giovedì 29 maggio 2008

l’Unità 29.5.08
Cronache della nuova Roma
di Furio Colombo

Nella nuova Roma, l’autobus dell’Atac imbocca risolutamente Viale degli Squadristi, va veloce nella corsia preferenziale fra le “Lapidi dei Caduti fascisti”, e sbocca in Piazzale delle Camicie nere, dove è stata sistemata una ritrovata statua al Balilla. Via Salò è a due passi, e benché sia stretta e un po’ secondaria (dopo aspre polemiche con i socialisti, è caduto il progetto di ribattezzare Via del Corso con il glorioso nome della Repubblica sociale e ha vinto il più accettato nome di Craxi). Ma non c’è problema. In ogni zona c’è un capo quartiere, scelto fra i reduci dei servizi di scorta privati in Iraq. E ci sono i “ragazzi”, che, come un tempo, sono volontari. Ma, a differenza che nel passato, palestra e mazze sono a carico del comune. Ovviamente il loro motto è tolleranza zero. Vuol dire che al minimo dubbio su razza, religione o stile di vita, picchiamo subito. Una trovata gradita anche alla Lega è stata di autorizzare “i ragazzi” a fermare e a fare quattro chiacchiere con coloro che sembrano troppo poveri.
Con i metodi giusti gli fai dire se hanno reddito adeguato e una residenza fissa. Quando sono imbarazzati o confusi è segno che mentono. Vengono “messi da parte” fino a quando passa un furgone della polizia Cpt (clandestini, poveri, terrorizzati) che provvede al trasporto immediato alla frontiera. Altrimenti, finito il turno, li portano via “i ragazzi” che sono bravi e fidati (così ha detto il sindaco, respingendo sdegnato l’accusa che siano parte politica) ma non sono certo stati educati alla corte di Inghilterra, e hanno spesso modi un po’ rudi, tipo “codice giallo” del pronto soccorso. Ma si tratta della naturale esuberanza dei giovani.
Via Craxi sbocca in Largo Lega Lombarda (all’angolo con Via Padania, già via Condotti) e poi in Piazza della Santa Inquisizione (la vecchia Piazza Colonna). Quando il bus entra in Via del Tritone (adesso via Rosa Maltoni Mussolini, mamma mai dimenticata del Duce e bisnonna della vivace onorevole) rallenta in un ingorgo di traffico. Il problema del traffico non è ancora stato del tutto risolto, lo smog è soffocante, tanto che a volte i camerati delle squadre devono indossare mascherine sulla bocca. Loro dicono: «Per non respirare l’aria inquinata della demo-plutocrazia». Stanno attenti a non farsi sentire quando alcuni di loro aggiungono, dandosi gomitate, “giudo-plutocrazia”.
Il luogo di raduno dei “guardiani della città” (modello iraniano) è piazza “generalissimo Francisco Franco” (già Piazza Barberini). Ma cortei e marce spontanee (contro Rom e clandestini e tutte le più riprovevoli razze) si dirigono subito verso Corso Giovanni Preziosi (un tempo era Via Veneto), dal nome del più antico e instancabile teorico della difesa della razza italiana.
Bisogna ammettere che, nella nuova Roma, non vi disturba più lo spettacolo del turismo invadente e sudato, magliette e sandali e lunghe file di ebeti col cappellino dello stesso colore che seguono il segnale del capo gita di Roma, solo italiani. Qualche bar, qualche albergo, qualche ristorante (certo, trappole per stranieri creduloni) ha dovuto chiudere, dopo l’abolizione di Schengen da parte del nuovo, virile, governo. Ma sui bei locali puliti che sono sopravvissuti campeggia il motto che ormai anima la patria ritrovata: «non passi lo straniero». Dopo cena, nella nuova Roma, si va tutti alle “feste dell’Italianità” dove si balla al ritmo di arie e tarantelle delle nostre terre. Provvedono al collegamento rapido con la periferia gli autobus della nuova Alitalia. Non vola, ma dove dovrebbe volare? Niente vale questa nostra bella terra chiusa e protetta. E finalmente senza Rom, senza stranieri, senza ingombranti facinorosi di sinistra (ricordate le continue notizie di “rissa”, quando gli estremisti tentavano di reagire alle bastonate?) possiamo goderci le nostre periferie.
Un esempio è il quartiere Littorio (già Garbatella) dove si mangia e si balla all’italiana in uno dei tanti “parchi Ciarrapico” donati dal generoso “federale onorario” di Roma. Sul fondo potete vedere la scuola di avviamento al lavoro Almirante (legge Moratti). La via Almirante ancora non c’è perché è stato deciso di costruirla secondo il modello di via dei Fori Imperiali: scavando dove ci sono case inutili, per andare dritti al centro. Quando il sindaco-ingegnere ha mostrato i disegni al Consiglio comunale, tutti i presenti sono balzati in piedi improvvisando una manifestazione di amor di patria al grido di «viva il duce-sindaco».
Poi un camerata consigliere ha voluto ricordare a tutti la storia esemplare di un cittadino paraplegico, “vero romano della nuova Roma”, che ha spontaneamente denunciato la badante straniera (subito espulsa) nonostante le difficoltà di nutrirsi.
Alla manifestazione si è unito il capo della “rivolta tassisti”, la benemerita organizzazione che tanto ha giovato al prestigio di Roma, e ha annunciato: «qualche volta lo trasporteremo», facendo eccezione al programma «culto della normalità fisica» di cui i rivoltosi sono membri fondatori. La nuova Roma, come si vede, non è di tutti. È di cittadini profondamente italiani, non portatori di handicap fisici o politici. Per questo, ha detto il duce-sindaco, è un “sole che sorge”.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 29.5.08
Immigrati: delinquenti alla pari degli italiani
Tra quelli regolari (tre milioni e mezzo) il «tasso di devianza» è solo del 2 per cento
di Giuseppe Caruso

SITUAZIONE Sono in costante crescita, dalle fabbriche ai banchi di scuola, risiedono soprattutto al nord e delinquono come gli italiani. Sono gli immigrati regolari
residenti nel Belpaese, secondo il rapporto Istat presentato ieri e che offre un quadro certamente migliore, sul piano dell’integrazione, di quello dipinto da molti politici.
Al primo gennaio 2008 gli immigrati residenti su territorio italiano sono 3,5 milioni, pari al 5,8% del totale della popolazione italiana. Le comunità più numerose sono quelle romena (circa 640 mila), seguita dall’albanese (oltre 400 mila), da quella marocchina (circa 370 mila) e cinese (circa 160 mila). Nel 2007 il maggior numero di arrivi si è registrato dalla Romania (con oltre 300mila ingressi), su totale di 450mila nuovi ingressi. Le regolarizzazioni massicce hanno sortito effettivi positivi. L’Istat' ha studiato la condizione di vita delle 650mila persone che dal 2002 hanno usufruito di regolarizzazioni: al 1 gennaio 2007 risultava stabilizzato in italia ben il 78% di quegli immigrati, cioè 505 mila persone. Queste non solo hanno mantenuto un lavoro ma hanno anche messo radici, con circa 88mila stranieri che si sono sposati nel corso del triennio, abbassando la quota dei celibi e nubili dal 60% iniziale al 39% attuale.
Gli effetti si vedono soprattutto nelle scuole. Durante la stagione 2006-2007 gli studenti stranieri hanno superato quota 500 mila, pari al 5,6% del totale. La presenza straniera è più elevata nei primi ordini scolastici, con 5,7 alunni non italiani ogni 100 iscritti nelle scuole dell'infanzia, quasi 7% nelle primarie e 6,5% nelle secondarie di primo grado. L'incidenza degli immigrati nelle scuole secondarie di secondo grado, seppure contenuta (3,8%) è comunque in forte crescita, essendo triplicata negli ultimi cinque anni.
Del resto le donne straniere fanno molti più figli delle italiane: nel 2006 ne hanno avuto in media 2,5, il doppio di quelli avuti dalle donne del Belpaese (1,26). I nati da genitori stranieri sono stati durante quei dodici mesi 58mila, il 10,3% del totale dei nati residenti. un bimbo su dieci, insomma, si porta dentro cromosomi stranieri, percentuale che arriva al 14,3 considerando anche i 22mila venuti al mondo all'interno di convivenze o matrimoni misti.
Sorprese, vista la propaganda sugli stranieri, per quanto riguarda la criminalità. Il tasso di devianza dei non italiani regolari è pari al 2 per cento, un valore uguale a quello fatto registrare dai cittadini italiani. L’Istat sottolinea come nel 2006 gli stranieri denunciati sono stati oltre 100 mila. La quota di stranieri sul totale dei denunciati varia molto in base al tipo di reato commesso ed è maggiore per borseggi, furti e contrabbando.
La maggior parte dei denunciati stranieri risulta non essere in regola con il permesso di soggiorno e, verosimilmente, non l'ha neppure richiesto. Ad esempio è in condizione di irregolarità 1'80 per cento dei denunciati
stranieri per reati contro la proprietà (soprattutto borseggio, furto di automobile o in appartamento).

l’Unità 29.5.08
Tullia Zevi: sanguina ancora la ferita delle leggi razziali
«Furono elemento fondante del regime fascista. Una vergogna
quel che scrisse Almirante. Una strada? No, non è una buona idea»
di Umberto De Giovannangeli


«CHI DIMENTICA il passato è condannato a riviverlo, perché su eventi tragici come fu la Shoah non è permesso lasciar cadere l’oblìo. Perché una società che non ha memoria, non ha futuro. Ed è ciò che mi viene da pensare quando leggo che si vorrebbe intito-
lare una via di Roma a Giorgio Almirante». Passato e presente s’intrecciano indissolubilmente nelle riflessioni di una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Tullia Zevi.
Signora Zevi, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha definito «vergognoso» ciò che Giorgio Almirante scrisse nel 1942 sul periodico la «Difesa della razza», del quale il fondatore del Msi era vicedirettore.
«Vergognoso non fu solo quell’articolo ma ciò che lo precedette...».
A cosa si riferisce?
«Alle leggi razziali promulgate nel 1938. Non mi pare che Giorgio Almirante abbia mai preso le distanze da quell’infamia...Ricordo che mio padre leggendo il testo delle leggi razziali disse “qui vogliono farci fare la morte del topo. Ci vogliono restringere lo spazio vitale e l’ossigeno...”. Sensibile ai segni dei tempi, mio padre si preparò all’immigrazione. Ricordo il dolore di quella decisione, il dover abbandonare ciò che amavamo. Quelle leggi non furono la faccia impresentabile del regime fascista, ne furono un elemento fondante, identitario. La ferita delle leggi razziali sanguina ancora».
In quell’articolo del maggio 1942, Almirante sottolineava fra l’altro la necessità di «porre un altolà ai meticci e agli ebrei...».
«Quel “altolà” era già stato posto, codificato e praticato con le leggi razziali del ‘38 e con tutto ciò che di nefasto ne conseguì: l’altolà invocato da Almirante si realizza nella cacciata dei docenti e degli studenti ebrei dalle scuole, dall’insegnamento. Ed era solo l’inizio. Quel “altolà” si compie nei vagoni piombati pieni di italiani di religione ebraica spediti a morire nei lager nazisti... Ma fin dall’inizio del regime fascista era chiaro che Mussolini ambiva a emulare Hitler. Mussolini gonfiava il petto per non essere da meno del suo poco degno compare nazista. Non voleva essergli inferiore nella discriminazione e nell’odio razziale. Le leggi del 1938 ne sono la tragica riprova. Mi lasci aggiungere che ho sempre trovata falsa e consolatoria l’idea degli “italiani brava gente”. Purtroppo non fu così: per i coraggiosi che osarono sfidare i fascisti e aiutare noi ebrei, ci furono i tanti che girarono gli occhi da un’altra parte o si fecero parte in causa nella caccia all’ebreo, con la delazione, le lettere anonime e quanto di peggio era possibile partorire...».
Eppure c’è chi pensa che ricordare ciò sia di ostacolo ad una compiuta «pacificazione» nazionale.
«La “pacificazione” non può avvenire facendo violenza alla memoria collettiva. Il valore della memoria va coltivato con il rigore di una seria analisi storica e sociale, e non può, non deve essere piegata a interessi politici contingenti. Vede, io ritengo sempre attuale l’affermazione che chi dimentica il passato è condannato a riviverlo. L’oblìo, la rimozione nella coscienza, oltrechè nella memoria collettiva, di eventi drammatici come furono le persecuzioni razziali e antisemite, non allontana il pericolo che tali accadimenti possano ripetersi, ma al contrario rende questo pericolo più immanente. Di una cosa sono sempre più persuasa: senza memoria una società democratica non ha futuro».
Signora Zevi, oggi c’è chi, come il sindaco di Roma Gianni Alemanno, pensa di dedicare una via della città a Giorgio Almirante...
«Per quello che Almirante ha lasciato non credo che ne valga la pena. No, non è proprio una buona idea. Non intendo fare un processo alle intenzioni, ma iniziative del genere favoriscono la cancellazione della memoria, e invece...».
Invece?
«Occorre sempre vigilare. Ricordare con quale fatica, con quanto dolore si è difesa la rinascita di quei principi di giustizia e libertà che sono i cardini della nostra Costituzione».
Non dimenticare il passato per far sì che esso non si ripeta. C’è questo rischio nei recenti episodi di violenza contro i campi Rom o come quello avvenuto nei giorni scorsi al Pigneto?
«Più che di rischio parlerei di certezza. Dietro l’insofferenza verso le diversità si celano tante cose: la paura, un senso diffuso di precarietà, l’insicurezza. L’importante è non assecondare queste pulsioni facendo credere, ad esempio, che i rom sono in sé un pericolo per la collettività. E a chi parla di razze superiori o inferiori, rispondo che l’unica razza che è la razza umana, e l’orizzonte a cui tendere è quello del confronto, del rispetto reciproco, dell’integrazione».

l’Unità 29.5.08
Il Caso Sapienza
Per il governo non è stata un’aggressione fascista
Mantovano: Forza nuova doveva parlare. Confermata
la rissa aggravata per i fermati, tre ai domiciliari
di Massimo Solani

UNA RISSA «inficiata da motivi di odio politico, costituente come tale il movente di ulteriori scontri». È questa la tesi del giudice monocratico Luciano Pugliese, quarta sezione penale del tribunale di Roma, che ieri ha convalidato i sei fermi effettuati dalla
polizia al termine degli scontri esplosi martedì di fronte all’università Sapienza di Roma dopo l’aggressione ad opera di quattro neofascisti ai danni di un gruppo di ragazzi dei collettivi universitari. E per tre dei fermati (due di Forza Nuova, Gabriele Acerra e il coordinatore provinciale Martin Avaro, e uno di sinistra, Emiliano Marini) il giudice ha disposto anche gli arresti domiciliari. Una misura cautelare chiesta dal pm Delia Cardia e che Luciano Pugliese ha motivato spiegando che per tutti e sei i fermati esistono tanto i gravi indizi di colpevolezza quanto «il pericolo di reiterazione di analoghe condotte» visto che non può essere escluso, ha scritto il giudice, il «verificarsi di episodi che pongono in contrapposizione pretese ideologie». Tornano liberi tre ragazzi, quindi, mentre restano ai domiciliari gli altri che hanno già pendenze con la legge: se infatti Marini è ancora sotto processo per l’episodio della spesa proletaria al supermercato Panorama di Roma (novembre 2004), Acerra e Avaro sono invece imputati in due diversi procedimenti per resistenza a pubblico ufficiale (il coordinatore di Fn venne arrestato nel giugno 2005 per gli incidenti con la polizia a Centocelle). Per tutti e 6, accusati di rissa aggravata, il processo riprenderà il prossimo 2 luglio, ma non è escluso che per quella data altre persone possano essere state denunciate visto che la Digos avrebbe identificato almeno altri 8 ragazzi dei collettivi universitari attraverso i filmati ripresi dalla telecamere degli uffici dell’Adisu.
Una udienza tesissima quella di ieri, resa ancora più inandescente dalla presenza di almeno duecento studenti della Sapienza riuniti in sit in a Piazzale Clodio. «Ma quale equidistanza, ma quale rissa - recitava uno striscione - ieri c’è stata una aggressione squadrista». E attimi di tensione ci sono stati quando, al termine dell’udienza, alcuni giovani di estrema destra hanno lasciato il tribunale passando a pochi metri dal sit in. Qualche insulto, la polizia schierata e nulla più però.
Nel frattempo, l’eco dell’aggressione si era già trasferita anche alla Camera dove il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano ha riferito su quanto accaduto. Come prevedibile, Mantovano non si è discostato di un nulla dalla versione “salomonica” già resa dalla Digos capitolina e ha parlato di una «rissa tra elementi di opposta fazione» e non di una aggressione fascista che ha suscitato poi la reazione dei collettivi, come invece hanno raccontato tutti i testimoni sentiti in Questura. L’unica nota di biasimo concreto, però, Mantovano l’ha riservata per le autorità accademiche della Sapienza la cui decisione di annullare il convegno organizzato da Fn sulle Foibe per timore di disordini «non li ha scongiurati, anzi». Più o meno quanto scritto da Forza Nuova in un durissimo comunicato diffuso ieri.
Una ricostruzione che è stata duramente contestata dall’opposizione, con il ministro dell’Interno “ombra” Marco Minniti che ha parlato di un «filo di giustificazionismo, di sottovalutazione e di minimizzazione» rintracciabile nella parole di Mantovano. Che, nella sua ricostruzione, ha fatto propria la versione raccontata agli inquirenti dai quattro neofascisti che, per bocca del segretario nazionale di Fn Roberto Fiore atterrato in tribunale per una incursione mediatica, avevano spiegato di essersi fermati in via De Lollis mentre stavano recandosi ad un appuntamento col prorettore Luigi Frati. Circostanza smentita categoricamene dallo stesso prorettore.
Ma trenta ore di distanza da quanto avvenuto in via De Lollis è del sindaco Alemanno la dichiarazione più curiosa. Secondo il primo cittadino di Roma, infatti «esiste una radice di intolleranza dentro l’estremismo di sinistra molto presente all’università e che non può essere ignorato». Si attende ancora una condanna dell’operato di Forza Nuova.

A «LETTERE»
E all’assemblea arriva Bentivegna: «Solidarietà ai giovani antifascisti»

Studenti, professori, ricercatori, il pro-rettore e il «compagno Paolo», al secolo Rosario Bentivegna. Ex partigiano, è stato tra i protagonisti della resistenza romana al nazismo, e di persona ha voluto parlare all’assemblea indetta ieri nella facoltà di Lettere de La Sapienza, per fare il punto sull’aggressione: «Sono qui per portare la solidarietà dell'Anpi a questi giovani antifascisti che si battono per il ripristino della legalità democratica - dice tra gli applausi - sono preoccupato. Alle provocazioni di ieri (martedì, ndr) bisogna rispondere con metodi democratici, come questa assemblea sta facendo. E dobbiamo sottolineare come Forza Nuova è un’organizzazione illegale». Parole rivolte a circa 300 persone, tra i quali il pro-rettore, appunto, che ha preso la parola e ha comunicato che, probabilmente, l’Università si costituirà parte civile.
Per oggi è prevista una nuova assemblea per presidiare la facoltà di Lettere a causa di alcune voci che vogliono dei rappresentanti di Forza Nuova intenzionati a presentarsi nell’Ateneo.

l’Unità Roma 29.5.08
Frati: presidio antifascista con gli studenti
Il prorettore a una affollata assemblea a Lettere insieme a Sasà Bentivegna e a tanti professori
Portelli: mea culpa, non abbiamo insegnato adeguatamente i valori della Costituzione
di Alessandro Ferrucci


IL VECCHIO partigiano ha portato la sua solidarietà contro l’aggressione di via De Lollis.
La facoltà non è stata occupata ma questa mattina è previsto «un presidio democratico»

Si alza in piedi, si avvicina alla cattedra e scatta l’applauso; poi prende il microfono per precisare il motivo della sua presenza («Sono qui per portare la solidarietà dell’Anpi a questi giovani antifascisti che si battono per il ripristino della legalità democratica»), ed è un boato. Questo per il compagno Sasà, 86 anni, al secolo Rosario Bentivegna, ex partigiano tra i protagonisti della resistenza romana al nazismo; ieri «uno» dei circa 300 presenti all’assemblea alla facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza, indetta per fare il punto sull’aggressione di martedì da parte di quattro di Forza Nuova contro alcuni dei collettivi di sinistra.
Un’assemblea infuocata, tesa, partecipata con i ragazzi appoggiati e seguiti anche da parte dei docenti e dei ricercatori sia della stessa Lettere che di altre facoltà. Tutti insieme, quindi, per guardarsi in faccia, valutare la situazione, manifestare tutta la solidarietà a Emanuele, il loro amico ai domiciliari, e capire come muoversi nelle prossime ore. «Dovete sospendere l’occupazione - interviene il pro-rettore vicario, Luigi Frati - e ritrovarvi qui domani mattina (oggi, ndr), per “presidiare” la facoltà dalla probabile presenza di quelli...». «Quelli» sono i rappresentanti di Forza Nuova che oggi avrebbero dovuto tenere il convegno sulle Foibe, poi annullato dallo stesso Frati. Lui, il pro-rettore, evita di nominarli ma fa capire in maniera esplicita come la pensa («mio padre era un partigiano), poi incalza la platea parlando del sindaco: «Lo stesso Alemanno, che ha una storia non proprio vicina alla nostra, ha condannato apertamente la xenofobia di queste persone». Partono le urla, i fischi e gli insulti dei ragazzi, fino a quando Frati riprende la parola, alza il tono della voce, e aggiunge: «Potrebbe essere anche strumentale nella sua condanna o quello che vi pare, ma questo rafforza ancora di più le nostre riflessioni». E qui scattano le polemiche di alcuni esponenti del Pdl che vogliono alcune precisazioni da parte del pro-rettore. Che, intanto, precisa solo l’intenzione di voler costituire la Sapienza come parte civile del processo...
Comunque, rasserenati gli animi dell’assemblea, parte una sorta di riflessione a voci alta, e trasversale. Con i docenti, in particolare, che ci tengono a prendere la parola per esplicitare un mea culpa: «Dobbiamo predicare l’antifascismo nelle nostre relazioni quotidiane - interviene Sandro Portella, della cattedra di Letteratura Americana -; un lavoro colpevolmente abbandonato da tutti noi: è ora che ci assumiamo le nostre responsabilità come docenti». D’accordo anche il professor La Rocca, storico di Roma antica: «Tra di noi c’è un vuoto; un “vuoto” di persone che non hanno dimostrato reattività di fronte a una vicenda vergognosa. Per fortuna, però, ci siete stati voi a mettere i paletti (parla dei ragazzi, ndr). Ora la battaglia è stata vinta ma resta l’esigenza di colmare questo vuoto, quindi lo spazio dove si inseriscono i fascisti». E ancora applausi. Poi tutti decidono di dare retta al pro-rettore e di sospendere l’occupazione per riprenderla questa mattina, con la preoccupazione che non sarà una giornata come le altre. Tanto che sono state allertate le forze di polizia e sono state date istruzioni alla vigilanza interna di non fare entrare nessuno che non faccia parte dell’Università.

l’Unità Firenze 29.5.08
La violenza nera dilaga in Toscana
Pisa, la polizia arresta 7 giovani (tra cui una ragazza) accusati di aver massacrato un trentenne
davanti ad una discoteca: uno di loro aveva in casa una mazza da baseball con inni fascisti
di Maria Vittoria Giannotti


A CORTONA, nella frazione di Fratta Santa Caterina, ignoti danno fuoco alla corona di alloro posta sotto il cippo che ricorda le vittime delle stragi nazifasciste.

Il vento dell’intolleranza, di stampo fascista, soffia anche sulla Toscana. A Fratta Santa Caterina, nel comune di Cortona, nella notte, ignoti hanno dato fuoco alla corona d’alloro posta ai piedi del monumento che ricorda il massacro di cinque civili da parte dei nazifascisti avvenuto il 2 luglio del 1944 in paese. Le fiamme, che hanno distrutto la corona, hanno annerito e danneggiato anche la statua.
E a Pisa, la squadra mobile, nel corso di una perquisizione a casa di uno dei sette giovani, accusati di aver massacrato un trentenne all’uscita da una discoteca, hanno trovato, insieme ad un coltello usato dalle forze speciali, una mazza da baseball con una scritta inneggiante al fascismo «molti nemici molto onore» e il disegno del profilo del Duce, Una mazza identica a quella trovata, circa due settimane fa, a casa di uno dei due giovani di Figline Valdarno, fermati dai carabinieri per aver pestato due immigrati, colpevoli soltanto di averli guardati. L’aggressione di Pisa, ai danni di un trentenne del posto risale al primo febbraio scorso. La vittima era finita in ospedale: il referto parlava di diverse fratture e contusioni alle costole. Quaranta giorni di prognosi.
Gli inquirenti, che hanno arrestato sei giovani operai di Pisa, mentre una ragazza, che avrebbe preso parte al pestaggio, si trova ai domiciliari, parlano di «futili motivi». Gli arresti, arrivati dopo due mesi di indagini svolte nel massimo riserbo, sono scattati ieri mattina all’alba. A finire in manette Simone Iacoponi (22 anni), Gianluca Danese (29), Andrea Santarnecchi (28), Maurizio Marongiu (39), Gianluca Puntoni (37), Simone Serafini (26) e Sara Gemignani (26), tutti operai residenti in provincia di Pisa e tutti sono accusati di lesioni personali gravi. Ai sette (molti di loro hanno precedenti penali specifici e alcuni sono colpiti da Daspo, il provvedimento che vieta di partecipare a manifestazioni sportive) gli investigatori della mobile sono arrivati grazie alle testimonianze di coloro che avevano assistito al pestaggio. Tutti parlano di futili motivi e la polizia esclude un movente di tipo ideologico o sociale anche se molti degli arrestati sono stati definiti «vicini» a gruppi di ultras. Nell'appartamento di uno degli arrestati, c’era un piccolo arsenale di coltelli e di manganelli telescopici.
Ma altrettanto inquietante è l’atto vandalico messo a segno nell’Aretino. Le fiamme, appiccate nella notte tra martedì e mercoledì, hanno distrutto la corona d’alloro e danneggiato, annerendolo, il monumento che ricorda la fucilazione, messa in atto per rappresaglia da parte dei nazisti, di cinque contadini, catturati mentre tornavano a casa dai campi. «Il Comune - spiega il sindaco di Cortona, Andrea Vignini - ha già sporto denuncia contro ignoti e perseguirà gli autori di questo gesto fino in fondo e in ogni sede». Immediata la condanna da parte del presidente della Regione, Claudio Martini. «Un atto vile e oltraggioso che offende la memoria delle vittime e la coscienza democratica e antifascista dei cittadini di Cortona e di tutta la Toscana. È importante che azioni come queste non vengano sottovalutate: cominciano ad essere troppi nel nostro paese i segni di un nuovo inquietante protagonismo di forze che sono estranee ai valori della Costituzione». Ferma condanna anche da parte del presidente del Consiglio regionale della Toscana, Riccardo Nencini che ha espresso «solidarietà alla comunità di Cortona, che ai valori dell'antifascismo e della democrazia continua a richiamarsi».

l’Unità 29.5.08
Il testamento biologico? In Italia è legge da 4 anni
Vincenza è la prima ad averne ottenuto il riconoscimento
L’ha scoperto un giudice di Modena: una norma nata per i matti
Applicato a Modena per una donna in base a una norma del 2004
di Anna Tarquini


Vincenza Santoro è la prima donna in Italia ad aver ottenuto da un magistrato il permesso di morire quando avrebbe deciso lei. Non di eutanasia, ma con modi e tempi regolati da un testamento biologico legalmente riconosciuto. Vincenza, ammalata di Sla, se n’è andata ieri così come voleva e lasciando a tutti i «Welby» un regalo immenso perché grazie a lei si è scoperto che il testamento biologico, in Italia, già c’è da 4 anni e non c’è bisogno di nessuna nuova normativa. È la legge di Paolo Cendon un vecchio avvocato civilista amico di Basaglia. La legge Cendon è in Gazzetta Ufficiale dal 19 gennaio 2004 e istituisce una nuova figura di tutore per i malati di mente, gli incapaci temporanei e anche quelli che nel pieno delle loro facoltà sanno che diventeranno incapaci. Nessuno aveva mai pensato di applicarla al testamento biologico. Fino a ieri.

NON PENSAVA certo al testamento biologico l’avvocato Cendon quando decise che bisognava ampliare le figure del tutore e del curatore. Era il 1986, era passata la legge Basaglia, i manicomi si apprestavano a chiudere e si doveva pensare a qualcuno, in fret-
ta. Una figura giuridica che avesse autorità e cura dei malati, ma non l’imperio di dire solo no a matrimoni e soldi. Ci voleva qualcuno che per legge, per ordine di un giudice tutelare, avesse il dovere di cura anche della persona e non solo dei beni. Che potesse prendere ordini dalla persona, quando era capace di intendere e di volere, per poi essere obbligato ad eseguirli. Le cose si sa non arrivano da sole, come una lampadina che si accende all’improvviso. Cendon studiò e scoprì che in Belgio, ma prima ancora in Francia, esisteva una figura chiamata Amministratore di sostegno già dal 1968. Cosa faceva l’Amministratore di sostegno? Tutelava, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente. Vent’anni dopo, il 6 gennaio del 2004, il Senato licenziò le nuove regole. Finalità della legge: «Che la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio».
Vincenza Santoro, nata a Modena, un marito e quattro figli grandi non conosceva queste norme, ma il suo avvocato M. Grazia Scacchetti sì. E pure il giudice Guido Stanzani e la dottoressa Cinzia Zanoli responsabile dell’ufficio tutele della Usl di Modena che per la prima volta - grazie alla legge per i matti - hanno aperto la strada al testamento biologico. Ricoverata all’ospedale Sant’Agostino perché oramai aveva gravi crisi respiratorie, Vincenza Santoro ha chiesto al giudice di poter rifiutare la tracheotomia. La stessa cosa che chiese a suo tempo anche Coscioni ma che non ottenne perché, quando si arriva a quello stadio, il diritto del paziente al rifiuto delle cure si scontra con il dovere del medico a rianimare. Il 13 maggio scorso il giudice tutelare ha risposto che aveva ragione nominando Amministratore di sostegno suo marito, Benito Galano. Una nomina vincolante. Prescrive il decreto: «L'Amministratore di sostegno viene autorizzato a compiere, in nome e per conto della beneficiaria, le seguenti operazioni: negazione di consenso ai sanitari coinvolti a praticare ventilazione forzata e tracheostomia all'atto in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della persona, l'evolversi della malattia imponesse, la specifica terapia salvifica». E il giudice motiva anche la sua decisione che in sintesi dice: ... premesso che le norme costituzionali non sono negoziabili; che ormai è precluso al medico di eseguire trattamenti sanitari senza che si dia quel consenso libero e informato del paziente; si tratta di un diritto, come la Cassazione ha lucidamente precisato, che è e resta assoluto... Non è improprio osservare, di fronte all'utilizzo così confuso e improprio del termine eutanasia nell'attuale dibattito italiano, che nessuno dei vari casi su cui oggi si controverte è riferibile a quella fattispecie mentre rientrano, all'opposto, nel diritto di autodeterminazione della persona. E conclude «ne deriva l'assoluta superfluità di un intervento del legislatore volto a introdurre e disciplinare il testamento biologico. Già esistono, infatti, il diritto sostanziale, lo strumento a mezzo del quale dare espressione alle proprie volontà (l'atto pubblico o la scrittura privata autenticata) e, infine, l'istituto processuale di cui avvalersi (l'Amministrazione di sostegno, legge n. 6 del 2004).

l'Unità 29.5.08
SAGGI Una nuova interpretazione di Giulio Ferroni che fa del poeta un assertore «gioioso» della finzione come antidoto al «tragico» del mondo
Ariosto, il «picaro» moderno che anticipò Cervantes
di Roberto Gigliucci


Quando Astolfo giunge sulla Luna per recuperare il senno di Orlando, incontra Giovanni l’evangelista il quale gli dice cose davvero sconcertanti. Fra cui la più inquietante riguarda i poeti e la poesia. Di poeti autentici ce n’è pochi, e più o meno tutti mentono per necessità e per natura. La storia della poesia è storia di menzogne pazzesche: Enea in realtà non fu affatto pietoso, Achille era un debole, Ettore un pusillanime, Augusto non era benigno, di Nerone non sapremo mai se sia stato effettivamente ingiusto - lecito il dubitarlo - e poi, clamoroso davvero, a Troia non vinsero i Greci di Agamennone bensì i Troiani, Penelope era una meretrice mentre al contrario Didone, tanto biasimata, era la più pudica di tutte. Tuttavia, conclude San Giovanni, non è che io ce l’abbia con gli scrittori, perché fui scrittore anch’io e scrissi le lodi di Cristo.
Possiamo allora addirittura pensare che l’evangelista arrivi ad affacciare «una sorta di dubbio ironico sulla stessa verità della Sacra Scrittura, anche se poi il suo discorso si conclude con una rivendicazione del valore dei veri scrittori e della forza civilizzatrice della poesia». Sono parole di Giulio Ferroni, dal suo volume Ariosto, appena uscito per la Salerno editrice. Parole pesanti quelle di Ariosto in bocca a Giovanni, parole pesanti quelle di Ferroni. Certo, per noi abituati alla letteratura come menzogna intesa in senso manganelliano, o semplicemente derivante dalla mistificazione del realismo in senso barthesiano, tutto questo non è grande scandalo. Ma per chi crede all’Ariosto come tranquillo poeta oraziano dedito all’armonia e alla bellezza, sentirsi dire che il Furioso è un monumento all’umanesimo della menzogna, o per meglio dire all’umanesimo paradossale della crisi di tutte le verità, può essere uno choc.
Intendiamoci, la visione anti-crociana dell’Ariosto che mostra la luce per indicare ambiguamente l’ombra, ovvero dell’Ariosto pessimista e amaro (l’Ariosto ad esempio dei Cinque canti e della bitter harmony, come suona un saggio del critico americano Ascoli, titolo che fa pensare alla bitter Arcadia di cui Jan Kott a proposito di Shakespeare) è una visione ormai proposta già più volte, da molti, anzi quasi sul punto ormai di logorarsi. Ed infatti non è propriamente questa la prospettiva che offre Ferroni, il quale invece recupera la complessità della crociana «armonia» traducendola però in una poetica ariostea della contraddizione. Cito ancora: «Ariosto sembra voler estrarre dall’intero patrimonio culturale una possibilità di bellezza, una configurazione felice della parola e della vita, che pur comprende entro sé l’eco, in parte attutita ma pur sempre lacerante, del fondo cupo e negativo del mondo, del nesso di violenza e di estraneità che lo regge». Insomma, la bellezza che l’Ariosto mette in gioco attraverso l’ironia è bellezza che include il suo contrario disarmonico ma «come per bruciarlo in un esito assoluto». La smaterializzazione di tutte le illusioni e i dogmi, simili alle vane apparenze del castello di Atlante, non arriva a smaterializzare del tutto l’aspirazione alla felicità. Ferroni, innamorato di Stendhal e di Mozart, pone elegantemente un poeta come Ariosto all’origine di una famiglia di artisti come quelli, e svela la propria sensibilità di classicista critico, pensoso, inquieto, di adorniano e insieme di settatore dell’equilibrio che sia sempre affacciato sul disequilibrio. In tal senso l’evocazione della dapontiana-mozartiana Così fan tutte come «opera esplicitamente ariostesca» coglie nel segno: qui infatti i protagonisti danzano sull’orlo dell’abisso fornendo balenamenti di un classicismo demistificato e pure nitidamente impareggiabile («sei tu Palla o Citerea?»…).
Ma la menzogna strutturale che San Giovanni squaderna ad Astolfo? Non ci riporta a una idea di letteratura immorale, tutta finzione e scarto dal reale, beffarda al limite del nichilismo? Posto che comunque "il meraviglioso ariostesco si afferma in un ironico confronto con i limiti del reale», e quindi non lo dimentica affatto, anzi, resta il dato che questo meraviglioso «è la configurazione in cui il desiderio si affaccia davanti alla mente dell’uomo: e nel suo libero dilatarsi è implicito sempre un elemento di artificio e di simulazione, tra magia e costruzione teatrale». Insomma, Ferroni insiste sulla natura «aperta» del Furioso e, potremmo insinuare, sulla sua dialettica negativa, senza sintesi.
Ariosto è moderno? Per rispondere a questa domanda l’operazione preliminare imprescindibile è il confronto, arduo ma lecito, con il Chisciotte, e Ferroni non si sottrae alla sincrisi, anzi le dedica alcune fra le pagine più belle del libro. Per dirci che sì, Ariosto passa il testimone a Cervantes, ma precisando che la pazzia di don Chisciotte «proprio perché follia del lettore di romanzi, trascina la contraddizione nella banalità e nella volgarità del mondo quotidiano, mette a confronto l’improbabilità dell’eroico e tutto l’immaginario di cui il lettore è nutrito con la violenza, la brutalità, la casualità, la mediocrità e la finitudine della vita “normale”, scopre sotto di essa una più radicale e inestirpabile follia». In tal senso, aggiungeremmo, il momento del primo barocco, cioè della scoperta del realismo (dal picaresco a Vélasquez, da Caravaggio a Bacone), si pone come il vero incunabolo del moderno. Dissoluzione e riformulazione della bellezza, sguardo impietoso ed entusiasta sull’imperfezione, per scoprire magari qualche perfezione altra, o qualche metafisica più o meno stabile. Ariosto è così superato, e la sua denuncia della menzogna bruciata e assunta in nuova consapevolezza.
E Ariosto oggi? Ferroni, critico aspro della contemporaneità e dei postmodernismi, vede nel poema ariostesco una possibile forza per «snidare una bellezza che la nostra costipata cultura non è più capace di concepire». Un Ariosto non leggero, ludico, virtuale, decostruzionista, ma perfettamente tranquillo e insieme turbato. Il paradigma stesso di ciò che è classico.

l'Unità Lettere 29.5.08
La Sapienza, solo una rissa? Dicevano così negli anni 70

Cara Unità,
ho studiato al liceo Giulio Cesare negli anni '70, un vero incubo: per 5 anni non sono mai riuscita a tornare a casa da sola, avevo sempre bisogno della "scorta". Ricordo bene quando, da legalitaria convinta, andai dal preside a chiedere l'espulsione dei fratelli Ghira responsabili dell'ennesimo episodio violento davanti alla scuola. La risposta del preside fu la stessa che oggi sento a proposito dei fatti dell'università: una rissa tra opposte fazioni politiche in fondo sono bravi ragazzi... Un anno dopo Rosaria Lopez e Donatella Colasanti hanno conosciuto meglio quei bravi ragazzi....
Marina Bottazzi

Corriere della Sera 29.5.08
Le imprese Sono 965, la metà nata dopo il 2001 Il fatturato E' di 2,4 miliardi, in continua crescita Guardie giurate, l'esercito della paura
Controlli e piantonamenti: 50 mila al lavoro
di Gianni Santucci

Ci sono i morti e ci sono le «pecore nere», nel grande business della vigilanza privata in Italia. Guardie giurate ammazzate (23 negli ultimi sei anni, contando solo gli assalti ai furgoni portavalori) e guardie giurate complici (basisti o «pali» delle rapine).
Questa è la cronaca, e la cronaca è fatta di estremi. In mezzo c'è un mondo di imprese che impiega 50 mila persone, fattura 2 miliardi e 400 milioni di euro, dal 2000 a oggi è cresciuto al ritmo del cinque per cento l'anno.
I servizi aumentano e il mercato si allarga. Business della paura? Non solo. Lo dicono i fatti. Le guardie giurate controllano porti, aeroporti, metropolitane, musei, Sert. Tutti i soldi che fisicamente si muovono in Italia, dai rifornimenti per le banche alla distribuzione delle pensioni alle Poste, viaggiano sui loro furgoni blindati, senza scorta delle forze dell'ordine. Le ronde notturne, prima che arrivasse le Lega, erano già il loro lavoro. Uomini che di notte, soli in macchina, pattugliano case, aziende, capannoni, banche e periferie delle città. Lo fanno nel-l'Italia che vive sempre più assediata da paure vere e presunte. Ecco, in questo contesto, le aziende della vigilanza privata rivendicano: «Abbiamo un ruolo centrale nel sistema di sicurezza di questo Paese».
Il business
Si parte dal numero di imprese, in Italia sono 965. Quasi la metà delle aziende è nata dopo il 2001, quando l'attacco alle Torri Gemelle ha gonfiato la domanda di controllo e sicurezza. I dati sono contenuti nel primo «Rapporto sulla vigilanza privata» presentato ieri da Federsicurezza, la federazione del settore che aderisce a Confcommercio. La sicurezza privata si divide in gran parte tra piantonamenti (48 per cento del fatturato), vigilanza (30%) e trasporto valori (18). Gli allarmi collegati con le centrali degli istituti sono 600 mila. E la stima più accreditata parla di un milione e 200 mila clienti. Anche qui, i numeri rivelano qualcosa di interessante: se la maggior parte dei cittadini si lamenta per la poca sicurezza, quelli che poi si rivolgono agli istituti di vigilanza sono un numero limitato (appena il 5 per cento del fatturato viene dalla sorveglianza di case e ville). «Le forze dell'ordine giustamente si concentrano sulle zone da allarme rosso — spiega il presidente di Federsicurezza, Luigi Gabriele — e lasciano a noi l'allarme "arancione", dagli aeroporti alle metropolitane. Siamo essenziali e complementari per la sicurezza del Paese. E ora il nostro ruolo va riconosciuto con un aggiornamento delle regole».
Il decreto regio
Sembra assurdo, ma ancora oggi il lavoro delle guardie giurate è regolamentato da un decreto regio del 1931. Decine di migliaia di uomini che escono con una pistola e indossano giubbotti antiproiettile sono inquadrati come operai generici. Il 13 dicembre dell'anno scorso è arrivata una condanna dell'Unione Europea. Da quel momento l'Italia ha elaborato nuove regole, che aspettano però la ratifica da parte del Governo.
Primo: le guardie diventano «incaricati di pubblico servizio». Secondo: fino a oggi, ogni istituto doveva essere autorizzato dal prefetto e poteva lavorare solo nella Provincia per la quale aveva ricevuto l'autorizzazione (sistema bocciato dalla Ue come ostacolo alla libera impresa). Con la nuova legge, questi vincoli dovrebbero essere aboliti. «Faccio un appello accorato alla politica — dice Matteo Balestrero, presidente Assiv, associazione di 160 istituti di vigilanza che aderisce a Confindustria —. Senza un quadro di regole certe, non ci può essere sviluppo. Il rischio è che rimanga tutto ingessato per le aziende serie e si favorisca chi è più "disinvolto", con forme di concorrenza al limite della legalità». Sotto il boom apparente, si nascondono pesanti ombre: il 47 per cento delle imprese ha chiuso lo scorso anno con il bilancio in rosso.
La strage
Sette gennaio scorso, primo pomeriggio, strada isolata nelle campagne di Massa Marittima. Cinque rapinatori assaltano un furgone della Securpol, lo speronano, sparano alla cieca raffiche di kalashnikov. Raffaele Baldanzi, guardia giurata, 42 anni, padre di un figlio di 12, muore sul colpo. Il suo collega sviene per lo choc, i banditi lo credono morto, «altrimenti avrebbero ammazzato anche lui», dicono quel giorno i carabinieri.
Raffaele Baldanzi è l'ultima delle 23 guardie giurate uccise tra 2002 e 2007, solo negli assalti ai furgoni portavalori. Si tratta sempre di rapine violente, feroci, simili ad azioni da guerra. Negli ultimi sei anni sono state 242, passando dalle 30 del 2002 alle 52 del 2007. A tenere le statistiche è il Sindacato nazionale guardie giurate (autonomo). Il segretario, Marco Fusco, è una guardia che lavora a Rimini, un tipo tosto, caparbio. Uno che ce la mette tutta perché non sopporta più di «vedere i colleghi che fanno sei-sette ore di straordinario e poi si schiantano tornando a casa». Non accetta che «padri di famiglia vengano mandati allo sbaraglio».
Fusco denuncia una condizione di vita a volte infernale: «Se sono in autostrada con un portavalori e trovo traffico, devo restare incolonnato. Anche se trasporto cinque milioni di euro e in quel momento sono un bersaglio, non posso usare i lampeggianti, né andare in corsia d'emergenza». E ancora: «La paga base è 980 euro lordi». Se non fai straordinari non campi. «Ma le nostre aziende chiedono 20 euro l'ora più Iva per i nostri servizi. Sapete quanti di quei soldi vanno alla guardia? Cinque euro e 60». Il lato oscuro del business della vigilanza si alimenta tra vecchie regole e pochi controlli. «Se la legge dice che per il trasporto valori servono tre guardie — conclude Fusco — e l'azienda ne manda solo due, il datore di lavoro deve andare in galera. Perché in quel momento sta giocando con la vita dei propri dipendenti. E chi controlla? Ho 15 anni di esperienza: non ho mai visto un portavalori fermato per ispezione».

Corriere della Sera 29.5.08
Filosofia. Il corso a Berlino
Gli appunti di Kierkegaard alle lezioni di Schelling
di Armando Torno


Tra il novembre 1841 e il marzo 1842 Schelling tenne a Berlino, alla cattedra che fu di Fichte e di Hegel, un primo corso sulla Filosofia della Rivelazione. Ad esso partecipò un allievo d'eccezione: Søren Kierkegaard. Durante quelle lezioni il pensatore danese prese degli appunti, che ora vengono tradotti in italiano con il testo a fronte da Ingrid Basso (in appendice sono dati i passi dell'opera di Schelling utili per comprendere tali note).
Non è facile trovare aggettivi per riassumere questo incontro durante le giornate berlinesi; Jaspers, più semplicemente, definirà codesti corsi «l'ultimo grande avvenimento universitario della filosofia ». Va ricordato in margine agli appunti — dove si leggono intuizioni sull'ontologia, la metafisica, su Dio, né mancano riferimenti alla logica hegeliana o alla teologia negativa — che Kierkegaard continua a godere di ottima salute editoriale anche in Italia, nonostante la recente scomparsa di Alessandro Cortese (purtroppo il lavoro in corso per Marietti 1820 resta interrotto al terzo volume). Morcelliana, per fare un esempio, si appresta a ripresentare una nuova edizione dell'importante
Diario, costata anni di lavoro. Kierkegaard, in altre parole, è ormai diventato un autore di riferimento per il mondo contemporaneo, forse perché come pochi altri ha capito il dramma attuale dell'uomo e non ha prestato fede a tutti quei voli nel nulla che la filosofia ha fatto e continua a fare.
SØREN KIERKEGAARD Appunti Trad. Ingrid Basso BOMPIANI PP. 640, e 18,50

Corriere della Sera 29.5.08
Correggio. Fra terra e cielo
Figure da sogno che non rinunciano alla carnalità Si meritava la gloria romana, morì troppo presto
di Alberto Bevilacqua


L'artista parmense avrebbe dovuto prendere il posto di Michelangelo.
Così lo racconta uno scrittore della sua terra
L'autore
Lo scrittore Alberto Bevilacqua ha firmato, con Arturo Carlo Quintavalle, l'«Opera completa del Correggio» (Rizzoli) «Noli me tangere»
Opera del 1518: Maddalena (particolare) incontra Cristo

Parma e Correggio, uno scambio di salute popolare, implicante passione, di sapore di vita vissuta nelle strade, non nelle scuole. L'andarsene da Parma rientrava esclusivamente nell'ambizione artistica, e ne era lo scotto; Antonio Allegri, detto il Correggio sapeva benissimo che se il suo ingegno fosse «stato a Roma, avrebbe fatto miracoli, e dato delle fatiche a molti che nel suo tempo furon tenuti grandi» (parole del Vasari), perciò egli attendeva il suo momento, e cercava di favorirlo, con una costanza che a ben guardare era fiducia di sé: e addirittura pacifica superbia, quella che non gli aveva mai fatto difetto. A Roma, il Correggio era già stato nell'anno 1518, e le pagine del Longhi su questo viaggio, compiuto nella maturità della giovinezza, cioè a ventinove anni, riescono medianicamente a distinguere, nella sete di conoscenza dell'artista, l'avidità di ciò che è affine e il rifiuto del resto: non esistono compromessi o incertezze, tanto meno il dubbio dell'arte; esiste soltanto ciò che di «correggesco » il genio umano ha dipinto. E non è un paradosso. Ma una riprova, anzi la prova del nove di come l'artista riuscisse a vedere la storia, e gli uomini, soltanto con il terzo occhio della sua pittura.
Roma resta nel sangue dell'artista, che si sente predestinato alle sue glorie (e non a sproposito, in quanto le sfiorerà). Nell'autunno del 1522, i fabbricieri stipulano un contratto con Antonio Allegri per affrescare la cupola, il coro e l'abside maggiore; ma dietro la contrattazione c'è quel cardinal Farnese, grande estimatore dell'artista, che stando ai calcoli avrebbe dovuto consentire la celebrazione mondana dell'ex allievo del Mantegna. I calcoli erano semplici. Il cardinale, prima o poi, sarebbe stato eletto papa, e si sarebbe ricordato dei suoi protetti in arte; il che puntualmente avvenne, ma con un ritardo di duecentoventidue giorni. Il Correggio muore il 5 marzo del 1534, e duecentoventidue giorni dopo Alessandro Farnese sale al soglio pontificio, con il nome di Paolo III. Un soffio, un'amara beffa della storia. Tanto più che il posto che in pectore avrebbe dovuto essere del Correggio lo occupa Michelangelo, eletto pittore, scultore e architetto del Palazzo Vaticano.
A Parma Antonio Allegri lasciò la Cupola del Duomo, il suo testamento per emozioni, cioè il cantico alzato sul misterioso confine dove l'uomo è ancora protagonista della propria carne e già protagonista del proprio sogno: si produca quest'ultimo in gloria celeste o piuttosto in un delirio biologico dei sensi. Al Correggio che dipingeva la guancia della Vergine, appoggiata al corpo del Cristo con un dolore che non può altro che aspirare all'ultraterreno del paradiso, poiché rappresenta un'estrema conclusione terrena, si sostituisce l'altro Correggio, che sa portare la Maddalena a sfiorare il Bambino, con una dolente adorazione che aspira, invece, più alla terra che al cielo, in quanto il dolore non è umanamente fine o condanna definitiva, ma il primo segno del recupero dalla coscienza: apertura ad altri sentimenti che verranno, ad altre umane speranze. Il Correggio abbandonerà l'opera nel novembre del 1530, ma dalla statica corona degli Apostoli all'espansione efebica alla corona suprema degli angeli, lo spazio geniale è ben sufficiente a rispecchiare la sintesi sia della singola vita dell'artista, con il suo mistero biologico e le sue seduzioni orfiche intercomunicanti, sia della vita di un intero secolo, che giunge ai presupposti di una civiltà nuova, del tutto umana e mondana.
In Pictures from Italy, del 1846, Charles Dickens si lagna dello spettacolo penoso fornito dai capolavori correggeschi della Cattedrale e conclude: «I conoscitori ne sono entusiasti anche oggi: per me però un labirinto di membra dipinte in scorcio, intricate fra di loro, involute e mescolate confusamente è ciò che nessun chirurgo impazzito potrebbe immaginare nel parossismo del delirio». Un'affermazione che ci è tornata in mente parecchie volte nella nostra adolescenza, mentre constatavamo il contrario, dirigendoci verso il coro e guardando esplodere le figure dagli archi con la potenza — ordinata nella luce vera e non più supposta — con cui un cieco miracolato afferra, cadendogli la tenebra dagli occhi, il primo spettacolo della vita. Lo scorcio è questo, e questo il fluido del chiaroscuro: dell'occhio umano che non contempla (e non deve contemplare) ma, in un istante di esplosione dei confini terreni in un'immensità ed eternità celesti, «perfora », sotto una spinta sovrumana che non gli sarà mai più concessa, i terreni proibiti (che pure gli spetterebbero di diritto, appartenendo a Dio). Ecco, dunque. È l'uomo in causa, con la sua ottica medianica, e il fenomeno si produce dalla terra, non dal cielo, da chi aspira, non da chi trionfa. Il che apre, di fronte al Correggio, il sospetto che il suo istinto, capace di attraversare in pura sensibilità i secoli nei due sensi del passato e del futuro, abbia preavvertito la grande avventura dell'inconscio.
C'è poi un'annotazione dell'abbé Barthélemy in Voyage en Italie (1755-57), che ci piace inserire in conclusione: «... quello della Maddalena è il modello più perfetto. Non so dove i pittori abbiano desunto che questa santa fu così bella. In un tempo in cui si confondeva con la peccatrice, si sarebbe creduto che tutte le donne di vita cattiva fossero belle?... ». L'ingenuo interrogarsi, intorno alla celebre figura bionda, investe bene, anche se inconsapevolmente, le corde segrete della femminilità che l'Allegri ha saputo evocare, non già dalle femminee intuizioni, ma dal contrario: diremmo dalla virilità deambulante, e pronta ad accendersi al colpo d'occhio, di chi, in ore di pigra luce, si perde per le strade (o per i borghi dì Parma!) aspettando di vedersele passare di fianco, verso misteriose destinazioni, o camminare davanti, le ragazze e le donne: reali fin che dura il suono dei loro passi, il loro movimento registrato in luce di pelle e in segretezze di abito, e tormentose quando non ci sono più e i sensi tolgono alla retina il materiale visivo del giorno, divorandolo a poco a poco, e lasciando alla fine il vuoto di ciò che non si è avuto.
A parte ciò, la donna correggesca coincide con alcune condizioni che ce la rendono modernissima: con la libertà, innanzi tutto, per cui non è succuba di nulla, nemmeno del pregiudizio religioso; con quel socievole conforto che ne fa una compagna spiritualmente generatrice e non un oggetto di possesso o di disputa morale; con una plenitudine di sangue, quasi da stagione solare o da imminente regola naturale, che la fa irresistibilmente madre, ma dopo essere stata amante e compagna, tutta predisposta al concepimento in peccato. Nella donna, il Correggio conclude la sua profezia sulle «magnifiche sorti e progressive » della storia, dove spiritualità e natura si fondono, non nel rispetto dei modelli culturali resi classici ma nel ripristino di una confidenza col mondo resa nevrotica dalle false tensioni.

Corriere della Sera 29.5.08
Eventi fino al 2015: tra gli altri, Tiziano, Cranach e Bernini
Galleria Borghese, la rinascita è un omaggio alle sue star
I tesori «di casa» richiamano altri capolavori dall'estero
di Lauretta Colonnelli


È costruita sul presunto viaggio a Roma di Antonio Allegri (1489-1534), detto il Correggio dal paesino in cui era nato, la mostra che la Galleria Borghese dedica a quello che la storia del-l'arte ha definito il pittore più erotico e al tempo stesso il più lieve, per la sua capacità di dipingere l'indipingibile, ovvero l'aria, i vapori, le nebbie e tutto ciò che è impalpabile e inafferrabile. Un viaggio che secondo gli storici del passato, Vasari per primo, Correggio non fece mai, che «se l'ingegno di Antonio fosse stato a Roma avrebbe fatto miracoli e dato delle fatiche a molti che nel suo tempo furono tenuti grandi». Oggi invece la critica, rintracciando nelle sue opere innumerevoli indizi di «romanità» è quasi unanime nel dare per certo che Correggio a Roma ci sia stato, forse intorno al 1518. A tale proposito non si sono tuttavia trovati documenti, solo il fatto che il suo nome fu associato dai contemporanei a quello dei sommi artisti rinascimentali, Raffaello e Michelangelo, i quali nella classicità di Roma avevano trovato gli ingredienti per rivoluzionare la storia dell'arte. Anna Coliva, che dirige la Galleria e ha curato la mostra, ribalta il problema e parte proprio da Roma, raccogliendo una sessantina tra dipinti, disegni e opere dell'antico per cercare nei lavori del pittore la risposta alla domanda non se Correggio fosse arrivato in città, ma quanto cambiò, grazie al contatto con la Roma di inizio Cinquecento, la sua visione dello spazio, della composizione, delle forme. Si deve ad Anna Coliva e al soprintendente del polo museale romano Claudio Strinati anche l'idea del programma espositivo che prevede dieci grandi mostre in dieci anni, organizzate dalla società MondoMostre. Si è cominciato nel 2006 con la monografica su Raffaello, seguita nel 2007 da quella su Canova. L'idea nasce dalla constatazione che al Museo Borghese sono conservati capolavori assoluti dei maggiori artisti del Cinquecento e Seicento, fondamentali per il catalogo di ciascun autore, che però sono inamovibili dalla propria sede a causa della fragilità o perché sono troppo grandi per essere spostati. Quindi è impossibile trasferirli a quelle mostre temporanee che, in giro per il mondo, vogliono approfondire l'attività di questi artisti. La Galleria Borghese ha pensato di colmare la lacuna programmando le dieci mostre monografiche, dedicate ciascuna ad un artista del quale il museo conserva nelle proprie collezioni uno o più capolavori. A questi vengono accostati, per la prima volta, prestigiosi prestiti dai più grandi musei del mondo, che vengono inseriti, nel percorso della Galleria, al piano corrispondente all'attuale collocazione dell'autore stesso. Il pubblico potrà ammirare sia la collezione che le opere in prestito con un sovrapprezzo sul biglietto d'ingresso. L'apertura dei depositi al terzo piano del museo permette inoltre di ammirare tutte le opere qui ospitate. Con Correggio viene ricostruito, per la prima volta dalla sua creazione, il ciclo degli «Amori di Giove» cantato da Ovidio. Un confronto inedito è previsto nel 2009 fra due pittori «maledetti»: Bacon e Caravaggio. Il programma degli anni successivi propone mostre dedicate a Dosso Dossi, Tiziano, Cranach, Bernini, Domenichino. Per concludere, nel 2015, con la grande esposizione sui Borghese e l'Antico.

Corriere della Sera 29.5.08
Sesso incerto Correggio come Botticelli e Leonardo: figure che fondono anima ed eros
Angeli, putti, adolescenti Il fascino ambiguo dell'innocenza


Un angelo o un amorino? Un innocente adolescente o un fanciullo compiacente? Difficile distinguere tra purezza e peccato nell'arte del Correggio: la linea di demarcazione non è per nulla netta e, bisogna pur dirlo, quella sua sensualità scoperta, quei soffici corpi che sembrano dipinti con un pennello di piume, certe epidermidi che hanno il colore del miele e la morbidezza della cera fusa, parlano di un erotismo rivolto ai fanciulli e alle fanciulle che oggi giudichiamo malato, ma che era normale nel mondo classico ammirato dal Rinascimento. Non che tutti i pittori rinascimentali avessero inclinazioni pedofile, sia chiaro: la sensualità di Tiziano è sana e felice; quella di Michelangelo robusta e omosessuale. Quella di Correggio, più tenera e languida, potrebbe invece richiamare alla mente quella di un Gustav von Aschenbach infatuato dall'efebico Tadzio.
Basta guardare il quadro di Giove e Ganimede dove il dio, invaghitosi del pastorello e assunto l'aspetto di un'aquila, lo trasporta nell'Olimpo e ne fa il coppiere degli dei. Correggio — che è il primo nel Rinascimento a riprendere questo mito classico, poi seguito da Michelangelo — dipinge un bimbo di circa otto anni, con l'espressione furbetta, per nulla spaventato da quell'aquila che lo ha rapito e che apre persino il becco per leccargli con la lingua il tenero braccio.
E che dire del Cupido, un ragazzino di circa dieci anni, che vestito di un solo paio di magnifiche ali sta aiutando Giove, questa volta trasformatosi in una pioggia d'oro, a sedurre una Danae/Lolita che sembra la sua sorellina maggiore? E come se non bastasse, a questa scena fra le più erotiche della pittura, partecipano altri due bambinetti che, ai piedi del letto di Danae giocano a provare sulla pietra le frecce d'oro e di piombo, cioè quelle d'attrazione e di repulsione.
Eccola dispiegata tutta la confusione che il Rinascimento — pagano e neoplatonico — riuscì a creare fra angeli e putti, fra adolescenti e santi, fra mito e religione al punto che anche del rapimento di Ganimede gli umanisti fecero un'allegoria dell'ascesa dell'anima umana verso Dio.
La figura chiave di questo corto circuito spiritual carnale è l'angelo che in greco significa «messaggero». Già nel pantheon greco romano l'angelo aveva il compito di trasmettere la volontà degli dei agli uomini e nell'iconografia è un essere asessuato, più femminile che maschile, in ogni caso adolescente o addirittura un bambino di due o tre anni.
Il punto di incontro fra gli angeli cristiani e i putti pagani sono le ali: gli erotes erano spiriti alati messaggeri degli dei, rappresentati come fanciulli che accompagnavano l'uomo nel corso dell'intera vita e nella religione romana si fusero con la figura del genio, spirito guardiano che proteggeva l'anima di un uomo. I primi cristiani adottarono questa immagine nelle catacombe e nei sarcofagi, ma nel Medioevo passarono a figure più adulte, ispirate per esempio alla Vittoria romana, alata come gli altri messaggeri Mercurio e Iris, per poi tornare ai putti a partire dal Rinascimento. Anche Cupido, il dio dell'amore, nonché strumento per riconquistare la dimensione spirituale e divina perduta dall'anima nel momento dell'incarnazione (in perfetta analogia con il compito dell'angelo cristiano), era alato e rappresentato come un giovane efebico o un putto derivato dagli erotes.
Gli angeli di Botticelli, Parmigianino, Leonardo da Vinci, tutti efebi adolescenti dal sesso incerto, sono una sintesi di questa tradizione che fondeva l'amore con l'anima, l'eros con l'angelo. Luchino Visconti aveva ben chiaro il collegamento e non a caso nella scena finale di «Morte a Venezia» fa ripetere all'adolescente Tadzio il gesto della Pointing lady, la fanciulla angelica disegnata da Leonardo mentre indica un punto imprecisato e infinito. Da Correggio parte dunque un'iconografia, quella dell'adolescente divino, metà Eros metà Angelo, che fissa un gusto arrivato fino a oggi e passato dall'arte, per esempio attraverso le foto di Pierre et Gilles, alla moda dove ambigui modelli adolescenti, in bilico tra femminile e maschile, fungono da moderni messaggeri del lato oscuro della bellezza.
Francesca Bonazzoli Furbetto
«Il ratto di Ganimede» (1531-32) è il primo dei quattro dipinti della serie «Amori di Giove» ispirata alle «Metamorfosi» di Ovidio.
Correggio dipinge il giovane Ganimede con un'espressione furbetta, per nulla spaventato dall'aquila che lo rapisce

Repubblica 29.5.08
La sconfitta della sinistra
di Miriam Mafai


E´ possibile che il risultato delle elezioni del 13 aprile segni, come sostiene Massimo Salvadori nel suo recente commento su queste pagine, la fine di un ciclo politico. Può darsi. Ma confesso di essere sempre esitante di fronte ad affermazioni così recise. E mi sembra ancora meno convincente assimilare la sconfitta del 13 aprile scorso alla sconfitta della sinistra del 18 aprile del ´48. Una sconfitta, questa, che certamente, per dirla con Salvadori, "sanzionò la chiusura del ciclo aperto dalla Resistenza e dall´unità antifascista", ma che non impedì una forte ripresa della iniziativa politica e sociale da parte dei partiti sconfitti (Pci e Psi) che condusse, dopo soli cinque anni, alla sconfitta del centrismo e all´apertura di un nuovo ciclo politico.
Non so, lo ripeto, se il modesto risultato raggiunto dal Pd alle elezioni del 13 aprile e, ancor più, la sconfitta subita dallo schieramento di centrosinistra a Roma, debbano considerarsi alla stregua della fine di un ciclo politico (e, ad avviso di Salvadori, del personale che ha diretto il Pd in questa operazione e in questa fase). Di questo non sono convinta. Ma ciò che a me sembra davvero allarmante anche per il futuro del Pd è la modestia, per non dire la povertà dell´analisi di quei risultati, sia del risultato nazionale del 13 aprile e, ancor più, della sconfitta dolorosissima e largamente imprevista subita a Roma nel ballottaggio del 28 aprile.
Una analisi povera, inadeguata alla situazione e al disagio degli elettori; una analisi per di più che si è svolta solo, o prevalentemente in sedi riservate, coinvolgendo quindi solo o prevalentemente i gruppi dirigenti del Pd. Dal loft in giù. Ma che in buona sostanza, ha evitato di coinvolgere in un dibattito certo difficile ma necessario, sia coloro che, nello scorso autunno, avevano partecipato con entusiasmo alla formazione del Pd ed alle relative primarie, sia coloro che nei mesi scorsi hanno portato il loro contributo alla campagna elettorale. Un dibattito molto interno, insomma, mentre sarebbe stato proprio questo il momento di aprire le sedi dei circoli del Pd a tutti coloro che avessero voluto entrarvi, per discutere del risultato, portarvi la loro esperienza ed eventualmente esprimere la propria amarezza, la propria delusione, e, forse le proprie ragioni.
Per uscire dalla situazione di difficoltà nella quale il Pd si trova, non è sufficiente qualche articolo, qualche discorso, qualche intervista di Walter Veltroni, accompagnati inevitabilmente dalle abituali, più o meno esplicite, polemiche interne, da qualche messa a punto, da qualche precisazione. L´invito, giustissimo, a «tenere botta» e riprendere a far politica sono sacrosanti. Ma cosa si intende per "far politica" se non si riesce, o per lo meno finché non si riesce a radicare il Pd nella società?
Ho l´impressione che per questo non basti la formazione del "governo ombra", con le puntuali dichiarazioni dei "ministri ombra" sui provvedimenti adottati o annunciati dal governo. Una scelta corretta, ma forse insufficiente. Nel senso che un partito che vivesse essenzialmente a ridosso del governo e delle sue proposte rischia di giocare di rimessa, di entrare nel suo cono d´ombra. Fino a quando non riesca ad avanzare e imporre una propria "agenda", che nasca in virtù di un proprio, vitale e ricco rapporto con il Paese.
Per questo rapporto è indispensabile che il Pd si dia una sua vitale struttura organizzativa, non basata su una nostalgica e da nessuno rimpianta riedizione delle vecchie sezioni. Anche se ho l´impressione che il risultato romano sarebbe stato meno imprevisto e doloroso se si fosse ascoltata, anche in tema di candidature la voce e le richieste che venivano dai primi circoli del Pd che si erano organizzati in città, dopo lo scorso ottobre E sempre in tema di candidature è certamente importante l´impegno assunto la scorsa settimana da Veltroni, quando ha dichiarato che, per le prossime scadenze elettorali non ci saranno più candidature che non siano selezionate attraverso le primarie.
Sarebbe augurabile che lo stesso metodo venisse seguito anche per la scelta dei dirigenti del nuovo Pd. Se non si vuole che esso si presenti come il risultato di una continua, defatigante composizione delle sue anime (o correnti).

Repubblica 29.5.08
Tramonta la donna "single" In città non si fa più sesso
Le nuove generazioni di donne sono meno emancipate, temono la solitudine sopra ogni altra cosa
Per anni le tribù femminili di ogni età si sono sentite riscattate dalle scapole che se la spassavano nei locali di New York
di Natalia Aspesi

Dal 1998 al 2004, i 60 episodi di Sex and the City sono stati il più entusiasmante, intelligente, coraggioso, perfetto prodotto della televisione non solo americana, studiato per un pubblico femminile evoluto, libero, inquieto e cosmopolita, single o col rimpianto di non esserlo più. Chiusa trionfalmente la serie con il godimento ma anche la nostalgia delle abbarbicate fan, non c´era che rivederla ripetuta instancabilmente in varie reti tv o nei dvd. Bisognava lasciarla così, felicemente defunta ma meritatamente immortale, storia speciale di un periodo spensierato ed egoista, di una metropoli non traumatizzata dal terrorismo, di un tipo di donna alla moda emancipata e leggiadra che i tempi hanno già accantonato, di un modo di fare televisione senza moralismi né familismi.
Invece il cinema ci ha visto il business, se n´è voluto impossessare, riprendendo le indimenticabili quattro amiche che riposavano in pace nella nostra memoria, e prolungando, per loro e per noi, un´inutile agonia, lasciandoci con un palmo di naso, amareggiate e forse addirittura annoiate. Infatti se in Sex and the City film, le briose protagoniste non fanno più sesso o quasi, se la città, la Grande Mela con tutti i suoi miti colti e mondani, quasi non si vede, se anche loro, povere ragazze di un tempo, hanno superato i plumbei 40 anni e finalmente si accasano e devono adattarsi a vite domestiche senza più avventura e sorprese, a noi che ce ne importa più?
Il film arriva ovunque preceduto da una valanga pubblicitaria che forse aumenta la delusione di tante (donne, facevano quasi pena, all´anteprima, i critici maschi e i compagni trascinati a forza, in difficoltà tra tutti quei piaceri e dispiaceri solo femminili). Ritroviamo le stesse attrici, Sarah Jessica Parker, Kim Cattrall, Kristin Davis, Cynthia Nixon: cioè la bionda scrittrice di successo Carrie, la regina delle pubbliche relazioni Samantha, la bruna e timida Charlotte, l´avvocata Miranda dai capelli rossi. Il film comincia dove la serie è finita, quattro anni fa; Carrie dopo decine di avventure sta finalmente col suo grande amore, il finanziere Big, Samantha vive con un bellissimo attore di fiction molto più giovane di lei, Charlotte è sposa felice con piccina asiatica adottata, Miranda l´avvocata vive col suo figliolino e il marito barista. Certe non si riconoscono più, il chirurgo estetico è stato implacabile con un paio di loro, altre causa moda sono scheletriche e a Carrie è venuto fuori un gran nasone, Charlotte se la fa addosso e Samantha ha un cagnolino che pur operato fa l´amore con ogni cuscino che riesce a montare. Le ragazze ormai mature (a un certo punto Carrie commette l´imperdonabile errore di portare un cappello che la fa anziana) lanciano gridolini eccessivi per un nonnulla, le arguzie e le filosofie da rivista patinata latitano, ci sono abbandoni imprevisti, facce quasi sempre arrabbiate o desolate, meno vestiti del previsto e quasi tutti brutti, uomini per niente stimolanti, tranne un culturista che fa l´amore tutti i giorni con ragazze diverse ma mai con le nostre beniamine: Samantha deve accontentarsi di osservarlo nudo sotto la doccia all´aperto e gemere alla vista della sua virilità. Chi ricorda il fascino crudele di Big, ricco, elegante, imprendibile, si immalinconirà: l´attore è lo stesso Chris North, ma il suo personaggio o è troppo generoso (regala alla fidanzata Carrie un guardaroba per i suoi vestiti grande come un appartamento!) o lamentoso, o pentito. Per un solo corno casuale c´è chi la mette giù fin troppo dura gettando nella massima disperazione il marito cacciato. Come già detto, si fa poco l´amore: una deve alzarsi presto per lavoro e quindi lo fa ogni sei mesi, l´altra lo farebbe più volte al dì ma è lui che ha bisogno del sonno di bellezza. Unica scena divertente: Samantha vorrebbe una notte indimenticabile e per la prima volta nella sua vita entra in cucina e prepara un sushi memorabile, che sparge sul suo corpo nudo disteso sopra il tavolo: lui non arriva e il pesce crudo puzza.
Sex and the City film, sceneggiatore, regista e produttore Michael Patrick King, lo stesso della serie, è troppo lungo, è come se uno solo degli episodi scritti per la televisione, 27 minuti scattanti e densi di facce, eventi, battute, vestiti, personaggi secondari, si fosse diluito in 145, perdendo ogni originalità, diventando un film come tanti, prevedibile, con soluzioni banali, e niente di quella scostumatezza verbale e quella sessualità facile che costituiva il fascino della serie televisiva, che dava alle spettatrici single l´illusione che quella poteva essere la condizione più fortunata a saperla usare con sagace improntitudine; e a quelle a caccia del grande amore l´idea che per trovarlo, si poteva passare allegramente attraverso molti tentativi e che soprattutto, un´eventuale delusione non doveva durare più di una sera, sino al prossimo incontro con un uomo per qualche ragione meritevole di passare dal loro letto. C´era la cancellazione della vita domestica, appartamenti casuali, niente lavori di casa, cibo sempre comprato fatto, un lavoro elegante tra i vip, danaro per bei ristoranti e bei luoghi d´incontro, uomini eleganti, ricchi e mondani: di tutto ciò resta poco nel film e si annacqua anche il tesoro della serie, la grande amicizia tra donne, tra cui raccontarsi ogni segreto sentimentale, ogni impresa sessuale, ogni prestazione maschile con i voti dall´ottimo al pessimo.
Ma i tempi cambiano in fretta e quindi è forse giusto che anche il sesso e la città siano cambiati, che in pochi anni la serie tv diventando film si sia adattata a questi cambiamenti: poca spregiudicatezza, le coppie gay e lesbiche quasi estinte, vibratori neanche uno; viene aggiunta una segretaria di colore che sposerà un giovanotto di colore mentre prima le nostre ragazze si accoppiavano felicemente con atleti molto neri. Le nuove generazioni femminili sono forse meno emancipate, meno libere, più spaventate, più insicure: la vita da single non è più di moda e chi mi scrive a Questioni di cuore se ne lamenta sconsolatamente. Meglio un marito anche qualsiasi del grande amore, tutto ma non la solitudine, quanto alla vita avventurosa e brillante, se ci hanno rinunciato Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda, perché continuare anche solo a sognarla?

Repubblica 29.5.08
Almirante e gli scheletri di Salò
Il "manifesto della morte" un processo e tante bugie
di Simonetta Fiori

Le sue pesanti complicità con il nazismo rivelate negli anni ´70 nel corso di un lungo dibattimento contro l´"Unità" ora ricostruito da un documentato memoriale dell´allora direttore responsabile
Il segretario del Msi negò ogni responsabilità ma fu inchiodato da prove inconfutabili
Calunnia e falsa testimonianza: il pm Occorsio voleva incriminarlo

In Maremma lo chiamavano il "manifesto della morte". Era il maggio del 1944, apparve una mattina di primavera sui muri dell´alta Toscana, tra le pendici dell´Amiata e la Val di Cecina, nei paesi sopra Grosseto già occupati dalle insegne di Hitler. Vi era riprodotto l´ultimatum rivolto il 18 aprile da Mussolini ai militari "sbandati" dopo l´8 settembre 1943 e ai ribelli saliti in montagna: consegnatevi ai tedeschi o ai fascisti entro trenta giorni, oppure vi aspetta la fucilazione. Morte era minacciata anche a chi avesse dato aiuto o riparo ai partigiani. Fu il sigillo, quel decreto legge voluto dal duce di concerto con Rodolfo Graziani, per un´indiscriminata caccia all´uomo e per rastrellamenti feroci, in una terra insanguinata dalle stragi. Solo in Maremma, tra il 13 e il 14 giugno, furono ammazzati a Niccioleta ottantatré minatori. Ma il manifesto che quel tragico ultimatum sunteggiava non era firmato da un comando militare della Rsi o da un presidio delle SS. Era firmato da Giorgio Almirante, allora capo di gabinetto di Fernando Mezzasoma, ministro della Cultura Popolare che curava la Propaganda della Repubblica Sociale. Una figura non di seconda fila - quella del trentenne Almirante - approdata al governo filonazista di Salò dopo una robusta esperienza giornalistica da caporedattore nel quotidiano Il Tevere e da segretario di redazione della Difesa della Razza, la rivista ufficiale dell´antisemitismo sulla quale scrisse articoli intonati al più convinto "razzismo biologico". È lo stesso Almirante al quale oggi il sindaco Gianni Alemanno vuole dedicare una strada di Roma.
Se la vicenda del manifesto è stata sfiorata appena dalle cronache di questi giorni, meno conosciuta è la storia del processo che proprio sul clamoroso episodio vide negli anni Settanta il leader della Fiamma inizialmente nelle vesti dell´accusatore-querelante, poi arretrato nel ruolo di "imputato morale". Una vicenda giudiziaria lunga sette anni, dall´andamento lento, che si concluse con assoluzione piena per l´Unità, il quotidiano querelato per aver pubblicato un documento giudicato da Almirante "vergognosamente falso" e "calunnioso". Per il fondatore del partito neofascista italiano fu una sconfitta irrevocabile. La possiamo ricostruire oggi grazie alla documentata ricerca realizzata nel corso di anni da uno dei testimoni, Carlo Ricchini - giornalista di lunga esperienza, allora direttore responsabile del quotidiano comunista, inventore delle prime iniziative editoriali dell´Unità - per un libro che deve essere ancora pubblicato (Il manifesto della morte con la firma di Almirante). La sentenza avversa al leader missino era scontata fin dalle prime udienze, ma un complicato intreccio politico-giudiziario ne rallentò il cammino. Quel che nelle intenzioni dei promotori doveva essere il battesimo pubblico dell´Almirante in doppio petto, utilizzato in alleanze dirette e indirette con la Dc, da liturgia assolutoria si trasformò, grazie a un´imbarazzante documentazione, in spinoso teatro d´accusa. Da qui le pratiche dilatorie, le ritirate strategiche, le eccezioni procedurali mosse dagli avvocati di Almirante, che trascineranno il dibattimento per tutti gli anni Settanta, fino all´epilogo sancito soltanto nel 1978.
Il manifesto di Almirante venne alla luce nell´estate del 1971, scovato da alcuni storici dell´università pisana negli archivi di Massa Marittima. L´Unità lo pubblica il 27 giugno sotto il titolo Un servo dei nazisti. Come Almirante collaborava con gli occupanti tedeschi. D´intonazione analoga Il Manifesto, che lo propone con un severo commento di Luigi Pintor. «Ci apparve subito evidente», racconta Ricchini, «che era stata scoperta una prova della partecipazione diretta di Almirante alla repressione antipartigiana, da lui tenuta nascosta, come se il posto occupato a Salò fosse stato un impiego come un altro e la sua divisa da brigatista nero un obbligo dovuto alle circostanze». Intanto il manifesto firmato Almirante, quasi sempre con la soprascritta "Fucilatore di partigiani", riempie i muri d´Italia. Da Reggio Emilia a Catanzaro, da Terni a Trapani, da Modena ad Avellino, le associazioni partigiane si mobilitano per denunciare il segretario del Movimento Sociale. Almirante replica con una pioggia di querele, uscendone ovunque sconfitto. Ma non a Roma, dove il processo più importante, quello intentato contro i due quotidiani di sinistra, mostra un percorso alquanto accidentato.
Fin da principio Almirante nega tutto. Nega l´autenticità del manifesto, sostenendo che sia un falso stampato ad arte contro di lui. Nega di essere stato già allora capo di gabinetto di Mezzasoma (sposta in avanti la data). Nega che il ministero della Cultura popolare potesse dare esecuzione al bando di Mussolini. Nega che i ministri di Salò potessero prendere simili iniziative in territori controllati dalle forze armate germaniche. Anche la prosa illetterata del documento gli risulta estranea, "non ho mai firmato manifesti o comunicati di tal genere in quel periodo, né rientrava nelle mie attribuzioni firmare manifesti a nome del ministro". Insomma, s´è trattato "d´una vergognosa campagna di stampa", il titolo di fucilatore "un´ignobile infamia".
La prima udienza si svolge sul finire del 1971. Sono chiamati a difendersi dall´accusa di "falso e diffamazione" i giornalisti Carlo Ricchini e Luciana Castellina, allora direttore responsabile del Manifesto. In realtà non è difficile dimostrare l´autenticità del documento: la copia fotostatica è autenticata da un notaio che attesta la conformità con l´originale. «Le prove di oggi sarebbero già sufficienti», dichiara il pubblico ministero Vittorio Occorsio, autorevole magistrato già impegnato in quegli anni contro il terrorismo nero. Propone sia chiamato a deporre il sindaco di Massa Marittima invitandolo a esibire l´originale del manifesto. La nuova udienza è fissata per il 25 gennaio del 1972, la conclusione appare prossima.
All´appuntamento di gennaio si presenta anche l´onorevole Almirante: sorridente, impeccabile nel vestito fumo di Londra, cravatta blu con piccoli cerchietti bianchi. Al principio della deposizione chiama in causa il Parlamento e le istituzioni che, nonostante il suo passato, hanno legittimato l´elezione a deputato. «Faccio presente che sono deputato in Parlamento dal 18 aprile del 1948», esordisce con toni rassicuranti. «Allora, oltre le regole costituzionali, vi erano norme eccezionali che vietavano di entrare in Parlamento a coloro i quali avessero assunto cariche o ricoperto determinate responsabilità nella Rsi. Personalmente non ho mai subito alcun procedimento penale né fruito di amnistie. Se c´era qualcosa da dire, quella era l´epoca più adatta, per freschezza di ricordi, vivacità di polemiche, presenza di testimoni?». In altre parole, se non sono state fatte rispettare la Costituzione e le leggi, la colpa non è mia.
E il confino di polizia al quale Almirante fu condannato nel 1947? Un legale gli ricorda il grave provvedimento subìto per il collaborazionismo con i tedeschi e per le attività successive alla guerra. Ma il segretario missino ha ricordi confusi. Gli interessa soltanto rimarcare la totale estraneità al manifesto pubblicato sui giornali e al bando di morte pronunciato da Mussolini e Graziani. «Curare la diffusione del comunicato o meglio del bando Graziani rientrava nelle competenze del ministero dell´Interno o di quello delle forze armate», ribadisce con piglio determinato. Lui boia o assassino di partigiani? Ma non scherziamo.
A nulla sembrano valere le nuove prove documentali portate dal sindaco di Massa, un operaio di taglia robusta dal buffo nome di Rizzago Radi che sfila dalla cartellina l´originale del documento firmato da Almirante, insieme alla lettera della Prefettura che accompagna l´invio dei manifesti e la missiva del vicecommissario prefettizio che rassicura sull´affissione. Il manifesto, dunque, non è un falso. Il processo potrebbe rapidamente chiudersi, come incoraggia Occorsio. Ma l´assoluzione dei giornalisti implica la colpevolezza di Almirante. I suoi avvocati sono costretti a cambiare strategia. L´unico modo per ritardare la sentenza è accorpare il processo romano ai tanti processi in corso nella penisola in seguito alle querele di Almirante. Il tribunale, presieduto da Carlo Testi, sembra acconsentire alla proposta. L´udienza è aggiornata.
La prima sorpresa, nel prosieguo del dibattimento, è la sostituzione del pubblico ministero Occorsio con Niccolò Amato, futuro direttore degli istituti di pena. Il suo orientamento appare capovolto rispetto alle convinzioni del predecessore, facendo proprie le tesi difensive di Almirante. Il processo slitta, si arriva a un nuovo rinvio per l´aprile. Alberto Malagugini, difensore dell´Unità e futuro magistrato della Corte Costituzionale, non ha dubbi: «Pur di prendere tempo sono state poste le più strabilianti eccezioni procedurali. Non appena sono apparse chiare le responsabilità del querelante per l´infame comunicato del 1944, non appena il tribunale è stato posto in condizione di decidere e il pubblico ministero di udienza l´ha fatto intendere, la difesa ha cominciato la sua manovra di sganciamento». Intanto in tutta Italia i processi intentati da Almirante si vanno chiudendo con l´assoluzione dei querelati. Per tutti gli altri collegi giudicanti Almirante è un fucilatore di partigiani, a Roma devono ancora certificarlo. Eppure i supporti documentali sono ovunque gli stessi.
Passano ancora due anni. Nel giugno del 1974, dopo accurate ricerche, viene prodotta in aula la "prova delle prove": un telegramma dell´8 maggio 1944, spedito dal ministero della Cultura Popolare all´indirizzo della prefettura di Lucca. È stato trovato negli archivi di Stato, è firmato Giorgio Almirante, e corrisponde parola per parola al manifesto conservato a Massa Marittima. Un foglietto giallo, tipico dei messaggi telegrafici di quel periodo, con il decreto di morte pronunciato nell´aprile da Mussolini. Il capo di gabinetto ne sollecita l´affissione in tutti i comuni della provincia. Il funzionario che nel maggio del 1944 ha mandato il telegramma nella tipografia Vieri di Grosseto per la stampa del manifesto s´è dimenticato di levare la firma di Almirante. Una distrazione che inchioda il leader del Movimento Sociale alle sue pesanti responsabilità. Dagli archivi affiorano anche altre carte compromettenti. Una circolare del 24 maggio 1944, firmata sempre dal capo di gabinetto di Mezzasoma, ordina ai capi delle province di divulgare non solo i manifesti che provengono dal ministero della Cultura Popolare ma anche dalle autorità tedesche. Almirante è sbugiardato su tutti i fronti: è lui che cura la propaganda del bando Graziani, ed è sempre lui che segue sollecito l´affissione dei comunicati del Führer. La sua difesa annaspa. Vittorio Occorsio, tornato a ricoprire la pubblica accusa, chiede ironico: «Volete sostenere che è falso anche questo documento, che ci viene inviato da un ufficio statale e su richiesta del tribunale?». Il processo è sufficientemente istruito, non resta che chiuderlo. «Dopo la sentenza», annuncia severo il pubblico ministero, «chiederò che gli atti siano restituiti alla pubblica accusa per procedere per i reati di calunnia e falsa testimonianza nei confronti di Almirante. Calunnia per aver affermato che il manifesto era apocrifo, falsa testimonianza per tutte le menzogne dichiarate davanti ai giudici».
Bisogna aspettare ancora altri quattro anni per assistere alla "condanna morale" del fondatore del Movimento Sociale. Un primo pronunciamento assolutorio non soddisfa a pieno il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, mentre il Manifesto preferisce fermarsi al traguardo. Solo l´8 maggio del 1978, dopo un intervento della Cassazione, arriva una sentenza priva d´ombre, che assolve l´Unità «per avere dimostrato la verità dei fatti» e condanna Almirante alle spese processuali, anche al risarcimento dei danni. «Ma l´Unità non ha mai chiesto i danni», ricorda Ricchini in chiusura del suo prezioso memoriale. L´unico che non poté leggere la sentenza fu il pubblico ministero che con passione civile e rigore più l´aveva sostenuta. Due anni prima Vittorio Occorsio era rimasto vittima di un agguato, per mano di terroristi neri.

il Riformista 29.5.08
Perché la violenza è sempre fascista?
di Luca Mastrantonio


A nche la tensione politica, come la temperatura o l'inflazione, è entrata nell'era della percezione. Per dirla con Berkeley, «esse est percipi» (essere è essere percepito). Lo mostrano le dichiarazioni dei politici, a caldo, ma anche certi titoli, a freddo ma bollenti, dei giornali, sui fatti di cronaca, a Roma, negli ultimi giorni: l'aggressione punitiva al Pigneto, contro un negozio gestito da immigrati, e la rissa, di matrice storico-ideologica, ma di dinamica teppistica, avvenuta a due passi dall'università La Sapienza di Roma tra neofascisti e studenti dei collettivi universitari di sinistra. Il «clima di tensione» politica e sociale spesso è generato dalle stesse istituzioni e dai media che lo denunciano. Il clima lo genera chi lo respira. Se qualcuno diffonde la paura ha poi gioco facile a denunciare un clima di paura. La gente, siano essi abitanti di un quartiere come il Pigneto o studenti di Lettere della Sapienza, subisce il fumo passivo di titoli strillati che gridano «Al lupo! Al lupo!» e di politici licantropi travestiti da agnelli.
Ieri è iniziato il processo per direttissima ai sei fermati per la rissa della Sapienza avvenuta martedì. A poche ore dal fatto, alla facoltà di Lettere, tutti parlavano di aggressione fascista, premeditata. Non una rissa, ma un raid. Tutti, sinceramente. Centinaia di persone, sulle scale dell'università, ripetevano come un mantra disperato quello che era stato detto loro, dai leader delle sigle studentesche. Ribadito, il giorno dopo, da testate come Liberazione, che titolava: «Assalto fascista all'Università». In realtà, come ricostruito in serata dalla Digos - in tempo per correggere i titoli - si è trattato di una rissa, aggravata da lesioni, in cui gli studenti di sinistra hanno avuto parte più che attiva. Ieri, infatti, sono stati confermati dal giudice i fermi per tutte e sei le persone arrestate - quattro di destra e due di sinistra - e per tre di loro - due di destra e uno di sinistra - sono stati disposti gli arresti. Al bar sport della politica si litigherà sul risultato: ha vinto la sinistra due a uno o è finita in parità perché hanno messo ai domiciliari (un Daspo per questi ultrà cittadini) la metà dei fermati, in ciascuna fazione?
Irresponsabilmente, senza avere una precisa ricostruzione dei fatti, i politici del Partito democratico avevano parlato di aggressione fascista. Le stesse istituzioni culturali, d'altronde, nelle persone del preside di Lettere Guido Pescosolido e poi del pro-rettore Luigi Frati, non hanno avuto una condotta chiara.
L'Università ha prima autorizzato il convegno sulle Foibe, organizzato da una sigla non meglio precisata vicina a Forza Nuova, poi ha revocato l'autorizzazione per i fatti del Pigneto, creando quel clima di tensione che poi ha denunciato. C'è un nesso logico? No. Ma qui non siamo di fronte alla logica. Non è stata riconosciuta nessuna matrice politica per quanto successo al Pigneto. E comunque, in termini di sicurezza da stadio - perché di questo purtroppo si tratta, e non è un'attenuante - è come far saltare una partita a seguito di fatti criminali comuni. Cioè, se rapinano una banca, non si gioca un derby.
Al centro, dicevamo, gli opposti moderatismi - Pd e Pdl - per essere percepiti come ancora più moderati, deprecano il clima di tensione che loro stessi accrescono. È quello che fa Veltroni quando invita a non minimizzare gli avvenimenti, pur non sapendo esattamente cosa sia avvenuto. E Alemanno, che prova a derubricare l'episodio come «scontro tra imbecilli fuori dalla storia e dal tempo», si dice preoccupato dall'«estremismo di sinistra» alla Sapienza. Invoca dialogo, confronto, pacificazione, ma vuole dedicare una via al fascistissimo Almirante.
Sulle ali, tarpate dalle recenti elezioni, escono artigli che affondano nel fegato di questo paese ostaggio delle sue paure: per la Sapienza, Ferrando sostiene il diritto all'auto-difesa, magari anche preventiva, anti-fascista. Chissà, avrà in mente ronde anti-neri, nel senso dei destrorsi. E per il Pigneto, Fiore, di Forza nuova, adotta socio-politicamente l'aggressione contro gli immigrati. Roba da Fahrenheit 451. Non quello di Michael Moore, ma di Bradbury: dove i pompieri appiccano incendi.

il Riformista 29.5.08
Cinema Nuovo film «riservato» sulle illusioni e le delusioni della sinistra Maselli riscrive la lettera aperta a un giornale della sera
di Michele Anselmi


«Rifondazione esiste e continua a lottare», strilla un manifesto per strada. Sarà contento Francesco Maselli, detto Citto, classe 1930, regista colto e sempre comunista (prima nel Pci, poi con Bertinotti) nonché storico animatore dell'Anac, il quale se l'è presa per esser stato inserito dai giornali tra coloro che, da sinistra, offrono qualche timida apertura di credito alle proposte sul cinema della coppia Barbareschi-Carlucci. Dunque: nessuna svolta in vista, solo disponibilità «a un tavolo stabile di confronto», perché «siamo caduti in trappole di altri governi, e con quelli "amici" è stato persino peggio».
Magari anche per questo al regista del Sospetto è venuta una gran voglia di tornare dietro la cinepresa. S'è appena visto, vero, il suo Civico 0 , originale docu-film sulle nuove povertà coprodotto dal Luce, ma il progetto che Maselli accarezza da tempo appare più ambizioso, pure rischioso. Immaginare un seguito di quel Lettera aperta a un giornale della sera che nel 1970 ipotizzava, con qualche sottolineatura autoironica contraria allo spirito del tempo, la partenza per il Vietnam di una «brigata internazionale» composta da un gruppo di intellettuali comunisti un po' annoiati e inconcludenti. Girato con stile da cinema-verità, sfruttando la partecipazione di amici come Nanni Loy, il film si chiudeva con un nulla di fatto. All'ultimo momento, mentre tutto era pronto, arrivava il no dagli stessi nord vietnamiti, con gran sollievo degli interessati.
Il secondo capitolo si chiamerà Il fuoco e la cenere , mutano i personaggi e la stagione politica, anche perché quell'intellighenzia più o meno organica non esiste più, ma il meccanismo narrativo resta simile. Benché Maselli abbia spiegato a l'Unità di non poter «dir nulla del progetto, avendo firmato un accordo di riservatezza con i produttori», ovvero Giorgio Magliulo e Donatella Palermo, il Riformista è riuscito a scovare qualche dettaglio della storia top-secret vergata dallo stesso Maselli. Nel cast, probabilmente, Piero Faggioni, Stefania Rocca, Luca Lionello, Ennio Fantastichini. Il ministero per i Beni culturali contribuirà, come si legge sul sito della Direzione cinema, con circa 1 milione di euro.
L'idea è di raccontare, sotto forma di metafora realistica, lo stato della sinistra italiana. Partendo dall'esperienza umana di un maturo e prestigioso intellettuale, una specie di redivivo Moravia, che si ritrova nel 2005, durante il governo Berlusconi, ospite di un centro sociale nato dentro un cinema in disuso, nella periferia della capitale. Sergio Siniscalchi, è il suo nome, scopre così le cento attività svolte da quei ragazzi "antagonisti": corsi di italiano per gli immigrati, mostre di pittura, letti d'emergenza per senzatetto, postazioni internet. Un mondo che gli si squaderna davanti. Tanto da spingerlo, intervistato all'uscita da una piccola tv alternativa, a evocare l'esperienza gloriosa delle «Maison de la culture», le Case della cultura immaginate e realizzate dal ministro André Malraux nella Francia del secondo dopoguerra.
Come accadeva nel vecchio film con la lettera aperta a Paese Sera , la notizia viene ripresa, si allarga, arriva alle tv nazionali, ne parla perfino Le Monde , gli intellettuali si mobilitano, Siniscalchi, con l'aiuto di un architetto alla moda che sembra alludere a Fuksas, diventa il motore di un'iniziativa volta a ristrutturare il cinema per farne una grande Casa della cultura, un modello da diffondere e moltiplicare, con derivazioni all'estero, perfino a Strasburgo, coi soldi dell'Unione europea. Solo che, una volta vinte le elezioni del 2006, la sinistra di governo si disinteressa della cosa, premono altre priorità, sul progetto ci si divide e si rinvia, si fa avanti anche uno speculatore edilizio con l'obiettivo di trasformare il cinema in un centro commerciale, dotato di ristorante etnico, lasciandone solo una porzione ai ragazzi. Ai quali, capita l'antifona, non resterà che sottrarsi all'abbraccio mortale: meglio armarsi di badili e calce e ricominciare daccapo, occupando abusivamente un vecchio stabile cadente.
«La cultura è conoscenza, la conoscenza è coscienza, ciò che voi fate qui è crescita, consapevolezza, critica», teorizza il protagonista ai giovani del centro sociale. E pare quasi di ascoltare Maselli, che ripropone alcuni dei temi cari, già affrontati in Cronache del terzo millennio . Il film, a basso costo, si farà, giornalisti di nome hanno già assicurato l'amichevole partecipazione, qualche altro produttore si unirà all'impresa. Maselli, cresciuto con Casorati e Mafai in casa, comunista decadente e togliattiano, in bilico tra militanza rifondarola e culto del bello, è convinto che i tempi siano giusti per una storia del genere. Chissà. E se la parola definitiva sull'argomento l'avesse detta Paolo Virzì con Caterina va in città ?

Liberazione Lettere 29.5.08
Se lo "psichiatra" allontana il bambino…
di Davis Fiore

Gentile redazione, una famiglia spezzata e due ragazzini "sequestrati" con provvedimento del Tribunale dei minori. E' quanto accaduto nei mesi scorsi a Basiglio, piccolo comune nell'hinterland milanese, dove la figlia Giorgia di 9 anni è stata allontanata per un disegno un po' osé, che poi è risultato essere stato fatto da un compagno di classe. La vicenda ha avuto un lieto fine e i ragazzi hanno riabbracciato la famiglia, ma le domande sono molte e la gente del posto si è mobilitata in cortei di denuncia. Motivo di tanta preoccupazione è il modo in cui i diritti di tutti noi possono essere violati con diagnosi pseudo-scientifiche di tipo psicologico. Esami non ne esistono, per diagnosticare un disturbo mentale è sufficiente un'opinione, una valutazione soggettiva o un semplice test, non dissimile da quelli che troviamo sulle riviste. Test che da anni sono distribuiti in molte scuole italiane, dove i ragazzi vengono indirizzati verso centri neuropsichiatrici. Proprio in questi giorni in asili nido e scuole elementari di diverse regioni italiane come il Veneto prendono il via i cosiddetti Questionari Italiani del Temperamento (Quit). Se consideriamo nel complesso i bambini indirizzati verso questi centri, i circa 40mila sottratti alle famiglie e i più di 30mila sotto psicofarmaci, ci rendiamo subito conto dell'estensione di questo fenomeno. Ma non è finita qui, gli psichiatri ritengono che l'8 per cento dei ragazzi sia affetto da Adhd (Sindrome da deficit di attenzione e iperattività, ndr), questo spalanca la strada a operazioni di trattamento ben più massiccie. E' necessaria un'ampia opera di informazione per fare in modo che tutto questo non accada e che l'Italia non ripercorra le tragiche vicende verificatesi negli ultimi anni in America con il Ritalin. Non si può più accettare che avvengano situazioni come quella di Basiglio, che i bambini vengano diagnosticati affetti da disturbi e debbano seguire iter inutili e dannosi che rendono impossibile individuare i problemi reali, spesso di tipo pedagogico o sociale, che niente hanno a che vedere con aspetti clinici. Soprattutto, non si può più accettare che un bambino venga allontanato dalla famiglia in seguito a valutazioni soggettive e superficiali.
Davis Fiore via e-mail

La Stampa.it 29.5.08
Traditi dalla casta del '68
di Gadi Luzzatto Voghera


La destra al potere accusa: «il mondo della cultura in questo paese è dominato dalla sinistra e dagli ex sessantottini». La prima parte dell'assunto è vera: la destra in questo paese da decenni non riesce ad incidere sul mondo della cultura perché considera la cultura stessa (umanistica o scientifica) un accessorio poco significativo e, in ultima istanza, pericoloso. Mi pare questa una delle ragioni per cui la nostra destra è ancora poco moderna e molto conservatrice. Ma la seconda parte dell'accusa colpisce un nervo scoperto: l'attacco ai sessantottini mi spaventa perché (ahimè) lo condivido, e perché (ancora più ahimè) l’avremmo dovuto compiere noi, i loro figli traditi.
Il rinnovamento generazionale è stata una caratteristica costante nella storia del nostro paese. Gruppi elitari di giovani hanno avuto spesso la forza di affermarsi, riuscendo ad abbattere vecchie forme di potere sostituendole con nuove prospettive più o meno rivoluzionarie. Il crollo dello stato liberale dopo la prima guerra mondiale fu il frutto della lotta fra schieramenti politici dominati da giovani. Ne emerse un regime fascista che dovette la sua «lunga durata» anche alla giovane età di molti dei suoi leader. Il sorgere della repubblica italiana si fondò sull'azione di una generazione di giovani che non dovremmo mai smettere di onorare per quel che ci hanno lasciato in eredità (fra le tante cose: una Costituzione lungimirante e la chiara indicazione ad «avere il coraggio di cambiare»).
I ragazzi del '68 hanno aggredito un mondo di convenzioni «borghesi», hanno denunciato la corruzione del potere, hanno disvelato e praticato la bellezza estetica dell'opposizione e della trasgressione liberando energie incredibili nei campi più svariati, dall'arte alla musica, dalla relazione uomo/donna al mondo dei diritti sociali. Dopo di loro, tuttavia, l'orizzonte si è fatto nebbioso.
La mia generazione, che ha cominciato ad essere «giovane» fra la metà e la fine degli anni '70, si è nutrita dell'esempio dei fratelli maggiori che avevano «osato» infrangere il tabù del potere, guardando a questi con speranza: ora che finalmente erano loro alla guida di movimenti politici, di sindacati, di redazioni di giornali, di case editrici, di consigli di ateneo, finalmente avrebbero usato bene quel potere, cambiando e democratizzando la società, applicando all'agire politico gli slogan che avevano ideato e con i quali ci avevano nutrito. Ma non è stato così.
Quello che maggiormente spaventa dei protagonisti della stagione del '68 è la loro propensione ad autocelebrarsi, ad assolversi da qualsiasi colpa e a perpetrare la «rivolta permanente» anche in evidente contraddizione con il loro presente. Mancano completamente del dono dell'autoironia (si ride pochissimo leggendo La risata del '68, Nottetempo 2008) e si prendono terribilmente sul serio (si veda Il sessantotto al futuro di Mario Capanna, Garzanti 2008, ultimo testo di una celebrazione decennale, attendendo il quarto volume per il 2018). Anche a distanza di quarant'anni e alle soglie di una pensione raggiunta in posizioni per lo più dirigenziali e di potere, si vedono ancora rivoluzionari e tendono a riproporre come vincente e «alternativo» il loro modello di «opposizione al potere».
La mia generazione e quelle successive non possono permettersi questo lusso: il nostro fallimento è immediatamente percepibile nell'incapacità dimostrata a subentrare a chi ci ha preceduto alla guida di questo paese e ci ha messo sotto tutela. Se abbiamo un presidente del consiglio di 71 anni che si presenta come «il nuovo», se abbiamo il più basso numero di giovani docenti e ricercatori universitari del mondo occidentale, se la gerontocrazia è la regola dell'Italia del XXI secolo, è anche perché non siamo riusciti ad attuare quello scarto generazionale che storicamente ha caratterizzato i momenti di trasformazione della società italiana. Lo scrive con grande efficacia Alessandro Bertante nel suo Contro il '68. La generazione infinita (Agenzia X 2007): «La memorialistica del Sessantotto sortisce in questo modo un effetto soporifero, ottunde le coscienze e insinua il dubbio della futilità della lotta, che viene ricondotta sotto le rassicuranti consuetudini della pace borghese. In pratica: se non ci siamo riusciti noi che eravamo la "meglio gioventù", voi poveri sprovveduti privi di ideologie cosa pensate di fare?».
A noi non resta che ridere: cos'altro possiamo fare quando veniamo considerati giovani anche passata la soglia dei 45 anni. Quando - per fare un esempio che conosco bene - nel reclutamento universitario ti viene esplicitamente detto di aspettare, di avere pazienza che fra soli pochi anni un'intera generazione di professori ordinari andrà in pensione e allora (solo allora? E chi sono, dei feudatari?) si apriranno nuovi spazi. Come possiamo prendere sul serio una classe dirigente di ex-rivoluzionari che hanno utilizzato le leve del potere (Paul Berman, Idealisti e potere. La sinistra europea e l'eredità del sessantotto, Baldini Castoldi Dalai 2007) per perpetrare la propria posizione senza curarsi delle prospettive della società che quarant'anni fa avevano giurato di voler cambiare? Sarà questa mancanza di autoironia che spinge questi uomini (ché, fra l'altro, son quasi tutti maschi) a sentirsi ancora - nel profondo del cuore - dei veri rivoluzionari quando celebrano i quarant'anni del '68 senza dar segno di accorgersi che non solo non sono mutati i sistemi di potere che un tempo contestavano, ma che gli stessi sistemi sono ormai da anni nelle loro mani e che vengono usati in maniera del tutto spregiudicata, tradendo quell'etica della solidarietà e della responsabilità che aveva rappresentato in origine il motore della loro azione politica.

Il Riformista 29.5.08
E se questo non fosse un paese per cattolici?
di Filippo Facci


Una discreta fetta di mondo cattolico, d’un tratto, si sta accorgendo che questo è un paese laico. Si sta accorgendo che questo Paese riposa per lo più sulle iniziative dei singoli e che la dottrina sociale della Chiesa non ha più diritto a iscrizioni d’ufficio al novero delle cose politiche e istituzionali. Le esortazioni di Tarcisio Bertone affinché l’impegno sociale si accompagni a quello politico, dunque, divengono particolarmente emblematiche: se non altro perché di impegno sociale, nel governo, non v’è effettivamente traccia. Nella sua logica lobbistica, non ha torto Famiglia Cristiana quando osserva che tra i vari ministeri non è presente «neanche un cattolico che sia espressione di associazioni e movimenti le cui radici affondano nella dottrina sociale della Chiesa»: in effetti il governo è pieno di cattolici e basta. Quelli che sono espressione di qualcosa hanno ottenuto poco: fuori Giuseppe Pisanu, fuori Roberto Formigoni, fuori Maurizio Lupi (che però è vicepresidente della Camera) e soprattutto cancellazione di quel ministero della Famiglia che persino il governo Prodi aveva mantenuto: niente più che una delega affidata a Carlo Giovanardi. E poi sì, certo, fuori l’intera Udc. Ma sostenere che «nel governo non c’è nessun ministro cattolico», come pure ha fatto Famiglia Cristiana, pare una sciocchezza, perché appunto cattolici lo sono tutti. Ma cattolici laici, forti di convincimenti da tempo banditi da ogni programma elettorale e sostanzialmente assenti dal discorso introduttivo del Premier. Non siamo ancora a una dimensione religiosa relegata al privato, forse siamo semplicemente alla consapevolezza di Silvio Berlusconi (un libertario, ma soprattutto un grande frequentatore di sondaggi) che la Chiesa alla fine non sposta un voto, e che i temi etici, imbracciati come vessillo elettorale, portano disgrazia.
Ma non tutti hanno capito la lezione Nonostante gli esiti esemplari della lista di Giuliano Ferrara (0,37%, ha preso di più Siegfried Brugger della Svp) più ancora di Famiglia Cristiana a scalpitare è stato appunto il Foglio. Ha scritto, due giorni dopo il voto, che aborto e legge 40 e testamento biologico «saranno tra i primi temi con cui il governo dovrà misurarsi». Il giorno dopo, pure, titolava: «Aborto e altro, l’agenda delle questioni vitali che il governo ha di fronte». Più che di un paio di interviste molto generiche a Eugenia Roccella, da allora, non si sono avute. Chiaro che Berlusconi abbia altro per la testa. E’ per questo che si diceva, all’inizio, che questo paese riposa per lo più sulle iniziative dei singoli.
Da un lato, ossia, abbiamo Rocco Buttiglione secondo il quale «la grande maggioranza degli italiani dice che l’aborto è un omicidio» (falso) e secondo il quale, attenzione, «in tutta Europa c’è una rinascita cristiana che cammina, grandi movimenti che hanno un potenziale molto più grande del ‘68 e che hanno energie morali per rinnovare la nostra società». Questo da un lato. Dall’altro, in attesa del nuovo ‘68, c’è il misconosciuto deputato leghista Massimo Polledri che ha già presentato diverse mozioni di legge contro la fecondazione assistita e contro ogni ipotesi di eutanasia: e non se n’è accorto nessuno. Eppure, nel Parlamento italiano, l’avanguardia cattolica è uno come lui, un singolo. Un fiero e rispettabile singolo in un paese laico, mica Tarcisio Bertone.