domenica 25 maggio 2008

l’Unità 25.5.08
Bodei: il Pd riparta da laicità e diritti
di Bruno Gravagnuolo


L’accusa di relativismo non regge, perché la democrazia non è relativa e rende compatibili i valori in campo

PERCHÉ L’ITALIA VA A DESTRA Parla lo storico della filosofia impegnato in questi giorni al Seminario della «Fondazione Italiani Europei» su «Religione e democrazia». «L’irruzione delle Chiese in politica? Nasce dalle falle della politica laica»

«L’irruzione della religione in politica nasce dalle debolezze della politica democratica, dopo il crollo delle ideologie e delle filosofie del progresso. Ma è tempo di ricominciare a elaborare un’identità laica. A fondamento della democrazia e del nesso religione/politica». Giudizio problematico nel metodo, ma netto nella sostanza quello di Remo Bodei

Il filosofo migrato negli Usa all’Ucla di Los Angeles, studioso dei Destini personali (Feltrinelli), del soggetto e delle «forme di coscienza» punta al cuore di una questione politica centrale: l’identità del Pd dopo la sconfitta elettorale. In sintesi per Bodei - in questi giorni a Marina di Camerota al Seminario della Fondazione ItalianiEuropei che si chiude oggi con Todorov, Larmore e Massimo D’Alema - ci vuole un «lavoro gramsciano di lunga durata». Per ridefinire laicamente il nesso «Religione - democrazia». E dare smalto e baricentro al Partito democratico. Contro il populismo montante e possibili stravolgimenti materiali e formali della Costituzione. E a conti fatti quella di Bodei è anche una risposta alla domanda: perché l’Italia va a destra?
Bodei, da sinistra a destra in molti affermano che la politica laica è carente di «fondazione». Di qui il bisogno di una legittimazione religiosa. Davvero le cose stanno così?
«No, la politica non ha bisogno di fondamenti religiosi. Ma è certo carente. Perché le basi sulle quali si fondava si stanno erodendo. L’età moderna poggiava sul primato della coscienza critica individuale e sul progetto di controllare la storia. Le due dimensioni sono entrate in crisi con il crollo dei totalitarismi e l’ottundimento dell’autonomia intellettuale del singolo. Lo spessore di senso della politica si assottiglia e nel varco passa il protagonismo delle Chiese».
Ne deriva la necessità di rilanciare la politica laica, magari su basi più ampie e inclusive?
«Sì, recuperando a pieno la dimensione civile democratica. Il diritto della religione a intervenire nello spazio pubblico non è in discussione. Né lo è mai stato nell’Italia democratica. Il punto è l’invadenza di quello spazio, decisivo per consentire il confronto fra le molteplici posizioni, religiose e non. Per cui la religione “stampella” diviene prescrittiva e fondante della legislazione civile. Aggiungo che l’accusa di relativismo, a giustificazione di ciò, non regge. Poiché la democrazia si sottrae a quel relativismo, con il criterio della compatibilità di tutti i valori. Ne consegue che l’invadenza religiosa, con la sua pretesa di monopolio, spezza il principio di eguaglianza a garanzia del pari diritto di tutti i valori. Le conseguenze sono letali, se si pensa che la democrazia moderna nasce proprio dal superamento delle guerre di religione, con il bagno di sangue che le accompagnò. Insomma, lo spazio pubblico democratico è irrinuniabile. E non ha mai represso la religione. Dire che essa è oggi ristretta ad una dimensione privata, del silenzio, è falso».
Benedetto XVI afferma che negli Usa lo spazio pubblico è fatto a misura delle confessioni religiose e solo in tal senso è «plurale».
«Non è del tutto così, e in ogni caso bisogna storicizzare. Gli Usa nascono con l’arrivo dei Padri pellegrini che hanno sempre rifiutato l’interferenza religiosa dello stato sulla loro religione e le altre sette. In Europa è stato il contrario: lo stato si è voluto premunire dalla religione, arginandola con Cavour».
Europa laica, e Usa terra di pluralismi fondamentalisti?
«Non necessariamente, e poi il termine “fondamentalisti” nasce proprio negli Usa. L’America è certo un luogo in cui la religione ha intriso la politica fin dall’inizio. Basta vedere i richiami religiosi presenti in Bush Jr e in Obama. In questo senso gli Usa sono meno laici non dell’Europa, bensì della Turchia, dove bene o male Ataturk distinse con forza religione e stato. Certo, le regole laiche ci sono eccome in America, ma nessun politico europeo direbbe che quando è triste “piange sulla spalla di Dio” come Bush. O che lo “spirito divino” lo ha spinto a candidarsi, come Obama. Possono sembrare cose innocue, ma non dimentichiamo che quello Usa è anche un Dio degli eserciti, e che la democrazia lì ha una dimensione imperiale, espansiva, pur essendo mite su tante cose, all’interno».
Jefferson parlava di muro tra religione e stato, ma i vari stati decidono se il darwinismo è lecito a scuola. È così?
«Certo, in Alabama Darwin è fuorilegge. Il che non vuol dire che l’America sia illiberale. Sarà banale ripeterlo: gli Usa sono complicatissimi, conflittuali. Ma è il lievito della libertà a muovere questo paese. Come diceva già Tocqueville, stupito dinanzi alla prima democrazia moderna».
Ma quali sono i limiti del «ruolo pubblico della religione», per usare il «lessico» del Pd?
«Il limite è la non subalternità della politica dinanzi alla religione e ai suoi dettati. La politica deve rivendicare a pieno la sua autonomia. Sapendo però che la religione è entrata nelle linee di frattura lasciate aperte dalla politica laica. Confine dunque precario, e problema non di immediata soluzione: ci vorrà tempo. Perché certe svolte culturali hanno lasciato il segno. E non siamo più in grado di garantire alle grandi masse controllo degli eventi e progresso sicuro. La salvaguardia dalle grandi paure, e dalla desertificazione dei significati etici e politici, svanito il sogno di una società senza classi. Perciò c’è un lavoro enorme da fare: riformulare la libertà, l’emancipazione e la sicurezza in senso ampio. In un mondo globale e senza garanzie. Ma al momento, se la religione assume un nuovo ruolo, la colpa è proprio della politica secolare».
Dobbiamo dunque accettare l’irruzione della religione come una sfida in positivo?
«Sì, come sfida a capire le paure e le aspettative nel mondo mutato. Che cosa comporta la perdita del futuro nell’immaginario? E perché in tutto questo esplodono le radici religiose? Ciò che però è profondamente sbagliato è l’attegiamento “mimetico” a sinistra. Si è pensato di diventare più moderni appiattendosi sulle ragioni degli altri. Errore letale, perché come insegna anche la pubblicità, la copia di un prodotto originale è sempre perdente».
Non sarà il caso, pensando al Pd, di ricostruire una comunità politica a identità più definita e salda e meno ibridata?
«Certamente. Ma dobbiamo renderci conto che sarà una lunga guerra di posizione, per usare un concetto gramsciano. Non ci si ridefinisce dall’oggi al domani. E uno dei temi centrali mi pare quello dell’eguaglianza, da rilanciare e ripensare all’altezza dei diritti. Tema oltretutto di origini cristiane... Prenda la questione dei clandestini. Lì la Chiesa è molto più accogliente, mentre la sinistra a volte è incerta. Eppure accade qualcosa di grave: una condizione debole, diviene reato. È il frutto di una lunga caduta, in cui la fine della “storia lineare” ha trascinato con sé anche l’eguaglianza. Senza dubbio questo valore non va propugnato in chiave barricadera, bensì pragmatica. Il laicismo infatti non esclude che si possa apprendere anche dalla religione. E tuttavia declina l’eguaglianza in chiave di libertà di tutti, e non dogmatica. Oggi ci vorrebbe un disarmo bilaterale tra laici e credenti. Una tregua, in cui ciascuno accetti di ripensarsi, prima di potere ridelineare confini e differenze»
Restiamo al Pd. Le pare sufficientemente attrezzato per questo lavoro di lunga lena a caccia di un baricentro culturale?
«Vista dagli Usa, dove mi trovavo in questi mesi, la scelta di correre da soli, mi è sembrata un modo di non restare sepolti sotto le macerie del governo Prodi. Ciò detto, la visione dei blocchi contrapposti e dell’alternanza, spinge di fatto a condensare l’eterogeneità. Soltanto che a destra c’è una compattezza identitaria maggiore, sulla sicurezza e sugli interessi proprietari. Nel nostro campo è più difficile. E coesistono nel Pd “teodem” e il loro contrario. Essenziale comunque è mantenere il principio della laicità. Per far convivere i diversi, rilanciando l’agenda democratica. Contro il populismo ad esempio, e contro il tentativo di mutare o stravolgere la costituzione materiale e formale della Repubblica. Magari finendo con il legittimare e premiare l’avversario con nuove intese bicamerali».

l’Unità 25.5.08
Sicurezza sì, Intolleranza no
Appello: ebrei per i Rom


I raid di Ponticelli contro un campo nomade sono la grave spia di una stagione di intolleranza verso immigrati e comunità rom che sta pericolosamente attraversando il nostro Paese. Tale clima prende le mosse da un senso generale di paura, d’incertezza, che tende ad amplificare in molti cittadini la percezione d’insicurezza, la sensazione d’essere indifesi nei confronti della delinquenza.
È un sentimento questo che non va affatto sottovalutato, e certamente esiste in Italia un problema di sicurezza anche legato al fenomeno dell’immigrazione clandestina, che è diffuso e va risolto con efficacia. Ma come sempre quando si diffondono sentimenti così profondi ed acuti, e peraltro - va ribadito - anche comprensibili, è facile che le reazioni colpiscano per primi gli “stranieri”, gli “altri”. Compito della politica è dare risposte al bisogno di sicurezza dei singoli e delle comunità, e al tempo stesso mostrarsi inflessibile verso ogni fenomeno di xenofobia, di razzismo, di aggressione verso intere categorie di presunti “nemici”: i romeni, gli immigrati irregolari, i rom.
È inaccettabile qualunque giustificazione o minimizzazione di questi atteggiamenti e comportamenti che li rappresenti come reazioni eccessive, ma conseguenti, a problemi quali la presenza di immigrati irregolari o l’alta percentuale di immigrati tra gli autori di determinati reati.
L’onda del razzismo e della xenofobia va fermata subito, l’Italia deve stringersi a tutti coloro, stranieri e “minoranze”, che vivono in pace nel nostro Paese, rispettandone le leggi. In gioco sono i princìpi costituzionali di libertà, in gioco sono i diritti umani, in gioco è il nostro futuro di comunità civile.
In particolare, come parlamentari e come ebrei italiani sentiamo il bisogno e il dovere di stringerci al popolo rom, al quale ci unisce una storia millenaria di persecuzioni e il comune destino del genocidio nazista, che mai potremo dimenticare. Non permetteremo che un intero popolo venga colpevolizzato o che i reati di alcuni, pochi o tanti che siano, producano pene per tutti.
Per questo diciamo oggi e diremo sempre: sì alla sicurezza no al razzismo.
Vorremmo che alle nostre firme si uniscano quelle dei tanti che, siamo certi, sono allarmati come noi dal pericolo che l’Italia sta correndo.
Rita Levi Montalcini senatrice a vita
Roberto Della Seta senatore
Emanuele Fiano deputato
Ricardo Franco Levi deputato

l’Unità 25.5.08
D’Alema: la destra cavalca la paura, vediamo se saprà governare
di Andrea Carugati


DIFFICILE, se non impossibile, distrarre Massimo D’Alema dai temi filosofici e religiosi che lo occupano qui, compresi pranzi e cene, dove continua a di-
scutere appassionatamente con intellettuali del calibro di Remo Bodei. Qui nell’oasi di Marina di Camerota, dove oggi si conclude la tre giorni organizzata da Italianieuropei su politica e religione, la cronaca arriva attutita, quasi un rumore di fondo rispetto ai Grandi temi di cui si discute per ore: religione, globalizzazione, identità dell’Occidente, il Concilio Vaticano II. Da Marx a Croce, San Tommaso, San Paolo, Kant, Hegel, Heidegger, Nietzsche. La stessa idea e funzione della politica, e del riformismo, tutto è analizzato e discusso, senza filtri. «La politica è un ruscello esangue, che ha bisogno di nuovi affluenti», confida D’Alema all’amico Bodei, che lo cita in pubblico per sottolineare i rischi di «un riformismo che naviga a vista nel giorno per giorno, mentre è necessario riscoprire le fonti e le sorgenti del pensiero laico, come l’idea di uguaglianza». D’Alema pensa soprattutto a questi affluenti: «Ho ricevuto decine di inviti per conferenze in tutte le parti del mondo, farò questo, come già ho fatto dopo la fine del mio governo: andai in Usa per un ciclo di conferenze da cui ho tratto il libro, Oltre la paura». Un D’Alema alla Tony Blair, conferenziere, sempre più tutt’uno con la presidenza della sua Fondazione: «È l’unico incarico di cui dispongo», confida a tavola. «È il mio business». E proprio la paura, della globalizzazione, della Cina, del diverso che sfida la vecchia Europa, è la chiave per capire questo nuovo ciclo della destra, non solo in Italia. «Una paura che è soprattutto bisogno di identità, e la destra cavalca questo bisogno anche sfruttando il tema religioso». Quanto alla grandeur di Berlusconi a Napoli, D’Alema è prudente: «Vedremo se saranno così bravi a governare, Berlusconi per ora ha buon gioco, perché riempie un vuoto d’autorità che c’è stato». Un vuoto, fa capire, dovuto anche al fatto che «quando il nostro governo decideva qualcosa subito si alzavano sei ministri per dire che non andava bene... ». Una patologia dovuta anche al carattere un po’ «casinista» della sinistra radicale. «Cercavano la visibilità? L’hanno ottenuta, e infatti nelle urne la gente si è ricordata di loro... ». Ora, nella disfatta della sinistra, D’Alema vede uno spiraglio in Niki Vendola: «È l’unico che può rilanciare un’idea di sinistra in chiave moderna». Ma è presto per parlare di nuovi scenari tra Pd e sinistra. Ed è presto anche per capire se quella di Berlusconi sarà una egemonia duratura sulla società italiana: D’Alema cita Chou En Lai, il dirigente del Partito comunista cinese che dopo oltre un secolo sosteneva fosse «troppo presto per formulare un giudizio sulla rivoluzione francese». «Non farò come lui, ma ci vuole tempo. Per il momento la politica italiana sta vivendo una fase di assestamento, a ottobre si comincerà a capire qualcosa». Per il momento l’ex vicepremier guarda con interesse all’associazione di parlamentari che sta nascendo come costola di Italianieuropei. Una associazione che, oltre alla tradizionale area dalemiana, sta suscitando grande interesse anche nell’area Letta, dove non mancano adesioni di big come Paolo De Castro, e ieri Gianni Pittella, gran tessitore nella truppa dell’ex sottosegretario ai tempi delle primarie, è arrivato qui a Camerota per un saluto. Sulle alleanze D’Alema sottoscrive le parole di Veltroni: «Siamo tutti d’accordo sul superamento delle alleanze intese come ammucchiate di tutti contro, ma si tratta di costruire un sistema di alleanze su base programmatica». «Dopo l’esperienza del governo Prodi abbiamo deciso di andare liberi. Ma libertà non vuol dire isolamento. La questione è complessa e andrà approfondita». E a proposito di approfondimenti, Bodei lancia qualche sasso nello stagno, invitando i progressisti a non farsi accecare dall’idea della sicurezza. «Ci sarà solo se c’è integrazione, e poi a copiare si corre il rischio che l’originale sia sempre considerato migliore... ».

l’Unità 25.5.08
Salvator Rosa, un talento fuori misura
di Renato Barilli


TRA MITO E MAGIA A Napoli un’affascinante rassegna dedicata a quest’artista stravagante, che anziché seguire l’impronta caravaggesca del secondo Seicento si divertiva a ritrarsi nelle pose più bizzarre

Domenica scorsa elencavo i meriti di Claudio Strinati, soprintendente del polo museale romano, ma non è certo da meno il suo collega Nicola Spinosa, insediato alla testa del polo napoletano, abituato da tempo a servirci mostre puntuali e intriganti negli spazi nobili del Museo di Capodimonte e delle sedi associate. Ora è di turno una affascinante rassegna dedicata a Salvator Rosa (1615-1673), per la cui realizzazione Spinosa è affiancato da molti validi aiuti. Il Rosa fu un talento fuori misura, stravagante, nel senso letterale della parola, a cominciare dal fatto che uscì fuori dal seminato consueto nella pittura partenopea del secondo Seicento, improntata al caravaggismo che il genio lombardo vi aveva impiantato, negli anni da lui trascorsi nelle nostre regioni meridionali. E proprio al caravaggismo della grande tradizione napoletana in passato il Museo di Capodimonte aveva reso ampio omaggio, nelle persone di Mattia Preti, i cui dati anagrafici ne fanno quasi un coetaneo del nostro Salvator Rosa, e di Luca Giordano, proteso a fare da ponte tra il secondo Seicento e il Settecento. Ma in quegli artisti predomina un senso di tutto pieno, le figure sono assorbite dal contesto ambientale, atmosferico, naturale, non riescono ad emergerne. Viceversa il primo impulso di Salvator Rosa è di fare il vuoto attorno ad esse. Egli ci appare come superbo ritrattista, anzi, di più, come stupefacente compilatore di autoritratti a getto continuo. In proposito risultano molto puntuali le osservazioni affidate al catalogo della mostra da Brigitte Daprà, che appunto ci fa notare come allora l’artista era figura socialmente inferiore, di artigiano, e il suo talento di ritrattista doveva essere prestato alla maggior gloria degli illustri committenti. Il Nostro invece mette in scena spavaldamente se stesso, concedendosi una serie inesausta di pose e di costumi. Talvolta ci si presenta come filosofo, pronto anche a scivolare nei panni dello stregone, dell’addetto a pratiche magiche. Altre volte si dichiara guerriero, e ne assume le pose marziali, spavalde, ribelli, altre volte ancora ostenta addirittura una maschera da teatro, pronto a indossarla e a nascondersi in quel nuovo ruolo. Lo stesso vale nel caso dei soggetti femminili, che entrano nei panni delle allegorie, la menzogna, la gelosia, lo studio. In altre parole, questo artista non vuole essere un uomo del mestiere, bensì un fine umanista, versato nelle lettere come nel pennello. Ne consegue che lo spunto tematico, nel suo caso, vale assai più della resa pittorica, c’è in lui una sfida continua al pittoricismo, al tonalismo, a tutte le altre virtù del mestiere cui invece sacrificavano i suoi colleghi. Viene da qui quel carattere di anacronismo che lo riguarda, come se si staccasse dai suoi tempi e si protendesse in avanscoperta di quasi un secolo, anticipando situazioni che conosceremo solo all’aprirsi di quella voragine che, proprio contro i vari naturalismi dell’età barocca, sarà costituita da movimenti di difficile definizione quali il neoclassicismo e il romanticismo. Ebbene, di tutto questo clima è precursore il Nostro, a cominciare proprio dalla volontà di far fare un passo indietro al mestiere, di lasciare che i soggetti prevalgano sulle mezze tinte, sugli atmosferismi pervasivi. Una volta tanto, il sottotitolo dato alla mostra, che ne pone il protagonista Tra mito e magia, appare calzante, proprio nella misura che ci fa capire come in questo imperioso e scapricciato personaggio la pittura sia sempre preceduta, ed ecceduta, dall’altro. Questa preminenza dei temi impone le varie soluzioni stilistiche, che potrebbero apparire alquanto dissonanti. Talora, se si tratta di autoritratti, l’artista fa il vuoto attorno alle sue proiezioni, con sfondi chiari, quasi in anticipo su un David. Talaltra, se vuole raccontare, farci entrare negli antri del mago dove si conducono esperimenti con tanto di scheletri, la pennellata si fa sottile, quasi un guizzo di luce che si insinua nelle forme, con segno agile, appuntito, fosforescente. C’è come una lingua di fuoco che percorre le membra delle varie figure, appartengano esse al mito o a un museo degli orrori. Che è come dire che Salvator Rosa non assume mai un atteggiamento contemplativo, passivo di fronte ai motivi trattati, ma al contrario li aggredisce, li sferza con cariche di energia, costringendoli a un dimagrimento, facendoli vivere solo grazie a quei raggi luminosi che li percorrono, estraendoli dalle tenebre. E quasi per favorire questo supplemento energetico, anche le capigliature si scompigliano, si estenuano in lunghe ciocche, che si dimenano nell’aria come fossero rami di una vegetazione impazzita, presaga di un imminente temporale da cui l’atmosfera è resa carica di elettricità, pronta a emanare scintille, o ad attirare a sé lo scoccare di un lampo. In virtù di questo vivace impulso energetico Rosa riesce a praticare con pari eccellenza due dimensioni quasi opposte tra loro, per un verso, come si è detto, isola e ingigantisce il protagonismo di un soggetto pieno di sé e dei suoi poteri magico-stregoneschi, per un altro verso intesse storiette, vicende gremite di personaggi, come per esempio le sue celebri battaglie, dove la microscopia delle singole presenze è largamente ricompensata dai pennelli di luce che le percorrono, le sferzano, le rendono guizzanti, scoppiettanti.

l’Unità 25.5.08
Zio e nipote, maestri nel genere delle vedute, per la prima volta faccia a faccia in una mostra
Bellotto & Canaletto, due veneziani a Torino
di Ibio Paolucci


Lo zio e il nipote: faccia a faccia, per la prima volta, in una mostra. Tutti e due vedutisti, tutti e due veneziani, tutti e due fra i maggiori artisti del Settecento europeo. Lo zio, Antonio Canal detto il Canaletto, nacque a Venezia il 28 ottobre 1697, figlio di Bernardo, pittore scenografo. Ma presto lasciò la guida del padre, dedicandosi al genere di pittura che gli avrebbe portato fortuna e che lo avrebbe fatto diventare un grande maestro e l’astro più luminoso del vedutismo veneziano.
Il nipote, Bernardo Bellotto, nato a Venezia il 20 maggio 1722, fregiatosi anch’esso del titolo di Canaletto, ebbe come primo maestro lo zio, dal quale ricevette preziosi insegnamenti e, da lui, all’inizio, apprese un eguale modo di dipingere, uno stesso stile, tanto che molti quadri vennero attribuiti, indifferentemente, sia all’uno che all’altro. Ben presto, tuttavia, il Bellotto seppe trovare una sua strada, molto personale e diversa da quella dello zio. Diversi anche i percorsi. Mentre il Canaletto, con l’eccezione di una parentesi londinese, rimase sempre nella sua citta natale, il Bellotto, ancora giovanissimo, poco più che adolescente, cominciò a girare per l’Italia e per l’Europa, facendo tappa a Roma, Firenze, Milano, Torino, Vienna, Dresda, Monaco, per poi fermarsi per una diecina di anni a Varsavia, dove cessò di vivere il 17 novembre del 1780.
A tutti e due è dedicata una magnifica rassegna in corso a Torino: centodue le opere fra dipinti e disegni prestate da collezionisti privati e da musei di tutto i mondo (ben 22 i pezzi provenienti da Londra, dalla Royal Collection). Quel genere di pittura, naturalmente, non è nato con loro anche se con loro e con Francesco Guardi è stato portato alla perfezione. Prima di loro Giuliano Briganti parlò di un disegno dell’olandese Gerard Ter Borch il Vecchio, la cui veduta della via di Santa Sofia, del 1609, rivela «un rigore ed un’obiettività che non esiterei a definire canalettiana». E dell’Olanda del Seicento è pure quella superlativa veduta di Delft firmata da Vermeer, considerata da André Gide il più bel quadro del mondo. Non molto prima di loro, per non parlare di altri, operò in Italia Gaspard van Wittel (1653-1736), le cui vedute godettero dell’ammirazione dello zio e del nipote. Epperò le stelle più brillanti furono loro. Charles de Brosses, nel 1799, scrisse nel suo libro sull’Italia che il Canaletto, nel genere delle vedute, «supera tutto ciò che è mai esistito», osservando, fra l’altro, «che gli inglesi hanno viziato a tal punto qesto artista offrendogli per i suoi quadri tre volte di più di quanto ne chiede egli stesso, che non è più possibile comprare nulla da lui». La Venezia dei due artisti, pur avviata sul viale del tramonto, poteva ancora fregiarsi del titolo di «Serenissima» e anche di «Dominante». Napoleone e il trattato di Campoformio, che tante lacrime fece versare a Ugo Foscolo, non erano alle porte. Venezia era ancora una grande potenza, il cui splendore era oggetto delle opere degli artisti. Ma del Bellotto sono pure famosissime le vedute di altre città italiane ed europee. E mentre nel Canaletto si trova una luminosità calda, armoniosa, quasi sensuale, per dirla con Rodolfo Pallucchini, nel Bellotto il segno è più concreto, soprattutto più vero, più portato a esaltare, con razionale verità, i dettagli della realtà. Più intensa e trasparente la luce, maggiore il gusto narrativo, al punto che Roberto Longhi, forzando un po’ la mano, allaccia il suo linguaggio a quello dei grandi scrittori russi dell’Ottocento. Più pertinente, forse, è il rapporto delle opere dei due veneziani con l’universo dell’Illuminismo, inteso come comprensione della realtà attraverso il lume della ragione, e, se si pensa alla musica, con le sublimi armonie di Mozart. Di entrambi, comunque, è la estrema cura dei particolari, sia pure illuminati con luce diversa. Bellotto, distaccatosi dallo zio già nelle giovanili vedute lombarde (splendide quelle della Gazzada del 1744, quando ha da poco compiuti i vent’anni) e in quelle piemontesi (superba la veduta sul Po della Sabauda del 1745), perverrà ai vertici della sua arte nelle vedute di Vienna, Dresda, Varsavia. Di Dresda, in particolare, colpita a morte nel febbraio del ‘45 da un barbaro e inutile bombardamento aereo inglese che provocò oltre centomila morti, non si cesserebbe mai di guardare le ammirevoli, affascinanti vedute della città di allora.

l’Unità 25.5.08
Migranti e rifugiati: un mondo in movimento
di Philippe Rekacewicz


10 milioni di rifugiati, 25 milioni di sfollati, ma sono cifre per difetto

Senza uno Stato senza una casa senza un lavoro
E si spostano in cerca di salvezza

«Mi trovavo accanto all’ufficio della dogana con alcuni colleghi e contavo le persone che attraversavano la frontiera per dare una prima valutazione dei loro bisogni», dice William Spindler dell’Alto Commissariato Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) che si trovava in Ruanda nel 1996. «Aspettavamo circa 20.000 persone nel corso della giornata. Avevo una di quelle macchinette calcolatrici che gli steward usano negli aerei per contare i passeggeri. Alla fine ci siamo accorti che ogni ora dalle 20.000 alle 30.000 persone varcavano la frontiera. In totale arrivarono 350.000 persone in un solo giorno, il doppio della popolazione di Ginevra, e tutti avevano bisogno di cure immediate e di cibo».
Per fortuna movimenti di persone di queste proporzioni restano eccezionali; quando si ha a che fare con così tanta gente è impossibile organizzare gli aiuti di emergenza nelle prime, vitali ore quando i rifugiati sono più esposti al pericolo. L’Alto Commissariato Rifugiati, che dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha ricevuto il mandato di occuparsi delle crisi umanitarie, è riuscito ad organizzare le cose sotto il profilo logistico in modo da prestare soccorso a 500.000 persone in meno di 48 ore. Non è una operazione semplice e richiede un certo sostegno. L’Agenzia dispone di 399 addetti alla logistica e personale medico e paramedico in cinque continenti, tutti in grado di essere immediatamente operativi. L’Agenzia ha anche centinaia di migliaia di teloni di plastica, tende, secchi, utensili da cucina, coperte, zanzariere, camion, magazzini prefabbricati e generatori elettrici nei magazzini di Dubai, Copenhagen, Amman, Accra e Nairobi che possono essere immediatamente caricati sui velivoli da trasporto Antonov.
Una volta che una emergenza è stata dichiarata e che gli aiuti sono arrivati sul posto, inizia il compito lungo e difficile di registrare e proteggere i rifugiati. Appena varcato il confine, perdono la cittadinanza del loro Paese di origine e nessun altro Paese è disposto a concedere loro asilo. È compito dell’Unhcr garantire la protezione, sia fisica che giuridica, a tutti coloro che ne hanno bisogno. È necessario identificare i rifugiati per stabilire quante risorse finanziarie sono necessarie.
Elaborare i dati
L’Unhcr ha calcolato che alle fine del 2006 c’erano 10 milioni di rifugiati mentre secondo la Commissione Rifugiati e Immigranti del Senato degli Stati Uniti sarebbero 14 milioni. Alcuni dirigenti dell’Unhcr e delle Ong ammettono che il numero dei rifugiati è sottostimato.
In Thailandia il governo decide di volta in volta se concedere asilo. Nei campi lungo il confine con la Birmania, gli ufficiali dell’esercito esaminano tutte le richieste e decidono. Da oltre una generazione i rifugiati afgani vivono in Iran (2 milioni e non il milione delle statistiche ufficiali) e in Pakistan (dai 2 ai 3 milioni invece di 1-2 milioni delle stime ufficiali). A complicare il compito degli statistici, il governo iraniano ora chiede ai rifugiati di acquistare un permesso di lavoro che costa 140 dollari e una volta diventati “lavoratori regolari” vengono cancellati dai registri dell’Unhcr. In Siria e in Giordania ci sono talmente tanti rifugiati iracheni che possono volerci anche due mesi o più per essere registrati e per godere dei relativi diritti. I Paesi in via di sviluppo accolgono oltre l’80% dei rifugiati e i Paesi relativamente più poveri ne accolgono la maggior parte: la Repubblica Democratica del Congo (tra 200.000 e 300.000. 1.700.000 contando anche gli sfollati), lo Yemen (100.000), la Tanzania (circa 500.0000), il Pakistan (oltre 1 milione), la Giordania (tra 2.300.000 e 2.500.000). Nessuno di questi Paesi ha i mezzi per far fronte autonomamente alla situazione senza assistenza logistica e finanziaria dei Paesi più ricchi tramite l’Onu e la sua rete di organizzazioni.
Si sa molto più dei rifugiati che degli sfollati che sono costretti ad abbandonare le loro case, ma che non godono dei diritti dei rifugiati e che sono dei veri e propri esiliati in patria. «Gli Stati nazionali hanno a cuore la loro sovranità e c’è il rischio di interferire nei loro affari interni. Ciò riduce considerevolmente la nostra capacità di aiutare le persone in pericolo», dice Antonio Guterres, ex primo ministro del Portogallo e attuale Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati.
In Georgia 250.000 sfollati a seguito dei conflitti in Abkhazia e in Ossezia meridionale vivono in treni abbandonati, in edifici pericolanti e in alberghi requisiti. «Centinaia di famiglie provenienti da queste regioni sono state ammassate in stanze piccolissime in due alberghi al centro della città», dice Manana Kurtubadze, professore di geografia dell’università di Tbilisi. «Tutti potevano vederli. Spesso andando al lavoro passavamo davanti a questi edifici e la coscienza ci rimordeva. Alle fine del 2005 fu chiesto loro di andarsene in cambio di 7.000 dollari con cui acquistare un piccolo appartamento. A quel punto i rifugiati sono diventati invisibili, sparsi nella capitale e nei sobborghi. Da allora non se ne parla quasi mai, ma il problema rimane».
Le molte cause del problema degli sfollati
Dieci anni fa la Commissione di Coordinamento Umanitario delle Nazioni Unite avviò la creazione di una banca dati degli sfollati presso il Centro di Monitoraggio degli Sfollati (Idmc) gestito dal Consiglio norvegese degli sfollati. L’Idmc calcola che ci sono 25 milioni di sfollati in tutto il mondo. «Il dato riguarda solamente gli sfollati a causa di guerre, conflitti, violenze politiche e violazioni dei diritti umani», dice Frederik Kok, ricercatore dell’Idmc.
«Il problema è accordarsi su una definizione che prenda in considerazione le molte ragioni del fenomeno degli sfollati tenendo presente che il reinsediamento delle popolazioni di sfollati non sempre garantisce soluzioni durature. Ad esempio, grossi progetti di sviluppo quali le dighe, i centri industriali e le piantagioni creano ogni anno tra 10 e 15 milioni di sfollati.
«Il numero degli sfollati collegati a problemi ambientali è ancora più stupefacente: secondo il Centro di Ricerca sull’Epidemiologia e i Disastri (Cred), nel 2006 le persone colpite da questo fenomeno sono state 145 milioni. È difficile arrivare ad una cifra esatta, ma è possibile che i grossi progetti di sviluppo e i disastri naturali creino un numero di sfollati da 5 a 10 volte maggiore di quelli creati dai conflitti per un totale compreso tra i 100 e i 200 milioni di persone».
Gli analisti dell’Idmc che al momento controllano la situazione in 50 Paesi, riconoscono che ci sono alcuni significativi divari e stanno valutando l’ipotesi di aggiungere la Cina, il Brasile, alcune piccole nazioni insulari e persino gli Stati Uniti alla lista dei Paesi sotto controllo. Gli Stati Uniti? «Sì - esclama Arild Birkenes, specialista del problema in America Latina -. Gli effetti della globalizzazione e del libero mercato sul fenomeno degli sfollati debbono essere analizzati. Quante centinaia di migliaia di coltivatori messicani di piselli, frumento e fagioli non più in grado di reggere la concorrenza dei prodotti americani che ricevono enormi sovvenzioni pubbliche, hanno dovuto abbandonare la produzione, lasciare le loro fattorie e dirigersi alla volta degli Stati Uniti, per lo più illegalmente? Per non parlare delle 400.000 povere vittime dell’uragano Katrina che ancora non hanno una casa».
Altre cause di migrazione
Si profila anche un altro fenomeno, quello degli sfollati per ragioni economiche. Quali criteri possiamo usare per distinguere un migrante economico da un normale migrante o rifugiato? Questi interrogativi sono motivo di preoccupazione in seno all’Unhcr. «I flussi migratori sono in aumento da molti anni e le cause di queste migrazioni sono andate via via aumentando», dice Guterres. «Quando arrivano è sempre più difficile distinguere i migranti economici dai rifugiati che sono fuggiti per sottrarsi alle guerre e alle persecuzioni. Nel contesto di questi movimenti migratori, come possiamo garantire una assistenza efficace e una adeguata protezione a tutti coloro che ne hanno bisogno? La confusione tra la questione dell’asilo e la migrazione ci mette in una situazione nuova che non possiamo gestire senza l’aiuto di agenzie quali l’Ufficio Internazionale per la Migrazione e le Ong che generalmente operano sul campo».
Sebbene i migranti economici e i rifugiati non percorrano sempre le medesime rotte, incontrano i pericoli maggiori negli stessi posti: le Canarie, Gibilterra, Lampedusa, il mar Egeo, il golfo di Aden, il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, il confine del Sud Africa, i Caraibi e l’Australia. Queste popolazioni sono così' diverse da dover a tutti i costi effettuare una distinzione tra loro? Spesso i migranti economici non possono far altro che abbandonare il loro Paese e quindi perché non dovrebbero avere diritto alla protezione internazionale?
«Oggi non è più rilevante fare queste distinzioni - conclude Arild Birkenes - perché anche se le ragioni sono diverse, le conseguenze sono le stesse. E tutta questa gente che troviamo aggrappata ad una carretta del mare o stipata nel doppio fondo di un camion o di un container merita la stessa assistenza e gli stessi diritti». Ciò spiega il sentimento di impotenza di alcuni funzionari di vertice dell’Unhcr. L’agenzia ha iniziato ad aprire uffici in zone particolarmente delicate come Lampedusa dove attualmente una piccola equipe sta tentando di garantire che gli immigrati che sbarcano sull’isola possano svolgere tutte le pratiche amministrative per ottenere l’asilo. L’Unhcr e altre Ong stanno sottolineando l’esigenza urgente di un adeguamento del mandato in modo da poter far fronte a questa situazione. In passato si parlava di rifugiati rimpatriati e di popolazioni apolidi. L’ONU aggiornerà presto il suo vocabolario includendo anche i migranti economici?
© Agence Global Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 25.5.08
La Campania non è l’Afghanistan
di Luigi Caligaris


Berlusconi dixit: «in Campania impiegherò l’esercito!». E l’ordinanza del governo art. 2.3 precisa che le forze armate dovranno, su richiesta del Commissario delegato, «provvedere all’approntamento e alla protezione dei cantieri e dei siti, nonché alla raccolta e al trasporto dei rifiuti» dopo avere premesso che il suddetto Commissario «è assistito dalla forza pubblica» e gode a tal fine della collaborazione di prefetti, questori e altre autorità competenti.
Sorge un primo dubbio, se il Commissario ha già la forza pubblica perché impiegare l’esercito? La risposta la fornisce l’ambasciatore Sergio Romano sul Corriere della Sera di giovedì dove, citando l’esperto Laporta, dimostra che, escludendo dal computo guardie forestali e penitenziarie, in Italia le forze dell’ordine totalizzano 334.245 unità oltre a circa 100.000 uomini delle polizie locali, cifre che superano largamente quelle di ogni altro Paese europeo. Essendoci i numeri e le competenze, l’emergenza campana spetterebbe alle forze dell’ordine. Ma, come scrive Romano, esse hanno «bassa produttività» per una serie di motivi a cui aggiungerei gli sprechi a causa dell’eccesso, anch’esso senza confronti in Europa, di personale di scorta, guardie a punti fissi, autisti, tutela, ruoli rituali, ecc). Anni fa due capi dei sindacati di polizia lamentarono senza perifrasi che «in Italia la sicurezza dei singoli prevale su quella collettiva». Questo solo per spiegare uno dei motivi per cui si ricorre all’esercito, seppure sia solo un quinto del totale delle forze dell’ordine. Considerando che non vi erano forze dell’ordine operativamente sufficienti, Berlusconi ha deciso di affidarsi alle forze armate e soprattutto all’esercito e ha fatto bene a decidere subito accettando i prevedibili rischi. Infatti, poiché c’è un emergenza che mortifica l’esistenza dei cittadini, pone problemi seri di ordine pubblico e offende il nome dell’Italia, è suo dovere impiegare senza troppo esitare metodi e strumenti che egli ritenga idonei per affrontarla e risolverla. Non è peraltro una novità. Sono tanti infatti i governi nella storia dell’Italia unitaria che nei momenti di crisi si sono rivolti all’esercito, tanto è vero che il suo palmares trabocca di riconoscimenti per interventi nelle calamità naturali, nelle crisi dell’ordine pubblico, insomma in ogni grande emergenza. Il coro dei consensi è ogni volta pressoché unanime e si esprime con la fatidica frase «è tornato lo Stato!». In effetti, nell’immaginario italiano, l’esercito rappresenta una tangibile e massiccia dimostrazione che lo Stato italiano, di cui si lamenta e spesso a ragione la latitanza, ha una riserva a cui attingere nei momenti difficili, un tesoretto di professionalità e lealtà. Vi sono è vero le consuete, sempre più rare, proteste contro i rischi di militarizzazione dello stato quasi che i generali italiani fossero in pectore come i loro colleghi birmani, ma non è questo il problema.
Anche questa volta l’appello all’esercito ha ottenuto l’effetto voluto e si dà per scontato che come sempre esso faccia in silenzio quello che da lui lo Stato si aspetta e che, dopo averlo sfiorato, le luci della ribalta passino a chi meglio di lui, cioè tutti, sa promuovere la propria immagine.
Ciò detto, le analogie con le passate esperienze dei militari in Italia sono poche. Qui non si tratta di aiutare una popolazione che plaude al loro operato dopo un cataclisma o di dare una mano alle forze dell’ordine nel gestire col pieno consenso di tutti una temporanea crisi nell’ordine pubblico. Si tratta invece di farsi carico della tutela di “beni” dello Stato: non di quelli che ha messo in lista l’Unesco ma delle vituperate discariche. Perciò il consenso di cui altre volte hanno goduto qui non lo avranno o almeno non durerà a lungo se l’operazione non sarà diretta dallo Stato in modo impeccabile e consapevole. Per questo soprattutto, la decisione di impiegare l’esercito avrebbe meritato seria valutazione e lascia perplessi il sapere che il neo ministro della Difesa non ne fosse neppure informato. A questo punto ci si sarebbe comunque aspettati da lui la dimostrazione che sa di essere il dominus politico dei militari, il loro responsabile tramite a cui rivolgersi soprattutto in situazioni critiche. Che lui salga o non salga sul palco delle autorità è una protesta che forse gli salva l’immagine ma non lo accredita. In attesa che, sia pure in ritardo, eserciti le sue funzioni, combinando la propria autorevolezza politica con il competente parere dei militari, si tenterà di capire cosa si debba fare hic et nunc a proposito delle discariche che neppure la Gazzetta dello Stato può nobilitare chiamandole «località strategiche nazionali». Sempre discariche sono e agli occhi della popolazione campana sono il museo degli orrori, la versione italiana dell’asse del male di George W. Bush. Ogni Paese ha i propri incubi strategici, gli Stati Uniti di Bush hanno la Corea del Nord e l’Iran, noi le discariche.
Paradossalmente peraltro, la situazione campana per certi versi ricorda quelle delle missioni oltremare di cui il nostro esercito ha lunga esperienza. Come appreso in quelle missioni l’uso dei militari, se bene impostato e diretto, può essere determinante ma non risolutivo. La difficile via del successo è lastricata di impegni politici, guadagno del consenso della popolazione e ragionata fermezza con uso limitato e meditato della forza. Strategia che tenta di evitare soluzioni autoritarie e punta a responsabilizzare il governo locale, promuovendo e intrattenendo ottimi rapporti con la popolazione per isolare i ribelli e poi batterli. È strategia dimostratasi spesso vincente, nota come “conquistare i cuori e le menti”, beninteso della popolazione.
Un problema, forse il più serio, è il governo locale perché corrotto e poco affidabile, e qualche analogia con la situazione odierna in Campania non manca. Quanto alla popolazione dei Paesi occupati è assai spesso incerta su chi sostenere ma se le viene assicurata una ragionevole forma di pace tende a non fraternizzare con i ribelli per il privilegio di vivere in pace. In Campania la situazione è più complessa perché sono in molti a cavalcare la comprensibile protesta della popolazione, esponenti politici, amministratori locali, gruppi dissidenti e criminalità organizzata. La sfida per lo Stato è riuscire a penetrare in questo inestricabile groviglio di apparentamenti e attrarre a sé la popolazione.
L’aspetto militare in questo caso non ha molto peso; non si tratta infatti di assicurare il controllo del territorio o di condurre la lotta contro la criminalità, ma solo di assestarsi a difesa delle cosiddette località strategiche dietro a una prima schiera di forze dell’ordine. A meno che, caso ipotetico, qualcuno sia tentato a provocare l’incidente dirigendo le sue azioni ostili soprattutto contro chi è fuori del sistema locale, come è nel caso dei militari. Ma è per ora soltanto un ipotesi.
In definitiva ai militari vien chiesto assai poco rispetto alle loro capacità professionali, è come disporre una vettura Formula Uno in garage e mettere a folle il motore. Nulla di male ma non si può escludere che le circostanze esigano altri tipi, più impegnativi d’impiego e, se ciò dovesse accadere mi auguro che la decisione sia presa dopo avere ascoltato responsabilmente i militari. Altra questione da chiarire sono le dipendenze dei militari che devono godere di ragionevole autonomia e non essere soggetti ai capricci di quello o di questo.
Peraltro il processo decisionale che regola le cose militari in Italia ha considerevoli imperfezioni e sarebbe ora che se ne costruisse uno al passo con i tempi e in linea con le esigenze presenti. Non basta chiamare in causa l’esercito quando fa comodo per poi dimenticarsene a esigenza conclusa. Il precedente governo Berlusconi ha apportato tagli brutali al Bilancio 2006 recuperati in parte dal successivo governo. È da augurarsi che, con l’aria nuova che tira, ciò non si ripeta e che avendo scoperto interesse per le forze armate questo nuovo governo metta mano al completamento della riforma delle forze armate nel contesto di una riforma più ampia, della sicurezza nazionale che è da decenni in lista d’attesa. Se le discariche avranno convinto il governo a mettere la mano a queste riforme, meriteranno di essere chiamate “strategiche”.

Repubblica 25.5.08
D’Alema sdogana Vendola "Unica chance per la Sinistra"
Veltroni: ma facciano autocritica, mai più l´Unione
di Giovanna Casadio


L´ex ministro: Il premier bravo? Vedremo. Il leader Pd: basta correnti e riunioni di ex

ROMA - Il Pd continua a guardare anche a sinistra. Ma se c´è una cosa sulla quale Walter Veltroni è disposto a scommettere è che «una coalizione come quella dell´Unione del 2006 non ci sarà più». Il segretario riunisce i circoli piddì a Milano e traccia un identikit del partito che, assicura, tornerà a vincere tra cinque anni. Diventa quindi centrale il discorso delle alleanze, che tuttavia saranno solo sulla base di un programma condiviso, niente grandi ammucchiate-contro: «Penso sia un problema per la democrazia l´assenza in Parlamento della sinistra radicale - ammette - alla quale però dico che oltre a prendersela con noi farebbe bene a fare autocritica e a ragionare su una lettura ideologica della società italiana che ha impedito ad esempio, di capire il tema della sicurezza». In ogni caso «il Pd pensa ad alleanze dove al centro ci sia il programma», e si rivolge pertanto anche a una parte della Sinistra Arcobaleno, ma non certo a quella che grida «10,100, 1000 Nassiriya, con la quale siamo agli antipodi». Dalla parte opposta dell´Italia, a Marina di Camerota, dove ha organizzato il seminario filosofico su «Religione e democrazia», anche Massimo D´Alema accenna alla questione politica all´ordine del giorno nel Pd e riflette, a margine, su chi può far risorgere la Sinistra ormai extraparlamentare: «Nichi Vendola è l´unico in grado di rilanciare un´idea di sinistra in chiave moderna. Gli altri leader? Li vedo troppo disorientati». E ai cronisti che insistono su cosa ne pensa dell´Unione, risponde ironico: «L´unione, con la u minuscola, fa la forza». Il contrario di quanto ha detto Veltroni? «Siamo tutti d´accordo sul superamento delle alleanze intese come ammucchiate di tutti contro tutti, si tratta di farle sulla condivisione di un programma omogeneo perché si è visto con il governo Prodi che non funzionano». E il Pd, aggiunge, ha scelto di andare «liberamente, ma libertà non vuol dire isolamento». Una cosa poi, sono le alleanze in un piccolo Comune, altra quelle a livello nazionale.
Per restare in tema di litigiosità ma anche di giudizio sull´esecutivo, l´ex ministro degli Esteri, oggi parlamentare e presidente della Fondazione «Italianieuropei» («l´unico incarico di cui dispongo, è il mio business») invita a andare cauti con gli apprezzamenti: «Vedremo poi se il governo Berlusconi sarà così bravo, ci vuole una visione lunga. Per ora il premier cavalca la paura e ha buon gioco perché veniamo da una fase di vuoto d´autorità: il governo di centrosinistra decideva una cosa e sei ministri gli dicevano di no». Troppa dialettica interna? «No, erano dei casinisti».
Con il Cavaliere tuttavia bisogna dialogare sulle riforme istituzionali: è la linea che il segretario Veltroni da Milano riconferma: «Ciò non esclude un´opposizione intransigente. Noi avremmo voluto cambiare le regole se avessimo vinto ma lo vogliamo fare anche adesso che siamo all´opposizione». Tra cinque anni appunto, «governeremo noi e dovremmo avere un paese che consenta l´azione riformista». Nel frattempo, il Pd - ammonisce - non deve essere un partito di correnti: «Basta con le riunioni di ex, che mettevano tristezza anche a scuola». E garantisce che ci saranno le primarie anche per le amministrative. D´Alema intano prevede per sé un futuro alla Blair: conferenze già prenotate in giro per il mondo

Repubblica 25.5.08
Nichi Vendola: non vogliamo galleggiare nella sconfitta, chi ci vuole far sparire sbaglia
"Massimo ha capito gli errori del Pd l´autosufficienza del Loft è fallita"
di Lello Parise


È interesse democratico fare sì che la sinistra alternativa non si disperda
C´è un´area del Pd che è consapevole del problema gigantesco creato dal voto

BARI - «Non si tratta di essere simpatico a D´Alema» sorride Nichi Vendola quando gli fanno sapere che da Marina di Camerota l´ex ministro degli Esteri parla del governatore della Puglia come «dell´unico in grado di rilanciare un´idea di sinistra in chiave moderna». La verità, spiega Vendola, è che «in un´area del Pd c´è la consapevolezza del problema gigantesco creato con il voto di aprile». Cioè? «Da una parte abbiamo assistito alla vittoria organica della destra, non una semplice vittoria elettorale, ma la partenza di un nuovo ciclo politico. Dall´altra c´è una sinistra lesionata, che non è riuscita ad entrare in Parlamento».
Per il "governatore gentile" è tutta colpa della «teoria dell´autosufficienza messa in campo dal Pd di Veltroni». D´Alema, a quanto pare, vuole esorcizzarla. «Perché» racconta Vendola «è un interesse democratico fare sì che la sinistra alternativa non si chiuda in una prospettiva minoritaria o, peggio, si disperda». Così come Vendola alla fine, potrebbe "disperdersi" nel Pd? «Credo che trentasei anni di militanza comunista valgano più di tanti veleni. Ancorché il sottoscritto non vuole essere prigioniero di un passato glorioso».
Se poi gli domandate quanto possa contare la sponsorizzazione da parte di D´Alema perché Vendola riesca a vincere la battaglia congressuale nei confronti di Paolo Ferrero, il presidente della giunta regionale ha quasi uno scatto di stizza. Confessa, a malincuore: «C´è un involgarimento della contesa interna. Costruiscono una campagna di sospetti contro di me». La malinconia ha il sopravvento: «Io, ormai l´unico superstite tra i padri fondatori del Prc, sono accusato di volere sciogliere questo partito». Il tono della voce è pacato, ma risoluto: «Non voglio continuare a galleggiare nella sconfitta, perché significherebbe acuire la sensazione di una sinistra inutile e inefficace».
Dunque, l´Arcobaleno? «Una strada in salita, giacché è molto più complesso ricostruire un campo largo di forze di sinistra. Ma non basta aumentare i decibel della polemica, avvitarsi nella sloganistica e presentarsi come i duri e puri. La deriva identitaria diventa pericolosa. Dobbiamo invece avere la capacità di rimettere in piedi argini democratici rispetto al dilagare di culture razziste e reazionarie». Il pensiero di quello che accade in Campania, è un tormento: «I falò di Ponticelli ci hanno detto tante cose inedite del ventre profondo di questo Paese. Ecco perché attardarsi in risse intestine, chiudersi a riccio, è esattamente il contrario di quello che ci vuole per rinascere».
La soluzione? Vendola non ha dubbi: «Il filo della battaglia antinucleare, e a favore delle energie rinnovabili, potrebbe materializzare la prima piattaforma unitaria della sinistra». Insieme con «la lotta al fantasma redivivo della pulizia etnica». E a quella per il lavoro: «I poteri forti lo considerano un ingrediente inerte e muto. Ma deve tornare a rappresentare la propria rabbia e le proprie ragioni. Rossana Rossanda ha scritto, stupendamente: si deve ripartire dalla solitudine del lavoratore subordinato».

Repubblica 25.5.08
Gli effetti ottici del cavaliere decisionista
di Eugenio Scalfari


DICE bene il nostro D´Avanzo che ieri ha definito la strategia del Berlusconi-quater come la militarizzazione della politica. È così. Napoli si prestava perfettamente per questa militarizzazione simbolica sia per quanto riguarda i rifiuti sia per il varo del pacchetto sicurezza e il governo ha condotto egregiamente la sua prima uscita pubblica.
Ci sono state proteste popolari contro l´apertura delle nuove discariche, molte delle quali erano quelle già individuate dal governo Prodi e da Bertolaso. Individuate ma non aperte. Prodi non poteva militarizzare le sue decisioni, Verdi e sinistra radicale glielo impedivano. Berlusconi non ha questi impedimenti.
Ci saranno altre proteste? Altri scontri con la polizia?. Spero di no. Lo stoccaggio dei rifiuti è una necessità. I termovalorizzatori sono una necessità. I treni verso la Germania sono una necessità. La raccolta differenziata dei rifiuti è una necessità.
L´approccio "militare" del governo ha incontrato il favore dell´opinione pubblica anche se è stato contrastato dagli abitanti delle località direttamente coinvolte. La popolarità del governo, stando ai più recenti sondaggi, è cresciuta del 10 per cento. Anche l´opposizione ha fatto buon viso.
Più complessa è la questione del pacchetto sicurezza. I provvedimenti legislativi approvati dal Consiglio dei ministri sono chiari nella loro strategia di "tolleranza zero" e in quanto tali bene accolti anch´essi dall´opinione pubblica. Ma sono molto confusi e talvolta perfino contraddittori nella loro articolazione normativa. Ci sono aspetti di dubbia costituzionalità, come ieri ha chiarito Stefano Rodotà. Ma il ministro dell´Interno ha precisato che si tratta di decreti e di disegni di legge aperti alla discussione parlamentare e ad emendamenti migliorativi.
La "tolleranza zero", se affiancata dal rispetto dei diritti fondamentali delle persone, è approvata da gran parte degli italiani. La paura montata ad arte è sorretta tuttavia da una paura effettiva. Le due paure mescolate insieme hanno determinato la vittoria elettorale di Berlusconi, della Lega e di Alleanza Nazionale. Ora si sgonfieranno tutte e due proprio in virtù della "militarizzazione" della sicurezza. I reati commessi da immigrati resteranno più o meno al livello attuale che non presenta speciali patologie, ma la loro "percezione" diminuirà e sarà un bene per tutti.
* * *
Quanto alla camorra e alle altre organizzazioni criminali il discorso è diverso, come è diverso il problema dello Stato e della sua ricostruzione.
La camorra infesta Napoli e la Campania fin dalla fine dell´Ottocento, più o meno alla stessa data risale la mafia siciliana e americana. Quella calabrese è invece un fenomeno che non ha più di trent´anni di esistenza, più o meno come la Sacra Corona in Puglia. Da fenomeni di criminalità locale sono diventati nazionali, le cellule di questo cancro sono arrivate nel Centro e nel Nord, i legami internazionali passano per Marsiglia, Zurigo, Amburgo, Amsterdam, Londra, Barcellona e arrivano in Marocco, Turchia, Kosovo, Montenegro, Caraibi, Colombia, Bolivia, Venezuela, Messico. E naturalmente New York, Miami, Las Vegas, Los Angeles.
La traccia che delinea questa geografia planetaria e criminogena è la droga. Il racket, gli appalti, la prostituzione, rappresentano la coda della cometa delinquenziale e non è questione di immigrati o di indigeni, ma di Stati illegali che prosperano dentro e contro la legalità pubblica.
Lo Stato c´è ed è qui, ha detto Berlusconi aprendo il suo primo Consiglio dei ministri a Napoli. Purtroppo non era neppure l´inizio ma un´immagine evanescente di Stato. Nel pacchetto sicurezza non c´è assolutamente nulla che possa scalfire sia pure marginalmente l´anti-Stato delle mafie, la Gomorra e le sue propaggini. La Sicilia di Lombardo, di Schifani, di Micciché, di Cuffaro non è certo quella che possa guidare la cultura della legalità e la rinascita dello spirito pubblico.
C´è un immenso buco nero nel quale sprofondano i corpi e le coscienze. Il populismo e l´antipolitica sono il concime di questo brodo di coltura che erode la legalità e allarga la voragine. Il berlusconismo non è una medicina contro questa peste, tutt´al più un placebo se non addirittura un veicolo inconsapevole che accresce la diffusione dell´epidemia. Spero con tutto il cuore di sbagliarmi, ma temo di no.
* * *
Poi c´è l´economia e Giulio Tremonti in veste di Grande Elemosiniere. Emma Marcegaglia e la luna di miele tra la sua Confindustria e un governo «capace di inaugurare una nuova e irripetibile stagione» all´insegna del decisionismo.
Va guardata con molta attenzione questa capacità decisionale della politica. Personalmente penso anch´io che sia un elemento positivo per realizzare soluzioni appropriate.
La crescita non è una soluzione ma un auspicio e semmai un effetto. La Marcegaglia punta sull´aumento di produttività e lo lega soprattutto al costo del lavoro e ad una nuova contrattualistica aziendale.
Sono certamente due elementi di rilievo ma non quelli essenziali. La contrattazione aziendale lascia fuori a dir poco l´85 per cento delle imprese, cioè tutte quelle che stanno al di sotto dei trenta dipendenti. In quella moltitudine non c´è traccia di sindacato, l´alternativa al contratto territoriale è il nulla.
Aggiungo che il vero elemento che influisce sulla produttività è l´innovazione, che non dipende dai lavoratori ma dall´imprenditore, dal suo genio e dalle sue capacità di ricerca. Innovazione di processo e innovazione di prodotto. La seconda molto più decisiva della prima.
Emma Marcegaglia e la sua Confindustria rappresentano le imprese, ne sono un ufficio di relazioni pubbliche, ma l´innovazione sono le imprese che debbono produrla. Se c´è stato un crollo di produttività e un crollo ancora maggiore di competitività, le responsabilità ricadono almeno per il 40 per cento sulle imprese, per il 50 per cento sulle carenze infrastrutturali e di illegalità pubblica, cioè sullo Stato. Il costo del lavoro non pesa più del 10 per cento. Non è irrilevante ma non è da lì che si risolve il problema.
Tremonti lo sa benissimo. Anche Draghi lo sa e anche la Marcegaglia dovrebbe. Purtroppo per loro e per tutti noi, saperlo non basta.
***
La ricontrattazione dei mutui immobiliari è un buffetto sulla guancia dei mutuatari, un´operazione di pura immagine. Se stai affondando ti converrà accettare il tasso fisso del 2006 invece di quello attuale, assoggettandoti al prolungamento delle rate più gli interessi aggiuntivi. Otterrai un uovo oggi e dovrai ripagarlo con una gallina domani. L´operazione non è a costo zero, le banche ci guadagneranno, lo fanno per questo.
L´abolizione dell´Ici non serve assolutamente a nulla. Tremonti vi è costretto per onorare l´impegno elettorale assunto da Berlusconi. Anche qui pura immagine fornita ad una platea credulona. Il ministro dell´Economia ne valuta il costo ad un miliardo e lo motiva come un modo per rilanciare la domanda interna. Questa è un´enormità che una persona responsabile non dovrebbe propinare senza arrossire per quel che vuole far credere. Un miliardo per rilanciare la domanda? Un miliardo ottenuto detassando un´imposta di natura patrimoniale? Onorevole ministro dell´Economia, ma si rende conto? Ritiene gli italiani gonzi al punto da credere ad una panzana di queste dimensioni? Poi c´è la detassazione degli straordinari e delle parti flessibili delle retribuzioni. Emma Marcegaglia si è fatta male alle mani per gli applausi tributati a questo provvedimento. Costa – secondo il ministro – 2,6 miliardi.
Personalmente credo che costerà di meno. Il fatturato delle imprese rallenta, i premi di produzione si assottigliano. Se c´è meno fatturato ci saranno meno straordinari, non è così? Oppure ci sarà un blocco nelle assunzioni o addirittura chiusura di aziende e trasferimenti di produzione ad altre aziende collegate. Aumento di straordinari contro diminuzione dell´occupazione. Non è così che funziona, gentile Marcegaglia? Non è questa la logica del capitalismo, onorevole Tremonti?
Accrescere la produttività con queste misure è un marchiano errore. Accrescere la domanda, nemmeno parlarne. Quelle che certamente cresceranno saranno le disuguaglianze di trattamento. Il pubblico impiego è escluso dal provvedimento. Le donne che lavorano non fanno straordinari. Le piccole imprese e il lavoro precario sono un mondo nell´ombra con vita e logiche proprie difficilmente visibili. Quanto al lavoro degli immigrati è inutile parlarne.
Ma soprattutto, lo ripeto: detassare la parte flessibile del salario ha un senso in un´economia che tira; se è ferma o addirittura regredisce si tratta di pura immagine per avere titoli sui giornali e in tivù e qualche commento favorevole. Mi stupisce il Bonanni della Cisl. Angeletti almeno è più prudente.
* * *
Due parole sul ritorno del nucleare. Sono d´accordo con Umberto Veronesi: il tabù contro non ha più ragion d´essere ammesso che l´abbia avuta venticinque anni fa. Oggi una battaglia ideologica è priva di senso. Infatti non mi pare che ci sia qualcuno che voglia farla.
Ci vorranno nove anni a dir poco per avere quattro centrali e un 10 per cento di nuova energia: questo è il piano preparato dall´Enel, altri studi specifici non ci sono e quindi diamolo per buono.
Saranno centrali di terza generazione. Detto in breve: nascono vecchie. Producono scorie. L´ammortamento è molto elevato, l´energia prodotta, per conseguenza, molto costosa. I francesi, tanto per parlare d´una economia della quale il nucleare rappresenta l´elemento-base, producono ormai con centrali quasi tutte ammortizzate. Ciò significa che l´energia prodotta oggi è vicina al costo zero. Le nostre, secondo l´Enel, avranno un costo di 30 miliardi.
L´ammortamento comincerà a pesare sul primo chilowattore prodotto. Dunque fuori mercato.
Marcegaglia batte le mani. È un tic? Forse bisognerà imboccarla comunque, questa strada, ma c´è poco da applaudire. Non sarebbe meglio usare quella montagna di soldi per nuove ricerche di gas o nuove iniziative nelle energie alternative?
Agli esperti l´ardua sentenza. La sola cosa certa, lo ripeto, è che le future centrali di Scajola-Marcegaglia nascono vecchie. Per degli innovatori ad oltranza non è un grande obiettivo.

Repubblica 25.5.08
Cina La nuova rivoluzione. La sfida del gigante d'Oriente
di Federico Rampini

La Cina del XXI secolo è una nazione che non si lascia definire facilmente: ha il capitalismo senza la democrazia; lo sviluppo economico senza le libertà politiche; unisce la modernizzazione cosmopolita e il nazionalismo; conserva nel suo linguaggio ufficiale elementi di ideologia socialista mentre al suo interno si allargano le diseguaglianze. Com´è possibile che una superpotenza in ascesa nell´èra di Internet e della globalizzazione, venga ancora governata da un regime autoritario? La risposta va cercata nelle scelte fatte dopo la fine del maoismo, in particolare la svolta imposta da Deng Xiaoping a partire dal 1979: la duplice politica basata sull´apertura al mondo esterno e sulle riforme che avviarono la transizione all´economia di mercato. La nuova rivoluzione economica cinese - all´insegna del capitalismo - ha dato in un trentennio risultati spettacolari, senza precedenti nella storia dell´umanità, per il miglioramento del tenore di vita che ha beneficiato centinaia di milioni di persone in pochi decenni. I risultati finali hanno portato in Cina all´instaurazione di un modello che non è la semplice imitazione di altri: è un capitalismo che conserva un ruolo importante dello Stato; una economia di mercato gestita da un governo illiberale, con gravi abusi contro i diritti umani.
La simbiosi tra capitalismo e regime autoritario non è un caso unico nella storia. È la prima volta però che questa particolare formula di governo della società e dell´economia si applica su una dimensione così gigantesca, coinvolge il popolo più numeroso del pianeta, e quindi ha effetti di eccezionale rilevanza sulle altre nazioni, nonché sugli equilibri geostrategici e ambientali del pianeta. L´assetto politico-economico della Cina nella prima fase del XXI secolo suscita un interesse comprensibile. In alcune parti del mondo è stato osservato come un modello-guida, come una possibile ispirazione per altri paesi emergenti. È tuttavia azzardato descriverlo come un modello stabile. Le sfide che deve affrontare sono straordinarie. È ragionevole ipotizzare che la prosecuzione della traiettoria di sviluppo economico, tecnologico, culturale e sociale della Cina richiederà importanti mutamenti anche nel suo sistema politico-istituzionale.
Sulle libertà politiche, sul diritto di associarsi, sul potere dei cittadini di cacciare i dirigenti corrotti, il regime resta sostanzialmente immobile dopo la repressione del movimento di Piazza Tienanmen il 4 giugno 1989.
Nel corso degli anni Duemila la Repubblica Popolare ha sperimentato solo un´innovazione assai limitata: le elezioni dei dirigenti dei villaggi con una molteplicità di candidati. È una riforma dai risultati deludenti perché i candidati sono plurimi, ma quasi tutti iscritti al partito comunista. Il partito si richiude a riccio, in difesa del suo potere esclusivo. Questo non significa che i vertici del regime non si pongano la questione del consenso: il loro uso frequente di sondaggi d´opinione rivela un´attenzione reale agli umori dell´opinione pubblica. Tuttavia questo è un metodo per consolidare la stabilità politica, non per aprire la strada a profonde riforme di sistema.
Messa di fronte nel 2008 a una serie di critiche occidentali - per il ruolo cinese nell´appoggiare il governo del Sudan colpevole del genocidio nel Darfur, per il sostegno di Pechino alla giunta militare in Birmania, per la repressione delle rivolte in Tibet - la Repubblica Popolare ha reagito con una grinta nuova. Rispetto al massacro di Piazza Tienanmen seguito da sanzioni internazionali e da un reale isolamento, la crisi d´immagine del 2008 si è svolta in un contesto decisamente più solido e rassicurante, visto da Pechino. Al termine della prima decade del XXI secolo la Repubblica Popolare non è affatto isolata come nell´89. Ha stretto da tempo delle partnership intense e proficue - non solo sul terreno economico ma anche nella sfera diplomatica e in vaste aree di cooperazione - con gli Stati Uniti, l´Unione europea, la Russia, l´India. Ha incassato un significativo disgelo con il Giappone. Dalla Corea al Pakistan in tutta l´Asia la sua influenza è in crescita, come anche in Australia e Nuova Zelanda, in Golfo Persico e nel Medio Oriente, nell´Africa subsahariana, in America latina. La crisi tibetana è venuta a guastare la visione idilliaca della "società armoniosa" che Hu Jintao proclamava di voler costruire sia all´interno del suo paese che nelle relazioni internazionali. Di colpo la propaganda del regime ha rispolverato toni e metodi nazionalisti che evocano un grande balzo all´indietro. Anche l´Occidente peraltro ha rischiato di regredire in una visione stereotipata della Repubblica Popolare. Il paese più popoloso del mondo in certe proteste occidentali è stato descritto quasi come uno Stato-lager, una Corea del Nord o una Birmania. Vista dai cinesi questa rappresentazione è assurda. La Cina non è un regime del terrore. Lo spazio delle libertà personali nella Repubblica Popolare si è ampliato enormemente dagli anni ´80 in poi: la libertà di scegliersi gli studi, di viaggiare all´interno del paese e all´estero, la libertà di costumi, la libertà sessuale. Restano gravi limiti per la libertà di espressione, di religione, e per altri diritti umani a cominciare dall´habeas corpus, il diritto alla certezza della legge, a una magistratura indipendente e a un processo equo.
La maggioranza dei cittadini cinesi sa di vivere oggi in un paese piuttosto rilassato e sereno, non solo in confronto al terrore che vigeva sotto le Guardie rosse durante la Rivoluzione culturale (1966-1976), ma anche rispetto alla Cina dei primi anni ´80. La base di consenso reale che i dirigenti comunisti hanno nel paese poggia su due pilastri: da una parte la crescita economica, dall´altra il nazionalismo. Un incidente di percorso della crescita economica, incrinando il primo pilastro del consenso, potrebbe inaugurare una fase nuova e riaprire il dibattito sulla democrazia.

Repubblica 25.5.08
America La tradizione. Il falso mito dell'identità
di Vittorio Zucconi


Scolpito nel genoma di ogni americano dal giorno 16 dicembre del 1773 quando i ribelli travestiti da "selvaggi" del Massachussetts gettarono in mare 45 tonnellate di tè appartenenti alla Compagnia britannica delle Indie Orientali, il mito dell´equivalenza fra democrazia liberale e prosperità economica, fra autodeterminazione e mercato, è qualcosa che, come tutti i miti, non è in realtà mai esistito, ma che esisterà per sempre.
Costruito su fondamenta teoriche più fragili di quanto appaiano nell´accettazione acritica dei dogmi dello scozzese Adamo Smith spesso male interpretati o delle imperiose riedizioni che ne fece il Nobel Milton Friedman da Chicago divenute il vangelo dei repubblicani contro l´eresia keynesiana e "liberal", la fede nel gemellaggio monovulare fra le due libertà è parte integrale e integrante della "identità americana". Anche di fronte a preoccupanti smentite, come il successo delle molte "dittature di sviluppo" asiatiche come la Corea del Sud fino agli anni ´90 o la Cina, come il Giappone della "dittatura soft" di uno stesso partito al potere da 60 anni o di Taiwan dominata per una generazione dagli eredi assolutisti del Kuomitang, la reazione delle classi dirigenti Usa è la ripetizione a memoria di un atto di fede.
Non importa se lo sviluppo cominci sotto la guida della mano pubblica o se avvenga spontaneamente, se la ricchezza nazionale cresca senza un progresso parallelo della democrazia rappresentativa e dei diritti civili individuali. Prima o poi, inesorabilmente, le due linee tenderanno a convergere e "le due libertà" si fonderanno. Come negli Stati Uniti. La forza del mito si radica, come vuole sempre la psicologia collettiva americana, nell´esperienza della propria storia. Poichè gli Stati Uniti sono il paradigma di tutto ciò che di positivo accade nell´evoluzione dell´umanità e, come ha dimostrato George Bush immaginando di poter esportare l´America di Jefferson e Madison nella Mesopotamia di Shia e Sunni, nulla salus extra Americam, non vi può essere bene o salvezza al di fuori del modello americano, il fatto che questa nazione sia riuscita in poco più di 200 anni a divenire la massima potenza economica del pianeta, e la massima potenza militare di sempre, mantenendo intatta la propria forma di governo civile liberal-democratico è la dimostrazione empirica del teorema. Prova riprovata, come avrebbe detto Galileo, dallo sviluppo straordinario mostrato dall´Europa occidentale dopo la conversione di tutte le sue nazioni, ultima la Spagna post franchista, alla formula mercato + democrazia = prosperità.
La accettavano implicitamente anche i più agguerriti e tenaci avversari che mai il capitalismo americano avesse conosciuto, i comunisti sovietici e i marxisti assortiti. La certezza delle "crisi cicliche del capitalismo", che passando di "boom" in "crash" avrebbero finalmente smascherato la truffa della falsa democrazia, era tanto dogmatica a Mosca quanto era la fede americana nel contrario e spiega la sicurezza con la quale Kruscev annunciò a Nixon che nel volgere di pochi anni l´economia pianificata sovietica avrebbe gettato nella spazzatura della storia l´economia capitalista. Una generazione più tardi, ancora oggi l´irriducibile Noam Chomsky predica contro "il falso libero mercato", denunciandolo come uno strumento per risucchiare ricchezza dal basso della piramide sociale verso un vertice sempre più ristretto, mentre al popolo viene offerto per distrarsi lo straccio della democrazia elettorale.
Ma se la storia e l´esperienza fossero osservate senza lenti ideologiche e senza gli opposti fideismi, si vedrebbe che il matrimonio fra Smith e Jefferson, fra il mercato libero e la democrazia, è assai più accidentato di quello che si vorrebbe far credere. Nel ciclo di "boom and crash" che puntualmente si ripete, quasi mai sono il mercato, la "mano invisibile" di Smith (che non era affatto quel liberista assoluto che l´agiografia vorrebbe disegnare, ma credeva nel concetto temperante della solidarietà per correggere il mercato) o la semplice leva monetaria indicata da Friedman a risollevare la barca sulla cresta dell´onda. Dopo la tragica esperienza del 1929-30, che soltanto la guerra, dunque il massimo possibile dello statalismo in azione, risolse definitivamente, anche il dopoguerra ha visto puntualmente l´intervento della mano visibile, dell´autorità federale, per uscire dalla tempesta.
Non fu il libero mercato, ma il massiccio intervento della Riserva Federale di Volker e Greenspan, strumento che liberisti assoluti come il candidato repubblicano (sconfitto) alla presidenza Ron Paul vorrebbe abolire, a ripescare la Borsa al collasso durante gli anni del reaganismo. Ancora fu la Fed, tirando per i capelli banche e finanziarie recalcitranti, a salvare la liquidità dopo il disastro della Long Term Capital che aveva divorato un migliaio di miliardi di dollari scommettendo sui bond sovietici insolventi, così come questa primavera è stata la Fed a far sopravvivere almeno il marchio della Bear & Sterns per evitare l´esplosione del panico e la corsa alle banche.
Se il naufragio delle speculazione sui mutui a rischio, i "sub prime", non trascinerà l´intero mercato immobiliare e tutto l´universo del credito a fondo sarà perché di nuovo il governo federale (tardi e male), il Congresso, la Fed di Bernanke, grande studioso della Depressione, gli sceicchi allagati di petrodollari leggeri e i cinesi, gonfi di cambiali del Tesoro americano , si sono mossi. Portando capitali generati e prestati da governi e miliardari che non praticano nè il libero mercato nè ancor meno la democrazia politica.
Ecco dunque un esempio lampante di un caso nel qualegli imperativi democratici (e gli interessi politici) impediscono al libero mercato di dispiegare la propria azione, mostrando la contraddizione sociale che fra i due può aprirsi. Ed ecco che piovono 168 miliardi di dollari che in questi giorni il fisco americano sta restituendo a noi contribuenti perchè vengano spesi nei centri commerciali e nei serbatori delle automobili, negazione del mito liberista, quanto lo sono quei finora 700 miliardi (in prospettiva due mila secondo Joseph Stiglitz) buttati dall´amministrazione Bush nella guerra per controllare l´Iraq nel nome di una scelta ideologica che con il libero mercato nulla ha a che fare.
Quello dell´assoluta identità fra mercato e democrazia, della sua esportabilità in ogni clima e in ogni continente, è dunque uno di quei "miti aggreganti", proprio come avrebbe voluto Leo Strauss, il filosofo tedesco padre spirituale di tutta la nidiata dei neocon portati al potere dall´onda di panico post 9/11 che, come il totem al centro dell´accampamento, servono a rabbonire e unificare gli abitanti del villaggio. A fare "identità culturale" in una nazione dalla debole identità etnica, linguistica o religiosa. Il mondo dimostra che ci si può arricchire senza democrazia si può essere una democrazia senza diffondere ricchezza, come potrebbero attestare gli impiegati a salario fisso dell´ultimo decennio italiano. Ma non si può chiedere a un americano di rinunciare alla fede nell´equazione democrazia = mercato senza chiedergli di rinunciare a essere americano.

Repubblica 25.5.08
Europa Le contraddizioni. Il dilemma eterno che ci affligge
di Enrico Franceschini


Nel 1991, durante l´ultimo anno d´agonia dell´Unione Sovietica, quando la perestrojka di Mikhail Gorbaciov cercava disperatamente di trovare una formula di capitalismo adatta alla sua visione di socialdemocrazia, in un´immenso impero multinazionale che non era più del tutto comunista ma non ancora pienamente democratico, a Mosca circolava questa storiella. «Quello che ci servirebbe», diceva uno dei suoi economisti al leader sovietico, «è un mercato alla svedese», sottintendo un´economia di mercato saldamente ancorata ai generosi e ben funzionanti principi di assistenza sociale del welfare state scandinavo. «Sì», replicava malinconico il Gorbaciov della barzelletta, «ma per realizzarla ci servirebbero gli svedesi».
Il tentativo gorbacioviano, com´è noto, fallì. Ma quella vecchia battuta può servire a illustrare il dilemma del rapporto tra democrazia e mercato nell´Europa odierna. Da un lato, l´Unione Europea rappresenta la forma più riuscita di espansione della democrazia liberale nel mondo.
Nata come Comunità Economica Europea nel 1958, quando riuniva soltanto sei paesi (Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo), oggi la Ue ne conta 27, essendosi gradualmente allargata fino a inglobare ex-paesi totalitari a ovest, come la Spagna e il Portogallo, e ad est, come gli ex-stati satelliti dell´Urss in Europa Orientale, con la prospettiva, sebbene non condivisa da tutti i suoi membri, di continuare a crescere, nei Balcani e fino alla Turchia. Dall´altro, questa esportazione pacifica della democrazia lascia aperti una serie di interrogativi. È la democrazia a fare da traino del mercato, innanzi tutto, o il mercato a creare le basi per una transizione di successo alla democrazia? Quale sistema di mercato è più adatto a uno sviluppo omogeneo dell´economia europea nell´era della globalizzazione: quello scandinavo, quello più flessibile e liberista anglosassone, quello statalista e protezionista ancora prevalente in svariati aspetti del capitalismo all´italiana? E inoltre, nel confronto interno all´Occidente, l´Europa ha la capacità di mantenere un modello economico-sociale differente da quello degli Stati Uniti, maggiormente imperniato sul welfare, sui servizi sociali, sulla protezione dei più deboli, o è destinato a uniformarsi al modello americano? In altre parole, questa libera unione fra 500 milioni di cittadini, che per aderirvi sottoscrivono il rispetto della stabilità democratica, dei diritti umani, dello stato di diritto e di un´economia di mercato che da sola produce il 30 per cento del pil mondiale, riflette le aspirazioni omogenee di un Homo Europeus o viceversa le "servirebbero gli svedesi" ( o una qualche specie aliena) per realizzare le sue ambizioni, per dirla con la suddetta storiella russa?
Quali che siano i problemi e i dubbi, le sue conquiste sono innegabili. Quando nel 2004 Romano Prodi, all´epoca presidente della Commissione Europea, in occasione dell´ingresso di 15 nuovi stati membri, in maggioranza provenienti dall´ex-mondo comunista, disse che «cinque decenni dopo l´inizio del nostro grande progetto di integrazione europea, le divisioni della Guerra Fredda sono scomparse per sempre e viviamo in un´Europa finalmente unita», non faceva della retorica. Ogni anno il Bertelsmann Transformation Index, un indicatore delle trasformazioni politiche ed economiche mondiali, fa il punto sui progressi verso la democrazia costituzionale e una "responsabile" economia di mercato sulla faccia della terra: l´Europa risulta la regione che ottiene i maggiori successi in entrambi i campi, essendo rimasto un solo vero regime autoritario, la Bielorussia, in tutto il continente. Oltretutto anche i paesi che non fanno ancora parte della Ue, come la Serbia, e quelli che non appartengono nemmeno completamente all´Europa da un punto di vista geografico, come la Russia, sono comunque chiamati a misurarsi con l´obiettivo congiunto di democrazia e mercato, grazie al confronto con l´Europa unita dei 27.
Se in questo confronto debba venire prima l´uovo della democrazia o prima la gallina del mercato, è discutibile. In un recente saggio sull´argomento, due studiosi europei, Pauline Grosjean, economica della European Bank for Cooperation and Development, e Claudia Senik, docente della Sorbona, contraddicono l´opinione dominante secondo cui lo sviluppo di un´economia capitalista porterà inevitabilmente alla democrazia (il cosiddetto modello cinese); ma esistono pareri differenti in materia. È dubbio che la Russia, al punto di disgregazione a cui era arrivata quando Gorbaciov salì al potere nel 1985, avrebbe potuto mantenere un saldo controllo politico sulle sue 15 repubbliche, sviluppando nel contempo una libera economia di mercato: a Mosca, concorda la maggioranza degli osservatori, era probabilmente troppo tardi per il modello cinese. Per il politologo inglese Timothy Garton Ash, il problema dell´Europa, intesa nel suo senso più ampio, non solo di quello che è oggi la Ue ma di quello che potrà diventare nel corso del XXI secolo, è piuttosto un altro: trovare gli elementi di una narrazione convincente dell´idea europea, in altre parole il collante che terrà insieme il modello europeo di democrazia e mercato. Garton Ash li riassume in sei parole: libertà, pace, diritto, prosperità, diversità, solidarietà. «Nessuno di questi obiettivi è prerogativa esclusiva dell´Europa» afferma il politologo «ma la maggior parte degli europei concorderebbero che essi riflettono le loro comuni aspirazioni».

Corriere della Sera 25.5.08
Il personaggio «Il partito dice che non sono in linea. Vengano qui loro»
E alla guida dei ribelli c'è il sindaco del Pd
di Marco Imarisio


NAPOLI — Se la politica fosse una cosa logica e precisa come lo erano i lanci da fermo di Ruud Krol, parabole di 50 metri che finivano sistematicamente sul piede dell'attaccante, allora oggi Salvatore Perrotta sarebbe al mare con i suoi tre figli.
«L'opposizione farebbe l'opposizione, strillerebbe contro queste politiche repressive. E non ci sarebbe una indistinta melassa che impedisce di vedere come Chiaiano rappresenti il grande esperimento del centrodestra. Dopo di noi, il modello verrà applicato a quelli della Tav, ai no-base di Vicenza, ma sempre previo entusiasta consenso del Partito democratico, partito di presunta opposizione ». Ciao spiaggia, anche se la giornata sarebbe adatta. E forse, ciao anche al Pd. Il sindaco di Marano ha occhi iniettati di rosso e la faccia stropicciata come giacca, camicia e cravatta che indossa ormai da quasi due giorni. «Per favore, fatemi andare a dormire, solo un'oretta ». Le donne e gli uomini sulle barricate di via Cupa del Cane accolgono l'implorazione, anche gli eroi necessitano di sonno. Nel caleidoscopio di questa protesta, Perrotta rappresenta il politico più alto in grado, quello che si è maggiormente esposto, con dichiarazioni tutt'altro che concilianti. Ex calciatore dilettante, supertifoso del Napoli ovviamente nostalgico di Maradona ma con un debole per l'olandese Krol, che gli ricorda i suoi vent'anni, dal 2006 è il sindaco di Marano, 60.000 abitanti senza soluzione di continuità da Napoli e Mugnano, con le cave a delimitare i rispettivi confini demaniali. La scorsa notte è stato lui a condurre la trattativa con la Polizia. Il coordinatore regionale del Pd lo ha richiamato appellandosi alla fascia tricolore che indossa. Lui ha risposto facendo svolgere il consiglio comunale in piazza Titanic. «Ci venisse lui, tra queste persone, a dire che la discarica va fatta per il bene comune. Si accomodi. Poi vediamo cosa succede».
La politica vista da piazza Titanic è una cosa strana, completamente dissociata dalle logiche nazionali. Così, l'iperattivo Carlo Migliaccio, presidente della commissione Ambiente del comune di Napoli, dipietrista di stretta osservanza, si scambia baci e abbracci con la delegazione Pdl di Mugnano. E ai tavolini del bar De Rosa, sul viale che porta a Marano, il destrissimo Enzo Micillo, presidente del circolo cittadino di Alleanza Nazionale, beve, ride, dice peste e corna della Polizia con l'ultrasinistro Pietro Rinaldi, capo dei Disobbedienti e dei centri sociali napoletani. Sussurra il primo, con pudore: «In vita mia non mi sarei mai aspettato di stare contro le forze dell'ordine». Tranquillo, prima o poi capita a tutti, gli risponde l'altro.
A suo modo, Perrotta rappresenta tutto questo mischiamento, che almeno ha il vantaggio di farlo sentire meno solo. «Sono deluso dall'atteggiamento di tanti miei amici e compagni di partito, passati dalla solidarietà all'indifferenza non appena è arrivata la scomunica». Terminata l'ora di sonno, salutata la Mussolini che gli dà appuntamento al bar Gambrinus per l'aperitivo della domenica, trova ospitalità alla sede di Mugnano del Popolo della Libertà, che a occhio doveva essere di An. Il sindaco si lascia andare su un sedia, allunga le gambe. Sul muro dietro di lui campeggia la gigantografia di un sorridente Giorgio Almirante. «Non mi sento rappresentato da uno Stato che picchia le vecchiette. Dicono che dietro alla protesta c'è la camorra. Non è vero. Io sono un maranese orgoglioso, protesto prima come padre che come sindaco. Dai tempi del clan Nuvoletta le cose sono cambiate. Certo, la camorra da queste parte esiste. E più tempo passa, più rischia di infiltrarsi e di inquinare la nostra lotta».
Come al presidio di via Cupa del Cane, la gente che entra per salutarlo lo chiama semplicemente Salvatore. Tieni duro Salvatore, Madonna che brutta faccia che hai, cerca di dormire. Lui annuisce, sovrappensiero, mentre cerca di domare due telefonini perennemente squillanti. Alla fine se ne andrà dalla casa madre, lui che ha sempre votato Pci, è entrato in politica con tessera del Pds, e via discendendo fino ad oggi. Fa spallucce. «Non importa. Mi riconosco in questa lotta, ne va anche del futuro dei miei figli». Il suo assistente gli legge a voce alta la frase riportata nel manifesto sulla parete di fronte. «Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale niente lui». Perrotta strizza gli occhi verso l'uomo immortalato in bianco e nero nel poster, un vecchio signore con barba e bastone. «Chi è, Karl Marx?» No, Ezra Pound. Ma a Chiaiano questi sono dettagli da poco

Corriere della Sera 25.5.08
La sinistra e le «barricate»
Velardi: sbaglia. Erri De Luca: no, è vera democrazia
di Lorenzo Salvia


ROMA — Una protesta civile e democratica oppure l'ennesimo no che dà una mano a coprire di rifiuti la Campania? Il sindaco Salvatore Perrotta convoca il consiglio comunale in piazza (seduta permanente) per impedire il passaggio verso la cava di Chiaiano.
Un sindaco del Partito democratico sulle barricate. E la sinistra, in Campania, che ne pensa?
Erri De Luca quasi non aspetta la fine della domanda: «Siamo nel più perfetto funzionamento della democrazia. Questa — dice lo scrittore — è legittima difesa esercitata in modo civile dalle autorità elette da quei cittadini».
D'accordo Gennaro Migliore, ex capogruppo di Rifondazione alla Camera: «Protesta più che legittima perché non violenta. Il sindaco fa bene ad opporsi in questo modo.
Sembra quasi che il governo voglia fare quella discarica solo per far vedere che ha la schiena dritta».
Ma se ci si avvicina alla sponda del Partito democratico, il giudizio sul sindaco Perrotta cambia eccome. «In parte comprendo — spiega Claudio Velardi, assessore al Turismo della Campania ed ex braccio destro di D'Alema a Palazzo Chigi — ma non la condivido affatto. È vero che finora le autorità nazionali e regionali sono state indecise e contraddittorie. Ma adesso si è deciso di voltare pagina. E al sindaco dico che con proteste di questo tipo una soluzione non la troviamo più». Ancora più netto il filosofo Biagio De Giovanni, ex eurodeputato Ds: «Queste sono false forme di democrazia partecipativa. La Campania è ridotta così anche perché per anni è bastato mettersi la fascia tricolore, scendere in piazza e difendere gli interessi locali a discapito della comunità. Va bene il dialogo ma no alla dittatura della minoranza». Parole sottoscritte dal segretario del Pd campano Tino Iannuzzi: «Bertolaso ha già convocato una riunione per consultare le popolazioni locali. È quella la sede dove gli amministratori possono esporre le proprie ragioni. E sono sicuro che i sindaci, tutti i sindaci, saranno responsabili e aiuteranno a realizzare le decisioni prese».

Corriere della Sera 25.5.08
L'«Unità» boccia l'idea di Alemanno. Contrario il fratello di Berlinguer. Chiamparino: evitiamo toni esagerati
«Via Almirante». Gelo a sinistra, però c'è chi «apre»
di Fa. Ro.


ROMA — Le foto, in bianco e nero, sono due. E, in entrambe, c'è Giorgio Almirante. In quella più grande: con il suo doppiopetto gessato, alza il braccio destro nel saluto romano (si scorgono dei microfoni: è chiaramente su un palco, durante un comizio). La seconda è più piccola: e lui, Almirante, appare il più anziano, in impermeabile e cappello, tra un gruppo di ragazzi che impugnano bastoni (si suppone siano i gradoni di qualche facoltà dell'università romana La Sapienza).
Le foto, ieri, sull'Unità. A pagina 7. Con un articolo, firmato da Vincenzo Vasile, che parte dalla prima e ha un titolo eloquente: «Ordinava di fucilare i partigiani, Roma non può dargli una via». Perché questa, come noto, sarebbe l'intenzione del sindaco Gianni Alemanno, ex militante del Msi, poi uno dei colonnelli di An.
L'Unità alza il tono delle polemiche. Sentite: «Razzista e fascista. Ricordate chi era Almirante ». Seguono alcuni passi che il fondatore del Movimento sociale italiano scrisse nel 1938 sulla rivista La difesa della razza:
«Il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l'Italia abbia mai tentato...».
Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico, impiega pochi minuti a leggere l'intera pagina, poi dice: «Sono sdegnato. L'Unità
pone un problema serio: non si può intitolare un strada di Roma a uomo che promosse simili pregiudizi razziali e che successivamente aderì pure alla Repubblica di Salò...». Professor Berlinguer, Almirante divenne però poi un importante protagonista della vita parlamentare italiana e... «E venne, lo so, ai funerali di mio fratello. Ma questo, purtroppo, non sposta un dato certo». Quale? «Per lunghi anni, la vita politica di Almirante è stata tragica».
E infatti, riflette Emanuele Macaluso, altro ex esponente di rango del Pci, «non si capisce la scelta di Alemanno...». Alemanno vuol dare un riconoscimento ad Almirante, che ritiene essere stato «un precursore» della moderna destra democratica. «Senta: quello di Alemanno o è infantilismo politico o è un atto di pura provocazione...».
Ma no, nemmeno una provocazione, teme il sindaco di Venezia Massimo Cacciari. «Piuttosto direi una provocazioncella... in fondo, Alemanno e compagnia si proclamano post-fascisti, o no?». Interviene il collega torinese, Sergio Chiamparino: «Vede, io tenderei a evitare sensazionalismi». Le polemiche, in effetti, si stanno facendo piuttosto roventi. «E questo, beh, è sbagliato. Abbiamo avviato un certo tipo di dialogo e, per questo, non rovinerei tutto con una simile vicenda».
C'è voglia di ragionare con pacatezza. Così ad Antonio Polito, direttore del Riformista, viene un'idea: «Per alcune personalità piuttosto controverse, suggerisco che prima di intestargli una strada si facciano trascorrere 50 anni dal giorno della loro morte». Come per gli archivi segreti. «Esatto. Così avremo tutto il tempo per fugare ogni sospetto...».
Marco Pannella fila in taxi verso l'aeroporto: «Mi invitavano ai loro congressi, io salivo sul palco e glielo dicevo chiaro e tondo: se volete smettere d'esser considerati fascisti, nel vostro Pantheon dovreste mettere anche i fratelli Rosselli. Ad Alemanno, perciò, consiglio di dedicare una strada pure a loro...».

Corriere della Sera 25.5.08
Lo scrittore ebreo Usa. Israele respinge Finkelstein


TEL AVIV — Norman Finkelstein (foto), il controverso docente universitario ebreo americano noto per le sue posizioni critiche verso Israele, è stato fermato venerdì al suo arrivo all'aeroporto di Tel Aviv. Interrogato, trattenuto in una cella dello scalo per 24 ore, è poi stato rispedito indietro con un bando decennale. Lo ha riferito l'attivista per i diritti civili Mussa Abu Hashash, che aveva previsto di incontrare Finkelstein e di guidarlo in visita nei Territori. Figlio di un'ebrea polacca sopravvissuta ai campi di sterminio, ha criticato la guerra in Libano condotta da Israele nel 2006. Finkelstein è noto soprattutto per il libro «L'industria dell'Olocausto», in cui denuncia lo sfruttamento politico della Shoah.

Corriere della Sera 25.5.08
Ricostruiti i complessi rapporti fra il genio originario di Baku, premiato con il Nobel poco prima della morte, e la dittatura comunista
Le molte vite del fisico di Stalin
Carcerato, riabilitato, dissidente: il destino dello scienziato atomico Lev Landau
di Giulio Giorello


Lev Landau fu uno dei più profondi, talentuosi e preparati fisici teorici dell'Unione Sovietica Un manifesto degli Anni 30 esalta la potenza sovietica. Più a sinistra: Lev Landau e una riproduzione a grandezza naturale delle due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki

Perché brillano gli astri nel cielo? L'ipotesi di Lev Davidovic Landau (1908-1962) era che il chiarore stellare fosse dovuto all'energia rilasciata da protoni (di carica elettrica positiva) e da elettroni (di egual carica, ma negativa) che «si fondevano » in neutroni (privi di carica elettrica). Benché non rappresenti il lavoro più importante di Landau (o Dau, come veniva familiarmente chiamato da amici e colleghi), quel testo, pubblicato su «Nature» (1938), non privo di aspetti discutibili, doveva attirare l'attenzione della comunità scientifica internazionale. Già l'anno dopo l'americano Robert Julius Oppenheimer — destinato a diventare celebre soprattutto per la direzione del Progetto Manhattan, che portò alla messa a punto della prima bomba atomica — forniva un modello assai preciso delle stelle di neutroni, e successivamente (con l'allievo Hartland Snyder) delineava l'astrofisica di quei corpi celesti dotati di un campo gravitazionale talmente elevato da intrappolare persino la luce che passava nelle loro vicinanze (saranno poi detti buchi neri).
Così «il mondo incantato delle particelle elementari» — elettroni, protoni, neutroni, eccetera — contribuiva a spiegare il comportamento delle grandi strutture che popolano l'universo. Meno note erano in Occidente le ragioni "strategiche" che avevano spinto quel giovane fisico, originario di Baku (attualmente capitale dell'Azerbaijan) e che allora lavorava a Leningrado (oggi tornata San Pietroburgo), ad affrontare un problema che avrebbe richiamato l'attenzione «non solo degli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto degli addetti al potere del Paese dei Soviet». Sono parole di Fabio Toscano: nel saggio Il fisico che visse due volte (Sironi editore) ricostruisce gli intrecci tra la ricerca del maggior «genio sovietico » della fisica e le vicende della Grande Russia rimodellata da Lenin con la rivoluzione d'Ottobre e vessata da Stalin.
Di ascendenza ebraica, in gioventù estimatore di Lenin come di Einstein («il più grande di ogni tempo»), sfrontato al punto di provocare il brillante ma taciturno Dirac («troppo matematico»), Dau era paragonato per impetuosità e irriverenza al «poeta e rivoluzionario » Vladimir Majakovskij. Vagabondo della fisica, aveva percorso Svizzera, Germania, Gran Bretagna e Danimarca, conoscendo e collaborando con giganti della meccanica quantistica come Werner Heisenberg e Niels Bohr.
Erano i tempi in cui costoro avevano scoperto «un universo profondamente diverso da quello che la scienza precedente aveva trasmesso » (lo scrive Eugenio Scalfari nella prefazione a una nuova edizione italiana di Fisica e oltre dello stesso Heisenberg): quel che turbava i fisici ancorati alla tradizionale concezione della causalità — in particolare, il principio di indeterminazione enunciato nel 1927 da Heisenberg — era la maggior ragione di "incanto" per il giovane sovietico. La libertà della nuova fisica sarebbe andata di pari passo con la liquidazione del vecchio ordine sociale promessa dal comunismo internazionale. Tornato in patria (1931), deciso a rifondare la fisica teorica nella terra del «socialismo in un solo paese», doveva accorgersi ben presto dello scarto tra sogno d'emancipazione del proletariato e pratica politica bolscevica. Era solito esibire «un enorme coccodrillo di gomma verde penzolante dal lampadario dell'ufficio», mentre esaminava — «adagiato su un divano, i piedi sulla scrivania, un'enorme cravatta rossa al collo» — coloro che chiedevano di poter collaborare con lui. Un cartello sulla porta avvisava: «Attenzione. Morde! ». Ma in quei tempi d'acciaio, anche i coccodrilli erano "fuori linea": Landau, attaccato dai colleghi più conservatori e spiato dalla polizia politica, doveva passare dalle stelle alla Lubjanka!
Viene in mente una delle storie di Carl Barks («Zio Paperone e il tesoro sotto zero») che è di recente apparsa nella raccolta acclusa al Corriere della Sera. Il magnate di Paperopoli batte in un'asta per il possesso di una sostanza misteriosa — il bombastium — il dittatore della «grande Brutopia», che aveva buttato sul piatto della bilancia tutto il Pil del suo Paese e «tutti i lavandini del suo popolo felice» — ben cinque! Salvo poi essere derubato dal Brutopiano che infine caccia via quello strano elemento quando scopre che è capace solo di produrre... dei gelati.
Nella storia reale, doveva proprio essere Dau (scarcerato nell'aprile del 1939) a lavorare al vero bombastium, cioè all'arma atomica sovietica. Per colmare il divario con gli Stati Uniti d'America, colui che era stato bollato come provocatore era tornato «uno dei più profondi, talentuosi e preparati fisici teorici del-l'Urss ». Cominciò così la sua "seconda vita": sempre più scettico circa la possibilità di realizzare ciò che è irrealizzabile (l'utopia) ricorrendo alla brutalità, doveva confessare di aver «ballato di gioia» alla notizia della morte di Stalin (1953) e salutare come «puro eroismo rivoluzionario» l'insurrezione ungherese del 1956.
Scrisse una volta Einstein: «È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio». Ma, nonostante l'ostilità dei politici comunisti, Landau doveva ancora stupire il mondo scientifico per i suoi lavori sulla superfluidità, salutati come il maggior «passo mentale verso una visione più astratta, ma contemporaneamente più vicina alla natura».
Altro che bombe o lavandini per il popolo felice! Il vecchio Coccodrillo, pur colpito nel corpo, sapeva mordere ancora. Insignito del premio Nobel alla fine della sua esistenza, doveva venire ufficialmente riabilitato dalle autorità dell'Unione Sovietica soltanto nel 1990.
Come nota Fabio Toscano, «alla fine dell'anno successivo la bandiera rossa fu ammainata dal pennone del Cremlino».

Corriere della Sera 25.5.08
Liechtenstein: circa 130 fra dipinti, disegni e plastici di 19 artisti russi al Kunstmuseum
Flussi e riflussi di un Quadrato nero
E Malevich lascia il Futurismo per inventare il Suprematismo
di Sebastiano Grasso


«Nel suo sviluppo storico, il Suprematismo ebbe tre stadi: nero, colorato e bianco» scrive, nel 1920, Kazimir Malevich nel saggio dedicato al movimento creato nel 1913 e un paio di anni dopo riassunto nel manifesto scritto assieme al poeta Vladimir Majakovskij.
Nel 1913, in piena atmosfera futurista, Malevich progetta una serie di riviste ispirate al movimento di Marinetti e fa una mostra di dipinti «neoprimitivisti ». Titolo, Realismo trans-mentale e Realismo cubo-futurista. Per il Futurismo, Malevich ha una sorta di amore- odio. Amore, perché ha risolto schemi preesistenti; odio (anche se l'espressione è un po' esagerata), perché lo fa sentire ingessato ed egli vuole uscirne a tutti i costi.
Nel dicembre — nel caso si volesse dare una data precisa alla nascita del Suprematismo — disegna scene e costumi per l'opera teatrale Vittoria sul Sole, realizzata assieme al musicista Mihail Matjuscin e al poeta Aleksej Krucenyh. I tre si incontrano ad Uusikiskko, in Finlandia, nel luglio del 1913. Tre giorni di chiacchierate che chiamano pomposamente «Primo congresso panrusso dei futuristi», in cui decidono di creare «un'opera-mistero ». Si dividono i compiti: parole, musica, scene e costumi. Autore del prologo? Velimir Hlebnikov.
L'opera è rappresentata due volte a San Pietroburgo. Invece di alzarsi, il sipario viene lacerato. Kazimir sale sul palco e recita.
Reazioni? Pubblico diviso. «Entro i confini della scatola scenica è nata una stereometria pittorica, determinando un rigoroso sistema di volumi, tale da ridurre al minimo gli elementi della casualità che il movimento delle figure causava dall'esterno» scrive entusiasta Benedikt Livsic. Altri, invece, non ne vogliono sapere.
Comunque sia, Vittoria sul Sole apre la strada al Suprematismo, che si concretizza, circa due anni dopo, nella mostra di 39 quadri di Malevich O,10 (zero- dieci) dove linee, croci, quadrati, cerchi e altre figure geometriche, su fondo bianco, rompono non solo con arte e letteratura del momento, ma anche con la sua produzione precedente: «Si cominciava da zero».
La premessa? Certo dovendo la pittura svilupparsi in maniera logica, il pittore suggerisce di passare «dall'Impressionismo al Suprematismo», attraverso Cézanne e gli artisti di Cubismo e Futurismo. Tre le forme del primo stadio (quello «nero»): quadrato, croce e cerchio. Dal primo, come in una esplosione da fuoco pirotecnico, si espande, a raggio, «l'universo suprematista».
Ed è proprio dal Quadrato nero che parte la mostra del Liechtenstein, a cura di Friedemann Malsch, dedicata a Malevich (1879-1935) e agli influssi da lui avuti su pittori come El Lissitzky, Rodtschenko, Suetin, Kljun, Tschaschnik, Leporskaja, Stenberg, Chidekel, Kluzis, Popova, Rosanowa, Strzeminski, Kobro, Kandinsky, Dexel, Buchholz, Moholy-Nagy e Kassák. Esposti, di Malevich, una trentina di lavori; degli altri, un centinaio.
Certo il protagonista resta sempre Kazimir, ma in questa sorta di teatro del colore si registrano entrate in scena continue di attori che nulla hanno da invidiare al loro «maestro». Del quale sono presenti dipinti, disegni e plastici degli anni Venti: composizioni suprematiste astratto-geometriche, ma anche opere che testimoniano il suo ritorno al figurativo ( Giovane con l'asta,1932).
Come si ricorderà, una volta che Malevich si convince che il Suprematismo ha fatto la sua parte, torna alla pittura tradizionale. Peccato che in questa mostra manchi il celebre Autoritratto, eseguito un paio d'anni prima della morte, nel 1933, in cui egli si era dipinto alla maniera rinascimentale.
KAZIMIR MALEVICH Liechtenstein, Kunstmuseum, sino al 7 settembre. Tel. +423/2350329