mercoledì 28 maggio 2008

Repubblica 28.5.08
Una risposta al teologo Vito Mancuso
di Eugenio Scalfari

Per il mio libro L´uomo che non credeva in Dio sono stato gratificato da molte recensioni e da moltissime lettere inviatemi da lettori amici o mai incontrati. Voglio qui ringraziare tutti per l´attenzione che mi hanno dedicato, per le critiche che mi hanno rivolto e in generale per il tono di civile conversazione che ha circondato quelle pagine con un alone affettuoso, uno scambio di esperienze e di sentimenti in un´epoca dove quello scambio è ormai diventato inconsueto.
Ho imparato molto dalle recensioni, dalle lettere, dai dibattiti che hanno avuto il mio libro per oggetto. Prego di credere che non è una frase di facile e ipocrita cortesia: ho scritto parecchi altri libri e anch´essi sono stati recensiti e dibattuti ma non avevo mai sentito il bisogno d´un ringraziamento collettivo e non avevo imparato granché da quelle letture.
Questa volta mi è sembrato diverso, forse invecchiando si gusta meglio e di più la gentilezza altrui e si avverte il desiderio di ricambiarla.
Non è melassa, ma reciproco nutrimento sentimentale.
Tra i recensori ce n´è stato anche uno che si è concentrato sul contenuto filosofico delle mie pagine. Per ragioni stilistiche e anche filosofiche il libro è scritto in modo del tutto asistematico, procede per frammenti, riflessioni, passaggi rapidi da episodi di vita vissuta a riflessioni sul senso, sulle figure psichiche, sui fondamenti della morale, della politica, della religione.
La filosofia e la vita si sono volutamente intrecciate e così alcune domande e qualche risposta. Questo modo di procedere era una necessità imposta dal tema da me scelto e cioè una ricerca che conduco ormai da molti anni sul rapporto tra la vita e i pensieri e sulle modalità con le quali l´una interferisce e determina gli altri e viceversa. Non potevo avere più autentica e diretta autenticazione di quel rapporto se non la mia vita e i miei pensieri e questo ho fatto, ma sono stato contento di sentirmi dire da tanti lettori d´essersi identificati in molte delle mie riflessioni, delle domande che mi ponevo e delle risposte che ho cercato di dare quando ne sono stato capace. E commossi ? così mi hanno scritto in molti ? da alcuni miei ricordi, malinconie, gioie, dolori, insomma abbandoni che ti vengono quando ti confessi a te stesso e alla pagina destinata ad un pubblico al quale sei legato da affinità elettive coltivate per anni. «Quel cibo ? scriveva il Machiavelli al Vettori ? che solum è mio ed io son per lui». Parlava degli scrittori antichi, io parlo di lettori miei contemporanei ma ciò che mi lega ad essi ha la stessa qualità e intensità e mi dà una serenità e un benessere spirituale grandissimi.
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Dicevo che tra i miei recensori ce n´è stato uno che ha concentrato la sua attenzione critica sugli aspetti filosofici del mio libro. Diciamo sulla mia filosofia. Si chiama Vito Mancuso. Mi ha dedicato un lungo articolo sul Foglio del 18 maggio. E´ filosofo e teologo. Ha scritto libri pregevoli, l´ultimo dei quali s´intitola L´anima e il suo destino che ho letto con vivo interesse. E´ di cultura cattolica anche se piuttosto eterodossa. Privilegia la ragione sulla fede, ma non al modo di san Tommaso o almeno non soltanto.
Usa molto le categorie ontologiche, direi ammodernando un tipo di pensiero che è più vicino ad Anselmo d´Aosta che al grande Aquinate.
A lui desidero rispondere non da scrittore ma piuttosto da filosofo a teologo perché questo tipo di confronto mi interessa e spero interessi anche i miei lettori.
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Mancuso concorda con me su parecchie questioni. Per esempio sul mio modo di intendere la morale come un istinto biologico mirato alla sopravvivenza della specie. E ancora sulla mia visione dell´amore come elemento dominante della vita alla pari con la volontà di potenza. Infine sulla mia ricerca dei «fondamenti» che determinano le forze primarie e vitali.
Ma dissente, Vito Mancuso, su alcuni punti essenziali e mi coglie in difetto di coerenza. Anzitutto su Nietzsche.
Secondo lui l´autore di Zarathustra ha demolito la Ragione come grembo primordiale del creato, mettendo al suo posto il corpo il «soma», l´irrazionale-istintuale.
Scalfari - scrive Mancuso - è intriso di pensiero illuminista e tutte le sue pagine sono un onesto e cauto esercizio di razionalità, ma d´improvviso abbandona Diderot e Voltaire per Nietzsche. Non è incoerenza questa inattesa giustapposizione di due tesi completamente opposte tra loro? Rispondo con una delle frasi che meglio rappresentano il pensiero nietzschiano: «Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante».
Nietzsche parlava per aforismi e metafore e questa è una delle più profonde e poetiche tra le tante da lui usate. Egli non pensa l´essere alla maniera di Parmenide e delle religioni induiste. Tanto meno lo pensa come Logos.
Per lui il grembo primordiale ? se posso usare l´immagine di Mancuso ? è il caos, il ribollente informe che sfugge alle categorie del tempo e dello spazio.
Il caos non è l´essere ma piuttosto un perenne divenire che erutta forme. La stella è già una forma, dotata d´una sua figura, d´una proporzione tra gli elementi chimici e le forze elettromagnetiche che la compongono; una forma in evoluzione, soggetta a regole e leggi proprie; misurabile sia nello spazio sia nel tempo. Volete conoscere la prima di tali regole? E´ l´entropia, la degradazione dell´energia potenziale che si traduce in luce e calore secondo i principi della termodinamica.
Il caos non è pensabile dalla ragione. Come il nulla. La stella invece è pensabile, misurabile, degradabile, ha un tempo di nascita e un tempo di morte, soggetto alle leggi imposte dalla sua stessa natura, conoscibile attraverso i processi propri del pensiero razionale.
Questa del resto è una visione tipicamente spinoziana e Mancuso ricorderà che Nietzsche riconobbe Spinoza come suo maestro e anticipatore del suo pensiero.
L´irrazionalismo nietzschiano coincide con la visione caotica dell´informe originario ma cessa nel momento in cui entrano in scena le forme e le leggi che regolano il loro divenire.
In questa concezione non c´è posto per il «logos primordiale». Le religioni monoteiste lo trasmettono ai loro fedeli come verità certa mentre si tratta di una verità di fede. Dal punto di vista della ragione vale appunto come un vento di fede, valida soltanto per chi ne sia vivificato e ne derivi tutte le conseguenze induttive e deduttive. Togliete la fede e l´intera costruzione logica che poggia su quella premessa crolla come un castello di carta. Il suo guaio, caro Mancuso, è di scambiare quel vento di fede per verità di ragione.
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Ci sono nel suo articolo altri punti di dissenso con me: il tema della libertà, il tema dell´anima (che le sta particolarmente a cuore), quello dell´amore in contraddizione (secondo lei) con la volontà di potenza, quello della Trinità di Dio.
Fossi in lei, teologo cristiano e anzi cattolico, starei molto attento a infilarmi in quest´ultimo argomento: lei sa meglio di me a quali dispute ha dato luogo il Dio uno e trino.
Dispute da Concilio, votazioni su Dio, scomuniche, scissioni, papi e antipapi, episodi cruenti, quanto di più lontano da una teologia libera e feconda di pensiero e di carità.
Il tema della libertà, come lei lo pone attraverso le equazioni tra Io e Mondo, è per me assai poco ricevibile.
Se Io è eguale a Mondo (lei dice) il risultato dell´equazione è zero nel senso che non c´è residuo; se invece Io è qualche cosa in più di Mondo, da quella sottrazione resta un x e quell´x è la libertà.
Debbo dire che pensare la libertà come un elemento residuale, un sovrappiù dell´Io depurato dalle influenze esterne (Mondo) mi suscita un sentimento di sgradevolezza.
Nell´immagine corrente la libertà è una forza potente, una «anima mundi» che pervade la vita di ogni persona e di ogni società. O è questo o non è. La libertà come un residuo mi sembra impensabile ed anche mi sembra impensabile un Io depurato dalle interferenze del Mondo, cioè dalla realtà esterna.
Non è lei stesso a sostenere (ed io convengo con lei) che una delle caratteristiche fondative della nostra specie è la socievolezza che lei chiama «legge relazionale»? E dunque se la relazione con gli altri è elemento fondativo della specie come è mai possibile concepire l´Io sottraendolo ad uno dei suoi elementi fondativi?
Significherebbe snaturarlo non depurarlo; significherebbe distruggerlo e quindi privare l´equazione da lei formulata di uno dei suoi due elementi.
E poi: mi sembra strano che un teologo cattolico concepisca la libertà come un residuo quando tutta la dottrina cattolica indica nel libero arbitrio la pietra angolare della sua costruzione. Qui ? mi permetta di dirlo ? è lei in contraddizione con la sua Chiesa.
Ma torniamo alla libertà. Io ritengo che l´istinto fondamentale di ogni entità vivente sia quello della sopravvivenza cioè della forma di ciascun vivente e della durata della sua organizzazione. Tutto il resto ne deriva.
In questa visione la libertà è il modo con cui il soggetto utilizza la realtà esterna e le occasioni che essa gli offre per poter sopravvivere. La libertà comporta il rischio di sbagliare, l´errore di scegliere un´occasione che sembra utile alla sopravvivenza e invece non lo è.
Quante specie sono perite anzitempo per aver imboccato strade cieche, prive di evoluzione ulteriore? Quanti individui hanno compromesso la loro felicità e la loro fortuna scegliendo «liberamente» l´occasione negativa anziché quella per loro positiva?
Il margine di libertà così concepito è molto piccolo, ma comunque è molto maggiore di quanto non sia quello di altre specie viventi. Noi siamo dotati di mente riflessiva e quindi di capacità comparative, cioè di giudizio.
Non solo ci sentiamo soggetti ma aggiungiamo al soggetto il predicato. La nostra libertà ha la sua radice proprio in quel punto, situato nel rapporto tra vivere e pensare, tra soggetto e giudizio.
* * *
Concluderò parlando dell´amore, un tema che mi è molto caro in tutte le sue declinazioni.
L´amore, come tutti gli altri nostri sentimenti, deriva dall´istinto di sopravvivenza. C´è l´amore di sé e l´amore per l´altro. Gli animali non hanno questa duplice declinazione; non avendo una mente adeguata a costruire l´Io agiscono soltanto per sopravvivere. Per noi umani è diverso: noi amiamo noi stessi ma amiamo anche gli altri la cui esistenza è necessaria alla nostra sopravvivenza. Di qui nascono la morale e l´egoismo come istinti separati ma alimentati entrambi da quello della sopravvivenza.
Non ci sono in questa visione atti morali che possano danneggiare la specie, come lei caro Mancuso sostiene.
Intendo: che possano danneggiare l´umanità della specie. Ci possono invece essere e purtroppo ci sono atti egoistici che possono danneggiare l´umanità della specie. L´istinto morale interviene a correggerli, alle volte ci riesce, altre volte no. La nostra vita è fornita di due pedali come una macchina che abbia un acceleratore ed un freno.
Tra le tante buone letture in materia, consiglio le massime di La Rochefoucauld: fu un uomo per tanti aspetti detestabile ma aveva un cervello e capacità di giudizio fuori dal comune. Se per caso non le avesse lette le legga ora, caro Mancuso: imparerà o si rinfrescherà con molte cose che la teologia non include nel suo sapere.
Non ho bisogno di ripetere che apprezzo molto i suoi scritti. Del resto non avrei dedicato tanto spazio a contestarne alcuni aspetti.

l’Unità 28.5.08
Tullio De Mauro: i protagonisti dell’odio per il diverso adesso si sentono protetti
di Maristella Iervasi


«Non piace la diversità, da sempre. Ma i protagonisti dell’odio per il “diverso” ora si sentono protetti. A torto, però». Tullio De Mauro, professore emerito all’Università «La Sapienza», commenta con amarezza gli ultimi episodi di violenza e intolleranza accaduti a Roma. Ultimo in ordine cronologico: il raid in via De Lollis, a due passi dal suo Ateneo romano.
Professor De Mauro, da un mese a questa parte si respira un clima esasperato ad alta tensione. Lo avverte anche lei?
«Non piacciono tutte le manifestazioni che in qualche modo sembrano fuori standard: immigrati, minoranze linguistiche, zingari... Da molto tempo c’è in Italia questo clima. Mi sono andato a rivedere vecchi articoli. Nel 1975 io stesso feci un elenco delle aggressioni ai campi nomadi, una lunga e vecchia storia. Spesso piena di leggende metropolitane ripetute a volte da qualche politico: non è vero che gli zingari non vogliono casa o stabilizzarsi».
A Roma in poche settimane è accaduto di tutto: un raid di persone incapucciate contro i negozi gestiti da immigrati al quartiere Pigneto; l’aggressione al conduttore di «Dee.Gay.it» perché omosessuale, e addirittura un raid a «La Sapienza». Solo un’escalation inquietante?
«C’è un filo conduttore che lega tutte questi episodi: sono atti compiuti verso persone che sono considerate “diverse”. Mentre il caso Sapienza va invece analizzato per conto suo».
Andiamo per punti allora. Con Veltroni sindaco la xenofobia e la violenza verso il “diverso” erano casi isolati. Con il cambio di poltrona al Campidoglio i raid e gli episodi di intolleranza sembrano invece cresciuti in maniera esponenziale. È così?
«I protagonisti dell’odio per il diverso ora si sentono protetti. A torto, perché non credo che la protezione politica arrivi dall’alto».
Il pacchetto sicurezza varato dal Consiglio dei ministri, i continui proclami sulle ronde e la caccia all’immigrato irregolare. Tutto questo può favorire una caccia alle streghe?
«La mancanza di cautela nel polarizzare l’attenzione sugli immigrati e i nomadi ha conseguenze negative. Si finisce ad autorizzare cose che invece credo non sono per niente nei disegni del sindaco Alemanno e del premier Berlusconi».
Se fosse di nuovo ministro o parlamentare, cosa suggerirebbe?
«Se fossi al governo, al Parlamento o un sindacalista mi occuperei piuttosto dei morti sul lavoro: la piaga italiana. Due morti al giorno sono tanti, mai dimenticare che siamo noi ad organizzare così il lavoro. Anzi, perché non facciamo un seminario su questo tema alla Sapienza con il professor Pescosolido?»
Invece il preside di Lettere aveva autorizzato il convegno di Forza Nuova sulle Foibe. Da qui il raid, dopo la revoca. Come commenta?
«Se era un seminario con gli storici andava consentito. Si dice che ci sarebbe dovuto essere Roberto Fiore, persona nota per la sua xenofobia e il suo razzismo. Ebbene, l’Università ha ospitato fior di terroristi, noti per aver fatto fuori persone dabbene. Bene ha fatto Pescosolido a ritenerlo un seminario con gli storici. Discutere nell’aula di Storia di Foibe o di qualsiasi altro argomento è sacrosanto, un principio da difendere».
Ma la versione degli studenti è ben diversa: Forza Nuova, con il leader Roberto Fiore organizzatore del convegno...
«In questo caso, allora, il preside Pescosolido avrebbe peccato di sottovalutazione».

l’Unità 28.5.08
E all’Università ora è alta tensione. I professori: l’antifascismo è nella Costituzione
Assemblea a Lettere, corteo interno. Un gruppo di docenti contro Forza Nuova. E le accuse all’organizzatore del convegno: no a germi di intolleranza
di Alessandro Ferrucci


Gli studenti:
fermeremo noi il finto
buonismo di questi
anni che ha
equiparato tutto

SECONDO PIANO della facoltà di Lettere, in fondo a sinistra c’è il dipartimento di Guido Pescosolido, professore di Storia Moderna e preside della facoltà. Al secondo mandato. Mentre a pian terreno c’è la baraonda, con studenti che parlano, discutono, confrontano le varie versioni e precisano con i mezzi d’informazione cosa è accaduto, qui tutto tace. Con i ragazzi, pochi, intenti a studiare, i docenti a interrogare per la sessione estiva e i bidelli a organizzare la vita pratica. Del resto non v’è traccia. Poi, basta nominare il professor Pescosolido e salgono le spalle, parte una smorfia e la frase: da lui c’era da aspettarselo. L’accusa più comune che gli viene rivolta è quella di non essere un uomo di sinistra; altri ritengono si sia distratto e che non abbia valutato l’assemblea sulle Foibe, fino in fondo. A quest’ultimo partito è «iscritto» il Pro-Rettore vicario, Luigi Frati, colui il quale ha revocato l’autorizzazione per lo svolgimento dell’incontro con i ragazzi di Forza Nuova «per la concomitanza dei gravi episodi d’intolleranza, avvenuti in questi giorni nel territorio metropolitano: proprio questa situazione induce a ritenere possibile che l’evento possa essere caratterizzato, anziché da un libero dibattito, da posizioni e contrasti tali da sfociare in altrettanto deprecabili episodi d’intolleranza». Un giro di parole per dire: non vogliamo i fascisti o i nazisti dentro l’Università. Ma i termini specifici non li usa mai, ha paura delle querele, dice. Al contrario di un gruppo di docenti della facoltà di Lettere: «L’università è un’istituzione dello Stato e come tale si fonda sul rispetto, sulla attuazione e sulla trasmissione dei valori costituzionali, tra i quali l’antifascismo - scrivono in una lettera -. Ed esprimiamo il nostro dissenso nei confronti dell’autorizzazione all’iniziativa di Forza Nuova». Poi ci sono i ragazzi, e sono tanti. Tra l’androne e le scale si radunano in più di 300 cento, alcuni di loro sono i protagonisti diretti della vicenda, coloro i quali hanno preso le mazzate dai quattro aggressori. Hanno l’adrenalina che li fa parlare e che gli cancella il dolore; corrono da una parte all’altra del lungo corridoio per tenere uniti amici e concetti. La preoccupazione è che qualcuno possa parlare di rissa: «No, è stata un’aggressione premeditata e vigliacca. Fascista, quindi». E non è la prima: «Da tempo subiamo minacce telefoniche e violenze fisiche. Solo che nessuno ne parla» raccontano. Sta di fatto che vogliono spiegare i fatti, a patto di non essere né ripresi e né fotografati. «L’aria è troppo brutta e non ve ne rendete conto. Eppure i casi del Pigneto o del ragazzo gay picchiato sono chiari. Per non parlare dell’aggressione di Villa Ada dell’anno scorso, quando alcuni di Forza Nuova hanno assalito dei nostri compagni, con i coltelli all’uscita da un concerto» denuncia uno dei leader. Che subito dopo richiama tutti a raccolta: parte il corteo. Oramai la voce si è sparsa dentro e fuori la Sapienza e a manifestare sono circa 500 persone, alcune delle quali adulte, che intonano cori come «Fuori i fascisti»; o «Fascisti carogne, tornate nelle fogne»; e ancora «Vergogna, vergogna». Ma, soprattutto «dimettiti!», rivolto a Pescosolido. Attraversano tutti i viali della città universitaria, per poi concentrarsi su Giurisprudenza, i perenni «rivali» perché considerati di destra: qui entrano e amplificano le loro rivendicazioni, compresa quella di chiedere ai colleghi studenti di interrompere le lezioni e di aggiungersi a loro. Inutilmente. Poi escono, continuano, ogni tanto si fermano come per contarsi. Il numero li rassicura «vuol dire che saremo noi a interrompere il finto buonismo di questi anni, il politically correct che ha equiparato tutto. Saremo noi a impedire ai fascisti di invadere qualunque luogo». A partire da ieri.

l’Unità Roma 28.5.08
Ora l’Università ha paura
Dopo l’ennesima aggressione squadrista il clima dell’ateneo è sempre più teso
Gli studenti: «Alcuni di noi già ricevono minacce anonime al telefono»
di Alessandro Ferrucci


UNA NUOVA assemblea si terrà oggi alla facoltà di Lettere alle 11 per valutare le iniziative dei prossimi giorni. «Ma nessuno di noi vuole un ritorno alla violenza degli anni 70»

C’è chi piange, chi trattiene le lacrime, chi fa lo spavaldo e minaccia ritorsioni, chi cerca di tranquillizzare gli animi e chi vuole sia ben chiara una cosa: «Non è stata una rissa, è stata un aggressione premeditata di stampo fascista». Frutto di un clima sempre più duro, a tratti pericoloso, con ragazzi che subiscono minacce al telefono o aggressioni sotto casa; ragazzi che beccano anche una coltellata all’uscita da un concerto, come lo scorso anno a Villa Ada. Tanto che i patti per parlare, raccontare la vicenda, sono chiari: nessuna ripresa a volto scoperto, nessuna foto e numeri di cellulare. «Non possiamo fare altro. Adesso siete tutti qui; siamo tutti qui. Ma dopo devo tornare a casa, da solo, e ogni volta mi guardo le spalle per non essere seguito». Paura, quindi, ma anche tanta rabbia e voglia di rimarcare una linea di confine che quasi tutti valutano scomparsa, a causa di «equiparazioni e atteggiamenti politically correct. Ora basta, è giunto il momento di spezzare questo finto buonismo e di rispedire fuori, lontano, questa gente» spiega uno dei ragazzi presenti nella facoltà di Lettere. Con gli amici che lo ascoltano, lo guardano ammirati, e applaudono. E sono in tanti. Nella sola facoltà «protagonista» della vicenda, ci sono almeno 300 persone riunite per denunciare la vicenda: hanno quasi tutti meno di trent’anni, indossano magliette con scritte rosse o immagini del «Che», hanno i capelli lunghi o rasati in maniera irregolare, portano orecchini vistosi e piercing sparsi sul corpo e fumano sigarette «artigianali», quelle fatte con il tabacco in busta. Insomma, sono il perfetto cliché del ragazzo di sinistra, quindi riconoscibile. E sono molti, ma non tutti. Perché alle loro spalle, c’è anche il perfetto cliché dello studente perennemente con il libro in mano; quello che vede una sola strada e la percorre; quello che vive l’università come una parentesi giornaliera e guarda gli altri in maniera scocciata e pronuncia la frase: «Ma andate a studiare...». A lui, di quello che è accaduto, interessa solo in quanto mette in discussione la certezza di fare gli esami. Poi c’è il terzo cliché, quello dell’over trenta, ancora legato al ruolo che si è costruito all’Università e che continua ad aggiornare la sua rubrica telefonica a seconda del passaggio generazionale. Tre «dinamiche» che si ripropongono ciclicamente negli anni. Come l’idea che se Lettere è di sinistra, il nemico viene dalla vicina Giurisprudenza. Dove il corteo partito alle 5, e oramai ingrossato oltre le 500 persone, entra per gridare forte «Fuori i fascisti dall’Università» o ancora «vergogna, vergogna!» e cercare di interrompere le lezioni e l’abulia delle aule. Senza quasi nessun esito, se non un breve scazzo con un ragazzo infastidito dai modi e dai metodi adottati. Per il resto la voglia è quella di contarsi, di rappresentare un volume da «spendere» nei prossimi giorni, quando «dovremo affrontare altre battaglie contro questi qui». I fascisti, appunto.



l’Unità Roma 28.5.08
Ora a Roma spariscono i clochard
Ponte Sisto, Sandro e il Giapponesino erano educati e (a modo loro) controllavano il territorio: ora sono scomparsi
di Adele Cambria


LA SCOMPARSA di Sandro e del Giapponesino. Abito in via dei Pettinari, nei paraggi di Campo de’ Fiori, sono stata quindici giorni fuori Roma e al ritorno non ho più trovato né Sandro né il Giapponesino. Chi erano? Vi dirò di loro quello che so: e cioè la «strepito-
sa» autobiografia che in due o tre anni di chiacchiere, mi ha raccontato Sandro (ed io, notoriamente credulona, pare, gli credevo…). Del Giapponesino, educatissimo, invece non so quasi nulla; era molto riservato, ogni tanto appariva su Ponte Sisto, e mi suonava "My way" sulla fisarmonica: che non è lo strumento più adatto, forse, ad evocare l'indimenticabile voce di Frank Sinatra, ma lui ce la metteva tutta, con tanto di spartito e di leggìo, e l'elenco dei brani musicali da eseguire a richiesta, dove c'erano pure Bach, Schubert, Mozart. (Non ho mai osato chiederne l'esecuzione). Scomparso anche il Giapponesino, ed insieme a lui- che però la teneva silenziosamente a distanza- tutta la tribù dei punkabbestia che popolavano il ponte. Ieri mattina pulitissimo-salvo qualche geroglifico tracciato con un debole pennarello nero sulle spallette/balaustre: che ripristinarono, una dozzina d'anni fa, la struttura tardoquattrocentesca eseguita da Baccio Pontelli per Papa Sisto IV, cancellando la superfetazione in ghisa e con lampioni sovrapposta alle quattro arcate e all'occhialone a fine '800. Tutto bene, allora? Non so, intanto non ho verificato cosa succederà a Ponte Sisto di notte. Ma so quello che mi hanno raccontato, in via dei Pettinari, della sparizione di Sandro. Ci sarebbe stata una rissa "tra di loro",(mi ha detto un antiquario, affrettandosi tuttavia da aggiungere che lui non c'era, glielo avevano riferito), sarebbero arrivati i carabinieri, e,da quel giorno, Sandro è sparito. Col suo cane angelico, con tanto di bustina di plastica annodata al collo, in cui Sandro, armato di paletta, raccoglieva eventuali escrementi. "Ma il cane?", chiedo. "Il cane è a posto", mi si risponde con fare misterioso. Mi limito ad una esclamazione:"Ma lui mi aveva detto che stava raccogliendo i soldi per tornare al suo paese, in Sardegna, a fare l'artigiano!" Un sorrisetto di compatimento mi fa capire che io credo ancora al mondo delle favole. Eppure Sandro aveva tante amicizie, come dire, "civili":signore dei palazzi dei Pettinari e dintorni-anche la scrittrice Lori Mazzetti- studentesse che gli regalavano libri, mamme con il passeggino, che si fermavano a giocare col cane(tenuto benissimo), persino ragazze con pene d'amore:"Mi tocca di fare lo psicoanalista di strada", mi diceva lui, sorridendo tutto contento con quegli occhi blu arrossati dal freddo, ma anche, sono sincera, dalla birra… Ma una volta che gli ho offerto, faceva molto freddo, di comprargli una bottiglia di vino, mi ha detto di no:"Per carità, ho visto quello che il vino ha combinato a mio padre !"
Intanto, un anno dopo l'altro, "scollettando" apparentemente disinteressato- tendeva al passante un bicchiere di carta dove, se l'altro era disponibile, sarebbe caduta qualche monetina- mi raccontava pezzi della sua vita:la storia più "incredibile", me ne rendo conto, era quella della sua partecipazione in anni remoti all'Orchestra Giovani della Comunità Europea. Suonava l'oboe, uno strumento costato, a suo dire, ventidue milioni di lire."Ma perché non ricomincia a suonarlo?", propongo io, cascando in pieno nel ruolo di Dama-di-San-Vincenzo…Ovviamente l'oboe non esisteva più da decenni, segue black out, mi lascia immaginare storie di droga, arriva a confidarmi di aver partecipato in anni lontani ad una rapina(" però senza morti");e comunque tra l'oboe e la rapina c'è stato anche un arruolamento nella Folgore, un giorno spunta al suo posto di lavoro con un piccolo paracadute metallico appuntato sul giubbotto, e questa è la spiegazione …Cos’altro aggiungere? Non so nemmeno se Sandro sia il suo nome vero, quindi il chiederne pubblicamente notizia qui non servirà a nulla:ma vorrei sapere dove è finito, le ragazze del supermercato di fronte dicono anche loro che parlava della Sardegna…

l’Unità Roma 28.5.08
Rom e «giduri» insieme: «Basta discriminazioni»
La Comunità ebraica in visita ai nomadi di via Candoni
«Sappiamo cosa vuol dire essere guardati con disprezzo»
di Mariagrazia Gerina


«DOV’È HANIFA?», chiede il rabbino capo Riccardo Di Segni, mentre si volta a cercare tra i container di via Candoni l’anziana bosniaca che gli è stata appena presentata. Hanifa Rustic, 74 anni, nata a Vlasenica è una delle poche nel campo rom che ha ricordo di
retto della persecuzione nazista. L’italiano non l’ha mai imparato Hanifa, ma mostra i documenti con la data di nascita e una foto del marito in bianco e nero, sperando che l’interlocutore capisca. Di Segni l’abbraccia. «Abbiamo avvertito segnali allarmanti e volevamo portarvi un gesto di solidarietà per dire chiaramente che al di là dei problemi non si deve mai superare la soglia maledetta del razzismo», spiega molto semplicemente Di Segni, accompagnato da una piccola delegazione: l’assessore alle Politiche sociali della comunità ebraica, Massimo Misano, il consigliere Viktor Majar e poi Fabio Ciani di Sant’Egidio, Kasim Cismic, che è delegato del Forum dei rom, Massimo Converso dell’Opera Nomadi, legata alla comunità ebraica da una vecchia amicizia.
I «giduri», è così che i rom chiamano gli ebrei. «Anche noi siamo stati un popolo che si è spostato da un posto all’altro e abbiamo conosciuto i pregiudizi, la difficoltà anche solo ad aprire un negozio perché le persone intorno dicono quelli sono ebrei per questo vi siamo vicini», spiega ringraziando per l’accoglienza ricevuta nel campo, uno di quelli attrezzati e riforniti di acqua e luce. Partendo da qui gli abitanti, che per metà sono romeni e per metà bosniaci, hanno potuto cominciare piccoli percorsi di integrazione. Come quello che racconta Miora Milescu, 38 anni, nata a Craiova, in Romania. All’inzio a Roma viveva tra le baracche di Casilino 700: «Questo è meglio», dice guardandosi attorno. Nei vialetti tra i container dove vivono in pochi metri quadri anche dieci persone i bambini giocano tranquilli, le donne parlano tra loro e un gruppo di ragazzi si dà da fare con le stecche attorno a un biliardo sgangherato. «Ancora meglio sarebbe una casa ma per ora è troppo complicato», spiega Miora che insieme ad altre sei donne ha messo su una stireria: «Funziona, ma adesso rischiamo pure di perdere i clienti», spiega raccontando la paura quotidiana dall’altra parte della barricata. «La vediamo la gente sugli autobus con i giornali in mano e i titoli che parlano di noi - dice Miora -, ma noi siamo brava gente, abbiamo i figli che finiscono le terze medie, parlano meglio l’italiano del romeno, è per loro che siamo venuti qui, se volete mandare via i delinquenti bene, ma non è giusto prendersela con chi cerca lavoro anche se non è in regola». Ecco, non c’è molto altro da dire. Se non quello che ripete Bambalau: «Il degrado Alemanno sappia che possiamo affrontarlo insieme ma il problema è anche che nessuno ci dà lavoro se non le associazioni».
«Dei rom si pensano cose sbagliate e sovradimensionate - avverte Majar -, ma soprattutto i rom hanno difficoltà ad essere accolti perché nella classe politica manca il coraggio di integrarli nella legalità». «C’è un clima di intolleranza che va arrestato prima che sia troppo tardi», spiega Fabio Ciani di Sant’Egidio: «Tanti episodi di aggressioni verbali non vengono nemmeno registrati e considerare i rom eternamente un’emergenza, farli vivere in luoghi dove mancano le regole minime di igiene, non aiuta, non è dignitoso».

l’Unità 28.5.08
Amnesty: «L’Italia sta sdoganando il razzismo»
di Toni Fontana

L’Italia sta diventando un «paese pericoloso», nel quale viene «sdoganato e legittimato» il razzismo. A dirlo non è il «solito» ministro di Zapatero, ma Amnesty International che, presentando ieri a Roma e in tutto il pianeta, il Rapporto 2008 ha riservato al nostro paese un giudizio particolarmente duro e carico di accuse. Le critiche riguardano anche il recente passato, alcune iniziative prese dal governo Prodi, ma, guardando all’attualità, ai primi provvedimenti adottati dal governo Berlusconi, gli accenti diventano più forti e carichi di timori. Prima di tutto Amnesty propone una riflessione più generale. Paolo Pobbiati, presidente della sezione italiana, ha ricordato che quest’anno saranno passati 60 anni dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Allora, quando il pianeta era appena uscito dalla tragedia della seconda guerra mondiale, i leader approvarono un documento che doveva mettere tutti al riparo dal ripetersi di catastrofi come quella che si era conclusa. Ma così non è stato ed oggi - dice Amnesty - «il mondo non riesce a globalizzare i diritti umani». Ai governi Amnesty chiede di decidere «da che parte stare». A quello cinese di cogliere l’occasione dei Giochi Olimpici per «migliorare il curriculum nel campo dei diritti umani», a quello americano di chiudere Guantanamo e riportare la guerra al terrorismo «nell’alveo della legalità».
Nelle 590 pagine del Rapporto 2008 sono citati 150 paesi. Ma quest’anno balza all’attenzione il contenuto del capitolo dedicato all’Italia. Amnesty non fa sconti. Daniela Carboni, responsabile delle campagne della sezione italiana, ha esordito ricordando l’omicidio di Giovanna Reggiani (ottobre 2007) e dicendo che «la sicurezza è un diritto sacrosanto» soprattutto perché quel delitto ha rappresentato «l’ennesima violenza contro le donne». Da allora, prosegue Amnesty, si è tuttavia affacciato il rischio di una «caccia alle streghe». Quel gravissimo episodio è diventato «un’ariete per aprire la strada all’erosione dei diritti umani». Oggi Amnesty sottolinea con preoccupazione le «forti restrizioni» contenute nei decreti sulla sicurezza. Amnesty ricorda ad esempio che vi sono «accordi segreti con la Libia» che i cittadini italiani non conoscono, mentre sono note le pratiche di tortura e le violenze che gli immigrati subiscono nei campi di detenzione fatti costruire da Gheddafi. Preoccupa il proposito di estendere fino a 18 mesi la detenzione nel Cpt italiani, l’annullamento dell’effetto sospensivo per i richiedenti asilo, e il «clima di impunità» che circonda il gravissimi fatti del G8 di Genova. In quanto alle violenze sui Rom Amnesty International chiede che vengano aperte indagini, previsti risarcimenti e protezioni per gli accampamenti minacciati. Daniela Carboni ha detto di temere «un’ulteriore marginalizzazione, un’ondata razzista». Di qui l’appello al governo affinché cambi rotta e si decida a puntare su una politica per i diritti umani affrontato anche scelte «impopolari». Ma questa svolta non appare all’orizzonte in Italia dove invece stanno per entrare in vigore restrizioni che accrescono la preoccupazione di Amnesty «per i contenuti delle leggi, i toni che vengono usati, le discriminazioni che vengono introdotte». La protesta per la mancata accoglienza di tanti rifugiati che giungono sulle nostre coste arriverà oggi davanti alla Camera dove il «Teatro nascosto» porterà un coro di voci della disperazione e consegnerà ai parlamentari la Charta di Volterra che sollecita un miglior trattamento.
Degli attacchi ai campi Rom si è parlato nuovamente a Bruxelles dove il commissario Ue per gli affari sociali, Vladimir Spidla, ha ricordato, parlando con la stampa, che tocca alle autorità pubbliche «evitare attacchi di questo tipo». Spidla ha anche ricordato che l’Italia può ricorrere al fondi europei per combattere l'esclusione sociale.

l’Unità Roma 28.5.08
L’appello ai giornalisti: «Non si accusi un intero popolo così si fa razzismo e xenofobia»


Allarmano titoli e testi
che riecheggiano
gli anni 30, assurdi
stereotipi senza
critica e analisi dei fatti

Un appello si aggira nel web. Lanciato da tre giornalisti su http://www.giornalismi.info/mediarom/ si rivolge soprattutto ai giornalisti perché rispettino deontologia e regole professionali. Ha raccolto in poche ore centinaia di firme. Eccone alcuni brani.

«Negli ultimi giorni abbiamo assistito a una forte campagna politica e d'informazione riguardante il tema dell'immigrazione. Siamo rimasti molto impressionati per i toni e i contenuti di molti servizi giornalistici, riguardanti specialmente il popolo rom. Troppo spesso nei titoli, negli articoli, nei servizi i rom sono stati indicati come pericolosi, violenti, legati alla criminalità. Purtroppo l'enfasi e le distorsioni di questo ultimo periodo sono solo l'epilogo di un processo che va avanti da anni, con il mondo dell'informazione e la politica inclini a offrire un capro espiatorio al malessere italiano».
Singoli episodi di cronaca nera «sono stati enfatizzati e attribuiti a un intero popolo; vecchi e assurdi stereotipi sono stati riproposti senza alcuno spirito critico e senza un'analisi reale dei fatti. Il popolo rom è soggetto, in tutta Europa, a discriminazione ed emarginazione, e il nostro paese è stato più volte criticato dagli organismi internazionali per la sua incapacità di tutelare la minoranza rom... Siamo molto preoccupati, perché i mezzi di informazione rischiano di svolgere un ruolo attivo nel fomentare diffidenza e xenofobia sia verso i rom che verso gli stranieri residenti nel nostro paese. Alcuni lo stanno già facendo, a volte con modi inquietanti che evocano le prime pagine dei quotidiani anni 30, quando si costruiva il «nemico» - ebrei, zingari, dissidenti - preparando il terreno culturale che ha permesso le leggi razziali del 1938 e l'uccisione di centinaia di migliaia di rom nei campi di sterminio nazisti. Invitiamo i colleghi giornalisti allo scrupoloso rispetto delle regole deontologiche e alla massima attenzione affinché non si ripetano episodi di discriminazione. Chiediamo all'Ordine dei giornalisti di rivolgere un analogo invito a tutta la categoria».

l’Unità 28.5.08
Ruffolo: difendo la laicità dall’offensiva di destra e Chiesa
di Maria Zegarelli


Il professor Giorgio Ruffolo non crede affatto che il tema introdotto da Massimo D’Alema qualche giorno fa a conclusione dei lavori della summer school della Fondazione Italianieuropei sia privo di attualità. Non crede affatto, cioè, che la Chiesa sia immune dalla «tentazione demoniaca del potere». Anzi.
Professore, è davvero «sorprendente l’uscita di Massimo D’Alema», come scrive Avvenire, o il tema esiste davvero?
«L’intervento di D’ Alema è apparso opportuno e apprezzabile almeno sotto due aspetti importanti: il primo di carattere generale, riguarda la necessità di elevare il dibattito politico dalla piattezza in cui è caduto al livello delle grandi questioni che contraddistinguono il nostro tempo. Il secondo, più specifico, è la sortita che non posso che definire coraggiosa - ormai bisogna dire così - a difesa del laicismo, contro cui è partita un’offensiva che io ritengo insidiosa e pericolosa».
Perché pericolosa?
«È pericolosa per la democrazia, della quale il laicismo è parte integrante. D’Alema denuncia le due minacce: quella di una destra che pretende di riaffermare la religione come affare di Stato, come dimostrano le posizioni in Francia di Sarkozy, e quella di una Chiesa che è esposta alla tentazione demoniaca del potere - che una volta si chiamava potere temporale -, che è stata per la Chiesa stessa madre di tanti misfatti. D’altra parte D’Alema riafferma la necessità del dialogo fra laici e cattolici, ma anche su questo bisogna stare attenti a cosa significa».
Un dialogo che potrebbe «sacrificare» i temi «caldi»?
«È proprio così. Il dialogo è il linguaggio della democrazia, nessuno lo contesta. Ma è ben altro se sotto questa parola si contrabbanda un’altra cosa, cioè la pretesa di un riconoscimento politico di un partito cattolico trasversale che è stata una opzione mai abbandonata, ma che la Democrazia cristiana respinse sempre con decisione. Questa pretesa è assolutamente irricevibile. Le decisioni politiche passano per le istituzioni della democrazia, guai se si dovesse fare spazio a una procedura informale parallela. Questo non è un dialogo, è un condizionamento e il condizionamento non può essere accettato da una democrazia».
Emma Bonino parla della Chiesa come di un «governo ombra». Esagerazioni radicali?
«Il governo ombra va bene per il dialogo tra opposizione e maggioranza, non per il governo della democrazia che deve averne uno stabilito e legittimato dal consenso elettorale».
La questione di cui stiamo parlando si allarga al rapporto tra ragione e fede. All’incontro organizzato da Italianieuropei ha partecipato anche Remo Bodei che ha fatto una relazione molto importante. Bisogna domandarsi se è possibile un dialogo tra la ragione e la fede. Non credo: il dialogo comporta la possibilità di soluzioni di compromesso, la fede non prevede alcun compromesso. O si crede o non si crede. L’unico modo di rispettarsi reciprocamente tra credenti e non credenti è di non dialogare sull’argomento. La discussione politica è sacrosanta ma non deve tener conto delle convinzioni religiose che sono indiscutibili individualmente, ma che sono politicamente irricevibili. E qui stanno le ragioni profonde alla base della questione laica e della offensiva che investe il laicismo».
Questione italiana o «la questione»?
«Il problema del confronto tra ragione e fede investe l’intero modo di vivere e pensare del nostro tempo. Mi sembra che Bodei abbia affrontato questo tema e D’Alema lo abbia ripreso nelle sue conclusioni: il ritorno della fede non è una pensata di Pera ma un dato incontrovertibile del presente. Questo ritorno della fede è il fallimento di quel progetto umano che era inscritto nel pensiero umano dell’Illuminismo e che intendeva dare un senso alla storia, qui in questo mondo. L’esasperazione di quel concetto, nel comunismo, non nel marxismo che è filosofia molto più complessa, lo ha sfigurato degenerandolo in totalitarismo. Ed è proprio il fallimento del totalitarismo comunista, come di quello fascista, che ha discreditato il progetto umano e ha prodotto il ritorno della fede. Come dice Bodei, se l'identità collettiva è lacerata, se si perde la fiducia nello Stato, allora è facile che ritorni la fede nella provvidenza divina».
Ma non è compito della politica riproporre un progetto umano rispondente al nostro tempo?
«La politica deve riprendere in mano il grande progetto dell’illuminismo che oggi è insidiato in due modi. Da una parte la pretesa ecclesiastica di avere un monopolio su tutte le questioni che riguardano la vita sulla base del ragionamento che la vita appartiene a Dio e che quindi in nome di Dio devono prevalere le ragioni della Chiesa e non delle istituzioni. Ma qui c’è lo stesso processo sostitutivo che ha trasformato il messaggio di liberazione del comunismo nell’oppressione di Stalin. L’altra insidia risiede nel tuffarsi nell’accumulazione finanziaria e nel consumismo, il privatismo consumistico. Questo dovrebbe essere tutto il contrario del ritorno alla fede e infatti è denunciato esplicitamente dalle sommità ecclesiastiche. Ma allora come mai una destra che è legata a filo doppio al capitalismo turbolento è la più forte paladina del ritorno alla fede? Spetta alla sinistra, al Pd, offrire una alternativa che non può non essere che quella di riprendere le fila di un progetto umano che è stato interrotto».

l’Unità 28.5.08
Risposta a Bondi
Il mondo non aspetta
di Alfredo Reichlin


Il mondo ha un disperato bisogno
di vere alternative: basta vedere
l’assedio all’Europa dei popoli
poveri, gli sviluppi della crisi
sociale, la rapidità con cui clima
e ambiente stanno cambiando

Lo scenario nuovo che si è aperto col voto e gli eventi che stanno dietro la strepitosa vittoria della destra sono tali che dovrebbero indurci a riaprire qualche interrogativo di fondo sulle prospettive politiche della sinistra e del Paese. Il vecchio sistema politico è veramente crollato trascinando con sé anche un insieme di idee identitarie e di valori morali su cui si reggeva la Prima Repubblica. Come si spiega allora questa difficoltà a ragionare insieme (con l’eccezione del ministro Bondi che io ringrazio per la serietà e l’attenzione con cui discute le mie idee)?
Q
ualcuno potrebbe rispondere che la prima cosa da dire è riconoscere la nuova realtà rappresentata dal Partito democratico. Il Partito democratico ha raccolto un terzo dei voti e può parlare all’Italia come una forza potenzialmente maggioritaria. Non è una piccola cosa. Ma esso è in grado di esprimere, almeno in fieri, una qualche egemonia sui processi che nel bene e nel male (pensiamo al Mezzogiorno) stanno cambiando il Paese? Non possiamo far finta che la risposta sia ovvia. Anche se riteniamo - come io ritengo - che il Pd è stato una scelta giusta e che i fatti confermano che ad esso non c’erano alternative è necessario tornare a confrontare quella scelta con la realtà dell’Italia e del mondo.
Il risultato elettorale ci ha sorpreso. È chiaro allora che qualcosa del nostro modo di pensare dovrebbe essere aggiornato. Qualcosa che prima ancora della tattica o degli organigrammi, riguarda solo le basi storico-politiche su cui poggiamo. Perchè è vero che il Pd è una cosa diversa dalla sinistra nel senso che rappresenta una rottura di continuità, e quindi una “rifondazione” piuttosto che una “reincarnazione”, ma è anche vero che questo partito non può pensare di essere una pagina bianca su cui i suoi capi scrivono quello che vogliono. Dobbiamo avere una idea più precisa di ciò che siamo e del passato da cui veniamo se vogliamo delineare un futuro credibile.
Il carico di questioni irrisolte che ci stanno sulle spalle dovrebbe metterci in guardia da eccessivi semplicismi. E chi come me si è assunta la responsabilità anche morale di molto argomentare sulla necessità della svolta sente il dovere di non alzare le spalle di fronte a certi dubbi. Sia chiaro. Dico subito che continuo a pensare che proprio partendo dall’asprezza dello scontro e dalla novità delle cose viene fuori chiaramente che il grande, irrisolto, problema di come si possa formare una maggioranza democratica e progressista in un paese come l’Italia e di come si possa cominciare a contestare l’egemonia delle forze conservatrici (un problema che è italiano ma è inseparabile dal quadro internazionale) non è più alla portata di quel complesso di forze, di idee, di valori, di lotte che è stata la sinistra occidentale. Aggiungo però che questa mia affermazione regge, può mobilitare forze anche nuove e spingere alla lotta se è sorretta da una visione più realista e complessa delle opportunità ma anche dei rischi in cui siamo immersi. Per affrontare i quali - ecco la mia tesi - la formazione del Partito democratico è una condizione necessaria ma non sufficiente.
Pensiamo al modo come si è chiuso il Novecento. Con una vera e propria cesura. Con l’avvento di fenomeni grandiosi i quali rimettevano in discussione molte cose di ciò che era stato il cammino civile, politico e culturale dell’Europa da almeno tre secoli. Uno straordinario cammino. Perfino la grandezza dell'arte e della letteratura tra Ottocento e Novecento sta nel fatto che essa prendeva le mosse da quel salto della condizione umana per cui le plebi diventavano “popolo”. E ciò nel senso che emergeva una nuova soggettività politica in cui il rapporto tra la sinistra e la nuova borghesia era fortissimo. Ed era sopratutto la sinistra che “creava” una nuova umanità, non tanto (come si crede) con le armi dell’economico corporativo ma con la grande politica, la partecipazione, la solidarietà sociale, lo Stato democratico. Così è stata fondata la democrazia, come potere politico delle masse organizzate e non come libertà del singolo di fare quello che vuole.
Lo ricordo perché solo così, con tutto l’orgoglio del passato, posso uscire dai vecchi confini della sinistra. Posso farlo perchè non dimentico che la sinistra non è un “cane morto” ed è la forza costituente di un nuovo partito perché è stata parte essenziale del lungo, complesso e grandioso processo di emancipazione sociale e umano che l’Occidente europeo aveva avviato fin da prima la rivoluzione francese. E noi siamo stati parte davvero essenziale di quel processo che consentì all’Occidente di parlare al mondo, in quanto Smith e Marx (libertà ed uguaglianza) venivano tenuti insieme. E se vogliamo capire che cosa difficile ma molto avanzata sia fare oggi un partito democratico, non bisognerebbe dimenticare l’estrema drammaticità di questo cammino, cioè di quanto sia stato aspro il confronto tra masse e potere, tra dirigenti e diretti; lo sfruttamento bestiale di donne e bambini da parte della industria nascente; il risveglio di plebi contadine ridotte ancora in vasti territori (Russia, Polonia) a uno stato simile al servaggio; l’imperialismo inglese, germanico, francese che colonizzava i popoli di colore; l’orrore di quel sconvolgente massacro che fu la prima guerra mondiale che cancellava di colpo il modo di vivere e di pensare del “mondo di ieri”; il nazismo con la sua idea mostruosa di sterminio di parte della popolazione dell’Est (non solo gli ebrei) per consentire ai tedeschi di colonizzare quei territori; il fascismo italiano; la dittatura sanguinaria di Stalin.
Solo così si capiscono tante cose, comprese la serietà e difficoltà della nostra impresa, che se ha un futuro è perchè c’è dietro questo cammino. Volendo riassumere direi così: è questo cammino che per andare avanti richiede una forza nuova, più larga, più moderna. Però questa forza deve sapere quali sono i nuovi conflitti che deve affrontare. Deve sapere non solo con chi scende in campo ma contro chi.
È vero che il crollo dell’Urss e l’archiviazione del comunismo ha segnato la fine del Novecento. Ma alla luce di quelli che poi sono stati gli sviluppi della storia mondiale io non credo che quella vicenda si può ridurre alla semplice equazione: fine del comunismo = progresso della democrazia e libertà nel mondo. Perché, in realtà, quel vuoto non è stato riempito ed è accaduto qualcosa di molto inedito e di molto complesso. Non scherziamo, l’America è certamente una grande democrazia. Ma sono stati assai complessi e non tutti democratici gli effetti del fatto che per la prima volta nella storia il mondo intero cadesse sotto il dominio di una sola superpotenza, per la sua forza paragonabile solo alla Roma di Augusto ma non per la saggezza.
Oggi ci rendiamo conto meglio di cosa questo fatto abbia significato. Del resto, lo dicono i candidati democratici alla Casa Bianca. Il mondo è stato sconvolto e la guida del progresso di globalizzazione è stato preso da una oligarchia la quale ha impresso ad esso quei caratteri che sappiamo. E che tante volte abbiamo riassunto nel mettere in rilievo il crescente squilibrio tra la potenza di una economia finanziaria basata sulla circolazione del tutto libera e senza controllo dei capitali e il potere della politica, cioè del diritto degli uomini di decidere del loro destino, essendosi ridotta la politica a sottogoverno locale priva com’è degli strumenti del governo globale, i quali sostanzialmente sono nelle mani di ristrette oligarchie finanziarie.
Cose ovvie e risapute? Fino a un certo punto. Ciò che diventa sempre più necessario è rendersi conto di cosa sta succedendo nell’economia globale, per vedere e valutare quali forze sono in campo e quali dinamiche sono in atto e quale impatto hanno le crisi che stanno investendo l’Europa e l’Italia: la crisi alimentare, la crisi energetica, la crisi finanziaria, le crescenti tensioni geopolitiche. Un impatto che - dice Tremonti - derivando dallo spostamento globale di enormi stock e flussi di ricchezza, può essere potenzialmente distruttivo delle nostre strutture sociali: dalle sofferenze della povertà, alla disoccupazione giovanile, all’impoverimento del ceto medio, per arrivare alla crescente divisione del Paese tra Nord e Sud.
Dunque un nuovo partito, espressione di una nuova grande alleanza di popolo, post-classista è necessario. Ma non è sufficiente. Questo è il punto da cui dovrebbe ripartire la nostra discussione. Se è vero che la destra vince per ragioni non di breve periodo anche il suo antagonista non può ripartire solo dalle piccole cose. Con calma e con fiducia deve ripartire da un qualche nuovo orizzonte di senso e di valori ideali. Del resto è di vere alternative che il mondo moderno ha un disperato bisogno: basta vedere l’assedio all’Europa dei popoli poveri, gli sviluppi della crisi sociale, la rapidità con cui stanno cambiando l’ambiente e il clima.

Corriere della Sera 28.5.08
Difendo la laicità dello Stato
di Massimo D’Alema


Caro direttore, non può che essere motivo di soddisfazione per noi organizzatori, con la Fondazione Italianieuropei, del corso estivo di formazione dedicato a «Religione e democrazia», che i temi sollevati nella tre-giorni cilentana abbiano suscitato interesse, dibattito e prese di posizione nel mondo politico e intellettuale.
Desta tuttavia un qualche stupore la perentorietà dei commenti da parte di chi non ha potuto valutare che spezzoni, frammenti o frasi separate da ogni contesto senza potere più approfonditamente valutare un confronto che ha impegnato un gruppo di intellettuali tra i più prestigiosi, italiani e stranieri.
Non un raduno anticlericale, dunque, o una riunione di nostalgici, ma un confronto che ha coinvolto, di fronte a una platea attenta di giovani, personalità di diversa cultura, molti cattolici tra i quali il presidente dell'Associazione teologica italiana.
Vorrei ricordare che, nel dibattito contemporaneo, vengono proprio dall'interno del mondo cattolico le espressioni più inquiete e preoccupate per una possibile commistione tra fede e politica, tra religione e potere.
Ha scritto Gustavo Zagrebelsky nel suo «Contro l'etica della verità»: «La Chiesa cattolica è direttamente coinvolta. Le si offre l'occasione di una rivincita con un aspetto costitutivo del "mondo moderno", la democrazia: una rivincita che una parte di essa forse ha sempre desiderato e aspettato. I nostri procacciatori di identità sono i nuovi teologi politici. Essi, in mancanza di chiese d'altro genere — ideologie forti e globali, filosofie della storia, promesse messianiche —, si rivolgono a quella che pare loro l'odierna depositaria di valori identitari utili alla loro battaglia, la Chiesa cattolica, e le offrono un'alleanza. È la grande tentazione del nostro tempo, una delle tre tentazioni sataniche di Gesù di Nazareth nel deserto, la tentazione del potere».
Nella stessa lezione di padre Coda vi è stata una forte riproposizione di una visione post conciliare dell'impegno pubblico dei cattolici, «sale e lievito» all'interno di una società pluralistica, in contrapposizione a una ben presente tentazione egemonica.
Questo nodo del rapporto tra religione e potere non è certo un tema nuovo. Ha assunto una rinnovata centralità nel confronto culturale e politico proprio di questo tempo a seguito della crisi delle società occidentali di fronte ai mutamenti rapidi e sconvolgenti e alle drammatiche sfide legate alla globalizzazione.
C'è una nuova destra politica e intellettuale che si volge ai valori religiosi della tradizione giudaico-cristiana come condizione perché l'Occidente ritrovi l'orgoglio di una propria identità nella sfida o persino nel conflitto con altre civiltà, con altri mondi. Vi sono molte testimonianze di questa sovrapposizione crescente fra discorso politico e valori religiosi. Tzvetan Todorov ci ha offerto una acuta analisi critica di una testo esemplare di Nicolas Sarkozy sulla religione cristiana come fondamento della convivenza nella laicissima Francia. O, per venire a una fonte più vicina a noi, nel brillante saggio di Giulio Tremonti «La paura e la speranza» si legge «la tradizione religiosa può compensare il vuoto di valori delle nostre democrazie …». E ancora «per identificare i valori serve un'anima, per difendere i valori serve il potere politico».
Davvero, allora, come è stato scritto, lo stato laico secolarizzato prigioniero ormai del relativismo etico ha bisogno di un fondamento religioso per giustificare se stesso? Questo interrogativo posto da un grande giurista tedesco molti anni fa è evocato da un più recente dialogo tra Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas. È lo stesso futuro Pontefice a cogliere il rischio di una aporia: «Se lo Stato accetta il fondamento religioso — egli scrive — smette di essere pluralistico. Così sia lo Stato che la Chiesa perdono se stessi».
Non mi ha mai convinto il dibattito sul cosiddetto relativismo etico. Continuo a pensare che la nostra convivenza poggia su un insieme di valori morali (pace, tolleranza, pluralismo, libertà, solidarietà sociale…), di diritti riconosciuti e di norme giuridiche che hanno la loro genesi nella storia e nella civiltà europee; che comprendono anche la tradizione giudaico-cristiana, ma non si riducono a questa.
Solo il riconoscimento di questo pluralismo può fondare la laicità dello Stato e liberare la responsabilità della politica. Nel pluralismo c'è anche la garanzia più forte della libertà della Chiesa: libertà di parlare all'insieme delle nostre società e non solo di una parte; libertà di sprigionare la carica di universalità del messaggio cristiano che non può ridursi a «ideologia dell'Occidente ».
Non a caso nella mia conferenza non ho rivolto accuse alla Chiesa (così come risulta chiaro dalla cronaca del Corriere) ma l'invito a non cadere nella tentazione di un patto con il potere politico, di una commistione tra politica e fede, tra norma giuridica e convinzione etica-religiosa. Un invito, non un'accusa. L'invito di un laico che crede nella laicità della politica, ma che è nello stesso tempo ben consapevole del ruolo essenziale che i cristiani hanno nella vita pubblica e del contributo che da essi può venire a una visione alta e nobile dell'agire politico. Sono stato accusato di parlare come se ci fosse sempre il Pci. Si potrebbe discutere a lungo del rapporto che fu sempre intenso e rispettoso tra il Pci e il mondo cattolico. Ma sinceramente il Pci non c'entra niente con questa riflessione.
Semmai, in materia di difesa della laicità dello Stato, nel nostro seminario sono stati ricordati alcuni momenti cruciali della storia della Dc. Penso alla fermezza e anche alla sofferenza personale con cui Alcide De Gasperi seppe difendere dalle pressioni ecclesiastiche la scelta antifascista della Dc (Andrea Riccardi ci ha ricordato la pagina straordinaria delle elezioni romane) e la collaborazione con i partiti laici contro l'idea di un monopolio cattolico del potere. Penso alla testimonianza di Aldo Moro che rivolgendosi al consiglio nazionale della Dc all'indomani del referendum sul divorzio diceva: «Settori dell'opinione pubblica sono ora ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo strumento della legge, con l'autorità del potere al modo comune di intendere e disciplinare in alcuni punti sensibili i rapporti umani. Di questa circostanza non si può non tener conto perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro Paese, consigliando talvolta di realizzare la difesa di principi e di valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Una grande lezione di laicità da parte di un leader politico cattolico che rispetta appunto il fatto che lo Stato è di tutti e che il potere non può essere posto al servizio delle convinzioni pure nobili di una parte. Resto convinto che anche di fronte ai delicati problemi di oggi che toccano, di fronte ai progressi della scienza e delle tecniche, i temi della vita e della dignità umana, resti tuttavia valida la visione dello Stato testimoniata da Aldo Moro. E spero davvero che questo sia un patrimonio comune di quanti si sono uniti nel Partito democratico.

Corriere della Sera 28.5.08
«No alla via per Almirante» Stop della comunità ebraica
Pacifici: complice delle leggi razziali. Donna Assunta: fu amico degli ebrei
Il presidente romano: «La politica non c'entra. Stiamo parlando di un giudizio di natura storica»
di Paolo Brogi


ROMA — «Sono convinto che questa storia di intitolare una strada ad Almirante farà la stessa fine di Largo Bottai...». Il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, torna con la memoria allo scontro di qualche anno fa che si abbattè allora, come un boomerang, sulla giunta Rutelli. Stavolta tocca ad Alemanno. Ed è sempre no. Un no che scatena un polemico botta e risposta, con parziale ricomposizione finale, tra la comunità ebraica di Roma ed esponenti del governo e di An come Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa. «Per carità — ha subito precisato Pacifici —. La politica non c'entra. Stiamo parlando di un giudizio di natura storica. E per l'Almirante che mi riguarda, quello fino al '48, la nostra condanna è netta». Il no è stato pronunciato ieri pomeriggio da Pacifici che stava aspettando, di fronte alla Sinagoga, la visita del ministro dell'interno Roberto Maroni. A provocarlo la domanda: una strada per Almirante? «La mia opinione, così come quella di tutta la Comunità ebraica, è di totale condanna», ha risposto seccamente Pacifici. «Conservo a casa i numeri della "Difesa della razza" di cui Almirante era redattore. È stato complice di un regime tiranno che ha portato alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei. Certo non è colpevole di aver ucciso nessuno, ma complice di quel regime». Più tardi poi ha ricordato: «Forse qualcuno ha dimenticato cosa scriveva: "Il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l'Italia abbia mai tentato. Chi teme che si tratti di un'imitazione straniera non si accorge di ragionare per assurdo: perché è assurdo sospettare che il movimento inteso a dare agli italiani una coscienza di razza possa servire ad un asservimento ad una potenza straniera...". Ecco, era il 1938. E stavano per scattare le leggi razziali ».
Piccata la reazione di Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl: «Pacifici è ingeneroso, sappia valutare con un metro di giudizio meno arrogante e più realistico la figura di Almirante». Più soft Ignazio La Russa, ministro della difesa, che ha chiamato Pacifici chiedendogli un incontro. Incontro subito accettato da Riccardo Pacifici. Almirante, ha ricordato La Russa, sarà ricordato oggi dalla Camera, con la presentazione della raccolta dei suoi discorsi parlamentari. In difesa del marito è intervenuta anche Donna Assunta: «Almirante era molto amico degli ebrei, salvò molte famiglie della Rsi, li rifugiò nella foresteria di Salò e gli diede i soldi per tornare a Roma. Penso quindi che sia ora di smetterla».

Corriere della Sera 28.5.08
Pedofilia, il nuovo allarme
Ogni anno in Italia 41 mila nuovi casi I segnali dei bambini. In cella 1.342 adulti
di Gabriela Jacomella


Ogni anno, in Italia, 41mila nuovi casi. Un ragazzo su 6 ne è, o ne è stato, vittima. Bambini molestati dalle stesse persone in cui ripongono una fiducia totale, assoluta. Come Carla (il nome è di fantasia), che si è vista rubare l'infanzia dal «mostro» più subdolo e inaspettato: il nonno. «Stavo per mangiare un ovetto di cioccolato, ma non avevo voglia di cioccolato, volevo la sorpresa! A quel punto mi ha detto che, se volevo che lo mangiasse al posto mio, dovevo fare delle cose con lui...». Oppure Marco, entrato in seminario appena dodicenne, la cui vita è stata segnata dalle «attenzioni» di un giovane diacono: «Mi baciò intensamente... "Quello che abbiamo fatto, non lo devi fare con nessuno", mi disse».
I segni degli abusi
Il «mostro» ha un unico nome: pedofilia. Ma le teste, come quelle dell'idra, sono infinite. E spuntano nei luoghi più inaspettati. «Olocausto bianco», così lo definisce Ferruccio Pinotti, che a questa «epidemia del terzo millennio» ha dedicato un libro d'inchiesta che gronda dolore, vergogna, atrocità inimmaginabili e imperdonabili silenzi.
C'è l'orco che colpisce nella penombra di una cameretta, e soffoca le lacrime con carezze e minacce velate; si chiamano «abusi intrafamiliari», e a commetterli può essere un parente, ma anche il maestro o il bidello, insomma la cerchia «ristretta» delle figure di riferimento per il bambino. C'è, poi, la pedofilia ecclesiastica, un fenomeno ancora in gran parte nascosto, ma che ha spinto la Chiesa (reduce da scandali globali, come quello che nel 2002 ha travolto l'Arcidiocesi di Boston) a creare centri ad hoc
per religiosi con disturbi sessuali e psichici. E ancora, la cosiddetta «pedofilia globale»: il turismo sessuale su minori, con 80mila italiani che ogni anno partono a caccia di prede proibite; la prostituzione minorile, spesso a danno di giovanissimi immigrati; la pedopornografia
online, dove l'età delle vittime è precipitata dai 10 ai 7 anni, quella del cyberpedofilo tra i 20 e i 30. Il fenomeno è ormai così esteso che a novembre, a Rio de Janeiro, si terrà il III congresso mondiale contro lo sfruttamento sessuale dei minori ( www.ecpat.net/World_Congress).
Quale che sia la testa dell'idra da combattere, sconfiggerla è un'impresa titanica. Perché di pedofilia, ancora oggi, non si vuole parlare. Perché il fenomeno è troppo grande, complesso, sfuggente. Perché le armi a disposizione sono insufficienti e, a volte, spuntate. Perché, in una cultura giudiziaria legata alla necessità della prova, il bambino rischia di essere due volte vittima. Secondo gli studi, il 50-90% dei minori vittime di abuso sessuale non presenta anomalie fisiche rilevabili; per Maria Rosa Giolito, ginecologa e perito della Procura di Torino, «addirittura nel 95% dei casi non esiste nessun segno fisico. Il corpo ripara, e gli atti sono fatti in modo abile». I segnali, però, sono visibili per chi sa come e cosa cercare. Primi su tutti: i «comportamenti sessualizzati, inappropriati per l'età». E i comportamenti ossessivi, tra cui la fissazione per la pulizia. La dottoressa Giolito ricorda ancora una bambina di 3 anni che prima di essere visitata «si è messa a lavare tutto, persino il lettino. Poi mi ha detto: "Guardami bene, perché ho della colla bianca che appiccica, toglimela tutta, ti prego..."».
La lotta all'omertà
«Il tribunale ha bisogno della grande prova, ma non l'abbiamo quasi mai — riprende la Giolito —. E dietro c'è anche un pensiero per cui i bambini mentono sempre...». La pedofilia come il grande abuso negato, la voce dei bimbi soffocata da una coltre di autocolpevolizzazione, vergogna e omertà. Per questo è necessario preparare all'ascolto chi con più frequenza ne intercetta la richiesta d'aiuto: la scuola, i servizi sociali. Bisogna, spiega Loredana Signorelli, responsabile del Centro tutela dei minori dell'Asl Milano 3, «aiutare i grandi a "capire" cosa dicono i bambini, perché spesso il loro linguaggio è simbolico, ed è reso tale dalla paura di ritorsioni». «C'è un filone di pensiero nel quale il bambino come tale non è mai credibile», concorda Michele Polleri, avvocato penalista e «curatore speciale» per il tribunale di Torino in casi di pedofilia. È quella che Pinotti chiama «la trappola dei falsi abusi », le violenze inventate e, a volte, strumentali; che esistono, ma sono molto meno numerose di quanto si possa sospettare. E purtroppo, chiude Polleri, sono «più facili da scoprire di quelle vere ».
Il mostro in gabbia
L'inchiesta di Pinotti non fa sconti a nessuno: famiglie omertose, complicità nascoste, ipergarantismo giudiziario, tempi processuali dilatati, scarsa tutela dei minori coinvolti. E lobbies pedofile. Tra gli intervistati, in molti sono convinti dell'esistenza di una «rete di mutuo soccorso», che ad esempio consentirebbe agli indagati meno abbienti di rivolgersi a studi legali molto, troppo costosi.
Ma negli ultimi anni, la giustizia italiana ha iniziato seriamente a fare i conti — grazie anche a nuovi strumenti, come le leggi 269/1998 e 38/2006 — con l'«olocausto bianco». Oggi, dietro le sbarre ci sono 1.342 pedofili, tra cui 262
under 30. Il rischio è che per questa tipologia di detenuto il «reinserimento sociale » sia ancora meno efficace che in altri casi. Perché il pedofilo è all'ultimo gradino del sistema carcerario, emarginato dagli altri detenuti, a rischio di violenze che possono sfociare nell'omicidio (a volte, scrive Pinotti, camuffato da «suicidio»). E perché il pedofilo, di norma, nega ad oltranza di aver commesso il reato: «Dopo 11 anni di questo lavoro — conferma Giovanni Maria Pavarin, magistrato di sorveglianza a Padova — vengo a contatto con pochissimi soggetti che ammettono di aver compiuto un crimine di pedofilia: forse 4 all'anno, nell'intera sezione». Anche per questo, gli esperti sono scettici sulla «castrazione chimica»: la pedofilia, dicono, è soprattutto un fatto mentale. Il pedofilo che si limita a scontare la pena, una volta fuori è pronto a ricominciare.
Nel carcere di Bollate, provincia di Milano, è attivo il primo programma italiano di recupero per pedofili e sex offender.
L'obiettivo: «deprogrammare» la violenza dei pedofili, diminuire le possibilità di recidiva. Una sperimentazione iniziata nel 2005, sotto la guida del criminologo Paolo Giulini. Un'«unità di trattamento intensificato» che intreccia colloqui psicologici e criminologici ad attività motorie, creative ed espressive. Secondo Giulini, «solo il 20% dei detenuti sottoposti al trattamento è recidivante, ma per prudenza preferiamo dare dati meno ottimistici, attorno al 50%». La «deprogrammazione» di un pedofilo, quindi, è possibile. A una condizione: «Che sia lui a dire: "Sì, lo voglio"».

In libreria: «Olocausto bianco» (Bur, 12,50 euro), il libro-inchiesta sulla pedofilia scritto da Ferruccio Pinotti, è da oggi in libreria

Corriere della Sera 28.5.08
Le indagini Il lavoro della polizia
Ventimila vittime ancora senza nome nell'archivio Interpol
di Alessia Rastelli


MILANO — Avevano nove e undici anni quando iniziarono a subire, in Belgio, violenze sessuali che furono filmate da un italiano. L'incubo di due sorelle di Bruges si è concluso, due anni dopo, in Australia. Attraverso la Rete i video erano arrivati fino a Brisbane. E da qui, nel 2006, è stata inviata la segnalazione all'Interpol che ha permesso di identificare le bambine e di arrestare il persecutore.
Fondamentale per arrivare al nome e cognome delle piccole vittime è stato l'uso di Icaid (Interpol child abuse image database), l'archivio elettronico della polizia internazionale che raccoglie le immagini di abusi sessuali su minori inviate dai commissariati dei Paesi membri: 520.828 il numero complessivo al primo maggio 2008. Foto e video di violenze o in pose hard di cui sono protagonisti, loro malgrado, circa 20 mila bambini (lo stesso viso, infatti, può comparire più volte). Finora sono 683 quelli identificati. Vale a dire uno su ventinove.
Risultati certo da migliorare, ma intanto la nascita stessa della banca dati, nel 2001, con l'obiettivo principale di aiutare i singoli Paesi nel riconoscimento delle vittime, è stato un passo in avanti. Come denuncia da tempo anche Save the Children, infatti, i bambini abusati e filmati restano quasi sempre volti senza nome dentro immagini che la Rete sparge in tutto il mondo.
A gestire Icaid, nella sede del Segretariato generale di Lione, sono due funzionari specializzati: Michael Moran, irlandese di 39 anni, e Anders Persson, svedese di 50. Alla base del loro lavoro, un'ottima conoscenza del web e delle lingue (almeno le quattro ufficiali di Interpol: inglese, francese, spagnolo e arabo). E poi, aggiunge Moran, «le qualità di un buon poliziotto: senso del crimine e capacità di intuire le motivazioni dei responsabili ». Una volta ricevute le nuove immagini, è un software di ultima generazione a raggruppare quelle simili. Poi, dopo questa prima classificazione, sono i due superfunzionari a passarle al setaccio. Le confrontano con il materiale che già possiedono e cercano ogni dettaglio che possa diventare un indizio. La lingua parlata, gli elementi architettonici oppure il tipo di presa per la corrente, ad esempio, possono aiutare nella localizzazione. È stato così per le bambine del Belgio, quando fu una particolare inflessione di fiammingo a portare fino a Bruges.
Come in quel caso, fondamentale è la condivisione di foto e filmati a livello internazionale. E proprio con il fatto che non sia ancora pienamente realizzata, si può in parte spiegare il basso numero di riconoscimenti. «Alcuni Stati rifiutano di inviarci le immagini perché secondo le loro normative la spedizione di materiale pedopornografico è illegale» denuncia il capo di gabinetto del Segretariato generale, Roraima Ana Andriani. Oppure è una questione interna ai singoli Paesi: «Finora sia da noi che all'estero le indagini si sono concentrate soprattutto sulla caccia agli abusanti e solo in minima parte sull'identificazione dei bambini» spiega il direttore generale di Save the Children Italia Valerio Neri.
Da parte sua, la polizia postale italiana dice di aver identificato «qualche decina » di vittime. Una stima confermata dall'Osservatorio nazionale sull'Infanzia e dai Tribunali per i minorenni, che parlano al più di «alcune decine di casi».
Numeri ancora bassi sebbene, stando anche a Interpol, la situazione stia migliorando. «Il primo febbraio, con l'inaugurazione del Centro nazionale per il contrasto alla pedopornografia su Internet, l'Italia ha rafforzato la collaborazione con la polizia internazionale e ha fatto dell'identificazione il punto di partenza di ogni indagine», spiega il vicequestore aggiunto della Postale Elvira D'Amato.
Un punto di partenza in senso assoluto specialmente per i bambini che solo dopo il riconoscimento possono essere aiutati da psicologi e servizi sociali. E, soprattutto, messi al sicuro da altri possibili abusi.

Corriere della Sera 28.5.08
Il piano Intesa Viminale-Difesa sui centri di espulsione e identificazione. Maroni: uno in ogni regione
Immigrati, nuovi Cpt in 10 caserme Amnesty: in Italia clima di razzismo
In vigore il decreto sicurezza. Fondi a rischio con il taglio dell'Ici
Le nuove norme saranno approvate entro l'estate La Russa: pattuglie miste tra militari e forze dell'ordine


ROMA — L'accordo tra i ministri di Interno e Difesa è fatto: i nuovi Cpt saranno ospitati nelle caserme dismesse. Le strutture cambiano nome e funzione per adeguarsi alle nuove norme che il Parlamento dovrebbe approvare entro l'estate. E in attesa dei prevedibili nuovi sbarchi di clandestini il governo si attrezza. I Centri di permanenza temporanea diventano Cei, Centri di espulsione e identificazione. Se, come è prevedibile, il decreto sarà convertito in legge potranno ospitare i clandestini fino a un tempo massimo di 18 mesi e non due come previsto sino ad ora. Dunque anche gli edifici già esistenti dovranno essere ristrutturati e il numero sarà potenziato «in modo da avere — come ha ribadito il titolare del Viminale Roberto Maroni — un Cei in ogni regione».
Allarme forte arriva da Amnesty International che al suo Rapporto Annuale ha allegato una scheda sull'Italia perché «il clima di razzismo sempre più diffuso e leggi o proposte di leggi contrarie agli standard internazionali sui diritti umani la stanno trasformando in un Paese pericoloso». E sui nuovi Cpt Daniela Carboni, direttrice dell'ufficio campagne e ricerca afferma: «È una riforma normativa che ha messo in allarme diverse Ong oltre allo stesso Alto Commissariato Onu per i rifugiati». Una posizione che non ferma l'esecutivo. Nei prossimi giorni gli esperti dei due dicasteri esamineranno l'elenco delle caserme per individuare quelle più idonee. E il responsabile della Difesa Ignazio La Russa ribadisce la sua volontà di creare «pattuglie miste tra forze dell'ordine e militari per il controllo del territorio». La misura non è stata inserita in alcun provvedimento del governo, ma i due ministri ne stanno valutando l'impiego.
Proprio ieri è entrato in vigore il decreto legge che amplia la possibilità di espellere egli stranieri senza permesso e introduce l'aggravante per chi commette reati. E al Senato Popolo delle Libertà e Partito Democratico hanno votato insieme per riconoscere al provvedimento «i requisiti di necessità e urgenza», mentre si è astenuto Pancho Pardi dell'Italia dei Valori «perché non mi fido di questa maggioranza». Ora bisognerà però fare i conti perché il decreto che elimina l'Ici prevede tagli di 40 milioni di euro dal bilancio del Viminale e 20 milioni di euro dalla Giustizia.
Fiorenza Sarzanini

Corriere della Sera 28.5.08
Dominioni Il presidente dei penalisti
«È illegittima l'aggravante per i clandestini»
di Luigi Ferrarella


MILANO — Professor Oreste Dominioni, presidente degli avvocati penalisti italiani, col decreto in vigore da ieri se un reato è commesso da un clandestino scatta un'aggravante.
«È illegittimo sotto il profilo di uguaglianza: l'aggravamento di pena è collegato solo ad una condizione soggettiva della persona, che non corrisponde ad un maggior disvalore sociale del fatto commesso».
Il governo sostiene l'analogia con il latitante.
«La condizione di latitante è connessa a uno specifico comportamento di chi si sottrae all'accertamento di un reato, non è solo una condizione soggettiva».
In certe condizioni i giudici non potranno più bilanciare attenuanti e aggravanti.
«Anche questa è una norma non condivisibile, perché non consente al giudice di adeguare razionalmente l'entità della pena alla gravità del fatto».
È abolita la possibilità, dopo una condanna, di concordare tra difesa e accusa una riduzione di pena in cambio della rinuncia all'appello.
«Così sparirà un fattore di speditezza del processo».
Che produceva pene «stracciate».
«Se si ritiene che il patteggiamento in appello abbia un'applicazione lassista in quasi automatiche riduzioni di pena, allora si deve censurare questa applicazione patologica, non l'istituto. E la patologia va risolta con maggiore professionalità dei magistrati. Da oggi, invece, laddove pm, imputato e giudice concordano che la pena in tribunale sia stata eccessiva e dunque vada ridotta, si dovrà lo stesso celebrare un appello inutilmente dispendioso di tempi e risorse».
Diventa obbligatorio il giudizio direttissimo in caso di flagranza o confessione, e l'immediato se la prova è evidente.
«Ma è una obbligatorietà solo apparente, che rimarrà poco più di una clausola di stile, perché, essendo subordinata a che non si pregiudichino gravemente le indagini, rimette al giudizio discrezionale del pm se adottare o meno questi riti speciali».
Sono inasprite le pene per i reati commessi al volante sotto effetto di alcol e droghe.
«L'esperienza consolidata dimostra che, per reati come questi, gli aumenti di pena non hanno efficacia. La vera deterrenza è la messa in sicurezza del territorio, ad esempio più controlli e pattugliamento delle strade».
E il fermo amministrativo dell'auto, o la confisca della casa affittata in nero ai clandestini?
«Queste sì, queste misure possono avere un'efficacia concreta. Così come sono positivi i maggiori poteri ai sindaci e quelli di prevenzione e di coordinamento fra le polizie, nella giusta direzione di un'operatività concreta sul territorio per assicurarne la sicurezza. Resta però un problema di metodo: legiferare per decreto legge in materia penale e processuale è sempre inopportuno. E non è efficace politica criminale intervenire affrontando situazioni di emergenza, o tali ritenute».

Corriere della Sera 28.5.08
Nei disegni e nei racconti la ricostruzione del raid contro gli accampamenti nomadi. Il vicepreside: «È grave che la pensino così»
Ponticelli, i temi dei bimbi: «Giusto bruciare le case dei rom»
Gli alunni delle elementari: costretti a usare le maniere forti. Ma c'è anche chi scrive: restino, con un lavoro
di Biagio Coscia


NAPOLI — «Hanno esagerato ed abbiamo dovuto bruciare i loro accampamenti». Sono le parole scritte nel tema di fine anno da un bambino di una quarta elementare di Ponticelli. Il quartiere a est di Napoli dove due settimane fa alcuni insediamenti rom furono dati alle fiamme per la rappresaglia seguita alla vicenda di una giovane nomade accusata di aver tentato di rapire una neonata.
Nei disegni e nei temi di molti bambini dell'Istituto San Giovanni Bosco ci sono le case in fumo, bimbi che chiedono aiuto, rom che dicono «ciao italiani, ci rivedremo presto», le scene degli assalti e la loro, personale, visione dei fatti.
«La gente ha fatto bene a bruciare i campi rom di Ponticelli — ha scritto Giuseppe — visto che non se ne sono andati con le buone, abbiamo dovuto usare le maniere forti ».
«I residenti — scrive Francesco — sono stati eccessivi ma forse hanno ragione perché sono stati lasciati soli. Ora che il problema è stato sollevato, lo Stato intervenga per risolverlo». Ed ancora, Serena: «La gente ha fatto bene a bruciare i campi rom perché abbiamo già troppi problemi e ci bastano. Lo Stato potrebbe far costruire alcuni palazzi solo per i rom». «Che siano pochi o molti ad averlo scritto nei temi — dice Mariano Coppola, il vicepreside della scuola coinvolta — poco importa, è grave anche se è stato uno solo ad averlo detto».
All'assalto ai campi dei rom parteciparono anche molti bambini che guardavano i genitori e i fratelli maggiori lanciare molotov e abbattere a calci le baracche. Una diaspora che ha coinvolto tutti gli studenti di Ponticelli.
Gli alunni della San Giovanni Bosco, tutti tra i 9 e gli 11 anni, hanno discusso a lungo su quanto accaduto. Il giorno successivo al primo incendio, quello di via Dorando Petri, per puro caso una scolaresca si era data appuntamento per una gita proprio di fronte alle macerie ancora fumanti di un campo.
Già dal giorno del primo incendio, i bimbi rom che faticosamente erano stati inseriti nel tessuto scolastico di Ponticelli, si erano dissolti nel nulla. Erano una cinquantina, secondo lo sportello immigrati del quartiere. I temi di questi bambini per don Tonino Palmese, responsabile campano di «Libera», associazione creata da don Luigi Ciotti, «sono segnali da non sottovalutare». Don Tonino conosce bene gli alunni della San Giovanni Bosco e quanto successo a Ponticelli lo spiega come una protesta pilotata dalla criminalità del posto. Ma non tutti i bambini del quartiere hanno reagito allo stesso modo. «Se vogliono restare non devono rubare» scrive Katia, come Francesca che aggiunge: «I rom possono anche restare ma devono lavorare. Possono sopravvivere con qualsiasi attività, basta che non sia illegale ». Noemi, che frequenta la quinta elementare alla scuola Aldo Moro, dopo le lezioni accompagnava Peter al suo campo, quello di via Malibran. Nel suo tema ha raccontato della vergogna che Peter provava e del suo grande desiderio di imparare regole e comportamenti dai suoi nuovi compagni italiani. «Per noi era un esempio» ha scritto Noemi.
Lotta Il disegno di un bambino contro i rom
Non siamo razzisti «Non siamo noi i razzisti, è che loro si sono presi troppo la mano» Lasciati soli «Gli abitanti sono stati imprudenti ma forse hanno ragione perché sono stati lasciati soli»

Repubblica Firenze 28.5.08
Il numero è in aumento rispetto al 2005. Gli anestesisti obiettano solo al 30 per cento, le ostetriche al 35, gli infermieri al 20
Toscana, Aborto, record di obiettori
I medici contrari sono il 60%. A Careggi e a Lucca anche di più
di Michele Bocci


E´ record di medici che fanno obiezione di coscienza alla pratica dell´aborto. Rappresentano il 60% di quelli impiegati nelle strutture pubbliche di riferimento in Toscana. Sono addirittura di più a Careggi e Lucca. Il loro numero è in aumento rispetto al 2005. Di molto inferiore è invece il numero degli ostetrici che fanno obiezione di coscienza all´aborto - sono il 35% del totale rispetto a quelli impiegati - e ancor meno sono gli anestesisti (il 30%) e gli infermieri: di questi ultimi solo uno su cinque, ovvero il 20%, fa obiezione.

Fra le ostetriche e gli anestesisti invece la disponibilità è maggiore
Siamo una regione più "aperta" della media nazionale dove il fronte del "no" è del 70%

Interruzione volontaria di gravidanza, in Toscana aumentano i ginecologi obiettori: oggi sei specialisti su dieci non fanno gli interventi di aborto. I numeri comunicati pochi giorni fa da tutte le aziende sanitarie ed ospedaliere alla Regione, praticamente quando scadeva il trentennale della legge 194, approvata nel maggio 1978, segnano una netta crescita rispetto all´ultima rilevazione, che risale al 2005. Allora gli obiettori erano il 5-7% di meno. Un dato non preciso perché teneva conto di 10 asl su 16 e mancavano tra l´altro quella di Firenze e l´azienda ospedaliera di Pisa.
Oggi è disponibile una ricognizione completa, che conferma il trend di crescita nazionale, anche se il dato toscano è ancora sotto il 70% della media italiana, resa nota ad aprile dall´allora ministro alla sanità Livia Turco. I numeri toscani riguardano anche gli altri professionisti che hanno un ruolo nell´interruzione di gravidanza, cioè gli anestesisti, le ostetriche e gli infermieri. Salta agli occhi come l´obiezione sia molto più contenuta tra i medici che fanno gli aborti insieme ai ginecologi. Per gli anestesisti il dato è infatti fermo al 29% (contro il 28 del 2005): tra i componenti delle due categorie di specialisti sembrerebbero esserci differenze etiche e religiose molto forti. Le ostetriche e gli infermieri, che negli interventi di interruzione hanno un ruolo più marginale, segnano addirittura un calo degli obiettori dal 2005 (le prime dal 48 e al 35%, i secondi dal 24 al 19).
La ricognizione regionale prende in considerazione i dati azienda per azienda. Restando ai ginecologi, saltano agli occhi situazioni come quella di Lucca, dove dei 19 specialisti solo 2 sono non obiettori (molto sopra la media anche i dati delle ostetriche, 22 su 26, e degli infermieri, 21 su 32). «Riusciamo comunque ad assicurare l´attività di interruzione volontaria di gravidanza», spiega il primario, arrivato da Careggi un mese fa, Gian Luca Bracco. Non è escluso che qualche donna che vive in quella provincia debba spostarsi per fare l´intervento. Non molto diversa la situazione dell´azienda ospedaliera di Pisa, dove gli obiettori sono 27 su 32. Nel policlinico fiorentino cambia solo il totale di ginecologi in organico, 35, quello di obiettori è identico a Pisa. Per le asl con il minor numero percentuale di obiettori, ci sono Siena con 5 su 19, e Firenze con 19 su 44.
Nella nostra regione le interruzioni di gravidanza diminuiscono. Nel 2007 sono state il 6% in meno, cioè 520, delle 8879 del 2006. Il ricorso all´aborto scende tra le italiane, mentre tra le straniere aumenta dello 0,64%, perché cresce il numero delle donne immigrate. In questi anni sono calati anche gli aborti per feti malformati. Nel giro di due anni le coppie che hanno interrotto la gravidanza dopo aver scoperto che il figlio alla nascita avrebbe avuto bisogno di cure importanti sono passate dal 45% del totale al 13,7%. Merito, secondo la Regione, di diagnosi e cure migliorate.

Repubblica Firenze 28.5.08
"Ma il medico che non obietta è sempre più solo"
di Ilaria Ciuti


Ti sfili dalla legge se non sei motivato: è un lavoro ripetitivo che non aiuta a fare carriera
Conosco medici che dopo aver fatto interruzioni hanno deciso di cambiare l´opzione
"I dottori appena laureati hanno paura di complicazioni legali"

«SE non sei motivato ti sfili dalla 194. E´ una legge, dovresti rispettarla, ma puoi dichiarare l´obiezione. Può esserci un motivo serio, ma l´esperienza mi insegna che nella stragrande maggioranza dei casi, anche per quel 60% dei ginecologi toscani che sono obiettori, non c´è». Ne è convinta Valeria Dubini, ginecologa a Torregalli, una volta la settimana impegnata nelle interruzioni volontarie di gravidanza secondo una legge che ha appena compiuto 30 anni e con la quale lei lavora fin quasi dagli inizi, dall´82.
Cosa vuol dire che gli obiettori non hanno motivi seri?
«Che nella crescita dell´obiezione non c´entrano motivi religiosi o etici. Non c´è neanche chi maledice l´aborto stile Ferrara. In genere è una scelta di convenienza. Prima di tutto i giovani. I giovani sono sempre più spesso obiettori per la paura di quelle complicazioni medico-legali che ormai stanno inducendo i medici a non fare più niente. Temono di venire denunciati per qualsiasi complicazione, se per esempio, come è successo, la gravidanza va avanti nonostante l´intervento. Ma non è il solo motivo. Ai miei tempi il mio primario era un convinto sostenitore della 194. Oggi i primari sono in genere obiettori. Le interruzioni di gravidanza, se uno non è motivato, sono un lavoro ripetitivo che non aiuta a fare carriera, che distoglie, anche un solo giorno la settimana, dall´operare, dal farsi una clientela affezionata. In un´epoca dove l´ideologia non regge più, tutte queste cose contano».
E allora chi non obietta?
«Chi non obietta è sempre più solo. Quando iniziammo c´era intorno il movimento delle donne, un fermento. Oggi siamo soli. Credo che quello che spinge a continuare, e che anzi non mi ha mai fatto venire un dubbio, è che non contano tanto le tue convinzioni ma che devi avere rispetto delle decisioni degli altri. Chi ha conosciuto le donne che vengono ad abortire sa bene che non ci sono motivi facilmente spiegabili, che non è la povertà, come si dice, a indurle. Tranne alcuni casi, specie le badanti straniere, che abortiscono perché temono di perdere il lavoro, le donne vengono da noi con dentro una determinazione, un´urgenza quasi fisica, come se quel figlio non è che non lo vogliano fare, ma proprio non possano. Capisci che non c´è bisogno di un giudizio, ma di accoglienza. Che dobbiamo farci carico di un problema risolto in passato con gli aborti clandestini, le morti , i cucchiai d´oro. Un problema che spesso nasce per le donne da mancanza di autoprotettività e che porta i medici a avere a che fare con gli ultimi, anzi con le ultime. Un´altra ragione per fare obiezione».
Le ultime?
«Già, è più facile dire obietto che non aiutare una straniera al terzo o quarto aborto (tra le straniere la ripetitività è al 40% mentre tra le toscane è scesa dal 37 al 15%) che ha una cultura diversa, che non si autoprotegge. E´ più facile fare gli struzzi che capire quanto gli aborti ripetuti derivino da rapporti di coppia violenti. Ma se sei motivato capisci che quell´incontro è anche un´occasione per mettere quella donna sulla strada della contraccezione e dunque per combattere concretamente e non a parole contro l´aborto».
Pensa si debba lasciare stare la situazione come è o in qualche modo intervenire?
«Penso che la Toscana non penalizzi come accade in altre regioni chi non obietta ma neanche che valorizzi il suo lavoro. Credo che in questo senso dovrebbe fare di più».

martedì 27 maggio 2008

Repubblica — 19 marzo 1985 pagina 4
IL GAY DELLA FGCI
di STEFANO MALATESTA


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".