venerdì 30 maggio 2008

l’Unità 30.5.08
Sicurezza. Il Rovescio del Diritto
di Giancarlo Ferrero


Il governo non perde tempo: cavalcando la tigre della paura, forte del consenso poco consapevole dell’opinione pubblica spaventata ha già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 26 maggio il decreto legge sul pacchetto di sicurezza. Essendo ormai entrato, seppure provvisoriamente, nel nostro ordinamento giuridico, i magistrati sono ovviamente tenuti ad applicarlo. Lo faranno con gli occhi rivolti al cielo pensando al tempo e al costo che richiederà la sua applicazione e con la consapevolezza che non darà sostanzialmente alcun risultato.
Mancavano già in passato e mancano tuttora gli strumenti amministrativi, cioè gli uomini ed i mezzi necessari per dare concreta esecuzione agli ordini giurisdizionali di espulsione. Il governo ne è così consapevole che ha espressamente previsto la reclusione per l’immigrato il quale trasgredisca l’ordine di espulsione, trasgressione che presuppone la reale possibilità di non ottemperare all'ordine stesso. Anche perché non sempre è nelle condizioni di dargli spontanea esecuzione per l’elevato costo del viaggio di ritorno e perché i Paesi limitrofi al nostro non gli consentirebbero di certo l’attraversamento del loro territorio e tanto meno la permanenza sullo stesso in virtù di un semplice provvedimento giurisdizionale di un giudice italiano.
L’art. 1 del decreto legge ha molto disinvoltamente sostituito l’art. 235 del codice penale, imponendo ai tribunali di espellere lo straniero od allontanare il cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea (quindi anche un francese) condannato a più di due anni. Il tempo perché si avveri questa condizione, stante la ben nota rapidità della nostra giustizia, non è pudicamente preso in considerazione. Se la persona coinvolta continua a calpestare il nostro sacro suolo, commettendo il reato previsto dal secondo comma dell’articolo, dovrà essere sottoposto a nuovo processo penale (sempre che naturalmente venga colto in flagranza) con ovviamente la piena osservanza di tutte le forme e gli oneri processuali, quindi con i lunghi tempi e costi del processo penale. Se pervicace e attaccato all’ex bel paese, potrebbe arrivare all’età pensionabile senza aver subito il trauma del distacco forzata dalla sua patria adottiva! Delle fatiche e del tempo dedicato al caso dagli uomini delle forze dell’ordine, dai funzionari e magistrati non si tiene alcun conto “de minimis praetor non curat”.
Purtroppo di questi particolari debbono però “curarsi” i dipendenti pubblici indicati che faticano a svolgere il loro lavoro “ordinario”, mentre sempre più arduo si fa la ricerca di nuovi locali adeguati in cui rinchiudere i condannati forestieri (le nostre carceri come è noto sono sovra affollate e prossime al punto di rottura). Girare attorno alla questione, come si fa da anni, serve solo ad incancrenire la piaga; non è compito dei giudici occuparsi delle espulsioni, ma degli organi amministrativi ai quali però debbono essere dati i mezzi e gli strumenti necessari, affrontandone i costi se veramente si vuole limitare il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Il pugno duro è spesso indice di una sostanziale impotenza ed è desti nato a colpire i più deboli ed emarginati con un rovesciamento dell’ottica dei valori statali. Non poche volte poi volendo a tutti i costi seguire la linea della durezza si finisce con l’infrangono i principi della stessa civiltà giuridica. Ne costituisce un significativo esempio l’ultimo comma dell’art. 1 del decreto che introduce una specifica circostanza aggravante (con un aumento della pena sino ad un terzo) se un reato viene commesso “da chi si trovi illegalmente sul territorio nazionale”. In parole povere, uno stesso fatto previsto come reato viene sanzionato più severamente non per le modalità con cui è stato commesso o per le relazioni tra l’autore del reato e la vittima, ma semplicemente per quello che sei: un clandestino, un irregolare, un diversi dai bravi criminali nostrani! Per carità, stiamo tutti attenti che nessuno tocchi la nostra bella Costituzione e la preziosa autonomia e funzione della nostra illuminata Corte Costituzionale!
Molto pericolosa e con profili di incerta legalità è l’estensione ai sindaci del potere di emettere ordinanze con tingibili ed urgenti (la cui inosservanza costituisce un illecito) in materia di sicurezza ed ordine pubblico, su cui di norma sussiste la competenza dei prefetti. Considerato il numero di sindaci, le loro diverse impostazioni ideologiche, è facile prevedere molti difformi interventi sindacali che, oltre aggraveranno il lavoro dei prefetti, saranno causa di ricorsi ai tribunali amministrativi. Non riguarda direttamente gli immigrati la disposizione con tenuta nell’art. 5 che prevede dure sanzioni personali e patrimoniali (la confisca dell’immobile) per coloro che “cedono” a titolo oneroso l’uso degli immobili agli immigrati irregolari (e tali debbono considerarsi anche gli immigrati il cui permesso di soggiorno è scaduto). L’effetto sarà una forte riduzione degli affitti agli immigrati, con notevole peggioramento delle loro condizioni di vita, se non l’illecito ricorso a caro prezzo a prestanomi od a società fittizie.
Non fa per fortuna parte del decreto legge, ma del disegno di legge affidato al Parlamento, la norma che introduce l’atipico reato di immigrazione clandestina. Qui il governo ha voluto chiaramente provare di essere forte, tanto da poter maneggiare con disinvoltura la clava, scavalcando d’impeto sia i principi di solidarietà umana sia quelli minimali del diritto. Viene così punito non un comportamento asociale, ma lo “status” di una persona: l’essere un immigrato non regolare, anche se la sua vita è di specchiata virtù. Una decisione di forza che pone subito in sofferenza coscienze e costituzioni, in modo così sfacciato da provocare più stupore che indignazione. Oltretutto non è ben chiaro quando si commette il delitto: all’atto dell’ingresso (come riportato nel disegno di legge) clandestino nel nostro territorio (ivi compreso il mare territoriale) o nel momento in cui si diventa clandestini perché il permesso di soggiorno è scaduto (ma sarebbe necessario uno specifico emendamento)? Nel primo caso, si pensi agli sbarchi a Lampedusa, l’ingresso può essere dovuto a forza maggiore, mare in tempesta, mancanza di acqua e cibo prostrazione fisica condizioni tutte che non consentirebbero di ritornare indietro, neanche fuori dal mare territoriale senza rischiare la vita (vale a dire dove il reato non c’è, dato che non si arriva a punire l’intenzione). Secondo l’antica legge del mare, non è consentito lasciare in balia delle onde senza mezzi di sostentamento i naviganti sfortunati o improvvidi e per fortuna la nostra Marina ha sempre rispettato questa sacrosanta regola e ha scortato doverosamente gli sventurati superstiti nei porti. Gli immigrati così assistiti essendo, chiaramente clandestini, nel momento in cui entrano nel mare territoriale commettono peraltro il nuovo reato per cui è previsto l’arresto ed il ricorso al rito direttissimo (ovviamente inapplicabile nell’attuale situazione dei nostri uffici giudiziari). Con alta probabilità i magistrati italiani ravviserebbero piuttosto la sussistenza della tipica causa di esclusione della responsabilità penale (aver agito in stato di necessità o per forza maggiore) e procederebbero all’assoluzione dell’imputato.
Stante poi il pacifico principio della non retroattività della legge penale, la disposizione non potrebbe essere applicata a coloro che al momento dell’entrata in vigore del decreto erano già nel territorio italiano. Principio che indurrebbe tutti i clandestini non colti in flagranza a dichiarare che la loro presenza in Italia risale nel tempo. A meno che, in uno slancio di estreme fermezza, il reato non venga fatto consistere nella permanenza clandestina (a permesso di soggiorno scaduto) nel nostro territorio. Decine di migliaia di inutili processi si affollerebbero così nelle aule giudiziarie dove con un po’ di buona volontà ed una manciata di lustri verrebbero smaltiti! Certo, anche in questo caso sorgerebbero le solite questioni di incostituzionalità, vere palle ai piedi dei legislatori decisionisti.
In qualche modo si terrebbero comunque fuori dalla mischia le badanti perché servono alla longevità e dignità dei nostri anziani di pura razza europea. Al Parlamento l’ultima (e speriamo illuminata) parola, al momento non può che consigliarsi a tutti gli addetti al lavoro di muoversi con molta ponderata lentezza e tanta pazienza.

l’Unità 30.5.08
Da Ponticelli a Pisa. Lo choc dell’Italia intollerante
di Massimo Solani


C’È UN CLIMA DI VIOLENZA e razzismo che sembra dilagare in Italia. Un susseguirsi di episodi piccoli e grandi troppo spesso minimizzati dalla maggioranza. Eclatante il caso dell’aggressione xenofoba del Pigneto a Roma, dove una ventina di ragazzi coi
volti coperti e le spranghe, sabato scorso hanno distrutto alcuni locali gestiti da commercianti extracomunitari dileguandosi poi nel nulla. Tutti tranne l’unica persona che si era presentata a volto scoperto che ieri si è presentata spontaneamente in Questura, probabilmente sapendo di essere già stato identificato e temendo l’arresto. Significativi, prima, i roghi dei campi rom a Pnticelli. Inquietante anche quanto successo lunedì all’Università Sapienza della Capitale dove dove quattro neofascisti, due appartenenti a Forza Nuova, hanno aggredito a colpi di spranghe e catene alcuni studenti che stavano “attacchinando” lungo il perimetro della città universitaria. Sei fermi (tre agli arresti domiciliari) e quattro feriti il bilanci dell’aggressione e degli scontri che si sono poi verificati.
Sono serviti invece quasi quattro mesi di indagini alle forze dell’ordine di Pisa per arrestare i sei giovani (fra loro anche una ragazza) che il 1 febbraio picchiarono a sangue un ragazzo livornese in una discoteca causandogli varie fratture, fra le quali anche tre vertebre. Nella casa di uno dei sei, alcuni dei quali vicini a gruppi ultrà del Pisa Calcio, la polizia ha ritrovato coltelli, manganelli telescopici e anche una mazza da baseball con la scritta Dux e il profilo di Benito Mussolini. E nel giorno del raid al Pigneto Christian Floris, uomo immagine del portale Deegay.it molto impegnato in campagne contro la discriminazione sessuale, è stato aggredito da due persone davanti al portone di casa sua. «Devi smetterla, hai capito?», hanno intimato i due al ragazzo dopo averlo picchiato.
È andata un poco meglio a il ballerino albanese Kadiu Kledi che mercoledì pomeriggio è stato aggredito da due persone all’interno della sua accademia di ballo, dove era in corso il saggio di fine corso dei bambini. Kledi, infatti, ha notato due persone che stavano riprendendo con una telecamera, e quando si è avvicinato per chiedere spiegazioni è stato aggredito. «Albanese di merda, ti rimando in Albania», gli ha gridato uno dei due mentre l’altro scappava.
Ma il segnale di quanto l’intolleranza e il razzismo siano ormai veleno quotidiano lo dà anche la storia di Joana Hotea, una giovane donna romena (28 anni) che a Roma è stata insultata a bordo di un autobus di linea dove era salita con in braccio il figlioletto di 15 mesi. «Tu non sali, zingara di merda», l’hanno apostrofata. Joana, che non è una rom ma una giovane donna integrata a Roma dove vive e lavora da 8 anni, non si è data per vinta ed è salita lo stesso. A bordo dopo gli insulti («Per te non c’è posto!») un uomo l’ha spintonata prendendola per i capelli.

l’Unità 30.5.08
Vita di Almirante. Razzismo e fascismo
di Nicola Tranfaglia


Giorgio è stato un giovane precoce.
Nato a Roma l’anno in cui scoppia la prima guerra mondiale (1914) in una famiglia di artisti di teatro e di cinema, pubblica il suo primo articolo sul quotidiano "Il Tevere" di Telesio Interlandi, un giornalista abile con qualità di polemista che viene da "l’Impero" del nazionalista Mario Carli.
Quel giornale esce a Roma il 27 dicembre 1924 per volontà di Roberto Farinacci, leader del fascismo razzista e intransigente.
E polemizza duramente con i quotidiani che non si schierano al fianco del regime come "la Stampa" di Torino o i residui giornali dell’opposizione destinati ad essere chiusi tra il 1925 e il 1926.
Esce a mezzogiorno, a quattro pagine (una volta alla settimana a sei pagine).
E dedica una pagina intera alla letteratura e un’altra alla vita mondana della capitale.
Le idee sono quelle del fascismo integrale come «rivoluzione nazionale» che ha nel razzismo una delle componenti fondamentali.
Almirante è un fascista fervido ed entusiasta come peraltro gran parte di quelli della sua generazione. È troppo giovane per partecipare alla nascita e all’affermazione del movimento e del regime ma fa parte di quella categoria di «fratelli minori» dei protagonisti della rivoluzione fascista che abbracciano con entusiasmo la nuova fede.
Diventa assai presto giornalista professionista e redattore politico del quotidiano di Interlandi. Quando il suo direttore, il 5 agosto 1938, è incaricato di fondare e dirigere il quindicinale «La difesa della razza» per sostenere la politica razziale di Mussolini ne diventa segretario di redazione.
Nell’ottobre 1938 scrive sul quindicinale un’aperta dichiarazione di razzismo. «Il razzismo - si può leggere in un suo articolo - è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l’Italia abbia mai tentato».

l’Unità 30.5.08
Rievocare anni bui per spiegare la violenza di oggi come fa il Viminale è fuorviante
Quella strana «giustificazione»
di Marcella Ciarnelli


Riecheggia con insistenza sospetta, rimbomba, il richiamo ad un tempo della storia recente del Paese segnato da dolore, violenza e sangue. E che non poche conseguenze ha prodotto. Si parla in questi giorni di nuovo di “opposti estremismi”. Due parole in forma di slogan rievocate in modo quanto mai inopportuno per cercare di giustificare l’arroganza e la violenza di chi si sente vincitore e rappresentato e, quindi, più forti degli altri che avverte diversi da sé: i deboli, i perdenti, gli antagonisti politici contro cui si possono mostrare i muscoli ed usare le spranghe in nome di una ritrovata impunità. È un modo ambiguo e subdolo di mistificare la realtà in modo di colpevolizzare anche gli altri, di tirarli dentro dividendo in questo modo le responsabilità e, quindi, dimezzandole. Di creare una spirale che, quella sì, potrebbe se non interrotta creare una forma imitativa capace di riportare a due fazioni contrapposte. Tutti colpevoli, nessun colpevole. O, almeno, due fronti opposti impegnati a colpevolizzarsi a vicenda con le istituzioni tra loro a far da barriera.
Il tentativo appare quanto mai evidente. Scoperto come il bluff di un giocatore che non sa tenere le carte in mano. Eppure c’è chi rievoca il passato per giustificare i fatti dell’oggi. Ricorda anni in cui la strategia della tensione rese cupa e buia la vita di un Paese che con difficoltà aveva superato il dopoguerra e cominciava a guardare verso il futuro con l’ottimismo di chi ha conosciuto povertà e fame ma anche le successive spumeggianti gioie del boom. Ma la fine dei favolosi anni 60 vengono segnati da un buio scenario i cui protagonisti appaiono prima isolati e poi, lo si comprenderà negli anni, figli di ideologie diverse ma pronte a colpire con la stessa inaudita ferocia. A memoria di storico pare che sia stato l’allora presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, a enunciare per primo la teoria degli opposti estremismi dopo l’omicidio dell’agente di polizia, Antonio Annarumma avvenuto nel novembre del 1969. La spirale prende l’avvio. C’è la strage di piazza Fontana. Il Paese comincia ad avere paura. Un rapporto del prefetto di Milano, Libero Mazza, nel 1970 afferma con certezza l’esistenza degli “opposti estremismi”. Nell’aprile dell’anno successivo il rapporto diventa pubblico e viene fortemente contestato anche in Parlamento. Eugenio Scalfari, allora deputato, presentò un’interrogazione. La democrazia sembra essere messa a rischio dall’attacco concentrico dei terroristi fascisti da un lato e di quelli rossi dall’altro. Bisognerà arrivare dopo tanti anni e tanto sangue alla solidarietà nazionale per cominciare a intravedere uno spiraglio. Ma c’è stato l’atroce ’77. E la dolorosa e crudele uccisione di Aldo Moro e della sua scorta.
Nomi. Facce. Persone. Una lunga scia di sangue. Vittime a volte casuali che solo ora hanno trovato l’occasione di un ricordo collettivo nella giornata della Memoria che quest’anno li ha visti ricordati tutti al Quirinale dal presidente della Repubblica.
In nome della democrazia minacciata si coagularono le forze rappresentative dello Stato. Oggi la situazione è molto diversa. E appellarsi allo svoligimento tragico di quegli anni è sbagliato. E giustificativo.

l’Unità 30.5.08
Violenza sulle donne, il governo taglia i fondi. Servono per l’Ici
I 20 milioni di euro stanziati da Prodi andranno a coprire il taglio della tassa. Scoppia la rivolta: decisione infamante
di Maria Zegarelli


FATTI E PAROLE Ricordate l’indignazione del centrodestra per la violenza subita da due donne a Tor di Quinto e alla Storta, periferia romana, alla vigilia delle elezioni? Era clima da campagna elettorale, appunto. Il governo, infatti, ha deciso di tagliare il
Fondo per la lotta alla violenza sulle donne previsto dalla Finanziaria 2008 per coprire il taglio dell’Ici. Il governo Prodi aveva stanziato 20 milioni per prevenire la violenza e dare un sostegno alle donne che ne erano rimaste vittime. Dure le reazioni del Pd. Le deputate Emilia De Biasi, Manuela Ghizzoni e Carmen Motta giudicano «incredibile» la decisione del governo. Imbarazzo della ministra delle pari Opportunità, Mara Carfagna, che ha provato a dire: «Per contrastare il doloroso fenomeno servono norme che garantiscano misure di protezione integrale contro la violenza di genere, pene severe e processi più veloci. I fondi che chiederò di stanziare serviranno per il sussidio e l’attuazione di una normativa che è allo studio dei tecnici». Il ministro ombra del Pd, Vittoria Franco, annuncia un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Economia Giulio Tremonti e al premier. «È molto grave - dice - che per coprire il taglio indiscriminato dell’Ici a vantaggio anche delle fasce più abbienti il governo tagli i fondi a tutta una serie di politiche sociali». Barbara Pollastrini, che quel Fondo aveva creato, è «indignata, ma anche amareggiata per i livelli di cinismo che, con questa destra, può raggiungere la politica».
Il Telefono Rosa, associazione impegnata contro la violenza sulle donne, chiede un intervento della ministra. «Decisione infamante - dice la presidente Maria Gabriella Carnieri Moscatelli - siamo di fronte al funerale delle donne visto che le risorse che dovrebbero finanziare i diritti di chi subisce uno dei crimini più orrendi, appunto lo stupro, vanno per l’Ici, a vantaggio di proprietari che magari vanno in giro con una Ferrari... ». Valeria Ajovalasit, presidente di Arcidonna, la definisce «una vergognosa mossa finanziaria che offende milioni di donne». «La scelta del governo» è quella di «non adottare strumenti propagandistici o di facciata», commenta la leghista, Carolina Lussana. Sandra Zampa (deputata Pd) e Albertina Soliani (senatrice Pd) rispondono ricordando che il primo atto del governo Berlusconi contro la violenza è proprio quello di penalizzare le donne che ne sono vittime.

l’Unità 30.5.08
Il Vaticano: è omicidio
«Testamento biologico, fateci scegliere come morire»
Tam tam dei malati dopo la donna che ha rifiutato le cure grazie a una norma del 2004
di Anna Tarquini


IL CASO DI MODENA? «Non ci sono dubbi, è omicidio». È una condanna senza appello quella del cardinale Barragan, ministro vaticano della Salute. «Non c’è
nessuna legge italiana che prevede l’applicazione del testamento biologico. Se una persona decide di togliersi la vita compie un suicidio, se lo fa per un’altra persona commette un omicidio». E Barragan non è il solo a condannare. Anche le parlamentari teodem Baio e Binetti protestano per la decisione della magistratura di accogliere la scelta di Vincenza Santoro Galano. «Se c’era già questa norma è stato del tutto inutile - osservano Baio e Binetti - che il Senato abbia affrontato la questione del testamento biologico per ben due anni. Da parte nostra ribadiamo che deve esistere il rispetto della volontà del paziente ma lo Stato non può arrogarsi il diritto di interrompere la vita. Il nostro è un no fermo ad ogni tentativo di eutanasia e proporremo che sia stabilita un’interpretazione autentica della legge del 2004».
Un vespaio. Il giorno dopo, il caso della signora di Modena che ha ottenuto per legge di morire in pace divide politici e medici. Non i malati che numerosi lasciano un commento sul sito dell’associazione Coscioni. Elisabetta: «Sento di aver ritrovato il MIO presente, pensando al mio futuro...». O come Jeffrey che vuole solo sapere dove può leggere il decreto Stanzani, dal nome del giudice che ha reso possibile una prima applicazione di testamento biologico in Italia. Ci sono poi le parole di Nicasio Galano, il marito della signora Vincenza, l’ammalata di Sla che ha chiesto e ottenuto dal giudice di non essere intubata. Lui è il famoso «Amministratore di sostegno», cioè il tutore nominato per legge con il dovere di far rispettare le volontà dell’ammalata anche contro quelle dei medici. Nicasio Galano che è vedovo da meno di 24 ore dice: «Ora mia moglie è più serena. È stato accolto il suo desiderio di dignità. Alla nostra famiglia, che è credente, la decisione è parsa normale, visto il suo stato».
Questi sono i malati, dall’altra parte ci sono gli altri. I medici, i politici. Contrario il senatore Ignazio Marino relatore di una proposta di legge sul testamento biologico: «C’è una grande differenza tra un singolo caso come questo e una legge organica che permetta di accompagnare ed assistere una persona fino agli ultimi istanti della sua vita - afferma Marino - serve una legge che non porti nei tribunali la cura della persona affidando al giudizio di un singolo magistrato». Secondo l’ordine dei chirurghi «il caso di Modena non rientra affatto nel testamento biologico». È vero, ma solo in parte. Perché la signora Vincenza ha chiesto e ottenuto di non essere intubata, e chiesto e ottenuto un tutor che garantisse le sue volontà, nel momento di passaggio, quando si perde il fiato e si muore (non si è coscienti o capaci di esprimersi dunque) e il medico ha il dovere di intervenire. E perché la legge che ha scardinato il sistema dice che il tutor interviene a far rispettare le volontà nel momento e per il tempo dell’incapacità di intendere e di volere della persona.
Per questo certa politica ieri ha gridato allo scandalo. Come Isabella Bertolini (Pdl) che sul caso di Modeno ieri commentava: «È un pericoloso esempio». Spiegava Mina Welby: «Il caso di Modena sarà apripista per molti malati. E potrebbe anche aiutare a risolvere la vicenda della povera Eluana Englaro. Mi è capitato di incontrare una dottoressa che ha aiutato a morire una donna che non voleva essere tracheotomizzata. Mi disse che l’aveva addormentata perché non sentisse il soffocamento ma poi mi confessò di non sentirsi a posto con la coscienza. Ebbene, massimo rispetto per tutte quelle persone che nonostante gravi malattie vogliono continuare a vivere, ma quando una persona dice basta, il medico deve aiutare fino in fondo».

l’Unità 30.5.08
Testamento biologico, il messaggio di Modena
di Gilda Ferrando


Anche le date contano. A distanza di 30 anni da quel 13 maggio 1978 in cui venne approvata la legge Basaglia, il 13 maggio 2008 il Giudice tutelare del Tribunale di Modena emana un decreto che costituisce un altro importante passo nel riconoscimento dei diritti e delle libertà della persona. C’è un filo rosso che unisce la legge di allora al provvedimento di oggi, attraverso altre decisioni importanti, come i casi Englaro e Welby.
Il decreto di Modena - va chiarito subito - non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, vale a dire con la richiesta da parte di un malato senza speranza, afflitto da intollerabili sofferenze, di porre fine alla propria vita mediante la somministrazione di un farmaco letale.
Riguarda invece il diritto del malato di rifiutare trattamenti medici, riguarda i modi in cui garantire questo diritto quando il paziente non sia più in grado di esprimere la propria volontà.
La signora Vincenza, affetta da Sclerosi laterale Amiotrofica (Sla), ormai in condizione di grave insufficienza respiratoria, manifesta al marito, ai suoi quattro figli adulti e ai medici la propria volontà di non essere sottoposta a trattamenti di rianimazione invasivi, compresa la tracheostomia. Il fatto è che il sopraggiungere di una crisi respiratoria grave determina una perdita della coscienza dovuta all’insufficiente afflusso di ossigeno al cervello. È dunque necessario che ci sia qualcuno per dar voce al paziente che non è più in grado di farlo personalmente.
Ci sono differenze tra questo e i casi analoghi che lo hanno preceduto. Rispetto al caso Welby si chiede al medico di non attaccare il respiratore, non di spegnerlo. Rispetto al caso della signora Maria - la paziente diabetica che rifiutò l’amputazione dell’arto - la volontà deve essere fatta valere dopo la perdita della coscienza. Rispetto al caso Englaro - la giovane donna in stato vegetativo permanente - è stato espresso un rifiuto esplicito e formale prima della perdita di coscienza. Pur nella varietà dei casi, in tutti è stato riconosciuto il diritto di rifiutare le cure o di interromperle.
La decisione del giudice tutelare di Modena si inscrive pienamente nel quadro di principi e regole previsti dal nostro ordinamento.
Quanto ai principi, dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione si evince chiaramente che nessun trattamento medico può essere effettuato senza e, a maggior ragione, contro il consenso del paziente. Anche la Carta di Nizza, ora parte del Trattato europeo firmato a Lisbona, impone in modo esplicito il rispetto del «consenso libero e informato della persona interessata» (art. 3). Nell’ottobre scorso la Corte di Cassazione ha fatto applicazione di questi principi nel caso Englaro. In quell’occasione la Corte chiarì che il paziente cosciente e consapevole può legittimamente rifiutare anche un trattamento di sostegno vitale. Si tratta di un diritto fondamentale della persona, espressione di quella inviolabilità fisica che costituisce il nucleo essenziale della libertà personale. Un diritto, dunque, che deve essere garantito incondizionatamente e contro il quale non vale invocare né lo “stato di necessità” - al quale il medico può appellarsi, ma solo in situazioni d’urgenza, e se il paziente è incosciente - né un dovere di curarsi che può talvolta farsi valere sul piano dell’etica, ma non su quello del diritto.
Quanto agli strumenti per dare attuazione a questo diritto fondamentale, nel 2004 è stata introdotta nel nostro ordinamento una nuova figura di protezione dei soggetti deboli, l’amministratore di sostegno, che ha la funzione di assistere ogni «persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi». Si tratta di una risposta, sul piano degli istituti civilistici, alla nuova attenzione che il diritto riserva alle situazioni di debolezza e fragilità e che ha avuto nella legge Basaglia uno dei suoi momenti più alti.
Rispetto al vecchio modello dell’interdizione, l’amministrazione di sostegno intende garantire un maggior rispetto dell’autonomia del disabile ed una maggior attenzione ai profili di cura dei suoi interessi personali. Coerente con questa impostazione è la possibilità che la designazione della persona cui affidare l’incarico sia effettuata dallo stesso interessato «in previsione della propria eventuale futura incapacità».
La legge non lo dice espressamente, ma appare coerente con il suo impianto complessivo ritenere che a questa persona di fiducia il malato possa dare anche direttive anticipate sulle decisioni che più gli stanno a cuore, specie quelle in materia sanitaria. È quanto afferma il giudice tutelare di Modena, nel nominare amministratore di sostegno il marito della donna con lo specifico compito di dare attuazione alla volontà «lucidamente e inequivocabilmente espressa dall'interessata», che non le venga praticata la ventilazione forzata e la tracheostomia «all’atto in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della persona, l’evolversi della malattia imponesse la specifica terapia salvifica».
Questo provvedimento dimostra, una volta di più, che già esistono nel nostro sistema gli strumenti per dare attuazione ai diritti fondamentali della persona. Il fatto che il Parlamento non riesca a fare (buone) leggi sui temi “eticamente sensibili” non impedisce ai giudici di utilizzare le risorse già disponibili. Una legge, se verrà approvata, potrà disciplinare in modo più analitico le direttive anticipate, ma, questo è il messaggio importante che ci viene da Modena, già oggi ciascuno di noi è un po’ più libero, un po’ più padrone di se stesso.
Università di Genova Consulta di Bioetica

l’Unità 30.5.08
In Italia sono 60 i bambini sotto i 3 anni che vivono in carcere con le mamme
Il mondo dei piccoli dietro le sbarre
di Federica Fantozzi


Un portone nero si apre, una ragazza in cappottino spinato lo varca. Dietro trova murales di fiori, Cenerentole e Dumbo. È un mondo a parte, quello dei bambini che vivono in prigione con le mamme detenute. Piccolissimi: a 3 anni vengono «scarcerati». Sono 60 in Italia, 20 nella sezione femminile di Rebibbia a Roma.
Di questi si è occupata la ragazza col cappottino: Luisa Betti, giornalista, autrice della video-inchiesta «Il carcere sotto i 3 anni». Immagini di bambini vivaci, timidi, prepotenti come Sabrina che non vuole far sedere l’amichetta, sfrontati: come ti chiami? «Al Capone a due anni». Testimonianze di mamme, giovanissime, autrici di piccoli reati ma anche espressione di disagio sociale: «Cosa do da mangiare a lui - una ragazza indica il neonato in braccio - Non ho lavoro. Vado a rubare. Per forza». In maggioranza rom e immigrate: a 30 anni hanno 7-8 figli, e il padre, da solo, non è in grado di gestirli. Eugenia Fiorillo è un’educatrice del nido creato a Rebibbia: «Finché il bimbo è qui la relazione con la madre è salvaguardata. Ma i fratellini più grandi sono fuori, c’è una separazione». Lacerante e sempre viva nei cuori materni.
È la domanda centrale: meglio che un piccolino stia con la madre in un ambiente ostile o viva in libertà senza la sua mamma nei primi anni di vita? Giovanni Bollea, neuropsichiatra infantile, intervenuto alla presentazione del documentario, non ha dubbi: «Ho grande rispetto per la giustizia, ma il bambino è sacro. Genitori, giudici, padreterno: tutti devono fare i conti con lui». Bollea parla di «diritto primitivo», vorrebbe le mamme ai domiciliari o almeno i bimbi fuori fino a sera: «I loro occhi non esprimevano felicità né speranza, solo sofferenza anche se la mamma li prendeva in braccio».
Emilio Di Somma, vicecapo del Dap, fa i conti con l’amara realtà: «Per lo Stato, la giustizia, la sicurezza, la burocrazia, un bambino non è protagonista ma un accidente. È un dramma affrontato periodicamente con aggiustamenti e palliativi». Gabriella Pedote, vicedirettrice di Rebibbia, è una giovane donna dall’aria gentile e appassionata, con due figli piccoli: «Conosco le storture del sistema ma sono orgogliosa del nostro asilo. Cerchiamo di non ferire troppo nè mamme né bimbi. Non è giusto che crescano in carcere, ma ne approfittiamo per far crescere le detenute come madri».
Tra le voci dell’inchiesta c’è Lucia Zainaghi, direttrice di Rebibbia, che spera in più flessibilità dei magistrati: «Ora la misura del lavoro esterno è prevista anche per accudire i figli». Eppure, i margini di incertezza sono tanti. La detenzione domiciliare è discrezionale. La casa famiglia è un sogno. Occorre coniugare diritti dei minori e sicurezza: «Si può essere madre e fior di delinquente» sintetizza Di Somma.
Una brutta pagina è quando una mamma, preoccupata perchè il figlioletto ha la febbre alta, non viene creduta e dà in escandescenze. «E’ stata trattata da squilibrata, per fortuna l’ospedale ha rifiutato il ricovero coatto. Ogni madre sa capire se qualcosa non va, è l’istinto». La storia di Barbara è triste e assurda: in carcere da 6 mesi per un reato commesso 10 anni fa, da tossicodipendente. Intanto si è rifatta una vita, ha due figlie: Aurora, di 4 anni, a casa col padre; Gaia, 2, con lei. «È cambiata, confusa, mi chiede dov’è la sorella». Barbara ottiene i domiciliari, ma al primo giorno di asilo tarda mezz’ora e glieli revocano: «Sono venuti a prendermi e hanno sbattuto la porta in faccia ad Aurora. Io l’ho riaperta, ho salutato mia figlia. Poi, andando via, ho sentito il pianto».

Corriere della Sera 30.5.08
Gianni Guido affidato ai servizi sociali. La madre: «Ha pagato»
Fuori dal carcere un assassino del Circeo
di Fabrizio Caccia


ROMA — Anche dopo quella notte di fine settembre 1975, la notte del massacro del Circeo, Angelo Izzo ha continuato a fare il massacratore. Andrea Ghira, invece, è finito sepolto a Melilla, nel cimitero dei legionari spagnoli. Solo di Gianni Guido non si era saputo più nulla. Ma ecco la novità: dall'11 aprile è «affidato ai servizi sociali».
Quindi Gianni Guido non è già più un «detenuto». Dopo il lavoro, cioè, non deve tornare in carcere. La sera rientra nella casa dei genitori (a due passi dalla Nomentana) e dorme nel suo letto. Secondo il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap), finirà di pagare del tutto il suo conto con la giustizia tra poco più di un anno, nell'agosto 2009.
Ma intanto è un uomo libero. E non è poco.
Oggi Guido ha 52 anni e gli ultimi 14 li ha passati in cella, ha studiato, si è laureato in Lingue e Letterature Straniere e non ha mai voluto farsi intervistare da nessuno. Il papà Raffaele e la mamma Maria avrebbero preferito ovviamente che la notizia non trapelasse. In cuor loro, è naturale, vorrebbero tanto che questa storia venisse dimenticata per sempre. Ora temono, invece, lo scatenarsi di nuove polemiche, nuovi veleni.
«Mio figlio ha pagato. E comunque non sarà facile rifarsi una vita alla sua età - sospira la signora Maria, discendente di un'importante famiglia di armatori napoletani Noi di sicuro in tutti questi anni non l'abbiamo mai abbandonato ». «Cosa farà Gianni dopo aver espiato fino in fondo la sua pena? Non importa - aggiunge il padre, altissimo dirigente Bnl ora in pensione C'è qui la sua famiglia, ci siamo noi. La famiglia, secondo me, è l'unico posto dove un detenuto possa riuscire a reinserirsi. L'unica vera comunità di recupero, chiamiamola così, per chi esce dal carcere».
Nel momento in cui parliamo con gli anziani genitori, seduti nel salotto di casa, la sensazione fortissima, condivisa da un testimone, è che ci sia anche il figlio, Gianni, presente in una stanza attigua. Papà Raffaele, gentilissimo ma inflessibile, non consente però altre domande.
Dall'11 aprile, dunque, Gianni Guido è diventato uno dei 450 «affidati» (ma prima dell'indulto erano dieci volte di più) in carico all'Ufficio di esecuzione penale esterna di Roma e Latina. Del feroce terzetto che quella notte assassinò Rosaria Lopez e pensava di averlo fatto anche con la sua giovane amica, Donatella Colasanti, soltanto di lui si erano perse in qualche modo le tracce. Nel maggio '94, questa l'ultima notizia disponibile, fu catturato dalla squadra speciale del ministero dell'Interno (Digos, Ucigos e Interpol) a Panama, dove viveva sotto falso nome, quello di Claude Daniel Ibrahim Laurian, con tanto di passaporto libanese. Dopo l'estradizione, infine, fu rinchiuso a Rebibbia.
Il 29 luglio 1976, dopo sette ore di camera di consiglio, i giudici di primo grado condannarono all'ergastolo Izzo, Guido e Ghira (l'unico latitante) per il massacro del Circeo. Le femministe presenti in aula esultarono. Giovani, belli e dannati. Ricchi e spavaldi, fanatici di destra («Ci sentivamo cavalieri in guerra», disse una volta Izzo per descrivere la follia che li animava).
Solo Guido, in appello, ottenne la riduzione e se la cavò con 30 anni. Ma da quel momento, per l'ex studente del San Leone Magno, compagno di classe di Izzo nell'istituto privato più esclusivo di Roma, iniziò un'altra vita, altrettanto pericolosa, fatta di fughe e clandestinità. Nell'81 evase dal carcere di San Gimignano. Due anni dopo fu arrestato in Argentina. Nell'85, dal penitenziario di Buenos Aires, nuova evasione. Poi sei anni di buio, più nessuna traccia.
Finchè il 23 novembre del '91 arriva a Panama, con un nome falso e un passaporto libanese pieno di visti. Ad attenderlo ci sono personaggi influenti. Il 2 dicembre in uno studio notarile costituisce una società finanziaria. Ma è solo una copertura, la società in realtà non opera sul mercato però gli serve per ottenere un permesso di residenza e il porto d'armi.
Quindi, Guido si trasferisce a La Chorrera, sulla carretera interamericana in direzione del Costa Rica. Abita in una casa bassa, non ancora ultimata che ha a fianco quattro capannoni per l'allevamento di migliaia di polli. Ormai, però, gli investigatori italiani sono sulle sue tracce. Hanno captato una telefonata tra il padre e un alto prelato del Vaticano. Il monsignore usa un linguaggio misterioso: «La mamma sta bene». Poi salta fuori anche un estratto conto con movimenti di denaro consistenti. La sua latitanza dorata termina il 28 maggio 1994.
Oggi non c'è più, purtroppo, Donatella Colasanti a cui chiedere un commento su tutta questa storia. Donatella morì a 47 anni, il 30 dicembre 2005, per un tumore al seno. L'ultimo sopruso ricevuto dalla vita. Quando seppe che Izzo, nell'aprile 2005, aveva ammazzato nelle campagne di Mirabello Sannitico, vicino Campobasso, anche Maria Carmela Linciano e sua figlia Valentina, appena una bambina, la superstite del massacro di 30 anni prima tuonò contro la giustizia: «Perché Izzo non era in carcere? Perché la semilibertà?». Aveva scritto per anni al Csm, a tutti i ministri della Giustizia, chiedendo duri interventi per i responsabili. E invece ecco l'unica risposta che aveva avuto: altre due donne seppellite in un campo.
«Ma Gianni non è come Izzo », è l'ultima cosa che dicono i genitori di Guido, prima di salutarci. E lo dicono convinti, quasi protestando, anche se sanno che ormai la partita è chiusa. E tutti in fondo hanno perso.

Corriere della Sera 30.5.08
Benedetto XVI. Un sostegno esplicito a Palazzo Chigi che gela la sinistra
di Massimo Franco


Le parole impegnative scelte da Benedetto XVI sono già un viatico per il nuovo governo. Ma vanno analizzate insieme con l'annuncio, arrivato ieri, dell'udienza che il Papa concederà a Silvio Berlusconi il 6 giugno prossimo. È questa doppia lettura a fornire una cornice completa dei rapporti che la Santa Sede ritiene di costruire con il centrodestra. Si sapeva che il presidente del Consiglio voleva incontrare il Pontefice prima della visita a Roma di George Bush, in programma l'11 giugno: al punto che aveva bussato alle porte del Vaticano subito dopo le elezioni e prima ancora di ricevere l'incarico di formare il governo. E si era parlato di una discussione nella cerchia di Benedetto XVI sull'opportunità di rinviarla un po'.
Ma la contemporaneità fra il discorso alla Cei e l'udienza al premier dice che il Papa ha scelto di appoggiare la scommessa berlusconiana. Sia i consensi ricevuti dal Pdl il 13 aprile, sia i primi passi all'insegna del dialogo con l'opposizione rappresentano una cesura rispetto al precedente governo. Le tensioni accumulate con l'Unione di Prodi sui temi etici, e la scelta di candidati radicali nelle liste del Pd hanno lasciato un'ombra che Benedetto XVI finisce per sottolineare. E favoriscono la strategia di Berlusconi agli occhi di un Papa solidamente conservatore.
Eppure, perfino su questo sfondo i toni usati ieri suonano irrituali. Dire che si avvertono «con particolare gioia i segnali di un clima nuovo, più fiducioso e più costruttivo»; e avallare «il profilarsi di rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni», lasciano indovinare la volontà di investire su questa fase. Di più: il Papa appare determinato ad assecondare il tentativo di «risolvere insieme almeno i problemi più urgenti e più gravi». È come se si iscrivesse al «partito» di quell'unità nazionale tacita che cerca di prendere corpo in nome dell'emergenza. L'altro aspetto vistoso, infatti, è l'allarme che arriva da oltre Tevere per la situazione italiana.
Per la Santa Sede fa testo l'inquietudine manifestata dal presidente della Cei, Angelo Bagnasco. Il Papa ha ricordato il senso di insicurezza crescente «per le condizioni di povertà di tante famiglie »; ed insistito su un'«emergenza educativa» che la Chiesa cattolica tende a legare ad un sostegno inadeguato «all'impegno delle istituzioni ecclesiastiche in campo scolastico». Di fatto, si tratta dell'agenda che il Vaticano propone a palazzo Chigi in cambio di un sostegno non d'ufficio. È un'apertura di credito condizionata dagli sviluppi di quella che il sottosegretario Gianni Letta ieri ha continuato a definire «un'avventura difficile».
Perfino sull'immigrazione clandestina, tema controverso nel mondo cattolico, il Pontefice evita l'appoggio acritico a chi è incline a condannare l'approccio del governo. Nel richiamo ad aiutare gli stranieri «nel rispetto delle leggi» si coglie un'eco del «patto di cittadinanza» chiesto da Bagnasco «mettendo in chiaro diritti e doveri». Evidentemente, anche nelle gerarchie ecclesiastiche si avverte l'esigenza di integrare gli immigrati; ma di rispondere in parallelo alla richiesta di sicurezza dell'opinione pubblica. Un dettaglio emblematico: il silenzio pesante col quale fino a ieri sera l'opposizione aveva accolto le parole di Benedetto XVI.

Corriere della Sera 30.5.08
Il senatore dalemiano: crea inquietudini il rapporto con il potere
Latorre: attenti all'«uso» della religione
di Maria Teresa Meli


ROMA — Attenzione all'«uso politico» della religione e della Chiesa: a lanciare quest'allarme è Nicola Latorre, dalemiano, vicecapogruppo del Pd al Senato. A creare delle «inquietudini» nell'esponente del Partito Democratico non è tanto l'apprezzamento che il Papa ha fatto del clima politico che si è creato dopo le elezioni vinte da Silvio Berlusconi, quanto il rischio che comportano i rapporti tra Chiesa e potere.
Senatore, c'è chi dice che Benedetto XVI abbia fatto una sorta di «endorsement » nei confronti di questo governo.
«Commetteremmo un grave errore leggendo il discorso del Pontefice in una chiave tutta politica. Non si può forzare il pensiero del Papa: sarebbe un errore».
Ma non può negare che le sue parole suonano come un apprezzamento di Berlusconi.
«Non si può derubricare il suo discorso a una dichiarazione di appoggio a questo governo. Sostanzialmente ha sottolineato l'importanza di questo clima politico «nuovo », «legato al profilarsi di rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni». E' una cosa auspicabile: il Pd, e non da oggi, si adopera perché il confronto politico sia sempre ispirato alla correttezza e alla serietà, il che non significa in alcun modo rinuncia a far valere le proprie ragioni o fare sconti alla maggioranza».
Che succede, dopo le parole pronunciate dall'ex ministro degli Esteri a Marina di Camerota, i dalemiani hanno deciso di fare retromarcia?
«No, ricordo solo che il Pontefice ha parlato della necessità di "una sana laicità", della lotta alla povertà e all'ingiustizia sociale, dell'immigrazione... Tutti temi su cui abbiamo delle convergenze. Anche se ci sono alcune divergenze».
Quali?
«In un passaggio del suo discorso il Pontefice sostiene che "occorre resistere a ogni tendenza a considerare la religione, e in particolare il cristianesimo, come un fatto soltanto privato". Questa frase ripropone la riflessione di D'Alema sul rapporto tra Chiesa e potere, che ha suscitato tanto scalpore. Se la Chiesa fa un uso politico della religione, se supporta l'ideologia dell'Occidente, rischia, come ha evidenziato D'Alema, di ridimensionare il discorso religioso ».
Insomma, secondo lei quelle parole fanno tornare alla mente il patto demoniaco della Chiesa con il potere evocato da D'Alema a Marina di Camerota. Patto demoniaco... non le sembra un'esagerazione?
«Il rapporto tra religione e potere è ed è stato oggetto di discussione e di grandi inquietudini innanzitutto nel mondo cattolico: da monsignor Coda, presidente dei teologi italiani fino a don Giussani, che non era né un fiancheggiatore di Italianieuropei né un radicale laicista. Le cito un passo di un libro di don Giussani per essere ancora più chiaro: "Quello che abbiamo detto prima sul potere vale come un aspetto vertiginoso per l'autorità come potrebbe essere vissuta nella Chiesa. Se essa non è paterna, e quindi materna, può diventare sorgente di equivoco supremo, strumento subdolo e distruttivo in mano alla menzogna, a Satana padre della menzogna". E allora non capisco il perché di tante polemiche attorno a quella frase di D'Alema sul patto demoniaco. Non spaventa l'ortodossia ma l'uso politico dell'ortodossia».
Ormai sono sempre più rari i politici del Pd che dicono qualcosa di laico.
«I valori della laicità dello Stato sono un punto fondamentale. D'altra parte il Pd, che è impegnato a ridefinire l'impianto politico culturale riformista, dovrebbe farlo proprio nel quadro della laicità. E comunque il tema dei rapporti tra religione e politica, di questi tempi, non è più delegabile solo ai cattolici ma anche al pensiero laico ».
Nelle file Pd c'è molto imbarazzo su questi argomenti. C'è il timore di apparire come degli anticlericali. Timore che evidentemente D'Alema e voi dalemiani non avete.
«Segnalare questo problema dell'uso politico della religione non significa assumere una posizione anticlericale».

Corriere della Sera 30.5.08
Luciano Canfora: «Guevara ormai è soltanto un gadget Chi usa spranghe ha il cuore a destra»
di E. Mu.


MILANO — «Che Guevara non è un'icona di sinistra. La sua immagine ha travalicato la consapevolezza ideologica per entrare nel mito generico, non sempre poi amatissimo dalla sinistra. Basti pensare che a definirlo uno "stratega da farmacia" fu il comunista Giorgio Amendola ». Filologo classico, storico e saggista, Luciano Canfora all'equiparazione tra violenza metropolitana e leggenda rivoluzionaria proprio non ci crede.
Dario Chianelli si è costituito per l'assalto ai tre negozi del Pigneto e ha dichiarato: «Non chiamatemi razzista, ho il Che tatuato sul braccio, io sono di sinistra».
«Chi usa spranghe per farsi giustizia è politicamente un violento e il suo cuore batte sicuramente a destra nonostante dichiari il contrario».
Un gioco a mescolare i simboli?
«Sì, nella destra estrema che si autoproclama rivoluzionaria c'è questo uso costante. Non a caso, ad esempio, occhieggiano con molta simpatia ai palestinesi perché sono rimasti antisemiti e approfittano del momento attuale in funzione antiebraica ».
Ma allora perché Chianelli ha voluto insistere sul tatuaggio?
«Non mi impressiona affatto che una persona politicamente immatura lo abbia esibito come prima cosa».
Quindi il Che non è più appannaggio della sinistra?
«A differenza della svastica, da sempre usata unicamente in una sola direzione, il Che è un gadget: una maglietta, un poster, un simbolo a circolazione turistica e commerciale usato da più fronti. L'eroe solitario e perdente, diventato un richiamo a carattere etico, al quale qualche frangia di destra può anche guardare con simpatia».

Corriere della Sera 30.5.08
Anpi Le celebrazioni si terranno a Gattatico dal 20 al 22 giugno
E Cossutta lancia la Festa dei partigiani: mai una via Almirante
di Monica Guerzoni


ROMA — Non sono ancora stanchi di lottare per la libertà, vogliono che la memoria della Resistenza non si spenga e così i partigiani italiani hanno deciso di passare il testimone ai giovani. Dal 20 al 22 giugno si terrà a Gattatico, Reggio Emilia, la prima festa nazionale dell'Anpi e il luogo — il Parco del Museo Cervi, dove vissero i sette fratelli Cervi trucidati dai nazifascisti — dice già molto. L'idea è venuta agli «eredi» di una lunga storia di passione civile e demo-cratica, cioè ai ragazzi sui quali l'associazione ha investito per non morire, per assicurarsi un futuro di testimonianza.
È con una certa emozione che Armando Cossutta, partigiano nelle Brigate Garibaldi, lancia l'iniziativa nella sala stampa di Montecitorio alla presenza di Giuliano Vassalli, presidente emerito della Consulta ed ex partigiano anche lui. E dice, Cossutta, che la memoria va tenuta viva oggi più che mai, in giorni di «attacchi contro quei principi e quei valori ». A preoccupare l'ex presidente del Pdci non sono soltanto «gli atti violenti, le aggressioni di stampo fascista, nazista e razzista», ma anche la «crescente campagna di revisionismo culturale e storico». Cossutta ritiene «francamente ipocrita» l'idea di una riconciliazione nazionale «senza verità» e sospetta un disegno politico per «screditare e delegittimare la grande epopea della Resistenza antifascista e della guerra di Liberazione nazionale». La polemica su Giorgio Almirante ancora non si spegne e Cossutta, pur senza nominarlo, condanna con forza e sdegno l'idea «politicamente inaccettabile» e «moralmente offensiva» di intitolargli una strada di Roma, città Medaglia d'oro della Resistenza: «Un uomo politico che non è stato semplicemente un esponente della Prima Repubblica ma fucilatore di partigiani e sostenitore del razzismo...».
La prima Festa partigiana si deve anche all'impegno di Maria Cervi, figlia di uno dei sette fratelli uccisi, che per due anni — fino all'improvvisa scomparsa un anno fa — ha lavorato con i giovani dell'Anpi per dare vita all'iniziativa.
Lungo e autorevole l'elenco delle adesioni, da Veltroni a Ciampi, da Epifani a Diliberto, da Ingrao a Rodotà passando per Nichi Vendola e Franco Giordano. La colonna sonora? «Bella ciao», ovviamente.

Corriere della Sera 30.5.08
Una storia complicata
Rom, che cos'è il pane per il popolo senza terra
di Predrag Matvejevic


In alcune regioni i rom formano la maggioranza dei mendicanti ma non godono di alcuno di quei privilegi che solitamente vengono concessi alle cosiddette maggioranze. Faticano a dichiararsi rom per non esporsi ai sospetti, all'avversione dell'ambiente in cui vivono, al disprezzo e perfino alle persecuzioni. La parola
zingaro è diventata offensiva; per questa ragione essi stessi e i loro amici evitano di pronunciarla. Un volta non lo era... Intanto per molti europei, e italiani — come Claudio Magris ha ricordato sul Corriere
lunedì 26 maggio — fanno più paura della mafia o della camorra, benché in confronto a quel tumore sociale i disagi che recano possano paragonarsi tutt'al più a un raffreddore.
I rom hanno vissuto la loro Shoah. Spesso si dimentica che furono uccisi a decine di migliaia nei campi di sterminio nazisti, insieme agli ebrei. Il loro modo di vivere non è vietato dalla legge, ma sono sottoposti a stretti controlli. Questo capita in varie epoche storiche, in diversi Paesi. Non si sa con esattezza quanti siano i rom residenti in ciascuno Stato. Sappiamo però che in alcuni sono numerosi, soprattutto nei Balcani orientali. Ma un numero ancora più consistente di essi è «sempre in cammino ». Chissà da dove vengono o dove vanno; ignoriamo se partano o tornino.
In Europa ce ne sono più di dieci milioni. Se si mettessero insieme formerebbero una popolazione più numerosa di quella di una mezza dozzina di Stati del nostro continente. Non hanno un proprio territorio né un proprio governo. Hanno tutti un Paese natale, ma non una patria. Sono parte del popolo in mezzo al quale vivono, ma non di una nazione. Non sono neppure una minoranza nazionale: sono transnazionali.
Arrivarono dall'Asia, sono discendenti di popolazioni dell'India settentrionale. Fin dai remoti tempi dell'esodo, si distinguevano per tribù. Attraverso la Persia, l'Armenia, l'Asia Minore, videro e impararono come si fa il pane. Questo cibo elementare, peraltro, non era sconosciuto ai loro lontani antenati.
Hanno portato con sé dall'antica terra natia alcuni nomi propri, fra cui quello di
rom. Altri gli sono stati attribuiti da gente a loro estranea. Il termine zingaro deriva del greco athinganos. Gli slavi del Sud li indicano con il termine iganin, tsigan, tsigo; in Gran Bretagna li chiamano gipsy da egytios, anche in Spagna, «per il colore bruno della loro pelle ». Sono detti anche maneschi, sinti, gitani, boemi. Un poeta croato di Dubrovnik, intitolò «Jeupka» — vale a dire «Egiziana» — un suo poema che ha per protagonista una bella rom.
Gli uomini si dedicavano spesso all'arte del fabbro, lavorando i metalli, costruendo attrezzi agricoli, coltelli e spade, ferrando i cavalli; all'allevamento e al commercio degli equini; alla musica suonando chitarre o violini per rallegrare o consolare gli innamorati, gli infelici e gli ubriachi. Le «belle zingare» cantavano, danzavano e seducevano (in alcune regioni lo fanno ancora). E fanno le indovine, senza dimenticare l'«arte» antichissima dell'accattonaggio, tirandosi dietro per mano, attaccati alla gonna, o portati in braccio i loro bambini.
Nella mia terra natale i rom sembravano essere più numerosi che altrove. Da ragazzo mi univo spesso a loro. I miei genitori mi rimproveravano, temevano che gli «zingari» mi rapissero portandomi via chissà dove (correvano voci di rapimenti). Ma nessuno mi ha mai fatto del male; invece, ho imparato dai rom molte cose utili. Essi apprendono facilmente le lingue, forse più degli altri. Ignoro se nella loro vita di erranti riescano a conoscere la felicità, ma certamente sanno come si può essere meno infelici. Essi mi hanno aiutato ad ascoltare e annotare parte del racconto che qui espongo.
I rom hanno diversi termini per indicare il pane; il più frequente è marno che diventa poi manro, maro e mahno nelle varianti. La farina è arho, un nome che nella romanichila, la lingua dei rom, non ha il plurale. E la cosa, forse, non è casuale. Il lievito si dice humer, la fame è bok, essere affamato è bokhalo: queste ultime due parole, sono di uso abbastanza comune. Ch'alo (si pronuncia: cialo) è sazio, panif è l'acqua, jag è il fuoco, lonm è il sale; mangiare si dice hav che è infinito e presente insieme. Conoscendo la povertà, la penuria e la ristrettezza, circondati da tante cose ma privati quasi di tutto, i rom sanno ben distinguere ciò che è pulito (vujo) e quel che è sporco (mariame) non soltanto nel cibo, ma anche negli usi e costumi.
Non si servono di ricette scritte su come si fa il pane o come si prepara qualsiasi altro cibo, ma conservano e si tramandano una lunga tradizione orale che passa di madre in figlia, di generazione in generazione. Il loro modo di vivere non gi permette di servirsi di forni per il pane, ma una focaccia si può cuocere anche sulle ceneri del focolare e la pitha (una specie di pizza) su una piastra di semplice latta. Sapeste come sono saporite le pagnotte e le focacce dei rom!
Nei loro proverbi sul pane c'è molta saggezza. Ne ho annotati alcuni nella lingua originale e li riporto perché se ne senta il suono; li ho poi tradotti per renderli più comprensibili.
Kana bi e ciorhe marena marnesa, vov bi lengo vast ciumidela: «Se il povero venisse bastonato con il pane, egli bacerebbe la mano di chi lo colpisce ».
O marno sciai so o Develni kamel thai so a thagar nasc'tisarel: «Il pane può fare quello che Iddio non vuole e che l'imperatore non riesce a fare».
Kana bi ovela ne phuo marno savorenghe, ciuce bi ovena vi e khanghira vi e krisa: «Se vi fosse pane sufficiente per tutti in questo mondo, le chiese e i tribunali sarebbero deserti».
Te si marne thei nai biuze, na bi trebela rugipe: «Se ci fosse il pane e non ci fossero i furbi, le preghiere sarebbero inutili ».
O bokhalo dikhel suno e marne, o barvalo dikhel suno pe sune: «L'affamato sogna il pane, il ricco sogna i propri sogni ».
Una giovane zingara, allattando il proprio bimbo al seno, mi recitò quanto trascrivo di seguito, nella sua lingua: una breve canzone dedicata al pane. Me la tradusse persino. Il titolo è « Marno », semplicemente: «Pane». I voghi e iag giuvdarel, / i pani o arko bairarel. O humer i dai longiarel / thai peske ilesa gudgliarel, gudlo thai baro te ovel, / pire c'havoren te ciagliarel.
Ed ecco la traduzione, purtroppo senza la fisarmonica e il tamburello: «Il soffio ravviva il fuoco, / con l'acqua si gonfia la farina. / La mamma versa il sale nella pasta, / la insapora con l'anima sua / perché il pane sia dolce e abbondante / e nutra i suoi bambini».
L'uomo non nasce mendicante, ma lo diventa. E non lo diventa soltanto per volontà propria. L'accattonaggio è l'ammonimento agli uomini veri e alle fedi sincere: a quelli chiamati a dare il pane a ciascuno, a coloro che non dovrebbero dimenticare la carità. Le armi e le guerre costano molto di più del pane. Gli antichi profeti consigliarono, invano, di sostituire la lancia con il vomere. I rom non possiedono terre da arare. Ed oggi è per loro più facile mendicare, e talvolta, anche un po' rubare. Domani, forse, non sarà più così. «Non dovrebbero essere così» dice il vecchio zingo, come una volta lo chiamavano nei Balcani, usando termini vezzeggiativi.
Traduzione di Giacomo Scotti

Corriere della Sera 30.5.08
Donne fatali. Da Marie Duplessis a Lola Montez, le cortigiane viste da Giuseppe Scaraffia
Eros & potere: il catalogo delle belle e traviate
di Annamaria Andreoli


Marie Duplessis, la «Signora delle camelie», è la più celebre di una folta schiera di prostitute d'alto bordo che il secondo Ottocento farà brillare nel cielo del mito. Parigi, la capitale del secolo borghese, del secolo dell'industria, degli affari e del perbenismo, ha prodotto questo genere di divinità maledetta quale indispensabile valvola di sfogo: è il piacere che trionfa sul dovere, la bellezza sull'utile.
Di quella schiera di traviate, Giuseppe Scaraffia, assiduo frequentatore dell'Ottocento francese, offre alcuni ritratti che guardano però oltre il mito ( Cortigiane. Sedici donne fatali dell'Ottocento, Mondadori). Tutte bellissime, le sue mondane leggendarie usano la testa non meno del corpo per condurre alla rovina i più rispettabili gentiluomini. Al pari degli agenti di borsa esse sanno determinare la propria quotazione puntando sul valore simbolico dell'eros e diventando così, non a caso, protagoniste indiscusse della moda, dello charme e del lusso, contagi quanto mai immateriali a dispetto della merce che vendono. Un bisticcio di parole, coniato da Baudelaire, è il loro monito: «Per adorare bisogna dorare » (ovvero ricoprire letteralmente d'oro), dato che non è desiderabile se non ciò che si paga a caro prezzo.
I medaglioni di Cortigiane contengono un fuoco di fila di battute che sono altrettanti motti di spirito: segno che la femme fatale è qui chiamata in causa direttamente, attraverso memoriali e carteggi, al di fuori dell'ottica di parte maschile a cui si deve l'elaborazione del mito — Alexandre Dumas figlio in testa. Lola Montez o Marguerite Bellanger, Alice Ozy o Léonide Leblanc appaiono, oltre che allegre, accorte e lungimiranti. Donne libere, soprattutto, antesignane dell'emancipazione, le prime a lottare contro i segni dell'invecchiamento, a praticare lo sport e la dieta per conservare la linea. Spesso poi si sposano, e il matrimonio non è per calcolo con qualche decrepito babbeo facoltoso, ma, scelgono riamate un aitante e ricco rampollo di buona famiglia. Anche se fortuita, la morte precoce della tisica Marie Duplessis sembrò invece ai benpensanti il giusto destino sacrificale di ogni prostituta perché il tragico epilogo metteva in salvo la morale borghese. Esclusa la possibilità del riscatto, il mito poteva dunque prosperare, tant'è vero che le mondane si chiameranno «perdute » come i cavalieri erranti dei tempi remoti. Scaraffia le proietta piuttosto nel futuro per ritrarle come «dive» già capaci di servirsi della pubblicità e del feticismo, attrezzi del mestiere che collaudano al riparo della volgarizzazione novecentesca. Se un mito permane è solo quello, condiviso da Proust, della Belle Époque spazzata via dalla prima guerra mondiale.
Marie Duplessis è una delle protagoniste del libro di Giuseppe Scaraffia «Cortigiane», (Mondadori, pp. 288, € 18)

Repubblica 30.5.08
No pasaran. Il leader dei Radicali punta il dito anche contro le fiction sui santi
Pannella: questo Vaticano non ha senso della misura
di Goffredo De Marchis


Il disco pontificio suona la stessa musica a volume sempre più alto. Sommessamente mormoro il mio ‘no pasaran´ e ‘non praevalebunt´

ROMA - Onorevole Pannella, il Papa s´interessa, e lo benedice, anche al dialogo tra gli schieramenti. Non è il sintomo di un´ingerenza della Chiesa ormai a tutto campo?
«Direi che questo semmai è un sintomo minimo, un semplice auspicio quasi di senso comune, più di che di buon senso. E dargli valore significa distrarsi dall´essenziale. La notizia è che il disco pontificio continua a ripetere a volume sempre più alto la solita musica. Io sommessamente mormoro il "no pasaran" e il "non praevalebunt"».
All´intervento di sostegno alle scuole cattoliche invocato da Ratzinger, il Partito democratico deve opporsi o cercare anche in questo caso un confronto con i cattolici, con la Chiesa?
«C´è davvero un problema culturale molto preciso: accettare lo stesso principio del dialogo con i cattolici in quanto tali significa uscir fuori dalla storia civile e religiosa italiana ed europea per rinchiudersi nel ghetto di una cultura clericale da una parte e assolutamente a-liberale, a-laica dall´altra. Il cattolico in quanto tale non va individuato politicamente ma per il suo specifico, la sua fede, la sua libertà di coscienza e di religione. Non come membro di una comunità politica che teorizza e pratica una visione integralista della società e dello Stato».
Ma il Pd cerca disperatamente la sintesi tra laici e cattolici come suo elemento costitutivo e identitario.
«La sintesi professata e ricercata fra cattolici e democratici e laici è una impostazione di per sé destinata a fallire. Il problema non è quello della sintesi fra gli opposti ma, politicamente, scegliere tra questi opposti. Come fra dittatura e democrazia, fra libertà di coscienza e il suo contrario, cioè la pretesa assolutista e anti-relativista. Questa ricerca di sintesi quindi è fra due referenti sbagliati ed evocativi di un modo di intendere valori laici e valori religiosi estranei alla storia della democrazia in tutto il mondo.
È giusto aspettarsi invasioni vaticane meno di buon senso e più pericolose in futuro?
«Vede, quando il messaggio televisivo è totalmente occupato da un potere che viene riconosciuto come una vera e propria religione di Stato non c´è che da prendere atto che ogni giorno lo stesso potere vaticano perde completamente il senso della misura e vive una crisi di identità che lo trasporta indietro di secoli e manifesta una situazione italiana nella quale confluiscono affluenti della storia di un Paese che ha dato al mondo nientedimeno che il fascismo e il più forte partito comunista in un paese democratico durante il periodo stalinista. Quindi fascismo, comunismo e la controriforma ingrossano il fiume in piena di un´Italia in cui non c´è diritto e non c´è democrazia».
Ma i laici sembrano nascondersi, sbandano, non si fanno sentire.
«Stiamo raccogliendo il frutto di due decenni di propaganda massacrante di stampo antiliberale. Voglio fare l´esempio non solo dei telegiornali e del loro assoggettamento al potere vaticano, ma anche della fiction televisiva. Negli ultimi due-tre anni sono passati soprattutto personaggi legati alla Chiesa, preti e "santi". Penso all´ultimo don Zeno, a Padre Pio, a tanti altri. Non è facile recuperare terreno rispetto a questo retaggio».

Repubblica 30.5.08
Ma perché la sinistra dovrebbe vincere?
di Giorgio Ruffolo


Più ci penso più mi convinco che la ormai evidente crisi della sinistra (parlo soprattutto di quella europea) è dovuta, molto più che a gravi errori politici, pure evidenti, a fattori culturali e morali.
In una intervista ripubblicata da Lettera Internazionale, la bella rivista diretta da Federico Coen e Biancamaria Bruno, Cornelius Castoriadis ricordava che i filosofi politici di oggi «ignorano alla grande l´intima solidarietà tra un regime sociale e il tipo antropologico necessario per farlo funzionare».
È un fatto che nel nostro tempo, diciamo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è profondamente mutato non soltanto il regime sociale (la struttura della economia e delle classi sociali) ma anche il «tipo antropologico» rappresentativo della società. Della prima mutazione i partiti della sinistra (parlo dei grandi partiti «riformisti») si sono, anche se a stento, accorti e hanno tentato di adeguarsi, prevalentemente in modo passivo, e cioè subendo l´iniziativa di un capitalismo vittorioso. Non hanno invece neppure percepito la seconda, il profondo mutamento culturale che la accompagna e che determina i cambiamenti dell´umore politico e del comportamento elettorale.
Parlo di cambiamenti che si rivelano più con manifestazioni apolitiche e apparentemente irrilevanti, ma significative del modo di sentire e di pensare; dei valori esistenziali; degli "attrattori" del comportamento: tutte "spie" di mutamenti antropologici.
Nell´ultimo mezzo secolo, certo, la natura umana profonda, quella che contraddistingue le caratteristiche strutturali costituenti della specie, è cambiata di poco. Essa cambia sì, ma assai lentamente nello spazio dei millenni, anzi dei milioni di anni. Le caratteristiche culturali, che riguardano i comportamenti estrinseci, cambiano invece radicalmente e talvolta rapidamente. Chi potrebbe dire che l´Uomo medievale o l´Uomo del Rinascimento sono vicini al nostro modo di considerare la vita? (con sorpresa constatiamo, talvolta, che ci è molto più vicina la cultura degli antichi romani! il che prova che la nostra non è una evoluzione lineare).
Ora: un cambiamento antropologico radicale è intervenuto tra la società occidentale dell´Ottocento e della prima metà del Novecento e quella attuale. Quella accoppiava un forte materialismo progressista e scientifico con una altrettanto perentoria esibizione di valori etici trascendenti (Dio, Patria, Famiglia); un accoppiamento che ne costituiva insieme la contraddizione e la forza. Questa ha abbandonato la fede nelle magnifiche sorti e progressive ripiegando dal materialismo progressista allo psicologismo scettico; e al tempo stesso ha annegato i valori trascendenti, cui tributa una deferenza sempre più formale e superstiziosa, in una esplosione di edonismo e di egoismo davvero trascendentale. Il che la rende, magari, più coerente, ma intrinsecamente più vulnerabile.
La forza attrattiva della sinistra stava nella sua decisa denuncia delle contraddizioni della società borghese; della sua ipocrisia e della sua ingiustizia: dell´impossibilità di coniugare i suoi valori trascendenti esibiti, con la pratica della sopraffazione e dello sfruttamento. La sinistra di oggi si trova di fronte a classi dirigenti che, grazie al formidabile progresso tecnologico, non hanno più bisogno sistematico di sfruttamento del lavoro (sebbene questo sia tutt´altro che scomparso) essendo in grado di produrre masse enormi di beni di consumo. Viene meno dunque, almeno in parte, la sua missione di denuncia dello sfruttamento del lavoro. Si ingigantisce invece lo sfruttamento della natura, praticato in cambio di utilità sempre più frivole e al costo di distruzione di risorse irreversibili. D´altra parte, le nuove classi dirigenti rinunciano a presentarsi come portatrici di valori trascendenti per identificarsi con quelli decisamente immanenti dell´edonismo materialistico. Sul terreno economico, la virtù ascetica del risparmio è sostituita dalla incentivazione pubblicitaria dell´incontinenza consumistica; e l´ammirazione per i grandi imprenditori costruttori per quella dei grandi maghi speculatori. Di fronte a questa vera e propria conversione a U del vangelo capitalistico, la sinistra, da una parte si trincera combattendo un capitalismo che non c´è più; dall´altra, manca di percepire le nuove contraddizioni del nuovo capitalismo: che sono soprattutto ecologiche e morali.
Ecologiche: l´insostenibilità di una economia basata sul consumo del capitale naturale: una distruzione chiamata crescita.
Morali: l´orientamento della potenza creatrice della tecnica verso le finalità frivole del consumo, anziché verso la realizzazione di una società più giusta, di bisogni collettivi più urgenti, di scopi culturali realmente trascendenti.
La sinistra, da una parte, quella "radicale", recita un vecchio copione inattendibile. Dall´altra, quella "riformista", insegue una rispettabilità politica basata sull´imitazione di un modo di produzione irresponsabile e di un modo di consumo immorale. Perché, in tali condizioni, dovrebbe essere in grado di contrastare efficacemente i richiami edonistici della destra e di acquistare consensi senza essere in grado di esprimere una alternativa economica ed etica alla deriva ecologica e morale, Dio solo lo sa.

Repubblica 30.5.08
Se la politica invoca dio
La crisi della società secolare
La lezione di Gustavo Zagrebelsky a Bologna


Secondo alcuni sarebbe finito il movimento storico che in cinque secoli ha portato l’Occidente a distinguere Stato e religione: ma è un problema tutto da discutere
Il clericalismo ateo è la forma odierna di una duplice corruzione
La Rivoluzione francese fu considerata opera del demonio fuor di metafora

Pubblichiamo alcune parti della lezione di per la serie "Elogio della politica" diretta da Ivano Dionigi

Le discussioni sul rapporto religione politica, non solo in Italia ma in generale nel mondo, sono contrassegnate da un atteggiamento che si potrebbe definire, con una contradictio in adiecto, come sociologia normativa. Si procede dalla descrizione delle condizioni de facto della società (sociologia) e da questa descrizione si ricavano conseguenze de iure (norme): da quello che succede a quello che è giusto che succeda.
Si constata un intreccio crescente tra poteri pubblici e autorità religiose. Il primo chiede sostegno alle seconde e le seconde al primo, ciascuno per la propria utilità. I rispettivi confini si fanno evanescenti. La politica manifestamente cerca l´appoggio della religione e la religione l´appoggio della politica. La "secolarizzazione", il movimento storico che in cinque secoli ha portato l´Occidente a distinguere tra politica e religione e a fondare lo Stato su ragioni immanenti, non teologiche, sarebbe alla fine. Saremmo entrati cioè nell´epoca della "post-secolarizzazione". La ragione di questo rinnovato intreccio starebbe nel fallimento della pretesa della "ragione secolare" di fondare il governo dell´esistenza, la comprensione del suo significato e la sua salvaguardia su forze morali e scientifiche proprie, cioè esclusivamente umane. Questo fallimento dimostrerebbe l´insensatezza di quella pretesa. La parabola storica che, dall´umanesimo, cioè dalla centralità e signoria dell´essere umano nell´universo, ha condotto alla sovranità popolare si starebbe per concludere con un tracollo.
A distanza di due secoli, dovremmo riconoscere che avevano ragione i critici della Rivoluzione, la rivoluzione che aveva preteso di rovesciare la base del potere, dalla grazia di Dio alla volontà popolare, e per questo fu considerata, non per metafora, opera del demonio. Da ciò deriverebbe la necessità di orientare di nuovo la vita politica al trascendente, tramite un rinnovato "appello al cielo". Dio e ciò che su Dio si appoggia nella storia, cioè religione e apparati chiesastici, siano chiamati, come deus ex machina, a superare l´impasse in cui, per il nostro orgoglio smisurato, ci saremmo cacciati. Da qui, la necessità di rivedere l´idea tramandata di laicità che abbiamo recepito dal passato e di adeguarla (ecco la "nuova laicità" di cui si parla) alle odierne condizioni delle nostre società.
Questo modo di ragionare è un insieme di proposizioni indimostrabili e contestabili e che non si legano affatto l´una all´altra. È cioè una serie di aporie che nascondono, nel migliore dei casi, salti logici e auto-illusioni; nel peggiore, inganni.
(a) Innanzitutto, questi argomenti ci trasportano in un´atmosfera che, a considerarla dappresso, appare intrisa di un certo spirito apocalittico e messianico. «Ormai solo un dio ci può salvare», è l´esclamazione di Martin Heidegger, entrata ormai nel nostro comune modo di pensare. Questa speranza è solo un modo per esprimere un atteggiamento nichilistico, cioè la rassegnazione di fronte a ciò che si ritiene inevitabile. Chi potrà mettere un freno all´effetto-serra? Un dio o l´applicazione del trattato di Kyoto sulle emissioni di gas nell´atmosfera? Chi potrà arrestare lo sfruttamento delle risorse agricole dei popoli del terzo e quarto mondo? Un dio o una politica adeguata del WTO?
(b) Se non "un dio", potrebbe essere "il Dio" di una religione positiva questo deus ex machina capace di proteggerci dallo sviluppo incontrollato della tecnica e dalle sue tendenze sociali distruttrici, ancorando la nostra visione del mondo a un principio d´ordine metafisico, sottratto al nostro arbitrio? La risposta positiva a questa domanda sembra ovvia. Dio è la fonte di atteggiamenti religiosi che coincidono con il riconoscimento dell´esistenza di un limite a protezione del sacro, sottratto a manipolazioni profane. La coscienza del sacro darebbe origine a quella forza interiore di governo delle pulsioni distruttrici, che è beneficamente orientata alla coesione sociale e ai comportamenti altruistici.
Ma è davvero così ovvio? Non mi pare. La storia insegna che il "sacro", come le religioni, sono un immenso deposito di forza. Ma è una forza ambigua, che può orientarsi a fini opposti, benefici o malefici; verso l´amore del prossimo o l´odio e l´oppressione del diverso; per la pace ma anche per la guerra; per la comprensione ma anche per l´incomprensione reciproca; per atteggiamenti modesti e moderati, ma anche arroganti e superbi; per il rispetto del creato ma anche per il suo sfruttamento intensivo.
(c) Se non a Dio, in generale, forse al Dio cristiano, di cui ci ha parlato Gesù di Nazareth, potremmo forse rivolgerci? Ricordo il senso in cui formuliamo questa domanda: lo scopo è di trovarvi una forza per il governo della società, cioè rivolgerci al cristianesimo come a una "religione civile". Davvero possiamo noi stravolgere l´insegnamento evangelico fino a farne qualcosa di simile a un manuale per il buon cittadino? Davvero possiamo trasformare Gesù di Nazareth, che, nel deserto, respinse la tentazione diabolica del potere, che fuggì sul monte quando lo si voleva proclamare re, che di fronte alla morte, non propose a Pilato un compromesso di comune utilità ma rivendicò una regalità di tutt´altra natura; davvero possiamo trasformarlo in maestro di virtù civili? La domanda suona di per se stessa assurda, ma lo è di meno se si considerano le resistenze che la gerarchia ecclesiastica, di recente per esempio in Spagna, ha opposto all´introduzione nella scuola di attività laiche di educazione alla cittadinanza, per riservare a sé, cioè alla dottrina cattolica, questa funzione. Il celebre passo di Paolo (Rom 13, 1-2): «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c´è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi, chi si oppone all´autorità, si oppone all´ordine stabilito da Dio», non sembra giustificare il commento della Bibbia di Gerusalemme: «In questo modo la religione cristiana penetra, oltre che la vita morale, la stessa vita civile». Il dovere incondizionato di obbedienza dei cristiani, infatti, non autorizza affatto a dire che la fede in Cristo si confonde (penetra) nel potere civile e così contribuisce a legittimarlo. Sembra significare, in certo modo, il contrario: obbedite comunque, fino a sopportare la persecuzione, in modo da potervi dedicare integralmente alle opere e alla testimonianza della fede. Solo quando l´ordine di Cesare contraddice la parola del Cristo, rendendo impossibile il suo ascolto, allora occorre obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini (Atti, 5, 29).
Da nessuna parte, pare, si autorizza l´uso della fede cristiana per rafforzare - come anche d´altra parte per indebolire - l´autorità del potere civile. I cristiani «risiedono ciascuno nella propria patria, ma come stranieri»; «partecipano a tutti gli oneri pubblici, [non come cristiani, ma] come cittadini». La distinzione, che così chiaramente è posta nella Lettera a Diogneto, equivale a condannare ogni uso civile della religione cristiana. E, invece, nelle alte sfere ecclesiastiche, è stata accolta con soddisfazione, quasi come un meritato riconoscimento e non come un affronto, come ci si sarebbe aspettati, l´affermazione recente di un Capo di Stato che dà atto che per un governante è buona cosa avere a che fare con cristiani timorati di Dio, dove il timor di Dio si traduce in speciale fedeltà e malleabilità politiche; dove la "buona Novella" diventa instrumentum regni.
D´altro canto, si può comprendere che l´autorità politica abbia interesse ad assicurarsi l´appoggio della religione. E si comprende ch´essa, per raggiungere lo scopo, sia disposta a concederle i più larghi privilegi, simbolici e materiali. La "ragion di Stato" lo consiglia e il governante accorto non si lascerà sfuggire l´occasione: «Tra tutte le leggi non ve n´è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de´ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri», diceva Giovanni Botero (Della Ragion di Stato, 1589, libro II, «Modi di propagar la religione»). In tal modo, però, sarà lo Stato a "penetrare" nella religione e la Chiesa, accarezzata nei suoi bisogni materiali e blandita nel suo desiderio di onori e ricchezze, perderà la sua libertà. Così come la perderà lo Stato, in cambio dell´appoggio della Chiesa. Il clericalismo ateo è la forma odierna di questa duplice corruzione, alla quale concorre il tangibile interesse tanto della parte ecclesiastica quanto di quella civile.

L'espresso 30.5.08
Patologie e business. Malati molto immaginari
di Enrico Pedemonte


La timidezza che diventa fobia sociale. La vivacità che diventa sindrome da iperattività. La caduta del desiderio che diventa nevrosi... E tutto per produrre nuove pillole e terapie. La denuncia di un guru Usa
colloquio con Christopher Lane

Una volta si diceva: "È timido e intelligente", e i due aggettivi erano affiancati per descrivere un bambino educato e sensibile. "Ai tempi di mia madre", racconta Christopher Lane, professore di Letteratura alla Northwestern University: "La timidezza era considerata una forma di intensità tranquilla, di lodevole reticenza e capacità introspettiva. Poi le cose sono cambiate, e la timidezza si è trasformata in un problema".

Come questo sia successo Lane lo racconta in un libro appena pubblicato: ('Shyness: How a Normal Behauviour Became a Sickness': timidezza, come un normale comportamento è diventato una malattia) che dimostra con una meticolosa analisi storica come gli interessi economici dell'industria dei farmaci e quelli di una categoria professionale (gli psichiatri) si siano saldati e siano riusciti a modificare in modo radicale la cultura collettiva e i comportamenti delle famiglie. Grazie anche a due alleati formidabili: il mondo del marketing e quello dei media. Lo abbiamo intervistato.

Professor Lane, com'è successo che la timidezza è diventata una malattia?

"La storia comincia nel 1980, quando viene pubblicata la terza edizione del 'Manuale di diagnostica e statistica delle malattie mentali', la Bibbia degli psichiatri. Fu allora che vennero introdotte nuove malattie, per esempio la 'fobia sociale' o il 'disturbo evitante di personalità', che però furono definite in modo così generico da includere anche reazioni comuni come la timidezza".

Come nacque questa scelta?

"Gli psichiatri responsabili del 'Manuale di psichiatria' erano convinti che nelle vecchie edizioni le definizioni di alcuni comportamenti fossero imprecise, con troppi termini, tratti dalla psicologia e dalla psicoanalisi, che gli psichiatri americani non amavano. Soprattutto un termine freudiano come 'nevrosi'. Gli psichiatri americani volevano azzerare l'influenza culturale di Freud e della psicoanalisi per spingere la psichiatria verso la neuro-psichiatria".

Eliminare la parola 'nevrosi' era così importante?

"Cancellando il linguaggio delle nevrosi si mette l'enfasi sulla malattia, e si sposta il focus dalla mente al cervello. In questo modo le sofferenze vengono descritte più come effetto di squilibri chimici nel cervello che di conflitti psicologici o stress ambientali nella mente delle persone. E le pillole prendono il posto delle terapie legate alla parola".

Che ruolo ha avuto l'industria farmaceutica?

"C'è un legame stretto tra aziende e psichiatri. Le prime sponsorizzano gli esperimenti clinici, i secondi sono spesso riluttanti a diffondere i risultati negativi per l'industria. Recentemente il 'New England Journal of Medicine' ha pubblicato uno studio che dimostra come le ricerche divulgate abbiano distorto o esagerato per 17 anni gli effetti di certe medicine. Sto parlando di molte pillole per combattere depressione e ansia".

Sono farmaci dannosi?

"La Glaxo Smith Kline, un'azienda britannica, ottenne l'approvazione del Paxil (in Europa si chiama Seroxat), nel 1996, per ogni tipo di 'ansia sociale' (social anxiety disorder). Si tratta di un farmaco che ha parecchi effetti collaterali, crea dipendenza e può avere conseguenze gravi. È una situazione assurda, perché ci sono milioni di persone che soffrono di ansie limitate e che prendono un farmaco con effetti collaterali gravi, inclusa l'ansia cronica".

Colpa del marketing?

"Il marketing ha giocato un ruolo importante. Quando gli psichiatri inserirono l'ansia sociale tra le patologie, aprirono le porte alle compagnie farmaceutiche che cominciarono a promuovere l'esistenza di questa nuova malattia e a incoraggiare la gente ad analizzare i propri comportamenti e le proprie emozioni per capire se ne soffrivano".

Lei accusa gli psichiatri americani di avere medicalizzato problemi di routine come l'ansia di parlare in pubblico...

"Recentemente ho parlato con Robert Spitzer, che era il capo degli psichiatri che compilarono il 'Manuale'. Gli ho contestato che la definizione di ansia sociale ha causato un eccessivo consumo di farmaci, specie da parte dei bambini. Mi ha risposto di essere consapevole che c'è troppa gente trattata per questo disturbo, anche quelli che sono affetti da semplice timidezza, ma che l'ansia sociale è un disturbo serio, e che gli psichiatri conoscono bene la differenza tra ansia sociale e semplice timidezza".

Lei cosa gli ha risposto?

"Se si analizza la letteratura psichiatrica si capisce che la distinzione tra questi due disturbi è quasi impossibile da definire. Parecchi esperti sostengono che i sintomi dei due disturbi sono quasi identici. È disonesto dire che si possono distinguere. È disonesto non sottolineare i possibili effetti collaterali di certi farmaci utilizzati. A dicembre una bambina di quattro anni del Massachusetts è morta per overdose psichatrica. Le erano stati dati degli antipsicotici. L'ospedale ha avviato un'inchiesta e il primario psichiatra ha dovuto ammettere con qualche imbarazzo di avere sotto cura almeno 955 bambini sotto i sette anni che prendono lo stesso farmaco di cui è morta quella bambina. Come siamo arrivati al punto in cui così tanti bambini piccoli prendono farmaci psichiatrici così seri per problemi che spesso sono normali comportamenti nella fase dello sviluppo?".

Ebbene?

"Se si guarda con attenzione alla definizione di 'ansia sociale' si scopre che i sintomi comprendono l'ansia di mangiare da soli al ristorante, il timore che ci tremi la mano quando firmiamo un assegno, o il desiderio di evitare i gabinetti pubblici. Cose normalissime. È successo qualcosa di assurdo ed estremo nella psichiatria americana. La fiducia in questi farmaci ha eclissato qualunque senso delle proporzioni".

L'industria farmaceutica si sta inventando altre malattie?

"Il prossimo 'Manuale di psichiatria' dovrebbe essere pubblicato nel 2012. Ci sono pressioni per introdurre nell'elenco delle patologie da curare anche l'apatia, l'abuso di Internet, lo shopping eccessivo. Un'altra malattia possibile è 'l'infelicità cronica indifferenziata' che si riferisce alle persone che appaiono generalmente tristi e melanconiche. C'è stato persino chi ha proposto 'la malattia della lagnanza cronica' (Chronic Complaint Disorder) che riguarda chi passa il tempo a lamentarsi del tempo, delle tasse e della propria squadra che ha perso. Per fortuna questa proposta è stata respinta, ma già il fatto che sia stata discussa la dice lunga sul clima culturale esistente. Siamo alla farsa".

Nel libro lei sostiene che la psicofarmacologia ha successo perché promette la perfezione, come la chirurgia plastica...

"L'enfasi sulla perfezione aumenta le sofferenze individuali perché le aspettative crescono ed è impossibile soddisfarle. È una tendenza che andrebbe fermata".

Nel libro lei suggerisce che la fede nei farmaci nasce dal fatto che molti hanno elevato lo scientismo al rango di una religione.

"La scienza ci offre spiegazioni sempre più meccanicistiche di che cosa significa essere umani. Ci spinge a credere che se riusciamo a identificare un problema in modo scientifico si possa trovare una soluzione rapida sotto forma di un farmaco. Il linguaggio stesso usato dai neuropsichiatri ci spinge a pensare che, se una persona ha uno squilibrio chimico nel cervello, questo possa essere corretto da una pillola. Si tratta di una fantasia che evita ogni discussione sugli effetti collaterali e sulle conseguenze impreviste in termini di alterazione della personalità. Ci viene fatto credere che il cervello è un meccanismo talmente semplice che può essere corretto in poco tempo con una pillola ogni volta che si incontra un problema. Questa cultura suggerisce che la neuropsichiatria possa evitare l'infelicità e la sofferenza. Molti neuropsichiatri mostrano un atteggiamento messianico quando parlano del loro lavoro, e quando spiegano come si può intervenire sullo sviluppo dei bambini per salvarli da sofferenze future".

il Riformista 30.5.08
Seminario. Think tank alleati alla guerra sulle riforme istituzionali
D'Alema va alla carica del «modello lombardo»

In principio doveva organizzare solo la Fondazione Italianieruopei. Poi Massimo D'Alema ha chiesto di collaborare all'Astrid di Franco Bassanini e Giuliano Amato. Adesso lo schieramento dei think tank pronti a mettere la firma sul seminario per le riforme istituzionali in preparazione per giugno, alla cui preparazione sta lavorando lo storico Roberto Gualtieri, è un elenco ben nutrito e trasversale di pensatoi: Arel, Istituto Sturzo, Fondazione Basso, Centro per la riforma dello Stato. E non è detto che l'elenco sia finito qui.
La platea degli organizzatori è stata ampliata - su richiesta di Bassanini - per scongiurare un interpretazione dell'appuntamento tutta interna allo scontro di correnti nel Pd. Anche perché l'ordine del giorno si presterebbe non poco a una simile lettura. Sui tre temi in discussione - forma di governo, legge elettorale, riforma federale - il punto di partenza appare infatti distante dalla linea più o meno ufficiale del Loft. E in particolare è sull'ultimo punto che si annuncia battaglia, sia mettendo rigidi paletti sul federalismo fiscale, un dossier sul quale l'ala liberal del veltronismo è invece tentata di collaborare, sia contestando il «modello lombardo», che ha a sua volta incassato il placet di autorevoli dirigenti democrat .
Inoltre l'iniziativa nasce in dichiarata distonia con i progetti di stabilizzazione del bipartitismo Pd-Pdl e contro ogni ipotesi di varare la Terza Repubblica sulla base di soluzioni semipresidenziali o di premierato "forte". Quanto alla legge elettorale, l'orientamento maggioritario tra i soggetti che organizzano è per una soluzione di tipo tedesco che oggi, a differenza della scorsa legislatura, senz'altro non ha i numeri per sfondare in Parlamento. Ma più della conta vale il messaggio (a Veltroni): la leadership del Pd non ha il mandato per allargare a piacere i confini del dialogo con Berlusconi sulle riforme istituzionali.

Repubblica 30.5.08
L’agenda vaticana
di Giancarlo Bosetti


C´era una volta una istituzione del giornalismo italiano che si chiamava "nota politica". Consisteva in una analisi meticolosa, ricca di aggettivi e di formule rituali, delle dichiarazioni dei leader e si apriva di solito con qualche parola sulla "temperatura politica" che dava il tono della giornata, del tipo: «Più distese le relazioni nella maggioranza» oppure: «Si arroventa il confronto tra le correnti dc».
Il discorso del Papa di ieri fa venire in mente la prosa del notista politico che nei giornali non c´è più: «Segnali di un clima nuovo, più fiducioso e più costruttivo», «rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni». Il testo che fa da sintesi e termometro delle relazioni politiche è scomparso dai quotidiani, ma si riaffaccia al termine dei lavori della Conferenza episcopale italiana nelle parole del Pontefice.
In verità è l´insieme dei lavori della Conferenza episcopale che ci ricorda la cura nell´analisi della situazione "sociale e politica" che in altri tempi si trovava nella vita dei partiti e dei loro organismi. Le immagini televisive della assemblea dei vescovi, tutti ordinatamente sui loro scranni, chini sui fogli a prendere appunti mentre parla il cardinale Bagnasco, sono un unicum nella nostra vita pubblica. Le riunioni dei partiti sono dei festival con grandi cieli azzurri di cartone e folle vocianti come allo stadio. Oppure non si fanno per niente. Nessuno comunque prende mai appunti. I vescovi invece chiosano e dosano aggettivi (e forse anche "emendano" nel dibattito che non vediamo?) come accadeva nei comitati centrali del Pci o nei consigli nazionali della Dc. A pensarci bene, sono l´unico comitato centrale, l´unica Direzione sopravvissuta. Constatazione che merita riflessione nostalgica o ansioso disappunto, secondo si tema di più il declino della vita politica o il crescere di una aggressiva ingerenza ecclesiastica. E soprattutto: ultimo residuo dei vecchi tempi o preannuncio dei nuovi?
L´auspicio di «una nuova stagione di crescita» è abbastanza ecumenica da non sollevare riserve, ma le sollecitazioni sulla famiglia, la vita, il sostegno alle scuole cattoliche, l´immigrazione suonano come una lista di obiettivi politici pressoché completa preannunciata al governo alla vigilia di un incontro con il primo ministro, come si addice non più a un "notista", a un osservatore, e neppure a un think-tank, o a un gruppo di pressione che sieda al tavolo della concertazione, ma a una autorità investita (dall´Alto) della facoltà di dettare l´agenda. Le parole di ieri sono formulate come "auspici", ma seguono di pochi giorni un violento attacco alla legge sull´aborto, la 194, come una «ferita nelle nostre società», ferita aperta, dunque da rimarginare, da cancellare.
Non sorprende un richiamo ai valori cari alla Chiesa cattolica, scandalizza e viola le regole della laicità liberale che esso prenda la forma di un imperativo rivolto al potere politico, quasi si trattasse di un partito che abbia conquistato la maggioranza alle elezioni e si accinga a mettere in pratica il programma presentato in campagna elettorale. Con un implicito giudizio positivo sul risultato elettorale, Benedetto XVI sembra volerlo fare suo. Ma le due cose – giudizio e risultato – rimangono distinte. Le elezioni – piaccia o non piaccia come sono andate – non sono state affatto un plebiscito sui valori proposti dai vescovi italiani. L´esito si è se mai distinto proprio perché i temi che hanno scatenato forti divisioni tra cattolici e non (aborto, eutanasia, ricerca sugli embrioni) sono finiti ai margini, insieme alle liste che più ci avevano fatto conto, da una parte e dall´altra. Il segnale inviato dagli elettori è esattamente che chi ha vinto ha vinto e chi ha perso ha perso per ragioni diverse da quelle care alla Cei. Se poi si volesse sottilizzare, il successo leghista non depone a favore dell´etica caritatevole dell´accoglienza e dei ricongiungimenti famigliari degli immigrati. Al contrario.
Dunque non si vede su quale base riposi una presunta facoltà della Chiesa romana di dettare l´agenda. Il dialogo tra la fede e la ragione, tra credenti e non credenti in una democrazia liberale, come quello che Ratzinger ha proposto già dall´epoca del suo confronto con il filosofo Jürgen Habermas, nel 2004, si nutre di un reciproco rispetto tra laici e religiosi che richiede un intenso lavoro di "traduzione" del linguaggio religioso in linguaggio della "ragione pubblica". È una buona cosa che si possa ascoltare nella vita pubblica la voce di chi ha fede, buona anche per chi non crede. E può essere anche utile in una fase di mutismo dei partiti. Ma si tratta di un bene da gestire con prudenza, moderazione e con una attenta opera di "traduzione", tra sfera dei valori di fede e sfera dei valori democratici, che la Cei così irresistibilmente attratta dalle funzioni politiche, tende a dimenticare.
Tanta vicinanza della Chiesa all´agenda politica italiana (e solo questa?) è sospetta, specie nelle parole della sua guida più alta. Si tratta di una autorità spirituale planetaria e in questo modo, così legato a una singola locale bottega, non rischia di incoraggiare dei dubbi sulle dimensioni salvifiche e universali del suo messaggio? Il linguaggio delle note politiche di giornata e le analisi tendenziose del voto non si addicono a titolari di progetti bimillenari.