Chi semina vento
di Antonio Padellaro
A proposito del doppio pestaggio di un immigrato bengalese e di un cittadino italiano conduttore di una radio gay, il sindaco di Roma Alemanno parla di «xenofobia di quartiere ma senza movente politico». Un curioso gioco di parole visto che nulla è più politico del vento fetido della violenza di strada che si organizza in giustizieri della notte e bande di energumeni dediti alla pulizia etnica e di ogni altra diversità dalla pura razza ariana. Quanto alla dimensione territoriale, diamo tempo al tempo e presto i picchiatori di quartiere potranno confluire nella guardia nazionale targata Lega di governo, che provvederà ad armarli di pistole e fucili come da disegno di legge. La frase di Alemanno è un maldestro tentativo di salvare capra e cavoli perché se le svastiche del Pigneto non c’entrano niente con la croce celtica che egli porta al collo, esiste eccome un robusto nesso tra l’ondata di raid nazifascisti con morti (Verona) e feriti e l’incessante straparlare di fermezza da parte della destra. Ecco quindi, caro Alemanno, che la politica, la vostra politica della paura e della insicurezza, sparsa irresponsabilmente a piene mani sta producendo gli inevitabili effetti come i bacilli di un morbo ormai fuori controllo. È comprensibile che, vinte le elezioni, per gli apprendisti stregoni in doppiopetto comporti un qualche imbarazzo correre di qua e di là a constatare tra teste rotte e negozi devastati i risultati di tante parole fuori luogo. Invece di minimizzare o di scaricare sul presunto lassismo di chi c’era prima i vari Alemanno farebbero bene a fronteggiare con la massima urgenza questa offensiva dell’odio, immersa nella subcultura del menare le mani oltre che in nuvole di cocaina. Prima che il combinato disposto di teste rasate e bravi padri di famiglia bastonatori venga a presentare il conto anche a loro.
l’Unità 26.5.08
Razzismo. L’aria di Roma
Paolo Soldini
È inutile girarci intorno: una soglia è stata varcata. Quel che è accaduto nel quartiere romano del Pigneto, sabato scorso, nella capitale d’Italia non ha precedenti. C’erano stati, in passato, episodi di xenofobia e accenti di razzismo.
Ma raid organizzati, finalizzati a riscuotere consenso in un quartiere (un quartiere con una sua bella storia civile e democratica e solidi legami con la sinistra), no, quelli non si erano mai visti. La spedizione punitiva con i bastoni e le croci uncinate è grave in sé, ma è ancora più grave per la brutalità con cui dice che il clima è cambiato. Per l’improvviso saltare sulla scena di chi, a suon di mazzate che prima o poi finiranno in tragedia, vuol fare di Roma un città di ronde (e peggio), le vuole sottrarre un pezzo, importante, della propria anima. Che è - o dobbiamo dire: è stata? - la preziosa capacità di convivere senza tensioni con la straordinaria varietà del mondo, di accogliere, di abbracciare e digerire nel suo ventre vorace popoli, etnìe, culture, colori della pelle e dei pensieri, abitudini, comportamenti, modi di vestire, di mangiare, commerciare, pregare, filosofare. Misurando tutti con la saggia bonomia di chi, in tanti secoli, ne ha viste troppe per non capire che solo in questo sano miscuglio vive davvero una grande città.
È stato sempre così. «Chiara cosa è che la minor parte di questo popolo sono i Romani, poiché quivi hanno rifugio tutte le nationi come commune domicilio del mondo» scriveva Marcello Alberini, che fu testimone del Sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi di Carlo V. Nella primavera di quel fatale 1527 tra le 54 mila “bocche” che, distribuite in 9300 “fuochi”, costituivano la popolazione residente della città eterna, il 58% circa non era originario di Roma o dei territori dello stato pontificio: era forestiero, insomma, e il 18% era di nazionalità non italiana. Altro che l’immigrazione di oggi: la città del soglio di Pietro era di gran lunga la più cosmopolita del mondo. C’erano preti, commercianti, famigli, guardie svizzere, teologi, studiosi d’arte e d’antichità, eruditi d’ogni angolo d’Europa. E lavoratori più modesti: servi, stradini, armaiuoli, garzoni di fabbri, pecorai, prostitute (molte: dei 9300 “fuochi” oltre 2000 erano guidati da donne e costituiti da una sola persona). Nel quartiere di Schiavonia, intorno al porto di Ripetta, erano concentrati slavi, albanesi, ruteni e rumeni di rito cattolico; verso Borgo e a Trastevere predominavano tedeschi, greci, francesi ed ebrei orientali immigrati (non i 1800 della comunità locale, che erano considerati romani, romanissimi e abitavano in quello che sarebbe divenuto poi il ghetto). La Roma di Clemente VII, insomma, era ben più “invasa” dagli stranieri della Roma che strilla oggi contro l’“invasione”. L’invasione, quella vera, arrivò da fuori e per ragioni squisitamente politiche, quel brutto 6 maggio in cui le truppe luterane e tedesche dell’imperatore (ma con loro c’erano anche cattolici e italiani) ripeterono l’impresa di Brenno e di Alarico. Fino ad allora il crogiuolo Roma aveva mescolato i suoi ingredienti di etnìe, lingue, culture (e persino religioni) con piena soddisfazione di tutti, romani e non romani. Per via della tradizione millenaria d’una città che era stata capitale d’una res publica e di un impero in cui la cittadinanza si acquisiva per jus soli e che ospitava la massima autorità dell’unica chiesa che si pretendeva universale.
Come è potuto accadere che una città con queste tradizioni sia caduta anch’essa vittima della sindrome “ciascuno a casa propria”, che è, qui come ovunque, l’humus sul quale cresce la violenza contro gli “altri”, i “non noi”? Una spiegazione è data da quella parolina (infame) che è stata la chiave con la quale si è pensato di aprire tutte le porte nella passata campagna elettorale: “sicurezza”. È stato allora che ha vinto un sistema di sillogismi tutti sbagliati ma tutti possentemente evocativi: a Roma ci sono troppi stranieri, gli stranieri delinquono più degli italiani, la criminalità è aumentata e quindi tutti siamo più insicuri. Se si guarda alle statistiche, che fino a prova contraria restano l’unico dato oggettivo sul quale dovrebbe essere lecito ragionare, Roma non ha “troppi” stranieri. Ne ha, proporzionalmente, meno di tutti quelli che ha avuto in tutta la sua storia salvo il periodo che va dall’inizio del XIX secolo alla fine del fascismo. E ne ha, soprattutto, molti meno, percentualmente, di quasi tutte le metropoli europee comparabili: meno di Madrid, di Milano, di Torino, di Berlino, di Monaco di Baviera; molto meno di Londra, di Parigi, di Amsterdam, di Bruxelles, di Francoforte. Secondo punto: è vero che gli stranieri, statisticamente, delinquono più degli italiani? Se si tiene conto degli arresti e della quantità dei reati, certamente sì. Il che, peraltro, ha fin troppo facili spiegazioni socio-psicologiche nello stato di povertà e di degrado in cui vivono molte comunità, in certe diversità culturali e nelle difficoltà di integrazione. Ma se si guarda ai delitti più gravi (omicidi, rapine, sequestri, violenze sessuali), a dispetto di certi clamori di cronaca, per niente innocenti, il primato resta saldamente in mano ai nostri connazionali. Infine: la criminalità non è affatto aumentata, negli ultimi anni. Anzi, come dicono le statistiche Eurostat e Istat è diminuita in maniera sensibile. Roma, con una media di 0,4 omicidi per 100 mila abitanti (contro i 4,7 di Amsterdam, i circa 3 di Parigi e una media superiore a 2 nelle grandi città tedesche) è di gran lunga la metropoli più sicura d’Europa. Sempre in termini di omicidi, peraltro, e malgrado la presenza di mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita, l’Italia intera con l’1,2 è in un confortevole undicesimo posto tra i Paesi della Ue, ben lontana dal record della Lituania (9,4).
E però, come recita icasticamente il titolo di un rapposto europeo, in Italia “la paura aumenta anche se la criminalità diminuisce” e il paradosso, a giudicare da quel che si sente in giro, vale ancor più per Roma. Non è il caso di ribadire qui quello che (sia pure ancora troppo timidamente) si è detto nei giorni scorsi sul ruolo a dir poco deteriore che hanno avuto i media nel titillare questa paura. Pur se di una discussione seria e severa su come funziona il sistema dei media in Italia, dal conflitto d’interessi in giù, e di quello che (non) fanno i giornalisti ci sarebbe davvero un gran bisogno.
Conviene limitarsi a due o tre dati sui quali, e non solo a sinistra, sarebbe necessario che si ricominciasse a discutere. Il primo è la comprensione del carattere epocale dei fenomeni di migrazione. Basterebbe conoscere un po’ di storia per sapere che i fenomeni migratori hanno accompagnato tutta la storia dell’umanità: dal tempo delle colonizzazioni per onde dei primi agricoltori mesolitici alle invasioni barbariche nell’impero romano alle conquiste normanne alla grande migrazione europea verso le Americhe ci sono sempre stati movimenti di popolazioni che lasciavano terre senza risorse per zone più ricche. La cosa poteva avvenire pacificamente o con la guerra, ma la motivazione era sempre la stessa: nessuno accetta di morire di fame se lontano da casa sua può sfamare sé e la propria famiglia. La storia ci insegna anche che le società che hanno cercato di resistere all’arrivo degli “altri”, che invece di integrarli hanno cercato di fermarli e di respingerli con le armi, hanno conosciuto un rapido declino. Vivere in una fortezza può apparire sicuro, ma alla fine diventa una prigionia. Gli individui si isolano, perdono i contatti, anche economici, con il proprio contesto sociale: alla fine l’intera struttura sociale cade su se stessa, come l’impero romano nel IV secolo o l’apartheid in Sud Africa qualche decennio fa.
L’idea che i flussi migratori possano essere “bloccati”, magari mandando le cannoniere nelle acque internazionali, è sbagliata prima ancora che moralmente discutibile. Se non si riesce a promuovere condizioni accettabili nei Paesi da cui i profughi provengono - e certo non è facile - l’unica strada è quella dell’accoglienza, del governo dei flussi e della integrazione. Non è questione di “buonismo” o di “cattivismo”: è così punto e basta.
Ma attenzione: il “cattivismo” non è una perversione momentanea, un malanno dello spirito pubblico da curare con le prediche e i buoni sentimenti. Prendiamone atto: la maggioranza dei romani che hanno votato ha eletto un sindaco che porta la croce celtica appesa al collo e vuole dedicare una strada a un uomo che scriveva infamie antisemite “a difesa della razza” e non si è mai pentito - non pubblicamente, almeno - di averlo fatto. D’altronde, Giorgio Almirante, fucilatore di partigiani, è considerato un eroe civile dall’attuale presidente della Camera, che giudica più grave il rogo di una bandiera israeliana dell’omicidio di un ragazzo compiuto dai camerati veronesi dei naziskin romani, quelli che negano che l’Olocausto sia mai avvenuto. Il fatto che pochi abbiano messo insieme le due cose, il revisionismo storico alla casareccia dei Fini e degli Alemanno, e l’insorgenza di un nuovo razzismo xenofobo ci dice quanto l’idea che “il passato è passato” e che il voto popolare, espresso liberamente e democraticamente, emenda ogni colpa ed esime da ogni consapevolezza storica si stia diffondendo in vasti strati di opinione, anche a sinistra. Ma se “difendere la razza” in nome della “purezza” del sangue italiano non era poi tanto sbagliato ieri perché, oggi, ci si dovrebbe fare qualche problema a prendere i bastoni e cacciare i “negri” in nome della “purezza” d’un quartiere romano?
l’Unità 26.5.08
Massimo D’Alema: «Rischi per lo Stato laico da un patto tra Chiesa e destra»
di Andrea Carugati
In Italia c’è un rischio per la laicità dello Stato. Che si concretizzerà se la Chiesa «cederà alla tentazione demoniaca del potere, che già ha prodotto errori nella sua storia». Se cioè ci sarà un «patto di potenza» tra la Chiesa e la destra, un patto cementato da leggi che traducano la morale cattolica in norme «imposte a tutti». Massimo D’Alema lancia l’allarme sulla laicità durante la sua relazione conclusiva del seminario su “religione e democrazia”, organizzato dalla Fondazione Italianieuropei, che si è chiuso ieri a Marina di Camerota. Lo fa senza alcuna vis polemica o laicista, al termine di tre giorni di riflessioni alte, con intellettuali di fama internazionale come Remo Bodei e Tzvetan Todorov.
Secondo D’Alema questa alleanza tra Chiesa e destra metterebbe in pericolo il «carattere pluralistico, democratico e liberale dello Stato». Di qui il monito alle gerarchie cattoliche, affinché «non indirizzino il proprio peso politico da una parte, ottenendo in cambio la tutela di principi e valori che diventano leggi valide per tutti». Anche per chi cattolico non è, e su aborto e fecondazione, ad esempio, ha convinzioni morali diverse.
L’ex ministro degli Esteri inserisce questo concetto in una lunga relazione sulla crisi dell’Occidente, dopo la sconfitta delle ideologie di mercato che hanno dato spinta alla globalizzazione: crisi in cui la religione ha assunto un ruolo «di supplenza», di «identità e protezione» per società sempre più «smarrite e incerte sul proprio futuro». In questo contesto «la destra ha preso a prestito la religione come elemento coesivo nel conflitto dell’Occidente con altre civiltà, come è avvenuto, con le dovute differenze, nel mondo islamico». La destra lo ha fatto perché «è stata migliore interprete di ciò che si muove nel fondo delle nostre società».
E tuttavia questo esito, l’alleanza tra chiesa e destra, è tutt’altro che scontato: anzi, secondo D’Alema, il ritorno della religione in primo piano nello spazio pubblico potrebbe avere effetti di tutt’altro segno se la Chiesa non cederà alla tentazione del fondamentalismo: «Il sentimento religioso non solo non è incompatibile con la laicità, ma può ridare forza e prospettiva alla politica», spiega. Può essere uno di quegli «affluenti» di cui «la politica ha bisogno per tornare a suscitare passioni». Ma perché questo avvenga è necessario che all’unità ecclesiale si affianchi un forte «pluralismo delle scelte sociali e politiche». Che emergano le «linee di frattura dentro il movimento cattolico». Ed è necessario che la chiesa recuperi la sua «carica di universalità», che «non si confini in una alleanza con l’Occidente». D’Alema si richiama al Concilio, alla «Gaudium et spes» cita l’intervento di sabato qui al seminario di monsignor Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana, che aveva ricordato come «neanche un Papa possa mettere in discussione il Concilio Vaticano II, solo un nuovo Concilio può farlo». E aveva invitato a «non identificare le posizioni della chiesa con quelle della gerarchia», a guardare «anche a cosa matura e lievita nella base cattolica», nell’associazionismo. D’Alema accoglie questa prospettiva, attento a cosa si muove dentro la Chiesa e invita a più riprese a un «dialogo fecondo» tra laici e cattolici.
C'è spazio anche per un supplemento di riflessione sulla sconfitta elettorale. D'Alema cita l'analisi di Mauro Calise e dice: «Non abbiamo tenuto conto di queste sconvolgenti novità,ci siamo rivolti a un voto di opinione razionale, senza capire che stava tornando prepotentemente un voto identitario, mosso soprattutto da passioni e paure, anche dalla forza di argomenti irrazionali. La destra ha intercettato questo spostamento di pezzi di comunità». Secondo D'Alema, però è troppo semplicistico prendersela con «l’ignavia dei dirigenti», che accusarli di non aver fatto sentire abbastanza i valori del centrosinistra. «Io temo che le tante nostre buone ragioni, dalla pace, alla tolleranza, ai diritti, non riescano a costruire consenso per l’impotenza della politica, per l’indebolimento degli strumenti in grado di agire sulla realtà,a partire dallo stato nazionale». Conclude D’Alema: «Abbiamo passato tanto tempo a decostruire, dopo che la politica aveva suscitato aspettative ipertrofiche: ora è il momento di ricostruire, un riformismo senza visione del futuro è solo ingegneria sociale che non regge la sfida con fondamentalismi». «Ma è un programma di lungo respiro...». Intanto il lavoro della Fondazione va avanti: «Non voglio fare un monastero benedettino», sorride D’Alema. «Né fare dibattiti di sezione. Vogliamo rimettere in comunicazione politica e cultura, in un progetto collegato al Pd ma non partitico, capace di dialogare anche con altri».
l’Unità 26.5.08
La Lega ora vuole la Guardia nazionale armata
Dalle ronde padane alle ronde di Stato. È la proposta di legge del senatore Stiffoni
di Natalia Lombardo
RONDE DI STATO Potrebbe sembrare una boutade, se non fosse che la Lega di governo, e non solo questa, sta incendiando il clima con razzismo e intolleranza. Suggestionato da troppi film western, forse, il senatore Stiffoni vuole la Guardia Nazionale
anche in Italia, come l’Army National Guard che in America esiste da trecento anni. è federale ma risponde al presidente degli Stati Uniti. È la proposta di legge che ha presentato il senatore del Carroccio, Piergiorgio Stiffoni, noto nel trevigiano per le sue «battute» razziste (come il rimpianto per i forni crematori) che provocarono l’indignazione della diocesi e un’indagine della Procura di Treviso.
Sarebbe l’ufficializzazione delle «Camicie verdi», le ronde leghiste anti-immigrati. Una Guardia Nazionale in salsa padana. Truppe da 42mila uomini e donne con armamento leggero: una Beretta calibro 9 e un fucile d’assalto Ar 79/90 da 5,56.. Truppe comandate da colonnelli dell’esercito e divise in reggimenti regionali con distintivo. Potrebbe intervenire nei casi di calamità naturali, attentati o incidenti in siti produttivi, ma anche per gestire l’ordine pubblico se richiesto dal governo o dai presidenti di Regione. Ecco fatto: reggimenti di padani scagliati contro le famiglie campane? I «Napoletani furbetti», come titola ieri Libero, tanto perché siamo in vena di dialogo... Persino La Russa si rifiuta di fare il Generale Custer al comando di truppe sui siti delle discariche? Niente paura, secondo Stiffoni la Guardia nostrana potrebbe sollevare dai presidi del territorio i reparti delle Forze Armate «impropriamente gravati».
Arruolamento su base regionale. Test psico-attitudinali per volontari che hanno finito la leva ma «senza demerito» (non è mica la Legione Straniera...) purché under 40 pelo pelo. Max 45 anni per ufficiali inferiori e sottoufficiali. Modico impegno: un giorno a settimana, paga come i militari effettivi.
Il comandante dipenderebbe dal Capo di Stato maggiore per gli ordini che vengono dal Consiglio dei ministri, i colonnelli dai presidenti dei Regione e delle Province autonome di Trento e Bolzano. Spese a carico della Difesa o delle Regioni. In pratica la polizia territoriale che era scritta nella Devolution leghista.
Speriamo che la proposta decada per mancanza di fondi.
Certo è che i leghisti hanno visto troppi film western invertendo i ruoli: i cittadini del Nord sarebbero gli indiani e gli immigrati gli «yankee» colonizzatori.
Adesso, annunciando Pontida, i manifesti fanno strillare una sorta di Toro Seduto perplesso: «La fuga dalle riserve è iniziata».
Negli Usa. Come funziona la Guardia Nazionale
L'Army National Guard (ARNG) è la più antica componente dell'Esercito Americano, nata come «milizia coloniale» il 13 dicembre del 1636 per difendere le terre dei coloni inglesi dagli Indiani Pequot. Essendo riservisti, i soldati della Guardia Nazionale lavorano part-time, partecipando alle esercitazioni una sola volta al mese e per due settimane durante i periodi estivi. L'ARNG è divisa in 3.200 unità e distribuita in oltre 2.700 distaccamenti presenti in tutti i 50 Stati, nei territori di Porto Rico, Guam, nelle Isole Vergini e nel Distretto di Columbia. Attualmente sono in 350 mila a prestare servizio nell'ambito della Guardia. Ha una doppia missione federale e statale: il Governatore dello Stato può richiedere il suo aiuto durante le emergenze nazionali (terremoti, uragani, incendi o emergenze civili), ma in vista di un intervento militare il Presidente degli Stati Uniti può pretendere il loro aiuto accanto all'Esercito. È perciò strutturata per poter rispondere a compiti di natura diversa. Per un 52% è composta da unità da combattimento (Fanteria, Artiglieria, Mezzi corazzati, Aviatore, Difesa Aerea), per il 17% da unità per il supporto al combattimento (Genio, Polizia Militare, Intelligence, Affari Civili, Comunicazioni), per il 22% da unità per il servizio di supporto al combattimento (Finanza, Relazioni Pubbliche, Personale, Manutenzione, Trasporti, Rifornimenti) e per il restante 9% da altro tipo di personale (unità del Quartier Generale). L'ARNG ha partecipato nei conflitti militari affianco all'Eserito statunitense, contribuendo nella Prima e Seconda Guerra Mondiale, in Vietnam, Kosovo e durante le operazioni Desert Storm (1990-91) e Iraqi Freedom (2003).
l’Unità 26.5.08
Bucarest a Roma: «Ora punite i razzisti»
L’Ambasciata di Romania a Roma ha chiesto alle autorità italiane quali «misure» intendono prendere per «individuare e punire» chi ha affisso un cartello xenofobo nella bacheca di un’azienda di Pieve di Soligo, Treviso. Ma chiedono anche quali provvedimenti intendano assumere per «prevenire simili casi in futuro».
Ricordate? Quel cartello dal titolo «Calendario venatorio 2007-2008» diceva: «Si comunica a tutti gli italiani l’apertura della caccia, tutto l’anno, per la seguente selvaggina migratoria: rumeni, albanesi, kosovari, zingari, talebani, afgani ed extracomunitari in genere. È sospesa da questo momento la caccia ai comunisti in quanto specie in via di estinzione, restando possibile cacciarli nelle zone di ripopolamento quali case del popolo e centri sociali. È consentito, vista la coriacità della sopracitata selvaggina, l’uso di armi quali fucili di ogni genere, possibilmente ad arma liscia, carabine di precisione e pistole di grosso calibro. In presenza di stormi numerosi è ammesso anche l’uso di bombe a mano, obici, mitragliatori automatici, gas velenosi... Si consiglia l’abbattimento di capi giovani per estinguere più rapidamente le razze». Una goliardata, s’è detto in fretta, troppo in fretta. Il clima c’è, e c’è anche chi passa a vie di fatto.
Così l’ambasciata romena chiede chiarimenti al prefetto di Treviso e ai ministri degli Esteri e degli Interni: ««il cartello è anonimo e contiene espressioni ingiuriose ed esortazioni all’allontanamento dall’Italia di cittadini di altri stati, inclusi quelli dell’Ue, come la Romania» sottolinea il Ministero degli Esteri di Bucarest. E «condanna con fermezza qualsiasi manifestazione xenofoba e razzista, nella convinzione che le autorità italiane prenderanno le misure richieste da questa situazione».
l’Unità 26.5.08
Il demone dell’insicurezza
di Luigi Cancrini
Sono straniera, lavoro da anni in Italia ma non sono ancora riuscita a regolarizzare la mia posizione. Molte persone mi hanno aiutato e ho cercato di dimostrare la mia gratitudine lavorando con serietà. Che sta succedendo adesso? Il mio restare qui lavorando è diventato un reato? Cosa potrebbe accadermi adesso con questa nuova legge?
Lettera firmata
La nuova legge dice proprio questo. Che il suo stare qui, lavorando o non lavorando, è un reato per cui sono previsti carcere ed espulsione. Se sarà espulsa e chiederà di tornare qui, le diranno di no. Se tornerà lo stesso, sarà condannata di nuovo e la pena, in questo caso, sarà pesante. Questo si legge sui giornali, almeno, perché il testo del decreto (che ha effetti immediati) e quello del disegno di legge (che, per avere effetto, deve essere prima approvato in Parlamento) non è ancora noto nei dettagli. In un modo o nell’altro, tuttavia, di questo si tratta. E fanno davvero paura il tono trionfalistico dei ministri, la soddisfazione che trapela dai commenti (quelli schierati di Feltri e quelli dei giornalisti equilibrati come Carlo Fusi de il Messaggero che sembra contento di questa “buona prova” del Berlusconi quater) e la reazione debole dell’opposizione “democratica”. Forse il Paese in cui viviamo è davvero questo, quello che vuole spostare sugli extracomunitari e sui Rom tutta la sua rabbia e tutta la sua aggressività. Non siamo diversi, forse, dagli Stati Uniti di Bush che si difendono dai messicani e dai centroamericani che attraversano il Messico per andare a lavorare da loro con una muraglia immensa difesa da uomini armati. Vogliamo davvero questo, forse: affrontare l’insicurezza e la paura di un tempo che è il nostro con una bugia, la pietosa bugia di chi ci racconta che il nostro star male dipende da un dèmone che lui (il Governo) può esorcizzare. Da cui lui (il Governo) può liberarci. Con una legge. Ascoltavo mercoledì in tv, mentre si concludeva il consiglio dei ministri di Napoli, le parole di un deputato leghista che spiegava il come e il perché di questi provvedimenti. Giovane, tronfio dotato di una mente di cui Savinio avrebbe detto che era poco ammobiliata spiegava ad un giornalista di Rainews 24 che gli emigrati clandestini di cui si dice che lavorano, in effetti sono qui solo per delinquere. Che quando esibiscono documenti per le sanatorie (che stavolta, giurava, non si faranno, anche se altri dei suoi, nello stesso momento, dicevano il contrario parlando delle badanti) esibiscono in realtà “carta straccia”: che non lavorano dunque perché sono solo dei parassiti e che allontanarli con una legge è il dovere principale dei politici eletti oggi nel nostro Parlamento. Dotato di una sua logica infantile ma stringente, il discorso del neodeputato ruspante e leghista mi è sembrato importante per capire come andranno le cose in Parlamento quando le proposte del Governo arriveranno lì. Più ancora mi ha spaventato, tuttavia, la debolezza del giornalista (un giornalista del servizio di cui si dice che è pubblico) che lo ascoltava. Come se non sapesse o se non capisse l’enormità e la gravità delle stupidaggini che gli venivano dette. Vi sono stati altri tempi, pensavo e penso, in cui queste cose sono accadute. Giustificando le guerre coloniali, Mussolini aveva ampiamente spiegato agli italiani che i popoli africani sono composti di persone inferiori soprattutto per la loro incapacità di lavorare in modo produttivo. Parassiti del mondo, da conquistare prima per educare poi. Come dicevano allora i gerarchi, di cui il tempo avrebbe dimostrato la povertà di etica e di cultura, e come dicono oggi le nuove orde di dilettanti allo sbaraglio della politica di destra. Nel silenzio a tratti ossequioso, a tratti timido e a tratti esaltato, oggi come allora, di una stampa compiacente e di una opposizione spaventata o collusa. Tornando alle tue domande, cara letttrice, non posso che dirti di sì. Che il tuo restare in Italia lavorando per degli italiani è diventato o diventerà un reato come reato era, per gli abissini, i libici, i somali di allora, il non essere pronti ad accettare la superiorità degli italiani fascisti. Quelle che ne seguirono allora furono guerre sanguinose e crudeli raccontate, con l’aiuto di una stampa compiacente e di un’opposizione lacerata, come delle grandi imprese militari. Quello che ne seguirà ora è un conflitto meno rumoroso e meno sanguinario in cui si eviterà (anche perché servirebbe a poco) l’uso delle armi ma che sarà ugualmente crudele e violento. Nei cui confronti sarebbe giusto promuovere un’onda vasta di obiezioni di coscienza e di disobbedienza organizzata. Anche se non è per niente facile che questo accada. Ci sono passaggi della storia in cui quello che si verifica è un ottendimento generalizzato delle coscienze, una specie di malefico sonno della ragione. La vita continua a scorrere intorno alle persone normali, quelle che non decidono nulla, come se nulla di straordinario stesse accadendo mentre le violenze e le ingiustizie più atroci si compiono fuori dal loro campo visivo in quanto fuori dall’informazione da cui dipendono nel tentativo di capire quello che succede. Uomini perversi e violenti come Feltri tornano a difendere, su un giornale come Libero, la scelta di chiamare spazzatura i Rom che, secondo lui, rapiscono davvero i bambini (i comunisti, com’è noto, li mangiavano) dimenticando, perché alla fine non gliene importa nulla, le persecuzioni che i Rom hanno subito dai nazisti e dai fascisti. Berlusconi e i suoi ministri si riuniscono per un intero giorno a Napoli senza mai pronunciare la parola Camorra e senza mai citare, nei loro proclami, il piccolo esercito di clandestini (cinesi e rumeni, indiani e africani) sfruttati dal suo impero criminale: schierandosi nei fatti, con un silenzio che è insieme assurdo e assordante, con chi (la camorra di Gomorra) sul loro lavoro illegalmente costruisce la sua ricchezza e il suo potere. E accuratamente nascondendosi in un vortice di ipocrisia nel momento in cui si arriva, negli stessi giorni, a commemorare solennemente Falcone ed a coprire con la formula del silenzio-assenso la delinquenza organizzata contro cui Falcone lottò fino alla morte.
Deviare il rigore della legge e l’odio della gente contro dei nemici immaginari (ieri gli ebrei e i rom, oggi i rom e gli extracomunitari) è stato da sempre il modo migliore di preparare una dittatura instaurando un regime di violenza. Uomini come Feltri, che vedremo sempre più spesso in Tv soprattutto perché la sua capacità di spargere odio fa audience, giocano senza forse neppure rendersene conto un ruolo fondamentale (e sempre ben remunerato) in processi di questo tipo. È a gente (gentaglia?) come loro che dobbiamo la deriva morale di questo nostro Paese. Difficile da vivere oggi anche per me (che di lei sono assai più fortunato) oltre che per lei.
Corriere della Sera 26.5.08
Immigrazione e criminalità. La nostra vera malattia
di Claudio Magris
Un conoscente della mia famiglia, collega d'ufficio di mio padre, aveva la mania dei raffreddori; stava attento ai giri d'aria e prendeva tutte le precauzioni contro infreddature e bronchiti, convinto che le malattie potessero colpirlo solo da quella parte. Morì di un cancro all'intestino ovvero, come si diceva allora, di un «brutto male». Quel signore faceva benissimo a non trascurare le eventuali minacce alla faringe o ai bronchi, spesso fastidiose e talora perniciose, ma sbagliava a sottovalutare pericoli più gravi. Anche il corpo sociale ha le sue malattie, scatenate o in agguato. La sua salute dipende da come fronteggia, previene, combatte i morbi che lo insidiano; dalla sua capacità di reprimere — tramite le autorità preposte a tale funzione — i reati nella misura stabilita dalla legge, senza indulgenze buoniste o pseudo- umanitarie e senza isterie demagogiche né pregiudizi verso alcuna categoria di persone. In uno Stato liberale e democratico non si sospettano a priori e tantomeno si vessano né i kulaki ossia i contadini proprietari, come un tempo nell'Unione Sovietica, né gli ebrei, i neri, gli immigrati, come tante volte in tanti Stati del mondo.
Oggi sono gli zingari ad occupare i titoli cubitali dei giornali, con i reati compiuti da alcuni di loro e altri loro attribuiti, e con i violenti soprusi patiti da alcuni di essi. In entrambi i casi, lo Stato — e solo lo Stato, che ha il monopolio dell'uso della forza — ha da individuare e perseguire gli autori di atti delittuosi, il delinquente che ruba e molesta come il delinquente che getta bombe Molotov, contro la polizia negli anni Settanta o contro i rom oggi. Il nostro codice o meglio la nostra civiltà consentono di punire soltanto individui — rei di delitti accertati, la cui responsabilità è sempre personale — e mai gruppi o comunità, poco importa se etniche, sociali, politiche o religiose. Attentare a questo principio — prendersela con gli zingari, gli ebrei o i padani anziché con un concreto colpevole colto con le mani nel sacco, sia egli nato a Timbuctù o ad Abbiategrasso — mina alla radice l'universalità umana e in particolare la nostra civiltà, l'Occidente. Chi nega questo fondamento dell'umanità e del diritto è il vero barbaro e non ci interessa donde arrivi, dall'orto dietro casa nostra o da lontani deserti.
Zingari, norvegesi, triestini o senegalesi sorpresi a delinquere vanno puniti senza riguardo alla loro diversità o povertà. Tifosi bestiali che in nome di una squadra di calcio commettono violenze contro persone o cose — provocando spesso rovinosi danni a onesti esercenti, di cui sfasciano i negozi in una ebbrezza di subumana e delittuosa ebetudine — vanno puniti con tutta la durezza consentita dalla legge e costretti a pagare sino all'ultimo spicciolo i danni arrecati, senza riguardo a chissà quali disagi esistenziali sottostanti alle loro brutalità.
Improvvisati e autonominatisi giustizieri che si dedicano a spedizioni criminose vanno puniti con esemplare severità, perché rappresentano un virus socialmente e moralmente ancor più nocivo dei ladruncoli veri o presunti che si vogliono castigare: il Ku-Klux-Klan, nato si dice alla fine della guerra di Secessione per proteggere i bianchi del Sud americano dalle violenze cui si abbandonavano alcune bande di schiavi appena liberati, è divenuto ben presto la più orrida criminalità. Uno stupratore romeno va punito per il suo ributtante reato, ma non può gettare il discredito indiscriminato sui suoi connazionali, così come i recenti assassini di Verona non possono autorizzare squadracce sguinzagliate alla caccia dei veronesi. L'attuale ministro dell'Interno, che promette pugno duro, sa bene che i pugni distribuiti con disinvoltura talvolta arrivano in testa pure ai galantuomini, perché anni fa, quando non era più e non era ancora di nuovo ministro dell'Interno, alcuni sbrigativi poliziotti gliene hanno dati pure a lui.
La cosiddetta piccola criminalità non è un raffreddore, bensì una piaga sociale; gli scippatori di anziani che hanno appena ritirato la pensione mettono intere famiglie in difficoltà di arrivare alla fine del mese. La sicurezza è un bene primario; la sua necessaria e ferma tutela non è certo espressione di biechi sentimenti filistei o di astiosi pregiudizi nei confronti di immigrati ed emarginati, come troppe volte si è detto con sufficienza.
Ogni problema umano e sociale non risolto comporta un tasso di devianza e di illegalità, già solo per il fatto che le leggi esistenti non riescono a risolverlo. È la globalizzazione che produce spostamenti crescenti di masse di diseredati nei Paesi più ricchi, con tutte le conseguenze che ne derivano. La globalizzazione nasce dal crollo del comunismo e dalle nuove forme assunte dal capitalismo; non sembra augurabile né possibile restaurare il primo e bloccare lo sviluppo del secondo e d'altronde non si può avere botte piena e moglie ubriaca, come dice il proverbio. L'universalità e le difficoltà di questo fenomeno planetario ci aiutano, ci costringono a toccar con mano l'interdipendenza di tutti gli uomini, l'essenziale unità del genere umano, diversificato ma organicamente unitario come un grande albero con le sue radici, rami e foglie; ci fa sentire fisicamente che ognuno di noi, come dice la Bibbia degli ebrei, è stato straniero in terra d'Egitto e può ancora diventarlo, nel domani sempre più incerto e sempre più globale, e dunque che gli stranieri sono i compagni del nostro destino.
Giustamente si ricorda l'emigrazione italiana, la dura e ammirevole odissea dei nostri emigranti, stranieri spesso osteggiati nei Paesi allora più ricchi ed ostili. Ma appunto perciò occorre sapere quanto sia difficile, per tutti, essere stranieri. La retorica della diversità elude sentimentalmente il problema. Tutti — persone, culture — siamo diversi e proprio perciò è vacuo ripetere come pappagalli questa parola. Inoltre la diversità, la particolarità non è ancora di per sé un valore; è un dato, un'identità (nazionale, politica, culturale, religiosa, sessuale) sulla cui base si possono costruire dei valori, che tuttavia sempre la trascendono, perché essere italiani, africani, buddhisti, omosessuali non è un merito né un demerito, non è cosa di cui avere orgoglio né vergogna; è un dato di fatto che va rispettato e tutelato contro chi non lo rispetta. Certamente ogni diversità arricchisce, perché si cresce uscendo da se stessi e incontrando gli altri; ogni endogamia è asfittica e regressiva, non solo quella sessuale. Ma la diversità diventa una retorica truffaldina quando viene invocata per eludere la consapevolezza dei conflitti reali che talora possono sorgere dal contatto fra culture diverse — ad esempio tra una fondata sull'uguaglianza dei diritti tra uomo e donna e una che la nega. Pure tali possibili conflitti vanno affrontati con equilibrio responsabile — e non già esacerbati col pathos spettacolare dello scontro di civiltà, che seduce con la sua visione della Storia al technicolor — ma non vanno elusi né sottovalutati.
La teppa scatenata contro i campi nomadi e il clamore mediatico che le fa da grancassa rimuovono la consapevolezza di problemi ben più ardui dell'emergenza rom. Le dimensioni numeriche dell'immigrazione potrebbero in futuro aumentare sino a renderla materialmente impossibile, perché, per fare un esempio oggi assurdo, non è fisicamente possibile accogliere milioni di poveri. Si potrebbero creare, con la necessità e l'impossibilità di accoglienza, situazioni oggettivamente tragiche, in cui — come appunto nella tragedia — è comunque impossibile agire senza colpa. Anche per questo il problema non può essere affrontato con criteri diversi nei singoli Stati, ma può essere gestito solo globalmente dall'Europa, perché non è un problema italiano o spagnolo bensì europeo, se non occidentale in generale. È difficile dire se il nuovo capitalismo, che ha innescato questo meccanismo con la globalizzazione, saprà governarlo o ne sarà travolto come un apprendista stregone. È un problema ben presente nel libro di Giulio Tremonti Paura e speranza.
I rom e altri immigrati sembrano oggi la minaccia maggiore alla nostra sicurezza. «Cieca bugia, distrazione di massa dalla realtà complessiva », ha scritto Mariapia Bonanate sul Nostro Tempo.
Credo che i commercianti e gli industriali taglieggiati dalla camorra o dalla mafia scambierebbero volentieri il danno, l'intimidazione — non di rado la morte — che sono costretti a subire con i fastidi di chi abita non lontano da un campo di nomadi. Come ha scritto Riccardo Chiaberge su Il Sole 24 Ore, non si sono viste squadre di cittadini indignati scagliarsi contro quartieri della camorra e non ho sentito parlare di ronde pronte a proteggere gli esercenti dai malavitosi che vengono a riscuotere il pizzo. Certo, è più rischioso affrontare i guappi che i vu cumprà e qualcuno ci rimetterebbe la pelle, ma ciò non dovrebbe scoraggiare chi vanta i propri attributi virili e trecentomila fucili.
La mafia e oggi ancor più la camorra — grazie al possente libro di Roberto Saviano — sono certo intensamente presenti all'opinione pubblica: libri, film, articoli, servizi televisivi, dibattiti. Ma non scuotono veramente l'opinione pubblica; non destano — diversamente dagli extracomunitari — alcun furore, alcuna paura nei cittadini. Sono quasi letteratura, una tragedia esorcizzata dalla sua rappresentazione, dopo la quale si va tranquillamente a casa — tranne chi è minacciato o colpito dalla morte.
Come quel mio conoscente, siamo più vigili dinanzi a una tosse fastidiosa che ad un cancro. Il cancro si avverte meno, forse perché ha già occupato gran parte del corpo, si è infiltrato negli organi e nei sensi che sta distruggendo, sicché, almeno sino ad un certo momento del suo lavorìo, è difficile percepirlo, così come non si vede il proprio sguardo. Un impero del crimine i cui profitti sono quelli di una potenza economica mondiale e le cui vittime sono numerose come quelle di una guerra è un cancro infiltrante, che si immedesima con una parte sempre più grande della realtà. È giusto, è doveroso curare severamente scippi, furti, aggressioni, molestie, ogni illegalità anche piccola, ma sapendo quale sia la nostra vera malattia mortale.
Corriere della Sera 26.5.08
Intervista al dissidente Wu: «Un documento prova che il via libera fu dato dal ministro della Sicurezza»
«Dal boia al chirurgo: traffici di morte in Cina»
Libro-choc svela: il 95 % dei trapianti con organi di condannati alla pena capitale
di Michele Farina
Dal boia al chirurgo: «Il 95% degli organi trapiantati in Cina — dice Harry Wu — viene da cadaveri di condannati a morte». Le prove? «Nel 2006 l'ha ammesso lo stesso vice ministro della Sanità di Pechino. Alla fine hanno dovuto riconoscerlo. Noi lo denunciamo da anni. C'è un documento segreto datato 1984, firmato da sei responsabili governativi tra cui il ministro della Sicurezza Nazionale, che dava il via libera all'utilizzo dei giustiziati ». Di nascosto? «Sì. Le ambulanze che seguivano i condannati sul luogo dell'esecuzione dovevano essere anonime, con le targhe coperte». E oggi? «È permesso dalla legge. A tre condizioni, che di fatto vengono spesso aggirate ». Quali? «Il consenso degli interessati, l'ok delle famiglie. Il caso in cui nessuno reclami il corpo». Succede spesso? «Prenda me. Ho passato 19 anni nei laogai (campi di lavoro) per aver criticato il governo. Potevo essere giustiziato in ogni momento. La mia famiglia non l'avrebbe saputo. Mia madre morta suicida, mio padre prigioniero, i miei fratelli mi avevano rinnegato. Nessuno avrebbe chiesto il mio cadavere. Ho visto tanta gente morire così. Non ci sono regole che costringano le autorità a informare le famiglie. Dal 1949 il governo cinese rifiuta di dare notizie sulle esecuzioni».
Harry Wu ha 71 anni. È diventato cittadino americano. Vive a Washington, dove presiede la «Laogai Research Foundation » che gode dei finanziamenti (bipartisan) del National Endowment for Democracy. Da oggi a mercoledì 28 maggio sarà in Italia per presentare il volume «Cina Traffici di morte/Il commercio degli organi dei condannati» (Guerini e Associati, pagg. 208, euro 21,50). Secondo Wu in Cina ci sono 600 ospedali pubblici coinvolti in questo business di Stato. «La Cina è il secondo Paese al mondo per trapianti di organi: 13 mila all'anno contro i 15 mila degli Usa. Ma in Cina non c'è la cultura della donazione, si deve morire interi. Per questo si sfruttano i condannati, cosa proibita in America». Lei è contro la pena capitale? «Sì, sono abolizionista. Ma in Cina è troppo presto per questa campagna. Noi chiediamo al governo cinese che almeno renda pubblici i dati e le modalità delle esecuzioni». Difficile che i condannati accettino liberamente di donare gli organi. «Non c'è trasparenza. A occuparsene sono sempre i servizi di sicurezza. Noi abbiamo raccolto testimonianze su moltissimi casi. Dai dottori ai pazienti, anche stranieri: giapponesi, thailandesi. Le esecuzioni possono avvenire negli stessi ospedali». Chi lo dice? «L'ha raccontato un medico cinese fuggito in America. Un caso fra tanti. Cercavano un cuore. Il medico responsabile è andato nel braccio della morte. Ha individuato un possibile donatore. Lui ha rifiutato. Il medico gli ha chiesto come se la passava. Male: era nudo, incatenato mani e piedi, gli altri detenuti gli avevano rubato persino i vestiti. Facciamo uno scambio, ha detto il medico. Tu mi dai il cuore, io faccio in modo che ti tolgano le catene, ti ridiano i vestiti, ogni giorno ti manderò cibo da fuori: anche il vino. Il condannato ha detto sì. Quando è venuto il giorno, l'hanno portato in un cortile nel retro dell'ospedale. In una sorta di garage c'era una sala operatoria attrezzata. Gli hanno sparato alla testa, espiantato il cuore. E poi subito il trapianto. Riuscito». Quando è stato? Negli anni '90. Abbiamo i documenti. È uno dei tanti casi. Molti dottori hanno testimoniato. Per questo in America c'è una legge che proibisce ai chirurghi cinesi di visitare gli Usa». I medici cosa dicono? «Ho visitato ospedali in Cina nel 1994. Dicono che la provenienza degli organi non è un problema loro, che tanto i condannati morirebbero comunque. Ma non è giusto, non è umano». Si stima che la Cina metta a morte oltre 10 mila persone l'anno. Il super-lavoro del boia è dovuto alla richiesta di organi? «Non posso dire questo. Quello che so è che, a seconda delle esigenze degli ospedali, si può decidere chi deve morire subito e chi può aspettare». Nel braccio della morte cinese meglio avere un cuore malandato.
PER SAPERNE DI PIÙ. I link con i siti della fondazione di Harry Wu sono su www.corriere.it
Corriere della Sera 26.5.08
Georg Simmel sul filosofo tedesco
Il personalismo etico di Fiedrich Nietzsche
di Paola Capriolo
Supera l'alternativa tra egoismo e altruismo in favore di un idealismo oggettivo
Nella cultura del Novecento, pochi autori sono stati discussi e commentati quanto Nietzsche. Filosofi, poeti, romanzieri, si sono cimentati così assiduamente con la sua eredità da giustificare l'affermazione di Gottfried Benn secondo la quale il lavorio spirituale di quelle generazioni non sarebbe stato altro che un'«esegesi» del testo nietzscheano. In questo panorama, occupano una posizione particolare i saggi di Georg Simmel ora raccolti da Ferruccio Andolfi con il titolo Friedrich Nietzsche filosofo morale (Diabasis, pp. 124, € 10).
Sviluppata tra il 1896 e il 1906, quando l'autore della Nascita della tragedia era già di gran moda ma ancora si stentava a riconoscergli il rango di filosofo, l'interpretazione di Simmel è tra le prime a rendergli giustizia ponendolo sullo stesso piano di pensatori come Kant e Schopenhauer. Ma oltre che filosofo a sua volta, Simmel fu, come è noto, un grande sociologo, e proprio la sociologia sembra avergli offerto una prospettiva particolarmente originale, addirittura un po' spaesante per noi, abituati a leggere Nietzsche nella chiave «metafisica» imposta da Heidegger.
Nell'etica moderna, argomenta Simmel, si contendono il campo collettivismo e individualismo liberale, che tuttavia, per quanto contrapposti, si fondano su un postulato comune: che la «felicità », del singolo oppure del maggior numero, costituisca l'unico fine possibile per l'esistenza e dunque per le stesse norme morali. Quella compiuta da Nietzsche è appunto l'«impresa copernicana » di rovesciare un simile postulato, superando l'«alternativa secca» di «egoismo » e «altruismo» in favore di un «idealismo oggettivo delle realizzazioni del genere umano in base alle vette rappresentate da singole persone». In altre parole, a decidere del valore di una determinata organizzazione sociale non sarebbe il benessere che essa garantisce alla maggioranza dei suoi membri, e nemmeno il benessere che garantisce a me, ma la sua capacità di favorire e sviluppare certe qualità oggettive (nobiltà, bellezza, talento) la cui esistenza costituisce un fine in sé, né più né meno di quella di un'opera d'arte. Ma non basta: se il pensiero del XIX secolo aveva portato ad assumere il punto di vista sociale come «il punto di vista per eccellenza », si può sostenere precisamente che «Nietzsche ha infranto l'identificazione moderna di società e umanità », escludendo in linea di principio che il valore di un'azione umana dipenda dalla sua «ricaduta» sociale.
Questa posizione, cui Simmel attribuisce il nome di «personalismo etico», appare però intrinsecamente ambigua: da un lato si presenta come un affrancamento dalla società (dalle sue pretese, dai suoi criteri utilitaristici), dall'altro come una vera e propria teoria della società, di come cioè essa dovrebbe essere strutturata per produrre individui d'eccezione. A tale interrogativo Nietzsche dà la risposta più brutale con l'esaltazione non solo della disuguaglianza, ma addirittura della schiavitù: una tesi gravida di ripercussioni storiche delle quali Simmel, all'inizio del Novecento, non poteva certo farsi un'idea. Le sue pagine comunque hanno il merito di confutare a priori ogni tentativo di edulcorarla, mostrando con chiarezza come essa non rappresenti un'aberrazione marginale, una trovata stilistica o la boutade di un grecista impazzito, ma affondi salde radici nel cuore stesso del pensiero nietzscheano. Un nesso molto difficile da sciogliere collega l'affermazione secondo la quale la vita è giustificabile soltanto come fenomeno estetico con l'idea della «grande politica» e tutte le sue sinistre implicazioni. Eppure la «rivoluzione copernicana » attuata da Nietzsche alla fine dell'Ottocento rimane un'eredità preziosa ancora oggi, quando l'utilitarismo sembra aver ormai riportato un trionfo assoluto e gli uomini si mostrano sempre più incapaci di attribuire alla loro esistenza significati oggettivi.
Repubblica 26.5.08
Parla la giornalista Rula Jebreal
"Ora mi fa paura il clima di odio che si diffonde"
"Ci sono dichiarazioni dissennate da parte di alcuni politici"
di Carlo Ciavoni
ROMA - «Confesso di avere paura per il clima di odio che si va diffondendo in questo Paese, una paura che non avevo mai provato in quindici anni che sono in Italia». Così Rula Jebreal, giornalista e scrittrice israeliana (è nata ad Haifa), figlia di un commerciante palestinese di Gerusalemme, commenta i recenti episodi di violenza e intolleranza razzista che si sono verificati a Roma, nella zona del Pigneto, contro alcuni cittadini del Bangladesh. La giornalista, diventata un volto noto in Italia per le trasmissioni firmate con La7 e Rai, è particolarmente colpita.
Che cosa sta succedendo? Davvero l´Italia scopre la xenofobia?
«C´è una sorta di rassegnazione che si sta diffondendo. Ci si sta abituando, per esempio, al fatto che giornali e tv diano una rilevanza molto diversa a reati commessi da cittadini italiani, rispetto ad episodi di eguale gravità compiuti da stranieri. L´atmosfera generale che si respira è molto pesante. E come se non bastasse che ci butta benzina sul fuoco».
A chi si riferisce?
«Penso a certe dichiarazioni dissennate di personalità politiche, che non misurano le parole e si lasciano andare in affermazioni dal tono giustificatorio. Basta rileggere quanto ha detto il deputato europeo di Forza Nuova Roberto Fiore che si batte per il rimpatrio dei rom. Così si finisce per autorizzare lo sviluppo e la diffusione della giustizia fai da te. Ecco dove porta la logica delle ronde».
Vede delle responsabilità precise?
«Tra le responsabilità maggiori di un politico c´è quella di conoscere il peso specifico delle parole, soprattutto quando si è al corrente di un generale stato di turbamento e fragilità culturale di alcuni strati della popolazione».
In tema di xenofobia, c´è differenza tra l´Italia e gli altri Paesi europei?
«Mi sembra che l´Italia sia in ritardo per quanto riguarda l´integrazione con i cittadini extracomunitari, nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni. Anzi, con questo nuovo clima si rischia di vanificare l´intero processo».
Che cosa fare?
«Per essere un Paese davvero civile, l´Italia dovrebbe garantire l´integrazione alle persone che arrivano dalle zone più povere del pianeta. Ora non è più così. Bisogna ricominciare da capo».
Repubblica 26.5.08
Donne. Quando il nemico è in casa
Ho sposato un carnefice
di Natalia Aspesi
Le violenze in famiglia sono sempre più diffuse Un dramma su cui ora indaga un docu-film che sarà trasmesso da Rai3. Lo abbiamo visto in anteprima: raccoglie le testimonianze delle vittime abusate e picchiate dai mariti. Ma racconta anche gli interventi della polizia negli appartamenti dove le tragedie si consumano. Vi raccontiamo le loro storie
Lui la picchia "perché è innamorato". Lei lo denuncia e poi si pente
"Ci siamo messi in contatto con le questure di 23 province per seguire il lavoro"
"Mi aveva annullato, convinto che non valevo niente"
Quella frase, gridata, sussurrata, esplosa, prima o poi le accomuna tutte: «Non ce la faccio più ». Sono le ragazze, le donne di ogni età che spezzano un legame che era d´amore ed è diventato un inferno: un sogno angosciosamente scivolato in un incubo che il più delle volte continuerà a rendere la loro vita insopportabile, anche dopo le denunce, la fuga da casa, la cacciata del compagno, la separazione, il cambiamento di città, la speranza di ritrovare finalmente pace e dignità; o che nei casi più funesti finirà nel sangue. Ma perché hanno aspettato certe volte anni prima di liberarsi del bruto che le minaccia, le pesta e le insulta, del nemico che le terrorizza e le umilia, del tiranno che le chiude in casa e che le pedina, del folle che le ritiene fonte di ogni male e di ogni vizio per il solo fatto di essere donna, la donna di loro proprietà? Per paura, per mancanza di denaro, per rassegnazione, perché non si fa, perché la famiglia non vuole e il parroco nemmeno, perché gli altri non devono sapere, ma anche, tante volte, e pare impossibile, per incrollabile amore. Il film La vittima e il carnefice di Mauro Parissone e Roberto Burchelli (in onda su Raitre il 4 giugno), parla di queste vittime e di questi carnefici, di queste donne e di questi uomini, non solo attraverso i racconti drammatici delle protagoniste, ma anche filmando in presa diretta gli interventi della polizia, le registrazioni telefoniche, gli appostamenti, le irruzioni negli appartamenti da cui vengono richieste disperate di aiuto.
«Volevamo raccontare storie vere nel momento in cui succedono», dice Parissone. «Ci siamo messi in contatto con le questure di 23 province, per seguire il loro lavoro di attenzione e prevenzione. Ci interessava riuscire a capire il momento di rottura, quello in cui è ancora possibile impedire che la persecuzione da parte di un maschio ossessivo degeneri sino ad arrivare all´assassinio, come purtroppo capita non così raramente; agli inizi del nostro lavoro era appena capitato a Sanremo, dove Luca Delfino, ex fidanzato di Antonella Multari, più volte denunciato ma mai arrestato, aveva finito per sgozzarla». Da un paio d´anni in tutte le questure si è creata una IV sezione che si occupa dei reati contro donne e bambini, che come è noto avvengono soprattutto in famiglia. E il film segue la squadra della IV sezione di Bologna, il suo paziente e attento commissario Delferraro, e uno dei suoi casi: quello di Francesca e di Salvatore, di una ragazza laureata e insegnante che si innamora di un ragazzo dolcissimo e pieno di attenzioni che poi si rivelerà pregiudicato, marchettaro gay e violento. Lei non lo vuole più, lui ha la prepotenza del padrone e non ci sta: la minaccia, la segue, si apposta, le telefona nella notte, le fa scene di gelosia, la chiama puttana, ninfomane, pazza, criminale e naturalmente tutto questo «perché è innamorato». Lei lo denuncia, poi si pente, poi cede perché malgrado tutto ne è attratta fisicamente e crede di poterlo cambiare, ma la tortura ricomincia, può succedere di tutto, la polizia protegge lei e diffida lui che non demorde, fino a quando gli danno il foglio di via. La storia non è finita, come non sono finite le altre che vediamo con i volti oscurati, storie vere, sconvolgenti, ripetitive, che diventano i numeri di agghiaccianti statistiche. La polizia entra nelle cucine in disordine, nei soggiorni dove bambini terrorizzati si rifugiano nelle loro camerette, in appartamenti borghesi o piccolo borghesi ma mai poveri, nel cuore di una delle tante venerate famiglie da family day, dove il marito pancione dentro una canottiera repellente piange dichiarando il suo amore per la moglie che lo vuole fuori dalla vita perché manesco, ubriacone, perché l´ha chiamata puttana davanti alla scuola, alla bambina, alle madri degli altri bambini. Seguiamo gli agenti negli inferni domestici, nella casa dove l´uomo che non accetta la separazione irrompe furibondo accusando la moglie che vive coi figli, di tradimento, di truccarsi, di bere il te con le amiche dopo il lavoro; in quella dove la ragazza marocchina incinta abbandonata dal compagno e sfrattata vuole buttarsi dal balcone, in altre in cui sono sempre le donne anche in età a non sopportare più quegli intrusi che si sono lasciati andare, che ciabattano per casa pigramente, che si fanno servire umiliandole, che le maltrattano; e sono sempre le donne esasperate a chiamare la polizia, a gridare ai giovani agenti spaventati, «questa vita non la voglio più, quest´uomo non lo voglio più, voglio che se ne vada!». Caterina, 30 anni, un bambino di due, che vive in un paesino in provincia di Massa Carrara, gli autori l´hanno trovata su Internet, in uno dei duecento e più blog in cui dialogano e cercano conforto migliaia di donne che vivono situazioni di disperazione e oppressione familiare, e ancora non hanno avuto il coraggio di denunciare i partner o di parlarne con parenti e amici. Caterina è fragile, affranta, ma anche decisa, ogni tanto le lacrime le bagnano il viso: «C´era tutto, l´amore con la A maiuscola, Davide mi riempiva di attenzioni, mi faceva sentire bella, importante, fortunata. Poi ha cominciato a tornare a casa ubriaco, ad essere violento, a buttarmi a terra, a minacciarmi col coltello, a dirmi che mi avrebbe portato via il bambino. Poi di colpo si metteva a piangere e mi supplicava in ginocchio, però rifiutava di curarsi e tornava cattivo, "Se esci da quella porta per te sarà un inferno" mi diceva». E Caterina finalmente da quella porta è uscita col suo bambino, e la loro vita è diventata un inferno. «Mi aveva annullato, convinto che non valevo niente, ma una volta fuori, mi sono ritrovata». Però la paura non la lascia, se vuole dormire va dai suoi genitori, se no resta sveglia in attesa del peggio, si barrica in casa, tiene di giorno le tapparelle abbassate e di notte la luce spenta, se esce ispeziona prima la strada: «Non voglio toglierti la vita, mi ha detto, ma solo distruggertela. Ma io se muoio ho già provveduto affinché mio figlio sia dato in affido a mio fratello». Caterina vive in un piccolo paese dove non c´è la questura, non c´è la IV sezione, proteggerla è più difficile: la sua storia è sospesa nella paura, va avanti così, non tornerà mai indietro pur sentendo che qualcosa di brutto prima o poi accadrà. Alle storie vere del film si alternano brevi intermezzi in cui le bambole Barbie, manovrate da una bambina, riproducono drammi reali di coppia: «È una invenzione cui teniamo molto» dice Roberto Burchielli, «perché ci serve a riprodurre quel tipo di trasmissione televisiva dove la gente comune litiga o fa finta di litigare, trasformando in spettacolo situazioni allucinanti che accadono nella realtà e che la finzione dello show rende innocue, una specie di gioco destinato a non lasciare traccia. Amori, gelosie, contrasti, tradimenti, vendette, persecuzioni, tutto finto, tutto in un unico copione scritto da altri, che cancella le vere tragedie con un cinismo colpevole». Pare strano che nell´imponente piano sicurezza varato dal governo, che colpevolizza in massa gli stranieri e ha già scatenato i primi episodi di razzismo, nessuno abbia pensato alla sicurezza delle donne soprattutto italiane vessate e anche ammazzate da partner e soprattutto ex partner. I fatti di cronaca nera si ripetono e si ammucchiano nel gelo delle statistiche, ma ognuno di quei numeri, di quelle percentuali, è un volto, un corpo, una vita, una singola tragedia. Secondo l´Istat del 2007, 2.983 mila donne italiane sono state vittime di violenza domestica, dai tentativi di strangolamento o soffocamento ai pugni, dalla minaccia con le armi ai calci allo stupro. In casa o fuori, da partner e soprattutto ex partner, ovviamente italiani. Un esercito enorme di vittime, essendo la violenza familiare sempre in aumento e ormai la prima causa di morte o di invalidità permanente delle donne. Per migliaia di loro vivere umiliate offese e picchiate sta diventando parte del "pacchetto amore": infatti il 90% non denuncia il suo persecutore, rassegnato al fatto che giustizia la ottengono di sicuro solo quelle assassinate. Il precedente governo non ha fatto a tempo ad approvare come previsto il reato di "stalking", quella forma di ossessivo controllo, appostamento, disturbo, pedinamento, intrusione, con cui partner o ex partner rendono impossibile e pericolosa la vita di tante donne. Il nuovo governo ha risposto al bisogno di sicurezza di donne e uomini italiani contro la criminalità straniera. Chissà se in un secondo tempo risponderà con la stessa energia al bisogno di sicurezza delle donne italiane contro il buon cittadino italiano che in casa si trasforma in criminale domestico. Con l´espulsione? Con le ronde? Con le spedizioni punitive? Con l’esercito?
Repubblica 26.5.08
Secondo l'Istat nel 92,5% dei casi le donne non denunciano
Tre milioni di vittime tra vergogna e silenzio
di Cinzia Sasso
Sono quasi tre milioni in Italia le donne che hanno subito violenze in famiglia. Donne che hanno studiato, che hanno un lavoro, che hanno figli, genitori, amici: non emarginate, povere, disperate. Donne che al mattino vanno in ufficio e al pomeriggio accompagnano i bambini ai giardini, le maniche lunghe a nascondere i lividi, il sorriso stampato per forza. Donne che nel silenzio hanno subito stupri nel letto coniugale, botte, minacce, ma anche violenza più sottile: la firma negata sul conto, i soldi con il contagocce, le offese, l´annullamento della personalità «sei uno zero, non sai fare nulla». Donne che - spiega l´Istat - nel 92, 5 per cento dei casi non denunciano quello che accade; che se chiedono giustizia alla fine l´ottengono solo nell´1 per cento dei casi e che forse anche per questo nel 33,9 per cento subiscono in silenzio, senza parlarne neppure con i familiari; che nell´80 per cento pensano che la violenza subita dal partner non sia un reato; che per il 44, 5 si sentono solo impotenti. Donne che non hanno paura ad uscire di casa, ma che la sera, dopo il lavoro, hanno il terrore a rientrarci. Donne invisibili, vittime di uomini al di sopra di ogni sospetto.
Carla è una di loro. Ha 42 anni, una laurea triennale, un lavoro da insegnante, due figli.Racconta: «La prima volta che mi ha picchiata avevamo parlato di un amico comune. Lui diceva che facevo la sciantosa. Mi ha trascinata giù dalla macchina tirandomi per i capelli, mi ha spinta su in casa, mi ha sbattuta davanti allo specchio. Ecco, guardala, la vedi la tua bella faccia, diceva. Io adesso te la rovino». Carla dice che non si ricorda quanto è passato: ricorda solo i calci, i pugni alla pancia, le sberle. Non ricorda le lacrime: «No, non so nemmeno se ho pianto. È che quando succede sei così annichilita che resti paralizzata, hai talmente tanta paura che accada qualcosa di peggio che tenti solo di limitare i danni». Poi lui ha finito. E si è seduto davanti alla televisione.
Carla e le altre. Quasi il ritratto in carne ed ossa di quello che statistiche raccontano coi numeri: aveva un uomo che ha amato più di se stessa, vivevano insieme in una bella casa; lui faceva l´imprenditore, era un tipo seducente, intelligente, generoso. Capitava che dopo i pestaggi le recapitasse in ufficio dei fiori e un biglietto «sai che sei l´unica donna per me». Il censimento dell´Istat fotografa proprio questo, la violenza domestica, ed ha portato alla luce una realtà che si nasconde dietro le mura protette di casa. Di quel lavoro Linda Laura Sabbadini, direttore generale, ha parlato anche all´Onu: perché l´Italia, in quanto a ricerca, su questo terreno è più avanti di tutti gli altri Paesi. Dice: «È un´indagine difficilissima perché va a rompere un impenetrabile muro di silenzio. L´immagine che passa è che il pericolo venga dal branco, dal bruto che incontri per caso, invece il 69 per cento degli stupri sono opera del partner, avvengono dentro il luogo più "sicuro", quello della "pace" domestica». Laura Da Rui è un avvocato: «I media danno un´eco spropositata a quello che succede per strada e chiudono gli occhi sul dentro. Su duecento casi di violenza che ho seguito, solo quindici sono avvenuti fuori, tutti gli altri in casa. E avvengono in una solitudine pazzesca: sono fatti privati, non li riconoscono i parenti, i vicini, gli amici. Ecco perché i pacchetti sicurezza non servono a niente: perché torni a casa e il problema lo hai lì, dove il maltrattamento è mischiato all´amore, dove il groviglio dei sentimenti rende tutto più opaco e ancora più terribile». Ancora Carla: «Bastava poco. Stupidaggini. Tipo che io metto un pizzico di zucchero nel sugo di pomodoro e lui si arrabbiava, cretina, "non sai fare niente", mi urlava. O una volta che ho tirato fuori dal freezer il pezzo di carne sbagliata: mi ha lanciato addosso una bottiglia, "tu non hai il cervello, adesso la paghi". Via via ho cominciato a vivere con la paura. E più tu hai paura, più lui ha potere. Avevo sempre le antenne, stavo in guardia, mi sentivo sul filo, in qualsiasi momento poteva scattare la furia».
Dappertutto, negli ultimi anni, sono nati dei centri anti-violenza. Solo in Lombardia sono quindici, ma ce ne sono dal Friuli alla Sardegna. Alcuni hanno nomi fantasiosi: «Iotunoivoi», «Zero tolerance», «Centro Lilith». Il primo è stato, a Milano, nell´´88, la Casa delle Donne maltrattate; da allora ha seguito 20mila casi. E vent´anni dopo Marisa Guarneri, la fondatrice, non si dà pace: «È ancora sbagliato l´approccio: ci si chiede perché le donne accettano di essere picchiate, ma bisognerebbe chiedersi perché gli uomini hanno bisogno di picchiare. Da noi passa un mondo assolutamente trasversale. E quando le donne sono autonome, quando hanno un lavoro e possono allontanarsi, allora gli uomini sono più incazzati e diventano più cattivi». Uomini che Guarneri chiama «gli insospettabili». Quelli che «all´esterno sembra che sia tutto normale, ma la normalità accade che sia questa: soprusi, distruzione della personalità. La violenza in famiglia ha tante facce e il dramma è che non suscita clamore. Sui giornali finisce solo il caso di quella ammazzata».
Tutto è un problema. Per Carla anche il successo sul lavoro: «Mi diceva, per forza sei brava, basta che mostri le tette». E i figli: «Hai cresciuto dei selvaggi, sei una madre di merda». La seconda volta, per lei, le botte arrivano in macchina: «Trenta chilometri di pestaggio, non mi ricordo nemmeno il perché. Poi mi ha detto sistemati, che andiamo a prendere l´aperitivo. La terza è perché non avevo dato da mangiare ai cani. E lui: "ma perché devo massacrarti?" Era in mutande, aveva appena fatto la doccia, mi aveva appena detto che aveva fatto sesso da solo. Bastarda, sei una porca, ti mangio le budella, perché mi costringi a fare così? Io in un angolo, e lui calci, pugni, schiaffoni. Quella è stata anche l´ultima volta». Storie così arrivano ogni giorno a Cerchi d´acqua, una cooperativa sociale fondata da Daniela Lagormasini che accoglie tra le 6 e le 700 donne l´anno: «Il primo stereotipo da confutare è che questa condizione riguardi solo le emarginate, quelle povere e ignoranti. Si parla tanto di salvaguardia della famiglia, ma quello che vedo dal mio osservatorio è che spesso nella famiglia c´è la cultura della prevaricazione, del non rispetto dell´altra». I numeri confermano le sue parole: quasi il 20 per cento delle vittime sono laureate; il 17, 3 ha un diploma superiore; il 23, 5 per cento è fatto di dirigenti, libere professioniste, imprenditrici.
Guarneri, sconvolta dalle reazioni di «punizione etnica» sollevate dai clamorosi casi di cronaca recente, ha lanciato un appello agli uomini: «Sono abituata a vedere giovani donne diventare il capro espiatorio dei problemi della propria famiglia, abusate in silenzio. E intanto si parla di esercito nelle città. E mi chiedo: dove sono gli uomini contro la violenza? Perché non mettono alla gogna tutti gli uomini che terrorizzano, umiliano, perseguitano, donne colpevoli solo di cercare la propria libertà?». Uomini che stanno nelle nostre comode case più spesso che nelle roulotte.
C´è stata, ricorda Alessandra Kustermann, ginecologa, fondatrice di SVD, soccorso violenza domestica della Mangiagalli, una campagna di pubblicità progresso che era perfetta: «Quella donna piena di lividi, che diceva "è stato un tappo di champagne". Ecco, quella è la realtà quotidiana. Quella familiare è la violenza più infida perché viene pervicacemente negata, anche a se stesse. Tante di quelle che finiscono qui arrivano a pensare: se mi picchia perché è geloso, allora mi ama. E per rendersi conto hanno bisogno di anni». Carla, a capire, ci ha messo tre anni: «Resta l´uomo che ho amato di più al mondo. Ma è l´uomo che ha rischiato di distruggermi. Adesso, solo adesso che ho avuto il coraggio di uscirne, mi sento di nuovo una persona».
il Riformista 26.5.08
Governo vero e governo ombra alle prese con la realtà
Il rischio intifada contro l'ordine berlusconiano
di Antonio Polito
Il governo-ombra, per ora, assomiglia alla pagina-ombra del Riformista di sabato: uno scherzo, una burla, un modo come un altro per divertirsi. Ciò non toglie che possa essere preso sul serio. La nostra pagina-ombra, per esempio, è stata presa sul serio da tre agenzie di stampa che hanno rilanciato lo pseudo-discorso di D'Alema sulla religione, dal titolo jovanottiano: «Una sola grande Chiesa, da Che Guevara a Madre Teresa». Viviamo in un paese così paradossale che la satira può essere scambiata per realtà anche se ci stampigli sopra la scritta QUESTA E' SATIRA. Perciò ogni tanto vi facciamo ricorso, nei nostri sabati del villaggio. E lo faremo ancora.
Ma se le pagine-ombra sono prese sul serio, così può accadere anche al governo-ombra. E bisognerebbe sfruttare questa opportunità. «Al momento - ci ha detto sconsolato un ministro-ombra - stiamo facendo i sottosegretari dei ministri veri». Si capisce la frustrazione, ma anche questa è un'occasione. Bisognerebbe, però, stare un po' più in medias res, più sui fatti. Mi ha colpito, per esempio, che Veltroni l'abbia riunito a Milano nel giorno in cui l'inferno scoppiava a Napoli. Se la sinistra vuole aggredire la questione settentrionale oggi forse deve partire dal sud, soprattutto dove amministra da quindici anni. Altrimenti, invece che al governo-ombra, gli occhi del nord saranno rivolti al sindaco vero del Pd che a Chiaiano guida la rivolta. Il governo-ombra può funzionare solo se sotto di esso, nella realtà, c'è un partito vero.
Lo straniamento del governo-ombra dice però qualcosa anche sull'illusione del governo vero. Prevista con lucidità da Claudia Mancina qualche giorno fa su questo giornale. La mano di chi guida il paese è ferma, ma il paese reale seguirà chi lo guida? A Chiaiano (dove protesta anche la deputata di destra Mussolini) non sta accadendo. Nel quartiere romano del Pigneto, dove un branco di giovani scambia la sicurezza con la pulizia etnica, neppure. Lo Stato, dicono gli editoriali dei giornali, è tornato. Ma ce la fa lo Stato, questo Stato, ridotto com'è nell'Italia del 2008? È la grande domanda di questa legislatura. Perché se non ce la fa a restaurare l'ordine democratico, dopo tanta retorica e tanti annunci, allora non è escluso che ne derivino gravi disordini anti-democratici.
Laggiù, a Napoli, tutto allude a questo disastro. Perfino la toponomastica. La piazza del paese è chiamata - chissà perché - Titanic. La via della rivolta è Cupa di Cane. Il centro sociale si chiama Insorgenzia. Sulle barricate c'è di tutto. Il ceto medio riflessivo, i medici della zona che si sono fatti la villetta nel verde e che votano a sinistra. I disobbedienti di Caruso e Scalzone che non sanno più chi votare. I teppisti da stadio che accorrono dovunque ci sia da pestare un poliziotto. E la manodopera della camorra, ovviamente, che nelle vicinanze pianifica una lottizzazione edilizia. Ce la fa lo Stato a sconfiggere questa profana alleanza, se non sa dividere per imperare? Secondo me, no. Secondo me non ce la fa finché il sindaco è dalla parte sbagliata, finché non ci sono i partiti, e il consenso è mediato da capipopolo e capibastone. La soluzione carceraria è uno slogan, perché neanche Maroni avrà il coraggio di incarcerare mamme e bambini buttati di traverso sulla strada.
Lo stesso vale per gli immigrati. Un governo che voglia seriamente respingere i clandestini ed espellere i delinquenti dovrebbe accompagnare la sua azione repressiva con una formidabile pratica integrazionista. Così fa Zapatero, così fa Sarkozy, così faceva Blair. Pattugliate le coste, ma fate sottosegretario Fouad Allam. Date la cittadinanza ai minorenni come Balotelli. Assumete un romeno nel servizio immigrazione del Viminale. Non si può usare il pugno di ferro avvolto nel guanto di ferro della xenofobia. Il reato di immigrazione clandestina è una classica norma-manifesto, incostituzionale e inutile, destinata a cadere. A detta dei suoi stessi autori, serve solo a far paura ai potenziali clandestini di domani, che leggendo il Corriere in un porto libico dovrebbero essere dissuasi dal salpare. Bubbole. Intanto, però, convince gli xenofobi della giustezza del loro odio per il diverso. Inutile prendersi in giro: è stato creato un clima adatto ai raid come quello del Pigneto. Bisogna porvi subito riparo perché - come sopra - l'ordine democratico non provochi disordini anti-democratici.
Governi davvero un paese se ne possiedi i cuori e le menti. Non vorremmo che l'ordine di Berlusconi venga accolto in ampie zone del paese come l'ordine americano è stato accolto in Iraq, suscitando un'intifada strisciante e una guerra civile a bassa intensità. Servirebbero partiti politici autorevoli e radicati che costruiscano consenso democratico. Oggi non ci sono. Il Pdl non è neanche lontanamente un partito, e il Pd è appena l'ombra di un governo. C'è solo la Lega. E la Lega a Chiaiano non l'ascoltano. E' questa la crisi democratica che rischiamo.
il Riformista 26.5.08
La città è teatro della guerriglia civile mentre il film che la racconta è premiato a cannes
Napoli e Gomorra
D'Alema rompe la linea della fermezza, irritando Palazzo Chigi, Loft e Bassolino. Tregua su Chiaiano
di Fabrizio d'Esposito
«Fin quando è la Mussolini a cavalcare la protesta siamo al folklore. Alessandra non conta nulla nel Pdl. Ma D'Alema no, non può soffiare sul fuoco della protesta. Qui c'è in gioco la tenuta dello Stato». Nello staff berlusconiano di Palazzo Chigi, la sortita di ieri di Massimo D'Alema con «l'appello alla calma» sulla guerriglia di Chiaiano contro la discarica per i rifiuti napoletani ha spiazzato tutti. Anche perché il premier era convinto che la linea della fermezza sulla munnezza, ribadita ieri dal ministro dell'Interno Roberto Maroni («non trattare con chi usa le molotov»), aveva fatto definitivamente breccia nell'opposizione parlamentare, sulla base della prudenza veltroniana dei giorni scorsi e dell'esplicito sostegno dell'Udc di Casini.
E invece, l'ex ministro degli Esteri ha sparigliato inviando da Marina di Camerota, la località balneare salernitana dove si è tenuto il seminario "filosofico" della fondazione Italianieuropei, un avvertimento al governo: «Temo ci si affidi in modo esclusivo all'uso della forza, questo potrebbe lasciare una ferita. Tra i manifestanti non ci sono solo facinorosi di professione, ma anche cittadini normali e bisogna preoccuparsi della loro tutela». E così la forte irritazione della maggioranza di governo è venuta fuori pubblicamente con la replica dell'azzurro Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato: «D'Alema può risparmiarci i suoi sermoni e i suoi timori e lasciar lavorare il governo: non si può in alcun modo affermare che l'unica strategia per affrontare la crisi sia la prova di forza, dunque la sua preoccupazione in tal senso non ha ragione d'essere». E ancora: «Se proprio vuole rendersi utile, D'Alema cominci col dire ai sindaci della sua parte che sarebbe bene stessero al fianco delle istituzioni e non di chi fomenta il risentimento dei cittadini per anni di promesse non mantenute».
Ma il fastidio e la sorpresa per l'uscita dalemiana albergano anche nel centrosinistra campano del governatore Antonio Bassolino, primo sostenitore della linea berlusconiana. Una vera notizia. Anche perché lo stesso D'Alema alle ultime politiche ci ha messo la faccia sulla spazzatura napoletana, candidandosi come capolista alla Camera nella regione dei rifiuti. Senza contare che il suo ex spin doctor Claudio Velardi oggi è assessore al Turismo nella giunta Bassolino. Che cosa è successo, allora, visto che in ambienti del Pd napoletano le dichiarazioni dell'ex ministro degli Esteri vengono considerate «sciagurate» perché «ripropongono una linea del patteggiamento che sinora in tutti questi anni non ha mai prodotto frutti»? La risposta è lontano da Napoli. In questo senso, secondo il ragionamento che ieri circolava nel Pd locale: «D'Alema insegue un suo posizionamento nazionale da oppositore di Berlusconi e in contrasto con Veltroni. Vuole fare il leader che guarda alla sinistra radicale e quindi si comporta di conseguenza. Ma a Napoli le sue parole danno solo fastidio. La situazione è esplosiva e non si può arretrare». A bilanciare per il Pd l'appello dalemiano ci ha pensato poi Marco Follini: «La realizzazione della discarica di Chiaiano è un impegno tanto del governo quanto dell'opposizione. Paritariamente».
Per quanto riguarda il fronte della cronaca, ieri non ci sono stati incidenti. Una domenica di relativa tranquillità per attendere l'esito della riunione tra Guido Bertolaso, neosottosegretario ai Rifiuti, e gli amministratori dei comuni dove sono previste le dieci discariche del decreto sull'emergenza spazzatura. Bertolaso ha chiesto altri dieci giorni di tempo per esaminare, in particolare, il caso di Serre, in provincia di Salerno, mentre su Chiaiano è stata stipulata una tregua di 24 ore: i politici locali si sono impegnati a calmare gli animi e a togliere i blocchi per consentire l'arrivo di tecnici per la "caratterizzazione" dei terreni. In cambio la polizia non prenderà possesso del sito. Intanto, sempre ieri, su Chiaiano ha marciato anche la comunità buddhista di Napoli, fermandosi a poche centinaia di metri dal presidio anti-discarica. Ma i rifiuti non c'entrano nulla: la processione è stata organizzata per la ricorrenza del Vesac. Ossia per ricordare la nascita, l'illuminazione e la morte di Buddha.