lunedì 26 maggio 2008

l’Unità 26.5.08
Chi semina vento
di Antonio Padellaro


A proposito del doppio pestaggio di un immigrato bengalese e di un cittadino italiano conduttore di una radio gay, il sindaco di Roma Alemanno parla di «xenofobia di quartiere ma senza movente politico». Un curioso gioco di parole visto che nulla è più politico del vento fetido della violenza di strada che si organizza in giustizieri della notte e bande di energumeni dediti alla pulizia etnica e di ogni altra diversità dalla pura razza ariana. Quanto alla dimensione territoriale, diamo tempo al tempo e presto i picchiatori di quartiere potranno confluire nella guardia nazionale targata Lega di governo, che provvederà ad armarli di pistole e fucili come da disegno di legge. La frase di Alemanno è un maldestro tentativo di salvare capra e cavoli perché se le svastiche del Pigneto non c’entrano niente con la croce celtica che egli porta al collo, esiste eccome un robusto nesso tra l’ondata di raid nazifascisti con morti (Verona) e feriti e l’incessante straparlare di fermezza da parte della destra. Ecco quindi, caro Alemanno, che la politica, la vostra politica della paura e della insicurezza, sparsa irresponsabilmente a piene mani sta producendo gli inevitabili effetti come i bacilli di un morbo ormai fuori controllo. È comprensibile che, vinte le elezioni, per gli apprendisti stregoni in doppiopetto comporti un qualche imbarazzo correre di qua e di là a constatare tra teste rotte e negozi devastati i risultati di tante parole fuori luogo. Invece di minimizzare o di scaricare sul presunto lassismo di chi c’era prima i vari Alemanno farebbero bene a fronteggiare con la massima urgenza questa offensiva dell’odio, immersa nella subcultura del menare le mani oltre che in nuvole di cocaina. Prima che il combinato disposto di teste rasate e bravi padri di famiglia bastonatori venga a presentare il conto anche a loro.

l’Unità 26.5.08
Razzismo. L’aria di Roma
Paolo Soldini


È inutile girarci intorno: una soglia è stata varcata. Quel che è accaduto nel quartiere romano del Pigneto, sabato scorso, nella capitale d’Italia non ha precedenti. C’erano stati, in passato, episodi di xenofobia e accenti di razzismo.
Ma raid organizzati, finalizzati a riscuotere consenso in un quartiere (un quartiere con una sua bella storia civile e democratica e solidi legami con la sinistra), no, quelli non si erano mai visti. La spedizione punitiva con i bastoni e le croci uncinate è grave in sé, ma è ancora più grave per la brutalità con cui dice che il clima è cambiato. Per l’improvviso saltare sulla scena di chi, a suon di mazzate che prima o poi finiranno in tragedia, vuol fare di Roma un città di ronde (e peggio), le vuole sottrarre un pezzo, importante, della propria anima. Che è - o dobbiamo dire: è stata? - la preziosa capacità di convivere senza tensioni con la straordinaria varietà del mondo, di accogliere, di abbracciare e digerire nel suo ventre vorace popoli, etnìe, culture, colori della pelle e dei pensieri, abitudini, comportamenti, modi di vestire, di mangiare, commerciare, pregare, filosofare. Misurando tutti con la saggia bonomia di chi, in tanti secoli, ne ha viste troppe per non capire che solo in questo sano miscuglio vive davvero una grande città.
È stato sempre così. «Chiara cosa è che la minor parte di questo popolo sono i Romani, poiché quivi hanno rifugio tutte le nationi come commune domicilio del mondo» scriveva Marcello Alberini, che fu testimone del Sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi di Carlo V. Nella primavera di quel fatale 1527 tra le 54 mila “bocche” che, distribuite in 9300 “fuochi”, costituivano la popolazione residente della città eterna, il 58% circa non era originario di Roma o dei territori dello stato pontificio: era forestiero, insomma, e il 18% era di nazionalità non italiana. Altro che l’immigrazione di oggi: la città del soglio di Pietro era di gran lunga la più cosmopolita del mondo. C’erano preti, commercianti, famigli, guardie svizzere, teologi, studiosi d’arte e d’antichità, eruditi d’ogni angolo d’Europa. E lavoratori più modesti: servi, stradini, armaiuoli, garzoni di fabbri, pecorai, prostitute (molte: dei 9300 “fuochi” oltre 2000 erano guidati da donne e costituiti da una sola persona). Nel quartiere di Schiavonia, intorno al porto di Ripetta, erano concentrati slavi, albanesi, ruteni e rumeni di rito cattolico; verso Borgo e a Trastevere predominavano tedeschi, greci, francesi ed ebrei orientali immigrati (non i 1800 della comunità locale, che erano considerati romani, romanissimi e abitavano in quello che sarebbe divenuto poi il ghetto). La Roma di Clemente VII, insomma, era ben più “invasa” dagli stranieri della Roma che strilla oggi contro l’“invasione”. L’invasione, quella vera, arrivò da fuori e per ragioni squisitamente politiche, quel brutto 6 maggio in cui le truppe luterane e tedesche dell’imperatore (ma con loro c’erano anche cattolici e italiani) ripeterono l’impresa di Brenno e di Alarico. Fino ad allora il crogiuolo Roma aveva mescolato i suoi ingredienti di etnìe, lingue, culture (e persino religioni) con piena soddisfazione di tutti, romani e non romani. Per via della tradizione millenaria d’una città che era stata capitale d’una res publica e di un impero in cui la cittadinanza si acquisiva per jus soli e che ospitava la massima autorità dell’unica chiesa che si pretendeva universale.
Come è potuto accadere che una città con queste tradizioni sia caduta anch’essa vittima della sindrome “ciascuno a casa propria”, che è, qui come ovunque, l’humus sul quale cresce la violenza contro gli “altri”, i “non noi”? Una spiegazione è data da quella parolina (infame) che è stata la chiave con la quale si è pensato di aprire tutte le porte nella passata campagna elettorale: “sicurezza”. È stato allora che ha vinto un sistema di sillogismi tutti sbagliati ma tutti possentemente evocativi: a Roma ci sono troppi stranieri, gli stranieri delinquono più degli italiani, la criminalità è aumentata e quindi tutti siamo più insicuri. Se si guarda alle statistiche, che fino a prova contraria restano l’unico dato oggettivo sul quale dovrebbe essere lecito ragionare, Roma non ha “troppi” stranieri. Ne ha, proporzionalmente, meno di tutti quelli che ha avuto in tutta la sua storia salvo il periodo che va dall’inizio del XIX secolo alla fine del fascismo. E ne ha, soprattutto, molti meno, percentualmente, di quasi tutte le metropoli europee comparabili: meno di Madrid, di Milano, di Torino, di Berlino, di Monaco di Baviera; molto meno di Londra, di Parigi, di Amsterdam, di Bruxelles, di Francoforte. Secondo punto: è vero che gli stranieri, statisticamente, delinquono più degli italiani? Se si tiene conto degli arresti e della quantità dei reati, certamente sì. Il che, peraltro, ha fin troppo facili spiegazioni socio-psicologiche nello stato di povertà e di degrado in cui vivono molte comunità, in certe diversità culturali e nelle difficoltà di integrazione. Ma se si guarda ai delitti più gravi (omicidi, rapine, sequestri, violenze sessuali), a dispetto di certi clamori di cronaca, per niente innocenti, il primato resta saldamente in mano ai nostri connazionali. Infine: la criminalità non è affatto aumentata, negli ultimi anni. Anzi, come dicono le statistiche Eurostat e Istat è diminuita in maniera sensibile. Roma, con una media di 0,4 omicidi per 100 mila abitanti (contro i 4,7 di Amsterdam, i circa 3 di Parigi e una media superiore a 2 nelle grandi città tedesche) è di gran lunga la metropoli più sicura d’Europa. Sempre in termini di omicidi, peraltro, e malgrado la presenza di mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita, l’Italia intera con l’1,2 è in un confortevole undicesimo posto tra i Paesi della Ue, ben lontana dal record della Lituania (9,4).
E però, come recita icasticamente il titolo di un rapposto europeo, in Italia “la paura aumenta anche se la criminalità diminuisce” e il paradosso, a giudicare da quel che si sente in giro, vale ancor più per Roma. Non è il caso di ribadire qui quello che (sia pure ancora troppo timidamente) si è detto nei giorni scorsi sul ruolo a dir poco deteriore che hanno avuto i media nel titillare questa paura. Pur se di una discussione seria e severa su come funziona il sistema dei media in Italia, dal conflitto d’interessi in giù, e di quello che (non) fanno i giornalisti ci sarebbe davvero un gran bisogno.
Conviene limitarsi a due o tre dati sui quali, e non solo a sinistra, sarebbe necessario che si ricominciasse a discutere. Il primo è la comprensione del carattere epocale dei fenomeni di migrazione. Basterebbe conoscere un po’ di storia per sapere che i fenomeni migratori hanno accompagnato tutta la storia dell’umanità: dal tempo delle colonizzazioni per onde dei primi agricoltori mesolitici alle invasioni barbariche nell’impero romano alle conquiste normanne alla grande migrazione europea verso le Americhe ci sono sempre stati movimenti di popolazioni che lasciavano terre senza risorse per zone più ricche. La cosa poteva avvenire pacificamente o con la guerra, ma la motivazione era sempre la stessa: nessuno accetta di morire di fame se lontano da casa sua può sfamare sé e la propria famiglia. La storia ci insegna anche che le società che hanno cercato di resistere all’arrivo degli “altri”, che invece di integrarli hanno cercato di fermarli e di respingerli con le armi, hanno conosciuto un rapido declino. Vivere in una fortezza può apparire sicuro, ma alla fine diventa una prigionia. Gli individui si isolano, perdono i contatti, anche economici, con il proprio contesto sociale: alla fine l’intera struttura sociale cade su se stessa, come l’impero romano nel IV secolo o l’apartheid in Sud Africa qualche decennio fa.
L’idea che i flussi migratori possano essere “bloccati”, magari mandando le cannoniere nelle acque internazionali, è sbagliata prima ancora che moralmente discutibile. Se non si riesce a promuovere condizioni accettabili nei Paesi da cui i profughi provengono - e certo non è facile - l’unica strada è quella dell’accoglienza, del governo dei flussi e della integrazione. Non è questione di “buonismo” o di “cattivismo”: è così punto e basta.
Ma attenzione: il “cattivismo” non è una perversione momentanea, un malanno dello spirito pubblico da curare con le prediche e i buoni sentimenti. Prendiamone atto: la maggioranza dei romani che hanno votato ha eletto un sindaco che porta la croce celtica appesa al collo e vuole dedicare una strada a un uomo che scriveva infamie antisemite “a difesa della razza” e non si è mai pentito - non pubblicamente, almeno - di averlo fatto. D’altronde, Giorgio Almirante, fucilatore di partigiani, è considerato un eroe civile dall’attuale presidente della Camera, che giudica più grave il rogo di una bandiera israeliana dell’omicidio di un ragazzo compiuto dai camerati veronesi dei naziskin romani, quelli che negano che l’Olocausto sia mai avvenuto. Il fatto che pochi abbiano messo insieme le due cose, il revisionismo storico alla casareccia dei Fini e degli Alemanno, e l’insorgenza di un nuovo razzismo xenofobo ci dice quanto l’idea che “il passato è passato” e che il voto popolare, espresso liberamente e democraticamente, emenda ogni colpa ed esime da ogni consapevolezza storica si stia diffondendo in vasti strati di opinione, anche a sinistra. Ma se “difendere la razza” in nome della “purezza” del sangue italiano non era poi tanto sbagliato ieri perché, oggi, ci si dovrebbe fare qualche problema a prendere i bastoni e cacciare i “negri” in nome della “purezza” d’un quartiere romano?

l’Unità 26.5.08
Massimo D’Alema: «Rischi per lo Stato laico da un patto tra Chiesa e destra»
di Andrea Carugati


In Italia c’è un rischio per la laicità dello Stato. Che si concretizzerà se la Chiesa «cederà alla tentazione demoniaca del potere, che già ha prodotto errori nella sua storia». Se cioè ci sarà un «patto di potenza» tra la Chiesa e la destra, un patto cementato da leggi che traducano la morale cattolica in norme «imposte a tutti». Massimo D’Alema lancia l’allarme sulla laicità durante la sua relazione conclusiva del seminario su “religione e democrazia”, organizzato dalla Fondazione Italianieuropei, che si è chiuso ieri a Marina di Camerota. Lo fa senza alcuna vis polemica o laicista, al termine di tre giorni di riflessioni alte, con intellettuali di fama internazionale come Remo Bodei e Tzvetan Todorov.
Secondo D’Alema questa alleanza tra Chiesa e destra metterebbe in pericolo il «carattere pluralistico, democratico e liberale dello Stato». Di qui il monito alle gerarchie cattoliche, affinché «non indirizzino il proprio peso politico da una parte, ottenendo in cambio la tutela di principi e valori che diventano leggi valide per tutti». Anche per chi cattolico non è, e su aborto e fecondazione, ad esempio, ha convinzioni morali diverse.
L’ex ministro degli Esteri inserisce questo concetto in una lunga relazione sulla crisi dell’Occidente, dopo la sconfitta delle ideologie di mercato che hanno dato spinta alla globalizzazione: crisi in cui la religione ha assunto un ruolo «di supplenza», di «identità e protezione» per società sempre più «smarrite e incerte sul proprio futuro». In questo contesto «la destra ha preso a prestito la religione come elemento coesivo nel conflitto dell’Occidente con altre civiltà, come è avvenuto, con le dovute differenze, nel mondo islamico». La destra lo ha fatto perché «è stata migliore interprete di ciò che si muove nel fondo delle nostre società».
E tuttavia questo esito, l’alleanza tra chiesa e destra, è tutt’altro che scontato: anzi, secondo D’Alema, il ritorno della religione in primo piano nello spazio pubblico potrebbe avere effetti di tutt’altro segno se la Chiesa non cederà alla tentazione del fondamentalismo: «Il sentimento religioso non solo non è incompatibile con la laicità, ma può ridare forza e prospettiva alla politica», spiega. Può essere uno di quegli «affluenti» di cui «la politica ha bisogno per tornare a suscitare passioni». Ma perché questo avvenga è necessario che all’unità ecclesiale si affianchi un forte «pluralismo delle scelte sociali e politiche». Che emergano le «linee di frattura dentro il movimento cattolico». Ed è necessario che la chiesa recuperi la sua «carica di universalità», che «non si confini in una alleanza con l’Occidente». D’Alema si richiama al Concilio, alla «Gaudium et spes» cita l’intervento di sabato qui al seminario di monsignor Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana, che aveva ricordato come «neanche un Papa possa mettere in discussione il Concilio Vaticano II, solo un nuovo Concilio può farlo». E aveva invitato a «non identificare le posizioni della chiesa con quelle della gerarchia», a guardare «anche a cosa matura e lievita nella base cattolica», nell’associazionismo. D’Alema accoglie questa prospettiva, attento a cosa si muove dentro la Chiesa e invita a più riprese a un «dialogo fecondo» tra laici e cattolici.
C'è spazio anche per un supplemento di riflessione sulla sconfitta elettorale. D'Alema cita l'analisi di Mauro Calise e dice: «Non abbiamo tenuto conto di queste sconvolgenti novità,ci siamo rivolti a un voto di opinione razionale, senza capire che stava tornando prepotentemente un voto identitario, mosso soprattutto da passioni e paure, anche dalla forza di argomenti irrazionali. La destra ha intercettato questo spostamento di pezzi di comunità». Secondo D'Alema, però è troppo semplicistico prendersela con «l’ignavia dei dirigenti», che accusarli di non aver fatto sentire abbastanza i valori del centrosinistra. «Io temo che le tante nostre buone ragioni, dalla pace, alla tolleranza, ai diritti, non riescano a costruire consenso per l’impotenza della politica, per l’indebolimento degli strumenti in grado di agire sulla realtà,a partire dallo stato nazionale». Conclude D’Alema: «Abbiamo passato tanto tempo a decostruire, dopo che la politica aveva suscitato aspettative ipertrofiche: ora è il momento di ricostruire, un riformismo senza visione del futuro è solo ingegneria sociale che non regge la sfida con fondamentalismi». «Ma è un programma di lungo respiro...». Intanto il lavoro della Fondazione va avanti: «Non voglio fare un monastero benedettino», sorride D’Alema. «Né fare dibattiti di sezione. Vogliamo rimettere in comunicazione politica e cultura, in un progetto collegato al Pd ma non partitico, capace di dialogare anche con altri».

l’Unità 26.5.08
La Lega ora vuole la Guardia nazionale armata
Dalle ronde padane alle ronde di Stato. È la proposta di legge del senatore Stiffoni
di Natalia Lombardo


RONDE DI STATO Potrebbe sembrare una boutade, se non fosse che la Lega di governo, e non solo questa, sta incendiando il clima con razzismo e intolleranza. Suggestionato da troppi film western, forse, il senatore Stiffoni vuole la Guardia Nazionale
anche in Italia, come l’Army National Guard che in America esiste da trecento anni. è federale ma risponde al presidente degli Stati Uniti. È la proposta di legge che ha presentato il senatore del Carroccio, Piergiorgio Stiffoni, noto nel trevigiano per le sue «battute» razziste (come il rimpianto per i forni crematori) che provocarono l’indignazione della diocesi e un’indagine della Procura di Treviso.
Sarebbe l’ufficializzazione delle «Camicie verdi», le ronde leghiste anti-immigrati. Una Guardia Nazionale in salsa padana. Truppe da 42mila uomini e donne con armamento leggero: una Beretta calibro 9 e un fucile d’assalto Ar 79/90 da 5,56.. Truppe comandate da colonnelli dell’esercito e divise in reggimenti regionali con distintivo. Potrebbe intervenire nei casi di calamità naturali, attentati o incidenti in siti produttivi, ma anche per gestire l’ordine pubblico se richiesto dal governo o dai presidenti di Regione. Ecco fatto: reggimenti di padani scagliati contro le famiglie campane? I «Napoletani furbetti», come titola ieri Libero, tanto perché siamo in vena di dialogo... Persino La Russa si rifiuta di fare il Generale Custer al comando di truppe sui siti delle discariche? Niente paura, secondo Stiffoni la Guardia nostrana potrebbe sollevare dai presidi del territorio i reparti delle Forze Armate «impropriamente gravati».
Arruolamento su base regionale. Test psico-attitudinali per volontari che hanno finito la leva ma «senza demerito» (non è mica la Legione Straniera...) purché under 40 pelo pelo. Max 45 anni per ufficiali inferiori e sottoufficiali. Modico impegno: un giorno a settimana, paga come i militari effettivi.
Il comandante dipenderebbe dal Capo di Stato maggiore per gli ordini che vengono dal Consiglio dei ministri, i colonnelli dai presidenti dei Regione e delle Province autonome di Trento e Bolzano. Spese a carico della Difesa o delle Regioni. In pratica la polizia territoriale che era scritta nella Devolution leghista.
Speriamo che la proposta decada per mancanza di fondi.
Certo è che i leghisti hanno visto troppi film western invertendo i ruoli: i cittadini del Nord sarebbero gli indiani e gli immigrati gli «yankee» colonizzatori.
Adesso, annunciando Pontida, i manifesti fanno strillare una sorta di Toro Seduto perplesso: «La fuga dalle riserve è iniziata».

Negli Usa. Come funziona la Guardia Nazionale
L'Army National Guard (ARNG) è la più antica componente dell'Esercito Americano, nata come «milizia coloniale» il 13 dicembre del 1636 per difendere le terre dei coloni inglesi dagli Indiani Pequot. Essendo riservisti, i soldati della Guardia Nazionale lavorano part-time, partecipando alle esercitazioni una sola volta al mese e per due settimane durante i periodi estivi. L'ARNG è divisa in 3.200 unità e distribuita in oltre 2.700 distaccamenti presenti in tutti i 50 Stati, nei territori di Porto Rico, Guam, nelle Isole Vergini e nel Distretto di Columbia. Attualmente sono in 350 mila a prestare servizio nell'ambito della Guardia. Ha una doppia missione federale e statale: il Governatore dello Stato può richiedere il suo aiuto durante le emergenze nazionali (terremoti, uragani, incendi o emergenze civili), ma in vista di un intervento militare il Presidente degli Stati Uniti può pretendere il loro aiuto accanto all'Esercito. È perciò strutturata per poter rispondere a compiti di natura diversa. Per un 52% è composta da unità da combattimento (Fanteria, Artiglieria, Mezzi corazzati, Aviatore, Difesa Aerea), per il 17% da unità per il supporto al combattimento (Genio, Polizia Militare, Intelligence, Affari Civili, Comunicazioni), per il 22% da unità per il servizio di supporto al combattimento (Finanza, Relazioni Pubbliche, Personale, Manutenzione, Trasporti, Rifornimenti) e per il restante 9% da altro tipo di personale (unità del Quartier Generale). L'ARNG ha partecipato nei conflitti militari affianco all'Eserito statunitense, contribuendo nella Prima e Seconda Guerra Mondiale, in Vietnam, Kosovo e durante le operazioni Desert Storm (1990-91) e Iraqi Freedom (2003).

l’Unità 26.5.08
Bucarest a Roma: «Ora punite i razzisti»


L’Ambasciata di Romania a Roma ha chiesto alle autorità italiane quali «misure» intendono prendere per «individuare e punire» chi ha affisso un cartello xenofobo nella bacheca di un’azienda di Pieve di Soligo, Treviso. Ma chiedono anche quali provvedimenti intendano assumere per «prevenire simili casi in futuro».
Ricordate? Quel cartello dal titolo «Calendario venatorio 2007-2008» diceva: «Si comunica a tutti gli italiani l’apertura della caccia, tutto l’anno, per la seguente selvaggina migratoria: rumeni, albanesi, kosovari, zingari, talebani, afgani ed extracomunitari in genere. È sospesa da questo momento la caccia ai comunisti in quanto specie in via di estinzione, restando possibile cacciarli nelle zone di ripopolamento quali case del popolo e centri sociali. È consentito, vista la coriacità della sopracitata selvaggina, l’uso di armi quali fucili di ogni genere, possibilmente ad arma liscia, carabine di precisione e pistole di grosso calibro. In presenza di stormi numerosi è ammesso anche l’uso di bombe a mano, obici, mitragliatori automatici, gas velenosi... Si consiglia l’abbattimento di capi giovani per estinguere più rapidamente le razze». Una goliardata, s’è detto in fretta, troppo in fretta. Il clima c’è, e c’è anche chi passa a vie di fatto.
Così l’ambasciata romena chiede chiarimenti al prefetto di Treviso e ai ministri degli Esteri e degli Interni: ««il cartello è anonimo e contiene espressioni ingiuriose ed esortazioni all’allontanamento dall’Italia di cittadini di altri stati, inclusi quelli dell’Ue, come la Romania» sottolinea il Ministero degli Esteri di Bucarest. E «condanna con fermezza qualsiasi manifestazione xenofoba e razzista, nella convinzione che le autorità italiane prenderanno le misure richieste da questa situazione».

l’Unità 26.5.08
Il demone dell’insicurezza
di Luigi Cancrini


Sono straniera, lavoro da anni in Italia ma non sono ancora riuscita a regolarizzare la mia posizione. Molte persone mi hanno aiutato e ho cercato di dimostrare la mia gratitudine lavorando con serietà. Che sta succedendo adesso? Il mio restare qui lavorando è diventato un reato? Cosa potrebbe accadermi adesso con questa nuova legge?
Lettera firmata

La nuova legge dice proprio questo. Che il suo stare qui, lavorando o non lavorando, è un reato per cui sono previsti carcere ed espulsione. Se sarà espulsa e chiederà di tornare qui, le diranno di no. Se tornerà lo stesso, sarà condannata di nuovo e la pena, in questo caso, sarà pesante. Questo si legge sui giornali, almeno, perché il testo del decreto (che ha effetti immediati) e quello del disegno di legge (che, per avere effetto, deve essere prima approvato in Parlamento) non è ancora noto nei dettagli. In un modo o nell’altro, tuttavia, di questo si tratta. E fanno davvero paura il tono trionfalistico dei ministri, la soddisfazione che trapela dai commenti (quelli schierati di Feltri e quelli dei giornalisti equilibrati come Carlo Fusi de il Messaggero che sembra contento di questa “buona prova” del Berlusconi quater) e la reazione debole dell’opposizione “democratica”. Forse il Paese in cui viviamo è davvero questo, quello che vuole spostare sugli extracomunitari e sui Rom tutta la sua rabbia e tutta la sua aggressività. Non siamo diversi, forse, dagli Stati Uniti di Bush che si difendono dai messicani e dai centroamericani che attraversano il Messico per andare a lavorare da loro con una muraglia immensa difesa da uomini armati. Vogliamo davvero questo, forse: affrontare l’insicurezza e la paura di un tempo che è il nostro con una bugia, la pietosa bugia di chi ci racconta che il nostro star male dipende da un dèmone che lui (il Governo) può esorcizzare. Da cui lui (il Governo) può liberarci. Con una legge. Ascoltavo mercoledì in tv, mentre si concludeva il consiglio dei ministri di Napoli, le parole di un deputato leghista che spiegava il come e il perché di questi provvedimenti. Giovane, tronfio dotato di una mente di cui Savinio avrebbe detto che era poco ammobiliata spiegava ad un giornalista di Rainews 24 che gli emigrati clandestini di cui si dice che lavorano, in effetti sono qui solo per delinquere. Che quando esibiscono documenti per le sanatorie (che stavolta, giurava, non si faranno, anche se altri dei suoi, nello stesso momento, dicevano il contrario parlando delle badanti) esibiscono in realtà “carta straccia”: che non lavorano dunque perché sono solo dei parassiti e che allontanarli con una legge è il dovere principale dei politici eletti oggi nel nostro Parlamento. Dotato di una sua logica infantile ma stringente, il discorso del neodeputato ruspante e leghista mi è sembrato importante per capire come andranno le cose in Parlamento quando le proposte del Governo arriveranno lì. Più ancora mi ha spaventato, tuttavia, la debolezza del giornalista (un giornalista del servizio di cui si dice che è pubblico) che lo ascoltava. Come se non sapesse o se non capisse l’enormità e la gravità delle stupidaggini che gli venivano dette. Vi sono stati altri tempi, pensavo e penso, in cui queste cose sono accadute. Giustificando le guerre coloniali, Mussolini aveva ampiamente spiegato agli italiani che i popoli africani sono composti di persone inferiori soprattutto per la loro incapacità di lavorare in modo produttivo. Parassiti del mondo, da conquistare prima per educare poi. Come dicevano allora i gerarchi, di cui il tempo avrebbe dimostrato la povertà di etica e di cultura, e come dicono oggi le nuove orde di dilettanti allo sbaraglio della politica di destra. Nel silenzio a tratti ossequioso, a tratti timido e a tratti esaltato, oggi come allora, di una stampa compiacente e di una opposizione spaventata o collusa. Tornando alle tue domande, cara letttrice, non posso che dirti di sì. Che il tuo restare in Italia lavorando per degli italiani è diventato o diventerà un reato come reato era, per gli abissini, i libici, i somali di allora, il non essere pronti ad accettare la superiorità degli italiani fascisti. Quelle che ne seguirono allora furono guerre sanguinose e crudeli raccontate, con l’aiuto di una stampa compiacente e di un’opposizione lacerata, come delle grandi imprese militari. Quello che ne seguirà ora è un conflitto meno rumoroso e meno sanguinario in cui si eviterà (anche perché servirebbe a poco) l’uso delle armi ma che sarà ugualmente crudele e violento. Nei cui confronti sarebbe giusto promuovere un’onda vasta di obiezioni di coscienza e di disobbedienza organizzata. Anche se non è per niente facile che questo accada. Ci sono passaggi della storia in cui quello che si verifica è un ottendimento generalizzato delle coscienze, una specie di malefico sonno della ragione. La vita continua a scorrere intorno alle persone normali, quelle che non decidono nulla, come se nulla di straordinario stesse accadendo mentre le violenze e le ingiustizie più atroci si compiono fuori dal loro campo visivo in quanto fuori dall’informazione da cui dipendono nel tentativo di capire quello che succede. Uomini perversi e violenti come Feltri tornano a difendere, su un giornale come Libero, la scelta di chiamare spazzatura i Rom che, secondo lui, rapiscono davvero i bambini (i comunisti, com’è noto, li mangiavano) dimenticando, perché alla fine non gliene importa nulla, le persecuzioni che i Rom hanno subito dai nazisti e dai fascisti. Berlusconi e i suoi ministri si riuniscono per un intero giorno a Napoli senza mai pronunciare la parola Camorra e senza mai citare, nei loro proclami, il piccolo esercito di clandestini (cinesi e rumeni, indiani e africani) sfruttati dal suo impero criminale: schierandosi nei fatti, con un silenzio che è insieme assurdo e assordante, con chi (la camorra di Gomorra) sul loro lavoro illegalmente costruisce la sua ricchezza e il suo potere. E accuratamente nascondendosi in un vortice di ipocrisia nel momento in cui si arriva, negli stessi giorni, a commemorare solennemente Falcone ed a coprire con la formula del silenzio-assenso la delinquenza organizzata contro cui Falcone lottò fino alla morte.
Deviare il rigore della legge e l’odio della gente contro dei nemici immaginari (ieri gli ebrei e i rom, oggi i rom e gli extracomunitari) è stato da sempre il modo migliore di preparare una dittatura instaurando un regime di violenza. Uomini come Feltri, che vedremo sempre più spesso in Tv soprattutto perché la sua capacità di spargere odio fa audience, giocano senza forse neppure rendersene conto un ruolo fondamentale (e sempre ben remunerato) in processi di questo tipo. È a gente (gentaglia?) come loro che dobbiamo la deriva morale di questo nostro Paese. Difficile da vivere oggi anche per me (che di lei sono assai più fortunato) oltre che per lei.

Corriere della Sera 26.5.08
Immigrazione e criminalità. La nostra vera malattia
di Claudio Magris


Un conoscente della mia famiglia, collega d'ufficio di mio padre, aveva la mania dei raffreddori; stava attento ai giri d'aria e prendeva tutte le precauzioni contro infreddature e bronchiti, convinto che le malattie potessero colpirlo solo da quella parte. Morì di un cancro all'intestino ovvero, come si diceva allora, di un «brutto male». Quel signore faceva benissimo a non trascurare le eventuali minacce alla faringe o ai bronchi, spesso fastidiose e talora perniciose, ma sbagliava a sottovalutare pericoli più gravi. Anche il corpo sociale ha le sue malattie, scatenate o in agguato. La sua salute dipende da come fronteggia, previene, combatte i morbi che lo insidiano; dalla sua capacità di reprimere — tramite le autorità preposte a tale funzione — i reati nella misura stabilita dalla legge, senza indulgenze buoniste o pseudo- umanitarie e senza isterie demagogiche né pregiudizi verso alcuna categoria di persone. In uno Stato liberale e democratico non si sospettano a priori e tantomeno si vessano né i kulaki ossia i contadini proprietari, come un tempo nell'Unione Sovietica, né gli ebrei, i neri, gli immigrati, come tante volte in tanti Stati del mondo.
Oggi sono gli zingari ad occupare i titoli cubitali dei giornali, con i reati compiuti da alcuni di loro e altri loro attribuiti, e con i violenti soprusi patiti da alcuni di essi. In entrambi i casi, lo Stato — e solo lo Stato, che ha il monopolio dell'uso della forza — ha da individuare e perseguire gli autori di atti delittuosi, il delinquente che ruba e molesta come il delinquente che getta bombe Molotov, contro la polizia negli anni Settanta o contro i rom oggi. Il nostro codice o meglio la nostra civiltà consentono di punire soltanto individui — rei di delitti accertati, la cui responsabilità è sempre personale — e mai gruppi o comunità, poco importa se etniche, sociali, politiche o religiose. Attentare a questo principio — prendersela con gli zingari, gli ebrei o i padani anziché con un concreto colpevole colto con le mani nel sacco, sia egli nato a Timbuctù o ad Abbiategrasso — mina alla radice l'universalità umana e in particolare la nostra civiltà, l'Occidente. Chi nega questo fondamento dell'umanità e del diritto è il vero barbaro e non ci interessa donde arrivi, dall'orto dietro casa nostra o da lontani deserti.
Zingari, norvegesi, triestini o senegalesi sorpresi a delinquere vanno puniti senza riguardo alla loro diversità o povertà. Tifosi bestiali che in nome di una squadra di calcio commettono violenze contro persone o cose — provocando spesso rovinosi danni a onesti esercenti, di cui sfasciano i negozi in una ebbrezza di subumana e delittuosa ebetudine — vanno puniti con tutta la durezza consentita dalla legge e costretti a pagare sino all'ultimo spicciolo i danni arrecati, senza riguardo a chissà quali disagi esistenziali sottostanti alle loro brutalità.
Improvvisati e autonominatisi giustizieri che si dedicano a spedizioni criminose vanno puniti con esemplare severità, perché rappresentano un virus socialmente e moralmente ancor più nocivo dei ladruncoli veri o presunti che si vogliono castigare: il Ku-Klux-Klan, nato si dice alla fine della guerra di Secessione per proteggere i bianchi del Sud americano dalle violenze cui si abbandonavano alcune bande di schiavi appena liberati, è divenuto ben presto la più orrida criminalità. Uno stupratore romeno va punito per il suo ributtante reato, ma non può gettare il discredito indiscriminato sui suoi connazionali, così come i recenti assassini di Verona non possono autorizzare squadracce sguinzagliate alla caccia dei veronesi. L'attuale ministro dell'Interno, che promette pugno duro, sa bene che i pugni distribuiti con disinvoltura talvolta arrivano in testa pure ai galantuomini, perché anni fa, quando non era più e non era ancora di nuovo ministro dell'Interno, alcuni sbrigativi poliziotti gliene hanno dati pure a lui.
La cosiddetta piccola criminalità non è un raffreddore, bensì una piaga sociale; gli scippatori di anziani che hanno appena ritirato la pensione mettono intere famiglie in difficoltà di arrivare alla fine del mese. La sicurezza è un bene primario; la sua necessaria e ferma tutela non è certo espressione di biechi sentimenti filistei o di astiosi pregiudizi nei confronti di immigrati ed emarginati, come troppe volte si è detto con sufficienza.
Ogni problema umano e sociale non risolto comporta un tasso di devianza e di illegalità, già solo per il fatto che le leggi esistenti non riescono a risolverlo. È la globalizzazione che produce spostamenti crescenti di masse di diseredati nei Paesi più ricchi, con tutte le conseguenze che ne derivano. La globalizzazione nasce dal crollo del comunismo e dalle nuove forme assunte dal capitalismo; non sembra augurabile né possibile restaurare il primo e bloccare lo sviluppo del secondo e d'altronde non si può avere botte piena e moglie ubriaca, come dice il proverbio. L'universalità e le difficoltà di questo fenomeno planetario ci aiutano, ci costringono a toccar con mano l'interdipendenza di tutti gli uomini, l'essenziale unità del genere umano, diversificato ma organicamente unitario come un grande albero con le sue radici, rami e foglie; ci fa sentire fisicamente che ognuno di noi, come dice la Bibbia degli ebrei, è stato straniero in terra d'Egitto e può ancora diventarlo, nel domani sempre più incerto e sempre più globale, e dunque che gli stranieri sono i compagni del nostro destino.
Giustamente si ricorda l'emigrazione italiana, la dura e ammirevole odissea dei nostri emigranti, stranieri spesso osteggiati nei Paesi allora più ricchi ed ostili. Ma appunto perciò occorre sapere quanto sia difficile, per tutti, essere stranieri. La retorica della diversità elude sentimentalmente il problema. Tutti — persone, culture — siamo diversi e proprio perciò è vacuo ripetere come pappagalli questa parola. Inoltre la diversità, la particolarità non è ancora di per sé un valore; è un dato, un'identità (nazionale, politica, culturale, religiosa, sessuale) sulla cui base si possono costruire dei valori, che tuttavia sempre la trascendono, perché essere italiani, africani, buddhisti, omosessuali non è un merito né un demerito, non è cosa di cui avere orgoglio né vergogna; è un dato di fatto che va rispettato e tutelato contro chi non lo rispetta. Certamente ogni diversità arricchisce, perché si cresce uscendo da se stessi e incontrando gli altri; ogni endogamia è asfittica e regressiva, non solo quella sessuale. Ma la diversità diventa una retorica truffaldina quando viene invocata per eludere la consapevolezza dei conflitti reali che talora possono sorgere dal contatto fra culture diverse — ad esempio tra una fondata sull'uguaglianza dei diritti tra uomo e donna e una che la nega. Pure tali possibili conflitti vanno affrontati con equilibrio responsabile — e non già esacerbati col pathos spettacolare dello scontro di civiltà, che seduce con la sua visione della Storia al technicolor — ma non vanno elusi né sottovalutati.
La teppa scatenata contro i campi nomadi e il clamore mediatico che le fa da grancassa rimuovono la consapevolezza di problemi ben più ardui dell'emergenza rom. Le dimensioni numeriche dell'immigrazione potrebbero in futuro aumentare sino a renderla materialmente impossibile, perché, per fare un esempio oggi assurdo, non è fisicamente possibile accogliere milioni di poveri. Si potrebbero creare, con la necessità e l'impossibilità di accoglienza, situazioni oggettivamente tragiche, in cui — come appunto nella tragedia — è comunque impossibile agire senza colpa. Anche per questo il problema non può essere affrontato con criteri diversi nei singoli Stati, ma può essere gestito solo globalmente dall'Europa, perché non è un problema italiano o spagnolo bensì europeo, se non occidentale in generale. È difficile dire se il nuovo capitalismo, che ha innescato questo meccanismo con la globalizzazione, saprà governarlo o ne sarà travolto come un apprendista stregone. È un problema ben presente nel libro di Giulio Tremonti Paura e speranza.
I rom e altri immigrati sembrano oggi la minaccia maggiore alla nostra sicurezza. «Cieca bugia, distrazione di massa dalla realtà complessiva », ha scritto Mariapia Bonanate sul Nostro Tempo.
Credo che i commercianti e gli industriali taglieggiati dalla camorra o dalla mafia scambierebbero volentieri il danno, l'intimidazione — non di rado la morte — che sono costretti a subire con i fastidi di chi abita non lontano da un campo di nomadi. Come ha scritto Riccardo Chiaberge su Il Sole 24 Ore, non si sono viste squadre di cittadini indignati scagliarsi contro quartieri della camorra e non ho sentito parlare di ronde pronte a proteggere gli esercenti dai malavitosi che vengono a riscuotere il pizzo. Certo, è più rischioso affrontare i guappi che i vu cumprà e qualcuno ci rimetterebbe la pelle, ma ciò non dovrebbe scoraggiare chi vanta i propri attributi virili e trecentomila fucili.
La mafia e oggi ancor più la camorra — grazie al possente libro di Roberto Saviano — sono certo intensamente presenti all'opinione pubblica: libri, film, articoli, servizi televisivi, dibattiti. Ma non scuotono veramente l'opinione pubblica; non destano — diversamente dagli extracomunitari — alcun furore, alcuna paura nei cittadini. Sono quasi letteratura, una tragedia esorcizzata dalla sua rappresentazione, dopo la quale si va tranquillamente a casa — tranne chi è minacciato o colpito dalla morte.
Come quel mio conoscente, siamo più vigili dinanzi a una tosse fastidiosa che ad un cancro. Il cancro si avverte meno, forse perché ha già occupato gran parte del corpo, si è infiltrato negli organi e nei sensi che sta distruggendo, sicché, almeno sino ad un certo momento del suo lavorìo, è difficile percepirlo, così come non si vede il proprio sguardo. Un impero del crimine i cui profitti sono quelli di una potenza economica mondiale e le cui vittime sono numerose come quelle di una guerra è un cancro infiltrante, che si immedesima con una parte sempre più grande della realtà. È giusto, è doveroso curare severamente scippi, furti, aggressioni, molestie, ogni illegalità anche piccola, ma sapendo quale sia la nostra vera malattia mortale.

Corriere della Sera 26.5.08
Intervista al dissidente Wu: «Un documento prova che il via libera fu dato dal ministro della Sicurezza»
«Dal boia al chirurgo: traffici di morte in Cina»
Libro-choc svela: il 95 % dei trapianti con organi di condannati alla pena capitale
di Michele Farina


Dal boia al chirurgo: «Il 95% degli organi trapiantati in Cina — dice Harry Wu — viene da cadaveri di condannati a morte». Le prove? «Nel 2006 l'ha ammesso lo stesso vice ministro della Sanità di Pechino. Alla fine hanno dovuto riconoscerlo. Noi lo denunciamo da anni. C'è un documento segreto datato 1984, firmato da sei responsabili governativi tra cui il ministro della Sicurezza Nazionale, che dava il via libera all'utilizzo dei giustiziati ». Di nascosto? «Sì. Le ambulanze che seguivano i condannati sul luogo dell'esecuzione dovevano essere anonime, con le targhe coperte». E oggi? «È permesso dalla legge. A tre condizioni, che di fatto vengono spesso aggirate ». Quali? «Il consenso degli interessati, l'ok delle famiglie. Il caso in cui nessuno reclami il corpo». Succede spesso? «Prenda me. Ho passato 19 anni nei laogai (campi di lavoro) per aver criticato il governo. Potevo essere giustiziato in ogni momento. La mia famiglia non l'avrebbe saputo. Mia madre morta suicida, mio padre prigioniero, i miei fratelli mi avevano rinnegato. Nessuno avrebbe chiesto il mio cadavere. Ho visto tanta gente morire così. Non ci sono regole che costringano le autorità a informare le famiglie. Dal 1949 il governo cinese rifiuta di dare notizie sulle esecuzioni».
Harry Wu ha 71 anni. È diventato cittadino americano. Vive a Washington, dove presiede la «Laogai Research Foundation » che gode dei finanziamenti (bipartisan) del National Endowment for Democracy. Da oggi a mercoledì 28 maggio sarà in Italia per presentare il volume «Cina Traffici di morte/Il commercio degli organi dei condannati» (Guerini e Associati, pagg. 208, euro 21,50). Secondo Wu in Cina ci sono 600 ospedali pubblici coinvolti in questo business di Stato. «La Cina è il secondo Paese al mondo per trapianti di organi: 13 mila all'anno contro i 15 mila degli Usa. Ma in Cina non c'è la cultura della donazione, si deve morire interi. Per questo si sfruttano i condannati, cosa proibita in America». Lei è contro la pena capitale? «Sì, sono abolizionista. Ma in Cina è troppo presto per questa campagna. Noi chiediamo al governo cinese che almeno renda pubblici i dati e le modalità delle esecuzioni». Difficile che i condannati accettino liberamente di donare gli organi. «Non c'è trasparenza. A occuparsene sono sempre i servizi di sicurezza. Noi abbiamo raccolto testimonianze su moltissimi casi. Dai dottori ai pazienti, anche stranieri: giapponesi, thailandesi. Le esecuzioni possono avvenire negli stessi ospedali». Chi lo dice? «L'ha raccontato un medico cinese fuggito in America. Un caso fra tanti. Cercavano un cuore. Il medico responsabile è andato nel braccio della morte. Ha individuato un possibile donatore. Lui ha rifiutato. Il medico gli ha chiesto come se la passava. Male: era nudo, incatenato mani e piedi, gli altri detenuti gli avevano rubato persino i vestiti. Facciamo uno scambio, ha detto il medico. Tu mi dai il cuore, io faccio in modo che ti tolgano le catene, ti ridiano i vestiti, ogni giorno ti manderò cibo da fuori: anche il vino. Il condannato ha detto sì. Quando è venuto il giorno, l'hanno portato in un cortile nel retro dell'ospedale. In una sorta di garage c'era una sala operatoria attrezzata. Gli hanno sparato alla testa, espiantato il cuore. E poi subito il trapianto. Riuscito». Quando è stato? Negli anni '90. Abbiamo i documenti. È uno dei tanti casi. Molti dottori hanno testimoniato. Per questo in America c'è una legge che proibisce ai chirurghi cinesi di visitare gli Usa». I medici cosa dicono? «Ho visitato ospedali in Cina nel 1994. Dicono che la provenienza degli organi non è un problema loro, che tanto i condannati morirebbero comunque. Ma non è giusto, non è umano». Si stima che la Cina metta a morte oltre 10 mila persone l'anno. Il super-lavoro del boia è dovuto alla richiesta di organi? «Non posso dire questo. Quello che so è che, a seconda delle esigenze degli ospedali, si può decidere chi deve morire subito e chi può aspettare». Nel braccio della morte cinese meglio avere un cuore malandato.
PER SAPERNE DI PIÙ. I link con i siti della fondazione di Harry Wu sono su www.corriere.it

Corriere della Sera 26.5.08
Georg Simmel sul filosofo tedesco
Il personalismo etico di Fiedrich Nietzsche
di Paola Capriolo


Supera l'alternativa tra egoismo e altruismo in favore di un idealismo oggettivo

Nella cultura del Novecento, pochi autori sono stati discussi e commentati quanto Nietzsche. Filosofi, poeti, romanzieri, si sono cimentati così assiduamente con la sua eredità da giustificare l'affermazione di Gottfried Benn secondo la quale il lavorio spirituale di quelle generazioni non sarebbe stato altro che un'«esegesi» del testo nietzscheano. In questo panorama, occupano una posizione particolare i saggi di Georg Simmel ora raccolti da Ferruccio Andolfi con il titolo Friedrich Nietzsche filosofo morale (Diabasis, pp. 124, € 10).
Sviluppata tra il 1896 e il 1906, quando l'autore della Nascita della tragedia era già di gran moda ma ancora si stentava a riconoscergli il rango di filosofo, l'interpretazione di Simmel è tra le prime a rendergli giustizia ponendolo sullo stesso piano di pensatori come Kant e Schopenhauer. Ma oltre che filosofo a sua volta, Simmel fu, come è noto, un grande sociologo, e proprio la sociologia sembra avergli offerto una prospettiva particolarmente originale, addirittura un po' spaesante per noi, abituati a leggere Nietzsche nella chiave «metafisica» imposta da Heidegger.
Nell'etica moderna, argomenta Simmel, si contendono il campo collettivismo e individualismo liberale, che tuttavia, per quanto contrapposti, si fondano su un postulato comune: che la «felicità », del singolo oppure del maggior numero, costituisca l'unico fine possibile per l'esistenza e dunque per le stesse norme morali. Quella compiuta da Nietzsche è appunto l'«impresa copernicana » di rovesciare un simile postulato, superando l'«alternativa secca» di «egoismo » e «altruismo» in favore di un «idealismo oggettivo delle realizzazioni del genere umano in base alle vette rappresentate da singole persone». In altre parole, a decidere del valore di una determinata organizzazione sociale non sarebbe il benessere che essa garantisce alla maggioranza dei suoi membri, e nemmeno il benessere che garantisce a me, ma la sua capacità di favorire e sviluppare certe qualità oggettive (nobiltà, bellezza, talento) la cui esistenza costituisce un fine in sé, né più né meno di quella di un'opera d'arte. Ma non basta: se il pensiero del XIX secolo aveva portato ad assumere il punto di vista sociale come «il punto di vista per eccellenza », si può sostenere precisamente che «Nietzsche ha infranto l'identificazione moderna di società e umanità », escludendo in linea di principio che il valore di un'azione umana dipenda dalla sua «ricaduta» sociale.
Questa posizione, cui Simmel attribuisce il nome di «personalismo etico», appare però intrinsecamente ambigua: da un lato si presenta come un affrancamento dalla società (dalle sue pretese, dai suoi criteri utilitaristici), dall'altro come una vera e propria teoria della società, di come cioè essa dovrebbe essere strutturata per produrre individui d'eccezione. A tale interrogativo Nietzsche dà la risposta più brutale con l'esaltazione non solo della disuguaglianza, ma addirittura della schiavitù: una tesi gravida di ripercussioni storiche delle quali Simmel, all'inizio del Novecento, non poteva certo farsi un'idea. Le sue pagine comunque hanno il merito di confutare a priori ogni tentativo di edulcorarla, mostrando con chiarezza come essa non rappresenti un'aberrazione marginale, una trovata stilistica o la boutade di un grecista impazzito, ma affondi salde radici nel cuore stesso del pensiero nietzscheano. Un nesso molto difficile da sciogliere collega l'affermazione secondo la quale la vita è giustificabile soltanto come fenomeno estetico con l'idea della «grande politica» e tutte le sue sinistre implicazioni. Eppure la «rivoluzione copernicana » attuata da Nietzsche alla fine dell'Ottocento rimane un'eredità preziosa ancora oggi, quando l'utilitarismo sembra aver ormai riportato un trionfo assoluto e gli uomini si mostrano sempre più incapaci di attribuire alla loro esistenza significati oggettivi.

Repubblica 26.5.08
Parla la giornalista Rula Jebreal
"Ora mi fa paura il clima di odio che si diffonde"
"Ci sono dichiarazioni dissennate da parte di alcuni politici"
di Carlo Ciavoni


ROMA - «Confesso di avere paura per il clima di odio che si va diffondendo in questo Paese, una paura che non avevo mai provato in quindici anni che sono in Italia». Così Rula Jebreal, giornalista e scrittrice israeliana (è nata ad Haifa), figlia di un commerciante palestinese di Gerusalemme, commenta i recenti episodi di violenza e intolleranza razzista che si sono verificati a Roma, nella zona del Pigneto, contro alcuni cittadini del Bangladesh. La giornalista, diventata un volto noto in Italia per le trasmissioni firmate con La7 e Rai, è particolarmente colpita.
Che cosa sta succedendo? Davvero l´Italia scopre la xenofobia?
«C´è una sorta di rassegnazione che si sta diffondendo. Ci si sta abituando, per esempio, al fatto che giornali e tv diano una rilevanza molto diversa a reati commessi da cittadini italiani, rispetto ad episodi di eguale gravità compiuti da stranieri. L´atmosfera generale che si respira è molto pesante. E come se non bastasse che ci butta benzina sul fuoco».
A chi si riferisce?
«Penso a certe dichiarazioni dissennate di personalità politiche, che non misurano le parole e si lasciano andare in affermazioni dal tono giustificatorio. Basta rileggere quanto ha detto il deputato europeo di Forza Nuova Roberto Fiore che si batte per il rimpatrio dei rom. Così si finisce per autorizzare lo sviluppo e la diffusione della giustizia fai da te. Ecco dove porta la logica delle ronde».
Vede delle responsabilità precise?
«Tra le responsabilità maggiori di un politico c´è quella di conoscere il peso specifico delle parole, soprattutto quando si è al corrente di un generale stato di turbamento e fragilità culturale di alcuni strati della popolazione».
In tema di xenofobia, c´è differenza tra l´Italia e gli altri Paesi europei?
«Mi sembra che l´Italia sia in ritardo per quanto riguarda l´integrazione con i cittadini extracomunitari, nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni. Anzi, con questo nuovo clima si rischia di vanificare l´intero processo».
Che cosa fare?
«Per essere un Paese davvero civile, l´Italia dovrebbe garantire l´integrazione alle persone che arrivano dalle zone più povere del pianeta. Ora non è più così. Bisogna ricominciare da capo».

Repubblica 26.5.08
Donne. Quando il nemico è in casa
Ho sposato un carnefice
di Natalia Aspesi


Le violenze in famiglia sono sempre più diffuse Un dramma su cui ora indaga un docu-film che sarà trasmesso da Rai3. Lo abbiamo visto in anteprima: raccoglie le testimonianze delle vittime abusate e picchiate dai mariti. Ma racconta anche gli interventi della polizia negli appartamenti dove le tragedie si consumano. Vi raccontiamo le loro storie
Lui la picchia "perché è innamorato". Lei lo denuncia e poi si pente
"Ci siamo messi in contatto con le questure di 23 province per seguire il lavoro"
"Mi aveva annullato, convinto che non valevo niente"

Quella frase, gridata, sussurrata, esplosa, prima o poi le accomuna tutte: «Non ce la faccio più ». Sono le ragazze, le donne di ogni età che spezzano un legame che era d´amore ed è diventato un inferno: un sogno angosciosamente scivolato in un incubo che il più delle volte continuerà a rendere la loro vita insopportabile, anche dopo le denunce, la fuga da casa, la cacciata del compagno, la separazione, il cambiamento di città, la speranza di ritrovare finalmente pace e dignità; o che nei casi più funesti finirà nel sangue. Ma perché hanno aspettato certe volte anni prima di liberarsi del bruto che le minaccia, le pesta e le insulta, del nemico che le terrorizza e le umilia, del tiranno che le chiude in casa e che le pedina, del folle che le ritiene fonte di ogni male e di ogni vizio per il solo fatto di essere donna, la donna di loro proprietà? Per paura, per mancanza di denaro, per rassegnazione, perché non si fa, perché la famiglia non vuole e il parroco nemmeno, perché gli altri non devono sapere, ma anche, tante volte, e pare impossibile, per incrollabile amore. Il film La vittima e il carnefice di Mauro Parissone e Roberto Burchelli (in onda su Raitre il 4 giugno), parla di queste vittime e di questi carnefici, di queste donne e di questi uomini, non solo attraverso i racconti drammatici delle protagoniste, ma anche filmando in presa diretta gli interventi della polizia, le registrazioni telefoniche, gli appostamenti, le irruzioni negli appartamenti da cui vengono richieste disperate di aiuto.
«Volevamo raccontare storie vere nel momento in cui succedono», dice Parissone. «Ci siamo messi in contatto con le questure di 23 province, per seguire il loro lavoro di attenzione e prevenzione. Ci interessava riuscire a capire il momento di rottura, quello in cui è ancora possibile impedire che la persecuzione da parte di un maschio ossessivo degeneri sino ad arrivare all´assassinio, come purtroppo capita non così raramente; agli inizi del nostro lavoro era appena capitato a Sanremo, dove Luca Delfino, ex fidanzato di Antonella Multari, più volte denunciato ma mai arrestato, aveva finito per sgozzarla». Da un paio d´anni in tutte le questure si è creata una IV sezione che si occupa dei reati contro donne e bambini, che come è noto avvengono soprattutto in famiglia. E il film segue la squadra della IV sezione di Bologna, il suo paziente e attento commissario Delferraro, e uno dei suoi casi: quello di Francesca e di Salvatore, di una ragazza laureata e insegnante che si innamora di un ragazzo dolcissimo e pieno di attenzioni che poi si rivelerà pregiudicato, marchettaro gay e violento. Lei non lo vuole più, lui ha la prepotenza del padrone e non ci sta: la minaccia, la segue, si apposta, le telefona nella notte, le fa scene di gelosia, la chiama puttana, ninfomane, pazza, criminale e naturalmente tutto questo «perché è innamorato». Lei lo denuncia, poi si pente, poi cede perché malgrado tutto ne è attratta fisicamente e crede di poterlo cambiare, ma la tortura ricomincia, può succedere di tutto, la polizia protegge lei e diffida lui che non demorde, fino a quando gli danno il foglio di via. La storia non è finita, come non sono finite le altre che vediamo con i volti oscurati, storie vere, sconvolgenti, ripetitive, che diventano i numeri di agghiaccianti statistiche. La polizia entra nelle cucine in disordine, nei soggiorni dove bambini terrorizzati si rifugiano nelle loro camerette, in appartamenti borghesi o piccolo borghesi ma mai poveri, nel cuore di una delle tante venerate famiglie da family day, dove il marito pancione dentro una canottiera repellente piange dichiarando il suo amore per la moglie che lo vuole fuori dalla vita perché manesco, ubriacone, perché l´ha chiamata puttana davanti alla scuola, alla bambina, alle madri degli altri bambini. Seguiamo gli agenti negli inferni domestici, nella casa dove l´uomo che non accetta la separazione irrompe furibondo accusando la moglie che vive coi figli, di tradimento, di truccarsi, di bere il te con le amiche dopo il lavoro; in quella dove la ragazza marocchina incinta abbandonata dal compagno e sfrattata vuole buttarsi dal balcone, in altre in cui sono sempre le donne anche in età a non sopportare più quegli intrusi che si sono lasciati andare, che ciabattano per casa pigramente, che si fanno servire umiliandole, che le maltrattano; e sono sempre le donne esasperate a chiamare la polizia, a gridare ai giovani agenti spaventati, «questa vita non la voglio più, quest´uomo non lo voglio più, voglio che se ne vada!». Caterina, 30 anni, un bambino di due, che vive in un paesino in provincia di Massa Carrara, gli autori l´hanno trovata su Internet, in uno dei duecento e più blog in cui dialogano e cercano conforto migliaia di donne che vivono situazioni di disperazione e oppressione familiare, e ancora non hanno avuto il coraggio di denunciare i partner o di parlarne con parenti e amici. Caterina è fragile, affranta, ma anche decisa, ogni tanto le lacrime le bagnano il viso: «C´era tutto, l´amore con la A maiuscola, Davide mi riempiva di attenzioni, mi faceva sentire bella, importante, fortunata. Poi ha cominciato a tornare a casa ubriaco, ad essere violento, a buttarmi a terra, a minacciarmi col coltello, a dirmi che mi avrebbe portato via il bambino. Poi di colpo si metteva a piangere e mi supplicava in ginocchio, però rifiutava di curarsi e tornava cattivo, "Se esci da quella porta per te sarà un inferno" mi diceva». E Caterina finalmente da quella porta è uscita col suo bambino, e la loro vita è diventata un inferno. «Mi aveva annullato, convinto che non valevo niente, ma una volta fuori, mi sono ritrovata». Però la paura non la lascia, se vuole dormire va dai suoi genitori, se no resta sveglia in attesa del peggio, si barrica in casa, tiene di giorno le tapparelle abbassate e di notte la luce spenta, se esce ispeziona prima la strada: «Non voglio toglierti la vita, mi ha detto, ma solo distruggertela. Ma io se muoio ho già provveduto affinché mio figlio sia dato in affido a mio fratello». Caterina vive in un piccolo paese dove non c´è la questura, non c´è la IV sezione, proteggerla è più difficile: la sua storia è sospesa nella paura, va avanti così, non tornerà mai indietro pur sentendo che qualcosa di brutto prima o poi accadrà. Alle storie vere del film si alternano brevi intermezzi in cui le bambole Barbie, manovrate da una bambina, riproducono drammi reali di coppia: «È una invenzione cui teniamo molto» dice Roberto Burchielli, «perché ci serve a riprodurre quel tipo di trasmissione televisiva dove la gente comune litiga o fa finta di litigare, trasformando in spettacolo situazioni allucinanti che accadono nella realtà e che la finzione dello show rende innocue, una specie di gioco destinato a non lasciare traccia. Amori, gelosie, contrasti, tradimenti, vendette, persecuzioni, tutto finto, tutto in un unico copione scritto da altri, che cancella le vere tragedie con un cinismo colpevole». Pare strano che nell´imponente piano sicurezza varato dal governo, che colpevolizza in massa gli stranieri e ha già scatenato i primi episodi di razzismo, nessuno abbia pensato alla sicurezza delle donne soprattutto italiane vessate e anche ammazzate da partner e soprattutto ex partner. I fatti di cronaca nera si ripetono e si ammucchiano nel gelo delle statistiche, ma ognuno di quei numeri, di quelle percentuali, è un volto, un corpo, una vita, una singola tragedia. Secondo l´Istat del 2007, 2.983 mila donne italiane sono state vittime di violenza domestica, dai tentativi di strangolamento o soffocamento ai pugni, dalla minaccia con le armi ai calci allo stupro. In casa o fuori, da partner e soprattutto ex partner, ovviamente italiani. Un esercito enorme di vittime, essendo la violenza familiare sempre in aumento e ormai la prima causa di morte o di invalidità permanente delle donne. Per migliaia di loro vivere umiliate offese e picchiate sta diventando parte del "pacchetto amore": infatti il 90% non denuncia il suo persecutore, rassegnato al fatto che giustizia la ottengono di sicuro solo quelle assassinate. Il precedente governo non ha fatto a tempo ad approvare come previsto il reato di "stalking", quella forma di ossessivo controllo, appostamento, disturbo, pedinamento, intrusione, con cui partner o ex partner rendono impossibile e pericolosa la vita di tante donne. Il nuovo governo ha risposto al bisogno di sicurezza di donne e uomini italiani contro la criminalità straniera. Chissà se in un secondo tempo risponderà con la stessa energia al bisogno di sicurezza delle donne italiane contro il buon cittadino italiano che in casa si trasforma in criminale domestico. Con l´espulsione? Con le ronde? Con le spedizioni punitive? Con l’esercito?

Repubblica 26.5.08
Secondo l'Istat nel 92,5% dei casi le donne non denunciano
Tre milioni di vittime tra vergogna e silenzio
di Cinzia Sasso


Sono quasi tre milioni in Italia le donne che hanno subito violenze in famiglia. Donne che hanno studiato, che hanno un lavoro, che hanno figli, genitori, amici: non emarginate, povere, disperate. Donne che al mattino vanno in ufficio e al pomeriggio accompagnano i bambini ai giardini, le maniche lunghe a nascondere i lividi, il sorriso stampato per forza. Donne che nel silenzio hanno subito stupri nel letto coniugale, botte, minacce, ma anche violenza più sottile: la firma negata sul conto, i soldi con il contagocce, le offese, l´annullamento della personalità «sei uno zero, non sai fare nulla». Donne che - spiega l´Istat - nel 92, 5 per cento dei casi non denunciano quello che accade; che se chiedono giustizia alla fine l´ottengono solo nell´1 per cento dei casi e che forse anche per questo nel 33,9 per cento subiscono in silenzio, senza parlarne neppure con i familiari; che nell´80 per cento pensano che la violenza subita dal partner non sia un reato; che per il 44, 5 si sentono solo impotenti. Donne che non hanno paura ad uscire di casa, ma che la sera, dopo il lavoro, hanno il terrore a rientrarci. Donne invisibili, vittime di uomini al di sopra di ogni sospetto.
Carla è una di loro. Ha 42 anni, una laurea triennale, un lavoro da insegnante, due figli.Racconta: «La prima volta che mi ha picchiata avevamo parlato di un amico comune. Lui diceva che facevo la sciantosa. Mi ha trascinata giù dalla macchina tirandomi per i capelli, mi ha spinta su in casa, mi ha sbattuta davanti allo specchio. Ecco, guardala, la vedi la tua bella faccia, diceva. Io adesso te la rovino». Carla dice che non si ricorda quanto è passato: ricorda solo i calci, i pugni alla pancia, le sberle. Non ricorda le lacrime: «No, non so nemmeno se ho pianto. È che quando succede sei così annichilita che resti paralizzata, hai talmente tanta paura che accada qualcosa di peggio che tenti solo di limitare i danni». Poi lui ha finito. E si è seduto davanti alla televisione.
Carla e le altre. Quasi il ritratto in carne ed ossa di quello che statistiche raccontano coi numeri: aveva un uomo che ha amato più di se stessa, vivevano insieme in una bella casa; lui faceva l´imprenditore, era un tipo seducente, intelligente, generoso. Capitava che dopo i pestaggi le recapitasse in ufficio dei fiori e un biglietto «sai che sei l´unica donna per me». Il censimento dell´Istat fotografa proprio questo, la violenza domestica, ed ha portato alla luce una realtà che si nasconde dietro le mura protette di casa. Di quel lavoro Linda Laura Sabbadini, direttore generale, ha parlato anche all´Onu: perché l´Italia, in quanto a ricerca, su questo terreno è più avanti di tutti gli altri Paesi. Dice: «È un´indagine difficilissima perché va a rompere un impenetrabile muro di silenzio. L´immagine che passa è che il pericolo venga dal branco, dal bruto che incontri per caso, invece il 69 per cento degli stupri sono opera del partner, avvengono dentro il luogo più "sicuro", quello della "pace" domestica». Laura Da Rui è un avvocato: «I media danno un´eco spropositata a quello che succede per strada e chiudono gli occhi sul dentro. Su duecento casi di violenza che ho seguito, solo quindici sono avvenuti fuori, tutti gli altri in casa. E avvengono in una solitudine pazzesca: sono fatti privati, non li riconoscono i parenti, i vicini, gli amici. Ecco perché i pacchetti sicurezza non servono a niente: perché torni a casa e il problema lo hai lì, dove il maltrattamento è mischiato all´amore, dove il groviglio dei sentimenti rende tutto più opaco e ancora più terribile». Ancora Carla: «Bastava poco. Stupidaggini. Tipo che io metto un pizzico di zucchero nel sugo di pomodoro e lui si arrabbiava, cretina, "non sai fare niente", mi urlava. O una volta che ho tirato fuori dal freezer il pezzo di carne sbagliata: mi ha lanciato addosso una bottiglia, "tu non hai il cervello, adesso la paghi". Via via ho cominciato a vivere con la paura. E più tu hai paura, più lui ha potere. Avevo sempre le antenne, stavo in guardia, mi sentivo sul filo, in qualsiasi momento poteva scattare la furia».
Dappertutto, negli ultimi anni, sono nati dei centri anti-violenza. Solo in Lombardia sono quindici, ma ce ne sono dal Friuli alla Sardegna. Alcuni hanno nomi fantasiosi: «Iotunoivoi», «Zero tolerance», «Centro Lilith». Il primo è stato, a Milano, nell´´88, la Casa delle Donne maltrattate; da allora ha seguito 20mila casi. E vent´anni dopo Marisa Guarneri, la fondatrice, non si dà pace: «È ancora sbagliato l´approccio: ci si chiede perché le donne accettano di essere picchiate, ma bisognerebbe chiedersi perché gli uomini hanno bisogno di picchiare. Da noi passa un mondo assolutamente trasversale. E quando le donne sono autonome, quando hanno un lavoro e possono allontanarsi, allora gli uomini sono più incazzati e diventano più cattivi». Uomini che Guarneri chiama «gli insospettabili». Quelli che «all´esterno sembra che sia tutto normale, ma la normalità accade che sia questa: soprusi, distruzione della personalità. La violenza in famiglia ha tante facce e il dramma è che non suscita clamore. Sui giornali finisce solo il caso di quella ammazzata».
Tutto è un problema. Per Carla anche il successo sul lavoro: «Mi diceva, per forza sei brava, basta che mostri le tette». E i figli: «Hai cresciuto dei selvaggi, sei una madre di merda». La seconda volta, per lei, le botte arrivano in macchina: «Trenta chilometri di pestaggio, non mi ricordo nemmeno il perché. Poi mi ha detto sistemati, che andiamo a prendere l´aperitivo. La terza è perché non avevo dato da mangiare ai cani. E lui: "ma perché devo massacrarti?" Era in mutande, aveva appena fatto la doccia, mi aveva appena detto che aveva fatto sesso da solo. Bastarda, sei una porca, ti mangio le budella, perché mi costringi a fare così? Io in un angolo, e lui calci, pugni, schiaffoni. Quella è stata anche l´ultima volta». Storie così arrivano ogni giorno a Cerchi d´acqua, una cooperativa sociale fondata da Daniela Lagormasini che accoglie tra le 6 e le 700 donne l´anno: «Il primo stereotipo da confutare è che questa condizione riguardi solo le emarginate, quelle povere e ignoranti. Si parla tanto di salvaguardia della famiglia, ma quello che vedo dal mio osservatorio è che spesso nella famiglia c´è la cultura della prevaricazione, del non rispetto dell´altra». I numeri confermano le sue parole: quasi il 20 per cento delle vittime sono laureate; il 17, 3 ha un diploma superiore; il 23, 5 per cento è fatto di dirigenti, libere professioniste, imprenditrici.
Guarneri, sconvolta dalle reazioni di «punizione etnica» sollevate dai clamorosi casi di cronaca recente, ha lanciato un appello agli uomini: «Sono abituata a vedere giovani donne diventare il capro espiatorio dei problemi della propria famiglia, abusate in silenzio. E intanto si parla di esercito nelle città. E mi chiedo: dove sono gli uomini contro la violenza? Perché non mettono alla gogna tutti gli uomini che terrorizzano, umiliano, perseguitano, donne colpevoli solo di cercare la propria libertà?». Uomini che stanno nelle nostre comode case più spesso che nelle roulotte.
C´è stata, ricorda Alessandra Kustermann, ginecologa, fondatrice di SVD, soccorso violenza domestica della Mangiagalli, una campagna di pubblicità progresso che era perfetta: «Quella donna piena di lividi, che diceva "è stato un tappo di champagne". Ecco, quella è la realtà quotidiana. Quella familiare è la violenza più infida perché viene pervicacemente negata, anche a se stesse. Tante di quelle che finiscono qui arrivano a pensare: se mi picchia perché è geloso, allora mi ama. E per rendersi conto hanno bisogno di anni». Carla, a capire, ci ha messo tre anni: «Resta l´uomo che ho amato di più al mondo. Ma è l´uomo che ha rischiato di distruggermi. Adesso, solo adesso che ho avuto il coraggio di uscirne, mi sento di nuovo una persona».

il Riformista 26.5.08
Governo vero e governo ombra alle prese con la realtà
Il rischio intifada contro l'ordine berlusconiano
di Antonio Polito


Il governo-ombra, per ora, assomiglia alla pagina-ombra del Riformista di sabato: uno scherzo, una burla, un modo come un altro per divertirsi. Ciò non toglie che possa essere preso sul serio. La nostra pagina-ombra, per esempio, è stata presa sul serio da tre agenzie di stampa che hanno rilanciato lo pseudo-discorso di D'Alema sulla religione, dal titolo jovanottiano: «Una sola grande Chiesa, da Che Guevara a Madre Teresa». Viviamo in un paese così paradossale che la satira può essere scambiata per realtà anche se ci stampigli sopra la scritta QUESTA E' SATIRA. Perciò ogni tanto vi facciamo ricorso, nei nostri sabati del villaggio. E lo faremo ancora.
Ma se le pagine-ombra sono prese sul serio, così può accadere anche al governo-ombra. E bisognerebbe sfruttare questa opportunità. «Al momento - ci ha detto sconsolato un ministro-ombra - stiamo facendo i sottosegretari dei ministri veri». Si capisce la frustrazione, ma anche questa è un'occasione. Bisognerebbe, però, stare un po' più in medias res, più sui fatti. Mi ha colpito, per esempio, che Veltroni l'abbia riunito a Milano nel giorno in cui l'inferno scoppiava a Napoli. Se la sinistra vuole aggredire la questione settentrionale oggi forse deve partire dal sud, soprattutto dove amministra da quindici anni. Altrimenti, invece che al governo-ombra, gli occhi del nord saranno rivolti al sindaco vero del Pd che a Chiaiano guida la rivolta. Il governo-ombra può funzionare solo se sotto di esso, nella realtà, c'è un partito vero.
Lo straniamento del governo-ombra dice però qualcosa anche sull'illusione del governo vero. Prevista con lucidità da Claudia Mancina qualche giorno fa su questo giornale. La mano di chi guida il paese è ferma, ma il paese reale seguirà chi lo guida? A Chiaiano (dove protesta anche la deputata di destra Mussolini) non sta accadendo. Nel quartiere romano del Pigneto, dove un branco di giovani scambia la sicurezza con la pulizia etnica, neppure. Lo Stato, dicono gli editoriali dei giornali, è tornato. Ma ce la fa lo Stato, questo Stato, ridotto com'è nell'Italia del 2008? È la grande domanda di questa legislatura. Perché se non ce la fa a restaurare l'ordine democratico, dopo tanta retorica e tanti annunci, allora non è escluso che ne derivino gravi disordini anti-democratici.
Laggiù, a Napoli, tutto allude a questo disastro. Perfino la toponomastica. La piazza del paese è chiamata - chissà perché - Titanic. La via della rivolta è Cupa di Cane. Il centro sociale si chiama Insorgenzia. Sulle barricate c'è di tutto. Il ceto medio riflessivo, i medici della zona che si sono fatti la villetta nel verde e che votano a sinistra. I disobbedienti di Caruso e Scalzone che non sanno più chi votare. I teppisti da stadio che accorrono dovunque ci sia da pestare un poliziotto. E la manodopera della camorra, ovviamente, che nelle vicinanze pianifica una lottizzazione edilizia. Ce la fa lo Stato a sconfiggere questa profana alleanza, se non sa dividere per imperare? Secondo me, no. Secondo me non ce la fa finché il sindaco è dalla parte sbagliata, finché non ci sono i partiti, e il consenso è mediato da capipopolo e capibastone. La soluzione carceraria è uno slogan, perché neanche Maroni avrà il coraggio di incarcerare mamme e bambini buttati di traverso sulla strada.
Lo stesso vale per gli immigrati. Un governo che voglia seriamente respingere i clandestini ed espellere i delinquenti dovrebbe accompagnare la sua azione repressiva con una formidabile pratica integrazionista. Così fa Zapatero, così fa Sarkozy, così faceva Blair. Pattugliate le coste, ma fate sottosegretario Fouad Allam. Date la cittadinanza ai minorenni come Balotelli. Assumete un romeno nel servizio immigrazione del Viminale. Non si può usare il pugno di ferro avvolto nel guanto di ferro della xenofobia. Il reato di immigrazione clandestina è una classica norma-manifesto, incostituzionale e inutile, destinata a cadere. A detta dei suoi stessi autori, serve solo a far paura ai potenziali clandestini di domani, che leggendo il Corriere in un porto libico dovrebbero essere dissuasi dal salpare. Bubbole. Intanto, però, convince gli xenofobi della giustezza del loro odio per il diverso. Inutile prendersi in giro: è stato creato un clima adatto ai raid come quello del Pigneto. Bisogna porvi subito riparo perché - come sopra - l'ordine democratico non provochi disordini anti-democratici.
Governi davvero un paese se ne possiedi i cuori e le menti. Non vorremmo che l'ordine di Berlusconi venga accolto in ampie zone del paese come l'ordine americano è stato accolto in Iraq, suscitando un'intifada strisciante e una guerra civile a bassa intensità. Servirebbero partiti politici autorevoli e radicati che costruiscano consenso democratico. Oggi non ci sono. Il Pdl non è neanche lontanamente un partito, e il Pd è appena l'ombra di un governo. C'è solo la Lega. E la Lega a Chiaiano non l'ascoltano. E' questa la crisi democratica che rischiamo.

il Riformista 26.5.08
La città è teatro della guerriglia civile mentre il film che la racconta è premiato a cannes
Napoli e Gomorra
D'Alema rompe la linea della fermezza, irritando Palazzo Chigi, Loft e Bassolino. Tregua su Chiaiano
di Fabrizio d'Esposito


«Fin quando è la Mussolini a cavalcare la protesta siamo al folklore. Alessandra non conta nulla nel Pdl. Ma D'Alema no, non può soffiare sul fuoco della protesta. Qui c'è in gioco la tenuta dello Stato». Nello staff berlusconiano di Palazzo Chigi, la sortita di ieri di Massimo D'Alema con «l'appello alla calma» sulla guerriglia di Chiaiano contro la discarica per i rifiuti napoletani ha spiazzato tutti. Anche perché il premier era convinto che la linea della fermezza sulla munnezza, ribadita ieri dal ministro dell'Interno Roberto Maroni («non trattare con chi usa le molotov»), aveva fatto definitivamente breccia nell'opposizione parlamentare, sulla base della prudenza veltroniana dei giorni scorsi e dell'esplicito sostegno dell'Udc di Casini.
E invece, l'ex ministro degli Esteri ha sparigliato inviando da Marina di Camerota, la località balneare salernitana dove si è tenuto il seminario "filosofico" della fondazione Italianieuropei, un avvertimento al governo: «Temo ci si affidi in modo esclusivo all'uso della forza, questo potrebbe lasciare una ferita. Tra i manifestanti non ci sono solo facinorosi di professione, ma anche cittadini normali e bisogna preoccuparsi della loro tutela». E così la forte irritazione della maggioranza di governo è venuta fuori pubblicamente con la replica dell'azzurro Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato: «D'Alema può risparmiarci i suoi sermoni e i suoi timori e lasciar lavorare il governo: non si può in alcun modo affermare che l'unica strategia per affrontare la crisi sia la prova di forza, dunque la sua preoccupazione in tal senso non ha ragione d'essere». E ancora: «Se proprio vuole rendersi utile, D'Alema cominci col dire ai sindaci della sua parte che sarebbe bene stessero al fianco delle istituzioni e non di chi fomenta il risentimento dei cittadini per anni di promesse non mantenute».
Ma il fastidio e la sorpresa per l'uscita dalemiana albergano anche nel centrosinistra campano del governatore Antonio Bassolino, primo sostenitore della linea berlusconiana. Una vera notizia. Anche perché lo stesso D'Alema alle ultime politiche ci ha messo la faccia sulla spazzatura napoletana, candidandosi come capolista alla Camera nella regione dei rifiuti. Senza contare che il suo ex spin doctor Claudio Velardi oggi è assessore al Turismo nella giunta Bassolino. Che cosa è successo, allora, visto che in ambienti del Pd napoletano le dichiarazioni dell'ex ministro degli Esteri vengono considerate «sciagurate» perché «ripropongono una linea del patteggiamento che sinora in tutti questi anni non ha mai prodotto frutti»? La risposta è lontano da Napoli. In questo senso, secondo il ragionamento che ieri circolava nel Pd locale: «D'Alema insegue un suo posizionamento nazionale da oppositore di Berlusconi e in contrasto con Veltroni. Vuole fare il leader che guarda alla sinistra radicale e quindi si comporta di conseguenza. Ma a Napoli le sue parole danno solo fastidio. La situazione è esplosiva e non si può arretrare». A bilanciare per il Pd l'appello dalemiano ci ha pensato poi Marco Follini: «La realizzazione della discarica di Chiaiano è un impegno tanto del governo quanto dell'opposizione. Paritariamente».
Per quanto riguarda il fronte della cronaca, ieri non ci sono stati incidenti. Una domenica di relativa tranquillità per attendere l'esito della riunione tra Guido Bertolaso, neosottosegretario ai Rifiuti, e gli amministratori dei comuni dove sono previste le dieci discariche del decreto sull'emergenza spazzatura. Bertolaso ha chiesto altri dieci giorni di tempo per esaminare, in particolare, il caso di Serre, in provincia di Salerno, mentre su Chiaiano è stata stipulata una tregua di 24 ore: i politici locali si sono impegnati a calmare gli animi e a togliere i blocchi per consentire l'arrivo di tecnici per la "caratterizzazione" dei terreni. In cambio la polizia non prenderà possesso del sito. Intanto, sempre ieri, su Chiaiano ha marciato anche la comunità buddhista di Napoli, fermandosi a poche centinaia di metri dal presidio anti-discarica. Ma i rifiuti non c'entrano nulla: la processione è stata organizzata per la ricorrenza del Vesac. Ossia per ricordare la nascita, l'illuminazione e la morte di Buddha.

domenica 25 maggio 2008

l’Unità 25.5.08
Bodei: il Pd riparta da laicità e diritti
di Bruno Gravagnuolo


L’accusa di relativismo non regge, perché la democrazia non è relativa e rende compatibili i valori in campo

PERCHÉ L’ITALIA VA A DESTRA Parla lo storico della filosofia impegnato in questi giorni al Seminario della «Fondazione Italiani Europei» su «Religione e democrazia». «L’irruzione delle Chiese in politica? Nasce dalle falle della politica laica»

«L’irruzione della religione in politica nasce dalle debolezze della politica democratica, dopo il crollo delle ideologie e delle filosofie del progresso. Ma è tempo di ricominciare a elaborare un’identità laica. A fondamento della democrazia e del nesso religione/politica». Giudizio problematico nel metodo, ma netto nella sostanza quello di Remo Bodei

Il filosofo migrato negli Usa all’Ucla di Los Angeles, studioso dei Destini personali (Feltrinelli), del soggetto e delle «forme di coscienza» punta al cuore di una questione politica centrale: l’identità del Pd dopo la sconfitta elettorale. In sintesi per Bodei - in questi giorni a Marina di Camerota al Seminario della Fondazione ItalianiEuropei che si chiude oggi con Todorov, Larmore e Massimo D’Alema - ci vuole un «lavoro gramsciano di lunga durata». Per ridefinire laicamente il nesso «Religione - democrazia». E dare smalto e baricentro al Partito democratico. Contro il populismo montante e possibili stravolgimenti materiali e formali della Costituzione. E a conti fatti quella di Bodei è anche una risposta alla domanda: perché l’Italia va a destra?
Bodei, da sinistra a destra in molti affermano che la politica laica è carente di «fondazione». Di qui il bisogno di una legittimazione religiosa. Davvero le cose stanno così?
«No, la politica non ha bisogno di fondamenti religiosi. Ma è certo carente. Perché le basi sulle quali si fondava si stanno erodendo. L’età moderna poggiava sul primato della coscienza critica individuale e sul progetto di controllare la storia. Le due dimensioni sono entrate in crisi con il crollo dei totalitarismi e l’ottundimento dell’autonomia intellettuale del singolo. Lo spessore di senso della politica si assottiglia e nel varco passa il protagonismo delle Chiese».
Ne deriva la necessità di rilanciare la politica laica, magari su basi più ampie e inclusive?
«Sì, recuperando a pieno la dimensione civile democratica. Il diritto della religione a intervenire nello spazio pubblico non è in discussione. Né lo è mai stato nell’Italia democratica. Il punto è l’invadenza di quello spazio, decisivo per consentire il confronto fra le molteplici posizioni, religiose e non. Per cui la religione “stampella” diviene prescrittiva e fondante della legislazione civile. Aggiungo che l’accusa di relativismo, a giustificazione di ciò, non regge. Poiché la democrazia si sottrae a quel relativismo, con il criterio della compatibilità di tutti i valori. Ne consegue che l’invadenza religiosa, con la sua pretesa di monopolio, spezza il principio di eguaglianza a garanzia del pari diritto di tutti i valori. Le conseguenze sono letali, se si pensa che la democrazia moderna nasce proprio dal superamento delle guerre di religione, con il bagno di sangue che le accompagnò. Insomma, lo spazio pubblico democratico è irrinuniabile. E non ha mai represso la religione. Dire che essa è oggi ristretta ad una dimensione privata, del silenzio, è falso».
Benedetto XVI afferma che negli Usa lo spazio pubblico è fatto a misura delle confessioni religiose e solo in tal senso è «plurale».
«Non è del tutto così, e in ogni caso bisogna storicizzare. Gli Usa nascono con l’arrivo dei Padri pellegrini che hanno sempre rifiutato l’interferenza religiosa dello stato sulla loro religione e le altre sette. In Europa è stato il contrario: lo stato si è voluto premunire dalla religione, arginandola con Cavour».
Europa laica, e Usa terra di pluralismi fondamentalisti?
«Non necessariamente, e poi il termine “fondamentalisti” nasce proprio negli Usa. L’America è certo un luogo in cui la religione ha intriso la politica fin dall’inizio. Basta vedere i richiami religiosi presenti in Bush Jr e in Obama. In questo senso gli Usa sono meno laici non dell’Europa, bensì della Turchia, dove bene o male Ataturk distinse con forza religione e stato. Certo, le regole laiche ci sono eccome in America, ma nessun politico europeo direbbe che quando è triste “piange sulla spalla di Dio” come Bush. O che lo “spirito divino” lo ha spinto a candidarsi, come Obama. Possono sembrare cose innocue, ma non dimentichiamo che quello Usa è anche un Dio degli eserciti, e che la democrazia lì ha una dimensione imperiale, espansiva, pur essendo mite su tante cose, all’interno».
Jefferson parlava di muro tra religione e stato, ma i vari stati decidono se il darwinismo è lecito a scuola. È così?
«Certo, in Alabama Darwin è fuorilegge. Il che non vuol dire che l’America sia illiberale. Sarà banale ripeterlo: gli Usa sono complicatissimi, conflittuali. Ma è il lievito della libertà a muovere questo paese. Come diceva già Tocqueville, stupito dinanzi alla prima democrazia moderna».
Ma quali sono i limiti del «ruolo pubblico della religione», per usare il «lessico» del Pd?
«Il limite è la non subalternità della politica dinanzi alla religione e ai suoi dettati. La politica deve rivendicare a pieno la sua autonomia. Sapendo però che la religione è entrata nelle linee di frattura lasciate aperte dalla politica laica. Confine dunque precario, e problema non di immediata soluzione: ci vorrà tempo. Perché certe svolte culturali hanno lasciato il segno. E non siamo più in grado di garantire alle grandi masse controllo degli eventi e progresso sicuro. La salvaguardia dalle grandi paure, e dalla desertificazione dei significati etici e politici, svanito il sogno di una società senza classi. Perciò c’è un lavoro enorme da fare: riformulare la libertà, l’emancipazione e la sicurezza in senso ampio. In un mondo globale e senza garanzie. Ma al momento, se la religione assume un nuovo ruolo, la colpa è proprio della politica secolare».
Dobbiamo dunque accettare l’irruzione della religione come una sfida in positivo?
«Sì, come sfida a capire le paure e le aspettative nel mondo mutato. Che cosa comporta la perdita del futuro nell’immaginario? E perché in tutto questo esplodono le radici religiose? Ciò che però è profondamente sbagliato è l’attegiamento “mimetico” a sinistra. Si è pensato di diventare più moderni appiattendosi sulle ragioni degli altri. Errore letale, perché come insegna anche la pubblicità, la copia di un prodotto originale è sempre perdente».
Non sarà il caso, pensando al Pd, di ricostruire una comunità politica a identità più definita e salda e meno ibridata?
«Certamente. Ma dobbiamo renderci conto che sarà una lunga guerra di posizione, per usare un concetto gramsciano. Non ci si ridefinisce dall’oggi al domani. E uno dei temi centrali mi pare quello dell’eguaglianza, da rilanciare e ripensare all’altezza dei diritti. Tema oltretutto di origini cristiane... Prenda la questione dei clandestini. Lì la Chiesa è molto più accogliente, mentre la sinistra a volte è incerta. Eppure accade qualcosa di grave: una condizione debole, diviene reato. È il frutto di una lunga caduta, in cui la fine della “storia lineare” ha trascinato con sé anche l’eguaglianza. Senza dubbio questo valore non va propugnato in chiave barricadera, bensì pragmatica. Il laicismo infatti non esclude che si possa apprendere anche dalla religione. E tuttavia declina l’eguaglianza in chiave di libertà di tutti, e non dogmatica. Oggi ci vorrebbe un disarmo bilaterale tra laici e credenti. Una tregua, in cui ciascuno accetti di ripensarsi, prima di potere ridelineare confini e differenze»
Restiamo al Pd. Le pare sufficientemente attrezzato per questo lavoro di lunga lena a caccia di un baricentro culturale?
«Vista dagli Usa, dove mi trovavo in questi mesi, la scelta di correre da soli, mi è sembrata un modo di non restare sepolti sotto le macerie del governo Prodi. Ciò detto, la visione dei blocchi contrapposti e dell’alternanza, spinge di fatto a condensare l’eterogeneità. Soltanto che a destra c’è una compattezza identitaria maggiore, sulla sicurezza e sugli interessi proprietari. Nel nostro campo è più difficile. E coesistono nel Pd “teodem” e il loro contrario. Essenziale comunque è mantenere il principio della laicità. Per far convivere i diversi, rilanciando l’agenda democratica. Contro il populismo ad esempio, e contro il tentativo di mutare o stravolgere la costituzione materiale e formale della Repubblica. Magari finendo con il legittimare e premiare l’avversario con nuove intese bicamerali».

l’Unità 25.5.08
Sicurezza sì, Intolleranza no
Appello: ebrei per i Rom


I raid di Ponticelli contro un campo nomade sono la grave spia di una stagione di intolleranza verso immigrati e comunità rom che sta pericolosamente attraversando il nostro Paese. Tale clima prende le mosse da un senso generale di paura, d’incertezza, che tende ad amplificare in molti cittadini la percezione d’insicurezza, la sensazione d’essere indifesi nei confronti della delinquenza.
È un sentimento questo che non va affatto sottovalutato, e certamente esiste in Italia un problema di sicurezza anche legato al fenomeno dell’immigrazione clandestina, che è diffuso e va risolto con efficacia. Ma come sempre quando si diffondono sentimenti così profondi ed acuti, e peraltro - va ribadito - anche comprensibili, è facile che le reazioni colpiscano per primi gli “stranieri”, gli “altri”. Compito della politica è dare risposte al bisogno di sicurezza dei singoli e delle comunità, e al tempo stesso mostrarsi inflessibile verso ogni fenomeno di xenofobia, di razzismo, di aggressione verso intere categorie di presunti “nemici”: i romeni, gli immigrati irregolari, i rom.
È inaccettabile qualunque giustificazione o minimizzazione di questi atteggiamenti e comportamenti che li rappresenti come reazioni eccessive, ma conseguenti, a problemi quali la presenza di immigrati irregolari o l’alta percentuale di immigrati tra gli autori di determinati reati.
L’onda del razzismo e della xenofobia va fermata subito, l’Italia deve stringersi a tutti coloro, stranieri e “minoranze”, che vivono in pace nel nostro Paese, rispettandone le leggi. In gioco sono i princìpi costituzionali di libertà, in gioco sono i diritti umani, in gioco è il nostro futuro di comunità civile.
In particolare, come parlamentari e come ebrei italiani sentiamo il bisogno e il dovere di stringerci al popolo rom, al quale ci unisce una storia millenaria di persecuzioni e il comune destino del genocidio nazista, che mai potremo dimenticare. Non permetteremo che un intero popolo venga colpevolizzato o che i reati di alcuni, pochi o tanti che siano, producano pene per tutti.
Per questo diciamo oggi e diremo sempre: sì alla sicurezza no al razzismo.
Vorremmo che alle nostre firme si uniscano quelle dei tanti che, siamo certi, sono allarmati come noi dal pericolo che l’Italia sta correndo.
Rita Levi Montalcini senatrice a vita
Roberto Della Seta senatore
Emanuele Fiano deputato
Ricardo Franco Levi deputato

l’Unità 25.5.08
D’Alema: la destra cavalca la paura, vediamo se saprà governare
di Andrea Carugati


DIFFICILE, se non impossibile, distrarre Massimo D’Alema dai temi filosofici e religiosi che lo occupano qui, compresi pranzi e cene, dove continua a di-
scutere appassionatamente con intellettuali del calibro di Remo Bodei. Qui nell’oasi di Marina di Camerota, dove oggi si conclude la tre giorni organizzata da Italianieuropei su politica e religione, la cronaca arriva attutita, quasi un rumore di fondo rispetto ai Grandi temi di cui si discute per ore: religione, globalizzazione, identità dell’Occidente, il Concilio Vaticano II. Da Marx a Croce, San Tommaso, San Paolo, Kant, Hegel, Heidegger, Nietzsche. La stessa idea e funzione della politica, e del riformismo, tutto è analizzato e discusso, senza filtri. «La politica è un ruscello esangue, che ha bisogno di nuovi affluenti», confida D’Alema all’amico Bodei, che lo cita in pubblico per sottolineare i rischi di «un riformismo che naviga a vista nel giorno per giorno, mentre è necessario riscoprire le fonti e le sorgenti del pensiero laico, come l’idea di uguaglianza». D’Alema pensa soprattutto a questi affluenti: «Ho ricevuto decine di inviti per conferenze in tutte le parti del mondo, farò questo, come già ho fatto dopo la fine del mio governo: andai in Usa per un ciclo di conferenze da cui ho tratto il libro, Oltre la paura». Un D’Alema alla Tony Blair, conferenziere, sempre più tutt’uno con la presidenza della sua Fondazione: «È l’unico incarico di cui dispongo», confida a tavola. «È il mio business». E proprio la paura, della globalizzazione, della Cina, del diverso che sfida la vecchia Europa, è la chiave per capire questo nuovo ciclo della destra, non solo in Italia. «Una paura che è soprattutto bisogno di identità, e la destra cavalca questo bisogno anche sfruttando il tema religioso». Quanto alla grandeur di Berlusconi a Napoli, D’Alema è prudente: «Vedremo se saranno così bravi a governare, Berlusconi per ora ha buon gioco, perché riempie un vuoto d’autorità che c’è stato». Un vuoto, fa capire, dovuto anche al fatto che «quando il nostro governo decideva qualcosa subito si alzavano sei ministri per dire che non andava bene... ». Una patologia dovuta anche al carattere un po’ «casinista» della sinistra radicale. «Cercavano la visibilità? L’hanno ottenuta, e infatti nelle urne la gente si è ricordata di loro... ». Ora, nella disfatta della sinistra, D’Alema vede uno spiraglio in Niki Vendola: «È l’unico che può rilanciare un’idea di sinistra in chiave moderna». Ma è presto per parlare di nuovi scenari tra Pd e sinistra. Ed è presto anche per capire se quella di Berlusconi sarà una egemonia duratura sulla società italiana: D’Alema cita Chou En Lai, il dirigente del Partito comunista cinese che dopo oltre un secolo sosteneva fosse «troppo presto per formulare un giudizio sulla rivoluzione francese». «Non farò come lui, ma ci vuole tempo. Per il momento la politica italiana sta vivendo una fase di assestamento, a ottobre si comincerà a capire qualcosa». Per il momento l’ex vicepremier guarda con interesse all’associazione di parlamentari che sta nascendo come costola di Italianieuropei. Una associazione che, oltre alla tradizionale area dalemiana, sta suscitando grande interesse anche nell’area Letta, dove non mancano adesioni di big come Paolo De Castro, e ieri Gianni Pittella, gran tessitore nella truppa dell’ex sottosegretario ai tempi delle primarie, è arrivato qui a Camerota per un saluto. Sulle alleanze D’Alema sottoscrive le parole di Veltroni: «Siamo tutti d’accordo sul superamento delle alleanze intese come ammucchiate di tutti contro, ma si tratta di costruire un sistema di alleanze su base programmatica». «Dopo l’esperienza del governo Prodi abbiamo deciso di andare liberi. Ma libertà non vuol dire isolamento. La questione è complessa e andrà approfondita». E a proposito di approfondimenti, Bodei lancia qualche sasso nello stagno, invitando i progressisti a non farsi accecare dall’idea della sicurezza. «Ci sarà solo se c’è integrazione, e poi a copiare si corre il rischio che l’originale sia sempre considerato migliore... ».

l’Unità 25.5.08
Salvator Rosa, un talento fuori misura
di Renato Barilli


TRA MITO E MAGIA A Napoli un’affascinante rassegna dedicata a quest’artista stravagante, che anziché seguire l’impronta caravaggesca del secondo Seicento si divertiva a ritrarsi nelle pose più bizzarre

Domenica scorsa elencavo i meriti di Claudio Strinati, soprintendente del polo museale romano, ma non è certo da meno il suo collega Nicola Spinosa, insediato alla testa del polo napoletano, abituato da tempo a servirci mostre puntuali e intriganti negli spazi nobili del Museo di Capodimonte e delle sedi associate. Ora è di turno una affascinante rassegna dedicata a Salvator Rosa (1615-1673), per la cui realizzazione Spinosa è affiancato da molti validi aiuti. Il Rosa fu un talento fuori misura, stravagante, nel senso letterale della parola, a cominciare dal fatto che uscì fuori dal seminato consueto nella pittura partenopea del secondo Seicento, improntata al caravaggismo che il genio lombardo vi aveva impiantato, negli anni da lui trascorsi nelle nostre regioni meridionali. E proprio al caravaggismo della grande tradizione napoletana in passato il Museo di Capodimonte aveva reso ampio omaggio, nelle persone di Mattia Preti, i cui dati anagrafici ne fanno quasi un coetaneo del nostro Salvator Rosa, e di Luca Giordano, proteso a fare da ponte tra il secondo Seicento e il Settecento. Ma in quegli artisti predomina un senso di tutto pieno, le figure sono assorbite dal contesto ambientale, atmosferico, naturale, non riescono ad emergerne. Viceversa il primo impulso di Salvator Rosa è di fare il vuoto attorno ad esse. Egli ci appare come superbo ritrattista, anzi, di più, come stupefacente compilatore di autoritratti a getto continuo. In proposito risultano molto puntuali le osservazioni affidate al catalogo della mostra da Brigitte Daprà, che appunto ci fa notare come allora l’artista era figura socialmente inferiore, di artigiano, e il suo talento di ritrattista doveva essere prestato alla maggior gloria degli illustri committenti. Il Nostro invece mette in scena spavaldamente se stesso, concedendosi una serie inesausta di pose e di costumi. Talvolta ci si presenta come filosofo, pronto anche a scivolare nei panni dello stregone, dell’addetto a pratiche magiche. Altre volte si dichiara guerriero, e ne assume le pose marziali, spavalde, ribelli, altre volte ancora ostenta addirittura una maschera da teatro, pronto a indossarla e a nascondersi in quel nuovo ruolo. Lo stesso vale nel caso dei soggetti femminili, che entrano nei panni delle allegorie, la menzogna, la gelosia, lo studio. In altre parole, questo artista non vuole essere un uomo del mestiere, bensì un fine umanista, versato nelle lettere come nel pennello. Ne consegue che lo spunto tematico, nel suo caso, vale assai più della resa pittorica, c’è in lui una sfida continua al pittoricismo, al tonalismo, a tutte le altre virtù del mestiere cui invece sacrificavano i suoi colleghi. Viene da qui quel carattere di anacronismo che lo riguarda, come se si staccasse dai suoi tempi e si protendesse in avanscoperta di quasi un secolo, anticipando situazioni che conosceremo solo all’aprirsi di quella voragine che, proprio contro i vari naturalismi dell’età barocca, sarà costituita da movimenti di difficile definizione quali il neoclassicismo e il romanticismo. Ebbene, di tutto questo clima è precursore il Nostro, a cominciare proprio dalla volontà di far fare un passo indietro al mestiere, di lasciare che i soggetti prevalgano sulle mezze tinte, sugli atmosferismi pervasivi. Una volta tanto, il sottotitolo dato alla mostra, che ne pone il protagonista Tra mito e magia, appare calzante, proprio nella misura che ci fa capire come in questo imperioso e scapricciato personaggio la pittura sia sempre preceduta, ed ecceduta, dall’altro. Questa preminenza dei temi impone le varie soluzioni stilistiche, che potrebbero apparire alquanto dissonanti. Talora, se si tratta di autoritratti, l’artista fa il vuoto attorno alle sue proiezioni, con sfondi chiari, quasi in anticipo su un David. Talaltra, se vuole raccontare, farci entrare negli antri del mago dove si conducono esperimenti con tanto di scheletri, la pennellata si fa sottile, quasi un guizzo di luce che si insinua nelle forme, con segno agile, appuntito, fosforescente. C’è come una lingua di fuoco che percorre le membra delle varie figure, appartengano esse al mito o a un museo degli orrori. Che è come dire che Salvator Rosa non assume mai un atteggiamento contemplativo, passivo di fronte ai motivi trattati, ma al contrario li aggredisce, li sferza con cariche di energia, costringendoli a un dimagrimento, facendoli vivere solo grazie a quei raggi luminosi che li percorrono, estraendoli dalle tenebre. E quasi per favorire questo supplemento energetico, anche le capigliature si scompigliano, si estenuano in lunghe ciocche, che si dimenano nell’aria come fossero rami di una vegetazione impazzita, presaga di un imminente temporale da cui l’atmosfera è resa carica di elettricità, pronta a emanare scintille, o ad attirare a sé lo scoccare di un lampo. In virtù di questo vivace impulso energetico Rosa riesce a praticare con pari eccellenza due dimensioni quasi opposte tra loro, per un verso, come si è detto, isola e ingigantisce il protagonismo di un soggetto pieno di sé e dei suoi poteri magico-stregoneschi, per un altro verso intesse storiette, vicende gremite di personaggi, come per esempio le sue celebri battaglie, dove la microscopia delle singole presenze è largamente ricompensata dai pennelli di luce che le percorrono, le sferzano, le rendono guizzanti, scoppiettanti.

l’Unità 25.5.08
Zio e nipote, maestri nel genere delle vedute, per la prima volta faccia a faccia in una mostra
Bellotto & Canaletto, due veneziani a Torino
di Ibio Paolucci


Lo zio e il nipote: faccia a faccia, per la prima volta, in una mostra. Tutti e due vedutisti, tutti e due veneziani, tutti e due fra i maggiori artisti del Settecento europeo. Lo zio, Antonio Canal detto il Canaletto, nacque a Venezia il 28 ottobre 1697, figlio di Bernardo, pittore scenografo. Ma presto lasciò la guida del padre, dedicandosi al genere di pittura che gli avrebbe portato fortuna e che lo avrebbe fatto diventare un grande maestro e l’astro più luminoso del vedutismo veneziano.
Il nipote, Bernardo Bellotto, nato a Venezia il 20 maggio 1722, fregiatosi anch’esso del titolo di Canaletto, ebbe come primo maestro lo zio, dal quale ricevette preziosi insegnamenti e, da lui, all’inizio, apprese un eguale modo di dipingere, uno stesso stile, tanto che molti quadri vennero attribuiti, indifferentemente, sia all’uno che all’altro. Ben presto, tuttavia, il Bellotto seppe trovare una sua strada, molto personale e diversa da quella dello zio. Diversi anche i percorsi. Mentre il Canaletto, con l’eccezione di una parentesi londinese, rimase sempre nella sua citta natale, il Bellotto, ancora giovanissimo, poco più che adolescente, cominciò a girare per l’Italia e per l’Europa, facendo tappa a Roma, Firenze, Milano, Torino, Vienna, Dresda, Monaco, per poi fermarsi per una diecina di anni a Varsavia, dove cessò di vivere il 17 novembre del 1780.
A tutti e due è dedicata una magnifica rassegna in corso a Torino: centodue le opere fra dipinti e disegni prestate da collezionisti privati e da musei di tutto i mondo (ben 22 i pezzi provenienti da Londra, dalla Royal Collection). Quel genere di pittura, naturalmente, non è nato con loro anche se con loro e con Francesco Guardi è stato portato alla perfezione. Prima di loro Giuliano Briganti parlò di un disegno dell’olandese Gerard Ter Borch il Vecchio, la cui veduta della via di Santa Sofia, del 1609, rivela «un rigore ed un’obiettività che non esiterei a definire canalettiana». E dell’Olanda del Seicento è pure quella superlativa veduta di Delft firmata da Vermeer, considerata da André Gide il più bel quadro del mondo. Non molto prima di loro, per non parlare di altri, operò in Italia Gaspard van Wittel (1653-1736), le cui vedute godettero dell’ammirazione dello zio e del nipote. Epperò le stelle più brillanti furono loro. Charles de Brosses, nel 1799, scrisse nel suo libro sull’Italia che il Canaletto, nel genere delle vedute, «supera tutto ciò che è mai esistito», osservando, fra l’altro, «che gli inglesi hanno viziato a tal punto qesto artista offrendogli per i suoi quadri tre volte di più di quanto ne chiede egli stesso, che non è più possibile comprare nulla da lui». La Venezia dei due artisti, pur avviata sul viale del tramonto, poteva ancora fregiarsi del titolo di «Serenissima» e anche di «Dominante». Napoleone e il trattato di Campoformio, che tante lacrime fece versare a Ugo Foscolo, non erano alle porte. Venezia era ancora una grande potenza, il cui splendore era oggetto delle opere degli artisti. Ma del Bellotto sono pure famosissime le vedute di altre città italiane ed europee. E mentre nel Canaletto si trova una luminosità calda, armoniosa, quasi sensuale, per dirla con Rodolfo Pallucchini, nel Bellotto il segno è più concreto, soprattutto più vero, più portato a esaltare, con razionale verità, i dettagli della realtà. Più intensa e trasparente la luce, maggiore il gusto narrativo, al punto che Roberto Longhi, forzando un po’ la mano, allaccia il suo linguaggio a quello dei grandi scrittori russi dell’Ottocento. Più pertinente, forse, è il rapporto delle opere dei due veneziani con l’universo dell’Illuminismo, inteso come comprensione della realtà attraverso il lume della ragione, e, se si pensa alla musica, con le sublimi armonie di Mozart. Di entrambi, comunque, è la estrema cura dei particolari, sia pure illuminati con luce diversa. Bellotto, distaccatosi dallo zio già nelle giovanili vedute lombarde (splendide quelle della Gazzada del 1744, quando ha da poco compiuti i vent’anni) e in quelle piemontesi (superba la veduta sul Po della Sabauda del 1745), perverrà ai vertici della sua arte nelle vedute di Vienna, Dresda, Varsavia. Di Dresda, in particolare, colpita a morte nel febbraio del ‘45 da un barbaro e inutile bombardamento aereo inglese che provocò oltre centomila morti, non si cesserebbe mai di guardare le ammirevoli, affascinanti vedute della città di allora.

l’Unità 25.5.08
Migranti e rifugiati: un mondo in movimento
di Philippe Rekacewicz


10 milioni di rifugiati, 25 milioni di sfollati, ma sono cifre per difetto

Senza uno Stato senza una casa senza un lavoro
E si spostano in cerca di salvezza

«Mi trovavo accanto all’ufficio della dogana con alcuni colleghi e contavo le persone che attraversavano la frontiera per dare una prima valutazione dei loro bisogni», dice William Spindler dell’Alto Commissariato Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) che si trovava in Ruanda nel 1996. «Aspettavamo circa 20.000 persone nel corso della giornata. Avevo una di quelle macchinette calcolatrici che gli steward usano negli aerei per contare i passeggeri. Alla fine ci siamo accorti che ogni ora dalle 20.000 alle 30.000 persone varcavano la frontiera. In totale arrivarono 350.000 persone in un solo giorno, il doppio della popolazione di Ginevra, e tutti avevano bisogno di cure immediate e di cibo».
Per fortuna movimenti di persone di queste proporzioni restano eccezionali; quando si ha a che fare con così tanta gente è impossibile organizzare gli aiuti di emergenza nelle prime, vitali ore quando i rifugiati sono più esposti al pericolo. L’Alto Commissariato Rifugiati, che dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha ricevuto il mandato di occuparsi delle crisi umanitarie, è riuscito ad organizzare le cose sotto il profilo logistico in modo da prestare soccorso a 500.000 persone in meno di 48 ore. Non è una operazione semplice e richiede un certo sostegno. L’Agenzia dispone di 399 addetti alla logistica e personale medico e paramedico in cinque continenti, tutti in grado di essere immediatamente operativi. L’Agenzia ha anche centinaia di migliaia di teloni di plastica, tende, secchi, utensili da cucina, coperte, zanzariere, camion, magazzini prefabbricati e generatori elettrici nei magazzini di Dubai, Copenhagen, Amman, Accra e Nairobi che possono essere immediatamente caricati sui velivoli da trasporto Antonov.
Una volta che una emergenza è stata dichiarata e che gli aiuti sono arrivati sul posto, inizia il compito lungo e difficile di registrare e proteggere i rifugiati. Appena varcato il confine, perdono la cittadinanza del loro Paese di origine e nessun altro Paese è disposto a concedere loro asilo. È compito dell’Unhcr garantire la protezione, sia fisica che giuridica, a tutti coloro che ne hanno bisogno. È necessario identificare i rifugiati per stabilire quante risorse finanziarie sono necessarie.
Elaborare i dati
L’Unhcr ha calcolato che alle fine del 2006 c’erano 10 milioni di rifugiati mentre secondo la Commissione Rifugiati e Immigranti del Senato degli Stati Uniti sarebbero 14 milioni. Alcuni dirigenti dell’Unhcr e delle Ong ammettono che il numero dei rifugiati è sottostimato.
In Thailandia il governo decide di volta in volta se concedere asilo. Nei campi lungo il confine con la Birmania, gli ufficiali dell’esercito esaminano tutte le richieste e decidono. Da oltre una generazione i rifugiati afgani vivono in Iran (2 milioni e non il milione delle statistiche ufficiali) e in Pakistan (dai 2 ai 3 milioni invece di 1-2 milioni delle stime ufficiali). A complicare il compito degli statistici, il governo iraniano ora chiede ai rifugiati di acquistare un permesso di lavoro che costa 140 dollari e una volta diventati “lavoratori regolari” vengono cancellati dai registri dell’Unhcr. In Siria e in Giordania ci sono talmente tanti rifugiati iracheni che possono volerci anche due mesi o più per essere registrati e per godere dei relativi diritti. I Paesi in via di sviluppo accolgono oltre l’80% dei rifugiati e i Paesi relativamente più poveri ne accolgono la maggior parte: la Repubblica Democratica del Congo (tra 200.000 e 300.000. 1.700.000 contando anche gli sfollati), lo Yemen (100.000), la Tanzania (circa 500.0000), il Pakistan (oltre 1 milione), la Giordania (tra 2.300.000 e 2.500.000). Nessuno di questi Paesi ha i mezzi per far fronte autonomamente alla situazione senza assistenza logistica e finanziaria dei Paesi più ricchi tramite l’Onu e la sua rete di organizzazioni.
Si sa molto più dei rifugiati che degli sfollati che sono costretti ad abbandonare le loro case, ma che non godono dei diritti dei rifugiati e che sono dei veri e propri esiliati in patria. «Gli Stati nazionali hanno a cuore la loro sovranità e c’è il rischio di interferire nei loro affari interni. Ciò riduce considerevolmente la nostra capacità di aiutare le persone in pericolo», dice Antonio Guterres, ex primo ministro del Portogallo e attuale Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati.
In Georgia 250.000 sfollati a seguito dei conflitti in Abkhazia e in Ossezia meridionale vivono in treni abbandonati, in edifici pericolanti e in alberghi requisiti. «Centinaia di famiglie provenienti da queste regioni sono state ammassate in stanze piccolissime in due alberghi al centro della città», dice Manana Kurtubadze, professore di geografia dell’università di Tbilisi. «Tutti potevano vederli. Spesso andando al lavoro passavamo davanti a questi edifici e la coscienza ci rimordeva. Alle fine del 2005 fu chiesto loro di andarsene in cambio di 7.000 dollari con cui acquistare un piccolo appartamento. A quel punto i rifugiati sono diventati invisibili, sparsi nella capitale e nei sobborghi. Da allora non se ne parla quasi mai, ma il problema rimane».
Le molte cause del problema degli sfollati
Dieci anni fa la Commissione di Coordinamento Umanitario delle Nazioni Unite avviò la creazione di una banca dati degli sfollati presso il Centro di Monitoraggio degli Sfollati (Idmc) gestito dal Consiglio norvegese degli sfollati. L’Idmc calcola che ci sono 25 milioni di sfollati in tutto il mondo. «Il dato riguarda solamente gli sfollati a causa di guerre, conflitti, violenze politiche e violazioni dei diritti umani», dice Frederik Kok, ricercatore dell’Idmc.
«Il problema è accordarsi su una definizione che prenda in considerazione le molte ragioni del fenomeno degli sfollati tenendo presente che il reinsediamento delle popolazioni di sfollati non sempre garantisce soluzioni durature. Ad esempio, grossi progetti di sviluppo quali le dighe, i centri industriali e le piantagioni creano ogni anno tra 10 e 15 milioni di sfollati.
«Il numero degli sfollati collegati a problemi ambientali è ancora più stupefacente: secondo il Centro di Ricerca sull’Epidemiologia e i Disastri (Cred), nel 2006 le persone colpite da questo fenomeno sono state 145 milioni. È difficile arrivare ad una cifra esatta, ma è possibile che i grossi progetti di sviluppo e i disastri naturali creino un numero di sfollati da 5 a 10 volte maggiore di quelli creati dai conflitti per un totale compreso tra i 100 e i 200 milioni di persone».
Gli analisti dell’Idmc che al momento controllano la situazione in 50 Paesi, riconoscono che ci sono alcuni significativi divari e stanno valutando l’ipotesi di aggiungere la Cina, il Brasile, alcune piccole nazioni insulari e persino gli Stati Uniti alla lista dei Paesi sotto controllo. Gli Stati Uniti? «Sì - esclama Arild Birkenes, specialista del problema in America Latina -. Gli effetti della globalizzazione e del libero mercato sul fenomeno degli sfollati debbono essere analizzati. Quante centinaia di migliaia di coltivatori messicani di piselli, frumento e fagioli non più in grado di reggere la concorrenza dei prodotti americani che ricevono enormi sovvenzioni pubbliche, hanno dovuto abbandonare la produzione, lasciare le loro fattorie e dirigersi alla volta degli Stati Uniti, per lo più illegalmente? Per non parlare delle 400.000 povere vittime dell’uragano Katrina che ancora non hanno una casa».
Altre cause di migrazione
Si profila anche un altro fenomeno, quello degli sfollati per ragioni economiche. Quali criteri possiamo usare per distinguere un migrante economico da un normale migrante o rifugiato? Questi interrogativi sono motivo di preoccupazione in seno all’Unhcr. «I flussi migratori sono in aumento da molti anni e le cause di queste migrazioni sono andate via via aumentando», dice Guterres. «Quando arrivano è sempre più difficile distinguere i migranti economici dai rifugiati che sono fuggiti per sottrarsi alle guerre e alle persecuzioni. Nel contesto di questi movimenti migratori, come possiamo garantire una assistenza efficace e una adeguata protezione a tutti coloro che ne hanno bisogno? La confusione tra la questione dell’asilo e la migrazione ci mette in una situazione nuova che non possiamo gestire senza l’aiuto di agenzie quali l’Ufficio Internazionale per la Migrazione e le Ong che generalmente operano sul campo».
Sebbene i migranti economici e i rifugiati non percorrano sempre le medesime rotte, incontrano i pericoli maggiori negli stessi posti: le Canarie, Gibilterra, Lampedusa, il mar Egeo, il golfo di Aden, il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, il confine del Sud Africa, i Caraibi e l’Australia. Queste popolazioni sono così' diverse da dover a tutti i costi effettuare una distinzione tra loro? Spesso i migranti economici non possono far altro che abbandonare il loro Paese e quindi perché non dovrebbero avere diritto alla protezione internazionale?
«Oggi non è più rilevante fare queste distinzioni - conclude Arild Birkenes - perché anche se le ragioni sono diverse, le conseguenze sono le stesse. E tutta questa gente che troviamo aggrappata ad una carretta del mare o stipata nel doppio fondo di un camion o di un container merita la stessa assistenza e gli stessi diritti». Ciò spiega il sentimento di impotenza di alcuni funzionari di vertice dell’Unhcr. L’agenzia ha iniziato ad aprire uffici in zone particolarmente delicate come Lampedusa dove attualmente una piccola equipe sta tentando di garantire che gli immigrati che sbarcano sull’isola possano svolgere tutte le pratiche amministrative per ottenere l’asilo. L’Unhcr e altre Ong stanno sottolineando l’esigenza urgente di un adeguamento del mandato in modo da poter far fronte a questa situazione. In passato si parlava di rifugiati rimpatriati e di popolazioni apolidi. L’ONU aggiornerà presto il suo vocabolario includendo anche i migranti economici?
© Agence Global Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 25.5.08
La Campania non è l’Afghanistan
di Luigi Caligaris


Berlusconi dixit: «in Campania impiegherò l’esercito!». E l’ordinanza del governo art. 2.3 precisa che le forze armate dovranno, su richiesta del Commissario delegato, «provvedere all’approntamento e alla protezione dei cantieri e dei siti, nonché alla raccolta e al trasporto dei rifiuti» dopo avere premesso che il suddetto Commissario «è assistito dalla forza pubblica» e gode a tal fine della collaborazione di prefetti, questori e altre autorità competenti.
Sorge un primo dubbio, se il Commissario ha già la forza pubblica perché impiegare l’esercito? La risposta la fornisce l’ambasciatore Sergio Romano sul Corriere della Sera di giovedì dove, citando l’esperto Laporta, dimostra che, escludendo dal computo guardie forestali e penitenziarie, in Italia le forze dell’ordine totalizzano 334.245 unità oltre a circa 100.000 uomini delle polizie locali, cifre che superano largamente quelle di ogni altro Paese europeo. Essendoci i numeri e le competenze, l’emergenza campana spetterebbe alle forze dell’ordine. Ma, come scrive Romano, esse hanno «bassa produttività» per una serie di motivi a cui aggiungerei gli sprechi a causa dell’eccesso, anch’esso senza confronti in Europa, di personale di scorta, guardie a punti fissi, autisti, tutela, ruoli rituali, ecc). Anni fa due capi dei sindacati di polizia lamentarono senza perifrasi che «in Italia la sicurezza dei singoli prevale su quella collettiva». Questo solo per spiegare uno dei motivi per cui si ricorre all’esercito, seppure sia solo un quinto del totale delle forze dell’ordine. Considerando che non vi erano forze dell’ordine operativamente sufficienti, Berlusconi ha deciso di affidarsi alle forze armate e soprattutto all’esercito e ha fatto bene a decidere subito accettando i prevedibili rischi. Infatti, poiché c’è un emergenza che mortifica l’esistenza dei cittadini, pone problemi seri di ordine pubblico e offende il nome dell’Italia, è suo dovere impiegare senza troppo esitare metodi e strumenti che egli ritenga idonei per affrontarla e risolverla. Non è peraltro una novità. Sono tanti infatti i governi nella storia dell’Italia unitaria che nei momenti di crisi si sono rivolti all’esercito, tanto è vero che il suo palmares trabocca di riconoscimenti per interventi nelle calamità naturali, nelle crisi dell’ordine pubblico, insomma in ogni grande emergenza. Il coro dei consensi è ogni volta pressoché unanime e si esprime con la fatidica frase «è tornato lo Stato!». In effetti, nell’immaginario italiano, l’esercito rappresenta una tangibile e massiccia dimostrazione che lo Stato italiano, di cui si lamenta e spesso a ragione la latitanza, ha una riserva a cui attingere nei momenti difficili, un tesoretto di professionalità e lealtà. Vi sono è vero le consuete, sempre più rare, proteste contro i rischi di militarizzazione dello stato quasi che i generali italiani fossero in pectore come i loro colleghi birmani, ma non è questo il problema.
Anche questa volta l’appello all’esercito ha ottenuto l’effetto voluto e si dà per scontato che come sempre esso faccia in silenzio quello che da lui lo Stato si aspetta e che, dopo averlo sfiorato, le luci della ribalta passino a chi meglio di lui, cioè tutti, sa promuovere la propria immagine.
Ciò detto, le analogie con le passate esperienze dei militari in Italia sono poche. Qui non si tratta di aiutare una popolazione che plaude al loro operato dopo un cataclisma o di dare una mano alle forze dell’ordine nel gestire col pieno consenso di tutti una temporanea crisi nell’ordine pubblico. Si tratta invece di farsi carico della tutela di “beni” dello Stato: non di quelli che ha messo in lista l’Unesco ma delle vituperate discariche. Perciò il consenso di cui altre volte hanno goduto qui non lo avranno o almeno non durerà a lungo se l’operazione non sarà diretta dallo Stato in modo impeccabile e consapevole. Per questo soprattutto, la decisione di impiegare l’esercito avrebbe meritato seria valutazione e lascia perplessi il sapere che il neo ministro della Difesa non ne fosse neppure informato. A questo punto ci si sarebbe comunque aspettati da lui la dimostrazione che sa di essere il dominus politico dei militari, il loro responsabile tramite a cui rivolgersi soprattutto in situazioni critiche. Che lui salga o non salga sul palco delle autorità è una protesta che forse gli salva l’immagine ma non lo accredita. In attesa che, sia pure in ritardo, eserciti le sue funzioni, combinando la propria autorevolezza politica con il competente parere dei militari, si tenterà di capire cosa si debba fare hic et nunc a proposito delle discariche che neppure la Gazzetta dello Stato può nobilitare chiamandole «località strategiche nazionali». Sempre discariche sono e agli occhi della popolazione campana sono il museo degli orrori, la versione italiana dell’asse del male di George W. Bush. Ogni Paese ha i propri incubi strategici, gli Stati Uniti di Bush hanno la Corea del Nord e l’Iran, noi le discariche.
Paradossalmente peraltro, la situazione campana per certi versi ricorda quelle delle missioni oltremare di cui il nostro esercito ha lunga esperienza. Come appreso in quelle missioni l’uso dei militari, se bene impostato e diretto, può essere determinante ma non risolutivo. La difficile via del successo è lastricata di impegni politici, guadagno del consenso della popolazione e ragionata fermezza con uso limitato e meditato della forza. Strategia che tenta di evitare soluzioni autoritarie e punta a responsabilizzare il governo locale, promuovendo e intrattenendo ottimi rapporti con la popolazione per isolare i ribelli e poi batterli. È strategia dimostratasi spesso vincente, nota come “conquistare i cuori e le menti”, beninteso della popolazione.
Un problema, forse il più serio, è il governo locale perché corrotto e poco affidabile, e qualche analogia con la situazione odierna in Campania non manca. Quanto alla popolazione dei Paesi occupati è assai spesso incerta su chi sostenere ma se le viene assicurata una ragionevole forma di pace tende a non fraternizzare con i ribelli per il privilegio di vivere in pace. In Campania la situazione è più complessa perché sono in molti a cavalcare la comprensibile protesta della popolazione, esponenti politici, amministratori locali, gruppi dissidenti e criminalità organizzata. La sfida per lo Stato è riuscire a penetrare in questo inestricabile groviglio di apparentamenti e attrarre a sé la popolazione.
L’aspetto militare in questo caso non ha molto peso; non si tratta infatti di assicurare il controllo del territorio o di condurre la lotta contro la criminalità, ma solo di assestarsi a difesa delle cosiddette località strategiche dietro a una prima schiera di forze dell’ordine. A meno che, caso ipotetico, qualcuno sia tentato a provocare l’incidente dirigendo le sue azioni ostili soprattutto contro chi è fuori del sistema locale, come è nel caso dei militari. Ma è per ora soltanto un ipotesi.
In definitiva ai militari vien chiesto assai poco rispetto alle loro capacità professionali, è come disporre una vettura Formula Uno in garage e mettere a folle il motore. Nulla di male ma non si può escludere che le circostanze esigano altri tipi, più impegnativi d’impiego e, se ciò dovesse accadere mi auguro che la decisione sia presa dopo avere ascoltato responsabilmente i militari. Altra questione da chiarire sono le dipendenze dei militari che devono godere di ragionevole autonomia e non essere soggetti ai capricci di quello o di questo.
Peraltro il processo decisionale che regola le cose militari in Italia ha considerevoli imperfezioni e sarebbe ora che se ne costruisse uno al passo con i tempi e in linea con le esigenze presenti. Non basta chiamare in causa l’esercito quando fa comodo per poi dimenticarsene a esigenza conclusa. Il precedente governo Berlusconi ha apportato tagli brutali al Bilancio 2006 recuperati in parte dal successivo governo. È da augurarsi che, con l’aria nuova che tira, ciò non si ripeta e che avendo scoperto interesse per le forze armate questo nuovo governo metta mano al completamento della riforma delle forze armate nel contesto di una riforma più ampia, della sicurezza nazionale che è da decenni in lista d’attesa. Se le discariche avranno convinto il governo a mettere la mano a queste riforme, meriteranno di essere chiamate “strategiche”.

Repubblica 25.5.08
D’Alema sdogana Vendola "Unica chance per la Sinistra"
Veltroni: ma facciano autocritica, mai più l´Unione
di Giovanna Casadio


L´ex ministro: Il premier bravo? Vedremo. Il leader Pd: basta correnti e riunioni di ex

ROMA - Il Pd continua a guardare anche a sinistra. Ma se c´è una cosa sulla quale Walter Veltroni è disposto a scommettere è che «una coalizione come quella dell´Unione del 2006 non ci sarà più». Il segretario riunisce i circoli piddì a Milano e traccia un identikit del partito che, assicura, tornerà a vincere tra cinque anni. Diventa quindi centrale il discorso delle alleanze, che tuttavia saranno solo sulla base di un programma condiviso, niente grandi ammucchiate-contro: «Penso sia un problema per la democrazia l´assenza in Parlamento della sinistra radicale - ammette - alla quale però dico che oltre a prendersela con noi farebbe bene a fare autocritica e a ragionare su una lettura ideologica della società italiana che ha impedito ad esempio, di capire il tema della sicurezza». In ogni caso «il Pd pensa ad alleanze dove al centro ci sia il programma», e si rivolge pertanto anche a una parte della Sinistra Arcobaleno, ma non certo a quella che grida «10,100, 1000 Nassiriya, con la quale siamo agli antipodi». Dalla parte opposta dell´Italia, a Marina di Camerota, dove ha organizzato il seminario filosofico su «Religione e democrazia», anche Massimo D´Alema accenna alla questione politica all´ordine del giorno nel Pd e riflette, a margine, su chi può far risorgere la Sinistra ormai extraparlamentare: «Nichi Vendola è l´unico in grado di rilanciare un´idea di sinistra in chiave moderna. Gli altri leader? Li vedo troppo disorientati». E ai cronisti che insistono su cosa ne pensa dell´Unione, risponde ironico: «L´unione, con la u minuscola, fa la forza». Il contrario di quanto ha detto Veltroni? «Siamo tutti d´accordo sul superamento delle alleanze intese come ammucchiate di tutti contro tutti, si tratta di farle sulla condivisione di un programma omogeneo perché si è visto con il governo Prodi che non funzionano». E il Pd, aggiunge, ha scelto di andare «liberamente, ma libertà non vuol dire isolamento». Una cosa poi, sono le alleanze in un piccolo Comune, altra quelle a livello nazionale.
Per restare in tema di litigiosità ma anche di giudizio sull´esecutivo, l´ex ministro degli Esteri, oggi parlamentare e presidente della Fondazione «Italianieuropei» («l´unico incarico di cui dispongo, è il mio business») invita a andare cauti con gli apprezzamenti: «Vedremo poi se il governo Berlusconi sarà così bravo, ci vuole una visione lunga. Per ora il premier cavalca la paura e ha buon gioco perché veniamo da una fase di vuoto d´autorità: il governo di centrosinistra decideva una cosa e sei ministri gli dicevano di no». Troppa dialettica interna? «No, erano dei casinisti».
Con il Cavaliere tuttavia bisogna dialogare sulle riforme istituzionali: è la linea che il segretario Veltroni da Milano riconferma: «Ciò non esclude un´opposizione intransigente. Noi avremmo voluto cambiare le regole se avessimo vinto ma lo vogliamo fare anche adesso che siamo all´opposizione». Tra cinque anni appunto, «governeremo noi e dovremmo avere un paese che consenta l´azione riformista». Nel frattempo, il Pd - ammonisce - non deve essere un partito di correnti: «Basta con le riunioni di ex, che mettevano tristezza anche a scuola». E garantisce che ci saranno le primarie anche per le amministrative. D´Alema intano prevede per sé un futuro alla Blair: conferenze già prenotate in giro per il mondo

Repubblica 25.5.08
Nichi Vendola: non vogliamo galleggiare nella sconfitta, chi ci vuole far sparire sbaglia
"Massimo ha capito gli errori del Pd l´autosufficienza del Loft è fallita"
di Lello Parise


È interesse democratico fare sì che la sinistra alternativa non si disperda
C´è un´area del Pd che è consapevole del problema gigantesco creato dal voto

BARI - «Non si tratta di essere simpatico a D´Alema» sorride Nichi Vendola quando gli fanno sapere che da Marina di Camerota l´ex ministro degli Esteri parla del governatore della Puglia come «dell´unico in grado di rilanciare un´idea di sinistra in chiave moderna». La verità, spiega Vendola, è che «in un´area del Pd c´è la consapevolezza del problema gigantesco creato con il voto di aprile». Cioè? «Da una parte abbiamo assistito alla vittoria organica della destra, non una semplice vittoria elettorale, ma la partenza di un nuovo ciclo politico. Dall´altra c´è una sinistra lesionata, che non è riuscita ad entrare in Parlamento».
Per il "governatore gentile" è tutta colpa della «teoria dell´autosufficienza messa in campo dal Pd di Veltroni». D´Alema, a quanto pare, vuole esorcizzarla. «Perché» racconta Vendola «è un interesse democratico fare sì che la sinistra alternativa non si chiuda in una prospettiva minoritaria o, peggio, si disperda». Così come Vendola alla fine, potrebbe "disperdersi" nel Pd? «Credo che trentasei anni di militanza comunista valgano più di tanti veleni. Ancorché il sottoscritto non vuole essere prigioniero di un passato glorioso».
Se poi gli domandate quanto possa contare la sponsorizzazione da parte di D´Alema perché Vendola riesca a vincere la battaglia congressuale nei confronti di Paolo Ferrero, il presidente della giunta regionale ha quasi uno scatto di stizza. Confessa, a malincuore: «C´è un involgarimento della contesa interna. Costruiscono una campagna di sospetti contro di me». La malinconia ha il sopravvento: «Io, ormai l´unico superstite tra i padri fondatori del Prc, sono accusato di volere sciogliere questo partito». Il tono della voce è pacato, ma risoluto: «Non voglio continuare a galleggiare nella sconfitta, perché significherebbe acuire la sensazione di una sinistra inutile e inefficace».
Dunque, l´Arcobaleno? «Una strada in salita, giacché è molto più complesso ricostruire un campo largo di forze di sinistra. Ma non basta aumentare i decibel della polemica, avvitarsi nella sloganistica e presentarsi come i duri e puri. La deriva identitaria diventa pericolosa. Dobbiamo invece avere la capacità di rimettere in piedi argini democratici rispetto al dilagare di culture razziste e reazionarie». Il pensiero di quello che accade in Campania, è un tormento: «I falò di Ponticelli ci hanno detto tante cose inedite del ventre profondo di questo Paese. Ecco perché attardarsi in risse intestine, chiudersi a riccio, è esattamente il contrario di quello che ci vuole per rinascere».
La soluzione? Vendola non ha dubbi: «Il filo della battaglia antinucleare, e a favore delle energie rinnovabili, potrebbe materializzare la prima piattaforma unitaria della sinistra». Insieme con «la lotta al fantasma redivivo della pulizia etnica». E a quella per il lavoro: «I poteri forti lo considerano un ingrediente inerte e muto. Ma deve tornare a rappresentare la propria rabbia e le proprie ragioni. Rossana Rossanda ha scritto, stupendamente: si deve ripartire dalla solitudine del lavoratore subordinato».

Repubblica 25.5.08
Gli effetti ottici del cavaliere decisionista
di Eugenio Scalfari


DICE bene il nostro D´Avanzo che ieri ha definito la strategia del Berlusconi-quater come la militarizzazione della politica. È così. Napoli si prestava perfettamente per questa militarizzazione simbolica sia per quanto riguarda i rifiuti sia per il varo del pacchetto sicurezza e il governo ha condotto egregiamente la sua prima uscita pubblica.
Ci sono state proteste popolari contro l´apertura delle nuove discariche, molte delle quali erano quelle già individuate dal governo Prodi e da Bertolaso. Individuate ma non aperte. Prodi non poteva militarizzare le sue decisioni, Verdi e sinistra radicale glielo impedivano. Berlusconi non ha questi impedimenti.
Ci saranno altre proteste? Altri scontri con la polizia?. Spero di no. Lo stoccaggio dei rifiuti è una necessità. I termovalorizzatori sono una necessità. I treni verso la Germania sono una necessità. La raccolta differenziata dei rifiuti è una necessità.
L´approccio "militare" del governo ha incontrato il favore dell´opinione pubblica anche se è stato contrastato dagli abitanti delle località direttamente coinvolte. La popolarità del governo, stando ai più recenti sondaggi, è cresciuta del 10 per cento. Anche l´opposizione ha fatto buon viso.
Più complessa è la questione del pacchetto sicurezza. I provvedimenti legislativi approvati dal Consiglio dei ministri sono chiari nella loro strategia di "tolleranza zero" e in quanto tali bene accolti anch´essi dall´opinione pubblica. Ma sono molto confusi e talvolta perfino contraddittori nella loro articolazione normativa. Ci sono aspetti di dubbia costituzionalità, come ieri ha chiarito Stefano Rodotà. Ma il ministro dell´Interno ha precisato che si tratta di decreti e di disegni di legge aperti alla discussione parlamentare e ad emendamenti migliorativi.
La "tolleranza zero", se affiancata dal rispetto dei diritti fondamentali delle persone, è approvata da gran parte degli italiani. La paura montata ad arte è sorretta tuttavia da una paura effettiva. Le due paure mescolate insieme hanno determinato la vittoria elettorale di Berlusconi, della Lega e di Alleanza Nazionale. Ora si sgonfieranno tutte e due proprio in virtù della "militarizzazione" della sicurezza. I reati commessi da immigrati resteranno più o meno al livello attuale che non presenta speciali patologie, ma la loro "percezione" diminuirà e sarà un bene per tutti.
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Quanto alla camorra e alle altre organizzazioni criminali il discorso è diverso, come è diverso il problema dello Stato e della sua ricostruzione.
La camorra infesta Napoli e la Campania fin dalla fine dell´Ottocento, più o meno alla stessa data risale la mafia siciliana e americana. Quella calabrese è invece un fenomeno che non ha più di trent´anni di esistenza, più o meno come la Sacra Corona in Puglia. Da fenomeni di criminalità locale sono diventati nazionali, le cellule di questo cancro sono arrivate nel Centro e nel Nord, i legami internazionali passano per Marsiglia, Zurigo, Amburgo, Amsterdam, Londra, Barcellona e arrivano in Marocco, Turchia, Kosovo, Montenegro, Caraibi, Colombia, Bolivia, Venezuela, Messico. E naturalmente New York, Miami, Las Vegas, Los Angeles.
La traccia che delinea questa geografia planetaria e criminogena è la droga. Il racket, gli appalti, la prostituzione, rappresentano la coda della cometa delinquenziale e non è questione di immigrati o di indigeni, ma di Stati illegali che prosperano dentro e contro la legalità pubblica.
Lo Stato c´è ed è qui, ha detto Berlusconi aprendo il suo primo Consiglio dei ministri a Napoli. Purtroppo non era neppure l´inizio ma un´immagine evanescente di Stato. Nel pacchetto sicurezza non c´è assolutamente nulla che possa scalfire sia pure marginalmente l´anti-Stato delle mafie, la Gomorra e le sue propaggini. La Sicilia di Lombardo, di Schifani, di Micciché, di Cuffaro non è certo quella che possa guidare la cultura della legalità e la rinascita dello spirito pubblico.
C´è un immenso buco nero nel quale sprofondano i corpi e le coscienze. Il populismo e l´antipolitica sono il concime di questo brodo di coltura che erode la legalità e allarga la voragine. Il berlusconismo non è una medicina contro questa peste, tutt´al più un placebo se non addirittura un veicolo inconsapevole che accresce la diffusione dell´epidemia. Spero con tutto il cuore di sbagliarmi, ma temo di no.
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Poi c´è l´economia e Giulio Tremonti in veste di Grande Elemosiniere. Emma Marcegaglia e la luna di miele tra la sua Confindustria e un governo «capace di inaugurare una nuova e irripetibile stagione» all´insegna del decisionismo.
Va guardata con molta attenzione questa capacità decisionale della politica. Personalmente penso anch´io che sia un elemento positivo per realizzare soluzioni appropriate.
La crescita non è una soluzione ma un auspicio e semmai un effetto. La Marcegaglia punta sull´aumento di produttività e lo lega soprattutto al costo del lavoro e ad una nuova contrattualistica aziendale.
Sono certamente due elementi di rilievo ma non quelli essenziali. La contrattazione aziendale lascia fuori a dir poco l´85 per cento delle imprese, cioè tutte quelle che stanno al di sotto dei trenta dipendenti. In quella moltitudine non c´è traccia di sindacato, l´alternativa al contratto territoriale è il nulla.
Aggiungo che il vero elemento che influisce sulla produttività è l´innovazione, che non dipende dai lavoratori ma dall´imprenditore, dal suo genio e dalle sue capacità di ricerca. Innovazione di processo e innovazione di prodotto. La seconda molto più decisiva della prima.
Emma Marcegaglia e la sua Confindustria rappresentano le imprese, ne sono un ufficio di relazioni pubbliche, ma l´innovazione sono le imprese che debbono produrla. Se c´è stato un crollo di produttività e un crollo ancora maggiore di competitività, le responsabilità ricadono almeno per il 40 per cento sulle imprese, per il 50 per cento sulle carenze infrastrutturali e di illegalità pubblica, cioè sullo Stato. Il costo del lavoro non pesa più del 10 per cento. Non è irrilevante ma non è da lì che si risolve il problema.
Tremonti lo sa benissimo. Anche Draghi lo sa e anche la Marcegaglia dovrebbe. Purtroppo per loro e per tutti noi, saperlo non basta.
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La ricontrattazione dei mutui immobiliari è un buffetto sulla guancia dei mutuatari, un´operazione di pura immagine. Se stai affondando ti converrà accettare il tasso fisso del 2006 invece di quello attuale, assoggettandoti al prolungamento delle rate più gli interessi aggiuntivi. Otterrai un uovo oggi e dovrai ripagarlo con una gallina domani. L´operazione non è a costo zero, le banche ci guadagneranno, lo fanno per questo.
L´abolizione dell´Ici non serve assolutamente a nulla. Tremonti vi è costretto per onorare l´impegno elettorale assunto da Berlusconi. Anche qui pura immagine fornita ad una platea credulona. Il ministro dell´Economia ne valuta il costo ad un miliardo e lo motiva come un modo per rilanciare la domanda interna. Questa è un´enormità che una persona responsabile non dovrebbe propinare senza arrossire per quel che vuole far credere. Un miliardo per rilanciare la domanda? Un miliardo ottenuto detassando un´imposta di natura patrimoniale? Onorevole ministro dell´Economia, ma si rende conto? Ritiene gli italiani gonzi al punto da credere ad una panzana di queste dimensioni? Poi c´è la detassazione degli straordinari e delle parti flessibili delle retribuzioni. Emma Marcegaglia si è fatta male alle mani per gli applausi tributati a questo provvedimento. Costa – secondo il ministro – 2,6 miliardi.
Personalmente credo che costerà di meno. Il fatturato delle imprese rallenta, i premi di produzione si assottigliano. Se c´è meno fatturato ci saranno meno straordinari, non è così? Oppure ci sarà un blocco nelle assunzioni o addirittura chiusura di aziende e trasferimenti di produzione ad altre aziende collegate. Aumento di straordinari contro diminuzione dell´occupazione. Non è così che funziona, gentile Marcegaglia? Non è questa la logica del capitalismo, onorevole Tremonti?
Accrescere la produttività con queste misure è un marchiano errore. Accrescere la domanda, nemmeno parlarne. Quelle che certamente cresceranno saranno le disuguaglianze di trattamento. Il pubblico impiego è escluso dal provvedimento. Le donne che lavorano non fanno straordinari. Le piccole imprese e il lavoro precario sono un mondo nell´ombra con vita e logiche proprie difficilmente visibili. Quanto al lavoro degli immigrati è inutile parlarne.
Ma soprattutto, lo ripeto: detassare la parte flessibile del salario ha un senso in un´economia che tira; se è ferma o addirittura regredisce si tratta di pura immagine per avere titoli sui giornali e in tivù e qualche commento favorevole. Mi stupisce il Bonanni della Cisl. Angeletti almeno è più prudente.
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Due parole sul ritorno del nucleare. Sono d´accordo con Umberto Veronesi: il tabù contro non ha più ragion d´essere ammesso che l´abbia avuta venticinque anni fa. Oggi una battaglia ideologica è priva di senso. Infatti non mi pare che ci sia qualcuno che voglia farla.
Ci vorranno nove anni a dir poco per avere quattro centrali e un 10 per cento di nuova energia: questo è il piano preparato dall´Enel, altri studi specifici non ci sono e quindi diamolo per buono.
Saranno centrali di terza generazione. Detto in breve: nascono vecchie. Producono scorie. L´ammortamento è molto elevato, l´energia prodotta, per conseguenza, molto costosa. I francesi, tanto per parlare d´una economia della quale il nucleare rappresenta l´elemento-base, producono ormai con centrali quasi tutte ammortizzate. Ciò significa che l´energia prodotta oggi è vicina al costo zero. Le nostre, secondo l´Enel, avranno un costo di 30 miliardi.
L´ammortamento comincerà a pesare sul primo chilowattore prodotto. Dunque fuori mercato.
Marcegaglia batte le mani. È un tic? Forse bisognerà imboccarla comunque, questa strada, ma c´è poco da applaudire. Non sarebbe meglio usare quella montagna di soldi per nuove ricerche di gas o nuove iniziative nelle energie alternative?
Agli esperti l´ardua sentenza. La sola cosa certa, lo ripeto, è che le future centrali di Scajola-Marcegaglia nascono vecchie. Per degli innovatori ad oltranza non è un grande obiettivo.

Repubblica 25.5.08
Cina La nuova rivoluzione. La sfida del gigante d'Oriente
di Federico Rampini

La Cina del XXI secolo è una nazione che non si lascia definire facilmente: ha il capitalismo senza la democrazia; lo sviluppo economico senza le libertà politiche; unisce la modernizzazione cosmopolita e il nazionalismo; conserva nel suo linguaggio ufficiale elementi di ideologia socialista mentre al suo interno si allargano le diseguaglianze. Com´è possibile che una superpotenza in ascesa nell´èra di Internet e della globalizzazione, venga ancora governata da un regime autoritario? La risposta va cercata nelle scelte fatte dopo la fine del maoismo, in particolare la svolta imposta da Deng Xiaoping a partire dal 1979: la duplice politica basata sull´apertura al mondo esterno e sulle riforme che avviarono la transizione all´economia di mercato. La nuova rivoluzione economica cinese - all´insegna del capitalismo - ha dato in un trentennio risultati spettacolari, senza precedenti nella storia dell´umanità, per il miglioramento del tenore di vita che ha beneficiato centinaia di milioni di persone in pochi decenni. I risultati finali hanno portato in Cina all´instaurazione di un modello che non è la semplice imitazione di altri: è un capitalismo che conserva un ruolo importante dello Stato; una economia di mercato gestita da un governo illiberale, con gravi abusi contro i diritti umani.
La simbiosi tra capitalismo e regime autoritario non è un caso unico nella storia. È la prima volta però che questa particolare formula di governo della società e dell´economia si applica su una dimensione così gigantesca, coinvolge il popolo più numeroso del pianeta, e quindi ha effetti di eccezionale rilevanza sulle altre nazioni, nonché sugli equilibri geostrategici e ambientali del pianeta. L´assetto politico-economico della Cina nella prima fase del XXI secolo suscita un interesse comprensibile. In alcune parti del mondo è stato osservato come un modello-guida, come una possibile ispirazione per altri paesi emergenti. È tuttavia azzardato descriverlo come un modello stabile. Le sfide che deve affrontare sono straordinarie. È ragionevole ipotizzare che la prosecuzione della traiettoria di sviluppo economico, tecnologico, culturale e sociale della Cina richiederà importanti mutamenti anche nel suo sistema politico-istituzionale.
Sulle libertà politiche, sul diritto di associarsi, sul potere dei cittadini di cacciare i dirigenti corrotti, il regime resta sostanzialmente immobile dopo la repressione del movimento di Piazza Tienanmen il 4 giugno 1989.
Nel corso degli anni Duemila la Repubblica Popolare ha sperimentato solo un´innovazione assai limitata: le elezioni dei dirigenti dei villaggi con una molteplicità di candidati. È una riforma dai risultati deludenti perché i candidati sono plurimi, ma quasi tutti iscritti al partito comunista. Il partito si richiude a riccio, in difesa del suo potere esclusivo. Questo non significa che i vertici del regime non si pongano la questione del consenso: il loro uso frequente di sondaggi d´opinione rivela un´attenzione reale agli umori dell´opinione pubblica. Tuttavia questo è un metodo per consolidare la stabilità politica, non per aprire la strada a profonde riforme di sistema.
Messa di fronte nel 2008 a una serie di critiche occidentali - per il ruolo cinese nell´appoggiare il governo del Sudan colpevole del genocidio nel Darfur, per il sostegno di Pechino alla giunta militare in Birmania, per la repressione delle rivolte in Tibet - la Repubblica Popolare ha reagito con una grinta nuova. Rispetto al massacro di Piazza Tienanmen seguito da sanzioni internazionali e da un reale isolamento, la crisi d´immagine del 2008 si è svolta in un contesto decisamente più solido e rassicurante, visto da Pechino. Al termine della prima decade del XXI secolo la Repubblica Popolare non è affatto isolata come nell´89. Ha stretto da tempo delle partnership intense e proficue - non solo sul terreno economico ma anche nella sfera diplomatica e in vaste aree di cooperazione - con gli Stati Uniti, l´Unione europea, la Russia, l´India. Ha incassato un significativo disgelo con il Giappone. Dalla Corea al Pakistan in tutta l´Asia la sua influenza è in crescita, come anche in Australia e Nuova Zelanda, in Golfo Persico e nel Medio Oriente, nell´Africa subsahariana, in America latina. La crisi tibetana è venuta a guastare la visione idilliaca della "società armoniosa" che Hu Jintao proclamava di voler costruire sia all´interno del suo paese che nelle relazioni internazionali. Di colpo la propaganda del regime ha rispolverato toni e metodi nazionalisti che evocano un grande balzo all´indietro. Anche l´Occidente peraltro ha rischiato di regredire in una visione stereotipata della Repubblica Popolare. Il paese più popoloso del mondo in certe proteste occidentali è stato descritto quasi come uno Stato-lager, una Corea del Nord o una Birmania. Vista dai cinesi questa rappresentazione è assurda. La Cina non è un regime del terrore. Lo spazio delle libertà personali nella Repubblica Popolare si è ampliato enormemente dagli anni ´80 in poi: la libertà di scegliersi gli studi, di viaggiare all´interno del paese e all´estero, la libertà di costumi, la libertà sessuale. Restano gravi limiti per la libertà di espressione, di religione, e per altri diritti umani a cominciare dall´habeas corpus, il diritto alla certezza della legge, a una magistratura indipendente e a un processo equo.
La maggioranza dei cittadini cinesi sa di vivere oggi in un paese piuttosto rilassato e sereno, non solo in confronto al terrore che vigeva sotto le Guardie rosse durante la Rivoluzione culturale (1966-1976), ma anche rispetto alla Cina dei primi anni ´80. La base di consenso reale che i dirigenti comunisti hanno nel paese poggia su due pilastri: da una parte la crescita economica, dall´altra il nazionalismo. Un incidente di percorso della crescita economica, incrinando il primo pilastro del consenso, potrebbe inaugurare una fase nuova e riaprire il dibattito sulla democrazia.

Repubblica 25.5.08
America La tradizione. Il falso mito dell'identità
di Vittorio Zucconi


Scolpito nel genoma di ogni americano dal giorno 16 dicembre del 1773 quando i ribelli travestiti da "selvaggi" del Massachussetts gettarono in mare 45 tonnellate di tè appartenenti alla Compagnia britannica delle Indie Orientali, il mito dell´equivalenza fra democrazia liberale e prosperità economica, fra autodeterminazione e mercato, è qualcosa che, come tutti i miti, non è in realtà mai esistito, ma che esisterà per sempre.
Costruito su fondamenta teoriche più fragili di quanto appaiano nell´accettazione acritica dei dogmi dello scozzese Adamo Smith spesso male interpretati o delle imperiose riedizioni che ne fece il Nobel Milton Friedman da Chicago divenute il vangelo dei repubblicani contro l´eresia keynesiana e "liberal", la fede nel gemellaggio monovulare fra le due libertà è parte integrale e integrante della "identità americana". Anche di fronte a preoccupanti smentite, come il successo delle molte "dittature di sviluppo" asiatiche come la Corea del Sud fino agli anni ´90 o la Cina, come il Giappone della "dittatura soft" di uno stesso partito al potere da 60 anni o di Taiwan dominata per una generazione dagli eredi assolutisti del Kuomitang, la reazione delle classi dirigenti Usa è la ripetizione a memoria di un atto di fede.
Non importa se lo sviluppo cominci sotto la guida della mano pubblica o se avvenga spontaneamente, se la ricchezza nazionale cresca senza un progresso parallelo della democrazia rappresentativa e dei diritti civili individuali. Prima o poi, inesorabilmente, le due linee tenderanno a convergere e "le due libertà" si fonderanno. Come negli Stati Uniti. La forza del mito si radica, come vuole sempre la psicologia collettiva americana, nell´esperienza della propria storia. Poichè gli Stati Uniti sono il paradigma di tutto ciò che di positivo accade nell´evoluzione dell´umanità e, come ha dimostrato George Bush immaginando di poter esportare l´America di Jefferson e Madison nella Mesopotamia di Shia e Sunni, nulla salus extra Americam, non vi può essere bene o salvezza al di fuori del modello americano, il fatto che questa nazione sia riuscita in poco più di 200 anni a divenire la massima potenza economica del pianeta, e la massima potenza militare di sempre, mantenendo intatta la propria forma di governo civile liberal-democratico è la dimostrazione empirica del teorema. Prova riprovata, come avrebbe detto Galileo, dallo sviluppo straordinario mostrato dall´Europa occidentale dopo la conversione di tutte le sue nazioni, ultima la Spagna post franchista, alla formula mercato + democrazia = prosperità.
La accettavano implicitamente anche i più agguerriti e tenaci avversari che mai il capitalismo americano avesse conosciuto, i comunisti sovietici e i marxisti assortiti. La certezza delle "crisi cicliche del capitalismo", che passando di "boom" in "crash" avrebbero finalmente smascherato la truffa della falsa democrazia, era tanto dogmatica a Mosca quanto era la fede americana nel contrario e spiega la sicurezza con la quale Kruscev annunciò a Nixon che nel volgere di pochi anni l´economia pianificata sovietica avrebbe gettato nella spazzatura della storia l´economia capitalista. Una generazione più tardi, ancora oggi l´irriducibile Noam Chomsky predica contro "il falso libero mercato", denunciandolo come uno strumento per risucchiare ricchezza dal basso della piramide sociale verso un vertice sempre più ristretto, mentre al popolo viene offerto per distrarsi lo straccio della democrazia elettorale.
Ma se la storia e l´esperienza fossero osservate senza lenti ideologiche e senza gli opposti fideismi, si vedrebbe che il matrimonio fra Smith e Jefferson, fra il mercato libero e la democrazia, è assai più accidentato di quello che si vorrebbe far credere. Nel ciclo di "boom and crash" che puntualmente si ripete, quasi mai sono il mercato, la "mano invisibile" di Smith (che non era affatto quel liberista assoluto che l´agiografia vorrebbe disegnare, ma credeva nel concetto temperante della solidarietà per correggere il mercato) o la semplice leva monetaria indicata da Friedman a risollevare la barca sulla cresta dell´onda. Dopo la tragica esperienza del 1929-30, che soltanto la guerra, dunque il massimo possibile dello statalismo in azione, risolse definitivamente, anche il dopoguerra ha visto puntualmente l´intervento della mano visibile, dell´autorità federale, per uscire dalla tempesta.
Non fu il libero mercato, ma il massiccio intervento della Riserva Federale di Volker e Greenspan, strumento che liberisti assoluti come il candidato repubblicano (sconfitto) alla presidenza Ron Paul vorrebbe abolire, a ripescare la Borsa al collasso durante gli anni del reaganismo. Ancora fu la Fed, tirando per i capelli banche e finanziarie recalcitranti, a salvare la liquidità dopo il disastro della Long Term Capital che aveva divorato un migliaio di miliardi di dollari scommettendo sui bond sovietici insolventi, così come questa primavera è stata la Fed a far sopravvivere almeno il marchio della Bear & Sterns per evitare l´esplosione del panico e la corsa alle banche.
Se il naufragio delle speculazione sui mutui a rischio, i "sub prime", non trascinerà l´intero mercato immobiliare e tutto l´universo del credito a fondo sarà perché di nuovo il governo federale (tardi e male), il Congresso, la Fed di Bernanke, grande studioso della Depressione, gli sceicchi allagati di petrodollari leggeri e i cinesi, gonfi di cambiali del Tesoro americano , si sono mossi. Portando capitali generati e prestati da governi e miliardari che non praticano nè il libero mercato nè ancor meno la democrazia politica.
Ecco dunque un esempio lampante di un caso nel qualegli imperativi democratici (e gli interessi politici) impediscono al libero mercato di dispiegare la propria azione, mostrando la contraddizione sociale che fra i due può aprirsi. Ed ecco che piovono 168 miliardi di dollari che in questi giorni il fisco americano sta restituendo a noi contribuenti perchè vengano spesi nei centri commerciali e nei serbatori delle automobili, negazione del mito liberista, quanto lo sono quei finora 700 miliardi (in prospettiva due mila secondo Joseph Stiglitz) buttati dall´amministrazione Bush nella guerra per controllare l´Iraq nel nome di una scelta ideologica che con il libero mercato nulla ha a che fare.
Quello dell´assoluta identità fra mercato e democrazia, della sua esportabilità in ogni clima e in ogni continente, è dunque uno di quei "miti aggreganti", proprio come avrebbe voluto Leo Strauss, il filosofo tedesco padre spirituale di tutta la nidiata dei neocon portati al potere dall´onda di panico post 9/11 che, come il totem al centro dell´accampamento, servono a rabbonire e unificare gli abitanti del villaggio. A fare "identità culturale" in una nazione dalla debole identità etnica, linguistica o religiosa. Il mondo dimostra che ci si può arricchire senza democrazia si può essere una democrazia senza diffondere ricchezza, come potrebbero attestare gli impiegati a salario fisso dell´ultimo decennio italiano. Ma non si può chiedere a un americano di rinunciare alla fede nell´equazione democrazia = mercato senza chiedergli di rinunciare a essere americano.

Repubblica 25.5.08
Europa Le contraddizioni. Il dilemma eterno che ci affligge
di Enrico Franceschini


Nel 1991, durante l´ultimo anno d´agonia dell´Unione Sovietica, quando la perestrojka di Mikhail Gorbaciov cercava disperatamente di trovare una formula di capitalismo adatta alla sua visione di socialdemocrazia, in un´immenso impero multinazionale che non era più del tutto comunista ma non ancora pienamente democratico, a Mosca circolava questa storiella. «Quello che ci servirebbe», diceva uno dei suoi economisti al leader sovietico, «è un mercato alla svedese», sottintendo un´economia di mercato saldamente ancorata ai generosi e ben funzionanti principi di assistenza sociale del welfare state scandinavo. «Sì», replicava malinconico il Gorbaciov della barzelletta, «ma per realizzarla ci servirebbero gli svedesi».
Il tentativo gorbacioviano, com´è noto, fallì. Ma quella vecchia battuta può servire a illustrare il dilemma del rapporto tra democrazia e mercato nell´Europa odierna. Da un lato, l´Unione Europea rappresenta la forma più riuscita di espansione della democrazia liberale nel mondo.
Nata come Comunità Economica Europea nel 1958, quando riuniva soltanto sei paesi (Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo), oggi la Ue ne conta 27, essendosi gradualmente allargata fino a inglobare ex-paesi totalitari a ovest, come la Spagna e il Portogallo, e ad est, come gli ex-stati satelliti dell´Urss in Europa Orientale, con la prospettiva, sebbene non condivisa da tutti i suoi membri, di continuare a crescere, nei Balcani e fino alla Turchia. Dall´altro, questa esportazione pacifica della democrazia lascia aperti una serie di interrogativi. È la democrazia a fare da traino del mercato, innanzi tutto, o il mercato a creare le basi per una transizione di successo alla democrazia? Quale sistema di mercato è più adatto a uno sviluppo omogeneo dell´economia europea nell´era della globalizzazione: quello scandinavo, quello più flessibile e liberista anglosassone, quello statalista e protezionista ancora prevalente in svariati aspetti del capitalismo all´italiana? E inoltre, nel confronto interno all´Occidente, l´Europa ha la capacità di mantenere un modello economico-sociale differente da quello degli Stati Uniti, maggiormente imperniato sul welfare, sui servizi sociali, sulla protezione dei più deboli, o è destinato a uniformarsi al modello americano? In altre parole, questa libera unione fra 500 milioni di cittadini, che per aderirvi sottoscrivono il rispetto della stabilità democratica, dei diritti umani, dello stato di diritto e di un´economia di mercato che da sola produce il 30 per cento del pil mondiale, riflette le aspirazioni omogenee di un Homo Europeus o viceversa le "servirebbero gli svedesi" ( o una qualche specie aliena) per realizzare le sue ambizioni, per dirla con la suddetta storiella russa?
Quali che siano i problemi e i dubbi, le sue conquiste sono innegabili. Quando nel 2004 Romano Prodi, all´epoca presidente della Commissione Europea, in occasione dell´ingresso di 15 nuovi stati membri, in maggioranza provenienti dall´ex-mondo comunista, disse che «cinque decenni dopo l´inizio del nostro grande progetto di integrazione europea, le divisioni della Guerra Fredda sono scomparse per sempre e viviamo in un´Europa finalmente unita», non faceva della retorica. Ogni anno il Bertelsmann Transformation Index, un indicatore delle trasformazioni politiche ed economiche mondiali, fa il punto sui progressi verso la democrazia costituzionale e una "responsabile" economia di mercato sulla faccia della terra: l´Europa risulta la regione che ottiene i maggiori successi in entrambi i campi, essendo rimasto un solo vero regime autoritario, la Bielorussia, in tutto il continente. Oltretutto anche i paesi che non fanno ancora parte della Ue, come la Serbia, e quelli che non appartengono nemmeno completamente all´Europa da un punto di vista geografico, come la Russia, sono comunque chiamati a misurarsi con l´obiettivo congiunto di democrazia e mercato, grazie al confronto con l´Europa unita dei 27.
Se in questo confronto debba venire prima l´uovo della democrazia o prima la gallina del mercato, è discutibile. In un recente saggio sull´argomento, due studiosi europei, Pauline Grosjean, economica della European Bank for Cooperation and Development, e Claudia Senik, docente della Sorbona, contraddicono l´opinione dominante secondo cui lo sviluppo di un´economia capitalista porterà inevitabilmente alla democrazia (il cosiddetto modello cinese); ma esistono pareri differenti in materia. È dubbio che la Russia, al punto di disgregazione a cui era arrivata quando Gorbaciov salì al potere nel 1985, avrebbe potuto mantenere un saldo controllo politico sulle sue 15 repubbliche, sviluppando nel contempo una libera economia di mercato: a Mosca, concorda la maggioranza degli osservatori, era probabilmente troppo tardi per il modello cinese. Per il politologo inglese Timothy Garton Ash, il problema dell´Europa, intesa nel suo senso più ampio, non solo di quello che è oggi la Ue ma di quello che potrà diventare nel corso del XXI secolo, è piuttosto un altro: trovare gli elementi di una narrazione convincente dell´idea europea, in altre parole il collante che terrà insieme il modello europeo di democrazia e mercato. Garton Ash li riassume in sei parole: libertà, pace, diritto, prosperità, diversità, solidarietà. «Nessuno di questi obiettivi è prerogativa esclusiva dell´Europa» afferma il politologo «ma la maggior parte degli europei concorderebbero che essi riflettono le loro comuni aspirazioni».

Corriere della Sera 25.5.08
Il personaggio «Il partito dice che non sono in linea. Vengano qui loro»
E alla guida dei ribelli c'è il sindaco del Pd
di Marco Imarisio


NAPOLI — Se la politica fosse una cosa logica e precisa come lo erano i lanci da fermo di Ruud Krol, parabole di 50 metri che finivano sistematicamente sul piede dell'attaccante, allora oggi Salvatore Perrotta sarebbe al mare con i suoi tre figli.
«L'opposizione farebbe l'opposizione, strillerebbe contro queste politiche repressive. E non ci sarebbe una indistinta melassa che impedisce di vedere come Chiaiano rappresenti il grande esperimento del centrodestra. Dopo di noi, il modello verrà applicato a quelli della Tav, ai no-base di Vicenza, ma sempre previo entusiasta consenso del Partito democratico, partito di presunta opposizione ». Ciao spiaggia, anche se la giornata sarebbe adatta. E forse, ciao anche al Pd. Il sindaco di Marano ha occhi iniettati di rosso e la faccia stropicciata come giacca, camicia e cravatta che indossa ormai da quasi due giorni. «Per favore, fatemi andare a dormire, solo un'oretta ». Le donne e gli uomini sulle barricate di via Cupa del Cane accolgono l'implorazione, anche gli eroi necessitano di sonno. Nel caleidoscopio di questa protesta, Perrotta rappresenta il politico più alto in grado, quello che si è maggiormente esposto, con dichiarazioni tutt'altro che concilianti. Ex calciatore dilettante, supertifoso del Napoli ovviamente nostalgico di Maradona ma con un debole per l'olandese Krol, che gli ricorda i suoi vent'anni, dal 2006 è il sindaco di Marano, 60.000 abitanti senza soluzione di continuità da Napoli e Mugnano, con le cave a delimitare i rispettivi confini demaniali. La scorsa notte è stato lui a condurre la trattativa con la Polizia. Il coordinatore regionale del Pd lo ha richiamato appellandosi alla fascia tricolore che indossa. Lui ha risposto facendo svolgere il consiglio comunale in piazza Titanic. «Ci venisse lui, tra queste persone, a dire che la discarica va fatta per il bene comune. Si accomodi. Poi vediamo cosa succede».
La politica vista da piazza Titanic è una cosa strana, completamente dissociata dalle logiche nazionali. Così, l'iperattivo Carlo Migliaccio, presidente della commissione Ambiente del comune di Napoli, dipietrista di stretta osservanza, si scambia baci e abbracci con la delegazione Pdl di Mugnano. E ai tavolini del bar De Rosa, sul viale che porta a Marano, il destrissimo Enzo Micillo, presidente del circolo cittadino di Alleanza Nazionale, beve, ride, dice peste e corna della Polizia con l'ultrasinistro Pietro Rinaldi, capo dei Disobbedienti e dei centri sociali napoletani. Sussurra il primo, con pudore: «In vita mia non mi sarei mai aspettato di stare contro le forze dell'ordine». Tranquillo, prima o poi capita a tutti, gli risponde l'altro.
A suo modo, Perrotta rappresenta tutto questo mischiamento, che almeno ha il vantaggio di farlo sentire meno solo. «Sono deluso dall'atteggiamento di tanti miei amici e compagni di partito, passati dalla solidarietà all'indifferenza non appena è arrivata la scomunica». Terminata l'ora di sonno, salutata la Mussolini che gli dà appuntamento al bar Gambrinus per l'aperitivo della domenica, trova ospitalità alla sede di Mugnano del Popolo della Libertà, che a occhio doveva essere di An. Il sindaco si lascia andare su un sedia, allunga le gambe. Sul muro dietro di lui campeggia la gigantografia di un sorridente Giorgio Almirante. «Non mi sento rappresentato da uno Stato che picchia le vecchiette. Dicono che dietro alla protesta c'è la camorra. Non è vero. Io sono un maranese orgoglioso, protesto prima come padre che come sindaco. Dai tempi del clan Nuvoletta le cose sono cambiate. Certo, la camorra da queste parte esiste. E più tempo passa, più rischia di infiltrarsi e di inquinare la nostra lotta».
Come al presidio di via Cupa del Cane, la gente che entra per salutarlo lo chiama semplicemente Salvatore. Tieni duro Salvatore, Madonna che brutta faccia che hai, cerca di dormire. Lui annuisce, sovrappensiero, mentre cerca di domare due telefonini perennemente squillanti. Alla fine se ne andrà dalla casa madre, lui che ha sempre votato Pci, è entrato in politica con tessera del Pds, e via discendendo fino ad oggi. Fa spallucce. «Non importa. Mi riconosco in questa lotta, ne va anche del futuro dei miei figli». Il suo assistente gli legge a voce alta la frase riportata nel manifesto sulla parete di fronte. «Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale niente lui». Perrotta strizza gli occhi verso l'uomo immortalato in bianco e nero nel poster, un vecchio signore con barba e bastone. «Chi è, Karl Marx?» No, Ezra Pound. Ma a Chiaiano questi sono dettagli da poco

Corriere della Sera 25.5.08
La sinistra e le «barricate»
Velardi: sbaglia. Erri De Luca: no, è vera democrazia
di Lorenzo Salvia


ROMA — Una protesta civile e democratica oppure l'ennesimo no che dà una mano a coprire di rifiuti la Campania? Il sindaco Salvatore Perrotta convoca il consiglio comunale in piazza (seduta permanente) per impedire il passaggio verso la cava di Chiaiano.
Un sindaco del Partito democratico sulle barricate. E la sinistra, in Campania, che ne pensa?
Erri De Luca quasi non aspetta la fine della domanda: «Siamo nel più perfetto funzionamento della democrazia. Questa — dice lo scrittore — è legittima difesa esercitata in modo civile dalle autorità elette da quei cittadini».
D'accordo Gennaro Migliore, ex capogruppo di Rifondazione alla Camera: «Protesta più che legittima perché non violenta. Il sindaco fa bene ad opporsi in questo modo.
Sembra quasi che il governo voglia fare quella discarica solo per far vedere che ha la schiena dritta».
Ma se ci si avvicina alla sponda del Partito democratico, il giudizio sul sindaco Perrotta cambia eccome. «In parte comprendo — spiega Claudio Velardi, assessore al Turismo della Campania ed ex braccio destro di D'Alema a Palazzo Chigi — ma non la condivido affatto. È vero che finora le autorità nazionali e regionali sono state indecise e contraddittorie. Ma adesso si è deciso di voltare pagina. E al sindaco dico che con proteste di questo tipo una soluzione non la troviamo più». Ancora più netto il filosofo Biagio De Giovanni, ex eurodeputato Ds: «Queste sono false forme di democrazia partecipativa. La Campania è ridotta così anche perché per anni è bastato mettersi la fascia tricolore, scendere in piazza e difendere gli interessi locali a discapito della comunità. Va bene il dialogo ma no alla dittatura della minoranza». Parole sottoscritte dal segretario del Pd campano Tino Iannuzzi: «Bertolaso ha già convocato una riunione per consultare le popolazioni locali. È quella la sede dove gli amministratori possono esporre le proprie ragioni. E sono sicuro che i sindaci, tutti i sindaci, saranno responsabili e aiuteranno a realizzare le decisioni prese».

Corriere della Sera 25.5.08
L'«Unità» boccia l'idea di Alemanno. Contrario il fratello di Berlinguer. Chiamparino: evitiamo toni esagerati
«Via Almirante». Gelo a sinistra, però c'è chi «apre»
di Fa. Ro.


ROMA — Le foto, in bianco e nero, sono due. E, in entrambe, c'è Giorgio Almirante. In quella più grande: con il suo doppiopetto gessato, alza il braccio destro nel saluto romano (si scorgono dei microfoni: è chiaramente su un palco, durante un comizio). La seconda è più piccola: e lui, Almirante, appare il più anziano, in impermeabile e cappello, tra un gruppo di ragazzi che impugnano bastoni (si suppone siano i gradoni di qualche facoltà dell'università romana La Sapienza).
Le foto, ieri, sull'Unità. A pagina 7. Con un articolo, firmato da Vincenzo Vasile, che parte dalla prima e ha un titolo eloquente: «Ordinava di fucilare i partigiani, Roma non può dargli una via». Perché questa, come noto, sarebbe l'intenzione del sindaco Gianni Alemanno, ex militante del Msi, poi uno dei colonnelli di An.
L'Unità alza il tono delle polemiche. Sentite: «Razzista e fascista. Ricordate chi era Almirante ». Seguono alcuni passi che il fondatore del Movimento sociale italiano scrisse nel 1938 sulla rivista La difesa della razza:
«Il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l'Italia abbia mai tentato...».
Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico, impiega pochi minuti a leggere l'intera pagina, poi dice: «Sono sdegnato. L'Unità
pone un problema serio: non si può intitolare un strada di Roma a uomo che promosse simili pregiudizi razziali e che successivamente aderì pure alla Repubblica di Salò...». Professor Berlinguer, Almirante divenne però poi un importante protagonista della vita parlamentare italiana e... «E venne, lo so, ai funerali di mio fratello. Ma questo, purtroppo, non sposta un dato certo». Quale? «Per lunghi anni, la vita politica di Almirante è stata tragica».
E infatti, riflette Emanuele Macaluso, altro ex esponente di rango del Pci, «non si capisce la scelta di Alemanno...». Alemanno vuol dare un riconoscimento ad Almirante, che ritiene essere stato «un precursore» della moderna destra democratica. «Senta: quello di Alemanno o è infantilismo politico o è un atto di pura provocazione...».
Ma no, nemmeno una provocazione, teme il sindaco di Venezia Massimo Cacciari. «Piuttosto direi una provocazioncella... in fondo, Alemanno e compagnia si proclamano post-fascisti, o no?». Interviene il collega torinese, Sergio Chiamparino: «Vede, io tenderei a evitare sensazionalismi». Le polemiche, in effetti, si stanno facendo piuttosto roventi. «E questo, beh, è sbagliato. Abbiamo avviato un certo tipo di dialogo e, per questo, non rovinerei tutto con una simile vicenda».
C'è voglia di ragionare con pacatezza. Così ad Antonio Polito, direttore del Riformista, viene un'idea: «Per alcune personalità piuttosto controverse, suggerisco che prima di intestargli una strada si facciano trascorrere 50 anni dal giorno della loro morte». Come per gli archivi segreti. «Esatto. Così avremo tutto il tempo per fugare ogni sospetto...».
Marco Pannella fila in taxi verso l'aeroporto: «Mi invitavano ai loro congressi, io salivo sul palco e glielo dicevo chiaro e tondo: se volete smettere d'esser considerati fascisti, nel vostro Pantheon dovreste mettere anche i fratelli Rosselli. Ad Alemanno, perciò, consiglio di dedicare una strada pure a loro...».

Corriere della Sera 25.5.08
Lo scrittore ebreo Usa. Israele respinge Finkelstein


TEL AVIV — Norman Finkelstein (foto), il controverso docente universitario ebreo americano noto per le sue posizioni critiche verso Israele, è stato fermato venerdì al suo arrivo all'aeroporto di Tel Aviv. Interrogato, trattenuto in una cella dello scalo per 24 ore, è poi stato rispedito indietro con un bando decennale. Lo ha riferito l'attivista per i diritti civili Mussa Abu Hashash, che aveva previsto di incontrare Finkelstein e di guidarlo in visita nei Territori. Figlio di un'ebrea polacca sopravvissuta ai campi di sterminio, ha criticato la guerra in Libano condotta da Israele nel 2006. Finkelstein è noto soprattutto per il libro «L'industria dell'Olocausto», in cui denuncia lo sfruttamento politico della Shoah.

Corriere della Sera 25.5.08
Ricostruiti i complessi rapporti fra il genio originario di Baku, premiato con il Nobel poco prima della morte, e la dittatura comunista
Le molte vite del fisico di Stalin
Carcerato, riabilitato, dissidente: il destino dello scienziato atomico Lev Landau
di Giulio Giorello


Lev Landau fu uno dei più profondi, talentuosi e preparati fisici teorici dell'Unione Sovietica Un manifesto degli Anni 30 esalta la potenza sovietica. Più a sinistra: Lev Landau e una riproduzione a grandezza naturale delle due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki

Perché brillano gli astri nel cielo? L'ipotesi di Lev Davidovic Landau (1908-1962) era che il chiarore stellare fosse dovuto all'energia rilasciata da protoni (di carica elettrica positiva) e da elettroni (di egual carica, ma negativa) che «si fondevano » in neutroni (privi di carica elettrica). Benché non rappresenti il lavoro più importante di Landau (o Dau, come veniva familiarmente chiamato da amici e colleghi), quel testo, pubblicato su «Nature» (1938), non privo di aspetti discutibili, doveva attirare l'attenzione della comunità scientifica internazionale. Già l'anno dopo l'americano Robert Julius Oppenheimer — destinato a diventare celebre soprattutto per la direzione del Progetto Manhattan, che portò alla messa a punto della prima bomba atomica — forniva un modello assai preciso delle stelle di neutroni, e successivamente (con l'allievo Hartland Snyder) delineava l'astrofisica di quei corpi celesti dotati di un campo gravitazionale talmente elevato da intrappolare persino la luce che passava nelle loro vicinanze (saranno poi detti buchi neri).
Così «il mondo incantato delle particelle elementari» — elettroni, protoni, neutroni, eccetera — contribuiva a spiegare il comportamento delle grandi strutture che popolano l'universo. Meno note erano in Occidente le ragioni "strategiche" che avevano spinto quel giovane fisico, originario di Baku (attualmente capitale dell'Azerbaijan) e che allora lavorava a Leningrado (oggi tornata San Pietroburgo), ad affrontare un problema che avrebbe richiamato l'attenzione «non solo degli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto degli addetti al potere del Paese dei Soviet». Sono parole di Fabio Toscano: nel saggio Il fisico che visse due volte (Sironi editore) ricostruisce gli intrecci tra la ricerca del maggior «genio sovietico » della fisica e le vicende della Grande Russia rimodellata da Lenin con la rivoluzione d'Ottobre e vessata da Stalin.
Di ascendenza ebraica, in gioventù estimatore di Lenin come di Einstein («il più grande di ogni tempo»), sfrontato al punto di provocare il brillante ma taciturno Dirac («troppo matematico»), Dau era paragonato per impetuosità e irriverenza al «poeta e rivoluzionario » Vladimir Majakovskij. Vagabondo della fisica, aveva percorso Svizzera, Germania, Gran Bretagna e Danimarca, conoscendo e collaborando con giganti della meccanica quantistica come Werner Heisenberg e Niels Bohr.
Erano i tempi in cui costoro avevano scoperto «un universo profondamente diverso da quello che la scienza precedente aveva trasmesso » (lo scrive Eugenio Scalfari nella prefazione a una nuova edizione italiana di Fisica e oltre dello stesso Heisenberg): quel che turbava i fisici ancorati alla tradizionale concezione della causalità — in particolare, il principio di indeterminazione enunciato nel 1927 da Heisenberg — era la maggior ragione di "incanto" per il giovane sovietico. La libertà della nuova fisica sarebbe andata di pari passo con la liquidazione del vecchio ordine sociale promessa dal comunismo internazionale. Tornato in patria (1931), deciso a rifondare la fisica teorica nella terra del «socialismo in un solo paese», doveva accorgersi ben presto dello scarto tra sogno d'emancipazione del proletariato e pratica politica bolscevica. Era solito esibire «un enorme coccodrillo di gomma verde penzolante dal lampadario dell'ufficio», mentre esaminava — «adagiato su un divano, i piedi sulla scrivania, un'enorme cravatta rossa al collo» — coloro che chiedevano di poter collaborare con lui. Un cartello sulla porta avvisava: «Attenzione. Morde! ». Ma in quei tempi d'acciaio, anche i coccodrilli erano "fuori linea": Landau, attaccato dai colleghi più conservatori e spiato dalla polizia politica, doveva passare dalle stelle alla Lubjanka!
Viene in mente una delle storie di Carl Barks («Zio Paperone e il tesoro sotto zero») che è di recente apparsa nella raccolta acclusa al Corriere della Sera. Il magnate di Paperopoli batte in un'asta per il possesso di una sostanza misteriosa — il bombastium — il dittatore della «grande Brutopia», che aveva buttato sul piatto della bilancia tutto il Pil del suo Paese e «tutti i lavandini del suo popolo felice» — ben cinque! Salvo poi essere derubato dal Brutopiano che infine caccia via quello strano elemento quando scopre che è capace solo di produrre... dei gelati.
Nella storia reale, doveva proprio essere Dau (scarcerato nell'aprile del 1939) a lavorare al vero bombastium, cioè all'arma atomica sovietica. Per colmare il divario con gli Stati Uniti d'America, colui che era stato bollato come provocatore era tornato «uno dei più profondi, talentuosi e preparati fisici teorici del-l'Urss ». Cominciò così la sua "seconda vita": sempre più scettico circa la possibilità di realizzare ciò che è irrealizzabile (l'utopia) ricorrendo alla brutalità, doveva confessare di aver «ballato di gioia» alla notizia della morte di Stalin (1953) e salutare come «puro eroismo rivoluzionario» l'insurrezione ungherese del 1956.
Scrisse una volta Einstein: «È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio». Ma, nonostante l'ostilità dei politici comunisti, Landau doveva ancora stupire il mondo scientifico per i suoi lavori sulla superfluidità, salutati come il maggior «passo mentale verso una visione più astratta, ma contemporaneamente più vicina alla natura».
Altro che bombe o lavandini per il popolo felice! Il vecchio Coccodrillo, pur colpito nel corpo, sapeva mordere ancora. Insignito del premio Nobel alla fine della sua esistenza, doveva venire ufficialmente riabilitato dalle autorità dell'Unione Sovietica soltanto nel 1990.
Come nota Fabio Toscano, «alla fine dell'anno successivo la bandiera rossa fu ammainata dal pennone del Cremlino».

Corriere della Sera 25.5.08
Liechtenstein: circa 130 fra dipinti, disegni e plastici di 19 artisti russi al Kunstmuseum
Flussi e riflussi di un Quadrato nero
E Malevich lascia il Futurismo per inventare il Suprematismo
di Sebastiano Grasso


«Nel suo sviluppo storico, il Suprematismo ebbe tre stadi: nero, colorato e bianco» scrive, nel 1920, Kazimir Malevich nel saggio dedicato al movimento creato nel 1913 e un paio di anni dopo riassunto nel manifesto scritto assieme al poeta Vladimir Majakovskij.
Nel 1913, in piena atmosfera futurista, Malevich progetta una serie di riviste ispirate al movimento di Marinetti e fa una mostra di dipinti «neoprimitivisti ». Titolo, Realismo trans-mentale e Realismo cubo-futurista. Per il Futurismo, Malevich ha una sorta di amore- odio. Amore, perché ha risolto schemi preesistenti; odio (anche se l'espressione è un po' esagerata), perché lo fa sentire ingessato ed egli vuole uscirne a tutti i costi.
Nel dicembre — nel caso si volesse dare una data precisa alla nascita del Suprematismo — disegna scene e costumi per l'opera teatrale Vittoria sul Sole, realizzata assieme al musicista Mihail Matjuscin e al poeta Aleksej Krucenyh. I tre si incontrano ad Uusikiskko, in Finlandia, nel luglio del 1913. Tre giorni di chiacchierate che chiamano pomposamente «Primo congresso panrusso dei futuristi», in cui decidono di creare «un'opera-mistero ». Si dividono i compiti: parole, musica, scene e costumi. Autore del prologo? Velimir Hlebnikov.
L'opera è rappresentata due volte a San Pietroburgo. Invece di alzarsi, il sipario viene lacerato. Kazimir sale sul palco e recita.
Reazioni? Pubblico diviso. «Entro i confini della scatola scenica è nata una stereometria pittorica, determinando un rigoroso sistema di volumi, tale da ridurre al minimo gli elementi della casualità che il movimento delle figure causava dall'esterno» scrive entusiasta Benedikt Livsic. Altri, invece, non ne vogliono sapere.
Comunque sia, Vittoria sul Sole apre la strada al Suprematismo, che si concretizza, circa due anni dopo, nella mostra di 39 quadri di Malevich O,10 (zero- dieci) dove linee, croci, quadrati, cerchi e altre figure geometriche, su fondo bianco, rompono non solo con arte e letteratura del momento, ma anche con la sua produzione precedente: «Si cominciava da zero».
La premessa? Certo dovendo la pittura svilupparsi in maniera logica, il pittore suggerisce di passare «dall'Impressionismo al Suprematismo», attraverso Cézanne e gli artisti di Cubismo e Futurismo. Tre le forme del primo stadio (quello «nero»): quadrato, croce e cerchio. Dal primo, come in una esplosione da fuoco pirotecnico, si espande, a raggio, «l'universo suprematista».
Ed è proprio dal Quadrato nero che parte la mostra del Liechtenstein, a cura di Friedemann Malsch, dedicata a Malevich (1879-1935) e agli influssi da lui avuti su pittori come El Lissitzky, Rodtschenko, Suetin, Kljun, Tschaschnik, Leporskaja, Stenberg, Chidekel, Kluzis, Popova, Rosanowa, Strzeminski, Kobro, Kandinsky, Dexel, Buchholz, Moholy-Nagy e Kassák. Esposti, di Malevich, una trentina di lavori; degli altri, un centinaio.
Certo il protagonista resta sempre Kazimir, ma in questa sorta di teatro del colore si registrano entrate in scena continue di attori che nulla hanno da invidiare al loro «maestro». Del quale sono presenti dipinti, disegni e plastici degli anni Venti: composizioni suprematiste astratto-geometriche, ma anche opere che testimoniano il suo ritorno al figurativo ( Giovane con l'asta,1932).
Come si ricorderà, una volta che Malevich si convince che il Suprematismo ha fatto la sua parte, torna alla pittura tradizionale. Peccato che in questa mostra manchi il celebre Autoritratto, eseguito un paio d'anni prima della morte, nel 1933, in cui egli si era dipinto alla maniera rinascimentale.
KAZIMIR MALEVICH Liechtenstein, Kunstmuseum, sino al 7 settembre. Tel. +423/2350329