martedì 27 maggio 2008

Repubblica — 19 marzo 1985 pagina 4
IL GAY DELLA FGCI
di STEFANO MALATESTA


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".
L’Istituto Confucio invita alla conferenza:

Storie di Templi e Divinità
Per un’antropologia della religione popolare cinese

Alessandro Dell’Orto
Direttore del Centro Studi Sinologici dell'Università
Urbaniana

il giorno 30 Maggio 2008 ore 18:00 - aula 5

Attraverso la presentazione di materiale etnografico di prima mano, la conferenza intende introdurre alcuni aspetti antropologici della religione popolare cinese, un contesto socio-culturale privilegiato che può contribuire a una maggiore comprensione del vissuto quotidiano cinese. La religione popolare, a cui Alessandro Dell’Orto ha dedicato circa venti anni di studio e di ricerche sul campo in Cina continentale e a Taiwan, è espressione di visioni del mondo molto complesse e coerenti, capaci di ispirare ed esemplificare la sfera cosmologica e rituale del Confucianesimo, del Buddismo e soprattutto del Taoismo. Inoltre il suo impatto sociale condivide e rinforza l’idea più generale che le religioni popolari non siano solo riflessi passivi di un determinato ambiente culturale, ma anche in parte costitutive e a volte trasformative delle strutture e attività sociali nei processi storici dei popoli del mondo. Soffermandosi in modo particolare sulle storie e sui templi di Tudi Gong, la divinità cinese del luogo, l’intento della conferenza è anche quello di incoraggiare una maggiore attenzione degli “studi cinesi” in Italia e della stessa antropologia italiana verso la religione popolare nel contesto cinese e, più in generale, verso l’antropologia della Cina.

presso la Facoltà di Studi Orientali
dell’Università di Roma “Sapienza”
in via Principe Amedeo 182/b



Corriere della Sera - Corriere Fiorentino 27.5.08
Il prof in viaggio. Insegna all'Università di Firenze l'unico italiano al lavoro per salvare la moschea di Balkh
Sempre in missione. Il dottore delle chiese
di Donatella Coccoli


Dall'Afghanistan all'Etiopia, dal Marocco all'Egitto Così l'architetto Tonietti gira il mondo per restaurare capolavori
Dietro ogni insediamento c'è la risposta dell'uomo alle angherie della natura, alle esigenze sociali e di relazione
Ho imparato a leggere il comportamento delle strutture antiche Ogni missione è per me un arricchimento

È un architetto, ma è come se fosse un medico. Viene chiamato, infatti, al capezzale di edifici antichissimi, ammalati di infiltrazioni d'acqua, pericolanti, ma anche «infettati » da stratificazioni contemporanee come tetti in cemento armato.
Ugo Tonietti, docente di Scienza della Costruzioni della Facoltà di Architettura di Firenze, interviene, e al tempo stesso acquisisce conoscenze, tappa dopo tappa. Il suo è un viaggio tra capolavori dell'ingegno umano: dalle chiese copte dell'Etiopia, patrimonio dell'Unesco scavate nel tufo, ai villaggi di terra cruda in Marocco, dalla città di sale di Shali in Egitto fino alla moschea di Balkh, in Afghanistan, crocevia culturale da cui sono passati Alessandro Magno, Avicenna e Zoroastro.
Ed è proprio qui che, unico italiano, ha partecipato alla missione internazionale promossa dall'ente francese Dafa (Delegation Archéologique Française en Afghanistan) in collaborazione con l'associazione italiana Giovanni Secco Suardo.
Ma già da oggi è di nuovo impegnato, con alcuni colleghi e studenti, in Siria, per una ricerca internazionale sulla stabilità delle costruzioni a tholos (come i nostri nuraghi e trulli). Sono circa tre anni che il professor Tonietti compie «operazioni di salvataggio» tra Asia e Africa. Ma il primo importante intervento avvenne in Italia, a partire dal '92: insieme con altri esperti dell'ateneo fiorentino, riuscì a consolidare il Duomo di San Leo nel Montefeltro.
Attento a cogliere non solo i segni architettonici, ma anche quelli della cultura «in toto» dei popoli, l'architetto è ormai diventato un esperto noto all'estero, «aiutato sempre da colleghi e dai ricercatori del Cnr di Firenze» tiene a precisare. Ma veniamo a Balkh.
«Una splendida moschea - racconta Tonietti - che era a 9 cupole, di cui adesso rimangono una parte di mura perimetrali in terra cruda e mattoni cotti al sole, colonne monumentali di un metro e mezzo di diametro semisepolte e due grandi archi sopravvissuti al crollo». La bellezza è data dalle incisioni, quasi una grafìa immaginaria «di un rilievo assoluto». L'architetto spiega che «bisogna consolidare il sistema di archi, e poi scavare fino alla pavimentazione originale e infine mettere tutto in sicurezza».
E non mancano le sorprese: «Abbiamo scavato attorno a una colonna pericolante; sapevamo che era tutto dipinto di blu, invece abbiamo trovato il colore rosso». Colori, dice, che all'interno delle costruzioni antiche, i templi greci o egizi, erano sempre presenti, «è l'iconografia volgare che ce li ha tramandati bianchi, classici, apollinei».
In Afghanistan, adesso, è in atto una vera sfida culturale e la moschea ne è un simbolo. «L'archeologo irano-francese Chahryar Adle spiega - sta curando la sua iscrizione tra i patrimoni dell'umanità dell'Unesco. C'è tutto un dibattito sulle origini, ma è datata attorno al 720-730. Le incisioni richiamano quelle ritrovate a Samarra, in Iraq, una sorta di punto di riferimento per l'area del bacino mesopotamico. Secondo l'archeologo francese continua Tonietti - viene prima Balkh, quindi si sposterebbe a Est l'origine di una iconografia del mondo islamico ibridandosi con radici buddiste, zoroastriste».
Ma cosa rappresentano queste missioni per un architetto?
«Sono tappe di conoscenza. Ed è la dimostrazione del lavoro fatto nella scuola del Dipartimento di Costruzioni, dove, insieme con i colleghi, ho imparato a leggere il comportamento delle strutture antiche, al di là di ogni simulazione al computer ». Qui non c'è il cemento armato, uguale ovunque. «Qui si ha a che fare - continua - con malte di calce, gesso o semplice terra, esposte a terremoti o infiltrate d'acqua o esposte a troppo sole». Occorre quindi comprendere le tecniche costruttive, i materiali, la meccanica e la statica dei solidi, gli aspetti geologici e chimici. «E poi la storia, fondamentale ». Ed è un universo sempre diverso. «Il fascino è che dietro a ogni insediamento umano c'è la risposta dell'uomo alle angherie della natura, sempre mediata da esigenze di rappresentazione e di relazione, tutte variabilissime».

l’Unità 27.5.08
Razzismi. La politica del manganello
di Bruno Gravagnuolo


Ronde, squadracce, spedizioni punitive. Da sempre sono state nel codice genetico del fascismo e non solo di quello italiano. E si può dire senza timore di smentite che il sovversivismo fascista, fin dai «prodromi» antisemiti nella Francia dell’affare Dreyfus, nasce proprio dal populismo autorganizzato della società civile «sana». Che fa appello all’ordine nazionale e si mette al suo posto, per espellere i «germi» che inquinano la società. E ciò è particolarmente vero nel caso dello squadrismo fascista in Italia. Prima impegnato a bastonare gli scioperanti, o a sostituirli propagandisticamente al lavoro.
Poi dedito sul territorio, a incendiare cooperative, comuni socialisti e Camere del Lavoro. Nonché a manganellare e uccidere su larga scala, con raid militari agli ordini dei famosi ras della «Padania» di allora. Sempre in nome della «rivolta civile e nazionale» della gente, che «ne ha piene le tasche» dei «fomentatori di disordini»: contadini, operai, comunisti, socialisti, cattolici, pacifisti e antimilitaristi.
Dunque, sovversivismo dal basso, nell’esperienza italiana. E sovversivismo dall’alto. Ovvero intervento attivo di esercito, carabinieri e prefetti, di volta in volta complici assenti delle violenze. Oppure nel 1922 volenterosi collaboratori delle violenze squadriste. Mirate a reprimere autonomamente, e a sollecitare solidarietà e copertura di stato. E si arrivò con Gentile nel 1924 persino a distillare dottrina filosofica da ciò. Con l’idea che il manganello avrebbe potuto rafforzare le «convinzioni interiori», in un tempo in cui la persuasione spontanea dell’ethos collettivo vacillava.
Certo, roba lontana per fortuna. L’esperienza e la catastrofe fasciste non sono passate invano, in una con un lungo dopoguerra democratico, che è riuscito a tenere lontane rivincite neofasciste, sul filo della discontinuità repubblicana. Ma in momenti di crisi come questo certe «atmosfere» possono ripetersi. E anzi si sono già ripetute. Nel nord-est, con la sciagurata teorizzazione leghista delle ronde, contro micocriminalità e immigrati. Appelli e teorie sempre in cerca di saldatura «autorizzativa» con l’alto: con le istituzioni, oltre che con il consenso della gente che «ne ha piene le tasche». E atmosfere che si ripetono a Roma, per ora senza invocazione di «ronde». Ma quantomeno con l’adozione - ufficiale stavolta - di atteggiamenti pubblici che fanno crescere un clima. Lo alimentano, e rischiano di fungere da ombrello giustificativo e autorizzativo delle illegalità muscolari e xenofobe. Come altro interpretare le gravi parole del sindaco di Roma Alemanno, che oltre a condannare genericamente le violenza del Pigneto, ha però testualmente dichiarato: «Frutto della scarsa attenzione alla legalità e alla sicurezza»? Si badi, stavolta non siamo difronte a un depistaggio difensivo, come quello del sindaco Tosi a Verona, che per schivare le accuse di intolleranza legata alle sue idee, parlò di semplice «bullismo giovanile» sull’omicidio di branco skinheads. No, stavolta Alemanno incolpa il lassismo della parte politica avversa. E finisce con l’avallare le «motivazioni» psicologiche del raid al Pigneto, assieme ad altri fenomeni di intolleranza passati, e magari futuri. E il tutto all’insegna di quel famoso «clima» reattivo, nel quale come s’è visto la «gente che ne ha piene le tasche» è spinta a reagire. In una sorta di giustificazionismo sociologico con bersaglio politico mirato. Che non può che incoraggiare la spontanea autorganizzazione di nuclei di società civile intollerante: ronde, comitati di quartiere o squadracce. Per poi magari condannarle, in nome di un tardivo ristabilimento della legge dall’alto (e «al di sopra delle parti»), che però passa per la blindatura legislativa e repressiva della condizione dei migranti, con il consenso della «gente».
Sono dinamiche arcinote, e che in Italia conosciamo bene, connaturate alle pulsioni d’ordine della destra italiana e di quel fascismo, neo e post da cui viene Alemanno. Si dirà: paragoni impropri, tempi lontani e superati. Che stridono con il vero clima positivo di questi giorni nella politica italiana: il superamento bipartisan degli steccati su memoria e istituzioni. Può darsi, eppure ci sono sintomi inquietanti di «piccole cose» che ritornano. I raid e le giustificazioni di cui sopra, oltre alle leggi ventilate sulla «clandestinità reato». E poi, restando ancora ad Alemanno, certi irresistibili «ritorni ideali» a Roma. Ad esempio il recupero insensato e grottesco, da parte del Sindaco capitolino, di Ezra Pound, il poeta antisemita e fascistissimo che imprecava alla radio fascista durante la guerra. Clamorosamente promosso da Alemanno a progenitore libertario del 1968 e affiancato al poeta beat Ferlinghetti! Inaccettabile offesa per la cultura e per Roma, città delle Fosse ardeatine e vittima dei rastrellamenti nazisti degli ebrei. E assurdità che nessuno, nessuno! ha contestato al sindaco Alemanno. Non basta, perché dal Campidoglio e col suggello di An, arriva anche la proposta di una via per Almirante. l’Unità si è già espressa contro e con ottimi argomenti. Li ribadiamo: sarebbe uno sfregio a Roma e all’Italia antifascista. Perché Almirante, in doppio petto o no, non fu mai un democratico.
Fu un saloino che controfirmò i bandi fucilazione ai renitenti. Uno che diceva che neofascista ce l’aveva scritto in fronte. Che fu contro il divorzio e che negli Usa invocò soluzioni cilene per l’Italia. E iscrivere Almirante nella memoria civica comune equivale a iscrivere in essa anche il fascismo: tutto! Incluse ronde, squadracce e spedizioni punitive che da sempre sono l’anima del fascismo.

l’Unità 27.5.08
Chiesa-potere, D’Alema guarda all’identità del Pd
di Ninni Andriolo


Le conclusioni di D’Alema al seminario su “religione e democrazia” hanno aperto un dibattito al quale - guardando al Pd - partecipano, al momento, soltanto ex Dl, popolari e “Teodem” in particolare. Davvero poche le reazioni degli ex diessini, se si escludono Vittoria Franco e Nicola Latorre (che replica a una intervista di Fioroni sintetizzata così dal Corriere: “D’Alema sbaglia, dà giudizi da vecchio Pci”). «Gli consiglierei di consultare prima i documenti e i contenuti delle cose da commentare - rintuzza il vice presidente Pd al Senato - D'Alema ha sottolineato due aspetti importanti che rafforzano il dialogo con i cattolici: il primo, è che il recupero del sentimento religioso può essere una risorsa per la politica, il secondo è il valore della laicità dello Stato». Le reazioni degli ex Dl si concentrano, in particolare, sui rischi - messi in evidenza dal presidente di Italianieuropei - di una Chiesa che dovesse cedere «alla tentazione demoniaca del potere», stipulando «un patto di potenza» con la destra, cementato da leggi che traducono la morale cattolica in norme «imposte a tutti». Frasi accompagnate dalla cautela di molti “se” che, tuttavia, non le rendono neutre o meno chiare. Immediata la replica indiretta del presidente della Cei, Angelo Bagnasco: «Esprimere liberamente la propria fede, partecipare in nome del Vangelo al dibattito pubblico, portare serenamente il proprio contributo nella formazione degli orientamenti politico-legislativi, accettando sempre le decisioni prese dalla maggioranza: ecco ciò che non può mai essere scambiato per una minaccia alla laicità dello Stato». Savino Pezzotta coglie nelle parole del presidente di Italianieuropei «Non una accusa alla Chiesa, ma una preoccupazione, un'attenzione verso il rischio che sta dietro all'indebolimento della presenza organizzata dei cattolici in politica». Mentre, sul fronte del Partito democratico, vanno segnalate tra le altre le dichiarazioni “Teodem”. Luigi Bobba e Paola Binetti danno atto a D’Alema di aver richiamato l'attenzione sul rapporto tra politica e religione. Ma polemizzano sul «patto di potere tra la Chiesa e la destra», che negano decisamente, e pongono sul tavolo il tema dell’identità del Partito democratico. Se nascesse una deriva «laicista che vede la Chiesa come un nemico, un soggetto invadente, credo che l'esperimento Pd sarebbe seriamente messo in discussione», avverte Bobba. «O il Pd riesce davvero a far proprio il patrimonio culturale del cattolicesimo popolare, con una integrazione a tutto campo nel progetto democratico - sottolinea Binetti - O credo che il timore possa essere che una rinnovata apertura verso l'estrema sinistra possa creare le condizioni per una preoccupazione cui il Paese ha già dato risposta alle elezioni». Appare fuorviante, per la verità, ridurre al contingente dibattito sulle alleanze del Pd il succo politico del seminario di Italianieuropei. Cogliendo una coincidenza, magari, tra le parole di Franco Giordano - «D'Alema ha provato solo a ribadire i fondamenti della Costituzione» - e quelle di Nicola Latorre che aprono a Nichi Vendola, candidato alla segretaria Prc, il cui successo può «offrire a chi si colloca alla nostra sinistra un progetto con una forte carica innovativa». Al presidente di Italianieuropei, tra l’altro, erano stati attribuiti - al contrario - patti più o meno sotterranei con i popolari del Pd e il proposito di creare rapporti privilegiati con l’Udc. E prende le distanze dalle critiche Marco Follini: «Non le capisco e quindo non le condivido». La riflessione di D’Alema, in realtà, ribalta alcuni schemi politici e li supera. E forse vale la pena di analizzarla per quel che sostiene alla luce del sole. Soprattutto perché sollecita - come colgono i Teodem, dal loro punto di vista - un dibattito sul profilo che dovrà avere il Pd. Un confronto sulla laicità della politica e dello Stato al quale non solo i cattolici dovrebbero partecipare.

l’Unità 27.5.08
Vittoria Franco. La senatrice del Pd sul rischio adombrato da D’Alema: ma sulla 194 il dialogo tra Pd e maggioranza è possibile
Il patto Chiesa-destra sui temi etici? C’è stato, ora il Pdl dimostri di non essere prigioniero
di Maria Zegarelli


Dibattito infuocato dentro e fuori il Partito democratico dopo la relazione finale della Fondazione Italianieuropei.
Senatrice Vittoria Franco, lei lo vede o no questo rischio di patto tra Chiesa e destra di cui parla D’Alema?
«C’è stato in passato, come documenta la storia. Pensiamo all’influenza che hanno avuto i teocon dopo l’elezione di Bush negli Usa e in Italia: oggi, a parte Ferrara, non ce ne sono tracce. È vero che Famiglia Cristiana dicendo, sulla 194, al centrodestra “visto che avete la maggioranza potete cambiarla”, denota un sintomo del rischio di cui parla D’Alema, ma le reazioni della politica a quelle affermazioni sono state tutte negative. Credo che la cultura dell’autonomia della politica, di cui noi Ds prima e Pd ora, siamo stati paladini, stia facendo passi avanti e stia contaminando anche la destra».
Il fondamentalismo non è uno dei possibili rischi nel dibattito sui temi definiti eticamente sensibili e quindi sulle relative leggi che lo Stato prima o poi dovrà fare?
«Vedo un rischio maggiore, oggi, per quanto riguarda gli effetti della cultura di destra, più sui temi che riguardano la sicurezza e l’immigrazione che non su quelli eticamente sensibili. Non penso sia possibile, purtroppo, varare le leggi che stanno a cuore a noi dell’opposizione, come il miglioramento della legge 40, ma credo che ci sia maggiore possibilità di dialogo».
Ma D’Alema cita come esempi proprio le leggi sulla fecondazione assistita e l’aborto...
«Il patto c’è stato nel passato, quando è stata approvata la legge 40. All’epoca quella legge è stato il valore di scambio con la Chiesa rispetto ad altri argomenti. Giovanni Paolo II venne in Parlamento a chiedere tre cose: indulto, pace e una legge di tutela della vita. Di queste tre cose la destra gli ha dato la legge 40. Oggi vedo più una tentazione di immobilismo che non di aggravamento ulteriore. Quindi noi dobbiamo fare breccia su questo immobilismo».
Mi fa un esempio di dialogo con il centrodestra sui temi di cui stiamo parlando?
«La legge 194 è un esempio. Persino la sottosegretaria Roccella ha detto che non si cambia, semmai si applica fino in fondo».
Bagnasco dice: «Esprimere la propria fede non minaccia lo Stato». Se lo Stato è autonomo. Secondo lei lo è?
«Lo Stato è minacciato nella sua laicità quando ci sono ingerenze forti. Non dobbiamo dimenticare che la presidenza della Cei di Ruini ha significato un tentativo, a volte riuscito, di minare la laicità dello Stato e di sostituirsi allo Stato. Durante il referendum sulla legge 40 c’era un vero e proprio quartier generale alla Cei».
Bagnasco interviene anche sulle linea guida della Legge 40...
«Lui può dire quello che pensa, è giusto che lo faccia. Ma la politica non deve farsi influenzare. Mi preoccupa più quello che dice Giovanardi che vuole abolire quelle linee guida».
Non crede che siano fortemente legate le dichiarazioni Oltretevere con la mancanza di leggi sulle coppie di fatto e la presenza di altre come la legge 40?
«Noi abbiamo un unico modo di reagire a tutto questo: imponendoci un confronto e un dialogo con lo schieramento politico a noi opposto per arrivare ad ottenere leggi laiche».
Il Pd è così forte o anche al suo interno ha lacerazioni su questi temi?
«Il Pd è un partito plurale, che deve tener conto di diverse sensibilità, ma è un partito laico, come si vede anche dalla mozione sulla legge 194, firmata da tutte le senatrici, compresa la Binetti, durante la scorsa legislatura. Ma il Pd deve essere in grado di creare una cultura condivisa e porre più attenzione alla cultura politica, quindi anche sul piano dei valori, delle idee e della laicità».

l’Unità 27.5.08
Riforme. Giordano: il Pd vuole uno sbarramento oltre il 3%. Ceccanti: non è vero, e quella soglia conviene a tutti
Europee, contro Veltroni Rifondazione cerca di «usare» D’Alema
di b. mi.


Al Pd la chiamano la «piccola» guerra del 3%. Piccola e anche un po’ assurda, aggiungono i veltroniani. Però le ostilità e le polemiche crescono, tanto che intorno a questa soglia di sbarramento che il Pd vedrebbe di buon occhio nella legge elettorale per le europee, si sta giocando una partita più grossa dell’oggetto in questione. In ballo non c’è solo il futuro del dialogo tra Veltroni e la sinistra radicale, che ovviamente non vuole sbarramenti di nessun tipo, ma anche l’esito di un confronto non facile all’interno del Pd sul tema alleanze. La Destra per ora sta a guardare, ma siccome preme per uno sbarramento più alto, al 5%, essenzialmente in funzione anti-Udc, vuole capire che cosa gli conviene fare: se forzare la mano e mettere in difficoltà Veltroni, oppure se accettare il compromesso del 3% che alla fine, dicono tutti, potrebbe andare bene anche alla sinistra radicale.
Ieri l’ex segretario di Rifondazione comunista Giordano è tornato ancora all’attacco, accusando il leader democratico di dire «soglia al 3%» ma in realtà di pensare, con il rimpicciolimento delle circoscrizioni, ad uno sbarramento più alto ed evidentemente capestro per l’ex Sinistra Arcobaleno. Il problema è un altro: la critica, nelle parole degli esponenti della ex sinistra arcobaleno, a cominciare da Nicki Vendola, candidato segretario al posto di Giordano, è condito ogni volta con le lodi di D’Alema e Bersani, presentati come più attenti di Veltroni al dialogo con la sinistra e quindi implicitamente più sensibili ai lamenti della sinistra sulla soglia per le europee. Tanto è scoperto il gioco della sinistra radicale che il vicepresidente dei senatori del Pd Latorre, dalemiano, è intervenuto per dire che «Vendola sbaglia a ritenere che solo una parte del Pd sia interessata agli sviluppi del dibattito nella sinistra radicale, perchè il segretario Veltroni ha mostrato interesse e rispetto a questo confronto». Aggiunta: il Pd sarà molto attento, in Parlamento, quando si arriverà a parlare della legge elettorale per le prossime europee.
Già, che linea terrà il Pd? Stefano Ceccanti, costituzionalista e neosenatore del Pd, veltroniano, la mette così: «Sulla legge elettorale per le europee la nostra linea non può essere quella di non farla. E anche nella sinistra radicale dovrebbero pensarla così...». Ceccanti si dice convinto che a sinistra si sta facendo tattica ma in realtà sono pronti a trattare. Anche perchè, aggiunge, c’è un equivoco di fondo sulla soglia: l’ipotesi di un aumento delle circoscrizioni non implica un rialzo fittizio dello sbarramento, perchè «noi pensiamo a un calcolo dei seggi su base nazionale». Insomma il 3% sarebbe il 3% e la sinistra lo supererebbe. Ceccanti sostiene che con la Destra c’è un’intesa sui principi sulla legge elettorale, ma nessuna trattativa «sotto banco» e quindi è interesse anche della sinistra radicale negoziare. «Vero che non c’è problema di governabilità - dicono al Pd - e che bisogna garantire la più ampia rappresentatività alle europee, ma tutti sanno che la soglia del 3% è il compromesso più ragionevole per tutti». Compresa la Destra. Il problema è che sulle riforme, finora, ci sono solo buoni propositi e pochi fatti.

l’Unità 27.5.08
Pd, ripartire con uno sforzo culturale
Nella sconfitta elettorale, si è espressa anche una specifica «congerie culturale» che va ricostruita e interpretata, per ricostruire e interpretare le trasformazioni perfino antropologiche della società
di Laura Pennacchi


La riflessione a cui oggi il Partito Democratico è chiamato deve essere all’altezza dello spessore e della complessità dei problemi evidenziati dall’esito del voto del 13 e 14 aprile. Il primo e più importante dei quali è il dovere di un grande investimento culturale, la necessità di un largo sforzo di discussione e elaborazione collettiva che da una parte incorpori ricerca e analisi, dall’altra si cimenti con la produzione di nuovo pensiero e di nuova teoria.
Nella nostra sconfitta elettorale, infatti, si è espressa anche una specifica "congerie culturale" che va ricostruita e interpretata in quanto tale, per ricostruire e interpretare le trasformazioni perfino antropologiche della società italiana. Così come, di converso, solo una battaglia ideativa e progettuale autentica ci metterà nelle condizioni di influenzare il clima culturale complessivo dei prossimi anni. Il che è, a sua volta, condizione imprescindibile per non consegnarci inermi a una ricerca di legittimazione che, se scaturente da un improprio appeasement con il governo di destra in carica, rischierebbe di privarci strategicamente della nostra autonomia politica, non fare un utilizzo miope della ripresa di dibattito sulla legge elettorale come sola e angusta ricerca di un "riparo" dal possibile ritorno caotico di formazioni minori, evitare di oscillare tra la mistica del "correre da soli" e il politicismo della ricerca tattica di alleanze non fondata su una maturazione programmatica effettiva. D’altro canto, la parola d’ordine "radicarsi nei territori" manifesta tutto il suo senso cruciale solo se con essa intendiamo non l’acquisizione di una capacità di ricezione passiva, e corporativa, delle istanze locali (una sorta di leghizzazione del PD), ma un radicamento che prima di tutto mobiliti e veicoli pensiero, idee, valori, simboli alternativi. In questa fase le questioni della democrazia nel PD - regole, competenze, trasparenza, organismi, primarie per le candidature - si pongono con una tale acutezza perché esse non hanno solo un significato procedurale, ma sostanziale. Mai come oggi la forma è sostanza, perché i compiti immani di fronte a noi sono affrontabili solo attraverso la collegialità, la condivisione, la partecipazione, il concorso di molte intelligenze, l’attivazione di tutte le passioni. Così, se partito postideologico non può voler dire partito postidentitario, potrà emergere il ricco e pluralista profilo identitario di cui il PD ha bisogno, viceversa non enucleabile dalla semplice sommatoria di "ricette" programmatiche pur corrette, ma carenti di "anima", di "asse strategico", di una grande "narrazione" anche simbolicamente incisiva.
Dopo quindici anni il panorama politico, economico e sociale, italiano e mondiale, ci consegna nodi irrisolti e problematiche nuove. Dallo sconquasso finanziario innescato dalla crisi dei subprime alle tensioni sul prezzo del petrolio e dei beni alimentari, dagli sconvolgenti flussi migratori al disordinato imporsi nell’economia internazionale di paesi come la Cina e l’India, dall’esplosione di vecchie e nuove diseguaglianze al degrado ambientale e climatico, tutto ci dice che l’autoregolazione dei mercati si rivela illusoria. Non è illusorio, però, l’avanzamento concreto dell’individualismo egoistico - proprietario, acquisitivo, possessivo - generato dall’enfasi sullo scambio di mercato come etica in se stessa, la desocializzazione dell’individuo, l’esaltazione del privatismo, la depoliticizzazione della società, l’isolamento e la spoliticizzazione dei cittadini che rendono superflue le funzioni di creazione della cittadinanza e dell’identità civica.
La trasformazione dell’equilibrio pubblico/privato ha provocato un depotenziamento della democrazia, visibile nello strisciante deterioramento della struttura normativa, nel progressivo indebolimento della "sfera pubblica", nella crescita ipertrofica delle varie forme di privatismo: dal diritto all’economia, lo sviluppo del fenomeno che è stato chiamato "commodification" ha messo al centro degli scambi sociali il carattere individuale e privato del contratto e ha ridotto lo spazio della mediazione istituzionale proprio degli istituti della democrazia, quel ruolo del soggetto "terzo" fra due parti contraenti, tipico delle architetture costituzionali, a cui è stato storicamente affidato l’inveramento dei grandi ideali di libertà, eguaglianza, giustizia, quel carattere di terzietà della mediazione che storicamente ha segnato il passaggio dall’ordinamento feudale (personale) al regime politico democratico moderno e allo stato di diritto. Con i rischi di neofeudalesimo, in questione arriva ad essere la stessa nozione di "responsabilità collettiva".
E qui siamo al punto cruciale, perché qui passa nuovamente la discriminante destra/sinistra. Da una parte la revoca in dubbio dell’idea di "responsabilità collettiva" chiede a noi che lavoriamo per un forte profilo identitario del PD di riconoscere quanto sbagliata fosse la concessività, l’inerzia, il conformismo che anche il centrosinistra ha avuto verso il neoliberismo, il quale ha come suo cardine proprio la demolizione dell’equilibrio pubblico-privato attraverso cui è possibile esercitare "responsabilità collettiva". Dall’altra l’aggressione, esplicita e implicita, alla nozione di "responsabilità collettiva" mostra quanto ambiguo sia il rinnovato populismo del centrodestra italiano, il quale mantiene come suo perno ideologico un postulato neoliberista e cioè il trasferimento del rischio sociale sui singoli e la rimessa in questione delle funzioni pubbliche e collettive di solidarietà e di cittadinanza (si pensi all’annunzio di bonus generalizzati, nessun intervento a favore dei redditi medio-bassi, federalismo divisivo in favore dei ricchi, trasformazione in galere dei centri di accoglienza degli immigrati, privatizzazione delle Università e degli enti di ricerca, costruzione del ponte sullo Stretto, ecc.). Proprio qui dobbiamo concentrare la nostra attenzione: sbaglieremmo se pensassimo che nel centrodestra italiano ci sia un rovesciamento nei confronti dei mercati e della tecnica rispetto alle posizioni sostenute dal blocco berlusconiano a metà degli anni’90. Il neoliberismo non è mai esistito in forma "pura", ovunque è sempre stato un impasto in cui convivono fenomeni molto disparati, tra cui anche decisionismo, autoritarismo, protezionismo, conservatorismo, antimodernismo, tradizionalismo valoriale e religioso. Oggi in Italia il decisionismo e il protezionismo di cui Giulio Tremonti si proclama alfiere non possono essere affatto scambiati con una posizione in favore di un nuovo intervento pubblico mirante ad esercitare "responsabilità collettiva". Nella sua combinazione neocolbertiana c’è molto interventismo ma poco intervento pubblico finalizzato al "bene comune" e in ciò - nel privilegiamento dell’interesse privato e nell’oscuramento della dimensione pubblica - si rintraccia la continuità tra il presente del centrodestra italiano e il suo recente passato. In tale combinazione convivono molti aspetti controversi: - l’enfasi sul "terzo settore" si propone come pendant del decisionismo e si articola all’interno della riproposizione del mito dell’immediatezza, dell’autosufficienza, dell’autenticità della società civile; - il decisionismo è intriso di autoritarismo e di immagini di gerarchizzazione della società (di cui è esemplificazione il giudizio, tanto negativo quanto sommario, sul ’68), di conservatorimo valoriale e di tradizionalismo religioso; - della globalizzazione si chiede un rallentamento e perfino un arresto, non un rovesciamento di qualità e di segno, così come l’Europa è configurata solo come "fortezza", armata di un forte protezionismo, chiusa entro un Occidente guerrescamente visto come un monolite, ben diverso dall’"Occidente diviso" di cui parla Habermas, che affida alla "ragione pubblica" l’esercizio della specificità civilizzatrice dell’Europa.
Per questo i compiti innanzitutto culturali che gravano su di noi - a partire dall’interrogarsi su "quale globalizzazione", proporre un nuovo ordine economico mondiale e una nuova Bretton Woods, fare dell’Europa il motore di una globalizzazione "equa", europeizzare l’Italia, lanciare una stagione di neoumanesimo - sono così ardui e al tempo stesso così ineludibili.

l’Unità 27.5.08
Dialogo con Reichlin. Cara Sinistra, ecco perché perdi
Le dinamiche strutturali del capitalismo stanno mutando tutti gli scenari
di Sandro Bondi


Gentile Direttore,
Afredo Reichlin, in un recente articolo su l’Unità, ha testimoniato un’onestà intellettuale non comune. Del resto, dobbiamo a Reichlin un importante saggio di alcuni anni fa dedicato alla memoria ed al futuro della sinistra. Un saggio che, senza nascondere le difficoltà, apriva ad un riformismo progettuale di ampio respiro. Il capitolo generale della crisi attuale del mondo globalizzato attende ancora una lettura analitica e operativa. La politica non può che attrezzarsi a questo compito. Il sostanziale riconoscimento dell’arretratezza culturale della sinistra, che la rende inadeguata a questa sfida, è sotto gli occhi di tutti. Reichlin non fa sconti e fa bene. Se è vero, come è vero, che l’oligarchia finanziaria ha finora guidato la mondializzazione, è altrettanto vero che la sinistra si è trastullata in improbabili annessioni di modelli neoliberistici, oggi messi in discussione da esponenti dello stesso liberismo americano. Un errore culturale e quindi strategico.
L’orizzonte teorico deve aprire, infatti, al recupero di una visione politica all’altezza della crisi.
In una seria analisi dello stato delle cose non si può censurare questo dato. La categoria rubricata alla voce “destra” non favorisce la comprensione della realtà: di che si tratta? Lo stesso Reichlin accoglie nella sua disamina politica elementi critici e analitici svolti da Tremonti nel suo ultimo saggio. Tradotto in termini più direttamente politici: la politica deve ritornare a guidare l’economia come cifra del governo della globalizzazione. E ciò a fronte di tre crisi che si stanno sovrapponendo: finanziaria, energetica ed alimentare. Il Rapporto Unicef 2008 conferma che ci troviamo di fronte a un’emergenza devastante che tocca in primo luogo le radici dello sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo ed, in parte, anche di quelli in via di sviluppo. I Paesi democratici più avanzati non possono non farsi carico di una tragedia che rischia di produrre un effetto di crisi sull’intero sistema mondiale, a cominciare da quello europeo-occidentale, attraversato già da una rilevante crisi finanziaria. Quando aumenta vertiginosamente il prezzo delle derrate alimentari e la fattura cerealicola dei Paesi poveri aumenta proporzionalmente, e quando abbiamo ben trentasette Paesi che attualmente attraversano crisi alimentari, dalla Somalia al Nicaragua, c’è anche il rischio che i gruppi religiosi più integralisti possano sfruttare questa situazione. Si tratta perciò di ristabilire il nesso tra lo sviluppo basato sul capitalismo democratico e la necessità di “spezzare le catene della povertà. È questa la sfida principale da vincere per ridare senso e slancio alla politica occidentale, europea ed americana. Questo tema è posto all’ordine del giorno da 21 saggi che hanno scritto un appello contro la “mondializzazione selvaggia”, pubblicato su Le Monde. Fra questi, vi sono fior di liberisti, a cominciare da Robert Rubin e Robert Solow, premi Nobel.
In gioco non sono solamente le dimensioni partitiche del confronto politico italiano. La posta in gioco è ben più corposa. Le dinamiche strutturali del capitalismo stanno mutando tutti gli scenari. Tutti. Anche quelli politico-istituzionali. Anche la democrazia. La sinistra perde e non convince più neanche gli operai perché traduce la crisi in reattività polemica in chiave moralistica oppure si fa scudo di corpi estranei come il neoliberismo, sul piano economico, e il laicismo, sul piano culturale. Senza aver costruito quel che Reichlin auspica: un modello culturale per la politica.
Ora, anche la questione della sicurezza, su cui ha ragionato Reichlin, con toni stavolta assai meno efficaci, si comprende all’interno di queste complesse dinamiche strutturali e non motivando una critica di natura etico-soggettivistica, che rischia di fermarsi alla denuncia del male, senza produrre lo scatto in avanti dell’analisi che conduce all’azione politica, al governo della realtà. Il territorio è diventato strategico non solo come spazio economico, ma, ancor più radicalmente, come spazio economico-politico, dunque la sicurezza come affermazione della legalità diventa la cartina di tornasole più netta di una chiara scelta culturale: si tratta della riaffermazione della legalità repubblicana e democratica. L’emergenza che vediamo oggi è l’esito di una mondializzazione mal concepita e non governata. Occorre andare al di là dell’emergenzialismo e situare le risposte con una visione strategica. Il che equivale a riaprire i capitoli della legalità e dell’immigrazione in tutta Europa. Basterebbe comparare i provvedimenti del nostro governo con quelli di Francia, Germania e Spagna, per comprendere quanto il governo del territorio e l’affermazione della legalità democratica siano uno dei fattori chiave della democrazia, anzi del modello di democrazia europeo. Questo significa “piantare i pedi sul terreno dei nuovi grandi conflitti”. Con un pensiero ed una risposta politica. La modernità è complessità allo stato puro, la politica deve stare al passo di questa congerie di mutamenti che spiazzano le modalità culturali ed analitiche classiche. Il confronto politico deve dunque spostarsi sul terreno dei conflitti reali, con un assetto culturale all’altezza dei tempi. Altrimenti la filosofia politica e, con essa, la politica faranno la fine della celebre nottola di Minerva che si leva sul far della sera. Troppo tardi.
Ministro dei Beni e delle Attività Culturali

l’Unità 27.5.08
Violenze. La bambina di Chiaiano
di Luigi Cancrini


«“Stavamo sul muretto io e una mia amica a giocare col telefonino, all’improvviso ci hanno menato coi mazzarelli e gli scudi”, racconta, apparentemente serena, la ragazzina bionda, occhi azzurri che frequenta la prima media e che da grande vorrebbe entrare nella Marina militare». Chi scrive è Checchino Antonini, sulla prima pagina domenicale di Liberazione. Nel giorno successivo, silenzio. Nessuna smentita da parte della Questura, nessun altro giornale o telegiornale parla di un episodio documentato, fra l’altro, da una fotografia agghiacciante.
Una ragazzina stesa per terra, il viso sul braccio, i capelli scomposti, un gruppo di poliziotti in tenuta antisommossa chini su di lei con i manganelli stretti nelle mani. Mentre è solo l’Unità ieri mattina a riferire, a proposito degli stessi scontri di Chiaiano, l’accorato appello a tenersi lontani dalle discariche di Maurizio Pirozzi, 38 anni, sposato e padre di un bambino di due anni che colpito dai poliziotti, è caduto da un muro rompendosi una gamba. «Siamo stati spinti dagli agenti armati di manganelli durante la carica, racconta, e siamo precipitati tutti e due da un muro di circa 10 metri di altezza. Questo è quello che la gente deve sapere. Io voglio andare fino in fondo, denuncerò la polizia, ho già parlato con un avvocato. Chiedo a chi ha visto di farsi avanti per aiutarmi a fare luce sulla verità». Anche di questo episodio sappiamo solo oggi, del resto, perché i telegiornali di ieri hanno dato solo le immagini di Maroni e di La Russa furibondi contro chi si oppone a quella che chiamano l’azione dello Stato. Che sta accadendo a Napoli? Che sta accadendo in questo nostro Paese?
Gli episodi ricordano quelli accaduti a Genova nei giorni del G8. Il governo di destra guidato da Berlusconi si era appena insediato, Fini e Castelli si erano recati sul luogo per sostenere, fomentandole, le reazioni scomposte di una polizia troppo “professionale”. La differenza fra allora e adesso, tuttavia, sta nel modo in cui degli scontri si parlava (allora) e quasi più non si parla (adesso). Nel silenzio dei media che contano. Un silenzio che merita di essere esaminato attentamente.
Dicendo, prima di tutto, che la ragazzina e il padre di famiglia di Chiaiano non sono esponenti della malavita organizzata. Fanno parte di una comunità in cui si è sparso l’allarme, basato su dati scientifici serii, per le malattie che possono essere determinate dalle discariche a cielo aperto nella popolazione che vive loro accanto. Rischi pesantemente aggravati (lo ha dimostrato la magistratura) dal modo in cui la camorra ha utilizzato finora (e potrebbe ancora utilizzare: è inevitabile che lo si pensi) questo tipo di discariche per lo smaltimento dei rifiuti tossici. Se le cose stanno così, la gente che scende in strada protestando in questi giorni, però, è gente che difende la vita propria e quella dei propri figli: gente che ha interessi largamente divergenti da quelli della delinquenza organizzata. Parlarne come se si trattasse di persone incivili che si lasciano manovrare dalla camorra e che non hanno rispetto per lo Stato, così come fanno oggi Maroni, La Russa e il Presidente del Consiglio, è fuorviante e vigliacco. Dimostra bene, in fondo, solo la debolezza culturale di quelli cui gli italiani hanno deciso di affidare il governo del loro paese.
Quella cui si dovrebbe pensare, invece, è la trappola mortale in cui si trova la popolazione di questa regione sfortunata. Sottoposti da sempre alla prepotenza di una criminalità senza scrupoli, gli abitanti di Chiaiano e di troppi altri paesi della Campania dovrebbero poter pensare allo Stato ed ai suoi rappresentanti come ad un insieme di persone e di istituzioni il cui compito fondamentale è la lotta alla delinquenza e la protezione di chi è costretto a subirne la violenza. Trovarsi di fronte, nel momento in cui scende in piazza per difendere i propri diritti, una polizia che usa con loro la durezza che non riesce ad usare nei confronti dei clan camorristi, potrebbe avvicinare, per molti di loro, il momento in cui si perde ogni fiducia nello Stato e nei suoi rappresentanti. Soprattutto se le violenze dei poliziotti sono coperte dal silenzio complice di una stampa che le copre. Soprattutto se li si lascia, come sta accadendo oggi, completamente soli.
Bisogna sempre guardare con tristezza e con sospetto alla polizia che usa la forza contro dei cittadini inermi. Soprattutto nel caso in cui, come sta accadendo di nuovo oggi, le parole dei ministri da cui la polizia alla fine dipende sono parole piene di boria e di disprezzo. Sicuri di aver ragione, pieni di sé e incapaci i intendere la complessità delle situazioni con cui in ben altro modo dovrebbero confrontrasi il ministro degli Interni e quello della Difesa hanno giocato pesantemente, nel corso delle loro immeritate interviste televisive, sull’equivoco che collega le proteste della gente perbene che esercita un suo sacrosanto diritto in un territorio difficile e tormentato alla presenza su quel territorio di una delinquenza organizzata che di questa gente è, da sempre, il nemico più terribile e più spietato. Come se non si rendessero conto, e questa è di tutte la cosa più grave, del modo in cui caricare i bambini e la gente che non può difendersi serve soprattutto a riconsegnare alla camorra, a questo stato nello Stato, a questo insieme di regole non scritte, intere comunità di persone la cui alleanza sarebbe fondamentale per combattere l'unica guerra in grado di salvare la democrazia in quella città, in quella Regione e in tutto il nostro paese. La guerra contro chi dello Stato ha saputo prendere il posto e l’autorità. Costruendo zone franche di capitalismo selvaggio. Sfruttando ed opprimendo migliaia e migliaia di nuovi schiavi. Assumendo di fatto poteri pieni in zone ampie di questa nostra povera Italia.

l’Unità 27.5.08
Euripide a Cogne
di Adele Cambria


Confesso che l’avevo pensato - ed anche scritto. E so che era facile, ma non era giusto, lasciarsi suggestionare da Euripide e dal mito di Medea, per sentire, visceralmente, se volete, chi era il (la) colpevole nel delitto di Cogne. Ricordate una frase del Coro, in quella tragedia, quando la protagonista annuncia il suo proposito omicida? «Per te, sfortunata figlia di Creonte, quanta pietà...», lamentano le donne. Ed una simile pietas, ma tanto forte e impetuosa da rischiare la complicità, deve essere scattata quella mattina del 30 gennaio 2002, nella pancia e nel cuore di una donna-medico, Ada Satragni; che arriva per il soccorso richiesto da una madre (ed amica) in lacrime, arriva con la sua borsa da medico, vede il massacro di Samuele, e istintivamente spera che non sia stato un massacro, e diagnostica, compromettendo la propria stessa professionalità, un aneurisma che avrebbe fatto schizzare dovunque nella stanza sangue e brandelli del cervello dello sventurato bambino. Ed ora che Anna Maria Franzoni è condannata con sentenza definitiva a 16 anni di carcere, non sentite come quella pietas trapeli e cerchi di trovare un varco persino tra i meccanismi faticosi della legge? L’indulto, le visite dei figli bambini sei volte al mese - e sono già incominciate - la libertà condizionale fra quattro anni... Perché anche gli uomini e le donne della legge sentono che il carcere non ha senso in una storia come questa: una storia enorme che contiene in sé il gesto della tragedia e il mito, l’oscura voragine conflittuale del sentimento materno intuita fin dalle origini della nostra cultura (da Medea alla Lalla Romano de «Le parole tra noi leggere»); e la sua, se possibile, ancora più atroce “modernizzazione”, nella solitudine simbiotica - tutt’il giorno insieme, madre e bambini, il papà, “ assente giustificato” al lavoro - della casetta delle favole. O del mulinobianco? È stata Luce Irigaray, per prima, credo, a rivendicare, almeno come progetto, un diritto materno. «Occorre interrogarsi - ha scritto- sulla rappresentatività scritta del diritto delle donne. È incredibile ma vero che discorsi teorici e pratici monosessuati possano legiferare e perfino esistere».Ma il diritto materno ancora non esiste. «L’avere acquisito alcuni vantaggi - scriveva Irigaray alla fine degli anni ‘80 - non ha cambiato granchè». Ed elencava il diritto alla contraccezione e all’aborto, la protezione civile (e legale) in caso di violenza sessuale, la penalizzazione di qualsiasi violenza inferta a una donna «in pubblico e in privato», concludendo: «Sono diritti elementari della vita che bisogna iscrivere nei codici per riconoscere le donne come cittadine». Già, e la follia femminile? Anna Maria Franzoni è stata giudicata dai magistrati sana di mente. Ma non è un caso che l’abbozzo di un progetto di diritto materno, peraltro dettagliato, punto per punto, in un altro scritto intitolato «La necessità di diritti sessuati», sia stato collegato, dalla filosofa e psicoanalista belga, al discorso su «Le donne e la pazzia», in occasione di un convegno psichiatrico su questo tema a cui era stata invitata a Montreal nel 1980. Ed a proposito del quale osservava: «Mi stupisce - o meglio non mi stupisce - che tra gli addetti ai lavori siano così pochi gli uomini venuti ad ascoltare quello che le donne hanno da dire sulla propria pazzia. Sembrano ben poco interessati a quello che le donne dicono. Per sapere quello che le riguarda e le cure da prescrivere essi si bastano tra di loro. Non c’è bisogno di ascoltarle, quelle...»
Nella terribile storia di Anna Maria Franzoni qualche indizio o tentativo d’ascolto sensibile, specie da parte delle magistrate, mi sembra vi sia stato. Ma, blindata nel familismo patriarcale che la sostiene, la donna non ha risposto. In quanto alla linea di difesa più recente, pur rafforzata dagli interventi di autorevoli legali - e cioè “l’assenza di motivo” per uccidere il figlio - c’è da chiedersi: quando mai una donna che quel figlio l’ha partorito e poi l’ha ucciso sarebbe in grado di darsene uno? E quando mai noi, osservatori esterni, potremmo individuare una logica plausibile in un gesto simile, se non la logica della Medea di Euripide? Ma quella Medea si invola insieme ai figli bambini su un carro inviatole dal Sole... Non è costretta a subire le maledizioni delle povere detenute del braccio femminile del carcere di Bologna.

l’Unità 27.5.08
La Sapienza, annullato il dibattito con i fascisti
Tra gli invitati Fiore di Forza Nuova. E gli studenti occupano


INDIGNATI hanno occupato la presidenza della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università «La Sapienza» della capitale, non appena il passaparola ha diffuso la
notizia dell’agibilità concessa dal preside ai neofascisti, capitanati da Roberto Fiore per un incontro sulle Foibe nell’aula IV e previsto per le 10 di giovedì. Studentesse e studenti dell’Ateneo e dei collettivi hanno quindi preso possesso della presidenza, intenzionati a non mollare fino alla revoca. Che in serata finalmente è arrivata: il rettore ha infatti revocato quell’incontro. Soddisfatti gli studenti: «È una vittoria degli studenti democratici e antifascisti della Sapienza».
Fin dal mattino la protesta si è concentrata su questo liet-motivo: «L’università pubblica non può e non deve concedere alcuno spazio ad iniziative ed organizzazioni di chiara marca neofascita come Forza Nuova». E tolta l’occupazione gli universitari hanno annunciato per domani una assemblea a Lettere «su vecchie e nuovi fascismi e sul clima razzista ed exenofobo che sta attraversando Roma e l’Italia». E comunque, hanno intenzione per giovedì di presidiare la facoltà.
Giorgio Sestili, studente di Fisica, tra gli animatori dell’occupazione, sottolinea le fasi salienti della giornata di occupazione: «Abbiamo scritto una lettera aperta alla facoltà, mentre il preside Guido Pescosolido ci ha detto che era in attesa di indicazioni dal rettore e dalla questura». Poi Sestili se la prende con il sindaco di Roma Alemanno: «Con la destra al potere ecco cosa succede». Gli studenti antifasciti hanno così dettato le loro regole: «Non permetteremo agibilità a chi fa del razzismo». Secondo gli occupanti, infatti, l’associazione promotrice dell’incontro sulle Foibe «si caratterizza per pratiche violente contro giovani e migranti: l’aggressione al festival di villa Ada nel luglio scorso - sottolineano - è uno dei tanti e drammatici esempi. È intollerabile dare spazio a questi soggetti».

l’Unità 27.5.08
Infanzia, il 24% dei minori è a rischio povertà


Il 24% dei minori italiani, quasi uno su quattro, è esposto a rischio di povertà. In troppi, circa 900.000, abbandonano prematuramente gli studi. Permangono, sebbene continuino a rimanere sommersi, fenomeni di sfruttamento e abuso, quali lavoro minorile, prostituzione e pedo-pornografia on line. C’è una tendenza ad utilizzare la detenzione preventiva per i minori, in particolare per quelli stranieri, e a non rispettare le misure di protezione previste per i quelli che vengono ascoltati in un processo. È un quadro a tinte fosche quello che emerge dal quarto rapporto su I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, il dossier presentato ieri alla vigilia dell’anniversario della ratifica della Convenzione da parte dall’Italia, avvenuta il 27 maggio 1991. Il rapporto, redatto dal Gruppo Crc composto da 73 organizzazioni ed associazioni e coordinato da Save the Children Italia, fotografa la massa di bambini e adolescenti residenti in Italia, che al primo gennaio 2007 era di 10.089.141 unità, di cui 666.393 di origine straniera. La maggioranza è di sesso maschile ed è residente nel Nord Italia. «Troppi di loro, ancora oggi, vivono privati in tutto o in parte di diritti fondamentali, come quello ad una vita dignitosa, all’istruzione, al gioco, alla salute» ha spiegato Arianna Saulini, coordinatrice del Crc. Secondo il dossier in Italia è esposto a rischio di povertà il 24% dei minori, quasi uno su quattro. Tale percentuale sale al 35% se si considerano i minori che vivono in famiglie numerose e raggiunge il 40% nel caso di minori che vivono in famiglie monoparentali. Questi dati - il commento di Veltroni - sui minori «confermano una situazione di estrema fragilità sociale e di un grave rischio di impoverimento».

l’Unità 27.5.08
Carter: Israele ha 150 atomiche
L’ex presidente Usa ha rotto un tabù fra i vip della politica americana


LONDRA L’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter ha affermato che Israele possiede 150 teste nucleari. La dichiarazione è stata fatta ieri al «Times» di Londra durante una visita al festival letterario di Hay-on-Wye nel Galles.
Sono in molti a ritenere che Israele possieda un arsenale mìnucleare, alcuni esperti ritengono che abbia tra le cento e le ducento testate atomiche, ma Israele non ha mai confermato. Dalle frasi riportate dal giornale non è chiaro se Carter abbia citato l’opinione di uno di questi esperti, o un rapporto dell’intelligence Usa o se fosse una sua affermazione. Certo Carter ha così rotto una specie di tabù: negli Usa nessun Vip della politica ha mai riconosciuto il fatto che lo Stato ebraico - abbottonatissimo al riguardo - è a tutti gli effetti una potenza nucleare.
Ma, non molto tempo fa, solo il Segretario della Difesa Usa, Robert Gates ha affermato al Senato che Israele è una potenza nucleare.
Sempre al festival letterario, in un’intervista al Guardian, Carter ha affermato che i governi europei dovrebbero giungere a un punto di rottura con gli Stati Uniti sull’embargo internazionale a Gaza, mettendo fine al loro atteggiamento di sottomissione. Il blocco imposto dal Quartetto (Usa, Ue, Onu e Russia) su Gaza, secondo Carter, è stato «uno dei più grandi crimini umani commessi sulla terra» avendo comportato «la prigionia per 1,6 milioni di persone, un milione dei quali rifugiati». Un mese fa, durante la sua visita in Medio Oriente, il premio Nobel per la Pace aveva fatto infuriare Israele annunciando di voler incontrare a Damasco la guida suprema di Hamas, Mashaal.

l’Unità 27.5.08
Festival a Roma. L’opera cinese è vicina
La Cina ha oltre 25 milioni di pianisti
di Luca Del Fra


Uno sviluppo culturale enorme ispirato anche da Mao
Ne parlano alcuni musicisti

La Cina ha oltre 25 milioni di pianisti, crea festival e stili fra tradizione ed Europa

Prodotto da Musica per Roma, all'Auditorium fino all'8 giugno, c’è il Festival Cinavicina dove spiccano due titoli di teatro musicale. Per l'inaugurazione è andata in scena Poet Li Bai del compositore Guo Wenjing prodotta dal Teatro dell'Opera di Shanghai. Ha debuttato l'anno scorso negli Stati Uniti per poi trionfare a Beijing e poi a Shanghai: il libretto è in cinese, ma la musica è composta in uno stile contemporaneo occidentale, con interludi invece nello stile dell'opera di Pechino. È dunque da annoverarsi come una delle prime partiture che si distanzia dalla ricca tradizione del teatro musicale cinese. Il maggior dizionario del teatro musicale cinese, pubblicato nel 1995, cataloga infatti ben 335 stili regionali diversi di cui il più noto in occidente è l'opera di Pechino (si è visto al cinema in Addio mia concubina), o più correttamente opera di Beijing. Tra queste c'è l'opera yu e a questa tradizione appartiene Cheng Ying salva l'orfano degli Zhao, in scena il 28 e il 29 maggio in una produzione dall'Opera di Henan. (www.auditorium.com, tl 06 80241281).
Quanto agli artisti citati nell’articolo accanto, è doveroso citare, al netto dei suoi eccessi divistici, il giovane pianista Lang Lang con il suo disco Dragon Song (Deutsche Grammophon) perché mette a disposizione un documento di notevole interesse sullo sviluppo della musica occidentale in Cina e sull'incrocio dei due modelli di cultura musicale. Il cd è aperto dal Concerto per pianoforte e orchestra Fiume Giallo, tratto nel 1969 da una precedente Cantata del 1939 di Xian Xinghai. È uno dei rari esempi di musica che, pur originalmente composto prima della rivoluzione culturale, durante quegli anni ebbe una sua diffusione, si dice dovuta all'amore per il pianoforte di Jiang Qing, la moglie di Mao Zedong.

Beethoven, Mozart e involtini primavera
Da svariati anni i musicisti e i cantanti cinesi hanno preso d'assalto le maggiori sale da concerto occidentali: da Berlino alla Scala, da Londra ad Amsterdam a San Pietroburgo. Ci sono pianisti oramai celeberrimi come Lang Lang, primo musicista a lanciare un suo disco molto globalmente su «Second life» attraverso internet, oppure Dang Thai Son, il primo nel 1980 a strappare dalle mani occidentali il premio Chopin di Varsavia - il più importante concorso pianistico del mondo - e Yundi Li che bissò l'impresa nel 2000. Ma non scordiamoci il successo spesso meritato di violinisti, cantanti e direttori d'orchestra. E i compositori: il più noto è Tan Dun, in realtà sono una marea.
La Repubblica popolare cinese ha oltre 25 milioni di pianisti: bella forza si dirà, con oltre un miliardo e mezzo di persone. Calma, se si calcola la percentuale sulla popolazione, si arriva a una cifra che molti paesi occidentali non possono più vantare, e tra questi l'Italia che pomposamente si definisce la patria della musica. Per l'armata cinese della tastiera che adora i classici viennesi - Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert - sta nascendo un repertorio particolare che trae origine dalla musica popolare rigenerata secondo il sistema occidentale in uno stile che, per l'uso delle scale pentatoniche cinesi, ricorda Debussy, ma vi spirano refoli del cross-over e perfino new age. Resta da chiedersi da dove nasca questa passione in un paese con una tradizione musicale risalente al 2000 avanti Cristo. Chi pensa che sia dovuto all'arrivo dei modelli economici occidentali, incorrerebbe in una rozza semplificazione: le cose sono più complesse e sorprendenti, in questa assimilazione un ruolo centrale lo hanno svolto Mao Zedong e la rivoluzione comunista.
Il primo strumento occidentale, una tastiera, giunse nel XIV secolo. Ai primi del ‘900 nasce la prima sezione di musica occidentale, nella scuola normale superiore femminile di Beijing (Pechino). Nel 1927 a Shangai il primo Conservatorio. Negli anni Trenta alcuni compositori sviluppano uno stile per cantate corali che dovevano veicolare un messaggio politico. Con le scarpe ancora inzaccherate dal fango della Lunga marcia, Mao Zedong in Democrazia nuova (1940) scrive: «La cultura cinese deve avere una sua forma propria, cioè una forma nazionale. Nazionale quanto alla forma, nuova e democratica in quanto al contenuto». Due anni dopo precisa negli Interventi alle conversazioni sulla letteratura e l'arte: «Non dobbiamo respingere l'eredità degli antichi e degli stranieri, né rifiutare di prendere le loro opere a esempio». Idee-guida che dopo il 1949 informeranno la vita culturale cinese, permetteranno la diffusione della musica occidentale e del pari la nascita di una nuova musica cinese, ovviamente marcata dall'estetica del realismo socialista. «Mio padre ha studiato in Conservatorio negli anni ‘60 - spiega Lü Jia, direttore nato a Shangai, affermatosi in Europa e in Italia con una brillantissima carriera - faceva parte della seconda generazione di musicisti cresciuti nella Cina comunista. Il modello dei Conservatori era stato trapiantato dall'Unione Sovietica. Ma la Russia ha aiutato lo sviluppo della musica occidentale in Cina anche negli anni '30, quando molti musicisti ebrei fuggirono dallo stalinismo, riparando prima in Mongolia e poi scendendo verso sud. Una scuola violinistica fondamentale».
Negli anni '60 si sviluppano i primi mescolamenti di strumenti della tradizione orientale e occidentale. Una pratica oggi divenuta una moda. Per esempio si può ricordare Sanmen Gorge Fantasia per erhu - violino a due corde - e orchestra di Liu Wenjin. Molti strumenti tradizionali furono rimodellati per renderli compatibili con le orchestre occidentali; nacquero moderne versioni del repertorio, come l'opera pechinese Hongdeng ji («La lanterna rossa»). Era il 1968, scoppiava la rivoluzione culturale. «Per i musicisti come mio padre quegli anni furono piuttosto duri - spiega Lü Jia -: tutto il giorno dovevano suonare inni e marcette. I Conservatori continuarono a funzionare, io frequentavo quello di Pechino, ci facevano studiare i classici, poi dovevi suonare roba spesso poco interessante». Dopo? «Dopo la rivoluzione culturale la gente era curiosa di tutto, voleva sapere - spiega la giovane Yu Qing Hu - e la musica ha avuto un ruolo fondamentale. Da almeno due decenni per i giovani delle città studiare musica occidentale è un dovere culturale e non importa da che classe si proviene. Lo fanno i tuoi compagni di classe, le tue amiche e i tuoi amici: tutti hanno lezioni private di pianoforte». La struttura dell'insegnamento musicale, plasmata negli anni '50 sul modello sovietico, è funzionale a questo interesse, i Conservatori aumentano di numero ma restano molto selettivi: se riesci a entrare e a diplomarti hai un mestiere assicurato come musicista o insegnante. Il pianoforte acquista il ruolo di strumento principe assieme al violino, tutti e due prodotti in loco, dunque a un costo relativamente abbordabile. L'alfabetizzazione musicale produce pubblico - pronto a sobbarcarsi biglietti a 5-8 euro per la China Philharmonic, cinque volte un cinema -, e stimola la nascita di orchestre, inizialmente forse non ineccepibili ma che nel tempo crescono qualitativamente.
Il 13 ottobre del 1998 Rafael Frühbeck de Burgos alzò la bacchetta e la Rundfunk Sinfonieorchester di Berlino lasciò risuonare il primo accordo del quinto Concerto per pianoforte di Beethoven nella Gran sala del popolo nel Politecnico di Beijing: nasceva il Beijing Music Festival, oggi la più importante manifestazione musicale di tutta l'Asia. «L'idea del suo fondatore Long Yu era dare continuità a una vita musicale fino allora piuttosto improvvisata - spiega con orgoglio Yu Qing Hu che ha lavorato alla rassegna fin dalla prima edizione -. Altro stimolo era il confronto tra le orchestre ospiti europee, americane e anche asiatiche. In questi dieci anni molte nostre orchestre hanno creato stagioni regolari: a Canton, Macao, Shangai e in posti più defilati come Shenzhen, nel cui Conservatorio ha studiato Yundi Li». Nella capitale oggi sono attive 8 orchestre, e 3 - China Philharmonic, China National Symphony e Beijing Symphony - hanno una stagione stabile. «Sia la città di Beijing che il ministero della cultura supportano il Festival - conclude Yu Qing Hu -, ma all'inizio tutto si basava su finanziamenti privati». Furono infatti Sony, Ubs (Unione di Banche Svizzere), Deutsche Bank e American Express a tirar fuori i soldi per il Beijing Festival: l'interesse per la promozione culturale avrà pesato, ma le multinazionali, anche discografiche, hanno intravisto un mercato immenso in un paese che rischia di diventare uno dei centri di produzione e consumo di classica più importanti del pianeta.

l’Unità 27.5.08
A pochi giorni dall’inaugurazione del nuovo museo, il vescovo di Bolzano chiede la rimozione dell’opera di Kippenberger
Museion: la rana in croce non piace ai cattolici, ma per ora resta lì
di Valeria Trigo


Fa già parlare di sé il nuovo museo d’arte moderna di Bolzano, Museion, inaugurato appena pochi giorni fa. Il «merito» spetta ad una rana verde crocifissa nell’atrio d’ingresso del modernissimo spazio museale, costato 30 milioni di euro, e che ora sembra prendersi beffe di tutti restando ferma lì, immobile, contrariamente a quanti avrebbero voluto rimuoverla. E non sono pochi. Il mondo cattolico non è certo dalla sua parte, tanto che perfino il vescovo della Diocesi di Bolzano-Bressanone, Wilhelm Egger, ha pubblicamente criticato quell’anfibio in croce che tiene un uovo in una zampa e nell’altra una birra, opera realizzata dallo scomparso artista tedesco Martin Kippenberger. Dello stesso parere, negativo, è stato anche Luis Durnwalder, presidente della giunta provinciale altoatesina.
I responsabili del Museo hanno deciso di corredare l’opera con un’accurato materiale informativo sulla genesi e sul significato della scultura, quindi per ora la rana non sarà rimossa. «I sentimenti religiosi hanno il diritto di essere rispettati - aveva affermato Egger -. La rana crocifissa esposta al nuovissimo Museion d’arte moderna ha stupito tanti visitatori del Museion e li ha feriti nei loro sentimenti religiosi. Oggi, i simboli della fede cristiana vengono spesso disprezzati. Oggi, però, è fondamentale il rispetto per i simboli e i sentimenti religiosi. Una mostra di opere simili non aiuta alla pace tra le culture e le religioni».
«Si tratta - ha aggiunto Durnwalder - di un grande artista il cui vissuto è stato però caratterizzato da forti tensioni interiori e in questo caso sembra che egli abbia passato il segno». L’Union fuer Suedtirol ha chiesto addirittura le immediate dimissioni dell’assessore provinciale alla cultura in lingua tedesca Sabine Kasslatter Mur presente all’inaugurazione dell’opera. E come se non bastasse le critiche sono arrivate anche da Alleanza Nazionale che ha ricordato una polemica precedente relativa a una performance dove l’inno di Mameli veniva accompagnato dal rumore di uno sciacquone. Forse qualcuno dimentica che l’arte non ha catene.

l’Unità 27.5.08
Sotto la terra sarda i giganti di Atlantide?
di Stefano Miliani


ARCHEOLOGIA Nel ’74 i primi ritrovamenti in un campo vicino Cabras (Oristano). Ma solo da poco è iniziato a Roma il restauro: si riassemblano i 5000 pezzi, scolpiti da artisti della civiltà nuragica... o forse no

Un giorno del 1974, in un campo vicino a Cabras in provincia di Oristano nella Sardegna nord occidentale, l’aratro del signor Sisinnio Poddi incappò in un busto, una testa, un braccio. Di roccia bianca, biocalcarea. Erano le prime porzioni di statue monumentali, i primi lacerti dei quasi cinquemila frammenti poi venuti alla luce e sparpagliati su una necropoli sepolta: appartenevano a statue alte fino a 2 metri e mezzo con volti, nasi e sopracciglia stilizzati, fronti ampie, occhi a cerchi concentrici, ipnotizzanti. Statue scolpite, forse, da artisti della civiltà nuragica. O da mani orientali? Dai fenici? O da un’altra cultura marinara? Imparentata con chi? Quello degli autori è il principale irrisolto, non l’unico. A quando risalgono? Al VII secolo avanti Cristo, forse. Oppure, come osa qualche studioso, intorno al primo millennio avanti Cristo? Il ritrovamento fortuito era solo l’inizio di una vicenda tuttora densa di interrogativi irrisolti e foriera di polemiche a cui questo 2008 - con i restauri delle statue a buon punto - potrebbe dare qualche risposta. E magari fornire nuove informazioni sulla civiltà che tra il 1.700 avanti Cristo all’inizio della nostra epoca eresse nell’isola migliaia di torri nuragiche.
Nel ‘77 la soprintendenza archeologica sarda e l’università di Cagliari iniziarono a scavare in quella zona sabbiosa presso il mare chiamata Monte Prama (dal nome sardo della palma nana che lì cresce, «prama»). Seguì un lungo e oscuro periodo di stasi. Due anni fa un accordo tra direzione regionale del Ministero dei beni culturali e Regione ha acceso i motori del recupero. Dopo quattro mesi di restauro, a fine aprile, chi snoda i fili del racconto è Roberto Nardi. Direttore del Centro di conservazione archeologica di Roma che, ottenuto l’appalto tramite concorso pubblico riservato a imprese specializzate, con un gruppo di 16 specialisti lo studioso sta riassemblando le statue nel Centro Li Punti, nel sassarese: «L’archeologo di chiara fama Carlo Tronchetti condusse scavi sistematici organizzati dalla soprintendenza di Cagliari. Fu individuata una necropoli con 35-36 tombe a fossa con corpi inumati. Un’area sacra, forse, del VII secolo avanti Cristo, sopra la quale c’era un fossato su cui qualcuno aveva gettato le sculture ridotte in frantumi». Insieme a 300 frammenti di modellini di nuraghe, informa Nardi, gli archeologi hanno recuperato 4.880 pezzi fra teste, braccia, cosce, piedi e altro: appartengono a figure poderose, alte in media di 2 metri e 40, ognuna dal peso compreso tra i 100 e i 250 chili per un totale di 10 tonnellate. Epoca? «Forse lo stesso periodo della necropoli, il VII secolo - risponde l’archeologo - Ma si va rafforzando l’ipotesi che data le statue al X secolo circa: qualcuno le avrebbe erette altrove e buttate molto più tardi sulla necropoli già distrutta da tempo».
Con i loro enigmi, le sculture rappresentano arcieri e soldati. «Il cosiddetto pugilatore è in realtà un guerriero che si protegge da oggetti scagliati dall’alto come in battaglia», puntualizza l’archeologo. A suo giudizio «con i loro dettagli di grande raffinatezza come mani, pugni e corazze, per la loro somiglianza le sculture rimandano ai bronzetti nuragici raffiguranti appunto arcieri, guerrieri, pugilatori, che misurano però appena 10-15 centimetri. Se risalissero davvero al X secolo - insiste - dovremmo capovolgere la gerarchia: chi ha fuso i bronzetti si sarebbe ispirato alle sculture di Monte Prama». La novità, insiste, sarebbe enorme. «Solo i nuragici rappresentano se stessi e a oggi non esiste una loro scultura lapidea». Ma non tutti gli studiosi concordano con l’ipotesi nuragica, la domanda resta e Nardi lo sa bene: «Trovo fantasiose supposizioni come quella che le dà al popolo dei sardana. Tutto sommato trovo più plausibile l’ipotesi fenicia per alcune analogie stilistiche». Altri interrogativi affollano i cuori degli indagatori del passato: «qualcuno, durante o forse dopo un incendio della necropoli, distrusse le statue con furia diabolica». Chi fu? Perché? «Non lo sappiamo. Di sicuro la zona era molto frequentata dai fenici». Ancora loro. Per quanto convenga aspettare prove solide prima di incolpare dello scempio quei prodigiosi mercanti e marinai del Mediterraneo.

l’Unità Roma 27.5.08
La cultura secondo il sindaco? Più processioni e feste patronali
di Luca Del Fra


Le linee programmatiche della giunta Alemanno per le attività culturali, tra dichiarazioni contro l’effimero, feste popolari di piazza, e repertorio sui grandi palcoscenici. Prima gatta da pelare per l’assessore Umberto Croppi: l’Estate Romana rischia la paralisi, tra immobilisnmo, modifiche al bando e ritardi dovuti al cambio di giunta. Incombe su tutto un doppio spoil system.
In grave ritardo l’organizzazione dell’Estate Romana
Si pensa alla pubblicità tra i monumenti per trovare soldi

«Un profilo caratterizzante della politica culturale sarà la riscoperta della tradizione popolare, che si alimenta anche dalla celebrazione di eventi religiosi: feste e spettacoli
di piazza sono il distillato millenario di tradizioni antichissime il cui significato sarà oggetto di nuova valorizzazione».
Linee programmatiche del sindaco di Roma Giovanni Alemanno

FESTE patronali e turismo, molto repertorio sui maggiori palcoscenici e interventi economici dei privati, utilizzazione degli scenari monumentali per le attività di spettacolo ma anche per la pubblicità al fine di garantire le risorse: ecco alcune delle linee guida sulla
cultura contenute nel documento programmatico che il sindaco Alemanno avrebbe dovuto presentare ieri durante il primo burrascoso consiglio comunale della sua amministrazione.
L’estate Romana rientra «tra le manifestazioni tradizionali», e questo malgrado lo stesso Alemanno abbia ribadito anche ieri durante il consiglio che bisogna «archiviare l’effimero» e «dire basta agli spot». Tuttavia sulla manifestazione inventata negli anni ’80 dall’ideologo dell’effimero Renato Nicolini, comincia a pesare un certo allarme per i ritardi nelle graduatorie e nella delibera dei finanziamenti. La rassegna tradizionalmente inizia il primo giugno, ma quest’anno la commissione che valuta le domande di finanziamento darà la sua graduatoria molto tardi, il 30 maggio. Se fosse un omaggio all’insediamento ufficiale del nuovo consiglio comunale, avvenuto ieri, sarebbe maldestro considerando che la commissione è tecnica e non politica. Uscita la graduatoria, che non è vincolante, toccherà al nuovo assessore alla cultura, Umberto Croppi, decidere i singoli finanziamenti. A spiazzare gli operatori c’è stata anche la decisione di ridurre in corso d’opera il bando da due anni a uno: comprensibile che la nuova amministrazione voglia dare un suo taglio alla manifestazione già a partire dall’anno prossimo, indubbio che nelle domande la previsione era di ammortizzare alcune spese su un periodo lungo il doppio.
Resta inteso che ogni volta che ci sono le elezioni comunali in primavera l’Estate Romana ne soffra, ma in realtà si respira una aria di surreale immobilismo sui temi culturali e sulla gestione delle grandi istituzioni, con il rischio di ritardare la programmazione, nella capitale sempre con il fiato un po’ corto. Resta infatti misterioso come si possa sfuggire all’effimero valorizzando «la tradizione popolare -attraverso- celebrazione di eventi religiosi: feste e spettacoli di piazza...», come si legge nelle linee programmatiche di Alemanno, dove emerge inoltre la volontà di orientare il Teatro di Roma e l’Opera di Roma verso il «repertorio». Idea quest’ultima, che lascia qualche perplessità considerando quanto le due istituzioni già siano tradizionali. Per la programmazione non sempre felice delle passate stagioni, l’Opera soffre una notevole disaffezione del pubblico nelle sue sedi istituzionali -Teatri Costanzi e Nazionale-, ma le linee programmatiche prevedono solo «l’incremento della fruizione della stagione estiva a Caracalla», anche in questo caso eventi dal carattere squisitamente intrattenitivo.
A quanto sembra nel mese di giugno si assisterà all’avvicendamento alla presidenza di Cinema per Roma, fondazione che promuove la Festa del Cinema: si fa il nome di Andrea Mondello al posto del fondatore Goffredo Bettini. Sarebbe il primo atto di spoil system culturale dopo il cambio di maggioranza a Roma. Tuttavia un altro spoil system rischia di avvenire fuori dallo sguardo dei media: potrebbe investire quanti prestano la loro opera in associazioni, servizi, cooperative dediti alle attività culturali. È un mondo fatto di contratti a termine, co co pro, fatture e ricevute, privo di qualsiasi garanzia e che rischia un forte contraccolpo da un clima di incertezza che potrebbe portare alla paralisi di un settore complesso e delicato come quello della cultura.

l’Unità Roma 27.5.08
I sogni dei bambini corrono a Parigi


Il Laboratorio d’arte del Palazzo delle Esposizioni, grazie al successo e l’entusiasmo suscitato dalle recenti iniziative didattiche dalla nuova apertura, parteciperà al Centre Pompidou di Parigi al Festival Internazionale d’arte en famille.
Unico partecipante italiano, il Palaexpò sarà presente all’evento, di rilevanza internazionale, dedicato in particolare ai laboratori museali per l’educazione e il coinvolgimento dei più piccoli, bambini e ragazzi, nell’ambito delle esposizioni d’arte dei nostri giorni.
Sabato 31 maggio e domenica 1 giugno dalle ore 11.00 alle 17.00 i piccoli visitatori tra i 3 e i 12 anni, accompagnati dai genitori, potranno prender parte gratuitamente ai laboratori, gli spettacoli e le proiezioni per avvicinarsi e imparare a conoscere l’arte contemporanea. Il filo conduttore di questa edizione del Festival sarà il cambio di scala: dal più piccolo al più grande, dal più grande al più piccolo.
Per presentare il tema dell’attitudine alla metamorfosi, Elisabeth Augè del Centre Pompidou e l’artiste e illustratrice di libri per l’infanzia, Chiara Carter presenteranno l’evento Un fiore per Alice, un omaggio alla celebre fiaba di Lewis Carrol Alice nel Paese delle Meraviglie. La storia della curiosa ragazzina che grazie a misteriose pozioni magiche riesce a cambiare, all’occorrenza, dimensioni del suo corpo per liberarsi da una tana per topi e scavalcare alberi. Apprendisti giardinieri si metteranno all’opera per allestire un giardino sulla scalinata del Palazzo. Giganteschi fiori a righe e a pois fatti di merletti, plastica e e di carta carta dipinta che oscilleranno sui loro lunghi gambi e giocheranno con gli effetti luminosi. Tutte queste spettacolari forme per dare un anticipo al Progetto Alice, l’evento curato da Chiara Carter che si terrà nel Laboratorio d’arte dal 14 ottobre al 6 gennaio 2009.
Nello stesso ultimo fine settimana di maggio sarà possibile partecipare al laboratorio dedicato a La mia casa è la tua casa, Botto e Bruno incontrano Liu Xiaodong, la Casa d’artista di Botto e Bruno che si è trasformata per accogliere l’artista cinese come un ospite in visita.
Sempre nell’Atelier, sarà esposto A scuola al museo - Esercizi di sguardo, un lavoro nato dal progetto del Ministero Università e Ricerca, realizzato con gli studenti del Liceo artistico Via Ripetta di Roma.
Sabato 31 maggio e domenica 1 giugno dalle ore 11.00 alle 17.00 Palazzo delle Esposizioni Via Nazionale, 194 Info. 06.48941225 www.palazzoesposizioni.it

Corriere della Sera 27.5.08
Xenofobia. Pietà l'è morta
di Paolo Franchi


Ci sono frangenti — passaggi d'epoca, si diceva una volta — in cui tutto, e tutto insieme, sembra venire (o tornare) prepotentemente a galla. Rompendo la crosta sempre più sottile dei luoghi comuni, delle consuetudini, delle ipocrisie, delle certezze più o meno consolidate.
Bene, stiamo vivendo uno di questi momenti. L'importante, prima di tutto, è saperlo.
E sapere, di fronte a tante domande che si accavallano, che le risposte più facili non sono quasi mai le migliori.
Perché non è vero, come recitava un fortunato slogan di Ronald Reagan, che c'è una soluzione semplice per ogni problema. Spiace dirlo, ma le soluzioni dei problemi complicati sono, quasi sempre, complicate.
Talvolta complicatissime.
Per esempio. Di fronte all'assassinio di un ragazzo picchiato a morte da un gruppo di naziskin a Verona, alle bombe incendiarie lanciate nottetempo contro il campo rom di Ponticelli o al raid del Pigneto, sostenere che non c'è movente politico può (forse) andar bene per un rapporto di polizia, ma certo non ci consente di considerare questi episodi solo alla stregua di gesta criminali di piccoli gruppi di prepotenti disadattati, ignorando il clima politico, sociale e culturale in cui hanno preso corpo. Pietà l'è morta. Quello che l'altroieri era letteralmente indicibile ( negro di m., romeno schifoso e via elencando), e ieri si poteva dire solo in certe particolarissime circostanze, e comunque sottovoce, oggi fa in qualche modo parte di un discorso pubblico nel quale è d'incanto rientrata, e senza incontrare particolari resistenze, persino la leggenda nera secondo la quale sarebbe costume dei rom rapire i nostri bambini. Supporre che ci sia un qualche nesso tra tutto ciò e il susseguirsi di nefandezze razziste contro persone e cose non è davvero un esercizio di dietrologia.
Non è dietrologia, ma a condizione di prendere esplicitamente atto che il problema della sicurezza esiste, è serio, e tocca in primo luogo i ceti popolari, neppure mettere in relazione questo stato (inquietante) delle cose anche con l'affermazione di un centrodestra che di una interpretazione assai brusca della tolleranza zero ha fatto un suo vittorioso cavallo di battaglia prima e dopo le elezioni. Ed è anzi doveroso pretendere da chi ha responsabilità istituzionali e di governo che calibri meglio di quanto stia facendo i suoi atti ma pure le sue parole, cominciando con l'evitare anche la più larvata e indiretta manifestazione di comprensione nei confronti della tendenza diffusa a farsi giustizia sommaria da sé, in nome della difesa, costi quel che costi, di comunità grandi e piccine che, mentendo con se stesse, si pretendono sane ed incorrotte, si sentono minacciate (e talvolta lo sono) da una presenza esterna sempre più invasiva e considerano un'interpretazione quanto mai estensiva dell'autodifesa di certo un diritto, e probabilmente anche un dovere. Affermare, di fronte a disgustosi episodi di intolleranza, che il pugno di ferro nelle politiche dell'immigrazione serve a impedire che l'intolleranza dilaghi è già una forma di giustificazione implicita. E perché mai, dopo aver letto, e sottoscritto, montagne di carte contro il giustificazionismo «di sinistra», bisognerebbe apprezzarne uno «di destra»?
Questo compito di rigorosa vigilanza spetta in primo luogo all'opposizione. Ma sarebbe meglio dire: spetterebbe. Perché in questi anni, quando era maggioranza e governo, è rimasta senza un'idea e senza una parola di fronte alla ostilità sempre più feroce che montava, anzitutto nelle grandi periferie urbane, tra i penultimi (un tempo il suo elettorato, la sua gente) e gli ultimi della nostra società, quasi che la cosa non la riguardasse più di tanto; e adesso non sa bene se rivendicare che molte delle misure prese dal centrodestra erano già contemplate nel suo pacchetto sicurezza, e che molti suoi sindaci avevano fatto la loro parte, o denunciare il pericolo di chissà quale deriva autoritaria.
Nella speranza (non sapremmo dire quanto fondata) che l'opposizione prima o poi riprenda voce, così come si conviene a ogni democrazia che si rispetti, tocca alla libera stampa non certo surrogarla, ma fare per intero la propria parte. Prima di tutto sforzandosi di rappresentare di più e meglio l'Italia così com'è, in questo passaggio tanto difficile. Senza indulgere alle tesi di chi la descrive xenofoba, o razzista, o intollerante. Ma sapendo bene che è esposta al rischio di diventarlo come mai lo era stata in sessant'anni e passa di storia repubblicana. Di una storia che oggi, certo, è esposta alla tempesta (oltre che ai vantaggi) della globalizzazione.
Ma è iniziata ed è andata avanti a lungo, sarebbe bene ricordarlo sempre, in tempi in cui ad emigrare, e a subire la xenofobia, il razzismo e l'intolleranza, eravamo, eccome, ancora noi.

Repubblica 27.5.08
La crisi della laicità in un mondo senza futuro
di Remo Bodei


Noi dipendiamo da potenze inconsce o più grandi di noi, che operano senza il nostro consenso e segnano il nostro destino: Ma questo non significa che siamo in loro completo possesso, o che dobbiamo consegnarci ad esse. Tutta la storia umana, anche se lo dimentichiamo, testimonia questo processo di emancipazione. E la modernità occidentale è segnata dal protagonismo della coscienza umana, dalla sua progettualità, dal tentativo dell´uomo di controllare il corso degli eventi, la storia, sottraendola alla provvidenza divina.
Questo grandioso progetto nasce, tra il ´500 e il ´600, durante le guerre di religione, dalla percezione di un vuoto di autorità. La fiducia nell´autorità politica e religiosa è indebolita e la coscienza individuale si trova costretta a trasformarsi in Atlante che regge il mondo sulle proprie spalle e vaglia il vero e il falso.
L´individuo esce da uno stato di minorità, si affida allo spirito critico e, cartesianamente, all´evidenza di ciò che scopre, per giudicare da sé. È l´inizio di un processo gravido di conseguenze: lo sguardo che era teso verso l´alto, ora si rivolge in avanti, alla storia, al futuro. Ne nascono grandi progetti di emancipazione umana, con le conseguenti rivoluzioni.
Giovanni Paolo II, nell´enciclica Fides e ratio, ha attaccato la filosofia moderna perché «dimenticando di orientare la sua indagine sull´essere ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l´uomo ha di conoscere la verità ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti». Per il pontefice l´età moderna si inaugura con la nefasta separazione tra fede e ragione. In effetti la modernità ha insidiato con la filosofia, la scienza e la politica le fondamenta della fede nella provvidenza e nell´immortalità dell´anima.

Ed è da questo spostamento che nascono le grandi ideologie. Così, in estrema sintesi, guardando al passato con un´ottica da binocolo rovesciato, oserei dire che il prosciugamento della dimensione religiosa è culminato nei grandi totalitarismi del Novecento, dove la politica ha preteso di abbracciare tutte le sfere dell´esistenza. I grandi totalitarismi europei sono poi caduti: e con la loro fine è andato assottigliandosi sempre più lo spessore di senso condiviso della politica, con la scoperta di altre dimensioni.

È qui una delle cause della crisi del laicismo e più in generale della politica, e del ritorno dell´interventismo pubblico delle religioni. È per questo che si aprono dei varchi di senso attraverso cui passano le religioni, legittimamente e con apporti che rispondono a bisogni sentiti.
L´indebolimento della coscienza riapre la strada all´essere di cui parlava Giovanni Paolo II: ma il mistero dell´essere viene inteso esclusivamente come opera di Dio, vita che diventa la categoria centrale della Chiesa cattolica, e non solo. Su di essa fa perno tutto il resto: si ritorna ai fondamentali religiosi, all´idea del Disegno Intelligente, a una biopolitica sui generis, in cui su ogni materia (embrione, eutanasia, procreazione assistita, omosessualità), è sempre Dio a fissare le regole.
Ma anche sul piano della storia vi sono mutamenti profondi su cui le religioni si sono inserite.

Sta drasticamente diminuendo la capacità di pensare un futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private. La storia appare quindi a molti orfana di quella logica intrinseca che doveva indirizzarla verso un determinato obiettivo: il progresso, il regno della libertà o la società senza classi. Tramonta una cultura che ? tra ´800 e ´900 ? aveva indotto miliardi di uomini a credere che gli eventi marciassero in una certa direzione, annunciata o prevedibile. A lungo infatti siamo stati abituati a ritenere che l´intervento umano fosse in grado di abbreviare il tempo necessario al prodursi dell´inevitabile. Caduta, senza essere confutata, l´idea di un´unica Storia orientata, il senso del nostro vivere nel tempo sembra ora disperdersi in una pluralità di storie, (con la s minuscola) non coordinate, blandamente connesse alle vicende comuni.
I contraccolpi di tale situazione sono molteplici e ancora da analizzare a fondo. In rapporto alla crisi del laicismo ne vedo sostanzialmente due.
1) Se l´avvenire appare sostanzialmente improgrammabile, incerto o addirittura pauroso (esaurimento delle risorse, riscaldamento globale, fame per miliardi di persone, terrorismo) se sfugge al controllo degli uomini, esso appare di nuovo a molti nelle mani di Dio.

Allora le situazioni cruciali e dolorose della vita degli individui (come la privazione, la perdita, la malattia, la vecchiaia, la morte), vengono giudicate irriscattabili. Non c´è più alcun processo alchemico che dialetticamente trasformi in positivo questi elementi negativi. La sofferenza e il sacrificio delle generazioni presenti non servono a quelle future. La contrazione delle attese e delle speranze spinge le persone a concentrarsi sul presente. Ciò comporta però la desertificazione del futuro e rischia di creare una mentalità opportunistica e predatoria.
2) I progetti di donazione di un senso collettivo alla Storia costituivano, appunto, una delle forme di compensazione e risarcimento differito per le attese individuali inappagate. Oggi questo transfert non funziona più. La politica ? che si sintonizzava sulla presunta forza delle cose che andavano in una certa direzione ? deve fare i conti con l´accorciamento dei piani di vita dei singoli e il ridursi della forza di proiezione delle istituzioni. È qui ? nel prosciugamento del senso profondo delle esistenze singole e collettive ? che le religioni si inseriscono: se l´esistenza di individui e comunità è improgrammabile nei tempi lunghi; se le promesse di paradisi terrestri non si possono mantenere; se l´identità personale si rivela fragile e basata su meccanismi impersonali, e le identità collettiva è lacerata da conflitti interni e esterni; se viene a mancare la consapevolezza (o almeno il presentimento) di una vita migliore e gli individui sono schiacciati dal quotidiano e il transeunte; se accade tutto questo allora è facile che ritorni la fede nella Provvidenza divina e nell´anima immortale. Allora Dio, agostinianamente si rivela essere il nucleo più profondo dell´identità: «Interior intimo meo, superior summo meo». La vita, che siamo abituati a considerare nostra, è indisponibile. E la Storia, come prodotto di una umanità in cammino, capace di modificare se stessa, viene sostituita dall´idea di una natura umana immutabile. E così ritorna il "diritto naturale".

Quale deve essere la risposta del laico e della politica a queste legittime posizioni della Chiesa?
Liberiamoci, in primo luogo, dell´idea che si possa rispondere ad esse in tempi brevi. Si tratta infatti di ricostruire e riformulare interi blocchi di pensiero politico e di esperienza, di compiere una vera e propria svolta culturale, anche attraverso un dialogo rispettoso di chi mostra in negativo cosa ci manca. Certo, idee e provvedimenti tampone per arginare l´assalto alla visione laica del mondo sono possibili, ma devono partire dalla constatazione delle nostre deficienze del fatto che non possediamo l´esclusiva della verità.
Il compito è difficile perché la politica è un´attività fragile, che ha a che fare con progetti umani variabili, molteplici, in contrasto. Non può scomparire, dato che non è stato trovato nessun altro modo per comporli. (Provate e stare un mese senza politica, e vedrete).
Bisogna però affrontare ? come diceva Gramsci ? una lunga guerra di posizione, uscendo però dall´appiattimento mimetico sulle idee altrui. L´aspra e severa bellezza della politica consiste nell´accettare le sfide, soppesare i pericoli, promuovere i diritti, metabolizzare i conflitti con senso di responsabilità.
È ancora possibile pensare a una società bene ordinata che non rinvii a un futuro remoto la propria realizzazione e non si lasci irretire nel sogno regressivo di una comunità etnicamente e religiosamente compatta? E che non produca uomini e donne d´allevamento? Se non avessimo questa speranza e la volontà d´attuarla meglio sarebbe lasciare che le cose vadano alla deriva.

Si ringrazia la Fondazione Italianieuropei per averci trasmesso il testo

Repubblica 27.5.08
Le leggi speciali
di Stefano Rodotà


Disse una volta il primo ministro inglese Margareth Thatcher: «La società non esiste». Simile l´impostazione del "pacchetto sicurezza", all´origine di quella "politica militarizzata" sulla quale ha richiamato l´attenzione Giuseppe D´Avanzo.
Ma, inviato a Napoli con un ruolo a metà tra il Fassbinder di Germania in autunno (dove la madre del regista invoca un dittatore "buono e giusto") e il Tarantino di Pulp Fiction ("Il mio nome è Wolf, risolvo problemi"), il sottosegretario Bertolaso ha subito dovuto fare i conti proprio con la società, ha dovuto mettere tra parentesi gli strumenti autoritari e si è incontrato con i sindaci, i rappresentanti dei partiti e persino con i rappresentanti dei terribili centri sociali.
Non è il caso di fare previsioni sull´esito di questa partita difficilissima. Registriamo uno scacco della logica militare, ma non lasciamoci fuorviare da un episodio e consideriamo con attenzione il nuovo modello di governo della società affermato con il "pacchetto". È accaduto qualcosa di nuovo, che mette alla prova i principi della democrazia e dello Stato costituzionale di diritto, ponendo l´eterna questione del modo in cui si può legittimamente reagire ad emergenze difficili senza travolgere quei principi. La storia è piena di queste vicende, molte delle quali hanno provocato trasformazioni che, in modo duro o "soffice", hanno alterato la natura della democrazia.
Un punto è indiscutibile. È nato un diritto "speciale", fondato su una sostanziale sospensione di garanzie fondamentali. Una duplice specialità. Da una parte riguarda il territorio, poiché ormai in Campania vige un diritto diverso da quello di altre regioni. Dall´altra riguarda le persone, perché per lo straniero vige un diritto che lo discrimina e punisce in quanto tale, anche per comportamenti per i quali la sanzione penale è chiaramente impropria e sproporzionata o ingiustificatamente diversa da quella prevista per altri soggetti che commettono lo stesso reato.
Colpisce la contemporaneità di provvedimenti che sembrano collocare nella categoria dei "rifiuti" sia le cose che le persone, la spazzatura da smaltire e l´immigrato da allontanare. E tuttavia una distinzione bisogna farla, non per attenuare la gravità di quanto è avvenuto, ma per analizzare ciascuna questione nel modo più adeguato. L´emergenza rifiuti in Campania ha una evidenza tale, una tale carica di pericolosità anche per la salute, da rendere indifferibili provvedimenti urgenti. Ma l´insieme delle nuove regole fa nascere un modello che produce una "eccedenza" autoritaria inaccettabile.
In Campania, in materia di rifiuti, è stato cancellato il sistema del governo locale. Le aree individuate per la loro gestione sono dichiarate "di interesse strategico nazionale", con conseguente militarizzazione e attribuzione al sottosegretario Bertolaso della direzione di tutte le autorità pubbliche: a lui vengono subordinati "la forza pubblica, i prefetti, i questori, le forze armate e le altre autorità competenti", con una concentrazione di potere assoluto davvero senza precedenti. Un accentramento di potere si ha anche per la magistratura, con la creazione di una superprocura per i rifiuti, con la centralizzazione dell´esercizio dell’azione penale e dello svolgimento delle indagini preliminari. La stessa logica accentratrice è alla base dell´attribuzione al solo giudice amministrativo di tutte le controversie riguardanti la gestione dei rifiuti, anche per le "controversie relative a diritti costituzionalmente garantiti". Vengono creati nuovi reati, per il semplice fatto di introdursi in una delle aree "militarizzate" o per l´aver reso l´accesso "più difficoltoso": una formula, questa, di così larga interpretazione che può risolversi in inammissibili restrizioni di diritti costituzionalmente garantiti, come quello di manifestare liberamente.
L´insieme di questi provvedimenti è impressionante. Nessuno, ovviamente, può spendere una sola parola a difesa di un sistema di governo locale assolutamente inefficiente. È essenziale, tuttavia, rimuovere anche le cause ambientali, camorristiche e affaristiche, che hanno accompagnato l´inerzia e la complicità degli amministratori locali: senza queste misure, il ritorno della mala amministrazione, magari in altre forme, rischia d´essere inevitabile e le misure prese rischiano di non funzionare (come si allenterà la presa camorristica sul trasporto dei rifiuti?). Inaccettabile, però, appare la manipolazione del sistema giudiziario. Il Governo si sceglie i magistrati che devono controllare le sue iniziative. Viene aggirato l´articolo 102 della Costituzione, che vieta l´istituzione di giudici straordinari o speciali. La garanzia dei diritti costituzionalmente garantiti è degradata. La legalità costituzionale è complessivamente incrinata.
Interrogativi analoghi pone l´altro diritto "speciale", riguardante gli immigrati. A parte l´inammissibilità di alcune scelte generali, contrarie ai principi costituzionali riguardanti l´eguaglianza e la stessa dignità delle persone, siamo di fronte a norme destinate a far crescere inefficienza e arbitri, a perpetuare un sistema che genera irregolarità. Si è sottolineata l´impossibilità di applicare le nuove misure senza far saltare il sistema giudiziario e carcerario. Tardivamente ci si è resi conto che si possono provocare sconquassi sociali, e si è detto che si porrà rimedio al problema delle badanti, distinguendo caso per caso. Ma sarà davvero possibile fare accertamenti di massa, controllare centinaia di migliaia di persone? E ha senso limitarsi alle badanti o è indispensabile prendere in considerazione anche colf e altre categorie di lavoratori altrettanto indispensabili, come hanno sottolineato molte organizzazioni, Caritas in testa? Provvedimenti giustificati con la volontà di ristabilire l´ordine, si rivelano fonte di nuovo disordine e ulteriori irregolarità.
Ma contraddizioni, difficoltà di funzionamento, smagliature, non possono far sottovalutare la creazione di un modello di governo della società che ha tutti i tratti della "democrazia autoritaria": centralizzazione dei poteri, abbattimento delle garanzie, restrizione di libertà e diritti, sostegno plebiscitario. Si affrontano questioni dell´oggi, ma si parla del futuro. Si coglie la società italiana in un momento di debolezza strutturale, e si modificano le condizioni dell´agire politico. Si lancia un messaggio che rafforza i pregiudizi e diffonde la logica della mano dura: non sono un caso le aggressioni romane a immigrati e gay. Qui è la vera riforma istituzionale, qui il rischio di uno strisciante mutamento di regime.
Un virus è stato inoculato nel sistema politico e istituzionale. Esistono anticorpi che possano contrastarlo? In democrazia, questi consistono nel Parlamento, nel ruolo dell´opposizione, nel controllo di costituzionalità, nella vitalità dell´opinione pubblica. Ma una ferrea maggioranza annuncia il Parlamento come luogo di pura ratifica delle decisioni del Governo. L´opposizione sembra riservarsi quasi esclusivamente "un potere di emendamento", che la mette a rimorchio delle iniziative del Governo. Molto lavoro attende la Corte costituzionale, come accade nei tempi difficili di tutte le democrazie.
I cittadini, l´opinione pubblica? Sulle capacità di reazione di un mondo reduce da una batosta elettorale si può sospendere il giudizio. Ma i disagi profondi e le insicurezze reali vengono ormai governati con l´accorta manipolazione dei sondaggi, con una presa diretta delle pulsioni sulla decisione politica, con una logica sostanzialmente plebiscitaria che li capitalizza a fini di consenso. Si imbocca così una strada vicina a quella che ha portato alla crisi di molte democrazie nel secolo passato. Certo, tempi e contesti mutano. L´Europa ci guarda e, per molti versi, ci garantisce. E tuttavia il populismo ci insidia tutti, sfrutta ogni debolezza della democrazia e dei suoi fedeli, ci consegna a logiche autoritarie. È una tendenza ormai irreversibile, come più d´uno ormai teme? O non bisogna perdere la fede, e cogliere proprio le occasioni difficili per continuare a lavorare sulla democrazia possibile?

Repubblica 27.5.08
L’archeologo: lì venivano sepolti i leader Lo provano le tombe di tre individui cremati
L’ultimo mistero "Era il Pantheon della preistoria"
di Cinzia Dal Maso


Non era un osservatorio astronomico, né un tempio per culti della fertilità e neppure un luogo di guarigione. Per l´archeologo Mike Parker-Pearson dell´Università di Sheffield, Stonehenge era un cimitero e il cerchio di pietre era un tempio per il culto di defunti. La prova sono tre sepolture di individui cremati, trovate negli anni ´50 del secolo scorso vicino al terrapieno e al fossato di Stonehenge, che solo ora Parker-Pearson ha datato con precisione. Le prime due furono deposte attorno al 2900 a.C. cioè alle origini di Stonehenge quando si costruirono il terrapieno e il fossato circolari, mentre la terza risale agli anni 2570-2340 a.C. quando fu eretto il monumentale cerchio di pietre. E siamo a conoscenza di altre 49 tombe scavate negli anni ´20 ma poi riseppellite, trovate in parte in livelli di terreno analoghi a quelli delle due sepolture più antiche, e in parte nei livelli più recenti. Ciò significa che "Stonehenge è stato luogo di sepoltura dall´inizio alla fine", scrive Parker-Pearson nella relazione pubblicata sul sito internet dell´università. "Anche quando si costruì il cerchio di pietre, Stonehenge continuò a essere il regno dei morti".
Finora si credeva che Stonehenge, a cui il "National Geographic Italia" dedica un lungo servizio nel numero di giugno, fosse stato usato come luogo di sepoltura solo nei suoi primi secoli di vita, quando aveva solo terrapieni e strutture lignee, e che la costruzione del tempio di pietra avesse fatto dirottare le sepolture altrove. Ora invece scopriamo che si è continuato a portare lì i defunti almeno per 500 anni. "Però non gente comune, perché Stonehenge era un posto speciale", afferma Parker-Pearson. "Abbiamo calcolato che in 500 anni vi si portarono circa 240 defunti". Dunque un´élite, dei capi, una sorta di dinastia al potere. Stonehenge fu forse il Pantheon della preistoria britannica.
È questa una prova importante per l´ipotesi che ha spinto Parker-Pearson a indagare Stonehenge. Ipotesi ispirata dalle sue ricerche in Madagascar dove la gente associa il legno alla transitorietà della vita e alla donna, mentre la dura pietra alla morte perenne e all´uomo. Parker-Pearson ha pensato che anche Stonehenge funzionasse in modo analogo. Qualche chilometro più a nord del famoso circolo, nel sito dell´enorme terrapieno circolare di Durrington Walls, ci sono infatti altri circoli di pali di legno dove, sostiene Parker-Pearson, si svolgevano banchetti e cerimonie di passaggio tra la vita e la morte. Poi i defunti venivano portati in barca lungo il fiume Avon e raggiungevano Stonehenge, la casa di pietra garante della vita eterna. Le indagini sono cominciate nel 2003. Ed è stato subito identificato un viale che conduce da Durrington Walls al fiume Avon, molto simile alla via che collega Stonehenge con lo stesso fiume. L´ipotizzato percorso rituale tra i due complessi, incentrato sul fiume come via per l´oltretomba, era dunque una realtà.
A Durrington Walls gli archeologi hanno poi trovato i resti di diverse case di graticcio e fango, il "villaggio dei costruttori di Stonehenge" come ha annunciato Parker-Pearson un anno fa. Ora ha stimato che le case fossero circa 300, sistemate attorno a edifici di culto: il villaggio preistorico più grande di tutta l´Europa nord-occidentale. Abitato però solo stagionalmente, come rivelano le analisi ambientali. Solo per le cerimonie, come i villaggi delle novene in Sardegna. Ma non molti archeologi condividono le teorie di Parker-Pearson. Se plaudono alla sua idea di considerare Stonehenge come parte di un insieme di monumenti, attendono però prove più stringenti per accettare che fosse un complesso funebre. E in questi giorni un´altra tesi suggestiva è proposta dall´archeologo di Oxford Anthony Johnson nel libro "Solving Stonehenge". Convinto che Stonehenge fu costruita usando avanzatissimi principi di geometria. I suoi costruttori conoscevano geometria e simmetria già duemila anni prima di Pitagora.

Repubblica 27.5.08
Nuovi documenti sul mancato scambio tra nazisti e Alleati del 1944
Eichmann propose: in Spagna un milione di ebrei
di Alessandro Oppes


MADRID - Nel 1944, quando le cose volgevano già al peggio per la Germania nazista, la Spagna fu sul punto di diventare luogo di salvezza per un milione di ebrei destinati ad Auschwitz. Ma la trattativa segreta proposta da Adolf Eichmann per conto di Heinrich Himmler non fece progressi, e nessuno riuscì a sfuggire allo sterminio. I nazisti intendevano proporre agli Alleati che gli ebrei di Ungheria, Bulgaria, Grecia e Romania venissero utilizzati come moneta di scambio: un milione di prigionieri sarebbero stati inviati in Spagna in cambio di merci e denaro.
Dell´operazione mancata si sapeva già da tempo: il primo a rivelarla fu nel 1958 l´ebreo ungherese Joel Brand, il mediatore costretto dai nazisti (che sequestrarono sua moglie e i due figli) a mettersi in contatto con le forze alleate. Ma la novità, rivelata dal quotidiano catalano La Vanguardia - che ha consultato i documenti declassificati degli Archivi nazionali britannici - riguarda proprio la destinazione obbligata scelta dai tedeschi per i prigionieri: dovevano essere ospitati tutti dalla Spagna di Francisco Franco, «perché Hitler non si voleva inimicare i suoi alleati musulmani, né rafforzare il potere degli ebrei in Palestina».
Joel Brand trasmise la proposta di Eichmann a Londra e si occupò di negoziare con i leader ebraici, tra cui Ben Gurion. Tutto cominciò con un telegramma «top secret» datato 24 maggio 1944, inviato al governo di Churchill dall´ambasciata britannica ad Ankara: «Importante. Certa persona di nome Brand è arrivata a Istanbul dall´Ungheria con passaporto tedesco. Dice che rappresenta la comunità ebraica ungherese e che porta una proposta formale della Gestapo per scambiare ebrei dei territori occupati dall´Asse, che scambierebbero per beni e moneta straniera. Gli ebrei di Istanbul dicono che la proposta è seria».
Secondo i documenti, Londra pensò in un primo momento che si trattasse di una trappola. Ma quando gli Alleati si resero conto che l´offerta-ricatto era autentica, ormai era troppo tardi per riuscire a portare a termine la trattativa.

il Riformista 27.5.08
Sembra Veltroni, è Alemanno


Almirante, Berlinguer, Craxi e Fanfani. L'annuncio di Gianni Alemanno è assolutamente bipartisan nella forma, anzi: multipartisan, tanto da andare ben oltre quello che veniva chiamato l'arco costituzionale, e proprio per questo "particolare" è pericolosamente sbilanciato a destra nella sostanza. Perché, è chiaro, Almirante non è la stessa cosa di Craxi, figuriamoci di Berlinguer. E di questo si è tornati a discutere. E molto, come sempre, quando si tratta di Roma. Già, perché non c'è nulla da fare: quella che assale tutti coloro che entrano nello studiolo con il famoso terrazzino con vista sui Fori è una sindrome per la quale non esiste vaccino, a quanto pare. E si manifesta con l'irresistibile tentazione di intitolare, strade piazze, slarghi, stazioni e gallerie.
Nel suo discorso di insediamento anche Alemanno ha ceduto. E così, parlando della rivoluzione conservatrice che attende la città, ha fatto l'annuncio: «Propongo di intitolare una strada a Berlinguer, una a Craxi e una a Fanfani». Dunque, davvero ci risiamo. E fa specie che Alemanno rimanga vittima della sindrome del Campidoglio proprio quando il suo cavallo di battaglia "Roma sicura" vacilla sotto i colpi di una cronaca nera che somiglia a un bollettino della New York pre cura Giuliani.
Il primo, in epoca post-Italia 90, a cadere vittima della sindrome del Campidoglio fu Francesco Rutelli che tentò di intitolare una piazza a Giuseppe Bottai, gerarca fascista. Era il 1995, nacque una polemica che proseguì sino a che Rutelli fece marcia indietro. Poi arrivò Veltroni e le porte della toponomastica si spalancarono. Arrivarono Alberto Sordi e Pio La Torre, Antonino Caponnetto e Rino Gaetano, Marco Biagi e Massimo D'Antona, Paolo Di Nella e Antonio De Falchi, Lucio Battisti ed Edmondo Bernacca, Nino Manfredi, Guido Rossa, Sandro Ciotti, Luciano Lama, Valerio Verbano. E ancora tanti altri. Non mancò qualche passo falso, come nel caso della intitolazione a Giovanni Paolo II della stazione Termini. Noi pensiamo che sia meglio attendere 50 anni dalla morte perché si possa procedere alla intitolazione di una strada. E, soprattutto, cominciamo a interrogarci su questo nuovo sindaco di Roma che sembra seguire le orme del suo predecessore.

il Riformista 27.5.08
left 1 così l'ex vicepremier ipoteca il futuro del Pd
D'Alema muove il partito-ombra
Si smarca dalla linea, scommette sulla scissione Prc e va alla guerra dei think tank sulle riforme
di Stefano Cappellini


Si smarca sulla questione sicurezza, ipoteca alleanze ed alleati, boccia lo sbarramento alle europee, mette i paletti sulle riforme. D'Alema giura di non mentire quando dice che nel Pd la sua non è una corrente: in effetti, somiglia più a un partito ombra. Che costringe di continuo Walter Veltroni a riposizionare linea e dibattito interno, come è accaduto già con il via libera del segretario al «nuovo centrosinistra» e l'ultima volta ieri con le dichiarazioni contro l'uso della forza per l'emergenza rifiuti, seguite di un giorno all'affondo dello stesso D'Alema.
Da tempo l'ex ministro degli Esteri, che fino a poche settimane fa si faceva un punto d'onore della disattenzione verso il cortile di casa («Io mi occupo delle cose del mondo», spiegava da titolare della Farnesina), non era così attivo nella battaglia politica pura. E lo scopo è sempre più chiaro: senza aprire uno scontro sulla leadership, che sarebbe «sbagliato» e soprattutto perdente, muove tutte le forze possibili per arginare la linea del Loft sul modo di fare opposizione («Perché se no siamo in balìa di Berlusconi», spiega un deputato di area) e per recintare il terreno di gioco nel quale si giocherà il futuro del Pd dopo le europee del 2009.
L' endorsement del fine settimana a Nichi Vendola («L'unico in grado di rilanciare un'idea di sinistra in chiave moderna», ha detto D'Alema alla summer school di Italianieuropei) in vista della battaglia congressuale di Rifondazione (e più ancora delle amministrative del prossimo anno) è la dimostrazione più evidente dell'attivismo di questi tempi. Mossa tutt'altro che improvvisata: D'Alema punta tutto sulla corsa alla leadership rossa del governatore della Puglia, nella convinzione che l'ala guidata da Fererro sia irrimediabilmente vocata a una missione di opposizione dura e pura. Naturalmente, dato che non vi è alcuna certezza sulla vittoria congressuale di Vendola, che anzi parte svantaggiato, ciò significa che si considera molto probabile una scissione del Prc, che Vendola vinca o perda. Nel primo caso, sarà la Rifondazione vendoliana a entrare stabilmente nell'orbita della nuova alleanza. Nel secondo, invece, a Ferrero resterà il marchio e i perdenti andranno a cercare miglior fortuna sotto le insegne di una nuova sinistra radicale "unitaria".
Non è certo un caso che in questo periodo i contatti tra Vendola e Nicola Latorre siano frequentissimi. «Parliamo perlopiù di cose pugliesi», si schermisce il vicecapogruppo democratico al Senato. In realtà, D'Alema lavora alacremente per accreditarsi come principale pontiere verso la sinistra già bertinottiana. La quale, dopo il grande feeling tra l'ex presidente della Camera e Veltroni, pare aver cambiato sponsor: basta confrontare la bocciatura di Vendola alle prime aperture di Veltroni per un «nuovo centrosinistra» con le dichiarazioni di giubilo con cui Giordano, grande elettore del governatore della Puglia, ha commentato la presa di posizione di D'Alema.
Del resto, l'affinità tra dalemiani e "destri" del Prc non è affare recente, bensì un reincontrarsi tra vecchi «compagni di scuola». Dice Gianni Cuperlo: «Giordano e Vendola li conosciamo bene, perché abbiamo cominciato a fare politica insieme nella Fgci degli anni Ottanta». Cuperlo spiega che sarebbe sbagliata la tentazione di «tifare» al congresso Prc («Occorre il massimo rispetto per il confronto in quell'area»), però non finge neutralità: «Penso che Nichi abbia le caratteristiche giuste per combinare battaglia d'orgoglio, inevitabile per chi vuol riguadagnare la rappresentanza istituzionale persa il 14 aprile, e visione politica, ovvero la condivisione col Pd, non dico di un programma, per quello c'è tempo, ma di un progetto».
Uno snodo importante della strategia dalemiana prossima ventura è il seminario sulle riforme di Italianieuropei in preparazione per giugno, affidato alle cure dello storico Roberto Gualtieri. Lo scopo dell'appuntamento è elaborare un contributo al dibattito generale. Ma lo stesso Gualtieri, proprio con un intervento sulle colonne del Riformista ha spiegato che sul dossier riforme urgono paletti: «Un conto - ha scritto - è una opportuna convergenza su una razionalizzazione del parlamentarismo, altro sarebbe fuoriuscire da questo orizzonte», verso soluzioni per le quali «il gruppo dirigente non dispone di un mandato congressuale». Si spinge insomma affinché Veltroni abbia chiaro che non gli si riconosce la facoltà di allargare a piacere i confini del dialogo con Berlusconi sulle riforme, tanto più se le sirene del Cavaliere evocassero forme più o meno esplicite di presidenzialismo o leggi elettorali tarate su misura dei due partiti a «vocazione maggioritaria». Un posizionamento che rassicura non poco la sinistra radicale, tagliata fuori dal dibattito in aula.
D'Alema ha chiesto all'Astrid di Franco Bassanini e Giuliano Amato, di collaborare all'organizzazione del seminario (dovrebbe essere della partita anche l'Arel di Enrico Letta). L'interlocutore non è certo casuale: nel board di Astrid siedono anche esponenti centristi come Tabacci e Pezzotta e di sinistra come Cesare Salvi. E non è secondario ricordare che il minimo comune denominatore dei tre think tank è, in fatto di legge elettorale, l'orientamento per il modello elettorale tedesco. Proprio quello che la nuova sinistra vendoliana, nonché Pierferdinando Casini, sottoscriverebbero in bianco.

il Riformista 27.5.08
left 2 dopo l'endorsement su Nichi
Il leader maximo spacca Rifondazione
Ferrero: «La priorità non è il Pd». I vendoliani aprono ma aspettano un segnale sulla legge elettorale
di Alessandro De Angelis


Si potrebbe partire dalle sue critiche aspre, molto aspre, al pacchetto sicurezza varato dal governo. Per non parlare dell'affondo sulla laicità («La laicità è a rischio se la Chiesa cederà alla tentazione demoniaca del potere»). O dell' endorsement a favore di Nichi Vendola: «L'unico in grado di rilanciare un'idea di sinistra in chiave moderna». D'Alema ha mandato più di un messaggio alla sinistra. E - paradossalmente, ma non troppo - il leader maximo, in versione gauchistes , divide, e non poco Rifondazione. Che, specularmente al Pd, si spacca tra gli autosufficienti (vai alla voce: Ferrero&Co) e quelli favorevoli alle alleanze col Pd, anche se non ora (vai alla voce: Vendola).
Come se lo scontro interno in vista del congresso di fine luglio non fosse già abbastanza caldo, le posizioni dalemiane hanno prodotto ulteriori tensioni nel confronto interno. Gli ex bertinottiani con D'Alema e Bersani hanno mantenuto aperti tutti i canali negli ultimi tempi. Giordano ha incontrato l'ex ministro allo Sviluppo economico più volte. E i suoi parlano di «chiacchierate» costanti. Certo, ora c'è il congresso di Rifondazione, che si annuncia come una conta all'ultimo voto. E parlare apertamente di «dialogo col Pd» è quasi un tabù in un momento in cui il risultato elettorale, nel popolo rosso, fa ancora male. Non solo: presterebbe il fianco, dicono i colonnelli di Vendola, all'accusa di voler confluire nel Pd. Ma, in prospettiva, Vendola non ha alcuna intenzione di seguire la linea dello splendido isolamento. Già domenica ha mandato un segnale a D'Alema: «Massimo ha capito gli errori del Pd. L'autosufficienza del loft è fallita» ha detto in un'intervista a Repubblica . Siamo solo all'inizio ma i segnali del dialogo (che verrà) ci sono tutti: «Nella sostanza, al di là degli incontri, D'Alema vuole un interlocutore perché capisce che il vuoto a sinistra non è un vantaggio per il Pd. E lo vuole credibile. Un politico di razza non può che dire Vendola» afferma Alfonso Gianni fedelissimo di Bertinotti.
Di tutt'altro avviso i fedelissimi di Ferrero. Parola d'ordine: niente dialogo col Pd. Ramon Mantovani, ad esempio, va giù duro: «Sui contenuti non c'è possibilità di costruire un centrosinistra sul piano politico nazionale. E D'Alema non ha alcun titolo per intromettersi nel nostro dibattito». Anche Grassi spara ad alzo zero: «Trovo stucchevole il credito che Giordano e Vendola stanno dando a D'Alema e Bersani. Così come trovo indecenti le affermazioni fatte da D'Alema in appoggio a Vendola rispetto al nostro congresso». Dalle parti della mozione Ferrero, però, al di là della levata di scudi ufficiale, le ultime di dichiarazioni di D'Alema non preoccupano un gran che, in vista dell'esito dello scontro interno. Anzi diventano quasi utili per far leva sull'orgoglio identitario, visto che il Pd nella base di Rifondazione tanto amato non è proprio. Dice Ferrero: «Il problema non è farci riconoscere da D'Alema e da Bersani ma dalla società. Non siamo scomparsi per assenza di relazioni politiche, ma siamo saltati per aria nel paese. La priorità è costruire l'opposizione a Berlusconi. La volta scorsa la fecero i Ds e la Cgil ora spetta a noi. E spetta a noi su questo unire la sinistra».
A sentire i bertinottiani, il problema principale sulla via della ripresa del dialogo ha un solo nome: Walter Veltroni. Quindi la parola d'ordine, in questa fase, è: cautela. L'ex segretario Giordano vuole fugare ogni dubbio sullo scioglimento di Rifondazione: «Qualunque sia l'opzione verso cui tende il Pd noi dobbiamo ricostruire l'autonomia politica e culturale della sinistra». E chiarisce: «Una cosa è la dialettica con una forza di ispirazione socialista moderata, una cosa è l'ipotesi di Veltroni. L'una è il modello europeo, l'altra il modello americano». E su D'Alema aggiunge: «D'Alema e Bersani oltre a prospettare una maggiore opposizione politica al governo Berlusconi, opposizione che fino adesso non c'è, colgono un punto fermamente rilevante: riconoscere l'esistenza di un'area di sinistra e interrompere ogni tentativo di annessione sia sotto la forma del voto utile che dell'escamotage della legge elettorale». Legge elettorale: questo è il punto dirimente sulla via del dialogo col Pd. Gli ex bertinottiani vogliono prima andare a vedere le carte: «Dobbiamo confrontarci. Nessuno è titolato a rappresentare nessuno» dice Giordano. Tradotto: bene D'Alema sui contenuti, dalla laicità alla sicurezza, ma ora il leader maximo deve farsi valere nel suo partito. Dentro Rifondazione sono certi che ci sia un patto già scritto tra Berlusconi e Veltroni teso, di fatto, a cancellarli del tutto. L'accordo prevederebbe tre punti: soglia di sbarramento, aumento delle circoscrizioni e abolizione o riduzione delle preferenze. Praticamente il colpo di grazia per la sinistra-sinistra. Su questo anche Ferrero è d'accordo: «Sullo sbarramento alle europee e sull'assetto istituzionale dobbiamo dialogare col Pd ma anche col centrodestra». Ma solo su questo.

il Riformista 27.5.08
Kojève il cruciale saggio uscito da quodlibet
Teologo, collega di Dio, favorevole all'ateismo
di Marco Filoni


Anticipiamo uno stralcio dall'introduzione di Marco Filoni al volume L'Ateismo di Alexandre Kojève, edizioni Quodlibet di Macerata (tradotto dal manoscritto originale russo del 1931 da Claudia Zonghetti e curato da Elettra Stimilli e Marco Filoni).

Alexandre Kojève, che amava il paradosso, ebbe una volta a dire che Dio era suo collega. Al di là dell'aspetto ironico, la boutade racchiudeva un significato biografico profondo. Questo geniale protagonista della filosofia novecentesca fu infatti, per tutta la vita, letteralmente ossessionato dall'idea di Dio, tanto da spogliare la teologia dal suo carattere divino. Kojève non intendeva rinunciare a una teologia che aveva trovato nei filosofi russi nel corso dei suoi studi orientali. Raccontava d'aver imparato a rinnegare l'idea di Dio quando, bambino, sua madre lo costringeva ad abbassare la testa in segno di rispetto prima di ogni pasto. Ma quell'idea non lo abbandonò mai: se dirà d'esser diventato ateo proprio a causa di quell'imposizione, continuerà ciononostante ad abbassare la testa per tutta la sua vita. Come scrive nelle pagine che seguono, l'ateismo è il suo modo per cercare la «via verso Dio». E l'eco di questa attitudine risuona in tutta l'opera del filosofo. Anche nel quotidiano, cercò sempre un rapporto privilegiato con pensatori religiosi. Giunto a Parigi nel '26, dopo gli studi in Germania, iniziò a frequentare gli intellettuali e i teologi dell'emigrazione russa, convinti del ruolo messianico del loro paese natale: il filosofo Lev Karsavin, il teologo Georgij Florovskij e Nikolaj Berdjaev. E anche negli anni successivi preferì discutere con importanti figure del pensiero cattolico, in prevalenza gesuiti, come Gaston Fessard, Henri Bouillard ed Edmond Ortigues. A partire dai primi anni Cinquanta, e per oltre quindici anni, questi tre filosofi e teologi presero l'abitudine di incontrarsi a casa di Kojève almeno una volta al mese, per cenare e poi discutere fino a notte tarda. Fu proprio in una di queste serate che Kojève confidò agli amici il motivo per cui persone come Sartre, Eric Weil o Maurice Merleau-Ponty non comprendevano affatto il suo pensiero: «Perché non sono teologi!». Egli era pienamente consapevole dell'esistenza di un passaggio dalla teologia alla saggezza non-teologica, ovvero di quella che lui chiamerà «fine della storia». Ma la fine della storia altro non era per Kojève che la fine della teologia. Egli pensava che l'uomo in quanto tale esistesse da millenni solamente in quanto essere che ha un Dio o degli dèi. E la fine della storia è esattamente il momento in cui un Dio scende sulla Terra e diventa umanità o, se si preferisce, spirito. Per Kojève era giunto quel momento, e si trattava ormai di pensare il Dio che, giunto sulla Terra, fosse un Dio ateo.
[…] L'ambiente russo di provenienza, l'interesse per certe tematiche spirituali e religiose, il suo appartenere alla tradizione slava, unitamente alla «maniera russa di pensare le cose», sono caratteri indispensabili per comprendere sino in fondo la riflessione di Kojève. Oltre che il suo modo di fare. Jacob Taubes gli invidiava la disinvoltura - come nei rapporti con Carl Schmitt, per Kojève l'unico con cui valesse la pena parlare nella Germania degli anni Sessanta. Per l'ebreo Taubes la questione era più complicata, dovendo fare i conti con il passato da gerarca nazista del giurista: «Guarda un po', ho pensato. Insistono da vent'anni perché io ci vada e Alexandre Kojève, che considero il filosofo più importante, ci va». Di lì a poco anche Taubes andrà da Schmitt. E ripensando a Kojève, al suo modo di fare elegante e disinvolto, dirà: «In fondo Kojève, in origine Kožévnikov, era russo, aveva conseguito il dottorato con Jaspers a Heidelberg con una tesi su Vladimir Solovëv, lo "Hegel russo" e amico di Dostoevskij, e quindi era membro di una nazione apocalittica». (...)
Le analisi contenute ne L'Ateismo rimarranno fondamentali nello sviluppo del pensiero kojèviano. È qui che vengono poste le basi di quell'idea di uomo moderno, l'uomo hegeliano, quale essere cosciente dell'impossibilità di ammettere l'esistenza di Dio. Un «uomo nuovo», che ha lo scopo di rimpiazzare il Dio già morto. E Kojève sembra mormorare, fra le righe, le parole che Dostoevskij mette in bocca a uno dei protagonisti de I fratelli Karamazov : «È grandiosa, Alëša, questa scienza! Un uomo nuovo verrà, questo lo capisco bene… E mi rincresce malgrado tutto per Dio!».

il Riformista 27.5.08
Heidegger perché manca la cura editoriale di volpi?
Se i «Contributi» sono un salto nel vuoto
di Ludovico De Roberto


Dopo anni di attesa, anche se un po' in sordina, sono usciti finalmente i Contributi alla filosofia. (Dall'evento) di Martin Heidegger. Scritto fra il 1936 e il 1938, ultimato e rivisto dall'autore in forma di dattiloscritto, questo libro che Adelphi si è finalmente decisa a pubblicare in traduzione italiana (di Franco Volpi e Alessandra Iadicicco) era espressamente pensato per i posteri. Si narra fra l'altro che Heidegger volesse riservare lo stesso destino a tutti i suoi inediti, ovvero che restassero tali per almeno un secolo dopo la sua morte, e che fu convinto a cambiare idea dal figlio Hermann (proprio colui che di recente ha dichiarato di essere altrui figlio naturale) allorché gli paventò la minaccia distruttiva di una guerra atomica. Ecco dunque che in Germania esso è uscito postumo per celebrarne il centenario della nascita nel 1989. Il libro era annunciato come la seconda grande opera di Heidegger, utile per comprendere, Essere e tempo , notoriamente rimasta incompiuta. La fuga centrale è intitolata «Il salto» ed è forse la più adatta ad indicare la posta in gioco nei Contributi . Heidegger sapeva bene che il modo di scrivere posto qui in opera non disponeva di lettori «adeguati». Si premura di indicare che, all'interno dell'opera completa, i Contributi escano dopo la pubblicazione dei corsi universitari, in cui si vede come le sue principali acquisizioni non galleggiano nell'aria, ma vengono espugnate una a una nel confronto serrato con la tradizione filosofica nel suo insieme, nell'ambito della quale assumeranno sempre più peso i pensatori «iniziali» (i Presocratici), il dire poetico soprattutto di Hölderlin, e la presenza ultimativa di Nietzsche. Senza un terreno adeguatamente dissodato, questo testo rischia di costituire null'altro che un salto nel vuoto, o, detto più impietosamente, la brutta figura di un filosofo che prova a cimentarsi in sgangherate sentenze oracolari peraltro stilisticamente infelici.
Esistono antidoti per quanto meno attenuare simili brutte figure, e sono quelli che prendono il nome di cura dell'edizione di un'opera. Che lo si faccia per passione, per denaro, per vanità, per ottenere titoli accademici, curare l'edizione di un'opera del pensiero significa mettersi al servizio del suo potenziale, adoperarsi a che questo si ritrovi sotto l'angolo di massima luce. Per lo stesso Heidegger, almeno in Essere e tempo ma ancora nel libro in questione, la cura è una dimensione fondamentale dell'umano, termine chiave per indicare il rapporto fra l'esistenza e le cose del mondo, che oscilla fra l'apprensione/preoccupazione e un'idea operativa dell'amore, e che, nella sua declinazione più appropriata, può aprire alla dimensione più piena dell'esistenza stessa. Perché dunque Volpi non ha curato i Contributi , così come tanti altri volumi heidegerriani Adelphi, limitandosi alla sola co-traduzione?
Nell'«Avvertenza» all'edizione italiana si offre da un lato una presentazione chiara e sintetica - comunque utile - del testo e del linguaggio che l'improvvido lettore si accinge ad affrontare, ma dall'altro risultano evidenti due curiose anomalie. La prima è che l'editore tedesco non ha concesso la pubblicazione di apparati assieme al testo: «Dovendo rimandare ad altra sede, per disposizione degli eredi, ogni spiegazione in merito a genesi, stile e contenuto…». Altro punto non marginale: non si concorda sul modo in cui l'editore tedesco ha disposto i materiali, segnatamente la scelta di porre alla fine la sezione «L'essere», e non prima delle sei fughe come avveniva nel dattiloscritto. In un libro articolato in fughe si potrà immaginare quanto conti la dispositio degli argomenti. Al punto che le fughe si suddividono a loro volta in innumerevoli paragrafi contrassegnati da un titolo, non numerati, e sono molti, all'interno della stessa fuga, i paragrafi con lo stesso titolo, dove l'unica differenza è data appunto dalla posizione.
La cosa più grave, dunque, è la mancanza di un apparato di contestualizzazione, di una rampa che ricongiunga al contesto la materia di questo «salto». Si desume che tale mancanza sia dovuta all'atteggiamento degli editori tedeschi, o meglio del già citato Hermann Heidegger, e del capo dei curatori dell'edizione tedesca dell'opera completa Friedrich-Wilhelm von Herrmann: pare che essi pretendano di ingerire sul modo in cui il verbo heideggeriano andrebbe diffuso in Italia. Ciò si vede anche dalla difficoltà che incontra in Italia qualsiasi editore provi a chiedere di pubblicare o ripubblicare uno dei tanti corsi heideggeriani ancora inediti in italiano o da lungo tempo esauriti. Del resto, dall'altro lato, hanno concesso di effettuare traduzioni o ritraduzioni (pensiamo al caso famoso dell'Origine dell'opera d'arte ) in cui hanno luogo sperimentalismi individuali che fanno piombare il testo nell'oscurità e in cui si vede bene come, alla grossa, le traduzioni di Pietro Chiodi offrissero una ben più agevole base di leggibilità. Si tratta, per concludere, degli ennesimi danni creati da una legge sul copyright che lo mantiene per settanta anni dopo la morte dell'autore. La bella conseguenza è che praticamente un'intera generazione non ha potuto leggere quest'opera in italiano. E che, in generale, per via di politiche editoriali sconsiderate che hanno ostacolato la libera diffusione del pensiero di Heidegger, ora che esce, è divenuta praticamente illeggibile.

il Riformista 27.5.08
Dibattiti è onesta la sua automitologia
Scalfari, quel piccolo peccato d'onnipotenza
di Filippo La Porta


Molte pagine dell'Uomo che non credeva in Dio di Eugenio Scalfari mi hanno fatto venire in mente Ingmar Bergman. Quel richiamo alle stagioni fatate, le serate natalizie che sfilano davanti saltando come burattini colorati, partenze solitarie alla stazione che assomigliano a sogni, la centralità delle idee, la nostalgia della luce e del silenzio, il pathos della natura (la nostra somiglianza agli alberi), l'ansia continua di un senso che non si placa nella fede. Eppure una differenza c'è. Nel Posto delle fragole l'anziano luminare della medicina, impegnato in un bilancio impietoso della vita (come può fare solo un protestante), conclude che tra sé e gli altri si è sempre frapposto il proprio io - egoista, prepotente, anaffettivo -. Scalfari, che pure vorrebbe saggiamente ridimensionare l'io, tende perlopiù ad approvarsi. Con tutta la sua sofferta problematicità alla fine ci convince della sua - e nostra - fondamentale innocenza, per quanto ritrovata e senza implicazioni teologiche. E anzi nell'ultima pagina mette le mani avanti: può anche darsi che la sua ricostruzione autobiografica sia stata apologetica ma d'altra parte - aggiunge - all'io che guarda e giudica se stesso non si può certo richiedere imparzialità.
Se davvero i pensieri sono come le puttane e dunque vanno con tutti, come credeva Diderot (qui citato), conta allora soprattutto il il modo in cui sono formulati. Qual è lo stile di Scalfari? È limpido, discorsivo, raziocinante, a tratti conversativo, a tratti didascalico-filosofico, non disdegna abbandoni lirici e immagini vivide, abbaglianti. Sia lo stile, sia l'idea del libro nel suo insieme, evocano qui e là La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda. In entrambi troviamo una automitologia, il desiderio di proiettarsi in una narrazione epico-storica. E poi una lieve supponenza dietro l'apparente affabilità. Scalfari però, al contrario della Rossanda, non ha un temperamento estremistico: predilige equilibrio, scetticismo, moderazione. Non è eccitato dalle discese agli inferi, anche se a volte l'esistenza può costringere a farle (le pagine sull'agonia della moglie sono tra le più belle e strazianti del libro). Assomiglia in ciò all'amico e compagno di classe Italo Calvino, anche lui spaventato dal buio e dalle presenze invisibili, e convinto che nelle fiabe italiane, alla fine, mostri e diavoli vengano domati. Circola infatti nel libro, dietro la apparente pluralità delle suggestioni, un'idea fissa, che potrebbe diventare patologicamente ossessiva, se la misura dello stile non la «medicasse». Ed è la relazione tra passione morale e passione del potere, tra amore di sé e amore degli altri. Una relazione problematica, irrisolta, che - prudentemente - non viene mai spinta all'estremo. E qui necessariamente l'autobiografia dell'anima si intreccia con l'autobiografia della nazione, dato che Scalfari dedica uno spazio non trascurabile alla sua straordinaria esperienza giornalistica. Sulla quale provo, velocemente, a formulare un'ipotesi.
Quella orgogliosa terza forza - laica, repubblicana, liberaldemocratica - che invano nel dopoguerra tentò di ricavarsi uno spazio tra le due chiese integraliste di Pci e Dc, ha vinto nel giornalismo. Repubblica , la più geniale invenzione letteraria e civile di Scalfari, potrebbe essere il risarcimento del Partito D'Azione e della sua eredità culturale (semplificando: tra Salvemini e Croce). Però questa vittoria ha dovuto pagare un prezzo. Repubblica ha espresso preziosi anticorpi democratici, ma al tempo stesso ha attenuato la critica della modernità che pure quella tradizione conteneva: così la severità morale convive nelle sue pagine con la celebrazione involontaria degli idoli sociali (successo, denaro, fama…). La malinconia cede il passo, tra i lettori «interattivi» del quotidiano, alla smania di distinguersi, allo snobismo di massa, alla certezza di essere i più moderni e i più cosmopoliti.
Il giornalismo, come scrive Scalari, è vocazione a invadere la vita degli altri, a indirizzare la vita sociale ed economica, è un contropotere che dà ebbrezza di potenza. Eppure l'utopia più intima dell'autore si potrebbe riassumere in queste parole: «conoscere e capire le cose senza devastarne la struttura». Il contrario della politica. Forse qui c'è in lui un peccato di onnipotenza: voler interpretare tutti i ruoli sulla scena. Il potere e la sua coscienza malinconica, la modernità più aggressiva e il suo controcanto critico, l'astuto Odisseo e il dolorante Filottete. Scalfari ha però il merito di descrivere tutto questo con onestà e candore. Nell'intervista televisiva a Che tempo che fa appariva l'adolescente: incorruttibilmente serio, concentrato sulle domande, trasparente e di disarmata sincerità. A un certo punto nel libro osserva che l'ingiustizia più intollerabile è il non essere riconosciuti. Va bene, ma forse c'è qualcosa di più prezioso. Vorrei solo ricordargli quanto diceva Nicola Chiaromonte, anche lui esponente - più radicale - di quella terza forza sconfitta nella nostra storia: bisognerebbe riconoscere il diritto a «vivere nascosti», un tempo considerato principio di saggezza e oggi perseguitato fino nell'intimo dalla invadenza dei media e del loro rumore di fondo.

Liberazione 27.5.08
Appello contro un nuovo razzismo di massa
Quell'atroce passato che può ritornare


Siamo persone - storici, giuristi, antropologi, sociologi e filosofi - che da tempo si occupano di razzismo. Il nostro vissuto, i nostri studi e la nostra esperienza professionale ci hanno condotto ad analizzare i processi di diffusione del pregiudizio razzista e i meccanismi di attivazione del razzismo di massa. Per questo destano in noi vive preoccupazioni gli avvenimenti di questi giorni - le aggressioni agli insediamenti rom, le deportazioni, i roghi degenerati in veri e propri pogrom - e le gravi misure preannunciate dal governo col pretesto di rispondere alla domanda di sicurezza posta da una parte della cittadinanza. Avvertiamo il pericolo che possa accadere qualcosa di terribile: qualcosa di nuovo ma non di inedito.
La violenza razzista non nasce oggi in Italia. Come nel resto dell'Europa, essa è stata, tra Otto e Novecento, un corollario della modernizzazione del Paese. Negli ultimi decenni è stata alimentata dalla strumentalizzazione politica degli effetti sociali della globalizzazione, a cominciare dall'incremento dei flussi migratori e dalle conseguenze degli enormi differenziali salariali. Con ogni probabilità, nel corso di questi venti anni è stata sottovalutata la gravità di taluni fenomeni. Nonostante ripetuti allarmi, è stato banalizzato il diffondersi di mitologie neo-etniche e si è voluto ignorare il ritorno di ideologie razziste di chiara matrice nazifascista. Ma oggi si rischia un salto di qualità nella misura in cui tendono a saltare i dispositivi di interdizione che hanno sin qui impedito il riaffermarsi di un senso comune razzista e di pratiche razziste di massa.
Gli avvenimenti di questi giorni, spesso amplificati e distorti dalla stampa, rischiano di riabilitare il razzismo come reazione legittima a comportamenti devianti e a minacce reali o presunte. Ma qualora nell'immaginario collettivo il razzismo cessasse di apparire una pratica censurabile per assumere i connotati di un «nuovo diritto», allora davvero varcheremmo una soglia cruciale, al di là della quale potrebbero innescarsi processi non più governabili.
Vorremmo che questo allarme venisse raccolto da tutti, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato, dagli amministratori locali, dagli insegnanti e dagli operatori dell'informazione. Non ci interessa in questa sede la polemica politica. Il pericolo ci appare troppo grave, tale da porre a repentaglio, le fondamenta stesse della convivenza civile, come già accadde nel secolo scorso - e anche allora i rom furono tra le vittime designate della violenza razzista. Mai come in questi giorni ci è apparso chiaro come avesse ragione Primo Levi nel paventare la possibilità che quell'atroce passato tornasse.

Alberto Burgio, Carlo Cartocci, Tullia Catalan, Enzo Collotti, Alessandro Dal Lago, Giuseppe Di Lello, Angelo d'Orsi, Giuseppe Faso, Mercedes Frias, Gianluca Gabrielli, Clara Gallini, Pupa Garribba, Francesco Germinario, Patrizio Gonnella, Maria Immacolata Macioti, Brunello Mantelli, Giovanni Miccoli, Giuseppe Mosconi, Grazia Naletto, Michele Nani, Salvatore Palidda, Pier Paolo Poggio, Enrico Pugliese, Anna Maria Rivera, Rossella Ropa, Emilio Santoro, Katia Scannavini, Renate Siebert, Giacomo Todeschini, Nicola Tranfaglia, Fulvio Vassallo Paleologo, Danilo Zolo