giovedì 22 maggio 2008

l’Unità 22.5.08
D’Alema: sugli immigrati norme incivili
Intervista a «l’Unità»: in politica estera l’Italia rischia di diventare irrilevante
di Umberto De Giovannangeli


«Criminogeno il reato di clandestinità». Politica estera: rischiamo di tornare ad essere irrilevanti

Medio Oriente, Iran, Stati Uniti. L’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema mette a fuoco alcune delle questioni cruciali dello scenario internazionale e avverte che «il rischio vero per l’Italia è quello di tornare ad essere irrilevante». Sul tema della sicurezza, poi, l’ex vice premier sottolinea: «Manca una politica di integrazione. Questo è un problema che riguarda l’Europa, non soltanto il nostro Paese. E chiama fortemente in causa anche il centrosinistra europeo. È una sfida su cui ci dobbiamo tutti misurare». D’Alema, inoltre, definisce «incivile, giuridicamente insostenibile e criminogena» la norma sul reato di immigrazione clandestina voluta dal governo Berlusconi.

PARTIAMO dal Medio Oriente. La discontinuità nei confronti del «filo arabismo» di Massimo D’Alema è il concetto su cui il centrodestra, durante la campagna elettorale, ha molto insistito. «E io credo che il rischio vero, al quale è esposto il nostro paese, sia
quello dell’irrilevanza. E penso che un’Italia che si precludesse il dialogo con il mondo arabo - così come viene prospettato - non serva a nessuno, né ad Israele, né all’Occidente. Inoltre, sarebbe un atteggiamento gravemente lesivo dei nostri interessi nazionali. D’altra parte, il corso della politica è un altro».
Ovvero?
«Guardiamo proprio al Medio Oriente, dove due eventi dominano la scena. Da un lato, l’accordo in Libano lungo la strada che noi avevamo tracciato: un accordo che comprende Hezbollah... Altro che il cambio delle regole d’ingaggio. Dall’altro, i contatti con Hamas, avviati sia da Israele che li conduce attraverso l’Egitto, sia da diversi Paesi europei e non solo dalla Francia. Tutto questo non perché ci piaccia Hamas, ma perché vi è consapevolezza che solo coinvolgendo Hamas - vincolandola, naturalmente, al rispetto della sicurezza d’Israele - si possa raggiungere la pace. D’altro canto, la questione mediorientale non è riassumibile nella lotta al terrorismo, che è un aspetto di una vicenda ben più ampia. C’è una questione nazionale libanese, c’è una questione nazionale palestinese. Il terrorismo lo si sconfigge dando anche delle risposte ai problemi da cui esso trae origine o che sono utilizzati dai terroristi come pretesto. Né si possono ridurre a gruppetti di terroristi movimenti che sono rappresentativi di milioni di persone. Insomma, i problemi sono innanzitutto politici e non solo militari. Ricordo ancora una volta che Hamas ha vinto le elezioni e che Hezbollah è il partito che rappresenta la comunità sciita, la più grande del Libano. Al di là delle dichiarazioni, nella sostanza la diplomazia europea si muove nella direzione di costruire le condizioni di un processo di pace, il che lo si fa attraverso un dialogo in grado di coinvolgere il mondo arabo nelle sue diverse componenti. E una importante riprova dell’incisività di questa politica è l’avvio di colloqui di pace fra la Siria ed Israele, con la mediazione della Turchia».
Rimaniamo sulla discontinuità, spostandoci sullo scenario iraniano. Il nuovo ministro degli esteri Franco Frattini ha sostenuto che il governo chiederà di entrare a far parte del gruppo «5+1», recuperando un treno perso...
«Sì, certo, da loro... Ricordo, infatti, che l’Italia venne esclusa dal “5+1” nel 2003. Fu un grave errore del governo Berlusconi ed una chiara testimonianza di quel rischio di irrilevanza di cui ho parlato e che vedo correre anche oggi per il nostro Paese. L’esclusione da quel gruppo è stata gravemente dannosa agli interessi dell’Italia per diversi motivi. Intanto per ragioni di immagine, visto e considerato il valore simbolico che quell’organismo ha assunto, essendo composto dai Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza e dalla Germania che ne vuole entrare a far parte. Poi, perché è diventato un luogo di consultazione politica di primaria grandezza. Ma, soprattutto, perché lì si è discusso del contenuto delle sanzioni ed è evidente che chi era a quel tavolo si è preoccupato che le sanzioni non fossero lesive dei propri interessi nazionali. Non a caso, spesso noi siamo stati tra i paesi che hanno pagato il prezzo più alto. In questi anni, mentre il governo Prodi ha lavorato per cercare di tutelare gli interessi dell’Italia, la destra ci ha accusato di essere filo iraniani, mentre noi eravamo semplicemente filo italiani nelle condizioni difficili in cui ci aveva lasciato il governo Berlusconi, costretti a partire da un gradino più in basso. Nonostante questo, ci siamo fatti sentire e alla fine siamo stati coinvolti in un meccanismo di consultazione a livello tecnico e diplomatico, recuperando possibilità di incidere sulle scelte e arrivando a raggiungere risultati importanti. Spero che questa operazione si concluda positivamente con l’inclusione dell’Italia nel gruppo “5+1”. Se questo accadrà, sarà frutto di un lavoro avviato dal governo Prodi».
Più in generale, quale politica verso l’Iran?
«L’Italia ha sempre condiviso l’obiettivo di evitare che l’Iran si doti di armi nucleari, sostenendo in pieno le sanzioni e - ripeto - spesso pagandone i prezzi più alti. Detto ciò, continuo a pensare che non bastino le sanzioni o una politica muscolare. Occorre un approccio più aperto verso quel Paese. Insomma, una politica di sanzioni più ferma, ma, contemporaneamente, un’offerta politica più significativa e consistente di dialogo, di coinvolgimento e di riconoscimento del ruolo dell’Iran nella regione. D’altra parte, parliamo di un Paese essenziale per la ricerca di una soluzione dei problemi in Iraq, in Afghanistan e in Medio Oriente. A mio parere, solo in questo modo potremmo riuscire ad offrire una sponda internazionale alle forze riformiste e moderate, alla società civile di un Paese che non può essere paragonato all’Iraq di Saddam Hussein. Ciò che dico non è una eresia, ma è quello che sostengono anche i candidati democratici americani».
Berlusconi si è detto impegnato a «ricucire» lo strappo con gli Usa, provocato dalla vostra politica...
«Noi abbiamo sempre avuto rapporti corretti e leali con gli americani. Rapporti improntati all’amicizia e alla collaborazione, ma anche alla franchezza. Ad esempio, abbiamo sostenuto la necessità che gli Stati Uniti tornassero ad impegnarsi maggiormente per la pace in Medio Oriente, così come li abbiamo incoraggiati a riprendere la strada di un ragionevole multilateralismo, abbandonando la politica unilaterale delle “coalitions of willings”. Dunque, non c’è nulla da ricucire. Il problema, semmai, è il contributo che può dare un paese come l’Italia. Noi siamo nel cuore del Mediterraneo e il nostro ruolo, in un mondo che rischia uno scontro di civiltà, è essere crocevia del dialogo, dell’iniziativa politica, della ricerca del confronto. Questa è la nostra vocazione».
Questa «vocazione» come si concilia con le politiche che si preannunciano sul fronte dell’immigrazione?
«La destra ha cavalcato il tema della sicurezza, con argomenti e toni pericolosi che speriamo il governo corregga rapidamente. Evocare le ronde o affermare che i cittadini possano provvedere da soli, crea un terreno favorevole a gesti violenti come gli incendi dei campi rom. Sui temi della sicurezza, viceversa, occorre grande equilibrio. Naturalmente, servono fermezza contro la criminalità, procedure rapide per l’espulsione, insomma quelle misure ragionevoli per la sicurezza che già avevamo predisposto noi, con il pacchetto Amato, che poi, purtroppo, non è stato approvato. Sappiamo anche per responsabilità di chi e il prezzo elettorale che abbiamo pagato».
Il governo ha presentato il ddl sul reato di clandestinità...
«Sarebbe una norma incivile, giuridicamente insostenibile, contraria ai principi europei. In più, sarebbe totalmente controproducente, perché criminogena: spingerebbe la povera gente che viene nel nostro Paese per disperazione e miseria - e che nella grande maggioranza è onesta - a diventare manodopera per la criminalità. Il problema vero è che noi non abbiamo una politica dell’integrazione degna di questo nome. Si tratta di una grande questione europea, non soltanto italiana. Ma io domando: che razza di società democratica è quella in cui il 15% della forza lavoro che produce tra il 6 e il 10% del Pil non gode di diritti civili e politici? Che razza di democrazia è quella nella quale chi vive e lavora in Italia da 15 anni non ha diritti? In definitiva, è la sostanza della democrazia ad essere intaccata. A mio parere, società di questo tipo non si reggono. Ecco perché lo considero un problema cruciale, che - insisto - riguarda l’Europa e il suo futuro. E che chiama fortemente in causa anche il centrosinistra europeo. È una sfida sulla quale ci dobbiamo tutti misurare. Una politica di sicurezza, con il rigore verso chi delinque e la certezza della pena, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è una coraggiosa strategia dell’integrazione, che punti sui diritti civili, sociali, politici e su una accelerazione delle procedure della cittadinanza. Così, a mio giudizio, una seria politica dell’integrazione diverrebbe fattore fondamentale della sicurezza. Altrimenti, temo che avremo una società squilibrata, in cui persino certi valori fondamentali come quelli democratici saranno fortemente intaccati».

l’Unità 22.5.08
In Europa. Contro i clandestini severità e inclusione
Solo l’Italia punta il dito contro razze o etnie
di Paolo Soldini


Ma davvero, come si è sentito dire in questi giorni, il reato di immigrazione clandestina esiste anche «in altri paesi europei»? Poiché una delle caratteristiche della campagna demagogica sulla «sicurezza» in atto da mesi è una notevole confusione (voluta o no) sui princìpi e una considerevole ignoranza (questa sicuramente non voluta) della storia e di quanto avviene nel resto del mondo, vediamo se è proprio vero che anche «in altri paesi europei» si puniscono gli immigrati irregolari a causa della loro clandestinità. Si è parlato di Francia e Germania. Ebbene, in Francia la legge sull'immigrazione approvata il 16 maggio 2006 considera sì che uno straniero «in situazione irregolare» compia un «delitto», punibile con un anno di prigione o un'ammenda e l'espulsione, ma perché la sua «irregolarità» deriva da una serie di comportamenti che costituiscono degli illeciti: l'essere restato in Francia oltre i termini della validità del visto, o con un visto che è stato ritirato, non aver chiesto il prolungamento del titolo di soggiorno, o averne uno ritirato o rifiutato, aver perso i documenti di identità senza farne denuncia e così via. Come si vede, non è la condizione in sé che viene sanzionata, ma i comportamenti specifici che l'hanno prodotta.
Una distinzione formale e di poco conto? Nient'affatto, come sa qualunque (regolarissimo) italiano che si sia fatto «pizzicare» in Francia momentaneamente sans papiers e abbia pagato le proverbiali rudezze della gendarmerie e come si capisce ancor meglio prendendo ad esempio la Aufenthaltgesetz (legge sul soggiorno) tedesca. In questo caso ad essere puniti (1 anno di prigione o 3750 euro di ammenda) sono coloro che violano norme che tutti - nella parte che li riguarda anche i tedeschi - sono tenuti a rispettare pena denuncia penale o sanzione amministrativa. Per esempio: essere entrati nel paese senza passaporto o con un passaporto non valido, non disporre del titolo di soggiorno, rifiutarsi di far accertare le proprie generalità, violare l'obbligo di residenza disposto per ragioni processuali, sottrarsi alle ingiunzioni a lasciare il territorio nazionale. È evidente che la Aufenthaltgesetz non fa distinzione tra Herr Müller, che magari cerca di rientrare a casa eludendo i controlli di frontiera dopo aver perso il passaporto in Thailandia, e Mohammed che, senza documento, dà alla polizia un cognome falso e dice di venire dalla Tunisia mentre magari è libico.
Si può obiettare che le leggi sono state fatte, inasprendo le disposizioni precedenti, con l'obiettivo primario di controllare i flussi irregolari di stranieri non comunitari. Giusto, ma a parte il fatto che sia in Francia che in Germania si sta ben attenti a non esagerare con le denunce penali e ci sono strutture, anche pubbliche, di tutela dei diritti e possibilità di ricorso che noi ce le scordiamo, va anche sottolineato quanto vien fatto sull'altro versante: quello della regolarizzazione e della integrazione. E della lotta al contrabbando di esseri umani, punito, questo sì, come reato specifico e con pene particolarmente severe. Nonché, specie in Francia con le disposizioni sulla «immigration choisi», della promozione di correnti migratorie qualificate extra-quote.
Non si può certo dire che nei due paesi siano rose e fiori e non manchino durezze e abusi delle autorità, come l'indegna pratica delle espulsioni di minori in Germania e la mano dura contro i sans papiers in Francia, ma due cose là non succedono: l'individuazione di nazionalità, etnìe o addirittura «razze» come particolarmente «pericolose» (è un vizio che i tedeschi proprio non possono permettersi) e la creazione di una entità giuridica che presume una condizione di illegalità per una categoria di persone, a prescindere da ogni atto illegale eventualmente compiuto. Due cose del tutto estranee alla cultura civile e democratica dell'Europa di oggi. E molto pericolose.

l’Unità 22.5.08
I bambini rubati davvero
di Dijana Pavlovic


Nata nel 1976 in Serbia, si è laureata alla “Facoltà delle Arti Drammatiche” di Belgrado. Dal 1999 vive e lavora come attrice a Milano e come mediatrice culturale in una scuola elementare. Rom e milanese, ha lavorato ne «La squadra», nel corto «Quando si chiudono gli occhi», regia di B. Catena, e in moltissime piéce teatrali. È stata candidata nella Sinistra Arcobaleno alla Camera.

Sull’aereo per Roma, dove partecipo a una trasmissione sulla cultura rom, leggo l’intervista all’eurodeputata ungherese Mohacsi che denuncia la scomparsa di 12 bambini rom a Napoli. Sottratti alla patria potestà perché chiedevano la carità non si sa più nulla di loro, il tribunale non ha notizie. L’eurodeputata, di origine rom, si impegna, lei che sta in Ungheria, per la sorte di questi bambini. La notizia riporta la denuncia di altre centinaia di famiglie rom che lamentano la stessa cosa.
Questo è il più penoso dei paradossi che toccano il mio popolo: i rom sono accusati di rubare i bambini, ma secondo il ministero degli interni italiano non c’è alcun caso accertato; sull’episodio di Napoli e su quello di oggi a Catania la polizia è prudente e sono in corso accertamenti per chiarire cosa è davvero successo - visti i precedenti di allucinazioni collettive su presunti ratti di bambini -, mentre ai genitori rom i figli vengono sottratti davvero.
La notizia che viene data con tutta l’evidenza di una cosa vera, l’immagine che si è formata attraverso questo tipo d’informazione e con le favole raccontate ai bambini - stai buono se no vengono a prenderti gli zingari - è quella totalmente falsa dei rom che rubano i bambini.
La notizia vera, la tragedia della sottrazione dei figli a un famiglia non appare da nessuna parte, nessuno se ne occupa e deve venire una zingara dall’Ungheria a denunciare questa violazione dei diritti di genitori che non sanno qual è il destino dei loro figli. Questi bambini, nostri figli zingari, non hanno un nome per questo Stato. Non hanno nome quelli che vivono alla giornata in questo paese bello e democratico guadagnandosi il panino nelle metropolitane, e dopo subiscono tre sgomberi nella stessa giornata, che dormono nel fango sotto la pioggia, quelli che muoiono nei roghi delle loro piccole baracche sotto i ponti, quelli che vengono «salvati» dallo stato e di loro si perde ogni traccia.
Con me ho anche il libro Labambina di Mariella Mehr, poetessa rom nata a Zurigo che, come molti altri figli del «popolo nomade» nati in Svizzera tra il 26 e il 72, appena nata venne tolta alla propria famiglia, data a famiglie affidatarie, orfanotrofi, istituti psichiatrici; ha subito violenze, elettroshock e a 18 anni, come era accaduto a sua madre, è stata sterilizzata dopo aver avuto un figlio che le è stato portato via. Tutto questo per estirpare il fenomeno zingaro. Parla di sé Mariella Mehr, della sua sofferenza di non avere un nome.
Storie come questa segnano le vite di coloro che vengono considerati diversi anche davanti alla giustizia. Per noi non c’è garanzia di sicurezza e di giustizia, una giustizia giusta che cerchi di capire le ragioni, i condizionamenti per i quali una persona viola la legge. Questo principio, che già vale secondo le differenti condizioni sociali, con il pacchetto sicurezza verrà stravolto: pene severissime alla piccola criminalità, compresa quella di sopravvivenza, se prodotta da immigrati e rom (e il pensionato italiano che ruba la fettina al supermercato?), criminalizzazione della povertà, dell’esclusione sociale e delle tragedie di tanti popoli.
È inquietante che nel paese, nel quale intere regioni e intieri quartieri di città come Milano sono in mano alla malavita organizzata - insieme con qualche marchio di scarpe, di borse e di occhiali, il maggior prodotto d’esportazione italiana - il dibattito sulla sicurezza sia a senso unico e si concentri esclusivamente su clandestini e rom.
Dovremo allora proporre al governo, se i suoi membri non hanno letto il libro di Saviano, di andare almeno a vedere il film Gomorra, perché sappia dove sono i mali profondi di questo paese, cosa vuol dire vivere con la camorra dei 4000 morti ammazzati, che gestisce l’immondizia e organizza i pogrom contro i rom?

Corriere della Sera 22.5.08
L'ex segretario del Prc Giordano: la presenza dei militari? È una svolta autoritaria e pericolosa
di M. Gu.


ROMA — «Inaccettabile, dal punto di vista democratico e dei contenuti», commenta Franco Giordano, ex segretario del Prc.
Il decreto sui rifiuti non le è piaciuto.
«È di un autoritarismo inquietante. Noi di fronte all'emergenza eravamo pronti a prenderci ogni responsabilità e a condividere un piano...».
Ora il piano c'è.
«No, il piano non c'è, ma si decidono scelte pericolose dal punto di vista giuridico e si mette mano alla definizione di quattro inceneritori, prova che è tornata la logica degli affari».
L'esercito presidierà i siti prescelti per le discariche.
«È una cosa drammatica, una militarizzazione.
Chi si avvicina si prende cinque anni di galera, ma scherziamo? È una stretta autoritaria e pericolosa».
Il reato di immigrazione clandestina sarà introdotto nel disegno di legge, che ne pensa?
«Siamo a un paradosso drammatico, si puniscono gli immigrati invece di coloro che li sfruttano».

Corriere della Sera 22.5.08
Il centrodestra e i rischi xenofobi
La politica e i «razzismi possibili» È caduto l'ultimo tabù
di Luigi Manconi


Caro direttore, modestamente — come si dice immodestamente in questi casi — ho tutte le carte in regola per replicare all'articolo di Pierluigi Battista, pubblicato lunedì scorso (I lager, i rom e l'apocalisse), dove si deplora «l'uso disinvolto della memoria storica », «i paragoni spropositati », il linguaggio irresponsabile «di chi equipara i Cpt ai lager».
Ebbene, da oltre vent'anni — con Laura Balbo — mi occupo della questione dell' immigrazione straniera e, in particolare, degli effetti che essa ha sulla società italiana: e ho sempre fatto un uso assai parsimonioso (al limite dell'avarizia) del termine «razzista». Per due ragioni: innanzitutto perché all'interno delle culture dei sistemi democratici, e il termine ha più intensa connotazione emotiva e morale, suscettibile di squalificare irreparabilmente il destinatario; e, poi, perché quell' etichetta, come tutte le etichette, risulta drammaticamente incapace di dar conto («spiegare») le dinamiche che portano ad assumere atteggiamenti xenofobi, intolleranti e, infine, razzistici.
Aggiungo che mai, proprio mai, mi è capitato di definire «lager» quello schifo che sono e restano, nella gran parte dei casi, i Centri di permanenza temporanea (Cpt): perché non è indispensabile evocare la massima infamia (quella dei lager, appunto) per contestare una infamia di rango inferiore (i Cpt), che vanno contestati per molte buone ragioni. E perché richiamare, fuori dal loro contesto storico, i campi di concentramento significa banalizzare quel Male Assoluto che rappresentano, e offendere i sopravvissuti e quanti vi trovarono la morte.
Ma, detto questo, non può ridursi tutto a una questione di equilibrio linguistico e nemmeno al sacrosanto «ripristino della maestà della legge infranta», opportunamente invocato da Battista. Non basta perché negli ultimi mesi è davvero successo qualcosa di nuovo e di temibile.
Per anni, sul piano del discorso politico, della comunicazione di massa e della mentalità collettiva, i diversi attori (partiti, media, agenzie che orientano il senso comune) hanno rispettato, più o meno, un patto di «civiltà pubblica», fondato su vincoli e interdizioni linguistiche, forme di autocontrollo e di autolimitazione.
Per capirci: se lo stupro non è associabile, nemmeno in misura prevalente, ad una specifica nazionalità, l'equazione «romeno = stupratore » va bandita dal discorso pubblico. E così è stato, sia pure tra eccezioni vergognose e cadute discriminatorie. Insomma, le convenzioni pubbliche e le principali culture politiche hanno evitato — talvolta malamente, spesso ipocritamente — di confondere tra «singoli colpevoli e intere comunità» (Battista).
Ma se e quando quel patto di civiltà viene rotto unilateralmente, è difficile sottrarsi al rischio di una mobilitazione xenofoba. Questo è accaduto, appunto, nell'ultimo semestre, a partire dall'omicidio di Giovanna Reggiani a Roma, a opera di un romeno. La Lega Nord e, nel corso della campagna elettorale per il sindaco di Roma, tutti i partiti di centrodestra, quel patto l'hanno infranto. È una novità dirompente che fa diventare centrale la questione dei «razzismi possibili». Ed è una novità perché in Italia, a differenza di tutti gli altri Paesi europei, non ha operato finora un partito concentrato interamente (o almeno prevalentemente) sulla questione dell'immigrazione. Nemmeno la Lega ha svolto questo ruolo fino in fondo, privilegiando piuttosto il tema del federalismo.
Ora non è più così. E tentazioni analoghe sono presenti in altri partiti di centrodestra. Certo, è fondamentale partire da tutto ciò che viene indicato, da più parti, come il contesto di tali «pulsioni politiche» (le ansie collettive, la fatica della convivenza negli strati più deboli della popolazione, gli allarmi sociali, la sottovalutazione di come il tema della sicurezza venga percepito a prescindere dai dati oggettivi…), ma guai a sottovalutare quel fatto nuovo: il discorso pubblico del razzismo è stato sdoganato. La parola «razzista» non è più tabù: e non si tratta di una conquista di libertà.

Corriere della Sera 22.5.08
Xenofobia antica e moderna
di Luciano Canfora


Nell'estate dell'anno 404 a. C. si instaurò in Atene il governo dei Trenta tiranni. Oggi essi sono molto malvisti, ma sul momento erano sostenuti dalla più grande potenza del tempo. I Trenta erano il fior fiore dell'élite ateniese, un paio di congiunti di Platone ne facevano parte. Molti ateniesi cercarono di fuggire pur di non essere governati da costoro. Molti scapparono a Megara, Argo, Tebe. Erano palesemente «immigrati clandestini». Il loro «reato», nell'ottica del «pacchetto sicurezza», era indiscutibile. Eppure l'accoglienza riservata ai fuggiaschi fu celebrata poi, quando cadde il governo di Atene e la ruota della storia girò da un'altra parte. Realtà piccole rispetto al nostro mondo attuale, ma ciò nulla toglie al coraggio e alla lungimiranza di Argivi, Megaresi, Tebani. Oggi diventa senso comune, nel martellamento mediatico, l'ostilità verso chi viene sospinto in terra altrui. Ci si commuove per la generosità di alcuni antichi, ma ci si adegua alla xenofobia dei moderni.

Repubblica 22.5.08
L’uguaglianza calpestata
di Stefano Rodotà


Il caso ha voluto che l´annuncio del "pacchetto sicurezza" coincidesse con la discussione al Parlamento europeo sugli immigrati in Italia, alla quale la maggioranza ha reagito condannandola come una manovra contro il Governo. Brutto segno, perché rivela che non v´è consapevolezza della gravità di quel che è accaduto a Ponticelli, con un assalto razzista che la dice lunga sulle responsabilità dei molti "imprenditori della paura" all´opera in Italia.
Invece di riflettere su un caso che ha turbato l´Europa, ci si rifugia nella creazione di un nemico "esterno" dopo aver individuato il nemico "interno" nell´immigrato clandestino, nell´etnia rom. Ma l´iniziativa europea non è pretestuosa, perché i trattati sono stati modificati per prevedere un obbligo dell´Unione di controllare se gli Stati membri rispettano i diritti fondamentali.
Una prima valutazione del "pacchetto" mette in evidenza, accanto all´opportunità di alcune singole misure (come quelle relative all´accattonaggio e ai matrimoni di convenienza), una scelta marcata verso la creazione di un vero e proprio "diritto penal-amministrativo della disuguaglianza". Vengono affidati a sindaci e prefetti poteri che incidono sulla libertà personale e sul diritto di soggiorno delle persone, con una forte caduta delle garanzie che pone problemi di costituzionalità e di rispetto delle direttive comunitarie. Il diritto della disuguaglianza può manifestarsi anche attraverso le norme che prevedono la confisca degli immobili affittati a stranieri irregolari e disciplinano il trasferimento di denaro all´estero. Infatti, può determinarsi una spinta verso un ulteriore degrado urbano, visto che gli irregolari saranno obbligati a cercare insediamenti di fortuna. E la stretta sulle rimesse degli irregolari potrebbe far nascere forme odiose di sfruttamento da parte di intermediari.
Lo spirito del pacchetto si coglie con nettezza considerando il reato di immigrazione clandestina. A nulla sono servite le perplessità all´interno della maggioranza, i moniti del mondo cattolico (da ascoltare solo quando invitano ad opporsi alle unioni di fatto e al testamento biologico?), le osservazioni degli studiosi. Si fa diventare reato una semplice condizione personale, l´essere straniero, in contrasto con quanto la Costituzione stabilisce in materia di eguaglianza. Si prevedono aggravanti per i reati commessi da stranieri, incrinando la parità di trattamento con riferimento alla responsabilità personale.
È inquietante la totale disattenzione per quel che ha già stabilito la Corte costituzionale, in particolare con la sentenza n. 22 del 2007 che ha messo in guardia il legislatore dal prendere provvedimenti che prescindano «da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili», introducendo sanzioni penali «tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi di eguaglianza e proporzionalità». Questa logica va oltre il reato di immigrazione clandestina, impregna l´intero pacchetto, ignorando che «lo strumento penale, e in particolare la pena detentiva, non sono, in uno Stato democratico, utilizzabili ad libitum dal legislatore».
Dopo aver annunciato una sorta di secessione dall´Unione europea, accusata di faziosità, il Governo prende congedo dalla legalità costituzionale? Il Governo dovrebbe sapere che i suoi provvedimenti possono essere cancellati da una dichiarazione di incostituzionalità. Rimarrebbe, allora, solo l´"effetto annuncio" per gli elettori del centrodestra.
Così, neppure l´efficienza è assicurata. Un solo esempio. Tutti sanno che sono state presentate 728.917 domande di permesso di soggiorno (411.776 vengono da colf e badanti). I posti disponibili sono 170.000. Una volta esaurite le pratiche burocratiche, dunque, rimarranno fuori 558.917 persone. Che cosa si vuole farne? Che senso ha, di fronte a questa situazione, parlare di reato e abbandonarsi a proclamazioni «mai più sanatorie»?
Ora i governanti parlano di una attenzione particolare per le badanti, ma la soluzione non sta nella ridicola procedura della legge Bossi-Fini, che subordina l´ingresso in Italia alla preventiva chiamata di un datore di lavoro. Chi farebbe arrivare una badante, alla quale affidare funzioni di cura, senza averla vista in faccia? Ed è inaccettabile la furbesca soluzione di far tornare: gli immigrati per una settimana nel loro paese, farli poi chiamare dal loro attuale datore di lavoro e così farli rientrare regolarmente. Ma che razza di paese è quello che dà una lezione di aggiramento delle leggi proprio agli immigrati dai quali si pretende il rispetto della legalità?
Si dice: in altri paesi l´immigrazione clandestina è reato. Ma non si può usare la comparazione prescindendo dal contesto costituzionale, dalle modalità che regolano l´accesso, dal sistema giudiziario. Quali effetti avrebbe sul nostro sistema giudiziario e sulle carceri l´introduzione di quel reato? Sarebbe insensato caricare le corti di diecine di migliaia di nuovi processi, condannando a morte un processo penale già in crisi profonda e rendendo più complesse le stesse espulsioni. Le carceri, già strapiene, scoppierebbero, o salterebbero tutte le garanzie facendo diventare i Cpt veri centri di detenzione. E tutto questo per colpire persone considerate pericolose "a prescindere", quasi tutte colpevoli solo di fuggire per il mondo alla ricerca di una sopravvivenza dignitosa. E la promessa di accoglienza per le badanti "buone", lascia intravedere ritardi burocratici e possibili arbitri. Si corre il rischio di avere norme, insieme, pericolose e inefficienti.
Queste contraddizioni nascono dal trascurare le diverse forme di sicurezza che proprio l´immigrazione ha prodotto. Per le persone e le famiglie, anzitutto. Come ricorda Luca Einaudi nel libro su "Le politiche dell´immigrazione in Italia dall´Unità ad oggi", le schiere delle badanti hanno consentito di passare da un welfare sociale ad un welfare privato, diffondendo l´assistenza alle persone al di là delle classi privilegiate. Vi è stata sicurezza anche per il sistema delle imprese, provviste di manodopera altrimenti introvabile. E sicurezza per il paese, visto che è stato proprio il contributo al Pil degli immigrati ad evitare rischi di recessione tra il 2003 e il 2005, a contribuire al pagamento delle pensioni di tutti.
Detto questo, il tema dell´insicurezza non può essere affrontato ricordando solo che le statistiche sull´andamento dei reati dimostrano, almeno in alcuni settori, una loro diminuzione. Il senso di insicurezza non nasce solo dal diffondersi di fenomeni criminali, ma da una richiesta di protezione contro un mondo percepito come ostile, contro presenze inattese in territori da sempre frequentati da una comunità coesa, dunque contro mutamenti culturali. Che cosa fare?
Quando un sindaco coglie pulsioni profonde tra gli abitanti del suo comune, non può andare in televisione dicendo «non chiedo la pena di morte, ma capisco chi la invoca». Deve piuttosto evocare l´ombra di un Gran Lombardo e ricordare che Beccaria contribuì all´incivilimento del mondo con le sue posizioni contro la pena di morte. Quando un sindaco vede a disagio i suoi concittadini nella piazza del paese, non fa togliere le panchine per evitare che gli immigrati vadano lì a sedersi. Quando le situazioni s´infiammano, non si propone un "commissario per i Rom", confermando così l´ostilità contro un´etnia intera. Qui sta la differenza tra svolgere una funzione pubblica e il farsi imprenditori della paura.
Nel discorso di presentazione del Governo, il Presidente del Consiglio ha sottolineato che «la sicurezza della vita quotidiana deve essere pienamente ristabilita con norme di diritto che siano in grado di affermare la sovranità della legge in tutto il territorio dello Stato». Ben detto. Si aspetta, allora, una strategia di riconquista delle regioni perdute, passate sotto il controllo di camorra, ‘ndrangheta, mafia. Non è un parlar d´altro. Proprio la terribile vicenda napoletana ha messo in evidenza il protagonismo della camorra, unico potere presente, imprenditore della paura che esercita la violenza per accrescere la propria legittimazione sociale.
La discussione parlamentare deve ripulire il "pacchetto", concentrarsi sulla migliore utilizzazione delle norme esistenti, sul rafforzamento delle capacità investigative, sull´adeguamento delle risorse. Mano durissima contro le vere illegalità, contro chi sfrutta il lavoro nero e contro il caporalato, contro le centrali del commercio abusivo, dell´accattonaggio, della prostituzione. Non ruolo da sceriffo, ma capacità di mediazione da parte dei sindaci, incentivando le "buone pratiche" già in atto in molti comuni.
Mi sarei aspettato qualche proposta complessiva del "governo ombra", non l´eterno agire di rimessa, segno di subalternità. E i sondaggi siano adoperati ricordando la lunga riflessione sui plebisciti come strumenti di manipolazione dell´opinione pubblica. Esempio classico: la richiesta ai cittadini di pronunciarsi sulla pena di morte all´indomani di una strage. La democrazia è freddezza, riflessione, filtro. Se perde questa capacità, perde se stessa.

l’Unità 22.5.08
La guerra delle tessere arriva anche dentro Rifondazione
Mantovani, mozione Ferrero, attacca Vendola: sospetti aumenti di iscritti nelle tre regioni in cui il presidente della Puglia è più forte
di Simone Collini


Scoppia il caso tesseramenti gonfiati, dentro Rifondazione comunista. Voci maligne sul lavorìo in vista del congresso di luglio già circolavano nei giorni scorsi, ma ora ad accendere i riflettori sulla faccenda è Ramon Mantovani, esponente della maggioranza bertinottiana alle assise di Venezia e oggi sostenitore della mozione Ferrero-Grassi. L’ex deputato del Prc, a chi gli sottopone la questione, risponde di non dare più di tanto credito a quelle voci, ma intanto osserva: «In Puglia, in Calabria e in Campania registriamo un numero di tesserati sorprendentemente alto. E questo a fronte dei dati dell’ultimo anno in cui c’è stato un calo degli iscritti. Tranne, appunto, in queste tre regioni». Che sono poi le regioni in cui la mozione Vendola è più forte (così come nelle altre del sud e nelle isole), di contro a un nord in cui è prevalentemente la mozione Ferrero-Grassi a ottenere sulla carta la maggioranza.
In base al regolamento del congresso approvato all’ultimo Comitato politico nazionale, «la platea congressuale è definita sulla base del tesseramento per l’anno 2007», per quel che riguarda il numero dei delegati. I quali però vengono scelti da tutti quelli che si iscrivono al Prc fino a dieci giorni prima dei congressi di circolo. E l’accusa che lanciano sempre meno velatamente i sostenitori della mozione Ferrero-Grassi è che gli aderenti alla mozione Vendola vogliono rovesciare i rapporti di forza ricorrendo ai pacchetti di tessere dell’ultima ora.
Non a caso ieri Ferrero, Grassi, Acerbo, Russo Spena e Mantovani, presentando il documento «Rifondazione comunista in movimento», hanno sottolineato come prima cosa che allo stato loro sono maggioranza. «A conclusione della raccolta di firme nel gruppo dirigente - ha fatto sapere Grassi - la mozione Vendola arriva a stento al 40%, la nostra al 47,3%». È seguita poi una disputa a distanza tra i bertinottiani, che hanno accusato i ferreriani di aver inserito nella mozione passaggi copiati dalla loro, e questi ultimi che hanno chiesto il perché di tanto nervosismo.
Ma è sugli attuali equilibri interni che è concentrata l’attenzione. C’è infatti una mozione, quella di Gianluigi Pegolo, che se confermerà il 9,1% rappresentato nel Comitato politico nazionale potrebbe impedire a chiunque di ottenere il 50% più uno dei voti. Il che, però, non necessariamente porterebbe alla gestione unitaria del partito proposta da Ferrero. Tra le varie critiche che vengono mosse a Vendola c’è quella di essersi candidato a segretario prima che cominci il congresso. «Non si è mai visto nella storia dei comunisti che qualcuno alzasse il dito per dire “voglio essere il segretario”», dice Mantovani. Ferrero non si è candidato e si è più volte espresso a favore della gestione unitaria del partito. Tra i bertinottiani c’è però il sospetto che in caso di vittoria l’ex ministro farà ben altra proposta al Comitato politico nazionale, quello che dopo il congresso di fine luglio eleggerà il prossimo segretario di Rifondazione. E gli attacchi sul tesseramento, che di certo non creano un clima unitario, rafforzano questo sospetto.

l’Unità 22.5.08
Diamo all’anarchia quel che le spetta
di Marco Innocente Furina


UN LIBRO di Colin Ward vuole rendere giustizia all’anarchismo. Del suo pensiero, dice, va recuperata la lezione fondamentale: la non accettazione delle «verità» e delle imposizioni delle autorità costituite. Dubitate gente, dubitate...

Anarchia. L’etimologia della parola non lascia dubbi: «contro l’autorità», «senza governo». Non questo o quel governo, non una autorità determinata, ma l’autorità e il principio gerarchico in quanto tali. Gli anarchici sono nemici giurati del potere dell’uomo sull’uomo, di ogni sopraffazione, di ogni costrizione, non importa sotto quale bandiera si eserciti. Eccoli allora, a recitare il ruolo romantico degli sconfitti in ogni rivoluzione, anche quelle vittoriose. Accanto ai rivoltosi il primo giorno ma subito da questi divisi non appena è chiaro che l’obiettivo non è abbattere lo tirannia ma ricostituirla sotto un altro nome, come nella tragedia della guerra civile spagnola. O opporsi alla libertà borghese di cui contestano il contenuto di classe. Ma soprattutto eccoli schierati contro quello che ai loro occhi è la radice d’ogni male, contro il Leviatano, contro quel concentrato di forza e potere che è lo Stato moderno. «Il pensiero anarchico in tutte le sue manifestazioni, dall’individualismo estremo di Max Stirner al comunismo anarchico di Kropotkin, attraverso le fasi intermedie del mutualismo proudhoniano e del collettivismo di Bakunin, presenta una costante, che è quella di opporsi al potere in ogni sua forma e innanzitutto a quella che è la forma più tipica e invadente di potere nella società moderna, cioè lo stato nazionale unitario», scrive uno studioso del tema come Carlo Roherssen. Non solo e non tanto perché lo Stato è marxianamente la sovrastruttura oppressiva che garantisce la divisioni in classi della società, ma perché è il più grande concentrato di potere (e di capacità oppressive) che la storia abbia conosciuto. Dopo la rivoluzione francese, quello Stato che si voleva e si proclamava «liberale», dalla prigioni alla leva militare obbligatoria (entrambe «invenzioni» di quegli anni), fu il più grande apparato di coercizione che la storia abbia conosciuto. Il pensiero anarchico si sviluppa fra 700 e 800 proprio come reazione a questo fenomeno di disciplinamento della società. Fu Pierre Joseph-Proudhon il primo ad definirsi coscientemente anarchico, anche se già alla fine del 700 l’inglese William Godwin, erede della tradizione anticonformista britannica e dei philophes francesi, nel suo Enquiring Concerning Political Justice espresse posizioni anarchiche contro governo, istituzioni e leggi.
La tradizione anarchica si espressa attraverso quattro filoni principali: l’anarco-comunismo, che si distingue dal socialismo di Stato perché contrario a qualunque forma di autorità centrale; l’anarco-sindacalismo, che si concentra sulla conquista operaia dell’industria e dell’amministrazione; l’anarco-individualismo, che pone l’accento sull’autonomia individuale e il mutualismo; infine, il pacifismo anarchico fondato sulla critica al militarismo e all’uso della forza su cui poggia in definitiva l’esistenza dello Stato. Dalle parole ai fatti il passo fu breve. Se bisognava spezzare l’autorità dello Stato, si doveva colpire chi quell’autorità concretamente incarnava: Eccoli allora quei ribelli secondo lo stereotipo che li vuole dotati di «barba, mantello e bomba sferica con tanto di miccia accesa», pronti a lanciarsi contro le carrozze e vetture di regnanti e potenti dell’Europa fin de siecle. A spargere il terrore nelle cancellerie del continente furono soprattutto italiani. Sante Caserio, che nel 1894, uccise il presidente della Repubblica Francese; Michele Angiolillo, tre anni più tardi uccise il presidente del consiglio spagnolo; Pietro Acciarito, nello stesso anno tentò di uccidere il re Umberto I di Savoia; E infine Gaetano Bresci, che il 29 luglio 1900 a Monza, riuscì nell’impresa: attuò il regicidio.
Ma perché occuparsi del pensiero anarchico? Qual è la sua attualità oggi che le costituzioni garantiscono un ampio catalogo di diritti individuali e sociali; che proprio lo Stato sembra il miglior garante delle libertà dei singoli grazie alle sue prestazioni sociali e come baluardo nei confronti dell’anarchia (appunto…) dei mercati e della globalizzazione? Oggi che più che mai si sente il bisogno di un’autorità forte che sappia regolare processi economici e sociali che sembrano sfuggire a qualsiasi controllo razionale?
Colin Ward nel suo Anarchia. Un approccio essenziale (Eleuthera, pp. 125, euro 12) spiega che dell’anarchismo va recuperata la lezione fondamentale: la non accettazione delle verità (o dei dogmi) e dell’imposizioni dell’autorità costituita - sia essa lo Stato, il datore di lavoro, le gerarchie amministrative, la scuola o la Chiesa - per ampliare il più possibile la sfera di libertà del singolo. Perché se è vero che il pensiero anarchico ha sempre oscillato tra forme estreme di liberalismo e di comunismo, entrambe utopistiche, e pertanto irrealizzabili e irrealizzate, e altrettanto vero che «gli anarchici hanno contribuito a dar vita a tutta una serie di piccole liberazioni che hanno dato sollievo alla miseria umana». E hanno anticipato spesso di parecchi decenni comportamenti e idee oggi correnti. Fu Kropotkin a coniare l’espressione «e prigioni sono le università del crimine», denunciando le carceri come istituzioni criminogene. E anche nell’campo dell’educazione e del lavoro le concezioni anarchiche hanno contribuito potentemente all’emancipazione dell’individuo. E a proposito del lavoro è interessante notare come l’autore consideri i piccoli imprenditori non come eroi tacheriani ma come ribelli creativi che lottano «contro l’ossessione di scegliere tra essere un dipendente o un datore di lavoro». Ma è nel campo dei diritti individuali che il pensiero anarchico mostra la sua maggiore attualità. È fra gli anarchici che molto prima che la questione divenisse un tema d’attualità politica erano invalse le «libere unioni» non sancite dalla Chiesa o dallo Stato. E sulla questione della liberazione della donna Emma Goldman, un’anarchica russa vissuta a cavallo tra 800 e 900, scriveva a proposito del diritto voto parole che farebbe piacere sentire con questa chiarezza oggi quando si affrontano i temi dell’aborto o delle quote rosa. L’emancipazione femminile - sosteneva - deve venire dalla donna «prima di tutto proponendosi come personalità, non come merce sessuale. Poi rifiutando il diritto di chiunque altro sul proprio corpo; rifiutando di fare figli , se non li vuole; rifiutando di essere serva di Dio, o dello Stato, della società o del marito, della famiglia eccetera; rendendo la propria vita più semplice, ma più profonda e più ricca. Liberandosi dal timore della pubblica opinione e della pubblica riprovazione. Solo questo, non il voto, libererà le donne…»
L’anarchia è libertà. Ma una libertà più radicale, estrema, meno compromissoria di quella classica della tradizione liberale. L’individualismo liberale crede di difendere l’individuo con la scissione del pubblico dal privato; l’individualimo anarchico rigetta questa impostazione perché in tal modo non è l’individuo che si salva, ma una’idea astratta di individuo. «Io affermo che non l’uomo astratto, ma il singolo è la misura di tutte le cose», proclama Max Stirner.
L’anarchismo è un pensiero complesso, articolato, a volte contraddittorio ben diverso dal semplice vuoto di potere o dalla confusione e mancanza di ogni regola a cui ci si riferisce parlando di anarchia. Un equivoco che viene da lontano, e che risale alla fine dell’800 quando una minoranza di anarchici credette di spezzare l’autorità dello Stato con l’assassinio politico.

l’Unità 22.5.08
Nei loro rispettivi testi, l’americano Steve Pieczenick e Giovanni Galloni parlano di manipolazione esterna delle Br
Moro, la mano degli Usa sul rapimento?
di Nicola Tranfaglia


Arrivando in Italia qualche giorno dopo il rapimento di Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo del 1978, con l’assassinio dei cinque uomini della sua scorta in via Fani l’americano Steve Pieczenik, vice capo dell’Agenzia antiterrorismo degli Stati Uniti, durante la presidenza di Jimmy Carter, ha raccontato (trent’anni dopo i fatti) la sua missione segreta al giornalista francese Emmanuel Amara. (Emmanuel Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro, Cooper editori, 2006). Il testimone conferma, con abbondanza di particolari, l’allora forte interesse del governo americano (in cui l’ex segretario di Stato Kissinger manteneva ancora una grande influenza) per le vicende italiane e ricorda che egli procedette in stretto concerto con il ministro degli Interni, Cossiga, e, suo tramite, con il presidente del Consiglio Andreotti.
All’inizio della sua lunga intervista, Pieczenik rivela un particolare di notevole importanza per capire il contesto del rapimento e dell’assassinio di Moro dopo 55 giorni di prigionia. «Fu allora - dice all’inizio del colloquio - che capii quale era la forza delle Brigate Rosse. Quegli uomini e quelle donne pieni di determinazione avevano degli alleati all’interno della macchina dello stato. Si erano infiltrati nelle istituzioni ai più alti livelli. Né il ministero di Cossiga né il parlamento erano luoghi sicuri e lo stesso poteva dirsi della polizia».
E poco dopo il dirigente americano è ancora più chiaro: «La prima volta che misi piede negli uffici dell’unità di crisi ebbi l’impressione di ritrovarmi nel quartier generale del Duce, di Mussolini. Avevo di fronte a me, tra l’élite dirigente, dei disonauri del periodo mussoliniano e i loro giovani cloni. Erano perlopiù esponenti dei servivi segreti e i più anziani erano autentici ex fascisti».
Una simile descrizione si capisce meglio attraverso l’indicazione della presenza assai forte della P2 nei servizi segreti italiani, come accertò tra l’altro la commissione parlamentare Anselmi nei primi anni ottanta. Nelle pagine successive, Pieczenik ricostruisce i 55 giorni della prigionia di Moro affermando che fu l’unità di crisi, guidata da Cossiga e integrata da lui, a condurre una strategia di manipolazione delle Br che le condusse a decidere la morte dell’uomo politico italiano, decretandone la sconfitta successiva.
Scrive Giovanni Pellegrino, a lungo presidente della commissione Stragi in una breve introduzione al libro, «Pieczenik avoca a sé la decisione di aver indotto le Br a credere che la fermezza fosse una scelta soltanto di facciata e che la trattativa fosse invece possibile, determinando l’aspettativa di un suo esito favorevole; e di aver convinto il governo italiano a inviaro un mese dal sequestro, con il falso comunicato n.7 (quello del lago della Duchessa) un chiaro segnale che ogni trattativa era impossibile e che la vicenda andava chiusa con l’uccisione di Aldo Moro».
La conclusione che ne trae Pellegrino è che così accade che «le Br uccidono Moro perché manipolate dall’esterno, ma non da intelligenze misteriose, bensì dal vertice politico nazionale guidato dall’esperto americano: interessi interni e internazionali si saldano per determinare quella ragion di stato cui Moro percepisce di essere sacrificato dal cinismo di una Dc che vuole conservare il potere e dalla miopia di un Pci che non sa rendersi conto di imboccare con la morte di Moro un percorso di progressivo declino».
Il giudizio di Pellegrino è condiviso, sia pure con spiegazioni diverse da Giovanni Galloni che ha appena pubblicato un bel libro intitolato 30 anni con Moro (Editori Riuniti) in cui racconta con grande lucidità la storia del gruppo dirigente democristiano dal centrismo agli anni del compromesso storico e del caso Moro, chiarendo una serie di aspetti di notevole interesse della strategia usata da Moro per il centro-sinistra come nella preparazione dell’accordo con Berlinguer e con il Pci negli anni settanta. Sugli avvenimenti del 1978, Galloni accetta la testimonianza di Pieczenik come probabilmente veritiera e trova in essa la risposta che mancava ai dubbi persistenti sulla versione ufficiale dei fatti che ancora lo Stato italiano e buona parte delle classi dirigenti continuano oggi a sostenere.
Per Galloni la linea sostenuta da Moro nell’evoluzione della democrazia italiana con l’accordo tra Dc e Pci viene sconfitta proprio attraverso il rapimento dell’uomo politico e la sua uccisione e prevale nella Dc, come tra le altre forze alleate del partito cattolico, una strategia subalterna agli Stati Uniti e all’establishment confindustriale italiano che porterà alla successiva crisi politica degli anni novanta e a quella attuale.
Per questa via i due testi si saldano e costituiscono un contributo essenziale sul caso Moro.
Risponde a precise ragioni politiche e culturali, è il silenzio totale dei nostri mezzi di comunicazione, a cominciare dai grandi quotidiani e settimanali, sulle due testimonianze.
Eppure, prima di oggi ,non c’erano elementi diretti sul ruolo giocato dagli americani attraverso organi dello Stato nella vicenda complessiva né disponevano del racconto chiaro e difficile da contestare di un testimone importante come Galloni, vicesegretario vicario della Dc negli anni settanta, della tragedia di Moro e delle ragioni per cui fu ucciso da terroristi che fecero comodo a poteri come la P2 e gli ex fascisti per bloccare lo sviluppo della democrazia repubblicana.
Ora c’è una spiegazione accettabile ma forze e interessi ancora potenti la rifiutano per le implicazioni politiche e storiche che contiene. Non è un tema trascurabile di fronte all’attuale dominio politico della destra in Italia e alla sconfitta non solo elettorale della sinistra.

Corriere della Sera 22.5.08
Allarme nelle scuole: «Disagi psichici per diecimila prof»
di Giulio Benedetti


ROMA — Il disagio psichico avanza tra i prof e i dirigenti scolastici del tutto impreparati lanciano un sos. Uno studio condotto dalla Fondazione Iard in collaborazione con l'Anp (Associazione nazionale presidi) getta luce su una realtà ancora poco nota. Dal 1992 al 2006 la percentuale di docenti lombardi che si sono sottoposti a visita collegiale per lasciare il lavoro dichiarando un disturbo di natura psichica è salita dal 35 al 70 per cento. Il doppio rispetto agli altri dipendenti della pubblica amministrazione. La presenza nella scuola di almeno un prof un po' «fuori di testa» viene confermata da 6 presidi su 10.
Famiglie che non collaborano, bullismo, una riforma dietro l'altra, concorrenza aggressiva di altre agenzie educative tipo tv e Internet, scarsa autostima, luoghi comuni contro il docente subiti passivamente: sotto questo peso i prof più vulnerabili rischiano di contrarre la sindrome del burnout. Per Vincenzo Lodolo D'Oria, della Fondazione Iard, il disagio psichico nei casi più gravi si manifesta con stati ansioso depressi, disturbi di adattamento che possono tradursi in assenze, atteggiamenti abulici e aggressività verso colleghi, famiglie e ragazzi, con gravi contraccolpi nella vita della scuola. Come ci confermano tanti casi di cronaca. Secondo una proiezione dello studioso i docenti con disturbi di natura psichica, tra istituti statali e non, potrebbero aggirarsi sui 10 mila.
Diecimila casi, spiega il ricercatore, che la scuola «non è in grado di gestire». «Tutto si risolve — ricorda il preside del liceo Newton di Roma, Mario Rusconi, alle prese con due "burnout" — col dirigente denunciato per mobbing e l'insegnante che si sposta, con tutti i suoi problemi irrisolti, in un'altro istituto».
I presidi non sanno cosa fare. Spesso, per non sbagliare, non fanno nulla, sottovalutando così i rischi per i ragazzi. Meno dell'1 per cento è in grado indirizzare il prof alla visita collegiale. Chiedono più formazione e, per i prof, un orientamento in grado di prevenire lo stress. Per Valentina Aprea, Pdl, in corsa per la presidenza della commissione Cultura, bisogna restituire autorevolezza agli insegnanti: «Negli anni ai docenti sono stati tolti tutti i mezzi per educare e oggi il professore è "nudo" davanti alla classe, non ha potere. Così crescono disagio e demotivazione».

Corriere della Sera 22.5.08
Il quotidiano del Vaticano
L'Osservatore: la 194 è selezione eugenetica


CITTÀ DEL VATICANO — La legge 194 si è trasformata «in una prassi di selezione eugenetica», scrive la storica Lucetta Scaraffia sull'Osservatore Romano,
ricordando come l'introduzione di leggi per l'interruzione della gravidanza sia legata a «sistemi totalitari come quello sovietico e quello nazista». È quindi opportuno — continua l'Osservatore — che la 194 non si allontani «dal suo scopo dichiarato di tutelare la maternità e prevenire la tragedia dell'aborto. È necessario riflettere sugli effetti che essa ha portato nella coscienza morale del Paese». Il quotidiano ricorda il filosofo teologo Romano Guardini che, nel '47, già scriveva che «ogni violazione della persona, quando s'effettua sotto l'egida della legge, prepara lo Stato totalitario».

Corriere della Sera 22.5.08
Raccolta di scritti a cura di Anacleto Postiglione
Vivere, curarsi, morire La lezione degli antichi e i pregiudizi moderni
di Eva Cantarella


Il suicidio non era considerato un atto di codardia, ma di coraggio. Il giudizio spesso dipendeva dall'arma scelta

Quanto i nostri antenati greci e romani fossero diversi da noi, da molti punti di vista, è cosa spesso dimenticata. Al mondo antico e ai suoi valori si usa far riferimento, più spesso, per mettere in luce discendenze e continuità, impoverendo la complessità del rapporto con un passato per alcune cose ancora vicino, per altre invece irrimediabilmente lontano. A dimo-strarlo, molto efficacemente, è in libreria da alcuni giorni la raccolta di testi curata da Anacleto Postiglione intitolata Della bella morte. Tra eroismo, onore, dignità: la libertà di morire nel mondo antico
(Bur). Sono testi importanti, che rimandano a temi (il suicidio, l'eutanasia, l'aborto) sui quali lo sguardo degli antichi era molto diverso dal nostro. A determinare il cambiamento, ovviamente, il passaggio dal paganesimo al cristianesimo.
Molto opportunamente, nella introduzione, Postiglione ricorda le prese di posizione della Chiesa cattolica su questi argomenti, a partire da un documento firmato il 5 maggio 1980 dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, che affermava tassativamente il carattere sacro della vita, dal suo concepimento alla morte naturale, con conseguente condanna del suicidio e dell'eutanasia. Per non parlare delle implicazioni di queste prese di posizione sull'aborto, sul quale il Papa è tornato recentemente, a Vienna, l'8 settembre del 2007, per ribadire che non può essere considerato un diritto naturale. Così come non può essere accettato un aiuto a morire. Argomento, quest'ultimo, sul quale — come ricorda Postiglione — poche settimane prima di morire si interrogava Indro Montanelli, nella «Stanza» che teneva su questo giornale: fermo restando l'ovvio diritto della Chiesa di restare fedele alla sua dottrina, è giusto che questa sia imposta a non credenti, laici, agnostici e seguaci di altre religioni?
Ma veniamo ai greci e ai romani. Il suicidio non era un atto di codardia, ma di coraggio. Per gli stoici, in particolare, era il supremo atto di dignità. Quando la vita è ridotta a sofferenza senza scampo non bisogna «mendicare l'esistenza», diceva Seneca; e nel De ira scriveva: «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo». Coerentemente dunque, nel 65 d.C., accusato di aver partecipato a una congiura contro Nerone, pose fine alla vita tagliandosi le vene. Ma attenzione, non tutti i suicidi erano nobili: il giudizio sociale dipendeva dal mezzo. L'impiccagione, ad esempio, era disonorevole. Il dissanguamento invece era una morte degna, come quella per inedia, con il veleno e con il
laqueum, il laccio che, nascosto nelle vesti, consentiva di strangolarsi, evitando l'infamia di morire uccisi. Ma l'arma più nobile era la spada, simbolo virile per eccellenza. E se per caso un uomo esitava a impugnarla, a ricordargli il suo dovere di romano era la moglie. Come fece la celebre Arria, modello di ogni virtù femminile. Il marito di Arria, Cecina Peto, coinvolto in una congiura contro Claudio, era stato condannato a morte: ma esitava a fare il suo dovere. Arria allora, per incoraggiarlo, afferrò la spada, se la conficcò nel ventre e prima di cadere al suolo disse al marito: Pete, non dolet (Peto, non fa male!).
Passando all'aborto: giustamente messo in evidenza da Postiglione, ecco un passaggio del «giuramento del medico» di Ippocrate: «Neppure se richiesto darò a qualcuno un veleno mortale, né lo prescriverò; ugualmente non darò mai a una donna un veleno abortivo». Precetto interessante, va detto, in un mondo nel quale i mariti, se sospettavano che il figlio non fosse loro, o semplicemente se non volevano quel figlio, potevano obbligare la moglie ad abortire, così come potevano fare, e facevano, i padri di figlie nubili venute meno al loro dovere di castità... Varrebbe la pena riflettere sul punto, se ce ne fosse il tempo. E per finire un'osservazione di Postiglione a proposito dell'eutanasia: «La differenza tra gli antichi e noi non è di natura concettuale, ma di natura tecnica. Gli antichi non disponevano di macchine per prolungare artificialmente la vita. Oggi invece c'è la possibilità di prolungare la vita vegetativa per un tempo indefinito, e tenere il morente in un sonno senza risveglio, in uno stato di sospensione tra la vita e la morte». Non credo sia necessario insistere ulteriormente sull'interesse di questa raccolta. Chi leggerà quei testi se ne renderà conto da solo.

Corriere della Sera 22.5.08
Opere ritrovate. Dal 1893 al 1910: il Grido di Munch «ringiovanisce»
di Stefano Bucci


Da domani tornerà ad essere visibile in quelle stesse stanze del Munch Museum di Oslo da cui era stato trafugato il 22 agosto del 2004. Dopo il ritrovamento il 31 agosto 2006 («due anni e nove giorni dopo il furto», spiega puntigliosamente un comunicato ufficiale) per il Grido di Edward Munch (1863-1944), una delle opere più celebri dell'artista norvegese, sarà un vero e proprio ritorno sulle scene. L'occasione è la mostra, aperta fino al 26 settembre, che propone di «rivisitarlo» assieme all'altro capolavoro di Munch rubato nella medesima occasione, la Madonna.
Sarà un ritorno con tanto di sorpresa: visto che il restauro effettuato dopo il recupero (sponsorizzato da l gruppo petrolifero Idemitsu) ha costretto gli esperti a spostare la datazione, dal 1893 al 1910. E così nel catalogo ragionato delle opere di Munch in via di pubblicazione a fine anno, a cura di Gerd Woll, il capolavoro sarà più giovane di diciassette anni. Anche se, accanto a 1910, ci sarà comunque un punto interrogativo: «Perché se la vigorosa pennellata e lo straordinario gioco di colori fanno posticipare la data — spiega la direttrice del museo Ingebjorg Ydtsie— restano pur sempre dei dubbi». Intanto si sa che il restauro non ha potuto cancellare tutti i danni prodotti dal furto (la polizia non ha mai chiarito le modalità del ritrovamento): a cominciare dall'umidità e dai frammenti di vetro che si sono conficcati nel cartone su cui il Grido è stato dipinto. Ancora una volta la direzione del Munch Museum precisa: «Il valore incalcolabile del quadro non è però certo diminuito».

Corriere della Sera 22.5.08
Il fallimento dell’utopia studentesca
Il Sessantotto americano diventa un fumetto
di Arturo Carlo Quintavalle


Lontano davvero il tempo della rivolta nelle università statunitensi e ancora più distante la storia dell'SDS (Students for a Democratic Society), il movimento studentesco del '68 americano. All'inizio c'è la Dichiarazione di Port Huron del 1962, diritti civili, no alla guerra in Vietnam, mentre il tramonto delle illusioni si pone verso la fine degli anni '60, quando i diversi gruppi, dentro e fuori l'SDS (marxisti, trokzisti, anarchici, maoisti e anche le Black Panters), finiscono per prendere strade molto diverse. Proprio questa frammentazione, e l'azione della FBI e delle polizie locali, spiega il sostanziale fallimento della rivolta e il ritorno all'ordine nelle università, dalla Columbia ad Harvard.
«Storie, collettive e personali, di giovani coraggiosi, trasformatori del loro tempo, spinti dalla voglia di un domani diverso » scrive Mario Capanna nella bardella del volume curato da Fabrizio Grillenzoni; certo, ma per noi l'interesse del libro sta altrove. Non nel racconto, frammentario perché unisce storie di protagonisti spesso distanti o anche estranei l'uno all'altro, ma piuttosto nel linguaggio scelto, quello del fumetto. Si badi però: qui non si usa lo stile dei «Peanuts», e neppure quello obsoleto di Disney, ma la grafia dei fumetti più intensi, diciamo da Dick Tracy a l'Uomo- Ragno.
Purtroppo l'aspetto didascalico pesa troppo: nella gran parte dei casi il testo prevale sulle immagini che restano sempre subalterne alle parole. Viene da chiedersi come mai sia stata scelta, negli USA, questa soluzione: forse perché un volume di saggi in memoria di un'utopia rivoluzionaria vecchia di quasi due generazioni non avrebbe mai avuto un largo pubblico? Ancora un problema di alfabetizzazione politica? Non è possibile stabilirlo, certo le scelte fatte non facilitano la comprensione degli eventi.
H.PEKAR G.DUMM P.BUHLE Studenti contro il potere GRAPHIC ALET PP.224, e17

Repubblica 22.5.08
Inghilterra, la nuova legge sulla fecondazione non richiede il papà
È stata approvata anche la norma per mantenere a 24 settimane il limite per l´aborto
Il bimbo con due mamme
di Enrico Franceschini


LONDRA. Il movimento di liberazione della donna ha ottenuto un altro diritto: quello di poter mettere al mondo bambini senza un padre. La nuova legge su embrioni e fecondazione artificiale, approvata questa settimana al parlamento britannico, assegna a donne single e a coppie lesbiche lo status pieno di "genitori", annullando la regola finora esistente secondo cui le cliniche della fertilità devono tenere in considerazione «il bisogno di un padre» da parte del nascituro, prima di accettare una cliente per un trattamento.

La nuova legislazione afferma «il bisogno del sostegno dei genitori», senza specificare se questi debbano essere di sesso differente. Le coppie di lesbiche, che nel Regno Unito avevano già il diritto di adottare bambini e che potevano sperare, ma senza averne la certezza, di convincere una clinica della fertilità a impiantare in una di loro un ovulo fecondato dallo sperma di un donatore, ricevono così un riconoscimento ufficiale: la famiglia con due mamme, e senza papà, è ora una legge dello Stato.
Non tutti se ne compiacciono, nemmeno in un paese prevalentemente laico come questo, che spesso ha indicato la strada - insieme agli Usa - dell´evoluzione del costume e della morale all´Occidente. Il governo laburista era consapevole di muoversi in un territorio controverso: perciò il primo ministro Gordon Brown (che ha poi votato a favore del provvedimento) aveva dato «libertà di voto» ai deputati del suo partito. Alcuni dei quali hanno votato contro sia sul diritto di concepire una famiglia senza il padre, sia sulla risoluzione per mantenere a 24 settimane il limite entro cui avere un aborto, sia sull´autorizzazione a creare embrioni «ibridi», umani-animali, per lo sviluppo di cellule staminali a scopo di ricerca. Anche tre ministri cattolici, Browne, Kelly e Murphy, hanno votato contro, e il cardinale O´Connor, capo della diocesi cattolica inglese, ha protestato contro la nuova legge. Ma i vari articoli, su diritti delle coppie lesbiche, aborto ed embrioni ibridi, sono passati lo stesso a grande maggioranza, ricevendo il sostegno di ampi settori dell´opposizione conservatrice e liberal-democratica. Il dibattito che ha accompagnato il voto, nell´aula della camera dei Comuni, è stato inconsueto per il genere degli argomenti e per il candore con cui sono stati affrontati.
«È forse normale un mondo in cui un bambino può avere due madri?» si è indignato il conservatore Patrick Cormack. Ma un altro conservatore, John Bercow, gli ha risposto che finora le lesbiche che volevano un figlio si sentivano rispondere dalle cliniche della fertilità di «andare a cercare un uomo al pub più vicino». La laburista Jacqui Smith, ministro dell´Interno, era contraria: «Ci meravigliamo che il nostro partito ha perso contatti con la gente comune, e poi proponiamo leggi contro il comune buon senso?». Ma un´altra deputata laburista, Emily Thornberry, ha replicato: «Il comune buon senso è spesso una scusa per discriminazioni, chiusura mentale e rifiuto di fare i conti con il ventunesimo secolo». Secondo un sondaggio del Times, il 40% della popolazione è contrario alla «famiglia con due mamme» e il 32 favorevole, con nette differenze generazionali: i cittadini al di sopra dei 55 anni sono contrari, quelli dai 18 ai 34 favorevoli.

L’intervista. "Amare il bimbo è questo il dovere al di là del sesso"

ROMA - «La natura esige che un bambino nasca tra adulti che lo accudiscono e lo amano. Non specifica il sesso», spiega Fulvio Scaparro psicoterapeuta esperto di bambini.
Crescere senza un padre può creare problemi?
«Può farlo se la madre è sola, fa fatica a lavorare e accudire il bambino insieme. E può farlo se le persone che lo circondano non offrono affetto. Ma non esistono prove che la compresenza di un uomo e una donna sia essenziale per lo sviluppo. Di ricerche ce ne sono state tante, ma al momento non c´è una risposta conclusiva. Nella mia esperienza ho conosciuto bambini cresciuti all´interno di coppie omosessuali, e non ho mai riscontrato problemi particolari. Intendo dire problemi attribuibili al genere degli adulti educatori».
Si obietta che una famiglia simile sia contro natura.
«Quante cose sono contro natura oggi, eppure non ce ne preoccupiamo. E poi bisogna ricordare che avere lo stesso sesso non vuol dire essere uguali. Anche nelle coppie gay o lesbiche esiste quella varietà dei caratteri che aiuta a crescere».
(e.d.)

Liberazione Queer 18.5.08
La democrazia è un feticcio, liberiamocene
di Franco Berardi


Nessun organismo collettivo accetta la dissoluzione, perciò è forse inevitabile che alla dissoluzione elettorale della sinistra faccia seguito un tormentoso e inconcludente tentativo di riesumazione del corpo in putrefazione della sinistra e della democrazia

Nessun organismo collettivo accetta la dissoluzione, perciò è forse inevitabile che alla dissoluzione elettorale della sinistra faccia seguito un tormentoso e inconcludente tentativo di riesumazione del corpo in putrefazione della sinistra e della democrazia.
Forse sarebbe meglio riconoscere il carattere irreversibile del processo dissolutivo che è sotto i nostri occhi non solo in Italia, ma a livello europeo. La dissoluzione della sinistra politica non è che un episodio - in fondo secondario - della decomposizione della forza sociale operaia, che ha cominciato a verificarsi tre decenni orsono: caduta progressiva del potere d'acquisto del salario, totale sottomissione del tempo di vita al dominio violento del capitale. Se all'inizio del ventesimo secolo un uomo o una donna di classe operaia nascevano sapendo di dover lavorare novantamila ore nel corso della loro vita, e se negli anni 70 nascevano sapendo di dover lavorare quarantacinquemila ore, oggi un uomo o una donna nascono sapendo di dover lavorare centoventimila ore. Queste cifre sono l'unico discorso intelligente sul tema della libertà. A libertà cancellata, lo schiavismo imperante.
L'espansione planetaria dell'esercito industriale di riserva ha provocato un collasso della capacità contrattuale operaia, e ha reso possibile l'affermarsi di una forma di assolutismo del capitale: il profitto non deve più rispettare alcuna legge, nessun limite può contenerne la potenza devastatrice. Grazie alle tecnologie e alla caduta di ogni barriera giuridica la precarietà è divenuta la forma generale del lavoro. Per impadronirsi di tempo altrui il capitale non ha più bisogno di comprare la disponibilità di un lavoratore, con tutti i limiti giuridici, fisici, mentali, che il lavoratore porta con sé, in quanto persona umana. Il capitale può comprare lavoro senza bisogno di contrattare con una persona, in quanto il tempo è disponibile, come un oceano frattale infinito, convocabile cellularmente, ricombinabile in rete. Le condizioni stesse della comunità operaia sono cancellate, perché i lavoratori non si incontrano più nello spazio concreto della fabbrica e nel tempo esteso della loro vita, ma sono ridotti a cellule continuamente ricombinabili, senza più continuità fisica né affettiva.
Entro queste condizioni il capitalismo si è trasformato in un sistema di illimitato dominio sulla vita sociale. L'unico limite alla violenza capitalista era la resistenza organizzata del lavoro, che si manifestava attraverso innumerevoli forme di autorganizzazione della vita quotidiana, attraverso innumerevoli forme di lotta, di sabotaggio, di assenteismo, di solidarietà. La "sinistra" era il ceto politico cui i lavoratori attribuivano il compito di salvaguardare e consolidare questa loro forza, unica difesa della società contro la violenza del capitale. Nelle sue diverse forme - nella forma socialdemocratica e riformista, come nella forma rivoluzionaria e leninista - la sinistra ha tradito, per incompetenza o per corruzione, questo mandato dei lavoratori. Perciò merita di scomparire. Ma che lo meriti o no, scompare e basta, perché sono dissolte le condizioni sociali che ne rendevano possibile l'esistenza.
Democrazia è il fucile in spalla agli operai, si scriveva un tempo sui muri. Può darsi che si trattasse di una formula un po' brusca, ma in fondo rendeva bene il senso della realtà: democrazia è il contesto in cui i lavoratori possono trattare con il capitale contando su una forza autonoma, e in cui la società può mantenere una relativa autonomia rispetto al predominio dell'economia di profitto.
La democrazia, come forma politica di gestione della vita sociale, implicava inoltre almeno altre due condizioni: la libera formazione dell'opinione e della volontà, e la possibilità di scegliere tra alternative diverse di organizzazione sociale.
Entrambe queste condizioni sono completamente scomparse nella realtà del secolo ventunesimo.
La libera formazione della volontà presuppone un grado diffuso di conoscenza, un libero accesso all'informazione, e un rapporto relativamente paritario tra le diverse agenzie di formazione dell'opinione. Nelle condizioni attuali di appropriazione privata delle fonti di informazione e dei mezzi di produzione dell'immaginario collettivo, questo carattere essenziale della democrazia è cancellato. Nasce una dittatura fondata sul controllo preventivo della mente da parte di agenzie di info-produzione.
La possibilità di scegliere tra alternative diverse di organizzazione sociale è una condizione altrettanto fondamentale. Per quale ragione dovremmo scegliere tra destra e sinistra se non si può modificare il rapporto tra capitale e lavoro, se non si può neppure mettere in discussione il criterio della crescita economica, la competizione e la privatizzazione forzata del prodotto delle energie collettive?
Negli ultimi decenni la sinistra ha potuto governare più volte, ma ogni volta ha saputo soltanto continuare l'azione della destra, cioè ha saputo soltanto farsi strumento di eliminazione delle difese sociali, strumento di sottomissione della vita al profitto. E' stato così nella Gran Bretagna di Blair, nella Germania di Schroeder, nell'Italia di Prodi. Perché dovremmo rimpiangere questa sinistra? Perché dovremmo ricostruirla, dal momento che nessuno può credere alla capacità di un governo alternativo alla violenza scatenata del capitale?
Nel corso del secolo ventesimo la società aveva creato strutture di autodifesa perché il tempo di vita non fosse totalmente sottomesso allo sfruttamento. Purtroppo la società ha consegnato queste strutture di autodifesa a un ceto politico denominato "sinistra", e questo ceto politico ha svenduto sistematicamente l'autodifesa della società in cambio di qualche potere politico ed economico. Si è trasformato in un ceto di sfruttatori tirannici e incompetenti, nei paesi cosiddetti socialisti, e poi, negli anni Ottanta e Novanta, si è prestato al ruolo subalterno di una riforma che vuol dire soltanto eliminazione di ogni difesa della società, liberazione della dinamica di capitale da ogni vincolo di umanità.
Perché dovremmo oggi impegnarci nella ricostruzione di una sinistra che non potrebbe in ogni caso modificare nulla di un sistema di automatismi tecno-economici? Ogni discorso basato sulla supposizione dell'esistenza della democrazia è un discorso senza senso: quel che resta della democrazia moderna è un rituale elettorale privo di qualsiasi effetto sulla realtà della vita quotidiana e della distribuzione del reddito. Da qui dobbiamo partire, se vogliamo inventare le forme nuove dell'autonomia sociale. Nel prossimo decennio la devastazione non avrà ostacoli: devastazione ambientale, devastazione psichica, devastazione simbolica. E nella devastazione occorrerà lavorare, per costruire, non un ceto politico rappresentativo del quale nessuno più avverte il bisogno, ma strutture di autodifesa e di attacco che siano adeguate ad una forma produttiva in cui le sole forze dotate di una capacità trasformativa saranno l'invenzione scientifica la creazione simbolica e l'azione terapeutica.

Liberazione 22.5.08
GB, il feto non è vita e si può ancora abortire alla 24esima settimana
di Francesca Marretta


Londra. Il governo laburista britannico ha vinto in Parlamento su tutta la linea nel voto sulla legge per la procreazione, detta "Human fertilisation and embryology bill".
Bocciato, con 393 contrari e 71 a favore, l'emendamento che proponeva di ridurre da 24 a 12 settimane dal concepimento il limite per l'interruzione di gravidanza. Eliminato l'obbligo per le cliniche specializzate in procreazione in vitro di considerare la «necessità della figura paterna».
Bocciato l'emendamento che chiedeva di impedire la creazione di embrioni ibridi, ottenuti dall'inserimento di Dna umano in ovuli di animali, da utilizzare nelle ricerche sulle cellule staminali. Respinto anche il divieto di far nascere «neonati donatori» da embrioni selezionati per fornire tessuti compatibili per trapianti che permettano di salvare la vita di fratelli o di sorelle colpiti da malattie genetiche.
Si tratta un voto progressista di portata storica per i diritti delle donne, insediati in questi mesi dalla lobby cattolica e anti-abortista che ha riportato in auge dopo vent'anni un dibattito su diritti acquisiti e di una svolta per le donne single e le coppie gay e lesbiche intenzionate a procreare con la fecondazione assistita. Per le coppie gay questo è il passo avanti più significativo dopo l'ammissione delle adozioni.
L'esito di questo voto non era affatto scontato. La previsione, tra le fila dei laburisti, era quella della sconfitta. Ai deputati era stata lasciata libertá di votare secondo coscienza.
Durante il voto sui capitoli della legge, giá approvata alla Camera dei Lords, gruppi anti-abortisti opposti a quelli in difesa per il diritto della scelta delle donne, si sono fronteggiati in piazza tenendo alti i rispettivi cartelli. "Proteggi l'embrione" versus "difendi le 24 settimane".
Sul limite temporale per l'interruzione della gravidanza si sono susseguite diverse votazioni, per spostarlo, rispettivamente a 22, 20, 16 e 12 settimane. In ciascuna votazione la maggioranza che si è espressa contro le modifiche è risultata molto ampia. Il leader del partito Conservatore David Cameron ha votato per la riduzione del termine a 22 settimane. Le campagne portate avanti dai gruppi anti-abortisti - sostenute da quotidiani come il Daily Mail , che ha pubblicato storie e foto di bambini nati molto prematuri, ma cresciuti sani e in salute - hanno trovato un'interpretazione particolarmente vigorosa nei sermoni del cadinale Cormac Murphy O'Connor: secondo il religioso i feti abortiti entro i limiti confermati con il voto potrebbero sopravvivere grazie alle attuali tecnologie.
Il dibattito sui termini per l'aborto è stato particolarmente acceso.
La deputata conservatrice Nadine Dorries, ex infermiera, per ottenere un voto sull'interruzione di gravidanza a venti settimane, ha parlato della sua esperienza ospedaliera, ricordando l'esperienza di un feto tenuto «tra le braccia che per sette minuti aveva tentato di respirare». «Quel giorno - ha aggiunto nel suo intervento l'esponente Tory - ho pensato che stavamo commettendo un omicidio».
Il suo collega Edward Leigh l'ha messa sul piano dei diritti umani, sottolineando quanto si parli, nel paese e nel Parlamento, «dei diritti di chi è vulnerabile», dunque, ha aggiunto il deputato Tory, «altrettanto importante dovrebbe essere il diritto alla vita», concludendo che nella Gran Bretagna moderna «l'utero di una madre è il posto più pericoloso in cui trovarsi».
La deputata Laburista Christine McCafferty ha ribattuto che l'attuale limite per l'aborto è «scientificamente ed eticamente giustificato», sottolineando il fatto che è la donna incinta «la sola persona a poter prendere una decisione responsabile». «L'aborto dovrebbe essere una questione privata tra paziente e medico, come per ogni altro trattamento sanitario», ha aggiunto la deputata laburista nel suo intervento, concluso ponendo un interrogativo: «Perché è così difficile per società, anche quelle come la nostra, lasciare il potere di decidere a quelli su cui ricadono le conseguenze?».
La libertà di scelta delle donne, dopo questo voto, resta inalterata. Il quadro legislativo attuale rischierebbe di essere alterato da una vittoria dei Tory, pronosticata dagli attuali sondaggi, alle prossime elezioni politiche.
Il voto di modifica dell'"Human fertilisation and embriology bill", che cancella il requisito dell'obbligo per le cliniche e ospedali in cui si pratica la fecondazione assistita di considerare «l'esigenza della figura del padre» per il nascituro prima di procedere all'inseminazione, ha ottenuto la maggioranza in due votazioni, con 75 e 68 voti. La nuova formula della legge stabilisce che il medico valuti «l'esigenza di un genitore partecipe». Entrambi i partner verranno ora legalmente definiti «genitori». La clausola contenuta nella legge precedente lasciava di fatto facoltà ai medici di respingere le richieste di donne single o coppie lesbische di procreare un figlio con la fecondazione assistita. Tutto questo non accadrà più. Almeno fino alle prossime elezioni.

mercoledì 21 maggio 2008

l’Unità 21.5.08
La faccia feroce della destra: in manette i migranti irregolari
Il reato di clandestinità arriverà col disegno di legge
ma in forma «mascherata» compare già nel decreto Maroni
di Maristella Iervasi


FACCIA FEROCE L’equilibrio tra sicurezza e diritti invocato da tutti - opposizione ombra, agenzia dei vescovi, Caritas e tutto il mondo che ruota attorno ai migranti - è andato a farsi benedire. Il reato d’immigrazione clandestina è nel pacchetto sicurezza Ma-
roni. La misura punitiva contro i migranti e le badanti senza permesso di soggiorno non avrà carattere d’urgenza ma Lega e An - come promesso - hanno preferito la faccia feroce all’equilibrio. Il nuovo reato è stato inserito in tutta fretta in un disegno di legge (art.7 bis, modifica al testo unico sull’immigrazione) e prevede una pena da sei mesi a quattro anni di carcere. Ma un’anticipazione «mascherata» di tale reato figura già nel decreto in via d’urgenza (che dev’essere convertito in legge entro 60 giorni) che oggi il Consiglio dei ministri in trasferta approverà. Si legge all’art. 4 del decreto sulla sicurezza, comma 1 circostanza aggravante: quando uno straniero clandestino commette uno scippo, un furto o una rapina, «la pena prevista è aumentata di un terzo e le attenuanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti».
Marco Minniti, ministro ombra dell’Interno che proprio ieri ha incontrato il suo omologo al Viminale, ribadisce la contrarietà del Pd manifestata da Walter Veltroni e sottolinea che il reato di immigrazione clandestina «è una norma-manifesto che può rivelarsi un vero e proprio boomerang» per le politiche di sicurezza. «Il rischio - sottolinea - è quello di collassare la giustizia e le carceri italiane, aumentando l’insicurezza dei cittadini». Il nuovo reato mette infatti sullo stesso piano coloro che hanno una casa e un lavoro e non sono stati regolarizzati (circa 700mila persone) per il collo di bottiglia della Bossi-Fini con il clandestino che delinque. Ieri sera, nel corso della trasmissione Ballarò, il segretario del Pd Walter Veltroni ribadisce il no dei democratici alla misura prevista nel ddl del governo. «Così - ha detto Veltroni - diventerebbero tutti perseguibili con le conseguenze sui tempi della giustizia e sulle carceri che già scoppiano». Veltroni ha poi precisato però che, se all’interno del pacchetto «ci sarà una parte delle proposte che erano nel pacchetto Amato e che sono assolutamente condivisibili», il Pd le appoggerà.
Il sottosegretario alla famiglia Carlo Giovanardi sembra già temere gli strali d’oltreTevere: «Lavorerò in Parlamento per modificare il reato d’immigrazione clandestina. Non è possibile che colf e badanti se fermate per un controllo possano subire una condanna per il solo fatto di essere irregolari». Ma Maroni difende con i denti la sua scelta: «È previsto in molti paesi Ue, serve a redere più facili le espulsioni». Il pacchetto Maroni sulla sicurezza è composto di un decreto legge in 8 articoli che dà anche più poteri ai sindaci da subito, un disegno di legge e 3 decreti legislativi. E in uno di quest’ultimi è prevista anche una forte «stretta» sull’asilo. In pratica si torna ai tempi bui della Bossi-Fini: il richiedente asilo che ha ottenuto il diniego dalla commissione territoriale per lo status di rifugiato può presentare ricorso ma dal suo paese. Vale dire: lo straniero che proviene da un paese un guerra o fugge da persecuzioni politiche, viene comunque «rispedito» da dove è scappato: anche se lì la sua vita è palesamente in pericolo. Il tutto, in barba alla direttiva europea recepita nel marzo scorso dall’Italia: il dlgs prevede infatti l’abrogazione dell’effetto sospensivo del ricorso che blocca il decreto d’espulsione. E non finisce qui: il prefetto - cosa mai accaduta prima - potrà decidere la limitazione della libertà di movimento del richiedente asilo.
Ma torniamo al reato di clandestinità e al pacchetto sicurezza. Proprio alla vigilia del varo delle misure, l’agenzia dei vescovi ha chiesto di «non buttarla per l’ennesima volta in politica» e ha invitato l’Europa a non farsi «prendere dalla nevrosi» nell’ora delle decisioni. Mentre il direttore della Caritas don Vittorio Nozza ha giudicato «sproporzionata» la trasformazione dell’immigrazione in reato, «illegittime» le restrizioni per i ricongiungimenti familiari e ha definito «simili a caceri» i Cpt, visto che il tempo di permanenza verrà esteso a 18 mesi. Tutte norme che fanno il paio con lo stop agli sbarchi, la condanna minima per l’espulsione a 2 anni, la confisca degli affitti in nero e la stretta sui matrimoni misti.

l’Unità 21.5.08
L’Ue all’Italia: no a espulsioni di massa
Rom, dibattito a Strasburgo dopo le polemiche: i nomadi non sono delinquenti, punire violenze razziste


È TOCCATO al praghese Vladimir Spidla, già primo ministro della Repubblica ceca, ricordare con civile fermezza, a nome della Commissione europea, alcuni punti fermi che nei giorni scorsi per il governo italiano si erano fatti ballerini. Primo: «La lotta contro la criminalità deve farsi nel rispetto dello Stato di diritto». Secondo: «I governi devono fare il possibile per migliorare l’inclusione dei rom, per dotarli di infrastrutture e istruzione, che sono di competenza degli Stati membri». Terzo: «Il principio della libera circolazione è consacrato nella legislazione dell’Unione europea e anche dalla Corte di Giustizia. I romeni hanno la stessa libertà di movimento degli altri cittadini Ue». Quarto: «Nei casi di espulsione bisogna tener conto del comportamento personale dell’individuo, se costituisca una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave. Sono questioni che vanno esaminate caso per caso». Quinto: «Gli Stati membri hanno il dovere di indagare sugli attacchi razzisti e xenofobi e di punire coloro che li incitano oppure li conducono». Ha aggiunto anche che i rom «non nascono delinquenti», e che se vivono ai margini della società è l’Europa intera che perde una risorsa. Parole e regole di civiltà, come quelle sul carattere personale della pena, che escludono categoricamente ogni provvedimento di tipo collettivo, assimilato più a deportazioni di antica memoria che a soluzioni in chiave di «sicurezza».
Parole, quelle del commissario Spidla, che hanno aperto un dibattito teso e serrato al parlamento di Strasburgo. All’ordine del giorno, su iniziativa del gruppo socialista, figurava ieri pomeriggio «la situazione dei rom in Italia», dopo gli incendi e i tentativi di pogrom a Ponticelli e dintorni. Dibattito che, con l’accordo di tutti, si è concluso senza voto, quindi senza risoluzioni. Si trattava piuttosto di ripescare il problema dal fondo melmoso dell’Unione europea e di portarlo in superfice, alla vista e all’udito di tutti. Martin Schulz, il presidente del gruppo socialista che Berlusconi trattò da «kapò» in quella stessa aula, ha ben pesato le parole: «Non vogliamo accusare l’Italia, ma chiederci assieme alle autorità italiane come risolvere il problema dei rom». Nessuna «vendetta» da parte sua, come aveva invece preannunciato la stampa italiana più vicina al governo. In mattinata Schulz aveva parlato «cordialmente» con Franco Frattini, ministro degli Esteri, sullo stesso tono cooperativo: «Perché il problema non è solo italiano», e perché «i rom non possono diventare il bersaglio di una destra populista». Destra che in aula, nel corso della discussione, si è confermata tale.
Ad illustrarsi, più di altri, è stato il deputato Luca Romagnoli. Ha la soluzione pronta: «Controllare il Dna di tutti i bambini rom per accertarne la genia, e avviare la creazione di uno Stato per i rom, possibilmente nell’Europa orientale». Gli ha risposto Claudio Fava, ricordando come un certo Goebbels avesse avanzato la stessa idea per zingari ed ebrei, ed avendone verificato la difficoltà di messa in opera, avesse poi ripiegato sui forni crematori. Si è messo in luce, per i colori nazionali, anche Roberto Fiore, che ha definito «insormontabile» il problema dei rom, a meno di non sospendere il trattato di Schengen per almeno sei mesi, di istituire il reato di immigrazione clandestina e di negoziare con i paesi balcanici, comunitari o meno che siano, il rapido rimpatrio dei rom. Non poteva mancare, in tale sinfonia, l’acuto di Mario Borghezio: i rom sono «delinquenti che emigrano, non emigranti che delinquono», visto che la famiglia rom realizza perfettamente «il reato associativo a delinquere». All’inventore delle ronde padane, con annesso incendio di giacigli d’immigrati, ha replicato Gianni Pittella indicando tre regole ineludibili: «Accoglienza, integrazione, sicurezza». Cose da realizzarsi «per mano dello Stato e non di milizie e di ronde fai da te».
Sia il commissario Spidla che Martin Schulz hanno evocato i fondi sociali europei per aiutare tanto i rom quanto chi abita nelle stesse, disgraziate zone come la periferia napoletana. Ma il nocciolo del problema, ieri, non erano gli aiuti comunitari e il modo in cui vengono spesi. Era piuttosto un ammonimento politico, che la Commissione europea non ha mancato di impartire all’Italia.
g.m.

l’Unità 21.5.08
Roma, al Verano distrutta l’urna dei deportati dei lager
Conteneva le ceneri raccolte nel campo di Mauthausen
di Giuseppe Vittori


L’ARIA CHE TIRA è anche un piccolo monumento in memoria dei deportati che viene devastato in segno di sfregio come mai era accaduto prima. A Roma, nel cimitero del Verano, c’è un muro della memoria con segnati i nomi di chi non tornò più, di tutti
i deportati dalla capitale nei lager nazisti. Incastrata nel muro c’è una piccola urna che nel Memoriale dei deportati custodiva le ceneri raccolte nel Krematorium di Mauthausen. Quell’urna è stata distrutta, sfregiata. Non è chiaro quando è avvenuta la profanazione, probabilmente la notte scorsa, ma il segnale è chiaro. «È un’offesa terribile - dice Emanuele Fiano, deputato Pd - alla memoria di decine di migliaia di vite di italiani, stroncate nei lager nazisti. E per favore, questa volta - ha aggiunto - non si dica che si tratta di atti sconsiderati, compiuti da ragazzotti ignoranti, disadattati, senza guida o riferimenti».
Se ne è accorto Eugenio Iafrate che l’urna era stata divelta e lo ha subito segnalato all’associazione deportati. «Ieri mattina ero in giro con la mia famiglia - ha raccontato nel sito dell’Associazione deportati - a portare un fiore ai nostri morti presso il cimitero del Verano. Arrivati al Muro che ricorda i nomi dei Deportati da Roma, fra cui il fratello di mio nonno, mia madre è rimasta impressionata dalle condizione in cui era ridotta l’urna contenente le ceneri di alcuni deportati. Sul momento io non mi ero accorto di nulla. Poi, sconfortato, ho preso il mio cellulare e ho fotografato il tutto». È da tempo che Iafrate lavora per rintracciare i nomi da aggiungere al monumento e si batte perché quel luogo torni ad essere un simbolo da ricordare nelle celebrazioni. «Ora c’è solo qualche fiore e qualche candela portati dalle famiglie».
L’Associazione ha chiesto immediatamente al sindaco Gianni Alemanno di intervenire. E Alemanno ha risposto. «Abbiamo appreso solo adesso del gravissimo atto di profanazione commesso nel Memoriale dei deportati nei lager nazisti al Cimitero romano del Verano - ha detto - . È un atto che condanniamo nella maniera più dura. Il Comune di Roma è pronto a essere in prima linea per poter fare un gesto riparatorio in tutti i sensi». L’Aned, in un comunicato, si è detta «sdegnata ed offesa, dopo aver denunciato alle competenti Autorità l’accaduto, ritiene doveroso portare a conoscenza dei cittadini e delle loro Istituzioni il volgare atto criminale – perché di ciò di tratta – portato in offesa alla memoria di decine di migliaia di vite di nostri concittadini, stroncate nei lager nazifascismi. Bambini, donne, uomini sacrificati all’odio razzista, all’intolleranza, alla negazione dei principi fondamentali della vita umana stessa».

<span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">l’Unità 21.5.08
Bologna: Via libera ai manganelli per i vigili
di Pierpaolo Velonà


BOLOGNA Via libera dalla giunta Cofferati all’utilizzo di spray urticanti e manganelli per la polizia municipale. Il «sì» dell’esecutivo arriva qualche ora dopo l’approvazione del nuovo regolamento in Consiglio comunale. Una lunga seduta notturna interrotta dall’irruzione dei collettivi studenteschi e dei centri sociali al grido di «Il degrado siete voi». Decisivo il voto compatto dei 21 consiglieri Pd che da soli hanno approvato la nuova strumentazione, vista l’astensione di Sd e di tutto il centro-destra. I «no» sono arrivati da Prc, Verdi e Cantiere dopo un dibattito che per settimane aveva coinvolto anche i sindacati della polizia municipale, che hanno accolto molto tiepidamente la novità. Scettici Cgil, Cisl ed Rdb. Soddisfatto invece Cofferati, che si appoggia ai numeri ottenuti in in Consiglio per rilanciare la vocazione maggioritaria del Pd in vista delle prossime amministratrive (nel 2009). «Abbiamo fatto quello che bisognava fare - ha detto il sindaco -. L’applicazione avverrà attraverso il confronto con le organizzazioni sindacali e con il ministero dell’Interno». Ma è proprio al tavolo con i sindacati che l’entrata in scena di spray e manganelli potrebbe essere rimandata ben oltre i tempi previsti da Cofferati («Dipendesse da me anche la prossima settimana»). Il pericolo, secondo la Cgil, è che il nuovo regolamento si presti a interpretazioni troppo elastiche, che non tutelano l’incolumità dei vigili né tanto meno quella dei cittadini. Nonostante la delibera chiarisca che «spray e manganelli hanno scopi e natura esclusivamente difensiva» e la loro assegnazione potrà avvenire solo dopo «un apposito corso», i timori sono legati a regole d’ingaggio troppo incerte e alla mancanza di tutele assicurative e legali. «Non c’è niente di scritto che stabilisca in quali occasioni questi strumenti potranno essere utilizzati. Chi pagherà l’assicurazione se un agente, magari non volendolo, causerà un danno grave?», si chiede Vanni Albertin, responsabile regionale Cgil della polizia municipale. Secondo il sindacalista i nuovi strumenti possono essere interpretati come una provocazione, e «nelle città dove sono già in uso, come Milano e Torino, non hanno risolto di una virgola l’allarme sicurezzza. L’ordine pubblico non dev’essere una responsabilità della polizia municipale».

l’Unità 21.5.08
Pound, il ’68 in camicia nera
di Bruno Gravagnuolo


Alemanno beat. Ci rallegra che il sindaco Alemanno abbia riscoperto il ’68 e la «beat generation», dinanzi a uno stupito Ferlinghetti ospite poetico al teatro India di Roma. Scoperta tardiva però, a parte certe rivisitazioni «anarchiche» in passato della destra extraparlamentare. E visto che la destra da cui Alemanno viene, plaudiva in Italia alla polizia che bastonava i capelloni. E detestava il pacifismo, Bob Dylan etc. Ma davvero i post-fascisti amano oggi il ’68? In realtà a sentire lo stesso Alemanno qualcosa non quadra. Ad esempio: «Fu il marxismo a uccidere il ’68». No, è pura propaganda domestica. Perché il «marxismo» non fu l’unico ingrediente nel ’68, e nemmeno vi fu un solo marxismo, ma vi furono tante altre culture: situazioniste, freudiane radicali, marcusiane, hippies, umanistiche e libertarie. Certo, c’era un filo di sinistra. E dove fu egemone il «marxismo», lo fu in forma secolarizzata e democratica, come in Italia col Pci. Che contrastò l’estremismo dogmatico marxista. Ma l’equivoco di Alemanno esplode nel richiamo ad Ezra Pound: «Il rifiuto del modello materialista che fu anche di Pound, il poeta che si batté contro l’omologazione consumista...». Eccolo l’imbroglio populista e anarco fascista: Ezra Pound. Grande poeta sì, ma fascistissimo e antisemita, che propugnava, dalla radio fascista e poi di Salò, la lotta all’«ebraismo massonico» e al suo «complotto» finanziario. Sorta di socialismo in camicia nera, gerarchico e rurale, combattentista ed etnico. Come quello di cui parlava a suo tempo Marx: il «socialismo feudale che getta la bisaccia del mendicante» contro il capitalista. In nome dell’aristocrazia (dell’«onore e del sangue» per Ezra Pound). Pound? Ben più che un «lapsus» in Alemanno. È il segno delle sue antiche idee, dei suoi debiti emotivi. Sempre gli stessi. Come il suo ’68 e il suo sogno «beat». Dal colore inconfondibile. Indovinate quale?
Il pogrom di Pansa Che ancora, nei Tre inverni della paura (Rizzoli), rimescola «storia», invettiva, narrativa, slogan, in un unico pastiche a tema. E il tema è: fare giustizia, mostrare che il Pci non era democratico, che l’antifascismo si è retto su bugie, etc. Ma non si rende conto Pansa che questa è una logica stralunata da pogrom, destinata ad alimentare fantasmi e isterie? No, non se ne rende conto.

Corriere della Sera 21.5.08
Gli italiani e lo Stato. Se si invoca lo straniero
di Ernesto Galli Della Loggia


Ha ragione il direttore dell'Unità Antonio Padellaro a intitolare il suo fondo di ieri: «Meno male che c'è l'Europa». Sì, meno male che c'è, ma a una condizione: che noi italiani riusciamo a intendere davvero la lezione che essa da tempo ci impartisce, e che oggi si rinnova a proposito dei rifiuti in Campania e della condizione dei rom. Capire quella lezione vuol dire innanzi tutto non servirsene per regolare i conti con i propri avversari interni, per nascondere le proprie debolezze dietro la forza e l'autorevolezza altrui. Vuol dire rinunciare all'antica, sciagurata abitudine delle classi dirigenti della penisola di invocare l'aiuto dello straniero per avere la meglio sui rivali di casa, così suggellando la minorità propria e di tutto il Paese.
Vuol dire, invece, meditare senza spirito di parte su ciò che l'Europa ci manda a dire. Per esempio sulle parole pronunciate l'altro giorno dall'eurodeputata Viktoria Mohacsi inviata appositamente da Bruxelles, la quale ha trovato i campi rom di Roma e Napoli in «condizioni tremende », ricordando che «l'Italia non ha chiesto neanche i soldi previsti dall'Ue per l'integrazione delle minoranze etniche» e infine accusando il nostro sistema giudiziario di aver «perso le tracce ( sic!) da due anni di 12 bambini rom tolti ai genitori dal Tribunale dei minori perché accusati di accattonaggio». Ebbene, non sarebbe un gioco facile proprio sulla base di queste dichiarazioni (che traggo dalla cronaca della stessa Unità), non sarebbe facile ricordare che fino a prova contraria Roma e Napoli sono state governate negli ultimi 15 anni da giunte di sinistra, le quali hanno preferito evidentemente impiegare le loro risorse in modi diversi che per i rom (forse anche perché i rom non votano)? E non sarebbe altrettanto facile ricordare che evidentemente anche il governo Prodi è colpevole di essersi dimenticato negli ultimi due anni di chiedere i soldi dell'Ue destinati ai rom? O ricordare, a proposito dei 12 bambini scomparsi nel nulla, che in generale è proprio la sinistra che si precipita regolarmente a prendere le difese del nostro vergognoso sistema- apparato giudiziario, opponendosi a qualunque sua radicale riforma?
Sì, sarebbe un gioco facile, ma disdicevole e alla fine inutile. Perché in verità — si tratti dei rifiuti o delle disfunzioni della giustizia, ovvero delle altre mille questioni che suscitano contro di noi critiche e condanne dall'Ue o da altrove — è l'Italia, è il Paese nel suo complesso, sia quando a governarlo è la destra che la sinistra, che mostra la propria ormai trentennale incapacità di tenere il ritmo dei suoi principali partner, di eguagliarne gli standard fondamentali. E' tutto il Paese che da troppo tempo è incapace di dirsi la verità, di rinunciare al suo vizio antico dei rinvii o del lasciar correre, che da troppo tempo rifugge dal prendere i problemi di petto. Come non vedere però che ormai siamo vicini all'ultima ora? Adesso è il momento di capire che il bene collettivo e l'avvenire della politica passano attraverso un primo momento decisivo: il ristabilimento dell'autorità dello Stato. Cominciando in queste ore da Napoli: contro gli incendiari e gli istigatori di cacce all'uomo, contro la camorra, contro le amministrazioni locali incapaci o corrotte da mandare subito a casa. Senza riguardi per nessuno. Senza se e senza ma, e, bisogna sperarlo, con l'appoggio di tutti.

Corriere della Sera 21.5.08
Nel Pd la tentazione dell'astensione. E c'è chi vota «sì»
di Monica Guerzoni


ROMA — Dirigenti del Pd non cadete nella «trappola» di Berlusconi, cedere alle sirene «populiste» sull'abbattimento dell'Ici e la detassazione degli straordinari sarebbe «un gravissimo errore». Sull'Unità l'economista pdStefanoFassinaammonisce i democrats di Veltroni. E l'asprezza dell'avvertimento autorizza a pensare che l'idea di astenersi in aula al momento del voto sia molto più di una suggestione.
Spuntata tra i liberal di Enrico Morando e Giorgio Tonini, la tentazione di non bocciare le prime misure economiche del nuovo governo sta contagiando i «coraggiosi» di Francesco Rutelli, cui spetta la paternità della proposta di eliminare la tassa sulla casa. «Non faremo le barricate », è il via libera che prende forma tra cautela e distinguo. Durante il dibattito sulla fiducia al Senato il regista della veltronomics Enrico Morando ha teso criticamente la mano a Berlusconi, che lo ascoltava con grande attenzione. Ha detto di ritenere «molto più ragionevole» l'ipotesi di ridurre l'Ici al 55 per cento degli italiani e impiegare la parte maggiore delle risorse per un intervento «serio e strutturale» sul trattamento fiscale degli affitti. Ma ha detto anche che intervenire sulla tassa più odiata dagli italiani è «un'opera buona» e, aggiunge ora il coordinatore del governo ombra, «non una bestemmia in Chiesa». Quanto alla trappola fiutata da Fassina, Morando assicura che il Pd non cadrà in errore: «Astenerci? Vedremo cosa il governo ci propone. Se accetterà il confronto saremo disponibili, se faranno finta di non aver sentito le nostre proposte ci comporteremo di conseguenza».
Sulla stessa linea l'onorevole Stefano Ceccanti e il senatore Giorgio Tonini, che sulla defiscalizzazione degli straordinari annuncia l'intenzione di «non fare le barricate» ma spiega le perplessità del Loft: «È una riforma molto popolare tra i lavoratori, però c'è il rischio che si riveli un piatto di lenticchie». La vostra proposta? «La contrattazione di secondo livello». E in Aula, che farete? «Dobbiamo far capire le nostre perplessità, poi se insistono decideremo se votare contro oppure astenerci ». Luigi Lusi ha già deciso, voterà due volte sì. «Per noi è davvero difficile dire che non siamo d'accordo a eliminare l'Ici — ammette il senatore vicino a Rutelli —. E con quale faccia diciamo no alla defiscalizzazione degli straordinari, che incentiva le imprese e aiuta i lavoratori? Dobbiamo pensare per contenuti, non per bandiere».
Pierluigi Bersani ha altre priorità: il potere d'acquisto di salari e pensioni. Eppure il ministro ombra dell'Economia giura di non avere «alcuna remora» sulla detassazione degli straordinari, «purché sia parte di una operazione che cammina su più gambe». E l'Ici? Prodi ha fatto «un bel passo» e se ne possono fare «di ulteriori». Anche Cesare Damiano ha altre priorità per il Paese e poiché le risorse (a sentire Tremonti) sono difficili da trovare, lui suggerisce di impiegarle per diminuire la pressione fiscale su retribuzioni e pensioni. «Ciò detto — apre uno spiraglio l'ex ministro del Lavoro — valuteremo il carattere di questa manovra, alla luce del dialogo con le parti sociali». E l'ipotesi astensione? «Sono della vecchia scuola, sentirò l'opinione del mio partito». L'ultima parola spetta al senatore Tiziano Treu, il quale ritiene «non sbagliatissimo» ma neppure utile detassare gli straordinari e «buttare via altri miliardi» per tagliare l'Ici a case di valore. «Come voterò? Calma e gesso. Nessuna pregiudiziale. Certo, se Tremonti scopre un tesoretto di 20 miliardi allora si fa tutto e dico di sì anch'io...».

Corriere della Sera 21.5.08
Critiche Usa: Dal Wall Street Journal nuovo attacco al Cavaliere: è anti romeni
di G. R.


MILANO — «L'Italia è di nuovo infiammata dalla retorica e dalla violenza anti-immigrati», in linea con le dichiarazioni di «esponenti della sua classe politica», in particolare del governo Berlusconi. È un commento durissimo quello con cui ieri il Wall Street Journal è tornato ad affrontare il tema dell'immigrazione in Italia. Più che un atteggiamento anti-italiano il giornale sembra riflettere la maggiore aggressività che il suo neo-editore, Rupert Murdoch, pretende che cronisti e commentatori «politici» adottino verso tutti i governi. Ma è altrettanto vero che quella di ieri è la seconda «bocciatura» verso Berlusconi (con la prima arrivata nei giorni del voto elettorale), mentre nei due anni del governo Prodi il giornale aveva più volte appoggiato le posizioni del Cavaliere.
Il commento di ieri parte dal caso del campo rom preso d'assalto da «cittadini-vigilantes» di una metropoli, Napoli, «rovinata dalla mafia locale», dove «la spazzatura si accumula nelle strade da mesi». E da qui, si passa ad analizzare le parole provenienti dalla classe politica nazionale.
C'è la citazione del Berlusconi che verso i «fuorilegge» extracomunitari ha parlato di «armata del male». E ci sono persino «quei politici» che sono arrivati a proporre «deportazioni di massa». «Dai rom la campagna persecutoria si è subito estesa a tutti i romeni», scrive il quotidiano Usa. Con il nuovo ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha appena suggerito la revisione delle legge Ue del 2004 sul diritto di residenza dei cittadini comunitari in qualsiasi Paese dell'Unione.
«I politici di Roma pretendono di stabilire quali europei sono più uguali di altri — conclude il giornale — ma questa è proprio la cosa meno europea da fare».

Corriere della Sera 21.5.08
Curzi: il «mio» tg è diventato la Beirut della tv italiana
di Paolo Conti


ROMA — «In quel filmato ho avvertito una carica di anarchia, confusione, rancore... Il bel viso di Bianca Berlinguer con la scritta: "cancellato". Una cosa orribile. E che facciamo? Chi non è d'accordo con una decisione del vertice aziendale manda in onda un filmato? Dopo, chi la pensa diversamente ne manda in onda un altro per replicare? Qui, se non stiamo attenti, diventa la Beirut della tv italiana.»
Sandro Curzi, lei è il padre del «tiggitrè». E dice questo?
«Mi accuseranno di essere diventato un reazionario. Anch'io, ai tempi del mio Tg3, amavo le trasgressioni. Ma sempre nel pieno rispetto delle regole aziendali. Qui c'è stato un uso del mezzo pubblico per qualcosa che non ha senso».
In sostanza lei è d'accordo con Giovanni Minoli quando dice: le decisioni sui palinsesti riguardano i vertici dell'azienda.
«Minoli ha ragione, ha detto con chiarezza ciò che molti di noi alla Rai pensavano su quel filmato. Il piano editoriale? Una scelta ponderata e attenta, ne abbiamo discusso per mesi in Consiglio. E ne avevo parlato tempo fa informalmente da consigliere, nel mio studio, coi ragazzi del Tg3. Lo sapevano, insomma. Immaginavo che ne avessero già discusso tra loro»
Aveva affrontato il tema anche con Bianca Berlinguer?
«Sì, il tempo di un caffè. Bianca era già molto ostile, qualche mese fa. Io sono affezionato ai miei ragazzi del tempo della direzione. In fondo sono come dei miei figli...»
Figli che hanno sbagliato?
«Direi meglio che non hanno capito. Quel blocco d'informazione a metà serata, con orari incerti, non aveva senso. Il prodotto non era straordinario, si finiva col ripetere in gran parte l'edizione di prima sera senza idee particolari. Lo stesso "Primo piano" dopo dieci anni andava innovato. Su quella fascia c'era tanta roba: Vespa, "Ballarò", "Annozero"... un carico pesante. Infatti gli ascolti non sono saliti ma diminuiti proprio mentre la politica premiava invece sia Floris che Santoro. Era arrivato il tempo di cambiare».
La squadra di «Primo piano» parla di marginalizzazione per la collocazione a mezzanotte.
«Invece giudico questa scommessa straordinaria. Sarebbe il primo appuntamento di informazione e approfondimento del giorno che nasce nel cuore di una intera nottata di informazione: prima il Tg3 poi Rainews 24. Ci si può inventare di tutto: la grande intervista, il dibattito a due rivisto e corretto, l'inchiesta, il documento. I ragazzi dovrebbero considerarla come una meravigliosa opportunità professionale. Ai tempi del mio Tg3 inventammo in piena notte "Roma chiama New York", le notizie fresche dagli Usa... Ma gli ottimi colleghi del Tg3 e di "Primo piano" sono bravissimi. Sono sicuro che ricorreranno a intelligenza e creatività».
In quanto al piano editoriale?
«L'ho votato e sono d'accordo. Mi dissocio solo da una scelta della direzione generale: l'aver rinviato la prima serata del Tg1 del mercoledì a gennaio. Sarebbe stato meglio presentare da ottobre il nuovo volto della Rai compatto... boom, boom, boom, un palinsesto pieno di novità. Forse qualcuno ha avuto paura dei tempi. Ma si sapeva da marzo... Una formula innovativa si poteva trovare per ottobre».
Vi accusano di aver rivoluzionato i palinsesti mentre avete le valigie in mano.
«È vero, abbiamo le valigie in mano. Ma quando stai per lasciare una casa devi controllare che sia tutto in ordine. Altrimenti chi arriva dopo sente subito il cattivo odore dell'immondizia dimenticata ».
Il presidente Petruccioli spera in un direttore unico per le news della Rai. D'accordo con lui?
«Sinceramente no. Penso piuttosto che ciascuna testata debba conservare una propria caratteristica. Purtroppo sono troppo vecchio, non vedrò l'approdo ideale: un tg a Milano, uno a Roma, uno a Napoli. Tre testate che raccontino l'Italia con sensibilità territoriali diverse. Questa sarebbe una rivoluzione. Ma senza metterci a fare Beirut».

Corriere della Sera 21.5.08
Opposizione e strategie Il leader pd: non sono pentito dell'alleanza con Di Pietro. L'Arcobaleno? Ragioni sul suo 3%
«Sì al dialogo. Anche Berlinguer fu criticato»
Veltroni: le riforme si fanno con il Pdl. Tradito dalle piazze piene ma mi ricandiderei
di Roberto Zuccolini


«Cosa direbbe la gente se si decidesse di ridurre il numero dei parlamentari e io non fossi d'accordo?»

ROMA — Difende la scelta del dialogo con Berlusconi, riconosce di avere commesso errori, ma annuncia anche che si ricandiderebbe. E si toglie un po' di sassolini dalle scarpe. Come il giudizio sulla sinistra radicale, con la quale ha appena riaperto un confronto: «Hanno preso appena il 3 per cento: ci ragionino sopra ». Walter Veltroni a Ballarò si confessa e punta al rilancio. Il dialogo con il governo è «necessario» perché le riforme si cambiano insieme: «Cosa direbbe la gente se si decidesse di ridurre il numero dei parlamentari e non fossi d'accordo?
». E ricorda che capitò anche ad Aldo Moro e ad Enrico Berlinguer di essere criticati ai tempi del compromesso storico: «A dialogare su quegli argomenti non ci guadagno io, ma il Paese». Riconosce quindi che in campagna elettorale è stato abbagliato «dalle piazze piene e dai giovani», ma comunque «se ci fossero le condizioni » lo rifarebbe. La sconfitta di Roma? Ammette: «È stata scottante». E Antonio Di Pietro, l'alleato che dal giorno dopo le elezioni sembra sempre più distante? «Non mi pento di avere fatto con lui il patto elettorale. Però ora fa un'opposizione facile. E poi è favorevole al reato di immigrazione clandestina».
Poi, c'è tutto il rapporto con la sinistra radicale: «Deve analizzare le ragioni della sconfitta, anziché dedicarsi allo "sport" di dire che la colpa è del Pd. A me dispiace se hanno preso il 3,2 per cento. Però ragionassero sul fatto che hanno tagliato per 2 anni l'albero sul quale erano seduti». E precisa che quando parla di «nuovo centrosinistra» vuole «lanciare una sfida di governo».
Ieri mattina ne ha parlato al coordinamento del Pd rassicurando tutti, a partire dai popolari che temono una svolta socialdemocratica del partito, che sulle alleanze «non si torna al passato». Proprio mentre Massimo Cacciari lo incalzava sull'argomento: «Se si torna all'Ulivo si perde per l'eternità. C'è un'opposizione a Berlusconi che è di centrosinistra e bisognerà pure concordare una linea comune con questa opposizione, che sia o meno in Parlamento. Però una riedizione della vecchia Unione è fuori dalla ragionevolezza: il Pd deve mantenere la sua vocazione maggioritaria perché lo vuole il Paese ».
Certamente però l'incontro del giorno prima con il nuovo leader di Sd, Claudio Fava, ha riaperto il dialogo del Pd con la sinistra. E anche i sospetti. Oggi ad un convegno romano ne parlerà lo stesso Fava con Niki Vendola, in competizione con Paolo Ferrero, suo rivale al prossimo congresso del Prc. Il primo è più favorevole del secondo ad aperture con il partito di Walter Veltroni. Ma entrambi temono che ad essere attratta nell'orbita del Pd possa essere, in tempi brevi, quella Sinistra democratica che aveva deciso di rompere i ponti con la maggioranza dei Ds.
Il Pd continua a guardare anche al centro: il ministro ombra dell'Economia, Pierluigi Bersani, ha incontrato i vertici dell'Udc per cercare punti di convergenza. Ma al suo partito ha anche detto che bisogna «incalzare Rifondazione comunista sul fronte del riformismo ».

Corriere della Sera 21.5.08
Soru compra l'Unità: ho voluto difendere un patrimonio culturale
di R. Zuc.


ROMA — La voce girava ormai da giorni, ma da ieri è ufficiale: l'Unità, quotidiano fondato dal sardo Antonio Gramsci, esce dallo stato di crisi passando nelle mani del sardo Renato Soru ( foto). Si conclude così, con una impegnativa operazione finanziaria (dato che dietro c'è il patron di Tiscali), una vicenda che durava da mesi e che rischiava di indebolire in modo grave lo storico giornale già del Pci, già del Pds, già dei Ds ed ora del Pd (a mezzo con altre testate, più piccole e meno storiche, ma rappresentative dell'area che attualmente copre il Partito Democratico).
Il presidente della Regione Sardegna spiega di averlo fatto per difendere «il patrimonio di cultura e di democrazia» che rappresenta l'Unità. Ha firmato un protocollo con Ad, la società che controlla attualmente il quotidiano, con l'obiettivo di creare una Fondazione che avrà la responsabilità di gestirlo. Si dichiara in una nota che la Fondazione «vuole proseguire la tradizione di solidarietà sociale e di impegno che hanno caratterizzato da sempre il giornale».
Il cdr dell'Unità esulta: «Siamo pienamente soddisfatti». E ringrazia sia i sindacati che lo stesso Pd «per essersi impegnati a rilanciare il giornale». La redazione del quotidiano era in agitazione da mesi e temeva soprattutto l'ipotesi che a inizio anno sembrava diventata realtà, di un acquisto da parte degli Angelucci, già proprietari sia del Riformista che di
Libero. Ora promette di «verificare i piani» della nuova Fondazione. Anche la Federazione nazionale della stampa si unisce al coro: «Finalmente si diradano le nubi minacciose che si stavano addensando sul futuro del giornale fondato da Antonio Gramsci».
Ed è contento Walter Veltroni, che fu a suo tempo, come altri dirigenti dei Ds, un suo direttore: «Si chiude una lunga fase di incertezza finanziaria per il giornale, segnata da momenti difficili e segnali allarmanti. Crediamo che per l'Unità possa aprirsi una nuova fase di sviluppo e di rafforzamento».
Ma c'è anche chi, invece di gioire per la soluzione di una crisi che si portava avanti da tempo, denuncia nuovi problemi all'orizzonte. Mario Diana di An fa presente che «si profila un conflitto di interessi». Per il fatto che Soru è presidente della giunta sarda e quindi «potrebbe influenzare la prossima campagna elettorale di quella regione». E lo stesso rischio viene denunciato dall'Italia dei Valori, pure alleata del Partito Democratico: «Soru è un buon imprenditore, ma bisogna scegliere: l'informazione non deve essere controllata dalla politica».

Corriere della Sera 21.5.08
Cattolici No a «Famiglia cristiana»
Roccella: è sbagliato voler cambiare la 194


ROMA- Oggi alla conferenza stampa organizzata presso la Camera dei deputati dal Movimento per la vita a trent'anni della legge sull'aborto, per «ridiscutere la 194», Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare, non ci sarà.
Il mondo cattolico è in pressing contro la legge 194 e Famiglia cristiana ha lanciato quasi un altolà per modificarla subito. Lei è stata uno dei due portavoce del Family Day, come giudica questi interventi?
«Spostare l'attenzione dalle politiche familiari, per chiedere la modifica della legge 194, secondo me, vuol dire aprire un discorso inevitabilmente ideologico che crea un'immediata spaccatura nel Paese e che quindi è controproducente proprio nell'ottica di chi vuole ridurre il ricorso all'aborto ».
Perché?
«Perché l'approvazione di quella legge e la campagna referendaria che ne seguì, crearono nel Paese una lacerazione che fa ancora male. Ecco, con questi appelli non si fa altro che riaprire quelle vecchie ferite. Nessuna legge è un tabù, naturalmente, ma la fuga in avanti rischia di compromettere la reale possibilità di agire, in positivo, per una diminuzione concreta ed effettiva degli aborti nel nostro Paese. Io, invece, sono sicura che questo obiettivo sia a portata di mano».
Cosa glielo fa credere?
«C'è il clima adatto: anche nel centrosinistra, come dimostra la lettera della precaria Sandra, la risposta del presidente della Repubblica, Napolitano, gli interventi di Miriam Mafai».
Come mai chi va all'attacco della 194 non si rende conto di un possibile effetto boomerang?
«Da parte di Famiglia cristiana
mi è sembrato un intervento ingeneroso nei confronti del governo appena insediato, dovuto forse alla volontà di mettere alla prova il centrodestra, dopo che per due anni, il governo di centrosinistra è stato sempre all'attacco (rispetto alle posizioni della Chiesa) su tutti i temi etici: dai Dico fino alle ultime linee guida della Turco sulla legge 40 sulla fecondazione assistita ».
Cosa farà il nuovo governo?
«La modifica della legge 194 non fa parte del programma del Pdl ed entrambi i leader, Berlusconi e Fini, hanno detto che non si farà. Ma noi abbiamo l'occasione storica di cambiare in concreto. Nel suo discorso programmatico Berlusconi ha parlato di rimuovere le cause economiche del ricorso all'aborto e di un grande piano nazionale per la vita» .
Secondo il settimanale dei paolini, l'aborto è la causa della crisi della natalità in Italia. E' così?
«Non si può scambiare la causa con l'effetto: il problema non è la denatalità, ma la maternità. Oggi in Italia le donne non sono libere di essere madri. Le famiglie non sono libere di avere dei figli. Oggi fare un figlio vuol dire impoverire il proprio reddito del 20 per cento. Proprio per questo intendo istituire subito, all'interno del ministero del Welfare, un coordinamento sulla maternità».

Corriere della Sera 21.5.08
Oltre 4 mila le feste dove i giovani «no sex» si impegnano all'astinenza fino alle nozze. Anche Harvard ha il suo club
Con papà al ballo della purezza. L'America delle nuove vergini
di Paolo Valentino


Il clou dell'incontro: il padre giura di proteggere la castità della ragazza I critici: residuo patriarcale da combattere

DES MOINES (Iowa) — All'inizio fu una festa fra amici, nella piccola comunità evangelica di Colorado Springs. Per celebrare la raggiunta pubertà della figlia più grande, Randy e Lisa Wilson si inventarono il Purity Ball, il ballo della purezza. Una serata di gala, nella quale si alternano danze e rituali, come il passaggio sotto due spade incrociate su un tappeto di rose bianche. E dove il clou è il giuramento del padre a proteggere la castità della ragazza, l'impegno pubblico a vegliare sulla sua astinenza sessuale fino al matrimonio.
Sono passati dieci anni e i «Purity Ball» sono diventati un fenomeno americano. Secondo l'Abstinence Clearinghouse, un gruppo che promuove il digiuno sessuale prima delle nozze, l'anno scorso ne sono stati organizzati 4400, soprattutto negli Stati conservatori del Sud e del Midwest degli Stati Uniti. Venerdì sera, a Colorado Springs, l'originale dei Wilson ha festeggiato la sua nona edizione, consacrata da una copertura mediatica quasi hollywoodiana e animata da padri e figlie venuti da ogni parte dell'America.
Non tutti i Purity Ball sono uguali. In molti di questi, anche alle ragazze è richiesto un «virginity pledge», un giuramento a rimanere vergini. I Wilson non condividono l'idea. Ma la sfida alla cosiddetta «hook up culture», la cultura permissiva dell'abbordaggio è la stessa: «Le nostre figlie si aspettano una mano da noi, per salvarsi da una mentalità dominante, che considera del tutto normale andare a letto con chiunque si desideri, una ricetta per il caos», dice Randy Wilson.
Criticati dagli osservatori femministi come «un residuo patriarcale, teso a perpetuare la sottomissione delle donne, quasi che la sessualità di una ragazza appartenga a suo padre o a suo marito», i balli della purezza sono però la parte più nazional- popolare e «kitsch» di un trend, che rivela aspetti molto più sofisticati e sorprendenti.
Veniva proprio da Colorado Springs, Janie Fredell, quando nel 2005 fu ammessa alla Harvard University. Le occorsero poche settimane per accorgersi che nel campus di Cambridge «fare sesso è assolutamente OK» e che «perfino l'Università ti spiega quali precauzioni usare ». Janie, forte del suo «virginity pledge», decise di reagire. Scrisse un articolo per il Crimson, il giornale di Harvard diretto, pensato e scritto dagli studenti, nel quale difese il «fascino misterioso della verginità, radicato non tanto nell'innocenza ma nella forza», che le costò lazzi e ironie nell'intero campus. Poi, nel 2006, incontrò il minuscolo drappello del True Love Revolution, un gruppo quasi catacombale che teorizza e pratica l'astinenza sessuale per ragazze e ragazzi, originato a Princeton già qualche anno prima e poi emerso anche in altre università della Ivy League, da Yale al Massachusetts Institute of Technology, tradizionali bastioni della cultura permissiva.
Due anni dopo, Fredell ne è co-presidente. Ad Harvard, il manipolo dei seguaci è cresciuto con parecchie centinaia di adesioni, acquistando soprattutto rispetto e influenza. E Janie ha lavorato molto per dare al gruppo basi meno religiose e più intellettuali, ricorrendo all'aiuto di pensatori cattolici come Elizabeth Anscombe e di filosofi come Ludwig Wittgenstein o John Stuart-Mill. Soprattutto, Janie rivendica la modernità del suo approccio: «Il femminismo convenzionale sostiene che controllare il proprio corpo significa la libertà di fare sesso senza conseguenze, come un uomo. Io sono una femminista anti-convenzionale, prendo possesso del mio corpo attraverso la scelta di non farlo, dicendo no agli uomini». Il massimo di popolarità, Janie lo ha raggiunto a ottobre, quando affrontò in una disputa pubblica la campionessa del sesso a go-go, Lena Chen, la provocante sex blogger del Crimson, che titolò a tutta pagina: «Belzebù contro la Vergine Maria».
Che i «virginity pledge» funzionino è tutto da discutere. Secondo lo studio di due sociologi della Columbia University, le statistiche mostrano che «chi ha preso l'impegno alla castità, conserva la sua verginità tecnica 18 mesi più a lungo delle adolescenti che non l'hanno fatto », ma «ha una probabilità sei volte più grande di praticare il sesso orale». Di più, quando ha la prima esperienza, «avviene di rado che usi un preservativo ».
Ma il punto è in fondo secondario. Pur contestata e discussa, l'astinenza sessuale diventa sempre più una scelta possibile per molti giovani americani, irrompendo anche nella cultura pop. Da Miley Cyrus, la quindicenne star di Disney criticata per sue foto troppo osé, a Adriana Lima, testimonial di una casa di biancheria intima, all'attrice Jessica Simpson, fino alla più celebre, la cantante Britney Spears, sono sempre più numerose le celebrità che hanno giurato di restare vergini.

Corriere della Sera 21.5.08
Un convegno celebra il romanzo di D.H. Lawrence a ottant'anni dalla pubblicazione
Lady Chatterley, scandalo fiorentino
Nel capoluogo toscano lo scrittore trovò ispirazione e passione
di Ranieri Polese


Ottanta anni fa, nel 1928, a Firenze veniva stampata la prima edizione di Lady Chatterley's Lover («L'amante di Lady Chatterley»), il romanzo di David Herbert Lawrence destinato a subire una serie di censure e proibizioni lunga oltre trent'anni. Vietato in Inghilterra (ma anche negli Stati Uniti, Australia, India) perché osceno (scandalizzò moltissimo il frequente e ripetuto uso del verbo «fuck»), il libro verrà assolto in un processo celebrato a Londra nell'autunno del 1960, intentato contro Penguin che aveva pubblicato il libro nonostante il divieto. Famose le parole del pubblico ministero che chiese ai giurati se pensavano che un libro simile potesse «essere letto dalle vostre mogli o dai vostri domestici». Prima del 1960, comunque, avrebbe circolato in molte edizioni pirata, tratte appunto da quelle prime 1.000 copie (cui se ne aggiunsero 200, visto le richieste internazionali), piene di refusi e di errori.
Lawrence, che viveva a Firenze dal 1926 con la moglie Frieda von Richtofen (avevano preso in affitto la villa Mirenda, sulle colline a sudovest di Firenze, sopra Scandicci), si era rivolto all'amico libraio Pino Orioli, il quale a sua volta lo presentò a Leo Samuel Olschki, proprietario della piccola Tipografia Giuntina. Il libro, stampato a spese dell'autore in carta color avorio, aveva una copertina di colore rosso, con su impressa una fenice disegnata dallo stesso Lawrence.
Per celebrare questo anniversario Firenze ha organizzato un convegno (29-31 maggio) a cui partecipano studiosi italiani, inglesi, americani; tra i promotori, la Regione Toscana, il British Institute, il Gabinetto Vieusseux, la University of New York (villa la Pietra). Ci saranno anche proiezioni di film da o su Lawrence: «Donne in amore», 1969, di Ken Russell; la biografia dello scrittore, «The Priest of Love», 1981, di Christopher Miles, e la recente versione per lo schermo del romanzo, 2006, firmata dalla francese Pascale Ferran. Venerdì 30 maggio, visita guidata (con lettura di brani del libro) a villa Mirenda, dove si può ancora vedere l'affresco «Borea e Crizia », che presumibilmente ritrae D.H. Lawrence e Frieda.
Tra le questioni affrontate dai relatori, un'attenzione speciale viene dedicata al rapporto di Lawrence con l'Italia e in particolare con Firenze, la città dove appunto lavorò, tra il 1926 e il 1928, al suo romanzo più famoso (di cui restano due versioni, poi rifiutate, precedenti l'edizione definitiva). Viaggiatore instancabile, sempre in cerca di climi più salubri necessari alla pessima condizione dei suoi polmoni, lo scrittore scende in Italia la prima volta nel 1912-13, in compagnia di Frieda von Richtofen, l'aristocratica tedesca (lontana parente di Manfred von Richtofen, il futuro Barone rosso dell'aviazione del Kaiser) che per lui aveva lasciato il marito Ernest Weekley (un inglese professore di letteratura a Nottingham) e tre figli. La coppia, dopo un soggiorno sul Garda, si stabilisce a Fiascherino, dove rimane fino allo scoppio della guerra, che li costringerà a tornare in Inghilterra. Bloccati in Cornovaglia, David e Frieda — si erano sposati nel 1914 — riprenderanno a viaggiare già dal 1919: prima tappa, l'Italia: l'Abruzzo, Capri, Taormina, la Sardegna. Del primo soggiorno a Firenze, avvenuto in quegli anni, Lawrence ha scritto nel romanzo La verga di Aronne (1922): ospite in una pensione economica vicino a piazza Mentana (di cui descrive l'awful monument,
il «terribile monumento», ai caduti garibaldini) racconta la scoperta di piazza della Signoria, delle sue statue, della sua imponenza esclamando «qui un tempo vissero dei giganti! ».
Nel '22 lasciano l'Europa per Ceylon, l'Australia e finalmente il New Mexico dove la miliardaria Mabel Dodge regala loro una villa a Taos in cambio del manoscritto di Figli e amanti. Nel '25 le condizioni di salute peggiorano e Lawrence decide di tornare in Italia. Prima a Spotorno, poi (1926) a Firenze, nella villa Mirenda sopra Scandicci. Negli oltre due anni passati in Toscana, oltre a dedicarsi al lavoro di scrittura del romanzo, Lawrence perlustra i luoghi etruschi, da Cerveteri a Volterra: da queste visite nascono le pagine di Luoghi etruschi, in cui si legge l'ammirazione per la vitalità «fallica» degli etruschi e il fastidio per l'Italia fascista. Morirà a Vence, nel 1930. Le sue ceneri verranno portate, anni dopo, a Taos da Frieda e dal suo nuovo marito, l'italiano Angelo Ravagli.
Sul libro odiato e amato con pari intensità sono fiorite interpretazioni e indiscrezioni a non finire. Per esempio sulla vera identità dei protagonisti. Per alcuni, il guardiacaccia Oliver Mellors e Lady Constance sarebbero Lawrence, di umili origini, e l'aristocratica Frieda. All'epoca, però, la relazione tra i due era praticamente esaurita e Lawrence, ormai minato dalla malattia, confessava apertamente l'infelicità di quel rapporto. Altri invece dicono che lo scrittore si era ispirato all'avventura dell'amica Lady Ottoline Morrell con un giovane tagliapietre (soprannominato Tiger) che lavorava nel parco della sua villa. Resta comunque il fatto che quel romanzo, dopo il verdetto del 1960, avrebbe accompagnato il decennio della rivoluzione sessuale, della liberazione dai tabù. Come ricorda il poeta Philip Larkin in Annus mirabilis: «Cominciai ad avere rapporti sessuali nel 1963 (abbastanza tardi): tra la fine del divieto di Lady Chatterley e il primo lp dei Beatles».

Corriere della Sera 21.5.08
Scoperte Ritrovato un articolo, che si credeva perduto, scritto a 16 anni dal futuro poeta maledetto
Così il giornalista Rimbaud attaccava Bismarck
di Stefano Bucci


«Hi! Povero!». Così, per ben tre volte viene apostrofato (a quanto pare la citazione in italiano si ispirerebbe direttamente al «nostro» Garibaldi) il cancelliere Otto von Bismarck descritto mentre si addormenta «dopo aver a lungo sognato ad occhi aperti», mentre «immerge il proprio naso nel fornello incandescente della pipa», mentre punta «la sua piccola unghia malvagia» su Parigi. Un breve «pezzo» (titolo «Il sogno di Bismarck») tutto giocato sul sarcasmo e sulla rabbia allo scopo di sbeffeggiare quel Cancelliere di Ferro responsabile della disfatta dei francesi a Sedan ad opera dei prussiani. Dietro l'anonima firma di Jean Baudry non si nasconde però un giornalista qualsiasi, ma Arthur Rimbaud, il più maledetto dei poeti francesi (1854-1891), l'autore di Una stagione all'inferno. Che, però, probabilmente non vide mai pubblicato quell'articolo, datato 25 novembre 1870, sul «Progrès des Ardennes», il giornale di tendenze repubblicane della sua città Charleville- Mézières cui lo aveva inviato. Visto che al momento della pubblicazione Rimbaud viveva una delle sue ennesime fughe, stavolta verso Charleroi come più tardi verso Parigi e Verlaine. Di questo articolo (destinato «a rendere incomplete le biografie del poeta finora scritte») si sapeva ben poco, tranne qualche accenno all'amico Delahaye, anche se già si conoscevano le velleità giornalistiche di Rimbaud. Ora quell'articolo torna alla luce grazie all'intuito di un giovane cineasta francese Patrick Taliercio che ha trovato la fatidica copia del «Progrès» in una bottega di libri usati delle Ardenne dove era capitato per girare un documentario appunto su Rimbaud e sulle sue fughe. Il sarcasmo di Arthur non sarebbe comunque servito a salvare la sua città: seimila granate avrebbero distrutto Charleville-Mézières pochi mesi più tardi l'uscita dell'articolo, il 31 dicembre 1870, e con essa la tipografia del «Progrès des Ardennes » con tutti i suoi archivi e con quell'articolo contro Bismarck firmato dal giovane Jean Baudry alias Rimbaud.

Corriere della Sera 21.5.08
La traduzione sarà presentata al Papa
Parole, storia. fede: ecco la nuova Bibbia
di Alberto Melloni


La storia della Bibbia in italiano — alla quale l'episcopato italiano aggiungerà la prossima settimana un nuovo capitolo, offrendo al papa una traduzione riveduta — è lunga e affascinante.
Essa inizia con le traduzioni delle Sacre Scritture nel toscano parlato di cui oggi si ritrovano testimoni manoscritti della seconda metà del Duecento: quasi a ricordarci che anche in Italia il testo biblico e la nuova lingua colta tentavano di nascere insieme, all'interno di una grande svolta di civiltà. Ciò che impedì il fiorire di quell'incontro fu la dura lotta contro eresie o mere istanze riformatrici nell'ascesa di quella che Walter Ullmann chiamava la «monarchia papale ». E così il volgare italiano crebbe senza che la Bibbia ne plasmasse l'espressione, come invece fu con l'inglese della «Standard Version » o il tedesco della «Bibbia di Lutero».
Anzi: proprio le riforme del XVI secolo segnarono il destino della Bibbia italiana. Infatti quando il concilio di Trento tentò di identificare pochi e netti elementi di distinzione fra le confessioni, la distanza dalla Bibbia diventò un marker cattolico. Immobilizzata nel latino della Vulgata, riservata a un ceto clericale, le Sacre Scritture diventarono un oggetto ritenuto «delicato» nella sensibilità romana, distante dal processo di formazione della cultura nazionale. La Bibbia in italiano, così, fu quella d'un esule riformato, il lucchese Giovanni Diodati uscita nel 1607 e rimasta inaccessibile al grosso dei fedeli, anche quando le sue revisioni ottocentesche le tolsero la patina più antica o quando le traduzioni in più volumi (dal Martini in poi, spesso partendo dal latino!) si offrivano come oggetti da preti.
Per questo la «Bibbia del Novecento» rimane oggetto raro o sospetto o sconosciuto ai cattolici: qualcuno usa la revisione Diodati fatta dal pastore valdese Giovanni Luzzi nel 1925 (è questa la Bibbia che le Br consegnano a Moro nel 1978), appaiandosi dagli anni Trenta a versioni cattoliche in un volume, fra le quali spicca quella aulica e severa di Fulvio Nardoni uscita nel 1960, proprio alla vigilia del concilio che avrebbe decretato di restituire alla Bibbia la sua dignità nella liturgia e alla Parola di Dio la sua signoria sulla chiesa.
Per questo, fra il 1965 e il 1971, l'episcopato italiano produsse una nuova traduzione, emancipata dal latino e anche dalla versione greca dell'Antico Testamento: quel testo — al quale misero mano esegeti, pastori e poeti come Quasimodo — si diffuse e s'impose anche quando dal 1974 iniziò ad uscire la «Bibbia di Gerusalemme» che tutt'attorno al testo della Cei forniva le note e i rinvii preparati dall'École biblique
alle porte della città santa. Oggetto di critiche, quella traduzione non fu di fatto soppiantata né da quella in lingua corrente che nel 1976 cercava inutilmente di superare le difficoltà di comprensione «quotidianizzando» il testo né dalla traduzione ecumenica che voleva affermare la forza unificante della Parola né dalla «Nuovissima » curata, fra gli altri, dal cardinale Carlo Maria Martini.
Il testo Cei, forte della mediazione del lezionario, giustamente ha prevalso. E ha lasciato la Bibbia ove oggi essa è nella fede e nella cultura: diffusa dalla liturgia, ma esiliata dall'insegnamento scolastico comune; centrale nella formazione dei seminaristi, ma predicata nella più orgogliosa ignoranza del dato esegetico. La pubblicazione di una nuova Bibbia in italiano, che l'episcopato offrirà al suo primate Benedetto XVI fra otto giorni, riconosce tutte queste sfide e le legittima. Le pone nell'agenda della cultura che lì sente risuonare ciò che la impasta e che essa beatamente ignora. Le iscrive nell'agenda della chiesa, che lì ascolta la Parola, norma della sua forma e della sua riforma.

Corriere della Sera 21.5.08
Dibattito Il presidente della Società italiana di biologia evoluzionistica replica a Piattelli Palmarini
Ma l'ornitorinco non contraddice le teorie di Darwin
di Giorgio Bertorelle


Ci mancava l'ornitorinco! Al variegato mondo degli anti- Darwin all'italiana si è aggiunta nei giorni scorsi questa fantastica e velenosa specie australiana, reclutata dalle pagine del Corriere
dell'11 maggio scorso da Massimo Piattelli Palmarini: «Ornitorinco uno, Darwin zero», scrive in un articolo facendo credere che i recenti dati pubblicati dalla rivista Nature
sul genoma dell'ornitorinco contraddicano la teoria dell'evoluzione per selezione naturale.
Piattelli Palmarini sembra non conoscere gli studi che hanno integrato negli ultimi decenni la teoria darwiniana, ancora valida nelle sue fondamenta. L'articolo che descrive parla di duplicazioni geniche, di convergenza evolutiva, di evoluzione di cromosomi sessuali e di molti altri processi noti da tempo a tutti e interamente compatibili con la moderna teoria dell'evoluzione. Processi che sono avvenuti a partire dai nostri antenati simili ai rettili e dopo l'antica separazione, più di 150 milioni di anni fa, dei mammiferi monotremi (ornitorinco ed echidna) da tutti gli altri mammiferi. Curiosamente, a nessuno degli oltre 100 autori di questo studio è venuto in mente che, come dice Piattelli Palmarini, «il patrimonio genetico dell'ornitorinco mette in crisi l'evoluzionismo». Di più, lo stesso Piattelli Palmarini cita a supporto delle sue idee un secondo articolo uscito in questi giorni sempre sull'ornitorinco, senza far riferimento al fatto che gli autori dello studio sostengono invece, testualmente: «L'evoluzione a passi successivi di queste vie indipendenti di segnale attraverso la duplicazione genica e la seguente divergenza è consistente con la teoria darwiniana di selezione e adattamento ». È possibile che questa frase, ben in evidenza nell'articolo originale, sia sfuggita a Piattelli Palmarini?
La teoria dell'evoluzione, come insegna il metodo scientifico, è quotidianamente esposta al vaglio e alla verifica dei fatti e dei dati sperimentali. Ed è un peccato che a volte non prove e fatti, ma parole in libertà, si trasformino in pericolosa disinformazione sotto un titolo perentorio che recitava «L'ornitorinco sconfigge Darwin». Gli sconfitti, in questo caso, sono la cultura scientifica e la sua diffusione.

Repubblica 21.5.08
Trent'anni di 194 in una testimonianza molto documentata di Giovanni Fattorini
Un medico cattolico racconta
di Miriam Mafai


Una questione sociale dovuta alle condizioni economiche
Nel corso dei tre decenni il numero delle interruzioni si è dimezzato

All´inizio, negli anni Settanta quando se ne chiedeva l´uscita dall´illegalità, l´aborto si presentava essenzialmente come un problema delle donne, che chiedevano piena assoluta autorità sul proprio corpo. Negli anni successivi, con le nuove scoperte della medicina, il problema cambiò in certa misura fisionomia e diventò (fatta salva l´autorità della donna cui spettava sempre l´ultima parola) anche un problema, sia pure controverso, di bioetica. Più recentemente, infine, alcuni dolorosi casi di cronaca, hanno proposto il tema dell´aborto come questione sociale, una scelta amara dovuta essenzialmente dalle condizioni economiche dalla donna.
A trent´anni dalla approvazione della legge 194 che ha reso legale, anche in Italia come in tutti i paesi europei, l´interruzione volontaria di gravidanza, è possibile, certamente augurabile, una riflessione meno ideologica e conflittuale sull´argomento. Che parta da una conoscenza approfondita del fenomeno, in tutti i suoi risvolti. Ci aiuta in questo percorso il libro, in uscita il 5 giugno, di un medico, cattolico ma non obiettore, che da anni si occupa del problema (Giovanni Fattorini, Aborto, un medico racconta trent´anni di 194, Guerini e associati, pagg. 256, euro 22).
Prima di tutto Fattorini ci offre i dati completi del fenomeno, indispensabili per una sua valutazione complessiva. E dunque per i primi quattro anni, tra il 1978, data di approvazione della legge, fino al 1982, il numero degli aborti in Italia è rimasto sostanzialmente invariato, 234.000 aborti l´anno. Poi, negli anni successivi si è registrato un calo netto degli interventi che nel 1994 saranno soltanto 142.657. Da allora però, e sono passati ormai quattordici anni, il fenomeno si è stabilizzato. Nel 2005, ultimo anno per il quale disponiamo di cifre definitive, si sono operate in Italia 132.790 interruzioni volontarie di gravidanza.
Ma i numeri assoluti non dicono tutto... Dietro queste cifre c´è infatti una realtà in rapido mutamento. Cambia, in primo luogo, il profilo sociale delle donne italiane che fanno ricorso all´aborto. Erano, nei primi anni di applicazione della legge, donne sposate, non giovanissime, con un buon titolo di studio, con uno o più figli. Sono, oggi, donne più giovani, con scarsi requisiti di cultura e di mezzi, tanto che, scrive Fattorini, si può parlare della esistenza «di fasce di popolazione femminile oggettivamente a rischio di gravidanze non volute». Un altro dato su cui riflettere: secondo i dati del 2005 (e niente fa pensare che il fenomeno si sia ridotto) almeno un terzo di tutti gli aborti vengono ormai effettuati su donne immigrate. Vi ricorrono prevalentemente le donne che provengono dai paesi dell´est europeo nei quali il tasso di abortività è tanto elevato (arriva al 78 per mille in Romania) da far pensare che in realtà l´interruzione volontaria di gravidanza sia vissuta in quei paesi, e quindi dalle donne che da lì provengono, come una normale ed economica forma di contraccezione. (Se pensiamo, come molti di noi pensano che l´aborto debba costituire soltanto l´extrema ratio cui una donna ha diritto di ricorrere, in caso di una gravidanza indesiderata, sarebbe quindi necessario incentivare, a tutti i livelli il ricorso a metodi contraccettivi efficaci, checché ne pensi la nostra Chiesa.)
Ricco di tabelle, dati e cifre, ma anche attraversato dal racconto di tante storie di donne che a lui si sono rivolte con fiducia, con pudore, con difficoltà, questa ricerca di Giovanni Fattorini andrebbe letta e studiata con attenzione da tutti coloro che non potendo, o non volendo, proporre l´abolizione della legge 194, chiedono almeno che la stessa legge venga sottoposta, come suol dirsi «a un tagliando».
Queste 256 pagine rappresentano esattamente l´auspicato «tagliando». Un medico cattolico, non obiettore, con una lunga esperienza sul campo ci racconta non solo come ha funzionato la legge, i suoi successi, le sue insufficienze, le sue ambiguità, ma ci dice anche come funzionano e dove non funzionano e perché i consultori previsti da una legge, la 405, che precede quella sulle IVG; ci spiega perché le donne italiane (e ancor più le immigrate) fanno così scarso ricorso ai metodi anticoncezionali e come tale situazione potrebbe essere superata; ci dice infine come funziona, e le polemiche che ha sollevato, il cosiddetto «aborto medico», che, grazie all´adozione della RU 486, può sostituire l´attuale «aborto chirurgico».
Da cattolico «adulto», Fattorini affronta anche, in un apposito capitolo il delicato problema della presenza del volontariato all´interno dei consultori. Si tratta, ricorda Fattorini, di un volontariato cattolico, che ha irrigidito nel tempo le sue posizioni, «con l´obiettivo di trasformare sostanzialmente e indipendentemente dal nome i Consultori in veri e propri centri di aiuto alla vita», con il risultato di dissuadere una donna ad abortire nelle strutture pubbliche, e il rischio conseguente di un ricorso agli aborti clandestini. Un pericolo reale, grave e da evitare in tutti i modi.

Repubblica 21.5.08
Domani il trentennale della legge sull’aborto
di Anna Bravo


L´interruzione di gravidanza era perseguita come un delitto contro l´integrità e la sanità della stirpe ed era vietato parlare di anticoncezionali
Per la Dc e per la Chiesa ogni forma di depenalizzazione era inconcepibile
Il movimento femminista si mosse allora in tutta Europa

Chi avrebbe immaginato, nel 1968, ‘69, ‘70, che nel giro di qualche anno in Italia si sarebbe varata una normativa per la legalizzazione dell´aborto? All´epoca il tema non rientra negli obiettivi dei movimenti, e neppure del preoccupato Pci. Per la democrazia cristiana e per la Chiesa qualsiasi forma di depenalizzazione è inconcepibile. L´opinione pubblica, oltre che divisa, sembra pigra. A sollevare la questione, il Movimento di liberazione della donna, vicino al Partito Radicale, alcuni dei primi gruppi femministi, qualche giornale di impegno civile, qualche esponente socialista, in prima fila Loris Fortuna. Non è poco, ma non basta.
Eppure su come vanno le cose si sa tutto o quasi. Le donne abortiscono clandestinamente - il che, se qualcuno l´avesse dimenticato, voleva dire ricerca affannosa di un medico, un´ostetrica, una praticona, soldi da trovare, appartamenti - scannatoio senza nome sul campanello, prezzo pagato in anticipo, un tavolo da cucina come letto operatorio, metodi pericolosi, a volte letali. In questi anni si può morire perché non si riesce a ottenere un intervento più sicuro. E perché la Repubblica non ha ancora trovato modo di abrogare la legge fascista, che fa dello Stato il titolare della fecondità nazionale, persegue l´aborto come delitto contro l´integrità e la sanità della stirpe, e con l´articolo 553 del Codice penale vieta l´informazione sugli anticoncezionali, assimilati a materiale pornografico. Senza questi dati elementari, oggi sarebbe difficile capire il senso di slogan come «io sono mia», oppure «l´utero è mio e lo gestisco io», così simili al «potere studentesco» del ‘68 nell´utopismo sovrano e nella capacità di rendere lo spessore della storia.
Un corpo sociale minimamente sensibile vedrebbe l´aborto clandestino come una ferita, una classe politica e intellettuale responsabile come un´urgenza. Ma tutto resta fermo finché non si fa strada il movimento delle donne, più variegato, ampio, influente, di quanto si aspettavano le stesse femministe. La campagna per la depenalizzazione è anzi in tutto l´occidente la svolta verso una dimensione di massa - anche le legislazioni democratiche criminalizzano l´aborto, sia pure con motivazioni diverse da quelle del codice fascista - e verso un nuovo clima più benevolo e solidale.
L´interessante è che la lotta esplode quasi contemporaneamente in paesi molto diversi, e che segue una strategia per certi aspetti simile. Spesso si parte da un processo altamente scandaloso per la condizione dell´accusata - giovane età, gravidanza in seguito a stupro, problemi economici o di salute - e se ne fa un «caso» capace di scuotere l´opinione pubblica. In Italia spiccano il processo del ‘73 alla giovane Gigliola Pierobon, e l´incriminazione nel ‘74 a Trento di 273 donne. E´ comune anche il passaggio alla pratica degli obiettivi, come si diceva allora, con la creazione di Centri in cui si praticano aborti o si organizzano viaggi in Inghilterra e Olanda.
L´impalcatura delle leggi proibizioniste crolla dovunque più rapidamente del previsto. Perché i tempi sono cambiati, ma soprattutto perché fra le donne ha prevalso una strategia saggia, visibilità e provocazione da un lato, realismo dall´altro, vale a dire ancoraggio all´esperienza. E grazie a questo legame che il femminismo sostituisce alla contrapposizione aborto/non aborto quella fra aborto legale e aborto clandestino, che insiste sul destino dei figli non voluti, che si interroga sul concetto di diritto all´aborto, sul senso stesso di una legge.
E qui le strade divergono. Nei gruppi del femminismo storico si teme che quel concetto riduca l´aborto a una tappa fra le altre nell´allargamento dei diritti civili; ci si chiede se sia il caso di sostenere una legge che pretenda di decidere sul corpo delle donne, cui spettano invece «la prima parola e l´ultima». L´Udi preme per una regolamentazione, salvando però la facoltà di decidere delle donne. Le femministe della «nuova sinistra», che puntano alla depenalizzazione e insistono sul gap di classe, vedono nella lotta sull´aborto anche l´amata opportunità di uscire «all´esterno»; e uscita all´esterno vuol dire raccolte di firme, grandi manifestazioni, lavoro nei quartieri a fianco delle donne. E risultati. Una legge lo è. Sarà una buona legge, non la migliore possibile.
Questo è un pezzo di storia studiato e chiarito. Ce n´è un altro più in ombra, fitto di contraddizioni. Lo schieramento per la depenalizzazione - femministe, politici, intellettuali - insiste quasi in blocco sui costi fisici e psichici dell´aborto, fino a fare del dolore femminile un assoluto. Non è sempre stato così: nel ‘71 una femminista nota, Elvira Banotti (La sfida femminile, De Donato), aveva sostenuto che l´aborto può essere anche un momento di libertà e di pienezza; che se qualcuna lo vive come un trauma, è perché da secoli lo si considera un peccato e un crimine: una tesi che semplifica l´insemplificabile, e che viene accantonata senza discuterla. Nel medesimo schieramento, si parla delle donne come di vittime, ma senza spiegare se siano o no le uniche. Si definisce mortifero l´aborto, ma lo si dice in senso simbolico.
Si crea così un modello di racconto, un copione in cui la donna soffre e agisce per stretta necessità. E questa diventa l´unica cifra socialmente accettabile per raccontare un´esperienza che è invece carica di ambivalenze, a cominciare dal rapporto con il feto.
Dietro quel copione ci sono buone ragioni di ordine politico. Il fronte antidepenalizzazione assimila l´aborto all´omicidio, alcuni gruppi «pro life» usano (e osano) mostrare fotografie di minuscoli feti con braccia gambe testa, bambini in miniatura. I partiti di sinistra esitano; più che una mediazione si profila un compromesso. Ma ci sono anche altre inquietudini. Parlare di aborto implica definire cos´è vita, quando comincia, in che rapporto stia con la coscienza, e forse concentrarsi sul dolore è un modo per non chiedersi chi o cosa lo provoca, chi o cosa viene rimpianto. A dispetto delle sue molte voci, su questo punto il femminismo rimane quasi del tutto silenzioso, le donne rischiano di consegnare il monopolio dell´etica ai credenti, alla Chiesa - o ai suoi politici di fiducia.
Eppure fra i due estremi del feto-persona e del feto-grumo di cellule, anche in questi anni c´è uno spazio in cui lavorare. Fra le studiose americane di filosofia morale, qualcuna si confronta seriamente con gli argomenti «pro life», ma spostando l´attenzione dalle caratteristiche del feto al suo rapporto con la donna.
Passaggio importante: una cosa è attribuirgli i diritti fondamentali, altra cosa è sancire il suo diritto specifico a ricevere tutto quel che gli è necessario per vivere. Judith Jarvis Thomson ricorre a un paradosso: ammettiamo, scrive, che un cittadino prezioso, per esempio un violinista inarrivabile, possa restare in vita solo se una donna - quella e nessun´altra - accetta di metterglisi al fianco e di restarci ininterrottamente, collegata a lui da una macchina. Per lei, dire di sì diventa un obbligo morale? O, più sensatamente, è un´opzione che è libera o no di scegliere, anche se il rifiuto porta alla morte di lui?
Troppo astratto, aveva detto qualcuna all´epoca.
Ma anni dopo se ne trova eco in un atto unico di Jane Martin, Keely and Du, dove una giovane donne violentata dal marito e decisa a abortire viene rapita da un prete e dalla sua aiutante, che per scongiurare quello che giudicano un omicidio decidono di tenerla incatenata fino al parto, ridotta a puro contenitore del feto. «Per amore», dicono, e l´autrice, raccontando la relazione che nasce fra le due donne, lascia capire che, per quanto deviato, è in parte reale. Programmato in Italia a marzo, Keely and Du è stato ben accolto. Segno, forse, che la disponibilità a misurarsi con il nucleo etico dell´aborto è aumentata. Qualcuno lo considera un guadagno: parlando degli anni Settanta, un uomo raccontava tempo fa di aver sottoscritto tutti gli appelli per la depenalizzazione. Oggi li avrebbe firmati ugualmente, spiegava, ma dopo aver pensato di più e a molte più cose di allora.

Liberazione 21.5.08
I dolori (e le capriole) di Walter
Le manovre di Veltroni e le inquietudini nel Pd
di Rina Gagliardi


All'apparenza, sembrerebbe proprio un cambiamento di linea politica: Veltroni apre a sinistra e si dichiara disponibile, nientemeno, che a "verificare le condizioni di un nuovo centrosinistra" - insomma, di una nuova alleanza con le forze della sinistra radicale. E la strategia dell'autosufficienza? E la "vocazione maggioritaria"? E la più che conclamata volontà di non ripetere gli errori del passato, leggi l"ammucchiata" che fu l'Unione? Va bene che in politica domina oramai la legge della memoria corta, anche e soprattutto su se stessi.
Ma se fosse davvero così, saremmo a una svolta relativamente clamorosa, o a una disinvoltura tattica francamente esagerata. Allora? Allora forse è il caso di andare oltre l'apparenza, per tentar di capire che cosa sta succedendo nel Partito Democratico, ovvero nelle sue non pacifiche dinamiche.
Il fatto è che a un mese e più da quel disgraziato 14 aprile, Veltroni continua a non riconoscere quel che era già allora palese: che, se Berlusconi aveva vinto, anzi stravinto le elezioni, il Pd le aveva perse. E le aveva perse non solo, ovviamente, sul piano quantitativo, ma su quello, per così dire, "strategico": cioè spolpando la sinistra e il suo bacino di consenso, ma fallendo nell'obiettivo (cruciale) del così detto "sfondamento al centro", al quale, all'opposto, il Pd cedeva porzioni significative di elettorato. Dunque, era proprio l'idea-clou della strategia veltroniana ad esser messa in discussione: il partito del centro "riformista", da solo, non ce la fa a vincere. Almeno in Italia, almeno per cinque o dieci anni, l'architettura bipartitica funziona cioè a senso unico, a favore di una destra non solo sempre più forte, ma sempre più abilmente inclusiva e "moderata" - e inchioda lo stesso centro riformista, suo malgrado, a una (insopportabile) "vocazione minoritaria". Il leader del Pd, dicevamo, non ha mai avviato questo genere, o un altro consimile, di riflessioni ed anzi si trincera, a tutt'oggi, dietro la consolazione del "grande successo" elettorale ottenuto. Ma l'altro fatto è che nel Pd non tutti si sentono così appagati del "secondo posto" ottenuto (come l'ottima Roma). Non tutti sono così convinti che, per il futuro, ci si possa rigidamente attestare sulla rottura di ogni alleanza a sinistra. Non tutti, infine, sono così intimamente soddisfatti del profilo di "co-governo" che il cabinet shadow veltroniano ha assunto, nelle sue prime giornate di vita (fino agli eccessi di Piero Fassino, che, proprio ieri, su sicurezza e migranti e Rom, ha difeso con veemenza il governo Berlusconi e quasi con altrettanta veemenza ha criticato il governo spagnolo). Al di là della riesplosione del solito eterno duello "tra Massimo e Walter", insomma, nel Pd sta affiorando una inquietudine di fondo, sulle scelte politiche di fondo. E come si fa a non essere inquieti se lo scenario italiano, di qui ai prossimi anni, si presenta con un governo di destra robusto e stabile, un Pd responsabile e collaborativo, un Di Pietro che galoppa nei consensi popolari, a forza di grida giustizialiste e di antiberlusconismo d'antan, fino al punto di guadagnarsi il ruolo di unica vera opposizione politico-parlamentare?
Dunque, la verità è che Veltroni oggi si trova di fronte non ai soliti, banali contenziosi dei gruppi dirigenti, ma a difficoltà politiche molto serie. Alla crisi oggettiva della sua "costruzione" politica - un partito che o è di governo o (quasi) non è. E al rischio che, alla prossima verifica elettorale, le cifre comincino ad assottigliarsi. Le europee, per esempio, che sono previste all'incirca tra un anno - senza l'arma del voto utile, senza lo spettro di Berlusconi, senza solide spinte alla partecipazione al voto, chi ha detto che quel 34 per cento scarso si conservi o si consolidi? E chi può esser sicuro che la (sciagurata) idea del quorum di sbarramento, concepita per liberarsi definitivamente, manu militare, di ogni rappresentanza della sinistra, vada davvero in porto? E' per queste ragioni che il leader del Pd comincia fin d'ora a muoversi, e a muovere qualche pedina tattica. Senza mettere in discussione l'impianto generale del Pd, "flessibizza" la sua iniziativa politica, e lancia, a sinistra, offerte, a ben vedere, molto generiche. Classici ballon d'essai che, per un verso, sottintendono una più che ribadita volontà di primazia (la pretesa piddina di "rappresentare" una parte delle istanze della sinistra), per l'altro verso, puntano a dividere, a selezionare, a seminare zizzania. Insomma, senza proporsi di aprire un confronto o una riflessione politica di fondo, Veltroni cerca di mettersi al riparo dall'insoddisfazione interna - che cresce in regioni storiche come l'Emilia Romagna - e da critiche che potrebbero presto assumere un carattere più organico. Ma forse lo sa anche lui: Veltroni potrà rimanere leader del Pd per altri vent'anni, ma la crisi del veltronismo è già ampiamente in atto. Un (terzo) fatto che non possiamo non considerare salutare.

il Riformista 21.5.08
Conversazione sul voto italiano
«La sinistra italiana ha perso i deboli»
Bauman spiega la nuova destra no global
di Elisabetta Ambrosi


È possibile leggere il voto italiano come un voto contro la globalizzazione? E vedere nella scelta di coloro che, affascinati dalle tesi dell'autore di La paura e la speranza e ora ministro dell'Economia, hanno optato per il Pdl o per la Lega, una protesta più o meno consapevole verso processi economici e sociali che la sinistra non sa né governare, né contrastare? «Mentre la Lega prometteva di riportare sicurezza», afferma il sociologo Zygumt Bauman, «il neonato Partito democratico si è limitato a suggerire, più o meno esplicitamente, che avrebbe favorito una maggiore deregolamentazione del capitale e dei mercati e una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro; e un'apertura ancora più vasta delle porte del paese alle imprevedibili forze globali».
Bauman la globalizzazione l'ha studiata da sempre: è stato uno dei primi a scrivere, quando ancora essa era sinonimo di scintillante progresso, che l'apertura dei mercati non sarebbe stata un beneficio per tutti (tant'è che Laterza aveva giustamente illustrato il suo libro Dentro la globalizzazione . Le conseguenze sulle persone non con grattacieli, aerei e sale computer ma con un gruppo di migranti vestiti di stracci). Il sociologo di Leeds spiega al Riformista perché il logo "no global" è diventato appannaggio della destra, come già in Italia Cremaschi e Casarini avevano osservato con malcelata invidia. Se da un lato la sinistra ha promesso più globalizzazione, dall'altro ha proposto come terapia dei problemi che da essa nascevano soluzioni fallimentari, come un'azione statale di tipo nazionale. «Ma come si può pensare di arrestare l'ondata di una globalizzazione incontrollata di capitale, finanze, criminalità, droga e traffico di armi, terrorismo e migrazioni avendo a disposizione i mezzi di un solo stato?», dice l'autore di libri come Paura liquida e La solitudine del cittadino globale . «Qualcuno ci ha provato per la verità, come in Nord Corea e Cina, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Al di là di questi esempi, chi ha indicato nel progetto di uno stato sociale l'unico strumento per realizzare le sue promesse ha fallito, perché i poteri effettivi, quelli che decidono realmente delle nostre opzioni di vita e della sua qualità, sono evaporati dallo stato nazione allo spazio globale, dove fluttuano incontrollati».
Insomma, è come se la sinistra avesse auspicato l'apertura delle falle nella diga e insieme promesso di chiuderle con un po' di colla "nazionale". Logico che abbiano vinto le forze che quella diga promettevano di piantonarla, magari con le ronde, giorno e notte, perché non uscisse una goccia. Certo, continua lo studioso, anche quella della destra è un'illusione, perché «tornare indietro, girare le spalle agli affari globali, (miseria mondiale compresa), chiudere le porte agli stranieri, moltiplicare gli stati neofeudali non porterà sicurezza. Anzi, più le politiche locali sono polverizzate, più piccole e deboli sono le sue agenzie, più invincibili diventano i poteri globali che ignorano confini, i costumi e le aspettative locali».
Raccontare la globalizzazione agli elettori, e saper rispondere alle domande che essa suscita, è cosa ben complicata per destra e sinistra. «Il vero problema - dice il sociologo - non è tanto dire cosa andrebbe fatto, ma capire chi davvero sia sufficientemente potente e determinato nel farlo. La conditio sine qua non di un controllo politico effettivo sulle forze economiche globali è che le istituzioni politiche ed economiche operino al loro stesso livello; e che ci sia un'agenzia politica che abbia la portata territoriale dei poteri globalizzati. Eppure è proprio contro qualsiasi tipo di regola che le forze che fluttuano libere si scagliano».
Prima o poi la risposta alla globalizzazione andrà data. Ma in questo tentativo, conclude Bauman, la sinistra si trova messa peggio. Prima di tutto, perché la sua identità è confusa, visto che oscilla tra «una terza via globalizzante e un antagonismo che si nutre di no»; mentre per dirsi tale dovrebbe poggiarsi sull'assunto per cui «come il potere di tenuta di un ponte va misurato sul suo pilastro più debole, così la qualità di una società va misurata dalla qualità di vita dei suoi membri più deboli». In secondo luogo, perché è più facile proteggere militarmente la diga (o promettere che lo si farà), che trovare dei modi perché l'acqua che tracima a valle sia fonte di vita e non di morte. Ma almeno, immagini edil-politiche a parte, «smettiamola di raccontare a chi siede davanti alla sua casa minacciata dall'acqua, o chi vive sotto i ponti, che la globalizzazione fa sempre bene».