prime giornate di vita (fino agli eccessi di Piero Fassino, che, proprio ieri, su sicurezza e migranti e Rom, ha difeso con veemenza il governo Berlusconi e quasi con altrettanta veemenza ha criticato il governo spagnolo). Al di là della riesplosione del solito eterno duello "tra Massimo e Walter", insomma, nel Pd sta affiorando una inquietudine di fondo, sulle scelte politiche di fondo. E come si fa a non essere inquieti se lo scenario italiano, di qui ai prossimi anni, si presenta con un governo di destra robusto e stabile, un Pd responsabile e collaborativo, un Di Pietro che galoppa nei consensi popolari, a forza di grida giustizialiste e di antiberlusconismo d'antan, fino al punto di guadagnarsi il ruolo di unica vera opposizione politico-parlamentare?
Dunque, la verità è che Veltroni oggi si trova di fronte non ai soliti, banali contenziosi dei gruppi dirigenti, ma a difficoltà politiche molto serie. Alla crisi oggettiva della sua "costruzione" politica - un partito che o è di governo o (quasi) non è. E al rischio che, alla prossima verifica elettorale, le cifre comincino ad assottigliarsi. Le europee, per esempio, che sono previste all'incirca tra un anno - senza l'arma del voto utile, senza lo spettro di Berlusconi, senza solide spinte alla partecipazione al voto, chi ha detto che quel 34 per cento scarso si conservi o si consolidi? E chi può esser sicuro che la (sciagurata) idea del quorum di sbarramento, concepita per liberarsi definitivamente, manu militare, di ogni rappresentanza della sinistra, vada davvero in porto? E' per queste ragioni che il leader del Pd comincia fin d'ora a muoversi, e a muovere qualche pedina tattica. Senza mettere in discussione l'impianto generale del Pd, "flessibizza" la sua iniziativa politica, e lancia, a sinistra, offerte, a ben vedere, molto generiche. Classici ballon d'essai che, per un verso, sottintendono una più che ribadita volontà di primazia (la pretesa piddina di "rappresentare" una parte delle istanze della sinistra), per l'altro verso, puntano a dividere, a selezionare, a seminare zizzania. Insomma, senza proporsi di aprire un confronto o una riflessione politica di fondo, Veltroni cerca di mettersi al riparo dall'insoddisfazione interna - che cresce in regioni storiche come l'Emilia Romagna - e da critiche che potrebbero presto assumere un carattere più organico. Ma forse lo sa anche lui: Veltroni potrà rimanere leader del Pd per altri vent'anni, ma la crisi del veltronismo è già ampiamente in atto. Un (terzo) fatto che non possiamo non considerare salutare.

il Riformista 21.5.08
Conversazione sul voto italiano
«La sinistra italiana ha perso i deboli»
Bauman spiega la nuova destra no global
di Elisabetta Ambrosi


È possibile leggere il voto italiano come un voto contro la globalizzazione? E vedere nella scelta di coloro che, affascinati dalle tesi dell'autore di La paura e la speranza e ora ministro dell'Economia, hanno optato per il Pdl o per la Lega, una protesta più o meno consapevole verso processi economici e sociali che la sinistra non sa né governare, né contrastare? «Mentre la Lega prometteva di riportare sicurezza», afferma il sociologo Zygumt Bauman, «il neonato Partito democratico si è limitato a suggerire, più o meno esplicitamente, che avrebbe favorito una maggiore deregolamentazione del capitale e dei mercati e una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro; e un'apertura ancora più vasta delle porte del paese alle imprevedibili forze globali».
Bauman la globalizzazione l'ha studiata da sempre: è stato uno dei primi a scrivere, quando ancora essa era sinonimo di scintillante progresso, che l'apertura dei mercati non sarebbe stata un beneficio per tutti (tant'è che Laterza aveva giustamente illustrato il suo libro Dentro la globalizzazione . Le conseguenze sulle persone non con grattacieli, aerei e sale computer ma con un gruppo di migranti vestiti di stracci). Il sociologo di Leeds spiega al Riformista perché il logo "no global" è diventato appannaggio della destra, come già in Italia Cremaschi e Casarini avevano osservato con malcelata invidia. Se da un lato la sinistra ha promesso più globalizzazione, dall'altro ha proposto come terapia dei problemi che da essa nascevano soluzioni fallimentari, come un'azione statale di tipo nazionale. «Ma come si può pensare di arrestare l'ondata di una globalizzazione incontrollata di capitale, finanze, criminalità, droga e traffico di armi, terrorismo e migrazioni avendo a disposizione i mezzi di un solo stato?», dice l'autore di libri come Paura liquida e La solitudine del cittadino globale . «Qualcuno ci ha provato per la verità, come in Nord Corea e Cina, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Al di là di questi esempi, chi ha indicato nel progetto di uno stato sociale l'unico strumento per realizzare le sue promesse ha fallito, perché i poteri effettivi, quelli che decidono realmente delle nostre opzioni di vita e della sua qualità, sono evaporati dallo stato nazione allo spazio globale, dove fluttuano incontrollati».
Insomma, è come se la sinistra avesse auspicato l'apertura delle falle nella diga e insieme promesso di chiuderle con un po' di colla "nazionale". Logico che abbiano vinto le forze che quella diga promettevano di piantonarla, magari con le ronde, giorno e notte, perché non uscisse una goccia. Certo, continua lo studioso, anche quella della destra è un'illusione, perché «tornare indietro, girare le spalle agli affari globali, (miseria mondiale compresa), chiudere le porte agli stranieri, moltiplicare gli stati neofeudali non porterà sicurezza. Anzi, più le politiche locali sono polverizzate, più piccole e deboli sono le sue agenzie, più invincibili diventano i poteri globali che ignorano confini, i costumi e le aspettative locali».
Raccontare la globalizzazione agli elettori, e saper rispondere alle domande che essa suscita, è cosa ben complicata per destra e sinistra. «Il vero problema - dice il sociologo - non è tanto dire cosa andrebbe fatto, ma capire chi davvero sia sufficientemente potente e determinato nel farlo. La conditio sine qua non di un controllo politico effettivo sulle forze economiche globali è che le istituzioni politiche ed economiche operino al loro stesso livello; e che ci sia un'agenzia politica che abbia la portata territoriale dei poteri globalizzati. Eppure è proprio contro qualsiasi tipo di regola che le forze che fluttuano libere si scagliano».
Prima o poi la risposta alla globalizzazione andrà data. Ma in questo tentativo, conclude Bauman, la sinistra si trova messa peggio. Prima di tutto, perché la sua identità è confusa, visto che oscilla tra «una terza via globalizzante e un antagonismo che si nutre di no»; mentre per dirsi tale dovrebbe poggiarsi sull'assunto per cui «come il potere di tenuta di un ponte va misurato sul suo pilastro più debole, così la qualità di una società va misurata dalla qualità di vita dei suoi membri più deboli». In secondo luogo, perché è più facile proteggere militarmente la diga (o promettere che lo si farà), che trovare dei modi perché l'acqua che tracima a valle sia fonte di vita e non di morte. Ma almeno, immagini edil-politiche a parte, «smettiamola di raccontare a chi siede davanti alla sua casa minacciata dall'acqua, o chi vive sotto i ponti, che la globalizzazione fa sempre bene».

martedì 20 maggio 2008

l’Unità 20.5.08
Rom, l’Italia diventa un caso al Parlamento Ue
Oggi il dibattito. Schulz: «Dobbiamo evitare che succeda altrove». Frattini alla Spagna: basta interferenze
di Umberto De Giovannangeli


«FRANCAMENTE È ORA DI FINIRLA con queste invasioni di campo». Non è lo strascico velenoso di un infuocato finale di campionato. Ma la metafora calcistica utilizzata dal ministro degli Esteri Franco Frattini dà conto di un clima tutt’altro che rasserenato tra Italia e Spagna. E come se non bastasse, ecco che il «caso Italia-Rom» deflagra anche a Strasburgo. Il Parlamento europeo ha approvato con 106 sì, 100 no e due astenuti, la proposta avanzata dal gruppo dei socialisti europei di tenere oggi un dibattito in aula sulla situazione in Italia e in tutta Europa dei Rom. «Dobbiamo evitare che succeda anche altrove ciò che è successo in Italia, e vogliamo sapere che cosa ha fatto in passato e che cosa intende fare in futuro la Commissione europea», spiega il capogruppo del Pse Martin Schulz. «Abbiamo voluto, noi socialisti, che il Parlamento europeo desse un messaggio chiaro e forte sulla questione dei Rom ed in particolare sul grave clima di intolleranza e di odio che è stato alimentato nelle ultime ore in Italia», sostiene Gianni Pittella, presidente della delegazione italiana del Pse presso il Parlamento europeo. Il tema dell'integrazione dei Rom, rimarca Pittella, «è tema europeo e, pertanto, domani (oggi, ndr) chiederemo alla Commissione europea di attivarsi subito perchè chi delinque sia punito ma - conclude l'europarlamentare del Pse- chi vive onestamente, e sono la stragrande maggioranza, sia tutelato nei suoi diritti di cittadino al pari degli altri». «La campagna elettorale italiana, così focalizzata sui temi della sicurezza e della paura dell'immigrazione incontrollata, ha generato una “cultura dell'impunità” per chi oggi commette violenze nei campi Rom e stigmatizza gli immigrati”: il capogruppo dell'Alleanza dei Democratici e Liberali per l'Europa lo scozzese Graham Watson, ha utilizzato il suo minuto d'intervento libero, ieri pomeriggio a Strasburgo, per lanciare in plenaria il suo pesante e argomentato j'accuse contro gli episodi d'intolleranza verso i Rom accaduti recentemente in Italia, e che stanno preoccupando l'Europa. «Nei giorni recenti ci sono stati dei raid della polizia contro le comunità Rom a Roma, e tra i fermati 118 hanno ricevuto un ordine di espulsione immediata. Il nuovo sindaco della Capitale (Gianni Alemanno, ndr) ha detto che espellerà 20.000 persone», ricorda Watson, menzionando poi anche «gli attacchi ai campi nomadi di Roma e della periferia di Napoli, con gruppi di facinorosi che hanno impedito ai pompieri di spegnere i roghi». Il capogruppo euroliberale ha poi sottolineato che «centinaia di famiglie di immigrati sono fuggite per salvarsi la vita e ci sono rapporti che riferiscono di alcuni bambini dispersi. «Sappiamo che in molti nostri Stati membri ci sono problemi di attacchi contro le comunità immigrate, ma il livello di violenza in Italia è insolito», ha sottolineato il leader liberaldemocratico. «Persino il commissario Frattini, che era il primo a fare la lezione ai nuovi Stati membri sull'integrazione delle minoranze etniche, rimette ora in questione gli accordi di Schengen», incalza Watson, secondo il quale «la preoccupazione per questa questione è di portata europea, perché arriva al cuore delle ragioni che motivarono la fondazione dell'Unione europea». È «cruciale» fare una distinzione fra chi commette delitti e la «stragrande maggioranza» e «questa distinzione non viene fatta da tutti coloro che stanno partecipando alla discussione in Italia e questo è molto triste», annota Thomas Hammaberg, commissario per i Diritti dell'uomo del Consiglio d'Europa, riferendosi alla questione dei Rom, davanti alla commissione Libertà civili del Parlamento europeo durante la discussione della relazione sullo stato dei diritti fondamentali nell'Ue. «Per quanto riguarda la situazione in Italia - prosegue Hammaberg - è necessario riconoscere che esiste la libertà di movimento e che questa vale per tutti i gruppi etnici» Piove sul bagnato per l’Italia. Da Strasburgo a Madrid. Che la crisi tra Roma e Madrid sia tutt’altro che rientrata, lo si comprende dai toni, irritati, e dai contenuti, non proprio concilianti, utilizzati dal titolare della Farnesina in due interviste radiotelevisive. «Confido che Zapatero voglia in qualche modo indicare, ordinare, ai suoi ministri di evitare queste dichiarazioni che sono inutilmente polemiche e contro l’indirizzo dello stesso governo spagnolo», afferma in mattinata Frattini, commentando le dichiarazioni dell’altro ieri del ministro del Lavoro e dell’Immigrazione spagnolo, Celestino Corbacho. Si tratta di dichiarazioni «imprudenti ed estemporanee», rileva il ministro degli Esteri intervistato da Maurizio Belpietro su Canale 5. Passano poche ore, è l'irritazione del titolare della Farnesina si appalesa dai microfoni del Gr1. «In primo luogo - sottolinea Frattini - credo che non siano accettabili le dichiarazioni di ministri (spagnoli) che interferiscono con l’attività di un governo eletto dai cittadini italiani, tra l’altro, in materia di immigrazione per la quale occorre una cooperazione strettissima tra Spagna e Italia perché si tratta di un interesse comune». L’intervista radiofonica avviene dopo che il titolare della Farnesina aveva tenuto a rapporto l’ambasciatore italiano a Madrid, Pasquale Terraciano. Frattini incarica l’ambasciatore di promuovere un incontro, tra domani e giovedì, tra il ministro Andrea Ronchi e il suo omologo spagnolo delle Politiche europee per illustrare «ai colleghi spagnoli quello che non conoscono» sulla politica dell’immigrazione dell’attuale governo italiano.

l’Unità 20.5.08
«In 120mila vivono in campi tremendi»
Accampati in baracche tra amianto e rifiuti
La denuncia dell’europarlamentare Mohacsi


Illegalità diffuse, carenza di servizi igienici e di acqua potabile, sicurezza totalmente assente, retate notturne: la vita dei rom in Italia è tra «le peggiori in Europa». È l’analisi dell’eurodeputata ungherese di origine rom, Viktoria Mohacsi, dopo due giorni di visita negli insediamenti nomadi di Roma (Castel Romano e Casilino 900) e Napoli (Poggioreale). L’europarlamentare, ospite dei radicali, denuncia: «Il vostro Paese è tra i peggiori dell’Unione europea». Particolarmente grave la situazione a Napoli, dove «centinaia di rom. tra cui moltissimi bambini, vivono tra cumuli di rifiuti, in baracche costruite anche con amianto».
Mohacsi denuncia la vicenda di dodici bambini rom tolti ai genitori dal Tribunale dei minori, perché accusati di accattonaggio: «Di loro si sono perse le tracce; da due anni i genitori non sanno più nulla della loro sorte». Mohacsi sottolinea anche un altro aspetto anomalo: «l’Italia non ha chiesto neanche i soldi previsti dalla Unione europea per l’integrazione delle minoranze etniche. Da voi vivono 120 mila Rom in condizioni di semilegalità o illegalità totale. Ma se a questi aggiungiamo gli 80 mila che hanno la cittadinanza italiana, il numero totale in Italia è di 200 mila Rom». Quasi tutti, spiega l’eurodeputata, «sono fuggiti dalla Romania per lo più per scappare dalla fame e dalla miseria. E avrebbero per questo diritto allo status di rifugiati». Ad accompagnare Mohacsi a Napoli, una delegazione di deputati radicali eletti nelle liste del Pd tra cui Rita Bernardini, Maria Antonietta Farina Coscioni e Elisabetta Zamparutti.
«Durante la nostra visita nel napoletano - continua Mohacsi- abbiamo scoperto che questi campi vengono regolarmente visitati dalla polizia, soprattutto nelle ore notturne». Gli abitanti dei campi hanno raccontato infatti che alcuni poliziotti si presentano verso le 24 negli insediamenti, e «prendono a botte i rom senza dire nulla. Alcuni li arrestano per poi rilasciarli dopo 48 ore». Quei campi rom di Napoli, conferma la Bernardini, sono un’indecenza, «si vive lì in condizioni disumane ma tutta la città sta tra degrado e di abbandono». E avverte: attenzione «a non soffiare sul fuoco, a non far precipitare la situazione. Occorrono misure efficaci. Puntare tutto sul carcere e sull’innalzamento delle pene non porta da nessuna parte».

Repubblica 20.5.08
Il caso rom irrompe alla Ue accuse di "torture" all'Italia
L’eurodeputata Mohacsi: nei campi la polizia picchia
di Alberto D’Argenio


Hammarberg, del Consiglio d´Europa: evitare parole che scate-nano nuove fobie
Oggi a Strasburgo dibattito chiesto dal Pse. Schulz: non si parlerà solo del vostro paese

BRUXELLES - Situazioni di illegalità diffuse, mancanza di servizi igienici e acqua potabile, condizioni di sicurezza pubblica totalmente assenti, retate notturne: la realtà dei rom in Italia è «tra le peggiori in Europa». E´ la denuncia che l´eurodeputata ungherese di origine rom, Viktoria Mohacsi, lancia dopo due giorni di visita negli insediamenti nomadi di Roma (Castel Romano e Casilino 900) e Napoli (Poggioreale). Prima parlando ad un convegno organizzato a Roma dai Radicali, poi, in serata, intervenendo di fronte alla commissione Libertà pubbliche dell´europarlmento, dove rincara la dose: «La polizia tortura i rom». La Mohacsi aggiunge poi che la responsabilità politica degli ultimi casi di violenza, vedi l´assalto ai campi, a suo avviso è del governo Berlusconi.
Trentadue anni, tre figli, la parlamentare ungherese che milita nel gruppo liberale di Strasburgo è una vera specialista di rom. «Il vostro Paese - denuncia - è tra i peggiori dell´Unione». Particolarmente grave la situazione a Napoli, dove «centinaia di rom, tra cui moltissimi bambini, vivono tra cumuli di rifiuti, in baracche costruite anche con materiale in amianto». Quindi denuncia la vicenda di 12 bambini rom («ma potrebbero essere centinaia») tolti ai genitori dal tribunale dei minori, perchè accusati di accattonaggio: «Di loro si sono perse le tracce, da due anni i genitori non sanno più nulla della loro sorte». La Mohacsi aggiunge che l´Italia non ha mai chiesto fondi Ue per l´integrazione delle minoranze etniche.
Poi altri aspetti inquietanti che - dice - le sono stati raccontati da chi abita nei campi nomadi: «Questi campi vengono regolarmente visitati dalla polizia, soprattutto nelle ore notturne. Ci hanno spiegato che alcuni poliziotti si presentano verso mezzanotte e prendono a botte i rom che ci vivono, senza dire nulla. Alcuni li arrestano per poi rilasciarli dopo 48 ore». Insomma, aggiunge l´europarlamentare in serata di fronte ai colleghi della commissione parlamentare di Strasburgo, «ci sono dei veri e propri casi di tortura da parte delle forze dell´ordine, ci sono violenze che non vengono mai denunciate perché chi le subisce non ha i documenti». E la responsabilità politica degli assalti contro i campi della settimana scorsa, denuncia, è del clima che si è venuto a creare dopo le dichiarazioni «del ministro dell´Interno Roberto Maroni». Ha scatenato «un dibattito xenofobico che propaga il pregiudizio e promuove l´equazione rom uguale a criminale, il che va contro i valori dell´Unione europea». Parole durissime seguite da quelle di Thomas Hammarberg, responsabile per i diritti umani del Consiglio d´Europa intervenuto a Strasburgo subito dopo la Mohacsi: «I politici devono evitare affermazione che portano alla fobia, è necessario distinguere i criminali dagli altri, cosa che in molti oggi in Italia non fanno, il che è molto triste».
Proprio oggi il caso-rom irrompe nell´agenda dell´europarlamento. Ieri pomeriggio il Pse, sostenuto dai Verdi e dai Liberali della Mohacsi, ha chiesto a gran voce che oggi in plenaria si tenga un dibattito sul tema con tanto di intervento della Commissione Ue. Discussione, precisa Martin Schulz, capogruppo socialista a Strasburgo, che «non deve toccare solo la situazione in Italia, che oggi è particolarmente difficile, ma quella in tutta Europa». La richiesta è stata respinta dal Partito popolare europeo, di cui fa parte Forza Italia, e poi messa ai voti. Alla fine hanno vinto i socialisti (106 sì contro 100 no) e oggi se ne parlerà nell´emiciclo. Soddisfatto il capogruppo italiano nel Pse, Gianni Pittella: «Nelle ultime ore in Italia è stato alimentato un grave clima di intolleranza e di odio».

Repubblica 20.5.08
Dioniso e Venere. Il mito dello straniero e l’ospite sgradito
di Marino Niola


Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita culturale

Dalla parola latina "hostis" si può ricavare l´ambiguità di certe figure che arrivano dell’esterno

La rabbia contro gli immigrati monta impetuosa come un´onda. La nostra società sembra attraversata da un improvviso rigetto di ogni corpo estraneo. Pare ormai superata quella soglia oltre la quale la presenza degli stranieri viene percepita come una ragione d´allarme. Un pericolo fuori controllo. I fatti sono nuovi, ma la questione è antica. Nelle cronache di questi giorni si avverte, infatti, l´eco profonda di problemi e parole che vengono da molto lontano, da quel mondo greco e romano di cui siamo figli, in cui nascono i principi e i valori che ancora oggi professiamo. È il caso dei nomi che usiamo per parlare del rapporto con lo straniero, delle paure che esso suscita e al tempo stesso della necessità dell´accoglienza. Termini come straniero, ospite e nemico, che per noi hanno significati ben distinti, in origine sono strettamente interconnessi tra di loro. Che si tratti di un groviglio di problemi inseparabili lo rivela anche la confusione, solo apparente, della nostra lingua che definisce come ospite sia chi accoglie sia chi viene accolto.
In certi casi le parole parlano da sole e ci dicono che siamo di fronte a figure e questioni inestricabilmente intrecciate sin dalle sorgenti delle civiltà indoeuropee. In latino uno stesso vocabolo, hostis, definisce sia lo straniero sia il nemico sia l´ospite. Solo più tardi compare la parola hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto. Il che indica che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. E proprio per tale ambivalenza esso va accuratamente regolamentato. E il greco xenos, prima ancora di significare il forestiero, indica soprattutto l´ospite. Così è per esempio nell´Iliade e nell´Odissea. I significati variabili di queste parole riflettono le incognite del rapporto con l´altro, ricco di possibilità, ma anche di insidie. Fattore di crescita, ma anche veicolo di contaminazione.
Il mito greco - che dalle sue profondità lontane continua a coniugare il nostro tempo al "presente remoto" - designa proprio col termine epidemie i rituali celebrati per l´arrivo degli dei stranieri. Come Dioniso, il simbolo della mobilità e del fermento vitale.
Dioniso era per i Greci lo straniero per antonomasia. Il dio che giunge da lontano. Inatteso, sconosciuto e spesso sgradito. Un dio epidemico nel senso più profondo del termine. Secondo il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne, il termine epidemia in origine non apparteneva al vocabolario della medicina, bensì a quello della religione arcaica e veniva impiegato proprio per indicare la manifestazione improvvisa di una presenza ignota. Dioniso irrompeva nella vita dei Greci come un ospite non invitato, portato dalle onde su un´imbarcazione di fortuna, una carretta del mare.
I rituali che lo celebravano, le cosiddette epidemie dionisiache, consistevano spesso nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente respinta. Il rito si caricava dunque di un profondo significato politico e sociale, elaborando i sogni e gli incubi del cittadino greco poiché rappresentava il pericolo e al tempo stesso la necessità dell´ospitalità, il disordine e la ricchezza della contaminazione. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi dello sviluppo.
E se lo sbarco di Dioniso era chiamato epidemia, uno dei nomi di Venere, la dea dello scambio erotico e del contatto fra i corpi, era addirittura Pandemia. Un nome che aveva in sé tutta l´insidiosa doppiezza dello scambio. Che è contatto ma anche contagio. Un´ambiguità chiaramente fotografata nella nostra lingua che usa ancora parole come venereo per definire certe conseguenze dell´amore. Il dio epidemico e la dea pandemica rappresentavano nel linguaggio dei simboli la forza vitale della mescolanza, ma anche i suoi pericoli. I pro e i contro della crescita economica e culturale. È sorprendente come il mito riesca a farci interpretare e capire il presente con la chiarezza di un fotogramma originario che illumina le profondità dell´essere individuale e collettivo, facendo balenare una verità che sfugge ai dati della cronaca e alle cifre delle statistiche.
Ostilità, ospitalità, xenofobia. Le parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell´apertura agli stranieri. Apertura che è tuttavia indispensabile, ora come allora. Ma sempre a certe condizioni. Nemmeno gli ospitalissimi Greci accoglievano chiunque e comunque. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto, e perciò garantito, dalla condizione del semplice sconosciuto. Del clandestino, dell´homeless, del sans-papier, dell´asylant, per dirla con le parole di adesso.
Ieri come oggi i rapporti tra noi e gli altri attraversano fasi che dipendono dallo stato di salute dell´economia e dalla tenuta del legame sociale. Alternando sistole e diastole, contrazione e dilatazione dell´ospitalità. La sicurezza e il benessere rendono tutti più solidali. Al contrario, più cresce il senso d´insicurezza e più l´altro viene vissuto come un nemico potenziale. Perché quando si ha paura tutto fruscia, diceva Sofocle. E la sensazione di essere assediati ci chiude la mente e il cuore.

Repubblica 20.5.08
L’altro da sé. Perché ci sentiamo sempre più minacciati. "Vi racconto come pensa uno xenofobo"
Intervista a Alain Touraine


PARIGI. «Viviamo in una società in cui ci sentiamo spesso minacciati. La mondializzazione, le catastrofi naturali, la crisi economica, le difficoltà della vita quotidiana. Abbiamo la sensazione di non riuscire più a far fronte a minacce che sono spesso indefinite e imprevedibili. Ci sentiamo senza difese e incapaci di agire, di conseguenza abbiamo paura. Una paura indistinta che trasferiamo sugli altri, soprattutto sugli stranieri». Alain Touraine non ha dubbi, la xenofobia è una reazione che rivela le contraddizioni di una società sempre più disgregata e incerta. «Attraverso la xenofobia si manifesta la paura di chi, al di là del passaporto, è diverso da noi fisicamente, ma anche sul piano della cultura, della religione o degli stili di vita. Le caratteristiche dell´altro però sono solo un pretesto per poter proiettare su di esso le nostre angosce», spiega il sociologo francese che ha appena pubblicato La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore), un volume che viene ad aggiungersi ai molti altri già tradotti in italiano. «Rifiutando l´altro a partire da questa o quella caratteristica, la xenofobia mette in moto una dinamica che giunge perfino a negare l´umanità dell´altro, dichiarandolo non umano in quanto integralmente diverso da noi. La disumanizzazione dell´altro è una delle conseguenze più gravi della xenofobia».
Significa che lo xenofobo irrigidisce e assolutizza la nozione di altro da sé?
«Per lo xenofobo diventa impossibile vivere insieme agli altri, nei confronti dei quali agisce un vero e proprio tabù. Gli altri sono percepiti come essere impuri, la cui presenza minaccia una comunità idealizzata come pura e quindi da preservare da eventuali contaminazioni. In questo modo, nasce lo straniero assoluto, che diventa una minaccia globale da cui ci si deve difendere. Condotto alle estreme conseguenze, tale ragionamento produce il razzismo, vale a dire la forma più radicale della xenofobia. Naturalmente, chi è xenofobo si muove sempre sul piano generale, stigmatizzando un´intera comunità, anche se poi, sul piano personale, avrà sempre un amico arabo, senegalese o rumeno da esibire per respingere ogni accusa di xenofobia».
Le sembra che oggi la xenofobia sia in crescita?
«Sì e naturalmente ciò mi preoccupa molto, perché si tratta di un segno inquietante per la nostra società. Certo, se ci si colloca in una prospettiva storica, dobbiamo riconoscere che la storia del mondo è spesso stata dominata dal rifiuto degli altri, dei barbari, dei diversi. In passato, abbiamo avuto situazioni molto più gravi di quelle odierne, come quelle nate dalla tratta degli schiavi e dal colonialismo. Oggi però, dopo un lungo periodo in cui la xenofobia sembrava progressivamente arretrare, mi sembra che si stia tornando indietro. Si ritorna alla barbarie. E la xenofobia è una delle sue manifestazioni».
Quali sono le cause di tale evoluzione?
«Viviamo in una società più aperta e mobile, nella quale i contatti tra popolazioni differenti sono più facili e costantemente in crescita. È una situazione che produce conseguenze contraddittorie. Accanto all´apertura e alla disponibilità, si manifesta anche l´esasperazione dell´inquietudine che alimenta il rifiuto degli altri. Ma quando un´intera comunità viene osteggiata e respinta, finisce per ripiegarsi su se stessa, sprofondando nel risentimento. Il riflusso comunitario e la xenofobia sono strettamente intrecciati. Si alimentano vicendevolmente».
La xenofobia nasce anche da una crisi d´identità?
«Certamente, ma non è combattendo chi è diverso da noi che si rafforza la nostra identità. Al contrario, la coscienza della propria identità si accresce nel dialogo con l´altro da sé. In ogni caso, è vero che la xenofobia nasce quando un´identità si sente fragilizzata da minacce non immediatamente riconoscibili. Oltretutto, la mondializzazione, oltre a rimettere in discussione la nostra identità, minaccia la nostra capacità di agire. Sempre più spesso ci sentiamo deboli e impotenti. In alcune situazioni, come ha sottolineato il sociologo Alain Ehrenberg, assistiamo a un vero e proprio crollo dell´io. Allora diventa facile scaricare la responsabilità di tale situazione su qualcun altro che è riconoscibile attraverso questa o quella caratteristica specifica. La minaccia imprecisa e sfuggente diventa così immediatamente identificabile e quindi più facile da respingere. È la dinamica del capro espiatorio».
Di fronte a queste problematiche, la sinistra è spesso accusata d´ingenuità e d´eccessiva comprensione per gli stranieri. Che ne pensa?
«In passato, in nome dei valori dell´Illuminismo, la sinistra ha giustificato la colonizzazione. Quindi non è vero che essa sia sempre stata dalla parte degli altri. Detto ciò, è vero che oggi la sinistra viene spesso accusata di essere troppo accondiscendente nei confronti degli immigrati. Personalmente, non credo sia vero. Semplicemente cerca di resistere a un discorso dominante che utilizza il tema della sicurezza per giustificare un discorso xenofobo. Naturalmente, la sicurezza è un diritto di tutti che va garantito, specie alle popolazioni più deboli e precarie. Non bisogna però cadere nella demagogia, rendendo responsabile delle nostre difficoltà interi gruppi di popolazioni. Oggi tutte le statistiche ci dicono che la criminalità è opera soprattutto di giovani non immigrati. La minaccia criminale quindi viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Non sono gli immigrati che vivono nell´insicurezza a minacciare la nostra sicurezza. Bisogna continuare a ripeterlo e cercare di elaborare politiche in grado di tenere insieme accoglienza degli altri e diritto alla sicurezza. Anche se certo ciò non è sempre facile».
Cosa si può fare concretamente per far arretrare la xenofobia?
«Al di là del discorso classico che tenta d´intervenire sulle cause sociali ed economiche che alimentano la paura, mi sembra importante favorire il dibattito e le decisioni politiche a livello locale. È importante che ci sia un dialogo diretto tra i cittadini e gli amministratori politici, perché solo così diventa possibile elaborare politiche efficaci che non siano xenofobe. La discussione è insostituibile, perché consente di smontare e decostruire il discorso della xenofobia, mostrando ai cittadini che gli immigrati non sono una minaccia. La riflessione e la discussione consentono di evitare le reazioni irrazionali. Solo così si sfugge alla paura».

Corriere della Sera 20.5.08
Patto a quattro Pse, liberaldemocratici, verdi e sinistre hanno i numeri per censurare Roma
Strasburgo, maggioranza anti Berlusconi
di Ivo Caizzi


BRUXELLES — Nell'Europarlamento si sta formando una maggioranza per attaccare il governo Berlusconi sul rispetto dei diritti dei rom e degli immigrati romeni. La prima indicazione è arrivata quando l'Aula semivuota di inizio sessione a Strasburgo ha fatto passare con un 106 a 100 la proposta del partito socialista europeo (Pse) di dibattere oggi l'argomento e chiedere l'intervento della Commissione europea, respingendo l'opposizione del partito popolare europeo (Ppe), che accoglie Forza Italia ed è il più numeroso dell'Assemblea Ue.
Anche ad Aula piena Pse e liberaldemocratici (a cui aderiscono le componenti del Pd), insieme a Verdi e Sinistre, hanno i numeri per mettere in minoranza il Ppe e la Destra, che accoglie An e Lega Nord. Già prima dei soliti incontri notturni del lunedì trapelava un accordo di massima tra i quattro gruppi in vista del dibattito di oggi. Il numero uno dei socialisti, il tedesco Martin Schulz, «nemico» storico di Berlusconi, spicca tra i promotori dell'iniziativa politica a tutela dei diritti dei rom e degli immigrati romeni. Ha precisato che la sua richiesta di dibattito «prende avvio dall'Italia, ma non si limita ad essa» e punta a «evitare che succeda altrove quello che è successo in Italia». Per dopo la discussione, i parlamentari romeni del Pse hanno organizzato una cena con molti giornalisti per denunciare internazionalmente la difficile realtà dei connazionali immigrati in Italia. Il leader dei liberaldemocratici, il britannico Graham Watson, ha parlato di «un livello di violenza inusuale» in Italia contro le minoranze straniere anche a causa della campagna elettorale, che «ha portato avanti una cultura dell'impunità » per chi attacca gli immigrati. Watson ha rilanciato il rapporto dell'eurodeputata ungherese rom, Viktoria Mohacsi, che denuncia violazioni in Italia contro la sua etnia e accusa le autorità giudiziarie di Napoli della scomparsa di almeno 12 bambini, tolti ai genitori perché usati per l'accattonaggio.
Differenze restano tra Pse, liberali, Verdi e Sinistre sull'intensità dell'attacco al governo Berlusconi. Le componenti più aggressive premono per far chiedere alla Commissione di verificare eventuali violazioni dei Trattati Ue sul rispetto dei diritti umani come quando esplose il caso del leader austriaco Haider. Anche la co-presidente dei Verdi, Monica Frassoni, ha sostenuto che il dibattito dovrebbe affrontare la questione degli strumenti europei ancora «non utilizzati ». Il Consiglio d'Europa, l'organismo allargato ai Paesi europei extra-Ue, ha richiamato a distinguere tra i pochi immigrati colpevoli di reati e la stragrande maggioranza impegnata nel lavoro affermando che «questa distinzione non viene fatta da tutti coloro che stanno partecipando alla discussione in Italia».

l’Unità 20.5.08
Veltroni-Sd: confronto per un nuovo centrosinistra
Faccia a faccia tra il leader Pd e il segretario Fava
Rassicurazioni sulle Europee: no a sbarramento-capestro
di Bruno Miserendino


VELTRONI E CLAUDIO FAVA, neosegretario di Sinistra Democratica, lo chiamano «patto di consultazione». Traduzione, il dialogo riprende con una rassicurazione: il Pd non si muoverà sulla legge elettorale per le europee senza consultare le forze alla sua sinistra. Insomma non avallerà sbarramenti capestro. Veltroni l’aveva già chiarito, ma ieri l’ha ribadito nell’incontro con Fava. Il succo è che dopo l’abisso del 13 aprile il Pd tenta di capire cosa accade alla sua sinistra e se ci sono le condizioni per «ritrovarsi» con quell’arcipelago uscito devastato dalle elezioni. Al momento il dialogo sembra avviato solo con Sinistra Democratica. Vendola, candidato alla segreteria di Rc, per ora chiude la porta a possibili incontri col leader del Pd. Sortita considerata troppo dura da molti di Sinistra Democratica e del Pd e condizionata dagli equilibri della partita congressuale. Invece Veltroni e Fava hanno stabilito di rincontrarsi a breve e su una cosa sembrano d’accordo: nessuna nostalgia del «vecchio» centrosinistra, Sinistra democratica non prevede di confluire nel Pd, ma l’obiettivo comune è capire se si può costruire qualcosa di nuovo. Indicative le parole usate nel comunicato congiunto: «Veltroni e Fava hanno registrato sintonia sulla necessità di avviare un confronto politico per costruire, in Italia e a livello locale, le condizioni di un nuovo centrosinistra basato su reali intese programmatiche e su una sfida di governo capace di innovare il paese». Parole soppesate: il termine nuovo centrosinistra, che sembra qualcosa di diverso dalla vocazione maggioritaria proclamata alle elezioni dal Pd, è bilanciato dal riferimento alle reali intese programmatiche e alla sfida del governo. «Niente di nuovo - spiegano dalle parti di Veltroni - la linea non cambia, abbiamo già spiegato che vocazione maggioritaria non ha mai voluto dire autosufficienza, significa che il Pd punta sempre al rapporto diretto con gli elettori e condiziona le alleanze alla chiarezza programmatica». In fondo, aggiungono al loft, lo disse in tempi non sospetti Goffredo Bettini, dopo la divisione consensuale con la sinistra radicale: «Separarsi per ritrovarsi». Solo che l’apertura non piace a tutti, e gli ex popolari del Pd sono un po’ guardinghi.
Naturalmente in questa ripresa del dialogo ognuno ha le sue attese. Veltroni si aspetta che l’Arcipelago della sinistra trovi linguaggi nuovi e che emerga una realtà pronta a sfide riformiste di governo, in modo che un’alleanza futura, almeno a livello locale, sia credibile. Per questo vuole il dialogo ed è pronto a rappresentare in parlamento anche le sensibilità della sinistra radicale. Il patto di consultazione con chi ci sta serve a questo e a coordinare politicamente l’opposizione a Berlusconi. Come in fondo hanno chiesto a Veltroni nella riflessione post voto: si dialoga con tutto ciò che c’è intorno, dall’Udc alla sinistra che non è entrata in parlamento. Il problema è che il rapporto con Casini, che sta a cuore a diverse anime del Pd, non decolla. L’Udc è ancora molto attratta dalla Destra.
Quanto al nodo della legge per le europee, a cui comunque bisognerà mettere mano, Veltroni spiega che uno sbarramento al 2-3‰, come vorrebbe il Pd, conviene sia a Casini, che all’Idv e anche alla nuova sinistra che verrà. Ma qui non c’è ancora sintonia. Fava ha ribattuto che una nuova legge per le europee non è una priorità: «È un falso problema», dice spiegando però che in ogni caso Sinistra Democratica non andrà da sola. «Noi non entreremo nel Pd e ci fa piacere - aggiunge - che si stia superando il mito dell’autosufficienza». Tuttavia sulle alleanze locali avverte: «Non è una shopping-list, non ci si allea in una realtà sì e in una no, a seconda delle convenienze, come vorrebbe il Pd, o si lavora per un nuovo centrosinistra o la nostra disponibilità non c’è. Non è una minaccia...». Fava e Sinistra democratica, a quanto pare, si assegnano il compito di favorire la nascita di una nuova sinistra che faccia un salto rispetto all’oggi, e ci tengono a precisare che non c’è una corsia preferenziale tra loro e il Pd. Come dire: bisogna riflettere e scremare, se la sinistra si presenta con la falce e il martello non va distante. Messaggio diretto a Rifondazione.

l’Unità 20.5.08
Ma Vendola prende le distanze: niente incontri
No al bipartitismo, «non ci avvitiamo in gomitoli di furbizia». E propone una costituente di sinistra
di Simone Collini


ALTRO che patto di consultazione permanente. Nichi Vendola prende le distanze dal Pd e mette in chiaro che Walter Veltroni lui non intende neanche incontrarlo.
«Questo non è il tempo delle parole che si avvitano in gomitoli di furbizia». E poi, altro che nuovo centrosinistra: «Se l’ambizione di Veltroni è ancora quella di passare dal bipolarismo al bipartitismo, questo è il nostro principale obiettivo di polemica».
Vuole il caso (ma fino a un certo punto) che nel giorno in cui il neocoordinatore di Sinistra democratica Claudio Fava vede il leader del Pd, il governatore della Puglia arriva all’Alpheus di Roma per presentare la mozione congressuale con cui si candida a segretario di Rifondazione comunista. Inevitabile, prima che Vendola prenda la parola in una sala gremita all’inverosimile, domandargli dei rapporti con il Pd: «L’interlocuzione è fondamentale, ma solo con l’auspicio che questo possa spostare l’asse della politica di Veltroni a sinistra. Oggi il rapporto è quello di una contesa e di un conflitto molto aspri». Il Pd può rappresentare le istanze della Sinistra in Parlamento? «Tenderei ad escluderlo. Il partito che Veltroni ha immaginato con la sua deriva neo-centrista difficilmente può inglobare la nostra voce». Si può parlare di un nuovo centrosinistra? «È un auspicio di Fava, aspettiamo di leggere queste parole dalla bocca di Veltroni. Anche perché il veltronismo in questa fase è stato la costruzione del mito dell’autosufficienza. Il Pd per uscire da questo pantano e da questo angolo ha bisogno di gesti chiari e coraggiosi».
Parole dettate dall’analisi che Vendola fa della situazione politica, ma che non sono indifferenti rispetto al dibattito interno al Prc. Il governatore della Puglia può spingersi a cancellare la parola «comunista» - «Manifesto per la Rifondazione» è il titolo della mozione con cui si candida a segretario - e proporre una «costituente» della sinistra che vada al di là dei confini del Prc (l’Arcobaleno, dice, è stato «una cartolina illustrata che copriva vecchi cimeli») perché va abbandonata «l’icona del nemico, soprattutto se interno». Ma sa anche che per perdere il non facile congresso di luglio può bastare che i suoi avversari (da Ferrero a Grassi) gli attribuiscano l’intenzione di un rapporto privilegiato col Pd, o peggio. Da qui le parole dure nei confronti dei democratici, tese a sgombrare il campo da ogni dubbio. «Diciamo al Pd che i suoi giochi sono pericolosi», scandisce nella sala gremita di militanti e simpatizzanti (poco il ceto politico, Bertinotti firma la mozione ma non si fa vedere, Giordano arriva a iniziativa cominciata e si mischia tra la folla). Ma c’è anche un altro obiettivo polemico. Dopo aver esortato a «liberarci della spocchia», ad abbandonare l’idea che basti presentarsi con falce e martello per recuperare, Vendola dice: «Altri del partito ascoltino. Non usate il Pd come una clava al nostro interno. E soprattutto non indicate me come se fossi pronto ad andare dall’altra parte. Sono comunista da decenni e se avessi voluto il salto della quaglia lo avrei già fatto. Tagliate queste miserie dal confronto interno perché così ci facciamo solo del male».

l’Unità 20.5.08
Aborto. «Rompiamo il mito»
Famiglia cristiana: «Cambiamo la 194 i numeri ci sono»


Rompere il «tabu» della legge 194, divenuta quasi un mito «intoccabile». Famiglia Cristiana, nell’editoriale di apertura, parte all’attacco e dice: ci sono i numeri per cambiare questa legge. «È ora di sgretolare il mito della legge 194», titola l'editoriale, una legge che - aggiunge - ha sicuramente contribuito, lo dicono i numeri, all' inverno demografico, ma che non si riesce a rivedere, un tabù intoccabile, in un Paese dove si cambia perfino la Costituzione, una norma che intendeva far emergere l'aborto ma che, in pratica, l' ha legalizzato».
La legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza compie 30 anni tra pochi giorni e, a suo favore, porta numeri che non possono essere ignorati: nel trentennio secondo i dati dell'Istituto Superiore di sanità (Iss) sono state evitate oltre 3.300.000 interruzioni, tra cui 1.000.000 di aborti clandestini, e sono stati scongiurati centinaia di decessi legati appunto alla clandestinità. In realtà - sottolinea Famiglia Cristiana - una verifica dell'efficacia della legge 194 era nei programmi anche dei promotori, tra i quali il senatore del Pci Giovanni Berlinguer, ma poi non se ne sarebbe mai fatto nulla. «Oggi - si legge poi nell’editoriale - non è più sufficiente proporre una migliore applicazione senza toccare nulla dal punto di vista legislativo. Tutti ormai, se si escludono frange femministe fuori dalla storia, Pannella e la solita rumorosa pattuglia radicale (sempre più esigua), hanno abbandonato la vecchia formula che l'aborto è «questione di coscienza», affare privato che non attiene alla sfera del bene comune». Tutti d'accordo, insomma, secondo Famiglia Cristiana, che «l'aborto è un fatto di rilevanza pubblica e politica» e «oggi in Parlamento ci sono i numeri per sgretolare il mito della 194», una «maggioranza trasversale» che fa appello, in primo luogo, ai politici cattolici. Rivedere la legge, dunque - chiede il giornale - a partire dal «diritto di non abortire», ma anche sostenere e incoraggiare la vita con atti concreti. In proposito, il settimanale ricorda le parole del Papa.

l’Unità 20.5.08
«Presto pronto il mio nuovo film»
De Oliveira farà 100 anni. E Cannes lo festeggia


Manoel De Oliveira quest’anno compie il secolo di vita e ieri sera Cannes l’ha giustamente omaggiato nella sala Lumiere. Il pubblico è scattato in piedi per applaudirlo e il festival ha presentato la copia restaurata del suo esordio quando nel suo Portogallo il cinema era ancora muto, Il fiume. L’autore di oltre 50 titoli ha annunciato che presto il prossimo sarà pronto. Lo hanno salutato tra i tanti Clint Eastwood, il presidente dell’Unione Europea Barroso (portoghese), il cineasta tedesco Fatih Akin, il presidente del festival, Gilles Jacob. «A dire il vero - sussurra De Oliveira - avrei preferito essere qui con un film nuovo, ma non vi preoccupate, non mi commuoverà rivedere le mie vecchie immagini. Al massimo penserò che ero un po’ presuntuoso e che la vita mi ha insegnato tante cose».

l’Unità 20.5.08
Perché l’opposizione deve essere Doc
di Giuseppe Tamburrano


Vorrei riprendere le argomentazioni contenute nell’editoriale di Padellaro (17 maggio) perché la svolta nei rapporti tra governo e opposizione è talmente importante che richiede di essere dibattuta a fondo per essere decifrata.
Osservo preliminarmente che è stato Veltroni che nel corso di tutta la campagna elettorale ha insistito sulla necessità che i rapporti tra maggioranza e opposizione fossero sveleniti e all’“odio” subentrasse un sereno confronto e un costruttivo dialogo. Dunque questo nuovo clima è merito (colpa?) suo.
Che interesse ha Berlusconi di respingere la posizione di Veltroni? Nessuno! Oggi egli ha risolto i suoi problemi ad personam, è sostenuto da una larga maggioranza di tutto riposo; essere generoso, disponibile, dialogante gli dà forza; l’atteggiamento dell’opposizione gli rende più agevole la gestione del governo. Si può mettere nel conto che il “buonismo” nei rapporti col Pd mette all’angolo l’opposizione di Casini, isola Di Pietro. Ma questi sono effetti collaterali, secondari; non i fattori principali del nuovo clima. E infine l’atteggiamento di gran signore magnanimo e sorridente verso l’opposizione, che si alza dal suo seggio per congratularsi con Veltroni e Finocchiaro, gli è congeniale più della faccia feroce.
Anche io preferisco un Parlamento in cui non ci siano scontri, odi, insulti, ma questo riguarda l’etica o l’etichetta parlamentare. Quello che interessa e intriga è la ricaduta politica della svolta: cui prodest? A chi gioverà? Forse la domanda è prematura perché siamo ai preliminari della nuova gestione. Epperò è importante prevedere scenari futuri perché può aiutare ad evitare errori. Cominciamo dalle prime intese tra Veltroni e Berlusconi. Ottima quella sullo “statuto dell’opposizione”, che tuttavia non sarà di facile realizzazione per la diversità oggettiva dei punti di vista, avendo la maggioranza interesse a regole che rendano veloce l’iter delle procedure e la minoranza invece a norme che consentano spazi perché il suo concorso sia incisivo.
L’altra intesa nell’incontro del 16 maggio tra i due leader riguarda la legge elettorale europea e in particolare il proposito di introdurre uno sbarramento. Non c’è per ora accordo sul livello: 5 o 3 per cento, ma sicuramente ci si arriverà, forse al 4 per cento. Mi chiedo se i due schieramenti si rendono conto che la soglia può essere dribblata dai piccoli partiti che possono fare una lista comune per separarsi dopo il voto: e nessuna legge o regolamento può impedirlo. Dunque, l’effetto semplificazione del pluripartitismo e la riduzione della frammentazione ottenuti con le elezioni del 13 aprile non si raggiungerà. Di più: è prevedibile che le sinistre, dai socialisti a Rifondazione, saranno «scatenate», vorranno prendersi la rivincita e questa volta non potrà funzionare il “voto utile” che ha depauperato i ranghi della sinistra a favore del Pd. Quei voti al Pd, che hanno compensato le perdite dell’elettorato tradizionale, non ci saranno, torneranno all’ovile, sospinti anche dall’ostilità di quei settori antiberlusconiani che giudicheranno arrendevole la politica di Veltroni. Il quale rischia di andare incontro ad una nuova sconfitta. Con prevedibili ricadute all’interno del partito: D’Alema avrebbe qualche argomento in più nel suo ragionamento.
Sulla questione generale del corretto rapporto tra governo e opposizione, se è da escludere l’ostilità pregiudiziale, non è consigliabile la collaborazione pregiudiziale. Il compito del Pd, nell’ora difficile che vive il Paese, è di far valere le ragioni dei più deboli, dei lavoratori, dei disoccupati, dei precari, delle famiglie, dei pensionati. E questo non è solo il suo dovere di partito che si pretende “riformista”, è anche il suo interesse se vuole recuperare un rapporto costruttivo con la sinistra e contenere una deriva elettorale verso quei lidi.

l’Unità Roma 20.5.08
Prc, Smeriglio lascia: spazio a un giovane
Le sale dell’Alpheus gremite per l’assemblea con Vendola: «Mai vista tanta gente esterna al partito»
di Luciana Cimino


«ESCO DA QUI CONTENTO, non ho mai visto tanta gente esterna al partito». A parlare è Marco Ascione, giovanissimo segretario di una sezione di borgata, quella di Spinaceto. La sala dell'Alpheus dove è appena intervenuto Nichi Vendola, candidato alla guida di Rifondazione Comunista, è strapiena. Si cerca lo scatto d'orgoglio per ricostruire la sinistra, si cerca di accompagnare il partito ai congressi di luglio senza i veleni del post elezioni. Quello nazionale, a Chianciano, dove Vendola e l'ex ministro Paolo Ferrero presenteranno le loro mozioni, e quello cittadino, ai primi di luglio, dove il partito sarà chiamato a esprimere il nuovo segretario. Ascione nega categoricamente di essere in corsa per la carica, eppure la sua figura, come quella di Vezio Ferrucci, segretario della Garbatella, si avvicina al ritratto che molti immaginano alla guida del partito nel dopo Smeriglio. «C'è bisogno d'innovazione generazionale – dice l'attuale segretario, ora assessore provinciale – spero che sia giovane, capace, ci sono diversi segretari di circoli di periferia che hanno fatto esperienza sul campo e rappresentano la novità». E aggiunge Patrizia Sentinelli, «una persona della statura di Nichi, che comunichi non solo con gli iscritti ma con un mondo più vasto, anche complesso come quello cittadino attuale». Gran parte del gruppo dirigente romano di Prc è in sala a sostenere il documento di cui è primo firmatario il governatore della Puglia, perché «è l'unico che può unire», dice Smeriglio; perché «suscita entusiasmo in quanto non spinge a mettersi dietro un simbolo come a cercare protezione dalle sconfitte future», per Sentinelli. Ma l'analisi della sconfitta capitolina continua ed è severa. Severa verso il Partito democratico, colpevole, per l'assessore regionale Nieri, «di aver inseguito la destra sul terreno della sicurezza», e verso la stessa sinistra, che per Sandro Medici, presidente del X Municipio, è stata «subalterna a Veltroni e ha perso il contatto con la sua gente». «Alemanno è stato un Masaniello che ha raccolto una malintesa rivolta popolare contro l'atteggiamento padronale che ha avuto il centrosinistra nella città, ma non certo noi», accusa Medici. La priorità è ora l’apertura all'esterno, a parlare di «contenuti, valori, diritti» e non di «marketing, se fosse stato per quello Veltroni – spiega Vendola - avrebbe vinto le elezioni ma si vince quando si è credibili». Re – imparare a leggere la società, quindi, e non puramente in vista del congresso, che i militanti auspicano avvenga in un clima di serenità e senza la ricerca di capri espiatori, ma come metodo per ricostruire la sinistra. La sala gremita non solo d'iscritti ma di molti simpatizzanti che s'infiammanno al lungo discorso di Vendola fa ben sperare dirigenti e amministratori capitolini di Prc. «In città il clima è cambiato – osserva Smeriglio – e non possiamo dare risposte che siano di mera amministrazione, serve una costruzione di senso». «Una società moderna lotta contro la povertà e non lotta contro i poveri», conclude Vendola, che immagina «una rifondazione dei principi della speranza nella politica, che faccia da argine alle barbarie, che si ribelli alla caccia al rom, alla rifondazione di una cultura che sia contro la violenza e dalla parte dei diritti umani».

Repubblica 20.5.08
Edimburgo. Scienziati annunciano la pillola della libido


LONDRA - Esperti di riproduzione a Edimburgo dicono di aver decifrato il segreto del desiderio sessuale, e di essere in stato avanzato di ricerca per la creazione di una pillola della libido, capace di stimolare il desiderio in uomini e donne. Un prodotto, dicono, che sarà molto più efficace del Viagra. La perdita di libido colpisce oltre un terzo delle donne, e un uomo su sei: ma quest´ultimo dato statistico è in rapida crescita.

Repubblica 20.5.08
Inghilterra, via libera agli embrioni-chimera respinto l'emendamento che voleva cancellarli


LONDRA - Sì agli embrioni-chimera. La Camera dei Comuni britannica ha respinto un emendamento che avrebbe impedito agli scienziati di creare embrioni umani con parti di dna animale a fini di ricerca. L´emendamento che proponeva il divieto a questi esperimenti, parte della più ampia legge sulla fertilità in discussione, è stato respinto con 336 voti contro 176. Il premier Gordon Brown aveva lasciato libertà di coscienza su questo punto, ma aveva chiesto di dare via libera ai cosiddetti embrioni-chimera, affermando che questi embrioni contribuiranno alla ricerca sulle cellule staminali. L´embrione ibrido è un mix di tessuto animale ed umano, per oltre il 99% umano, con la componente animale dello 0,1%

Repubblica 20.5.08
Perché la sinistra ha divorziato dalla società
di Marc Lazar


TALUNI anniversari sono tristi, in modo particolare quelli che celebrano un quarantennale. Nel 1968 il vento della contestazione – che si era levato da qualche tempo e che si sarebbe rafforzato nel decennio seguente – soffiava sull´Europa, per lo meno quella occidentale. Il capitalismo fu dichiarato in fin di vita, le gerarchie furono sovvertite, l´autorità fu messa alla berlina, i poteri ripudiati. La liberazione, l´emancipazione, la rivoluzione erano concetti in buona parte rivendicati e messi in pratica finanche nella vita di tutti i giorni.

Combattuta tra un marxismo tradizionale, benché rivestito di nuovi orpelli, e la scoperta di tematiche inedite da parte del movimento operaio (il femminismo e l´ecologia, tanto per citarne alcune), la sinistra aveva nondimeno il vento in poppa, consolidava la propria egemonia culturale e si dimostrava vittoriosa. Il contrasto rispetto alla situazione del 2008 non potrebbe essere più grande e sconcertante.
In un solo anno su dieci consultazioni elettorali politiche generali che si sono svolte in Europa soltanto una, quella in Spagna, ha confermato il mandato ai socialisti. Da qualsiasi altra parte la sinistra non è riuscita a scalzare la destra al potere (Francia, Estonia, Finlandia, Polonia, Belgio, Danimarca, Grecia, Irlanda), mentre in Italia ha addirittura perso a vantaggio dell´opposizione guidata da Silvio Berlusconi. Naturalmente questi dati devono essere analizzati con grande accortezza. Ogni suffragio nazionale ha una propria specificità, determinata dalla storia politica del Paese, dalle modalità di scrutinio vigenti e dal gioco dei partiti. Ciò non toglie che si profila una tendenza generale che sarebbe assurdo confutare: la destra domina il continente europeo. La sinistra è in difficoltà, quale che sia la sua strategia – unione delle sinistre, alleanza con il centro o con i Verdi, o ancora corsa solitaria – e quale che sia la collocazione prescelta – programma classico della sinistra statale o ridefinizione della linea politica sul modello di Tony Blair.
Come interpretare dunque questa situazione? Una delle spiegazioni proposte, a sinistra, è che gli europei non resistono alle sirene del "populismo", della xenofobia, per non dire del razzismo: insomma, si starebbero orientando inesorabilmente a destra. La deduzione è errata e non esente da pericoli, in quanto rischia, appunto, di condurre la sinistra a ripiegarsi su una delle posizione a lei più care. Ostentando le sue certezze, convinta di essere in possesso della verità, la sinistra dispera di quel famoso popolo che evoca continuamente ma che adula soltanto quando esso vota a sinistra. Come disse con una battuta ironica Bertolt Brecht ai dirigenti di partito della Germania Est dopo i moti di Berlino del 1953, non resta che un´unica soluzione: "sciogliere" il popolo. La realtà, però, è diversa: la destra oggi ha la meglio e vince perché ha effettuato un´opera di rinnovamento alquanto coordinata, o tramite i contatti tra i partiti e i parlamentari europei, in seno al Partito popolare europeo, oppure grazie a fondazioni e think tanks. Si è dotata di veri leader, spesso comunicatori eccellenti. Tende ad aggregarsi, un po´ ovunque. Cerca di rafforzare le proprie organizzazioni e non trascura di lavorare sul terreno. Si occupa di un vasto spettro politico, che va dai confini dell´estrema destra al centro, e nel frattempo se occorre si impossessa anche di temi tipici della sinistra. Propone alle differenti popolazioni che ne sono in attesa un insieme di valori contraddittori, ma presentati in modo coerente: individualismo e compassione sociale, liberalismo e protezione, modernità e tradizione, sicurezza e lotta all´immigrazione, Europa e identità regionale o nazionale. La destra dell´era post-ideologica è pragmatica, in procinto forse di imporre la propria egemonia culturale sulla stessa lunghezza d´onda delle società europee che oscillano tra l´accettazione della globalizzazione e un cauto ripiegamento sul locale o il nazionale, tra la ricerca di avventura rivendicata dalle giovani generazioni e le paure delle persone anziane, il cui peso si fa sentire in modo crescente.
Il predominio della destra non ha nulla di ineluttabile. L´opinione pubblica in Europa non è passata in blocco a destra. È senza dubbio molto sensibile ai cavalli di battaglia prediletti della destra, l´insicurezza e l´immigrazione, ma al contempo una buona parte di essa reclama ed esige protezione sociale. L´Europa oltre tutto conosce veri e propri cicli elettorali: negli anni Novanta la sinistra era al governo in undici dei quindici Paesi dell´Unione Europea. La sinistra commetterebbe tuttavia un grave errore se pensasse di attendere passivamente un´inversione di tendenza, per esempio con un ipotetico ritorno del benessere economico che le sarebbe a priori più vantaggioso, perché l´autorizzerebbe a patrocinare la causa di politiche di più vasta redistribuzione sociale. E sbaglierebbe qualora desse per scontato di approfittarsi in maniera automatica della delusione degli elettori che le decisioni dei governi di destra inevitabilmente comporteranno, sull´esempio di quanto accade oggi in Francia, dopo che i loro responsabili in campagna elettorale avevano promesso l´esatto contrario.
Da oltre vent´anni la sinistra non è rimasta immobile. Anzi, ha risposto alle sfide della globalizzazione e ai mutamenti della società. Pur restando fedele ai suoi ideali di eguaglianza e di giustizia sociale, ha rinnovato le sue proposte, ha accettato di adeguare ai tempi il welfare, ha assimilato una parte del liberalismo economico, ha scommesso sulle rivendicazioni libertarie, ha tentato di rivolgersi ai precari e agli esclusi, e si è essa stessa impossessata dei temi della legge, dell´ordine e della sicurezza. Nonostante tutto, però, la sinistra risente di molteplici difetti: le sue ininterrotte e profonde spaccature tra la sua ala radicale e le sue correnti riformiste l´indeboliscono. La sua mancanza di credibilità sulle questioni della sicurezza è palese. I suoi leader mancano spesso di levatura. La sua indolenza a lavorare sul terreno ha spianato la strada ad altre forze politiche. Soprattutto, la sua base sociologica si è ridotta a individui sulla cinquantina, che vivono nelle grandi città, hanno un alto livello di istruzione e lavorano nel settore pubblico. La sinistra ha perso terreno negli strati più popolari, presso i dipendenti del settore privato, ha mancato di attirare a sé i precari e non ha fatto breccia tra i liberi professionisti. Questo divorzio da una – considerevole – fetta della società attesta e comprova le sue difficoltà a comprendere senza i suoi paraocchi ideologici le trasformazioni sociali più recenti che, innegabilmente, non le sono di aiuto. E infine, alla sinistra manca un corpus di valori in grado di mobilitare l´opinione pubblica, qualcosa che la differenzierebbe chiaramente da quelli presentati dalle destre. È al superamento di questi ostacoli che la sinistra deve assolutamente impegnarsi al fine di presentare una proposta politica convincente, unica condizione per ritornare a vincere.
Traduzione di Anna Bissanti

il Riformista 20.5.08
Sbarramento. Il dialogo con Sd. Ma Vendola chiude la porta
Veltroni fa una mezza retromarcia e apre ai satelliti
di Alessandro De Angelis


Non è proprio un "contrordine compagni" sulla via dell'autosufficienza. Ma da ieri la corsa di Veltroni un po' meno solitaria lo è, eccome. Nell'incontro col leader di Sd, Claudio Fava, suo fedelissimo ai tempi dei Ds, è emersa più di una convergenza: Pd e Sd daranno vita a un «patto di consultazione» esteso, a sinistra, a chi ci sta, e a un confronto «permanente» sulle riforme. E soprattutto dialogheranno per realizzare - si legge nella nota congiunta diramata al termine dell'incontro - un «nuovo centrosinistra basato su reali intese programmatiche». E, precisa Fava, «basato sulla reciproca autonomia». Nessuno, affermano, vuole rispolverare la vecchia Unione, ma da ieri è ritornato in voga il tema delle alleanze. Ciò non significa che Sd confluirà nel Pd, almeno per ora. Ma il dialogo è ripreso, e la prossima settimana è previsto un nuovo incontro.
La fine delle ostilità sarebbe testimoniata anche dall'accantonamento di un tema che - solo pochi giorni fa - aveva fatto infuriare la sinistra-sinistra: lo sbarramento alle prossime europee. «Se continua così, usciamo dalle giunte» aveva detto Fava e tutto lo stato maggiore della Cosa rossa dopo l'incontro tra Veltroni e Berlusconi. Ieri il segretario del Pd ha declassato l'argomento: «Non è una priorità del paese». E anche Fava ha deposto l'ascia di guerra: «Se si dovesse andare ad una riforma, questa dovrà avvenire attraverso un confronto che tenga conto delle sensibilità e dei punti di vista di tutte le forze politiche, anche la sinistra che non è presente in Parlamento».
Al loft negano l'inversione di marcia. Un veltroniano di rango la spiega così: «Ora siamo entrati in un sistema nuovo segnato dal primato dei programmi sulle coalizioni. È ovvio che il Pd dialoghi con i vari partiti satelliti, come Sd, Italia dei valori, radicali anche se questi in parte stanno dentro. Anche perché è un fatto che la sinistra radicale ci ha votato». E proprio lo schema "il Pd e i satelliti" - la variante democrat del film di dieci anni fa "la quercia e i cespugli" - è diventato il modulo su cui Veltroni starebbe giocando la sua controffensiva verso D'Alema.
Il segretario del Pd si è trovato infatti accerchiato negli ultimi giorni dai fautori della politica delle alleanze. A partire dai suoi parlamentari europei. Che oggi incontreranno a Strasburgo quelli di tutti gli altri gruppi su iniziativa dell'eurodeputato del Pdl Gargani, per discutere di sbarramento. L'orientamento sembra definito: un conto è evitare l'accesso a liste dello zero virgola, un conto è vietare l'accesso a forze rappresentative. Tanto che ieri il tetto di cui si parlava è sceso al due per cento: «Si parte dal due e poi, se ci sono convergenze, si passa al capitolo circoscrizioni» dice Gargani. A Gianni Pittella, capo della delegazione italiana nel gruppo Pse, l'idea dello sbarramento non piace molto: «Il parlamento europeo non è l'organo che assicura la stabilità di un governo. Quindi l'esigenza di semplificazione non è trasferibile, automaticamente, dal piano nazionale a quello europeo. Oltre una soglia minima è un tentativo maldestro di penalizzare alcune forze politiche che non sono in Parlamento, ma sono radicate nella società italiana». Gli fa eco Lavarra: «Effettivamente con questa legge si elegge anche chi ha l'1 per cento. Tuttavia è sbagliato applicare un tetto elevato». Una posizione, questa, che trova ampi consensi tra i parlamentari europei del Pd. Qualcuno, in relazione alla dinamica del voto utile dell'elettorato di Rifondazione, a microfoni spenti, si spinge oltre: «Non è che se li ammazzi poi ti votano». Per altri, come l'ex margheritino Cocilovo «il problema non è la soglia ma operare affinché le attuali circoscrizioni diventino collegi. In modo che ogni collegio esprima parlamentari in base a un equilibrio più democratico di quello attuale». Quindi, se proprio ci deve essere una soglia, mandano a dire i parlamentari europei a Veltroni, più bassa è meglio è.
Su queste premesse, e dopo che D'Alema e Bersani hanno mandato a tutta la sinistra più di un segnale, Veltroni, da ieri, ha messo in campo la strategia dei satelliti tesa a escludere Rifondazione. Ed è riuscito a incrinare l'asse Prc-Sd che è sempre stato solido: «Un nuovo centrosinistra è un auspicio di Fava. Noi aspettiamo di leggere queste parole dalla bocca di Veltroni» ha detto Nichi Vendola in occasione della presentazione della sua mozione ieri a Roma. E sul segretario del Pd ha aggiunto: «Il veltronismo in questa fase è stato la costruzione del mito dell'autosufficienza. Il Pd per uscire da questo pantano e da questo angolo ha bisogno di gesti chiari e coraggiosi che non spetta né a me né a Fava fare». Tradotto: non è Veltroni il nostro interlocutore nel Pd. Quindi niente patto di consultazione: «Penso di non incontrare Veltroni perché credo che non sia questo il tempo delle parole che si avvitano anche in gomitoli di furbizia» ha tagliato corto Vendola.

il manifesto 18.5.08
Stranieri in patria
di Gabriele Polo

Migliaia di persone in piazza contro la violenza nutrita dalle paure profonde, le ideologie cui si appoggia e il razzismo dell'egoismo sociale, sono una bella notizia. Meno bello è che il teatro sia stato una città che in buona misura è rimasta in disparte; ma ciò è in qualche modo alla base dei tempi in cui viviamo e dello stesso delitto contro cui si è manifestato ieri a Verona. E meno bello è pure che quelle migliaia di persone - divise in due tronconi poco comunicanti - siano state oscurate dai media; ma questo un po' si iscrive nella traduzione mediatica degli italici cupi umori, un po' è il risultato di una crescente incapacità di parlare al resto del paese da parte di ciò che sopravvive a sinistra. Afonia di cui anche le divisioni - a volte un po' incomprensibili - danno conto.
In realtà la freddezza dei veronesi e le afonie a sinistra sono una cosa sola, un dato di realtà da cui partire per affrontare le difficoltà con cui si misurano i valori universali su cui siamo cresciuti. Se una città, che certamente è trasecolata di fronte all'omicidio di Nicola Tommasoli, non si sente coinvolta da un valore come l'antifascismo e rimane indifferente verso chi denuncia il razzismo dilagante, significa che è stato l'agire pubblico - prima che il quadro istituzionale - ad aver subìto un terremoto. E non si può ridurre il problema alla deriva politica verso destra che quella città attraversa. Sarebbe consolatorio e inutile. In fondo lì succede ciò che sta accadendo nei confronti dei rom: la grande maggioranza delle persone non condivide i pogrom di Napoli, ma la stragrande maggioranza del paese pensa che i rom siano un problema da risolvere con l'ordine pubblico, cacciandoli. E' la stessa relazione che è in campo tra l'opinione comune e l'agire concreto sul terreno dell'immigrazione: quasi nessuno si pensa razzista, quasi tutti vedono nello straniero una semplice risorsa economica, fuori dalla quale «l'alieno» incarna la paura della propria decadenza individuale.
La destra offre a tutto ciò soluzioni semplici e «popolari»: bene le badanti, meno bene chi arranca nel lavoro in nero, malissimo chi si avventura sul terreno della sopravvivenza, sperando in un futuro diverso. Il Pd rincorre impaurito dai suoi stessi elettori. Fuori dal quadro politico ufficiale restano gli sforzi del volontariato, la carità cristiana. Oppure la testimonianza dei valori universali da cui nasce la storia della sinistra: doverosa, ma a perenne rischio d'irrilevanza.
Forse nulla come il tema dell'immigrazione - insieme a quello del lavoro - oggi esemplifica l'assenza di una prospettiva politica alternativa agli umori dilaganti. Vale per le soluzioni che sono in campo - tutte a senso unico, verso destra -, vale per le chiusure comunitarie che determinano comportamenti mostruosi. Questo è ciò che, in una ricca città del nord, ha reso possibile un omicidio per una sigaretta negata. Questo è il problema da affrontare, ciò che ci rende stranieri in patria.