domenica 1 giugno 2008

l’Unità 1.6.08
Questi fantasmi
di Furio Colombo


In poche settimane l’Italia è peggiorata così rapidamente da indurre a chiederci: se questo è il passo della Repubblica sotto il presente governo, vuol dire che dovremo vivere nella paura? Parlo della paura come attesa, non come stato d’animo.
In brevissimo tempo abbiamo avuto uccisioni (Verona) ferimenti, pestaggi, aggressioni, l’incendio di campi nomadi, la fuga di gente disperata, donne e bambini cacciati e minacciati. Che sia di destra o no, tutto ciò è cominciato ad accadere dopo la clamorosa vittoria della destra. Chi vince può anche decidere di salire di un gradino per avere un orizzonte più largo, una capacità di decisione non legata al sentimento di vendetta e di rivincita. Ma invece di ingresso in un futuro un po’ meno claustrofobico, un po’ meno segnato dalle ossessioni e dai fantasmi di leader e di partiti che - per vincere - hanno giocato tutto sulla paura, si è deciso di continuare e rilanciare la paura come modo di governare. Tiene occupati i cittadini a dare la caccia agli stranieri. A Milano sono già cominciati i rastrellamenti degli immigrati sui tram. Li individuano (dalla pelle?) a uno a uno, poi li allineano sul marciapiede in attesa del cellulare, di fronte agli altri passeggeri che, probabilmente, provano vergogna o disagio.
Purtroppo sono stati di parola. Governano, isolati in Europa, in compagnia dei loro fantasmi, della loro antica ossessione di popoli da far vivere chiusi dentro i sacri confini, con ampolle di acqua fluviale, con giuramenti in costume da film di terza serie, con un protezionismo senza alcuna consapevolezza del mondo, sempre in cerca di qualche carro potente a cui agganciarsi e ubbidire (perché un vassallo cerca sempre un imperatore) e l’inflessibile mantenimento delle posizioni di rendita. In altri secoli erano terre, valli e ponti sorvegliati da torri e guardie armate. Adesso - con lo stesso spirito - è un grosso affare di televisioni private vigilate giorno e notte da fedelissimi deputati e senatori della Repubblica.
Ma fermiamoci per un momento a osservare il mondo di cui siamo parte, sia pure attraverso i vetri appannati e le finestre a feritoia dei nostri media.
Nel mondo è improvvisamente riapparsa la penuria di cibo, un dramma finora estraneo alla economia contemporanea, che sembrava invece essere fondata sull’abbondanza e lo spreco. È vero, c’era il problema della fame in intere aree del mondo che eravamo abituati a citare nobilmente riservandoci, in ogni convegno, di fare grandi interventi il prossimo anno, o in quello dopo.
La penuria diffusa, però, è un’altra cosa. Perché avviene simultaneamente dovunque, determina paurose impennate dei prezzi, provoca vaste macchie di improvvisa povertà anche in aree di ormai lungo e stabilizzato benessere.
La causa è in parte nota (dirottamento di prodotti alimentari dal naturale mercato alle nuove fonti di energia), in parte dovuta al drastico cambiamento del clima nel pianeta, in parte alla tragica decisione adottata simultaneamente nei Paesi “moderni”, di abbandonare l’agricoltura. In parte dall’arrivo - nel mondo del consumo - di nuovi consumatori.
Il mondo è sconvolto dal costo del petrolio, che continua a crescere dopo essere rapidamente decuplicato, e pone di fronte a una ambivalenza senza soluzione: oltre certi limiti non si può pagare.
Ma, qualunque sia il costo, non si può rinunciare. Per questo sale e continuerà a salire l’inflazione.
Il mondo vede due guerre che divampano, e altre che possono esplodere in ogni momento. Vede un contesto di tensione e di violenza internazionale in cui il fuoco passa vicinissimo al petrolio e l’instabilità minaccia in tanti punti diversi un equilibrio mai così precario.
Il mondo conosce tempeste finanziarie globali sottratte ad ogni controllo democratico, capaci di attraversare in un lampo luoghi lontani e sconnessi. Il crollo di un fondo di investimenti basato su mutui inesigibili in una provincia americana può svuotare il fondo pensioni pubblico di un Paese estraneo e lontano, in Europa o in Asia.
* * *
Nell’Italia di Berlusconi e di Bossi passeggiano i fantasmi. Un Paese moderno, sesta o settima economia del mondo, è ossessionato dalla minaccia dei Rom. Non milioni di Rom, che in Italia non esistono, ma appena 150mila persone, metà delle quali italiane, metà delle quali bambini. E metà degli adulti, donne. Dunque il pericolo incombente, in una delle grandi (o ex grandi) potenze del mondo, di sessanta milioni di cittadini dei nostri giorni, sono due decine di migliaia di uomini Rom, la maggior parte dei quali, come mostra qualunque statistica, non è dedita ad alcun crimine.
Ma la credenza - una credenza alimentata dal governo e da una parte non piccola di stampa e televisione - è identica al più squallido medioevo di isolati villaggi agricoli: i Rom rubano i bambini. Alcuni episodi di denunce, allarme, accuse, drammatiche narrazioni di tentati rapimenti di nostri bambini da parte di pericolosissimi zingari sono venuti uno dopo l’altro in pochi giorni. Ci sono stati arresti, persone sono state portate via con l’accusa più bizzarra, per una comunità carica di figli (ho già detto che la metà della esigua popolazione Rom italiana è composta di bambini). Ebbene, di quelle accuse, arresti, gravissime imputazioni di rapimento, nessuna notizia, nessuna conferma, è venuta. Soltanto un oscuro silenzio. Eppure non si tratta di un problema di indagini, poiché i fatti sono avvenuti in modo istantaneo, sotto gli occhi dei denuncianti, e sempre in luoghi pubblici e con altre persone presenti. Eppure le cronache dei migliori giornali - che non hanno esitato, almeno nei titoli paurosi e nei drammatici occhielli, a gridare “rapimento” - non hanno più nulla da dirci né voglia di sapere. Era vero?
* * *
Nell’Italia di Berlusconi si aggira e minaccia il Paese il fantasma del clandestino. Intendesi per clandestino un uomo, una donna, un bambino, che vive nel nostro Paese (perché è miracolosamente arrivato vivo dalla traversata in mare) e ci vive non per turismo ma per disperato bisogno. In questo Paese il clandestino lavora, quasi sempre nei mestieri peggiori, quasi sempre per una paga da fame, senza una casa che possa chiamarsi casa, senza cure o scuola (in molte città è proibito, o lo vogliono proibire) per i bambini. Dicono tutti gli esperti - dall’America all’Europa - che gli immigranti senza diritti producono ricchezza per il Paese ospitante. Nell’Italia di Berlusconi personalità di governo variamente disposte in posizioni chiave agitano pregiudizio, paura, antagonismo, odio, in una brutta formula primitiva che in politica funziona (porta voti) ma nella vera vita punta al linciaggio, da Verona al Pigneto. Spiegate pure ai morti e ai feriti che i picchiatori e i saccheggiatori dei loro negozi non erano iscritti al fascio. Immaginate il sollievo degli zingari di Ponticelli, dei familiari del ragazzo di Verona o degli aggrediti all’Università La Sapienza o dei cittadini del Bangladesh al Pigneto nell’apprendere che le sprangate non erano politiche, o che il mandante era Che Guevara.
Mentre il mondo è percorso dal brivido penuria-fame-petrolio-guerra-rischio di nuovo terrorismo, allarmanti scossoni ai più solidi edifici finanziari, l’Italia di Berlusconi introduce nelle leggi italiane 23 nuovi reati a carico dei clandestini e dei lavoratori immigrati (fonte: Il Sole 24 ore, 26, 27 maggio). Lo sguardo sfuocato dal provincialismo disinformato e dalla vista annebbiata della Lega xenofoba guida l’azione “decisionista” di un governo che - come certi giocattoli - sbatte e torna a sbattere contro muri che non vede.
* * *
Sono i muri di un provincialismo e di una autoreferenzialità soffocante che impediscono di percepire il mondo. Mentre l’Alitalia sta per scomparire dai cieli, ti annunciano all’improvviso, con una incosciente allegria da Titanic, il Ponte di Messina, opera gigantesca per cui non esistono disegni e studi di fattibilità e di (immenso, rovinoso) impatto ambientale. E non ci sono e non possono esserci i fondi.
Ti rispondono, con sorrisi fuori posto, che provvede la finanza privata. Sarà la stessa finanza privata che sta affollandosi per rilanciare febbrilmente la grande cordata nazionale e patriottica che salverà l’Alitalia?
Intanto sta per scatenarsi anche sull’Italia impoverita (è povera una famiglia su tre, la metà vive con poco più di mille euro) la più grande tempesta economica dal 1929, ci dicono, i più credibili esperti americani. Loro - il governo fuori dal mondo e dalla realtà e immerso in un cattivo teatro dell’assurdo - si presentano ad annunciare, senza il minimo senso della parole gravissime che stanno pronunciando, il nostro glorioso “ritorno al nucleare”.
Neppure economisti fantasiosi e disinvolti come Tremonti e Brunetta hanno provato a calcolare, sia pure per scherzo, una cifra, per esempio il costo di un abbozzo di progetto di un solo impianto nucleare. Nessuno ha provato a dirci in quanti anni (o decenni) un simile gigantesco investimento sarà compensato da costi minori dell’energia elettrica in Italia, rispetto al costo di oggi. Nessuno ha tentato, magari con una solenne dichiarazione da Napoli, di parlarci della gestione delle scorie.
In questo cupo teatro si aggiunge, perfettamente giustificata dal clima di irrealtà, l’offerta del Primo ministro Berisha. Dice: «Venite a fare i vostri nuovi impianti nucleari in Albania. Noi siamo pronti».
Ecco dunque il nuovo orizzonte di azione del governo fieramente decisionista: la repubblica nucleare d’Italia e di Albania, con Berlusconi capo indiscusso.
Accade però che, dopo aver fatto la faccia feroce a clandestini e immigrati, Berlusconi si impantani nell’immondizia di Napoli, benché abbia fatto di nuovo finta di risolvere il problema con “leggi speciali” (la definizione, tristemente esatta, è di Stefano Rodotà, La Repubblica, 27 maggio).
Il problema è drammatico e invoca soluzioni urgenti di adulti competenti.
Berlusconi ha portato a Napoli il suo miglior abito elettorale (spingere in là il problema per occupare da solo tutta la scena) ma tutto ciò che ha saputo fare è una legge che nega il federalismo, cancella Comuni e Regioni, circonda di Forze armate alcune zone del Paese (la Lega accetta perché a loro importa la secessione, non il federalismo, meno che mai nel Sud). E si blocca di fronte a un nodo maledetto che nessuno dei suoi ha studiato o capito. È vero, neppure i governi locali o nazionali del centrosinistra avevano saputo farlo. Ma questa realtà, allarmante e triste, non autorizza alla celebrazione di Berlusconi che “finalmente ha deciso”. L’immondizia continua. Continuerà.
Purtroppo lo squallido film del finto governo, delle finte decisioni, delle finte soluzioni che sono o illegali o impossibili (la cattiveria di governo, le ronde spontanee contro gli immigrati e i Rom sono l’unico segno della nuova era) è seguito da due comiche finali.
Una è quella, segnata dalla concitazione di gesti e di azioni dei film da ridere di un tempo, una concitazione tipica anche dei sofferenti di iperattivismo, e del ministro Renato Brunetta. È la “Festa del fannullone” in cui la finzione è evidente: il capro espiatorio si vede al primo sguardo (il capo ti rovina quando vuole, secondo le buone regole del mobbing, che - come tutti sanno - impediscono a qualcuno di lavorare). E l’intimidazione contro i medici che rilasciano certificati finti è roba forse vera e forse falsa, e non annuncia nulla se non disprezzo per chi lavora davvero e si ammala davvero. Infatti l’accusa ai medici non viene da una rigorosa inchiesta, ma dal sentito dire sul pianerottolo del condominio. In altre parole, come sempre nell’Italia della burocrazia, volano gli stracci e zompa chi può. Ve lo immaginate, in un clima improvvisato e superficiale di questo genere, come saranno bravi i dirigenti e i funzionari peggiori nel liberarsi di rompiscatole laboriosi che, per giunta, sono inclini a denunciare le complicità fra politica e burocrazia?
Però non è tutto. Il cambio di stagione non si apprezza, nella sua triste portata, se non si dice, e si ricorda, e si dovrà ricordare, che tutta la prima fase di lavoro alla Camera dei Deputati italiana è stata spesa nel tentativo della maggioranza di difendere gli interessi e gli affari di Mediaset e di Berlusconi (salvataggio sfacciato di Rete 4). Ha fatto blocco, nell’aula di Montecitorio, l’impegno del Partito democratico, dell’Italia dei valori di Di Pietro, e - questa volta - anche del gruppo di Casini, per impedire un simile uso immorale delle Istituzioni italiane.
Questa volta, almeno un poco, almeno in parte, l’opposizione ha vinto. Il vero punto segnato, però, è quello che tanti negano e di cui si fingono annoiati. È avere dimostrato che tutto continua, che non c’è alcun nuovo Berlusconi, che il conflitto di interessi esiste, cresce e, come un totem primitivo, è l’unica cosa salda e solida al centro del disastrato paesaggio italiano.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 1.6.08
Il nemico non è l’immigrato
di Rula Jebreal


Il mix è esplosivo. E si fa ormai fatica a capire che parte hanno l’intolleranza, il razzismo, l’odio politico, la giustizia fai-da-te nell’esplosione di violenza che da qualche giorno scuote il Paese dalle fondamenta. L’unico elemento comune che si trova all’origine di tutte le analisi che tentano di dipanare l’intricata matassa è il fallimento dello Stato, delle politiche che ha adottato, della Politica con la P maiuscola che ne ha guidato l’azione.
Vengono al pettine i nodi di tutte le contraddizioni prodotte dai continui compromessi che la politica ha accettato negli ultimi anni per governare fenomeni sociali molto complessi che avevano invece bisogno di essere affrontati con il massimo di trasparenza e di linearità. Quando il Capo della Polizia Manganelli dichiara l’impotenza delle forze dell’ordine e vede nell’azione della Magistratura un elemento di freno che vanifica gran parte del lavoro svolto; quando la Magistratura chiamata in causa risponde che non può sottrarsi all’applicazione letterale della legge e che non saremmo in uno Stato di diritto se l’azione giudiziaria si facesse strumento di una strategia operativa del governo, dobbiamo allora riconoscere che il Parlamento della Repubblica ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte e che ne è venuta fuori una situazione di stallo. Una condizione di immobilismo che gioca tutta a favore di chi, italiano o immigrato, è interessato a delinquere. In passato ho spesso denunciato l’incapacità degli uffici amministrativi a fare una selezione tra gli immigrati in base alla cultura, alla professionalità, alla condotta di vita, e mi sono lamentata di un livellamento verso il basso che produceva umiliazione e malessere nelle tante persone oneste e perbene che sono approdate in Italia da altri Paesi. Ora mi rendo conto di un secondo effetto, forse persino più grave, di questo atteggiamento: nel novero indistinto degli immigrati non c’è solo il mancato riconoscimento per i giusti; c’è anche un comodo rifugio per i delinquenti. Sono sinceramente dispiaciuta che la stampa non colga questa macroscopica anomalia e si faccia invece amplificatore di un giudizio che rischia di sovrapporre il fenomeno immigrazione al fenomeno delinquenza, senza capire che solo il riconoscimento di piena cittadinanza per gli immigrati, intesa nel senso di una comune condivisione dei diritti civili, può portare a enucleare gli aspetti di degenerazione illegale o addirittura criminale che fisiologicamente accompagnano le migrazioni di massa. In Italia il confronto tra il buonismo e l’ostracismo ha soppiantato ogni serio dibattito sul funzionamento delle strutture che devono separare le mele marce da quelle sane e garantire ai cittadini la necessaria e dovuta serenità. Tutto è stato ricondotto a una equazione tanto semplice quanto antistorica: per fermare la delinquenza bisogna fermare l’immigrazione. E ciò a dispetto delle statistiche che ci ricordano che ancora oggi oltre i due terzi di tutti i delitti sono commessi in Italia da italiani.
C’è da augurarsi che il nuovo governo sappia trarre le giuste indicazioni dalle esperienze e che coordinando le politiche della sicurezza, della giustizia e delle carceri possa restituire serenità alla popolazione, ritrovando anche il giusto ruolo dello Stato che ha il monopolio della forza e non deve aver bisogno di alcuna surroga. Su un diverso fronte mi aspetto l’avvio di una rigorosa politica di integrazione per gli immigrati che ponga anche requisiti severi ma che offra la possibilità a chi merita di sedersi a pieno titolo tra i cittadini degni di questo nome. Non ho dimenticato lo sforzo che fece il Ministro Pisanu con il suo progetto di Consulta e spero che questa strada venga ripresa con maggior vigore e porti ad attribuire responsabilità se non politiche almeno amministrative a immigrati che lo hanno meritato. Nessun segnale è oggi più importante per riportare sulla giusta rotta un’opinione pubblica che si è troppo sbilanciata verso l’adozione di un giudizio sommario sul fenomeno immigrazione, sollecitata da troppe frasi irresponsabili pronunciate nei palazzi della politica e, purtroppo, dal risalto asimmetrico e poco oggettivo che i media danno agli avvenimenti.
Dobbiamo insieme puntare l’indice contro la diffusa illegalità che in questo paese regna sovrana e ricostruire un sistema di regole che valgano per tutti senza privilegi e senza eccezioni di razza, di censo o di potere. Sta qui il punto debole del sistema, un peso insopportabile che esaspera la cittadinanza e che si trasforma invece nella condizione più favorevole per i malintenzionati. La ragione per cui il numero degli extra-comunitari che delinquono è in Italia superiore alla media europea.
Vengono al pettine i nodi di tutte le contraddizioni prodotte dai continui compromessi che la politica ha accettato negli ultimi anni per governare fenomeni sociali molto complessi che avevano invece bisogno di essere affrontati con il massimo di trasparenza e di linearità. Quando il Capo della Polizia Manganelli dichiara l’impotenza delle forze dell’ordine e vede nell’azione della Magistratura un elemento di freno che vanifica gran parte del lavoro svolto; quando la Magistratura chiamata in causa risponde che non può sottrarsi all’applicazione letterale della legge e che non saremmo in uno Stato di diritto se l’azione giudiziaria si facesse strumento di una strategia operativa del governo, dobbiamo allora riconoscere che il Parlamento della Repubblica ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte e che ne è venuta fuori una situazione di stallo. Una condizione di immobilismo che gioca tutta a favore di chi, italiano o immigrato, è interessato a delinquere. In passato ho spesso denunciato l’incapacità degli uffici amministrativi a fare una selezione tra gli immigrati in base alla cultura, alla professionalità, alla condotta di vita, e mi sono lamentata di un livellamento verso il basso che produceva umiliazione e malessere nelle tante persone oneste e perbene che sono approdate in Italia da altri Paesi. Ora mi rendo conto di un secondo effetto, forse persino più grave, di questo atteggiamento: nel novero indistinto degli immigrati non c’è solo il mancato riconoscimento per i giusti; c’è anche un comodo rifugio per i delinquenti. Sono sinceramente dispiaciuta che la stampa non colga questa macroscopica anomalia e si faccia invece amplificatore di un giudizio che rischia di sovrapporre il fenomeno immigrazione al fenomeno delinquenza, senza capire che solo il riconoscimento di piena cittadinanza per gli immigrati, intesa nel senso di una comune condivisione dei diritti civili, può portare a enucleare gli aspetti di degenerazione illegale o addirittura criminale che fisiologicamente accompagnano le migrazioni di massa. In Italia il confronto tra il buonismo e l’ostracismo ha soppiantato ogni serio dibattito sul funzionamento delle strutture che devono separare le mele marce da quelle sane e garantire ai cittadini la necessaria e dovuta serenità. Tutto è stato ricondotto a una equazione tanto semplice quanto antistorica: per fermare la delinquenza bisogna fermare l’immigrazione. E ciò a dispetto delle statistiche che ci ricordano che ancora oggi oltre i due terzi di tutti i delitti sono commessi in Italia da italiani.
C’è da augurarsi che il nuovo governo sappia trarre le giuste indicazioni dalle esperienze e che coordinando le politiche della sicurezza, della giustizia e delle carceri possa restituire serenità alla popolazione, ritrovando anche il giusto ruolo dello Stato che ha il monopolio della forza e non deve aver bisogno di alcuna surroga. Su un diverso fronte mi aspetto l’avvio di una rigorosa politica di integrazione per gli immigrati che ponga anche requisiti severi ma che offra la possibilità a chi merita di sedersi a pieno titolo tra i cittadini degni di questo nome. Non ho dimenticato lo sforzo che fece il Ministro Pisanu con il suo progetto di Consulta e spero che questa strada venga ripresa con maggior vigore e porti ad attribuire responsabilità se non politiche almeno amministrative a immigrati che lo hanno meritato. Nessun segnale è oggi più importante per riportare sulla giusta rotta un’opinione pubblica che si è troppo sbilanciata verso l’adozione di un giudizio sommario sul fenomeno immigrazione, sollecitata da troppe frasi irresponsabili pronunciate nei palazzi della politica e, purtroppo, dal risalto asimmetrico e poco oggettivo che i media danno agli avvenimenti.
Dobbiamo insieme puntare l’indice contro la diffusa illegalità che in questo paese regna sovrana e ricostruire un sistema di regole che valgano per tutti senza privilegi e senza eccezioni di razza, di censo o di potere. Sta qui il punto debole del sistema, un peso insopportabile che esaspera la cittadinanza e che si trasforma invece nella condizione più favorevole per i malintenzionati. La ragione per cui il numero degli extra-comunitari che delinquono è in Italia superiore alla media europea.

l’Unità 1.6.08
Parla Eric Hobsbawm. Se Karl Marx piace ai capitalisti
«Perché non possiamo non dirci marxisti oggi»
Il punto è accettare l’espansione mondiale delle forze produttive per poterle plasmare
di Marcello Musto


PARLA ERIC HOBSBAWM a 150 anni dalla stesura dei famosi Grundrisse di Karl Marx, l’opera chiave che preparò Il Capitale: «La crisi globale rilancia le analisi del capostipite del socialismo scientifico. E i capitalisti lo sanno...»

Eric Hobsbawm, «italianista», studioso di Gramsci, profondamente legato al nostro paese e alla cultura politica di sinistra del nostro paese, è considerato uno dei più grandi storici viventi.
È presidente del Birkbeck College (università di Londra) e professore emerito presso la New School for Social Research (New York). Tra i suoi molti scritti la trilogia sul «lungo 19° secolo»: L’età della rivoluzione: 1789-1848 (1962), L’età dell’impero: 1875-1914 (1987) e Il secolo breve, 1914-1991 (1994).

Professor Hobsbawm, a due decenni dal 1989 Karl Marx è tornato sotto le luci della ribalta. Nel corso di una conversazione con Jacques Attali lei ha detto che sono stati i capitalisti più degli altri a riscoprirlo e ha parlato della sua sorpresa quando l’uomo d’affari liberal George Soros le ha detto «ho appena letto Marx e c’è molto di vero in quello che dice». Quali sono le ragioni di questa riscoperta?
«Senza dubbio c’è una ripresa di interesse per Marx nel mondo capitalistico, ma il fenomeno non riguarda ancora i Paesi dell’est europeo che fanno parte dell’Unione Europea. Questa ripresa di interesse è stata probabilmente accelerata dal fatto che il 150° anniversario del Manifesto del Partito Comunista è coinciso con una crisi economica internazionale particolarmente drammatica nel bel mezzo di un processo di rapidissima globalizzazione dell’economia di mercato. Marx aveva previsto la natura dell’economia mondiale dell’inizio del 21° secolo, 150 anni prima in base alla sua analisi della “società borghese”. Non c’è da sorprendersi se i capitalisti intelligenti, in particolare il settore finanziario globalizzato, sono rimasti colpiti da Marx in quanto più consapevoli degli altri della natura e delle instabilità dell’economia capitalistica nella quale operavano. La maggior parte della sinistra intellettuale non sapeva più che farsene di Marx. Era uscita demoralizzata dal crollo del progetto social-democratico nel Paesi del nord Atlantico nel corso degli anni 80 e dalla conversione di massa dei governi nazionali all’ideologia del libero mercato nonché dal collasso dei sistemi politici ed economici che sostenevano di essersi ispirati a Marx e Lenin. I cosiddetti “nuovi movimenti sociali” come il femminismo non avevano alcun legame logico con l’anti-capitalismo (anche se i suoi membri presi individualmente erano schierati su queste posizioni) oppure non condividevano la fede nell’incessante progresso del controllo dell’uomo sulla natura che era stata condivisa sia dal capitalismo che dal socialismo tradizionale. Al tempo stesso il proletariato, diviso e indebolito, cessò di essere credibile come agente storico della trasformazione sociale. C’è da aggiungere che a partire dal 1968 i principali movimenti radicali avevano preferito l’azione diretta non necessariamente fondata su grandi letture o su una analisi teorica della realtà. Naturalmente ciò non vuol dire che Marx smetterà di essere considerato un grande pensatore classico, anche se per, ragioni politiche, specialmente in Paesi come la Francia e l’Italia che hanno avuto forti e influenti partiti comunisti, c’è stata una accesa offensiva intellettuale contro Marx e le analisi marxiste che ha toccato il momento di massima espansione negli anni 80 e 90. Ora secondo alcuni segnali questa offensiva dovrebbe aver esaurito il suo slancio».
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito alla crisi finanziaria in Asia orientale, alla crisi economica in Argentina e alla crisi dei mutui subprime iniziata negli Stati Uniti e diventata la più grande crisi finanziaria del dopoguerra. È giusto dire che la ripresa di interesse per Marx si basa anche sulla crisi della società capitalistica e sulla capacità di Marx di spiegare le contraddizioni profonde del mondo contemporaneo?
«Se in futuro la politica della sinistra sarà ancora una volta ispirata dall’analisi di Marx, dipenderà dall’andamento del capitalismo mondiale. Ciò vale non solo per Marx, ma per la sinistra nel suo complesso intesa come progetto e come ideologia politica coerente. E dal momento che, come lei ha detto giustamente, il ritorno di Marx si basa in larga misura sull’attuale crisi della società capitalistica, le prospettive sono più promettenti di quanto non fossero negli anni 90. L’attuale crisi finanziaria mondiale, che negli Stati Uniti potrebbe diventare una grave depressione economica, drammatizza il fallimento della “teologia” del libero mercato globale e incontrollato e costringe persino il governo americano a prendere in considerazione interventi pubblici come non avveniva dagli anni 30. Le pressioni politiche stanno già indebolendo l’impegno dei governi neo-liberali nei confronti di una globalizzazione incontrollata, illimitata e senza regole. In alcuni casi (Cina) le enormi disuguaglianze e ingiustizie causate dalla transizione verso una economia di libero mercato causano già grossi problemi alla stabilità sociale e sollevano dubbi persino ai vertici del governo. È chiaro che qualsivoglia “ritorno a Marx” sarà essenzialmente un ritorno all’analisi del capitalismo fatta da Marx e alla sua collocazione nell’evoluzione storica dell’umanità. Ivi compresa la sua analisi della inevitabile instabilità dello sviluppo capitalistico che procede per periodiche crisi economiche auto-generate che si riflettono sulla condizione politica e sociale. Nessun marxista poteva credere nemmeno per un momento che, come sostennero nel 1989 gli ideologi del neo-liberalismo, il capitalismo liberale avvrebbe vinto per sempre, che la storia era finita o che qualsivoglia sistema di relazioni umane potesse essere definitivo e immutabile».
Non ritiene che se le forze politiche e intellettuali della sinistra internazionale rinnegassero le idee di Marx perderebbero una guida fondamentale per l’esame e la trasformazione della realtà contemporanea?
«Nessun socialista può rinnegare le idee di Marx in quanto la sua convinzione che il capitalismo deve essere sostituito da un’altra forma di società si basa su una seria analisi dello sviluppo storico, in particolare nell’era capitalistica. La sua previsione che il capitalismo sarebbe stato sostituito da una sistema gestito o pianificato socialmente sembra ancora ragionevole anche se certamente Marx sottovalutò gli elementi di mercato destinati a sopravvivere in qualunque sistema post-capitalistico. Dal momento che si astenne deliberatamente dal fare previsioni sul futuro, non può essere ritenuto responsabile dei modi specifici in cui le economie “socialiste” furono organizzate nel socialismo reale. Per quanto riguarda gli obiettivi del socialismo, Marx non è stato solamente un pensatore che voleva una società senza sfruttamento e alienazione nella quale tutti gli uomini potessero realizzare appieno le loro potenzialità, ma espresse questa aspirazione con più forza di chiunque altro e le sue parole hanno ancora una notevole forza ispiratrice. Tuttavia Marx non potrà tornare ad essere di ispirazione politica alla sinistra fin quando non si comprenderà che i suoi scritti non vanno considerati programmi politici, autorevoli o meno, né descrizioni dell’attuale situazione del capitalismo mondiale, ma piuttosto guide per comprendere la natura dello sviluppo capitalistico. Né possiamo o dobbiamo dimenticare che Marx non arrivò ad esporre in maniera completa e sistematica le sue idee malgrado i tentativi di Engels ed altri di ricavare dai manoscritti di Marx un Capitale II e III. D’altro canto Marx non tornerà alla sinistra fin quando non verrà abbandonata l’attuale tendenza dei militanti radicali a trasformare l’anti-capitalismo in anti-globalizzazione. La globalizzazione esiste e, a meno di un collasso della società umana, è irreversibile. Tanto vero che Marx lo riconobbe come un dato di fatto e, da internazionalista, lo giudicò positivamente, almeno in linea di principio. Quello che egli criticò, e che anche noi dobbiamo criticare, era il tipo di globalizzazione prodotto dal capitalismo».

l’Unità 1.6.08
Che cosa sono quei complicati «Grundrisse»
Tecnica e borsa in quelle carte profetiche
di Bruno Gravagnuolo


Il testo che qui pubblichiamo è tratto da un volume che vedrà la luce quasi contemporaneamente quest’estate negli Usa, in Canada e in Cina e dedicato ai 150 anni dei Grundrisse di Karl Marx. Mentre la versione italiana uscirà all’inizio del 2009 per Carocci: I Grundrisse di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo. È a cura di Marcello Musto, giovane studioso presso la Fondazione Firpo di Torino, impegnato in lavori sull’opera di Marx e attualmente dedito a una monografia che ha per tema una nuova biografia di Karl Marx alla luce della nuova delle nuova edizione storico-critica delle sue opere (MEGA 2).
L’intervista ad Hobsbawm, di cui riproduciamo un ampio stralcio, è la prefazione al volume sui Grundrisse di cui sopra, opera collettiva che si vale di una batteria di autori internazionali, oltre allo stesso Musto. Tra i quali Terrel Carver, John Bellamy Foster, Iring Fetscher, Andreé Tosel, José Paulo Netto, Ljudmilla L. Vasina, Hiroshi Ucida, Mario Tronti, Jannis Milios, Moishe Postone e ancora. Perché i Grundrisse? Che cosa sono, e quale il loro valore? Presto detto. Sono il laboratorio di Karl Marx. L’arsenale teorico preparatorio da cui egli trasse il suo Capitale. Dunque il cuore pulsante delle sue idee scientifiche, nel momento in cui venivano affilate teoricamente e rese chiare alla mente del loro artefice. In pratica sono manoscritti che Marx stese a Londra nella seconda metà degli anni 50 dell’800 e conclusisi nel 1858. Culminati poi con la Critica dell’economia politica del 1859 e in seguito con la comparsa del primo libro del Capitale (1863). «Laboratorio-labirinto», alla fine del quale c’è la famosa Introduzione metodologica mai pubblicata del 1857 (ma edita da Kautsky nel 1903). Che consente di intendere la «storia vertebrata» di Marx». Storia «logico-storica», dove il presente capitalistico spiega «all’indietro» gli antecedenti «modi di produzione». All’insegna del dominio del Capitale che sottomette la rendita. E delle forme oggi divenute prevalenti: merce, lavoro salariato, denaro, plusvalore.
E però non c’è solo metodologia, in quell’arsenale preparatorio, scritto nel vivo di una crisi ieri come oggi globale dell’economia, da un Marx eroico, tormentato dai debiti e malato. Ci sono anticipazioni folgoranti. Sul nesso tecnica-natura. Sull’incorporarsi della tecnologia dentro il processo produttivo, che automatizza e rende «astratto» il lavoro. E lo consegna alle potenze impersonali della finanza e della borsa. Pensieri affascinanti. Non di ieri, ma di oggi. Addirittura di domani.

l’Unità 1.6.08
Correggio e il trionfo del corpo morbido
di Renato Barilli


LA GALLERIA BORGHESE ospita una mirabile mostra dedicata al genio emiliano, nato Antonio Allegri: una splendida serie di tele e disegni ne ricostruisce il percorso dai dipinti giovanili a quelli della maturità

Ho appena finito di tessere le lodi di Claudio Strinati, soprintendente del polo museale romano, che già un nuovo petalo egli aggiunge alla sua corolla. Si tratta della mostra dedicata al genio emiliano nato a Correggio, Antonio Allegri (1489-1534), una cui splendida serie di tele e disegni compare alla Galleria Borghese, a cura di Anna Coliva, nel quadro delle competenze che la Soprintendenza romana assegna ai suoi funzionari. Questo affascinante abbinamento tra i capolavori stanziali della Galleria ed ospiti d’eccezione si era già presentato in altre occasioni, qui puntualmente recensite, come l’indagine su Raffaello nel momento di passaggio da Firenze a Roma, o sul Canova, in accompagnamento a uno dei più bei trofei della Borghese, la Paolina Bonaparte. E altre prestigiose accoppiate del genere sono annunciate dalla Coliva. Tuttavia, dopo un devoto e dovuto omaggio a combinazioni di questo livello, mi si permetta di insinuare qualche dubbio. La Borghese è già di per se stessa un luogo di alta densità, asfissiante per il premere di tanti capolavori, non so quindi fino a che punto sia opportuno trovare a fatica qualche margine per accogliere appunto gli ospiti, anche se d’eccezione. In particolare, non so se una simile coesistenza sia giovevole per le folle di visitatori, cui riesce difficile distinguere tra il permanente e il temporaneo, anche se un’opportuna segnaletica cerca di prenderli per mano. Nelle occasioni precedenti c’era il valido motivo che nel permanente della Galleria si trovano opere essenziali alla perspicuità di un certo percorso, ma d’altra parte inamovibili, o tali da fornir
e un inevitabile termine di paragone con le presenze temporanee. Però non è così per il Correggio, di cui, a conti fatti, la Borghese conserva unicamente una Danae, seppure splendida. Scatta però un altro motivo, l’opportunità di condurre un confronto con le opere permanenti sulla base di un tema specifico che dovrebbe giustificare l’accostamento, tema reperito, nell’occasione specifica, in un confronto con l’Antico. Ma diciamolo subito, questo è un tema pretestuoso, o marginale. Quando l’Allegri, attorno al 1518, compie il suo viaggio a Roma, che oggi nessuno più osa negare, da cui trae l’incitamento per l’alto cammino che poi compirà a Parma, lo fa per riempirsi la vista dei capolavori di Michelangelo e di Raffaello, cioè per ricavare un magnifico messaggio di modernità. Non lo interessano i marmi polverosi, dato che la missione assegnatagli dalla storia, semmai, è di imprimere su di essi un mirabile tocco che li restituisca a una vita calda, palpitante, sensuosa e perfino sessuale, rorida di profumi, forse perfino di afrori di pelli sudate per l’esposizione al caldo estivo delle terre padane. È quanto ci dice il perfetto osservatore di quella rivoluzione in atto che sarà il Vasari, quando appunto teorizzerà l’avvento di una maniera moderna, con Raffaello e Michelangelo al centro, e alle ali il Correggio e Tiziano. Si aggiunga al giudizio del Vasari l’arguta battuta recata, in tempi assai più prossimi a noi, da Roberto Longhi, che si è valso della frase felice con cui, a quanto pare, Picasso usava presentare il collega Braque, dicendo che era la sua moglie, senza doppisensi sessuali. E il Correggio, dice magistralmente il Longhi, era proprio la moglie di Michelangelo, ossia ridava palpiti di vita alla muscolatura, essa sì forse alquanto succube dell’antico, ostentata dai Profeti e dalle Sibille del Buonarroti.
Espressa questa cauta riserva di taglio organizzativo, per cui, ritengo, sarebbe meglio che il polo museale romano conducesse le sue convincenti proposte, poniamo, a Palazzo Venezia, a costo di far subire ai capolavori della Borghese qualche momentanea delocazione, riconosciamo pure che il percorso correggesco fornito in quelle gremite stanze è perfetto, se solo ci si assoggetta allo slalom. Ci sono quasi al completo i dipinti giovanili, le Madonne e Bambino in cui il grande emiliano prende le distanze dal Mantegna, o già imposta le figure di Santi e Re Magi in lunga catena, rifiutando i ritmi allineati come parate di belle figurine già cari agli uomini del Quattrocento, per andare verso il coinvolgimento, il dinamismo dei corpi. E poi vengono i mirabili raggiungimenti della corta maturità concessa all’artista, dove compare l’alta sintesi tra Michelangelo e Raffaello, propendendo però decisamente a favore di quest’ultimo, e preparando una miscela esplosiva che poi rimbalzerà nei secoli fino ai Carracci, a Rubens, a Courbet, a Renoir. Per rendere omaggio al contenitore romano tutti i grandi musei del mondo si sono prodigati, le tele provengono dal Louvre, dal Prado, dalla National Gallery di Londra, e ovviamente da Brera, e da Parma stessa. In ogni caso trionfano i valori del corpo, della carne, sia nelle ore del dolore, quando per esempio i Quattro Santi della tela parmense cadono sotto i colpi degli scherani, ma sembrano teneri fiori di bosco recisi da maldestri raccoglitori. E sempre da Parma viene un Compianto sul cristo morto in cui le carni si afflosciano su se stesse, in un tenero deliquio. Altrove però, quando si tratta di visitare i costumi libidinosi degli dei dell’Olimpo, è come se il Nostro penetrasse nel tepore delle alcove, a spiare da voyeur i segreti delle carni femminili, aperte alla profferta morosa, maliziosamente propiziata da Cupidi anch’essi morbidi, sinuosi e insinuanti.

l’Unità 1.6.08
Etica, patria potestà e accanimento
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


L’agenesia renale bilaterale è una della condizioni qualificanti della sindrome di Potter, una malattia congenita non infrequente e particolarmente grave. Così, sinteticamente, l’ha spiegata Ignazio Marino, giorni addietro, al Corriere della Sera: "Il problema non sono solo i reni mancanti ma anche gli ureteri e la vescica. Cioè l’intero apparato che forma la pipì, per usare termini comuni. Il feto, com’è noto, non respira con i polmoni, che entrano in funzione solo al momento della nascita. Ora, la loro maturazione avviene grazie al liquido amniotico in cui galleggia il feto e che è formato proprio dall’apparato urinario fetale. Quindi, con un Potter, non si forma il liquido che permette la maturazione dell’apparato respiratorio. In conclusione, alla nascita il bimbo non riesce nemmeno a respirare. Solo le macchine lo tengono in vita". Ovvero, tentano di prolungarne la crescita sin quando non sia in condizione di sopportare un doppio trapianto renale (sin quando non abbia almeno 9-10 kg di peso) e la ricostruzione di un apparato urinario. La versione inglese di Wikipedia (sono pochissime le fonti italiane che descrivono questa patologia) dice che nella "storia documentale della medicina e della ricerca la sindrome di Potter, nella variante con agenesia renale bilaterale, si è dimostrata letale nel 100% dei casi"; o, ancora, la prognosi per la sindrome di Potter è "costantemente infausta" (R. Domini-R. De Castro, Chirurgia delle malformazioni urinarie e genitali).
Davide è nato a Foggia il 28 aprile scorso. Alla nascita, per quanto riportano le cronache, era senza reni e ureteri (i condotti che uniscono i reni alla vescica), con una vescica poco sviluppata e gravi malformazioni polmonari. I medici hanno formulato una diagnosi di Sindrome di Potter; e hanno prospettato alla sua famiglia come le cure cui il neonato avrebbe potuto essere sottoposto apparivano sproporzionate rispetto alle attese di vita. Davide, in altre parole, sembrava essere nato senza speranza alcuna di sopravvivenza. "Abbiamo supplicato i medici chiedendo di cercare un centro specializzato per verificare se si potesse fare qualcosa per il bambino. Tutti ci hanno detto di non essere egoisti e di lasciarlo morire in pace". Così la madre del bambino, Maria Rita, in una dichiarazione a Il Giornale.
Poi è successo qualcosa di inatteso; di tanto inatteso da mettere persino in dubbio, per alcuni, la diagnosi iniziale. Perché Davide ha cominciato a respirare autonomamente. Dunque si sono aperte nuove possibilità terapeutiche, in particolare quella di sottoporre il neonato a dialisi. Una decisione che, a parere dei medici, andava presa in tempi rapidissimi.
I genitori vengono informati e viene sollecitato il loro parere; e chiedono qualche ora per riflettere: per capire se procedere in quella direzione non voglia semplicemente dire prolungare inutilmente la sofferenza del bambino. "Siamo stati di nuovo chiamati in ospedale: qui ci hanno spiegato che il bimbo respirava da solo e che giuridicamente era trasportabile", continua la donna. "Noi avevamo solo chiesto qualche ora in più. Volevamo riflettere, intendevamo parlare con l’ospedale del Bambin Gesù di Roma per cercare di capire come muoverci: perché avevamo saputo che spesso molti bambini in queste condizioni riescono a superare il problema con un trapianto".
E invece, racconta ancora Maria Rita, "prima mio marito è stato convocato dai carabinieri; il giorno dopo siamo andati in ospedale: abbiamo scoperto che nostro figlio era stato trasferito e abbiamo saputo che ci era stata sospesa la patria potestà. (…) Mio figlio è sottoposto ad un calvario, per ora riesce a sopportare queste terapie, ma poi la vita per lui sarà un inferno".
La situazione, lo si intuisce, è delicatissima e di estrema complessità. Fatto sta che ai genitori è stato chiesto un parere cruciale; che loro non hanno potuto formularlo nei tempi attesi dai medici (parliamo di poche ore); che questi hanno riunito il comitato etico al quale il padre e la madre non hanno avuto accesso; che, infine, il primario del reparto di terapia intensiva degli Ospedali Riuniti si è rivolto al Tribunale per i Minori di Bari, per chiedere la sospensione della potestà genitoriale, essere lui stesso nominato tutore e autorizzare, in quanto tale, il trasferimento di Davide presso un ospedale attrezzato per la dialisi.
Qualche sera addietro a Primo Piano, su Rai Tre, i genitori del bambino e il loro legale spiegavano di comprendere perfettamente come medici, giudici e tutti coloro sin qui coinvolti nella vicenda abbiano agito a fin di bene. Dicevano, dei medici che stanno assistendo Davide nella dialisi, che sono "eccellenti"; si mostravano convinti di essere, a breve, reintegrati nella piena potestà del loro piccolo (la cosa è avvenuta proprio ieri). Ora sono speranzosi, comprensibilmente, Massimo e Maria Rita; e cominciano ad esserlo anche i medici. Rimangono due questioni.
La prima riguarda la dialisi cui il neonato deve essere sottoposto. La dialisi è una terapia invasiva, di non facile tolleranza neppure negli adulti. Il sistema arterioso di un neonato potrà sopportarla? Per quanto tempo? Lo zio di Davide, Angelo, pochi giorni addietro si esprimeva con parole sofferte e allarmate: "Per dializzarlo hanno adoperato l’arteria ombelicale. Poi quella inguinale. Quando non sarà possibile usare altre arterie dovranno intervenire sulla giugulare. Poi non ci sarà più nulla da fare. Questo non è accanimento?". Maria Cristina D’Amelio, dirigente responsabile dell’ospedale dove Davide è ricoverato, pur dicendosi ottimista sugli sviluppi della vicenda, ammette il concreto rischio di un’infezione.
La seconda questione - il punto più controverso, per alcuni aspetti, della vicenda - riguarda la revoca della potestà genitoriale. Che, ancorché la ristrettezza dei tempi a disposizione imponesse scelte unilaterali e rapide, deve essere procedura più attenta, più rispettosa, più in sintonia con le condizioni di vita del minore e con gli intenti e le possibilità dei suoi genitori. In un caso come questo, comunque vada a finire, la prassi medica si è rivelata capace di sottrarre ogni determinazione possibile sulla vita di un neonato - di un neonato gravemente malato, con pochissime o nulle attese di vita - al controllo dei genitori; che prima sono stati invitati a lasciarlo morire compassionevolmente, poi sono stati espropriati della propria facoltà per procedere a cure che potrebbero rivelarsi sproporzionate e superflue. La medicina può prevaricare, per potenzialità scientifiche, prassi e forme burocratiche, la volontà delle persone.
In ogni caso, e soprattutto, forza Davide. E forza Massimo e Maria Rita.

Corriere della Sera 1.6.08
Andrea Graziosi rilegge la storia del potere bolscevico in Russia: dietro il paravento ideologico, il peso della barbarie
Stalin, un despota come Gengis Khan
L'Urss da Lenin in poi: una tirannia «asiatica» sulle donne, gli operai e i contadini
di Ernesto Galli Della Loggia


È abbastanza raro per la storiografia italiana, e quindi da salutare con compiacimento, un libro come questo di Andrea Graziosi ( L'Urss di Lenin e Stalin. Storia dell'Unione Sovietica 1914-1945, Il Mulino); un libro che per la sua importanza merita dunque un discorso ulteriore più ampio di quelli che lo hanno riguardato finora. È uno di quei testi, fra l'altro, che per solito la nostra editoria è costretta a tradurre dall'inglese perché da noi non si scrivono: e cioè il racconto di un grande nodo di storia mondiale, di carattere divulgativo sì, ma, come si usa dire, di alta divulgazione e frutto, oltre che di una amplissima bibliografia, di ricerche di prima mano negli archivi.
Un libro godibile, tutto fatti, spesso ignoti anche al pubblico colto, e che tra i filoni d'indagine fa posto anche a dimensioni di solito trascurate, quali per esempio il rapporto tra i generi (la condizione femminile fu tra le prime vittime della rivoluzione), i quanto mai eloquenti andamenti demografici, l'intricato problema delle nazionalità. Il tutto sorretto da un robusto impianto interpretativo, al cui centro sta un'ipotesi certo non comune tra gli addetti ai lavori. L'ipotesi cioè che il regime comunista russo non sia stato in realtà un totalitarismo, come oggi quasi universalmente si dice, ma piuttosto un caso particolarmente brutale di «dispotismo asiatico» (viene in mente la celebre definizione buchariniana di Stalin come «un Gengis khan col telefono »), dunque non un a suo modo modernissimo regime di massa, ma assai più un «ancien régime di tipo nuovo», un regime dove, per dirne solo una, che però serve a far capire di che si trattava, in tutto il periodo considerato la regola fu sempre quella di tenere la popolazione all'oscuro dei provvedimenti adottati dal potere.
Una delle conclusioni apparentemente sorprendenti a cui ci costringe la lettura delle pagine di Graziosi è che è difficile trovare negli ultimi due secoli un regime che abbia attuato una criminalizzazione altrettanto sistematica della classe operaia e dei contadini come quella messa in opera dal bolscevismo in Russia. Sapevamo già, naturalmente, della repressione politica, delle stragi di massa durante la collettivizzazione delle campagne, della carestia artificiale in Ucraina, ma ignoravamo per esempio che negli anni Trenta fu di fatto cancellata qualunque legislazione sul lavoro come qualunque presenza sindacale; che l'«emulazione socialista» prevedeva un inferno di 12 ore di lavoro quotidiano con nessun riposo festivo; che in un anno-tipo come il 1929-30 i licenziamenti per assenteismo potevano arrivare a colpire il 30 per cento (il 30 per cento!) della forza lavoro occupata. Né conoscevamo, per fare un altro esempio, quali fossero (ovviamente per le classi popolari, non di certo per la nomenklatura) le terrificanti condizioni abitative a Mosca circa vent'anni dopo l'Ottobre: con il 40 per cento degli inquilini che risiedeva in una sola stanza, il 23,6 in «parte di una stanza», il 5 per cento in una cucina o in un corridoio, e la bellezza del 25 per cento in dormitori (in dormitori!).
Era questo uno dei tanti esiti paradossali di una «rivoluzione proletaria» destinata in realtà a segnare la catastrofe non solo della grande tradizione rivoluzionaria russa, ma dello stesso movimento operaio di quel Paese (non a caso tuttora inesistente), e più ancora delle radici contadine dell'una e dell'altro.
L'idea di trapiantare un'ideologia industrialista- statalista, com'era quella che animava fanaticamente Lenin e il gruppo dirigente bolscevico, entro una società per tre quarti formata di contadini unicamente desiderosi di diventare proprietari ebbe fin dall'inizio conseguenze devastanti. Ciò che infatti mostra questo libro è che, contrariamente ad una leggenda ancora oggi dura a morire, un'età d'oro della Rivoluzione e del Comunismo in Russia in realtà non vi fu mai. Così come fin dalle prime settimane, infatti, il nuovo regime diede il via ad una dura repressione poliziesca contro qualunque genere d'oppositori, allo stesso modo esso prese a colpire le campagne. Sta qui il punto centrale dell'impianto interpretativo di Graziosi. Egli vede tutto il primo ventennio della storia sovietica dominato da una vera e propria guerra mossa dallo Stato contro i contadini: una lotta tanto più crudele in quanto dominata dall'impossibilità di un compromesso. A parte ogni pregiudizio ideologico, infatti, per i bolscevichi consentire al desiderio contadino di proprietà della terra avrebbe voluto dire né più né meno che rinunciare di fatto a stabilire nelle campagne una qualunque rete capillare di controllo politico-sociale da parte dello Stato- partito. Non solo: lasciare le campagne nelle mani di milioni di piccoli-medi proprietari (oltre tutto padroni del sostentamento delle città) sarebbe equivalso altresì alla necessità di continuare a far esistere il mercato, e quindi la moneta, cioè esattamente le due cose nell'abolizione delle quali i bolscevichi pensavano che dovesse consistere il comunismo.
Da qui l'impeto barbarico con il quale i bolscevichi si avventarono sulle campagne fin dal 1918: dapprima allo scopo di farsi consegnare a viva forza il grano, in seguito per imporvi il proprio assoluto dominio culminante alla metà degli anni Trenta nella definitiva collettivizzazione della terra. Lenin — il «buon» Lenin, non il «cattivo» Stalin del sempre evocato «stalinismo » da parte di quelli che vogliono salvare l'onore del comunismo non pronunciandone il nome — Lenin, dicevo, non arretrò di fonte a nulla: reparti «di sterminio» (sì, si chiamavano così, senza falsi pudori), deportazioni e impiccagioni in massa, incendi di villaggi, torture di massa, fucilazioni di ostaggi fino alla misura di cinquanta a uno, bombardamenti aerei pure con l'uso di gas asfissianti, addirittura il ritorno alle fustigazioni in massa, una delle più odiose pratiche repressive dello zarismo. Giustamente Graziosi, che in queste pagine come in tutto il libro si basa esclusivamente su dati ufficiali o su documenti d'archivio, parla di «sfruttamento genocidiario » dei contadini, riportati di fatto alla condizione di servi della gleba (non a caso saranno sottoposti pure all'obbligo delle corvée),
e invano protagonisti, nel solo primo semestre del 1932, di ben milleseicento insurrezioni nelle campagne.
Fu su questa pratica collaudata di violenza «sterminazionista» leniniana, replicata già a suo tempo da sanguinose operazioni repressivo- militari di tipo coloniale nel Caucaso e in Asia centrale, che Stalin innestò poi quello che l'autore chiama un «terrore categoriale e preventivo». Il risultato stupefacente fu, alla fine, uno Stato edificato «contro» la propria società, «contro» il proprio popolo, e dunque fisiologicamente incapace di fare a meno di quello che una volta un contadino, rivolgendosi a Kalinin, osò definire «il partito revolver ». Un partito che già durante la rivoluzione aveva cominciato ad attingere per i suoi quadri all'ampio serbatoio plebeo-criminale prodotto dalla disgregazione sociale circostante, e che via via conobbe perciò una profonda trasformazione antropologica dei propri gruppi dirigenti, nei quali da un certo punto in avanti l'alcolismo, la brutalità, il cinismo, la corruzione e il più violento maschilismo divennero la regola. Fino al vertice simbolico difficilmente eguagliabile della replica di Pjatakov, alla fine degli anni Venti capo della banca di Stato, il quale a coloro che alla sua proposta di vendere per fare cassa i quadri dei musei russi — e per primo lo «schifoso Botticelli» — obiettavano che così si precipitava nella barbarie, non esitò a rispondere: «Ma io sono per la barbarie!».
L'analisi
Questo libro smentisce una leggenda ancora oggi dura a morire: a Mosca non ci fu mai un'età d'oro della Rivoluzione e del Comunismo L'opera
Il libro di Andrea Graziosi «L'Urss di Lenin e Stalin» (Il Mulino, pp. 630, e
30) è il primo di due volumi sulla storia dell'Urss. Il secondo, che arriva fino al 1991, uscirà in settembre

Corriere della Sera 1.6.08
Basilea: si apre oggi alla Fondazione Beyeler la rassegna dedicata al pittore francese
Léger sulla rotta Parigi-New York
Subisce il fascino della «Grande mela» e influenza la Pop art Usa
di Sebastiano Grasso


Ottobre 1940. La Francia è occupata dai tedeschi e il cinquantanovenne Fernand Léger si imbarca per gli Stati Uniti. Vi resterà cinque anni. Negli Usa, il pittore francese è di casa. L'ultima volta che c'è stato? Dal settembre '38 al marzo del '39. A Princeton è ospite dello scrittore John Dos Passos. In questo periodo, inoltre, lavora anche a pitture murali in casa dei Rockefeller e frequenta il pittore-miliardario «precisionista di motivi industriali » Gerald Murphy (preso a modello da Fritzgerald per Il grande Gatsby). E insegna, anche, alla Yale university, con Henri Focillon e André Maurois.
In casa di Pierre Matisse, a New York, Léger ritrova alcuni esiliati come Breton, Ernst, Tanguy, Mondrian, Zadkine e Chagall. Si sposta negli States in pullman e tiene corsi in vari atenei. Fra gli incontri americani — che avranno poi un seguito in Francia —, quello con padre Couturier (amico anche di Le Corbusier) che lo coinvolgerà nel suo progetto di ricostruire alcune basiliche in Francia. Nel '45, Léger aderisce al Partito comunista francese e, in dicembre, rientra in patria.
Coetaneo e amico di Picasso (entrambi nati nel 1881), Léger, assieme allo spagnolo, a Braque e a Gris era considerato un protagonista del Cubismo. Ma non tutti erano d'accordo. Anche se riconosciuto come il creatore di un nuovo linguaggio, egli era considerato da molti un artista superficiale, meccanico e monotono. Cubista? Qualcuno lo definiva «tubista ». Quando Léger arriva a Parigi dalla Normandia, la capitale francese vive un momento di transizione fra due ere, fra due modi di vivere. Lentamente, tram e cavalli vengono sostituiti dal métro, l'elettricità disarciona le lampade a gas.
Abbandonate le avanguardie artistiche, Léger osserva e studia l'acciaio, il ferro, le macchine. È il periodo in cui Parigi accoglie il futurista Marinetti e compagni. Léger ne è incuriosito e attratto, ma non condizionato. Poi, il «colpo di grazia », datogli dalla guerra. «Sotto le armi ho avuto amici che erano minatori, terrazzieri, artigiani del legno e del ferro— dirà —. Lì ho scoperto com'è la gente. Al tempo stesso sono rimasto abbagliato dalla culatta d'un cannone da 75 millimetri, aperta in pieno sole, magìa della luce sul metallo bianco. Non ci voleva altro per farmi dimenticare l'arte astratta del '12-'13».
Decide, allora, di vivere la realtà. Ma la realtà è fatta anche dal «ferro lavorato delle centrali elettriche» che cresce «ogni giorno accanto agli alberi». Da questo momento, la civiltà delle macchine indirizzerà tutta la sua pittura. Figure e personaggi diventano meccanismi di una grande macchina in cui viti, bulloni, traverse, cunei vengono integrati da occhi, orecchie, braccia, mani e volti. Il binomio uomo-macchina diventa inscindibile. Quando Léger dipinge operai, acrobati, giocolieri, costruttori, pur dando vita a un'epopea popolare, riesce sempre a contenerla nelle leggi di un'architettura possente e monumentale, dal ritmo talvolta scenografico, di grande effetto, talvolta persino neoromantico. Il Léger che, nel 1940, approda — per la quarta volta — negli Usa, si guarda intorno e la meraviglia riempie i suoi occhi. Tutto gli appare grandioso. Ritrova la New York «città verticale» di Le Corbusier, le enormi pubblicità al neon che si riflettono sui grattacieli, l'archeologia industriale che sperimenta nuove strade. Universo, questo, che trasferisce sulle proprie tele.
Léger è affascinato dal vortice americano, s'è detto. Ma, a sua volta, affascina diversi giovani artisti, tanto da esercitare su di loro una notevole influenza. Valgano per tutti gli esempi di Roy Lichtenstein (1923) e di Robert Rauschenberg (1925).
Basta mettere a confronto i lavori dei due esponenti della Pop art americana con i suoi. È proprio questo confronto il
leit motiv della retrospettiva Léger: Paris- New York che si apre oggi a Basilea.
LÉGER: PARIS-NEW YORK
Basilea, Fondazione Beyeler, sino al 7 settembre. Tel. +41/61/6459700

Corriere della Sera 1.6.08
Libri. Tina Modotti: «Edwardito caro...»


«Oh Edward, quanta bellezza hai aggiunto alla mia vita!». Inizia così il carteggio epistolare fra Tina Modotti e il suo mentore-amante Edward Weston, dopo il loro primo incontro, a Los Angeles. Le lettere di Tina, riunite nel volume Vita, arte e rivoluzione, evocano emozioni quasi visive. Nata a Udine nel 1896, la fotografa lavorò in una fabbrica tessile, impersonò a Hollywood una servetta italiana, divenne l'emblema dell'attivismo politico e artistico e fu tra le donne più amate del Messico rivoluzionario di Diego de Rivera e José Clemente Orozco. Nel carteggio appare sensuale e combattuta «nel tragico conflitto fra la vita che cambia continuamente e la forma che la fissa immutabile»: dalle piccole impressioni quotidiane, di una stanza vuota e un terrazzo assolato, al drammatico esilio in Russia.
M. G.
VITA, ARTE E RIVOLUZIONE Lettere a Edward Weston di Tina Modotti
a cura di Valentina Agostinis, Abscondita, pp.240, € 24 Weston: Tina Modotti

Repubblica 1.6.08
Draghi il trapezista e Tremonti il dittatore
di Eugenio Scalfari


Dopo un´intensa produzione di editti tribunizi da parte del governo, dei quali si attendono ancora gli effetti anche se ne è chiaro l´orientamento strategico, è arrivata la radiografia economica contenuta nella relazione annuale della Banca d´Italia: venti cartelle, una prosa stringata, una raccolta oggettiva di informazioni e di altrettanti elementi di giudizio.
Il Governatore le ha lette con voce neutrale, senza impennata di accenti e di toni, lasciando al dibattito pubblico di interpretarne il significato e di coglierne il senso. Operazione difficile ed anche inevitabilmente arbitraria poiché nelle «considerazioni finali» di Mario Draghi c´è tutto e il contrario di tutto: dalla critica del lavoro precario ai suoi benefici effetti sull´occupazione, dalla necessità di ridurre il peso della fiscalità ai positivi risultati ottenuti dal precedente governo nella riduzione del debito pubblico e del deficit di bilancio, dall´esorbitanza della spesa all´urgenza di aumentare il potere d´acquisto dei ceti più disagiati, dalla sconsolata constatazione d´una produttività calante da almeno un decennio all´insufficienza dei consumi e della domanda interna. Infine il crescente dislivello tra Nord e Sud e la convinzione che il federalismo fiscale possa utilmente trattenere le risorse nei luoghi dove esse vengono prodotte.
Da questo punto di vista le considerazioni del Governatore potrebbero esser giudicate come una densa raccolta di ossimori, una sorta di opera aperta offerta agli operatori, al governo, alla pubblica opinione, un quadro in chiaroscuro dal quale i vari destinatari potranno trarre spunti a favore delle proprie tesi, ancorché contrastanti le une con le altre.
Solo su un punto Draghi è stato univoco: il ripetuto elogio all´operato delle Banche centrali per contenere gli effetti devastanti della crisi dei "subprime"; la Fed americana e la Bce europea - ha detto - sono state perfettamente all´altezza dei loro compiti innaffiando i mercati con ampie immissioni di liquidità ed evitando in tal modo che la crisi assumesse le dimensioni d´una catastrofe del tipo di quella che scardinò l´economia negli anni Trenta del secolo scorso.
Questo giudizio così esplicitamente positivo inserito in un documento per il resto cautissimo si presterebbe a qualche osservazione critica. Si potrebbe per esempio osservare che l´eccezionale fornitura di liquidità non è riuscita a spegnere l´incendio che, dopo due anni dal suo inizio, arde tuttora con notevole virulenza e non cessa di alimentare preoccupazioni.
Si potrebbe aggiungere che la ferma decisione della Banca europea di mantenere elevati i tassi d´interesse non ha minimamente contenuto l´inflazione né poteva farlo poiché si tratta d´una inflazione interamente importata dall´estero (prezzi del petrolio, delle materie prime e dei cereali) sulla quale il tasso d´interesse vigente in Europa non esercita alcun effetto mentre deprime ulteriormente le aspettative dei consumatori e degli investitori.
Sarebbe tuttavia troppo pretendere dalla Banca d´Italia, che è strutturalmente la sezione italiana della Bce, qualche riserva sull´operato del suo Quartier Generale. Si tratta d´una difesa d´ufficio dovuta sulla quale è dunque inutile insistere.
* * *
Se si legge con attenzione il documento Draghi i lineamenti d´una strategia emergono anche se impliciti e quasi dissimulati tra i tanti ossimori che lo costellano. La strategia sembra basata sui punti seguenti:
1. Sostenere la domanda interna dei ceti deboli (pensioni, salari). Defiscalizzare tariffe e liberalizzare catene commerciali e rendite di posizione.
2. Predisporre programmi di riduzione di aliquote fiscali con date certe ma differite.
3. Aumentare la produttività della pubblica amministrazione.
4. Accelerare - se possibile - l´aumento dell´età pensionabile e destinarne le risorse alla costruzione d´un sistema efficace di ammortizzatori sociali.
5. Agganciare retribuzioni e produttività.
6. Ridurre l´economia sommersa.
Si direbbe una strategia su due pedali, da non usare simultaneamente: prima accelerare e poi più dolcemente frenare, laddove l´acceleratore equivale a interventi espansivi e il freno a recuperi di risorse. Resta un problema di copertura per l´immediato, ma qui l´implicito non diventa esplicito e l´ossimoro resiste ad ogni possibile interpretazione.
Complessivamente queste considerazioni finali, con tutto il rispetto che meritano la Banca d´Italia il Direttorio e il Governatore, sono piuttosto deludenti. Carli, Baffi e Ciampi ci avevano abituato ad imparare molto di più dai loro interventi; c´era la freddezza e l´oggettività dell´analisi, ma anche l´impeto della passione, la sferza del giudizio, il sostegno dei poteri deboli contro le arciconfraternite.
Draghi ha un carattere diverso da loro, i sentimenti se li tiene per sé. Le tracce che lascia sul terreno bisogna cercarle con la pazienza d´un certosino e sono sempre passibili di smentita. Noi comunque ci abbiamo provato.
* * *
Il suo principale interlocutore, Giulio Tremonti, è di tutt´altra pasta. Lui, la sua strategia non solo non la dissimula ma la grida da tutti i cantoni. E´ un banditore della sua politica. Ci scrive anche dei libri e li vende benissimo.
E´ stato detto che Berlusconi ha militarizzato la politica ed è vero. Tremonti militarizza l´economia. L´ha sempre fatto, ma ora, in questa sua terza reincarnazione al ministero dell´Economia, ha indossato le vesti del pro - dittatore. La nuova vestizione era nell´aria ma la scena madre è avvenuta nel Consiglio dei ministri di due giorni fa. Si dovevano prendere decisioni sull´Alitalia, Tremonti doveva presentare la bozza d´un decreto che il Consiglio avrebbe dovuto discutere ed approvare (e magari emendare). Ma il decreto non era pronto, lo stavano limando gli uffici. Tremonti lo ha raccontato e il Consiglio ha dovuto approvarlo ad occhi chiusi. «Abbiamo fretta» ha detto Berlusconi «lo vedrete dopo intanto approviamolo». Eppure quel decreto ancora fantasma è una sorta di editto rivoluzionario.
L´Alitalia viene di fatto commissariata dal governo. Ad essa non si applicheranno le leggi vigenti che regolano la vita delle società quotate in Borsa. È esentata da ogni tipo di comunicazione alla Consob e al mercato. Il governo ha nominato un "advisor" nella persona di Banca Intesa e del suo consigliere delegato Corrado Passera il quale avrà accesso alla contabilità di Alitalia per farsi un´idea della situazione.
Normalmente l´advisor lavora per una società interessata ad entrare nell´azienda in vendita, ma in questo caso Banca Intesa lavora per se stessa ed è incaricata di farlo dal governo. La situazione è del tutto nuova e palesemente anomala. Banca Intesa, compiuti gli accertamenti del caso, potrà: ritirarsi dall´operazione, proporsi come azionista in proprio, designare una rosa di possibili acquirenti, presentarsi come mallevadore finanziario di uno di essi o più d´uno.
A quel punto il governo potrà: mettere l´Alitalia in liquidazione, chiedere agli acquirenti indicati dall´advisor un´offerta vincolante, sceglierne insindacabilmente uno, chiudere l´operazione con la vendita della compagnia aerea oppure mandare a monte tutto. Il tutto senza che il mercato, la Consob, l´Antitrust, possano seguire l´operazione in barba agli azionisti di minoranza, ai creditori e al mercato. Sono vecchio amico ed estimatore di Corrado Passera, perciò mi permetto di raccomandargli molta prudenza visto il rischio anche personale che si è assunto.
La bravissima Marcegaglia sembra un po´ spaventata da queste prospettive. Parlando a Trento al Festival dell´economia ha detto che l´operazione Alitalia si può fare soltanto se si troverà un imprenditore internazionale. Ha perfettamente ragione la Marcegaglia, ma chi? Air France ha chiuso o meglio è stata buttata fuori dai sindacati Alitalia e da Berlusconi in campagna elettorale. Lufthansa non ritiene che Alitalia sia appetibile ed eguale giudizio ne ha dato Aeroflot. Altre compagnie aeree in Europa non ci sono. In Usa, forse. Di seconda e terza fila. Ma il vero obiettivo di Tremonti (e di Air One) è di mettere in piedi un´azienda locale, regionale, con una flotta prevalentemente basata su aerei di media grandezza impegnati nel traffico nazionale e regionale (europeo). Una ristrutturazione «tricolore». Una sorta di Swissair dopo il fallimento o di Klm prima della fusione con Air France. Il tutto naturalmente attraverso una ristrutturazione rispetto alla quale quella proposta da Air France era zucchero filato. Questo sembra essere il piano di Tremonti. E anche di Bossi. E di Formigoni. È anche il piano di Passera?
* * *
Nel quadro degli editti tribunizi e della militarizzazione della politica e dell´economia, bisognerebbe ora parlare di Brunetta, neoministro della Funzione pubblica, ma lo spazio è tiranno. Ne parlerò un´altra volta, ma intanto segnalo un gustosissimo corsivo di Massimo Gramellini sulla «Stampa» del 28 maggio, intitolato «Nel suo piccolo» che poi sarebbe appunto il Brunetta. Per ora basti sapere che il neoministro della Funzione pubblica ha deciso di riformare la pubblica amministrazione (cioè nientepopodimeno che lo Stato, con due milioni e mezzo di dipendenti) e di ricavarne risparmi di 30-50 miliardi. A tal fine ha presentato un memorandum ai sindacati interessati ed ha chiesto di avere un sì o un no entro quarantott´ore. Altrimenti andrà avanti da solo perché ha fretta e le riunioni lunghe gli danno allergia. Che successo, che carriera!

Repubblica 1.6.08
I fedeli della dea America
di Vittorio Zucconi


Così si accomiata dai grandi della propria storia che prima avventatamente uccide e poi amarissimamente rimpiange
La passione corale con cui la gente saluta i suoi leader caduti è segno di un rapporto non più civile o politico ma religioso

Il treno più lento del mondo lasciò la stazione di Washington alle ore 8 di venerdì 21 aprile e arrivò a destinazione a Chicago alle ore 10 del 3 maggio, viaggiando alla lugubre velocità di otto chilometri all´ora. Ci vollero tredici giorni perché il convoglio con la salma di Abraham Lincoln, e del figlio Willie morto ancora bambino e disseppellito per unirsi al padre nel viaggio verso la tomba, lasciasse la capitale dove il presidente era stato assassinato e raggiungesse la città dove sarebbe stato sepolto. Fu un corteo funebre lungo duemila e cinquecento chilometri, il più lungo che il mondo avesse visto. E che avrebbe costruito il rito del lutto pubblico americano, la scenografia colossale e spontanea di quei lunghi addii dell´America ai grandi della propria storia, che prima avventatamente uccide e poi amarissimamente rimpiange.

Per trovare un´esplosione di rimpianto e di tenerezza paragonabile a quella che gli Stati Uniti vissero accompagnando il treno funebre di Lincoln nel 1865, di Franklyn Delano Roosevelt nel 1945, di Robert Kennedy e di Martin Luther King nel 1968, noi dobbiamo tornare alle miracolose giornate dell´aprile di tre anni or sono, in quella Roma dolce e malinconica allagata dai milioni di pellegrini in coda lungo il Tevere per un ultimo sguardo a Giovanni Paolo II.
E in questa evidente somiglianza fra i due milioni e mezzo di persone che sfilarono accanto al feretro di Karol Wojtyla e i milioni che hanno chinato la testa o inviato un bacio al passaggio del treno funebre dei presidenti americani assassinati o del carretto che trasportava la bara di Martin Luther King c´è un indizio importante per capire l´enormità corale e la passione con la quale il popolo americano saluta i propri leader caduti. C´è il segno di un rapporto non più politico o civile, e neppure più soltanto umano, ma religioso con coloro che incarnano, adorati o odiati che siano, la «Religione America» e ne divengono, laicamente ma definitivamente, i martiri.
Nelle folle immense che seguono il viaggio dei convogli funerari, munite di orari ferroviari precisi pubblicati dai giornali locali, trasmessi dalle radio o dal tamtam del passaparola, con l´ora e il minuto esatti nei quali il treno attraverserà il proprio villaggio in Georgia, in Pennsylvania, in Indiana, o nelle città fuligginose dei Grandi Laghi del Nord, non ci sono mai, neppure nella Atlanta nera che vide passare il feretro di King, quelle tracimazioni di isteria collettiva che accompagnarono la morte della «principessa del popolo», di Diana Spencer. E neppure si assiste alle scene da grande melodramma latino che accompagnarono l´addio dell´Argentina a Evita Peron. La compostezza dolente dei contadini in salopette o cuffie plissettate lungo i binari sui quali passavano i convogli di Lincoln, Roosevelt o Bobby, o il rispetto silenzioso degli operai delle ferriere hanno il sapore delle illustrazioni puritane di Norman Rockwell e la nitidezza di un dipinto iperrealista. Ma sempre con i connotati di una manifestazione religiosa.
La mistica dell´americanità trova nella grande tragedia pubblica l´occasione per esprimersi, soprattutto se è un funerale ferroviario, perché è il treno, più ancora del Winchester a ripetizione, della carabina Remington o della Colt 45, il mezzo che ha costruito una nazione e ha unificato le sue membra lontane. In una democrazia fondata sulla libertà di religione e quindi, implicitamente e fortunatamente, sulla assenza di religioni di stato, di ayatollah e di gerarchie ingombranti, la sola affermazione di fede comune è la fede nella propria appartenenza a una comunità umana che ha avuto, nel treno che conquistò il West, uno dei suoi massimi totem. E quando la persona che questa comunità rappresenta muore, o viene uccisa, la perdita è sentita come una perdita collettiva e l´offesa portata dai proiettili dell´assassino come un´offesa fatta a tutti, all´essenza della propria fede laica.
Per questo sembra sorprendente assistere all´unanimità del cordoglio, alla totalità della partecipazione di fronte all´assassinio di personaggi che, da vivi, erano invisi, addirittura esecrati da quelli che poi andranno ad assieparsi lungo la massicciata ferroviaria per onorarne il passaggio, da morti.
Racconta la più minuziosa studiosa delle presidenze americane, Doris Kearns Goodwin, che i sindaci delle cittadine e dei paesi attraversati dal convoglio funebre di Lincoln restavano stupefatti contando il doppio, a volte il triplo degli abitanti di quelle località, accorsi per salutare il feretro di un presidente nel cui nome, e per i cui ordini, settecentomila dei loro uomini più giovani, figli, fratelli e mariti, erano stati sacrificati.
«Non sapevo che tanta gente vivesse nel mio comune», disse il sindaco di Ashley, un paese di tremila persone nell´Ohio che contò ottomila fra donne, uomini e bambini alla stazioncina dove il "Lincoln Special", come si chiamava il treno funebre, sostò per due minuti esatti. A Indianapolis, dove la bara fu prelevata dal treno ed esposta nel palazzo del comune, sull´edificio di fronte era stato teso uno striscione con la scritta: «Riposa sereno Abe», l´abbreviazione affettuosa di Abraham, «ora ti amano anche i nemici».
La morte violenta, l´assassinio politico, sigilla, come quello striscione proclamava, la universalità della fede nell´America, proprio nel momento in cui l´odio dell´infedele, quasi un anticristo, si manifesta nel modo più definitivo. Lincoln fu eletto, nelle ultime presidenziali prima della secessione del Sud e della guerra, con appena il 39 per cento dei voti, e anche nel 1864, quando alla sua elezione parteciparono soltanto gli stati del suo Nord, vinse con un mediocre 55 per cento contro il 45 dell´avversario, anche in quelle città e in quei paesi che appena un anno dopo avrebbero venerato la sua salma nel lungo addio sulla sacra rotaia. «Sic semper tirannis», questa sia sempre la sorte dei tiranni, aveva gridato il suo assassino, nel teatro dove gli aveva sparato.
Roosevelt, eletto per quattro volte, era visto, anche lui, come un despota da quei 22 milioni di americani, su 47 milioni di elettori, che gli votarono contro anche nel novembre 1944, quando la Depressione era stata superata e le forze armate americane stavano trionfando in Europa e lavando l´infamia di Pearl Harbor.
Ma, come avrebbe detto molti anni dopo il chirurgo toracico dell´ospedale George Washington a un Ronald Reagan gravemente ferito dall´attentatore prima di addormentarlo e cercare di salvargli la vita sul tavolo operatorio: «Dorma tranquillo Presidente, oggi qui siamo tutti repubblicani».
Tutti repubblicani per Lincoln, tutti democratici per i Kennedy, detestati in vita dai cittadini degli stati del Sud e in particolare del Texas che non perdonavano l´imposizione dei diritti civili e la lotta contro l´apartheid di fatto. Tutti "civil righters" neri, tutti attivisti accanto al feretro di Luther King, trascinato per le vie della sua Atlanta, sopra un carretto da mezzadro tirato dai muli, l´umile simbolo della fine dello schiavismo quando ai neri liberati venivano regalati come compensazione quaranta acri di terra, sedici ettari, e appunto un mulo per coltivarli. Il corteo che seguiva la bara si allungò, secondo la polizia della Georgia, per oltre dieci chilometri, ben oltre il limite della città.
Di nuovo tutti democratici, e addirittura kennediani, alla fine di questo maggio, quando è arrivata dal Massachussetts General Hospital la diagnosi tremenda sul tumore terminale al cervello di Ted, che per due giorni ha occupato senza interruzione, in un «funerale per un uomo vivo», tutte le televisioni americane, in una dettagliata e impudica prova generale delle future esequie e dell´addio all´ultimo dei veri Kennedy, celebrato anche dai suoi avversarsi politici e personali più accaniti.
Tutti sembravano aver dimenticato che nei quarantasei anni della sua presenza in Senato, in quel seggio che il fratello John Fitzgerald aveva lasciato vacante dopo l´elezione alla Casa Bianca, Teddy era stato il bersaglio preferito dell´odio, del dileggio e del sarcasmo delle destre, che lo descrivevano come la manifestazione satanica del liberalismo statalista e del libertinismo di famiglia.
Non ci furono per i caduti sul lavoro, per i presidenti, i politici, i leader uccisi, neppure per quelli considerati più di parte, oppositori che uccidessero la gallina più grassa per festeggiarne la morte, come nelle campagne rosse alla notizia della scomparsa dell´odiato Alcide De Gasperi. E soltanto la morte improvvisa sul fronte della lotta politica di Enrico Berlinguer sfiorò il sentimento di un lutto collettivo oltre le appartenenze di bandiera, come invece l´assassinio di Aldo Moro, immediatamente avvelenato da polemiche di partiti, non fece. Se controversie e spasmi dietrologici scoppiano anche negli Stati Uniti, essi avvengono sempre a posteriori, dopo che la comunione dei credenti nel dio America ha pagato il proprio tributo unanime alla vittima, cioè il tributo a sé stessa.
Se attorno al regicidio più straziante del Ventesimo secolo, l´assassinio di JFK a Dallas, continua il tormentone del «chi ha davvero ucciso Kennedy» anche quarantaquattro anni più tardi, forse è perché a lui, e alla nazione, fu negato quel lungo addio sull´altare ferroviario che fu tributato a Lincoln e, più tardi, al fratello Bobby. Il corpo di John F Kennedy fu trasportato in fretta, quasi clandestinamente, la sera stessa dell´omicidio da Dallas a Washington nel timore di trame e attacchi bellici, in piena Guerra fredda, per ordine di colui che sulla sua bara, con il braccio alzato in un gesto quasi rattrappito, avrebbe giurato e assunto la successione accanto alla vedova Jackie con l´abito macchiato di sangue, Lyndon Johnson. Una nazione che non poté riconciliarsi con i suoi resti, non vuole, non può accettare la sua fine. Privata di quel lungo addio su rotaie nel quale avrebbe perdonato sé stessa per averlo lasciato uccidere.

Repubblica 1.6.08
Picasso e Bosè. Un angelo-toro per Lucia
di Maria Pia Fusco


Un grande pittore, una bellissima attrice, un celebre torero La loro amicizia è ricca di aneddoti che Lucia Bosè ci ha raccontato adesso che, per finanziare il suo Museo degli Angeli, ha deciso di vendere la collezione di disegni e ceramiche dell´artista in un´asta che si sta per tenere da Christie´s a Londra
"Miguel vestiva Pablo con abiti da corrida e spadino Lui si metteva in posa da arena"
"Fece per me lo schizzo dell´omino coi baffi. Mi disse: così non ti sentirai sola"

Una serata a "La Californie", la villa di Picasso a Cannes. Que bonita!, esclama il maestro all´apparizione di Lucia Bosé, appena uscita dalla doccia, avvolta in una sontuosa vestaglia rossa firmata Dior. Anche l´altro ospite, Luis Miguel Dominguin, esprime ammirazione per la moglie e per la vestaglia. Che attrae in modo particolare Picasso, tanto da spingerlo a chiedere al torero di provarla, poi la indossa anche lui, decide che conserva eleganza anche su un uomo. «Era una serata come tante, scherzavamo e ridevamo così, c´era la gioia di stare insieme, tra amici. Per Pablo le occasioni più entusiasmanti erano quando Miguel lo vestiva da torero, con lo spadino e tutti gli ornamenti. Lui si metteva in posa e faceva i movimenti da arena. Ho ancora le fotografie. Non ho mai capito perché, ma la vera arte per Picasso era la tauromachia, un´arte sacra, la più bella secondo i canoni estetici. Per Dominguin aveva un´adorazione, lo guardava come un dio, gli diceva che avrebbe amato essere lui. "Ma non so se io avrei voluto essere te", rispondeva Dominguin», racconta Lucia Bosé. «Personalmente non sono mai stata attratta dalle corride, ne avrò viste un paio nella mia vita. Che c´entro io, milanese, con la corrida? Però è una parte importante della cultura spagnola e le rispetto, non mi piace quando qualcuno ne parla con disprezzo senza sapere di che parla».
Lucia Bosé, con la sua calda voce roca da fumatrice, è al telefono dalla casa di Madrid, dove vive dagli anni Cinquanta, da quando nel ‘55 sposò Dominguin, allora il più famoso torero di Spagna. L´occasione per tornare ai ricordi della bella amicizia tra la sua famiglia e Picasso è l´asta della sua collezione privata di opere su carta e ceramiche del pittore, che si terrà da Christie´s a Londra a partire dal 25 giugno, dopo un´esposizione pubblica il giorno 20. «Ho preso una decisione: non voglio più possedere nulla. Ho fatto tanti sforzi per mettere insieme questa collezione, ma mantenerla è un problema, poi arrivano i figli e dicono "questo è mio" e "questo è mio". Poi i nipoti e ognuno vuole una cosa. Non so cosa ne farebbero in futuro, ognuno ha la sua vita, i suoi interessi, piuttosto che lasciare che vendano loro, preferisco venderla io. Ne ho bisogno per mantenere il mio Museo degli Angeli a Siviglia».
Tre figli - Miguel, Lucia e Paola «in omaggio a Pablo, che è stato il suo padrino»; sette nipoti e «sono anche bisnonna» - Lucia Bosè ha collezionato angeli di ogni tipo, oggetti, sculture, dipinti: «Era un sogno che coltivavo da ragazza, da quando vidi per la prima volta le statue di pietra di Ponte Sant´Angelo. L´ho realizzato, il museo si arricchisce di continuo. È un sogno che costa, i ricavi dell´asta mi servono per quello, ma è una mia scelta e sono felice così». Ed è felice anche «per la possibilità di mostrare ad altri un aspetto di Picasso che credo pochi conoscano. Io non so parlarne da critico, per me era l´amico che toccavo, che abbracciavo, con cui avevo il privilegio di dividere momenti di gioia o di malinconia. Soprattutto di gioia, perché Pablo amava la vita, il mare, la bellezza, il cibo. Non dimenticherò mai le nostre lunghe serate tra mille chiacchiere e mille sigarette».
Le opere che Picasso regalava alla famiglia Dominguin non erano legate ad occasioni particolari: «Erano le sue dimostrazioni di affetto, erano slanci del momento. Come quando fece per me il disegno dell´omino con i baffi. "Luis Miguel è spesso in giro, non voglio che tu ti senta sola. Tieni questo omino sul cuscino e sarà lui a tenerti compagnia, vedrai"».
Miguel e Lucia Dominguin, i figli più grandi, «hanno vissuto a lungo con Pablo, una volta, quando accompagnai mio marito in un giro in Sudamerica, ce li lasciammo per tre mesi. La prima volta che Miguel entrò nello studio di Picasso rimase incantato dalla confusione di tele, di sculture incompiute, di oggetti, di pennelli di ogni tipo, era affascinato dai colori. «Ma questo è un paradiso!», disse. «Forse per te, per me è più l´inferno», rispose lui. Gli piaceva discutere con Miguel perché anche quando lo provocava lui rispondeva a tono. Una volta Dominguin chiamò Miguel dopo una corrida, gli disse che aveva tagliato quattro orecchie al toro. Quando glielo raccontò tutto eccitato, Picasso lo prese in giro, gli disse che non esistevano tori con quattro orecchie. "E allora tu perché fai le donne con quattro occhi"», replicò il bambino. Nacque così il disegno di un toro con quattro orecchie».
La Bosè ricorda divertita anche l´"incidente" con la piccola Lucia. «Lei voleva tanto una bambola che andava molto di moda tra le bambine nella Spagna di quegli anni. Pablo le face un disegno alla sua maniera e Lucia scoppiò a piangere, la trovava bruttissima e gliela tirò in faccia. Lui non si arrabbiò. "I bambini dicono sempre la verità", fu la sua reazione».
Tra gli scherzi di Picasso «c´è quello delle uova di rondine. Una volta a pranzo mi offrì un piccolo uovo, disse che era una specialità arrivata dalla Cina. Lo mangiai, non aveva nessun sapore. "Ne vuoi un altro?". Mangiai anche il secondo, anch´esso senza sapore. Lui scoppiò a ridere. "Sono uova di rondine, hanno trecento anni, per forza non sanno di niente. Stasera proviamo la zuppa che si fa con il nido", disse ridendo. Poi però per tutto il giorno si preoccupò di come stavo, temeva che mi avessero fatto male».
Il primo incontro della Bosè con Picasso avvenne a Bordeaux. «Dominguin andava spesso a toreare in Francia e Pablo una volta gli chiese di portarmi con lui, voleva conoscermi. Mi strinse la mano. "Ma noi ci siamo già incontrati. A casa di Visconti, tanti anni fa, avevi un bellissimo tailleur nero". E mi ricordò di colpo una serata da Luchino, in cui c´erano Renato Guttuso, Antonello Trombadori e tanto partito comunista italiano. L´avevo completamente dimenticata, ma avevo diciannove anni, era entrata da poco in quel mondo, chissà cosa avevo nella mente. Certo, il periodo romano fu meraviglioso, c´erano amici fantastici, c´era una solidarietà e un entusiasmo tra la gente del cinema e della cultura che quelli di oggi se la sognano».
Un altro primo incontro è quello con Dominguin. «Fu all´ambasciata di Cuba, una festa per il film La morte di un ciclista. Il torero era amico del produttore che me lo presentò. Al primo impatto lo trovai antipatico, mi sembrava un po´ troppo fanatico. Poi è scattato qualcosa, non il grande amore, ma una grande passione». Una passione che ha cambiato la sua vita: per la durata del matrimonio - dal 1955 al 1967 - la Bosé ha lasciato il cinema, che pure le aveva offerto occasioni, incontri, riconoscimenti prestigiosi e l´affetto di tanti compagni di lavoro. «Non ci puoi tradire con un torero!», le dicevano Mastroianni e Interlenghi che «quando giravamo Parigi è sempre Parigi rientravano in albergo prima di me e li trovavo nella mia camera, tutti e due dentro il letto. Quanto ridevamo! Ci volevamo bene, ma li cacciavo via, ero incorruttibile». Se Visconti l´aveva notata, ancora Lucia Borloni, commessa in una pasticceria milanese, dopo l´elezione a miss Italia ‘47, l´ingresso nel cinema bello fu grazie ad autori come Giuseppe De Santis (Non c´è pace tra gli ulivi) e Antonioni (Cronaca di un amore).
«Non ho mai avuto rimpianti. Volevo i figli, volevo una famiglia e l´ho avuta. Poi non ha funzionato, ho ripreso a lavorare e la vita mi ha regalato altri incontri, amanti e la fortuna di un grande amore. Dopo il divorzio, l´amicizia con Picasso è rimasta viva, ma non ci sono più state le vacanze insieme, le serate infinite. Mi è mancata la sua gioia di vivere, mi è rimasta la ricchezza della memoria». Ha ancora i capelli blu? «Sì. Ero diventata bionda, tutti dicevano che stavo male e sono tornata blu. Mi dà energia, blu è mare ed è cielo. E c´era tanto blu anche in Picasso».

sabato 31 maggio 2008

l’Unità 31.5.08
Raid del Pigneto. «Non era Chianelli il capo della banda: il capo era un nazista»
L’unica testimone ripete: «L’ho già detto alla Digos: il capo era giovane, aveva una bandana, un foulard con la svastica».
di Anna Tarquini


Simona, la giornalista dell’Agenzia Italia testimone diretta del raid xenofobo al Pigneto, ha ancora «l’immagine chiara» davanti a se. «Quell’uomo - racconta a l’Unità - avrà avuto sui 25 anni e aveva la svastica, era lui che guidava i violenti». Eppure tutta l’attenzione si è spostata sul pregiudicato Dario Chianelli, e sulla sua versione dei fatti: «Non è razzismo, ma la vendetta di quartiere contro uno scippo». Ma tante cose in questa ricostruzione non tornano: «Ha detto che avevano tutti il casco, ma stranamente - prosegue Simona - quello che ho visto io il casco non ce l’aveva. Dicono che c’era anche un ragazzo di colore tra gli aggressori, ma certo l’avrei notato». Ma forse per tanti - anche giornalisti - è più comodo credere a un balordo...
Ripartiamo dalla svastica. L’aggressore del Pigneto aveva o non aveva la svastica? Simona, la cronista dell’Agi che in diretta, seduta sul sellino del suo motorino, ha dettato il primo lancio di agenzia sul raid ancora oggi è sicura di sì, c’era. Ed è certa anche di un’altra cosa: questa storia è molto brutta e si sta dando più credito alla versione di un uomo che ha pure più di un precedente penale rispetto a quella di una giornalista che suo malgrado è stata testimone diretta. «Io ho visto quello che ho scritto, né più né meno. Ho visto questa bandana o questo foulard con dei segni tra cui la svastica. L’ho già detto anche alla Digos». Simona, lo diciamo subito noi, è stata minacciata. In questi giorni ha mantenuto un rigoroso silenzio sulla vicenda, anche se il suo mestiere è raccontare. Lo ha fatto perché è testimone, naturalmente, ma anche perché qualcuno le ha detto papale papale: «Al Pigneto è meglio che non ti fai rivedere per un po’». Simona non crede alla versione di Dario Chianelli, non ricorda di averlo visto davanti all’alimentari del bengalese. Dice: «può essere pure che ci fosse, ma io ho denunciato un’altra cosa, ho descritto un altro uomo come capobanda».
Ripartiamo dai fatti. La rabbia del quartiere, la violenza, l’intolleranza. Poche ore dopo il pestaggio già gira una versione che dice: «Non è razzismo, ma la storia di uno scippo vendicata dal quartiere». Ma in quelle stesse ore e ancora oggi c’è un altro fatto incontestabile: Simona, sabato 24 maggio, alle 17.15 è seduta sul motorino davanti all’alimentari del bengalese e vede arrivare un uomo seguito da altri dieci ragazzi urlanti. Alza il telefono e cerca, invano, di chiamare il 113. «L’immagine è ancora chiara davanti a me. Avrà avuto 20 forse 25 anni e aveva la svastica». Ecco il suo racconto: «Io in questi giorni non sono intervenuta. Ho fatto il mio dovere di cronista, l’ho detto alla Digos, loro hanno detto la loro verità va bene così. La cosa più bella è che per alcuni giornali, come dire, quello che ha detto una persona che comunque ha precedenti penali è oro colato. È arrivato là da solo, c’era casualmente, insomma. Ha detto che avevano tutti il casco, ma stranamente quello che ho visto io il casco non ce l’aveva. Poi ora dicono che c’era anche un ragazzo di colore tra gli aggressori, ma forse l’avrei notato invece non l’ho notato. Insomma una serie di cose che mi lasciano francamente perplessa. Però, siccome io non faccio la commentatrice, e siccome mi hanno fatto capire che devo stare attenta e non avvicinarmi al Pigneto, allora il mio profilo è ancora più basso. Dopodiché magari venisse fuori, ma a questo punto secondo me non verrà mai fuori». Per carità. Tutto può essere. «Magari - dice Simona - quelli erano veramente un’accozzaglia di gente del quartiere, magari la svastica non sanno nemmeno che vuol dire. Boh. Però so che la svastica uno ce l’aveva, poi figurati se può venir fuori, evidente che no».
Il giorno dopo il pestaggio la Digos offre la sua versione: la politica non c’entra. È uno sgarro mischiato all’intolleranza del quartiere che non ne può più di spaccio e risse. Il responsabile - dice sempre la Digos - è un uomo che cercava di riavere il portafogli da un certo Mustafà. Poi è la vendetta verso i bengalesi a colpi di bastone e di sloga: «Immigrati bastardi».
L’altra versione. Niente slogan, niente frasi come «negri bastardi». I dieci, quindici energumeni che hanno preso a mazzate le vetrine dei bengalesi non parlavano, urlavano, come se la spedizione punitiva fosse studiata da tempo a tavolino e dovesse essere rapida e precisa. Già una settimana fa Simona era stata precisa su questa circostanza. Oggi lo è ancora di più. «Sì, urlava e chiamava gli altri. Tra l’altro io ho letto che quello con la magliettina rossa, quello che si è costituito, Chianelli, dice che era il primo. E che poi gli altri sarebbero arrivati dopo. Ora, io ero seduta sul mio motorino, quindi se lui è venuto, a volto scoperto, passeggiando tranquillamente e si è messo davanti all’alimentari può anche essere che io non l’abbia visto. È possibile. E poi sono arrivati gli esagitati dietro, può essere. Detto questo io però ho davanti l’immagine del primo che arriva urlando come un pazzo, arrivano tutti urlando e insieme come massa di dieci persone, quindici persone si gettano contro quello là, contro il bengalese». Il primo che arriva davanti all’alimentari, il capo, secondo Simona non è Chianelli. «Mi sembrava un giovane. Io ho detto anche alla Digos che, considerato che era abbastanza snello, poteva avere sui 25 anni. Però questa è proprio una deduzione. Non era assolutamente Chianelli, anche perché la magliettina rossa mi avrebbe colpito, no? Invece proprio no, non aveva la maglietta rossa. Chianelli dice che è arrivato da solo, questi non li conosceva, giusto? Però poi lui dice: “però io sono di sinistra quindi non c’entra questo fatto della svastica, il razzismo non c’entra”. Però se tu non li conosci non sai quelli come si sono bardati, no? O forse li conosci perché hai visto che possono essere ragazzotti del quartiere, ma tu, se non li conosci, non lo sai quello che si sono messi addosso. Almeno dovrebbe essere così. C’è qualcosa che non mi torna, dopodiché...». Dopodiché Dario Chianelli si offre alla stampa. Racconta il raid, dice: «Sono stato io e la politica non c’entra». Giovedì 29 a mezzogiorno si costituisce. Viene interrogato e poi viene lasciato libero di tornare a casa, accolto tra gli applausi dal Pigneto. Di più. Ormai rinfrancato il quartiere confessa che tra i mazzieri c’è anche un immigrato. «La cosa più grave è la strumentalizzazione - dice Simona - , nel senso che tu fai una cosa, per me è stato uno choc terribile, e tu vedi poi che i colleghi credono più a un balordo che dice delle cose piuttosto che a una persona che non ha motivo di dirti una cazzata. Perché c’era la svastica o non c’era la svastica, sempre quello è. Sempre violenza è. Quindi non capisco perché se c’è la svastica allora è fascista ed è più grave? Io non scrivo per l’Unità, io lavoro per l’Agi quindi... non avrebbe proprio senso. Una storia proprio brutta, proprio brutta».

l’Unità 31.5.08
Razzismi. Strani «Eroi» di quartiere
di Lidia Ravera


«Er Che Guevara der Pigneto» ha i capelli bianchi, tatuaggi sulla pelle e rapine sulla fedina penale, ha un passato da orfanello e un presente da precario, conserva gelosamente ed espone con piacere tutta la mitologia di chi si nutre di fumetti o di B-movie violenti. Concetti tipo: io so’ bbono e caro ma quanno m’incazzo sfascio tutto. Io per mia madre, mia sorella, mia figlia, mia nonna, la mia donna, il mio quartiere sono capace di fare qualunque cosa, anche la peggiore. Sottotesto: e faccio benissimo a farlo (anche se poi mette in guardia dall’imitarlo), in quanto esercito il punto primo del diritto selvaggio applicato.
Cioè: menare e sfasciare chi, a suo insindacabile giudizio, si comporta male è come pisciare ai quattro angoli del proprio territorio, delimitandolo.
Nel territorio detto «il Pigneto», «Ernesto», al secolo Dario Chianelli, ci è nato, ci è vissuto e ci morirà, nessuno deve pestargli i piedi, perché quelle quattro strade, quei bar, quelle botteghe sono casa sua. Quelli che sono arrivati dopo, sono degli ospiti. E gli ospiti devono comportarsi bene, sono in casa di Dario, perché tutti lo conoscono, perché chi lo conosce lo rispetta, perché chi non lo conosce ancora imparerà a conoscerlo e a rispettarlo, cioè ad aver paura di lui.
Perché lui è buono e caro ma i senegalesi, i bengalesi, i marocchini, i tunisini devono rigare dritto. Come tutti gli altri.
Perché lui può «rubare per fame» e non lavorare («E che uno nato il 1° maggio po’ lavora’?») e restare un santo, ma loro se rubano un portafoglio lui li gonfia. Perché nel quartiere suo non si deve rubare, ci vuole «rispetto». C’è quasi da invidiarlo il Che Guevara del Pigneto per le sue incrollabili certezze, in un momento in cui noi, nutriti da altri film e da altre letture, abbiamo il cuore pesante e la testa piena di dubbi. C’è da invidiare lui e i «pischelli» che gli ronzano attorno perché l’ignoranza e il bisogno di scaricare la rabbia per una vita grama, conferisce loro un’identità collettiva, un sentimento comune, una sorta di epos delle loro loro giornate sgangherate.
C’è da invidiarli perché si sentono eroi del cartone animato che hanno in testa. Per questo rifiutano di etichettare come razzista la spedizione punitiva contro il negozio del nemico. «Razzista» è un aggettivo che non sta nel linguaggio del fumetto. Devi essere proprio un naziskin per accettarlo e gloriartene. Ne ho sentiti tanti (anche certi politici che hanno sempre qualcosa di verde addosso) e tanti ne posso immaginare che, appena finito di dare fuoco a una ipotetica Moschea , già dichiarano al telegiornale che loro rispettano tutti, ma quando è troppo è troppo: questi sono barbari, addirittura pregano col sedere per aria! Fascista io? Ma per carità… Solo perché ho sfasciato il negozio di un bengalese che non mi ha fatto ritrovare il portafiglio di una mia amica? Ma per carità: il nonno della mia ex moglie era socialista, il mio tatuaggio preferito è Che Guevara… come fate a dire che sono fascista? Soltanto perchè mi vendico personalmente dei torti subiti invece di rivolgermi alla giustizia? Solo perchè esercito la violenza e la sopraffazione, mi vendico da me senza disturbare «le guardie», solo perché non credo nelle istituzioni? Solo perché faccio la voce grossa e impongo il rispetto con la forza? Sì, solo per quello. Basta e avanza.
Esistono comportamenti «fascisti» , e chiunque abbia qualche consuetudine con la storia può documentarsi in merito. Non è un’attenuante che le squadracce del presente non abbiano alibi ideologici. È un’aggravante. Se nel ventennio poteva esserci qualche povero gonzo che davvero credeva in Mussolini e si comportava male di conseguenza, oggi, che nessuno crede più in niente e se ne vanta, non ci sono giustificazioni, per assalti, aggressioni, incendi e persecuzioni.
È la nuda e pura responsabilità individuale. È un atto criminale, punto e basta. E, personalmente, riterrei opportuno un giudizio severo anche nei confronti di un eventuale manipolo di giovanotti «di sinistra» , se andassero a randellare in giro questo o quello, a scopo di ritorsione.
Quando, nei tardi anni settanta, alcune teste marce di «Prima Linea» (terroristi e di sinistra) decisero di andare a gambizzare e intimidire a colpi di pistola , qui a Roma, sospetti spacciatori di quartiere, per salvaguardare la peggio gioventù e per continuare a scrivere col sangue la loro stupida epopea, ricordo bene, benchè fossi una ragazzetta, la vergogna che provai per loro e la repulsione, per il fatto che si conclamavano «comunisti». Oggi il comunismo è defunto e la parola «sinistra» è stata pensionata a forza.
Che Guevara, pace all’anima sua, abita stabilmente sulle T-shirt di chiunque, pochi sanno qualcosa del suo pensiero e delle sue azioni, ma molti conoscono la sua barba e la sua motocicletta.
Oggi, forse, se vogliamo provare e tracciare un discrimine fra «noi» e «loro», fra i buoni e i cattivi, è meglio ripartire dai fondamentali, è meglio metter giù, nero su bianco, pochi princìpi, da condividere e, soprattutto, da mettere in pratica. Uno potrebbe essere, se i cattolici mi consentono questa incursione nel loro territorio, questo: «Non fate agli altri quello che non vorresti fosse fatto a voi».
www.lidiaravera.it

l’Unità 31.5.08
«Bella ciao» ora ha la sua Festa
Dal 20 al 22 giugno la prima festa nazionale dell’Anpi. In nome dei fratelli Cervi
di Nedo Canetti


È LA PRIMA Festa nazionale dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani). Si svolgerà nel Parco del Museo Cervi di Gattatico (Reggio Emilia) dal 20 al 22 giu-
gno, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica. Lo ha annunciato il senatore Armando Cossutta del direttivo nazionale dell’Anpi insieme a Raimondo Ricci, vice presidente vicario. «L’attualità dei valori della Resistenza e della Costituzione - ha sottolineato Cossutta - che hanno assicurato al Paese pace e democrazia per sessant’anni, sarà il filo conduttore della manifestazione, nel corso della quale saranno organizzati quattro laboratori storico- culturali, ai quali parteciperanno studiosi, intellettuali, scrittori, dirigenti politici».
La Festa è stata concepita e organizzata da un gruppo di giovani, iscritti all’Anpi quando l’Associazione, con la modifica dello Statuto, ha aperte le porte anche a chi non ha partecipato direttamente alla Resistenza. La scelta della località nasce dal forte significato simbolico che la terra dei Cervi ed il Museo lì sorto in loro ricordo, hanno rivestito per l’intero movimento resistenziale e per le generazioni successive. È stata, per prima, Maria Cervi, figlia di una del sette fratelli martiri, purtroppo deceduta lo scorso anno, a credere in questo progetto. Con lei hanno inizialmente lavorato questi giovani, che poi hanno portato al traguardo l’ idea, scaturita durante i lavori del 14° Congresso dell’Anpi di Chianciano.
Sarà vera Festa. Non solo convegni, dibattiti e laboratori di studio, sono in programma, infatti, ma anche eventi musicali, ludici, culturali. L’iniziativa, illustrata da Alessandro Frignoli, responsabile della Festa e dalla direttrice del museo e sindaco di Gattatico, Cantoni, sta riscuotendo, in tutto il Paese, larghe adesioni. Da Ciampi a Veltroni, da Epifani a Finocchiaro, da Ingrao a don Ciotti, da Errani a Marazzo, a Vendola, a Soru, da Marina Sereni a Diliberto a Rodotà a Zavoli, da Carla Fracci a Scarpati,al Presidente emerito della Corte Costituzionale, Giuliano Vassalli, presente alla conferenza stampa, sono centinaia le personalità della politica, della cultura (forte l’impegno anche organizzativo dell’Arci), dello spettacolo, del mondo sindacale che hanno già fatto pervenire l’adesione. Alcuni saranno presenti alla Festa. «Mi auguro che i giovani - è il messaggio di Margherita Hack - ritrovino l’entusiasmo per i grandi ideali di solidarietà che hanno animati i giovani di 60 anni fa».
L’iniziativa si colloca in un momento particolare della situazione dell’Italia, nel quale rigurgiti fascisti si stanno materializzando in diverse parte del Paese. «I valori di libertà e giustizia - ha insistito Cossutta - che sono alla base della Costituzione antifascista, sono attualissimi in un momento in cui tendono a prevalere il qualunquismo e l’antipolitica, che aprono la strada agli attacchi alla Resistenza, agli atti di intimidazione razzista e fascista, da Verona a Roma, che chiedono una riconciliazione senza verità, equiparando il torto degli sconfitti alle ragioni dei vincitori». «La festa - ha concluso - vuole anche essere un chiaro no al revisionismo culturale e storico».

l’Unità 31.5.08
Italiana, ha la pelle nera, ride con la figlia. Insultata e minacciata nel centro di Roma


L’ultima aggressione ieri mattina in pieno centro a Roma. Per la terza volta in quindici giorni si è sentita dire frasi come «Sporca negra, che c… vuoi?», «C’avete rotto, tornatevene al vostro Paese». E lei, Annaz, 48 anni, passaporto delle Isole Mauritius ma cittadina italiana, sposata da venticinque anni con un calabrese, due figlie, da sempre impegnata socialmente nella capitale, ieri ha cercato di rispondere. Poi quando uno di quei tre uomini che l’avevano insultata, le si è avvicinato come nel tentativo di darle una testata, ha avuto paura. E sconforto per quelle persone affacciate ai balconi che non dicevano nulla. Anzi ridevano.
«Non so cosa sta succedendo - ci racconta - Temo per le mie figlie. Saranno sempre straniere perché la pelle è quella che parla. Non importa se sei nato qui, se ti sei sempre comportato bene. Dobbiamo scriverci sulla faccia che siamo cittadini italiani?».
Storie di quotidiani soprusi a sfondo razzista. Che colpiscono anche chi come Annaz fa volontariato ad anziani e disabili, la domenica distribuisce i pasti ai senzatetto e non ha mai avuto problemi con la legge. Solo per il colore della pelle, com’è accaduto a Roma per tre volte in quindici giorni. Ieri l’ultimo episodio. Annaz passeggia per le vie del centro con sua figlia. Ridono e scherzano. Tra le due vola qualche sfottò. È a quel punto che si fanno avanti tre uomini. «Che c… hai detto? Guarda che questa non è casa tua. Vedi di tornartene al tuo paese» gli fa uno. Inutile il tentativo di spiegare. L’uomo le si avvicina come per darle una testata. Dai balconi alcuni residenti ridono. Annaz e sua figlia scappano e ora lei non fa che ripetere: «Che futuro avranno i miei figli? Saranno sempre stranieri».

l’Unità 31.5.08
La prima volta del reato di clandestinità. E la legge non è più uguale per tutti
Milano, processo per direttissima, e per accuse diverse, a un cileno, un ucraino, un marocchino e un moldavo
di Giuseppe Caruso


LEGGE È toccata a Milano la «medaglia» per la prima applicazione del reato di clandestinità. L’aggravante, prevista nel decreto Maroni sulla sicurezza, è stata
utilizzata ieri mattina in alcuni processi per direttissima che si sono tenuti nel capoluogo lombardo.
L’aggravante generica, inserita all’articolo 61 del Codice Penale al numero 11 bis, è stat a contestata, nell’ordine, ad un cileno di 18 anni accusato di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale nel pronto soccorso della clinica Santa Rita, ad marocchino di 27 anni sorpreso con 80 grammi di cocaina ed eroina ed infine ad un ucraino di 32 anni e un moldavo di 25, arrestati per il furto aggravato di 6 televisori e 30 paia di scarpe.
Nel loro capo di imputazione si legge che il delitto è aggravato dal fatto che il reato «è commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale», esattamente come previsto dal tanto discusso decreto Maroni.
L’avvocato Mario Petta, difensore del diciottenne cileno, ha fatto sapere che assieme ai legali degli altri imputati a cui è stata contestata l’aggravante della clandestinità «solleveremo in aula una questione di legittimità costituzionale della norma, che è contraria all’articolo 3 della Costituzione, per la quale la legge è uguale per tutti. A questa stregua, sarebbe come dire che chiunque abbia i capelli biondi, oppure neri, e commette un reato, dev’ essere condannato a un terzo in più della pena. A mio avviso si tratta di una norma palesemente incostituzionale».
Gennaro Carfagna, che difende il marocchino di 27 anni arrestato per possesso di droga, ha aggiunto che comunque tutti i legali «aspetteranno di vedere cosa farà il giudice, che potrebbe decidere di sollevare lui stesso l’incostituzionalità della norma».
Il processo per direttissima è un procedimento penale non ordinario a cui si ricorre in caso di arresto in flagranza di reato o confessione dell’imputato. L’iter è molto più veloce di un normale processo e vengono saltate le fasi preliminari del processo, sia le indagini che l’udienza. Il giudice dovrebbe già decidere domani. A quel punto si dovrà attendere la decisione della Corte costituzionale sull’aggravante, intanto gli imputati verranno giudicati per gli altri reati. Nel caso in cui i giudici della Consulta dovessero giudicare la norma affetta da illegittimità costituzionale, farebbero decadere il reato di clandestinità.
Il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, ieri ha ribadito come secondo lui «i clandestini devono stare a casa loro, visto che di nullafacenti e accattoni, extracomunitari o comunitari, ne abbiamo già abbastanza dei nostri. L’attuale legge Bossi-Fini prevede che chi non ha casa e lavoro deve fare i bagagli e il pacchetto sicurezza Maroni dice che per questi individui la vacanza è finita».

l’Unità 31.5.08
Zingari, quei lavori negati
di Dijana Pavlovic


Dopo i roghi di Ponticelli, gli sgomberi dei campi nomadi, gli episodi di violenza e intolleranza di questo scorcio di 2008, una delegazione delle maggiori associazioni europee che tutelano i diritti dei Rom sta visitando le città d’Italia nelle quali è più critica la situazione del mio popolo.
Ieri ho accompagnato nel campo «nomadi» di via Triboniano di Milano alcuni membri di questa delegazione che hanno avuto un lungo incontro con le comunità rumene e bosniache che vi sono ospitate.
Mentre raccontavo che chi vuol visitare il campo deve avere il permesso del Comune - qualche giorno fa una giornalista della Rai che mi ha chiesto di portarla nel campo ha dovuto chiedere l’autorizzazione che è stata concessa solo a condizione che la troupe fosse accompagnata dai vigili - i rom si avvicinavano prima diffidenti poi, dopo che ho spiegato chi erano i delegati, con dei documenti in mano.
Documenti di storie penose come quella della donna disperata che ci racconta di suo marito. Aveva avuto una espulsione tempo fa, quando la Romania non era ancora nell’Unione Europea, e adesso durante un controllo è stato arrestato e portato in un Cpt come se non fosse un cittadino comunitario.
Ma perché all’inizio c’era tanta diffidenza e mi chiedevano se quelle persone con me erano giornalisti?
Ce lo spiegano alcuni uomini: ci parlano del loro bisogno di farsi sentire, di raccontare le loro storie, la loro vita in questo Paese e dell’informazione che non è mai a loro favore, ma soprattutto ci raccontano quello che gli succede quando vengono riconosciuti come «zingari» dal loro datore di lavoro. Dieci di loro hanno perso il lavoro perché il loro padrone li ha cacciati dopo aver visto in televisione un servizio sul campo e li ha riconosciuti. E allora? Allora lavoro nero. Mi raccontano che se sei zingaro ti pagano 4 euro all’ora, se sei rumeno 5 euro, se sei albanese 6 euro e così via.
Poi c’è il rom che lavora per una società che smantella l’amianto che ci dice che non vuole perdere il suo lavoro esponendosi o partecipando a iniziative che raccontino che i rom non solo lavorano ma si prendono anche i lavori più schifosi.
Si arriva poi al paradosso dell’uomo che ci fa vedere la sua carta d’identità, rilasciata dal Comune di Milano. C’è scritto: «residenza: via Barzaghi 16 - campo nomadi». Come a dire, se fai vedere il tuo documento nessuno ti prende a lavorare. Poco più di sessant’anni fa ci mettevano il triangolo marrone per identificarci come razza da sterminare. Oggi ci si limita a identificarci come zingari per escluderci dai diritti fondamentali di ogni cittadino come quello al lavoro, che vuol dire alla dignità della vita.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 31.5.08
A Milano il 4 e 5 giugno
Filosofia e scienza pensano insieme


La Società Filosofica Italiana e la Società Italiana di Logica e di Filosofia della Scienza promuovono una due giorni sul tema La filosofia, le scienze (4 e 5 giugno a Milano). A dialogare su mente, cervello, emozioni, linguaggio, passioni, arte, natura, etica, numerosi studiosi, filosofi e scienziati, tra i quali Laura Boella, Fiorenza Toccafondi, Corrado Sinigaglia, Giulio Giorello, Salvatore Natoli, Armando Massarenti, Ivana Bianchi, Maurizio Ferraris, Elena Castellani, Paolo Parrini, Maria Luisa Dalla Chiara, Carla Bagnoli, Mario De Caro, Michele Lenoci, Alessandro Pagnini. Il programma delle due giornate prevede anche una incursione nei rapporti tra cinema e filosofia, con la proiezione di Blade Runner di Ridley Scott e La via Lattea di Luis Buñuel.

l’Unità 31.5.08
Quando la bioetica non ha pregiudizi
di Maurizio Mori


La riflessione proposta in questa pagina oggi riguarda un tema nuovo della bioetica, affrontato da un importante documento che proponiamo in traduzione italiana. Elaborato nell’aprile scorso da una cinquantina di studiosi che si sono riuniti per due giorni a Hinxton, 15 km da Cambridge, il documento è frutto di una discussione approfondita e mostra come procede la riflessione bioetica in campo mondiale. Mentre da noi il dibattito tende ad avvitarsi su questioni antiche che dovrebbero essere ormai risolte, al di là delle Alpi si prendono sul serio le sfide poste dalla ricerca scientifica e si riflette esaminando gli argomenti per dare risposte meditate. La nuova prospettiva aperta dalla ricerca è frutto di una recente scoperta, i cui aspetti tecnici sono chiariti da Giovanna Lazzari e Cesare Galli nell’altro articolo. Si tratta della possibilità di far regredire le cellule adulte allo stadio della pluripotenza (capaci di produrre tutti i tipi di cellule del corpo, ma non quelle della placenta). La scoperta sembrava poter portare un po’ di calma e serenità nel turbolento dibattito sui problemi della ricerca, perché fornisce un “metodo etico” che rende disponibili cellule pluripotenti senza toccare l’embrione. Per questo i cattolici hanno subito acclamato alla scoperta ed in Italia è stata proposta una moratoria per sospendere la ricerca sulle cellule staminali embrionali, essendo ora disponibile un metodo alternativo col sigillo dell’etica. Eppure, lo stesso metodo solleva ora altri problemi etici. Infatti, se si prende ad esempio una cellula della pelle, è possibile farla regredire allo stadio della pluripotenza, e poi di lì farla andare avanti dirigendola in modo tale da ottenere dei gameti, da cui - grazie alla fecondazione in vitro - dar origine ad un nuovo organismo. In breve: in futuro, partendo da una cellula della pelle potrebbe diventare possibile generare un bambino. Di fronte a queste opportunità, s i deve prendere atto che i processi vitali stanno sempre più diventando controllabili come la materia inorganica. Mentre in passato la vita era qualcosa che sembrava sfuggire alla conoscenza ed al controllo umano, qualcosa di avvolto da un mistero che emanava venerazione e sacralità, ora sta diventando un elemento plasmabile. Questo processo di secolarizzazione del biologico ci costringe a rivedere i parametri di accostamento alla riproduzione, che diventa sempre più oggetto di scelta umana: non solo se generare o no, ma anche come generare diventa frutto di responsabilità umana. Soprattutto l’effetto dirompente è che si mostra la vacuità dell’idea che ci siano dinamismi intrinseci alla vita che rivelano un disegno naturale ritenuto inviolabile. Questo diventa un mito analogo a quelli alimentati dall’ingenua conoscenza degli astri precedente la rivoluzione astronomica. Viene da chiedersi se, per quei paradossi che spesso si verificano nella storia, quel metodo Yamanaka acclamato dai cattolici come “etico” non si riveli un boomerang che, tornando al padrone, lo colpisce alla caviglia facendolo sgretolare.
Presidente della Consulta di Bioetica, Milano - Università di Torino
i due articoli citati che corredano la pagina sono disponibili per chi ne faccia richiesta scrivendo una email a "segnalazioni"

Corriere della Sera 31.5.08
Lecco Per 5 ore nel cortile della scuola. Era il giorno del suo compleanno
«L'ho dimenticata in auto» Muore bimba di due anni
Il parroco: «Sono vicino ai genitori»


MERATE (Lecco) — «Ho dimenticato la bimba in macchina »: al marito, al parroco, ai carabinieri che l'hanno interrogata per tutta la sera, a chiunque Simona ha gridato con la forza della disperazione la sua versione sulla morte della piccola Maria, la sua figlioletta di due anni, trovata in fin di vita all'interno dell'auto di famiglia.
Simona Verzelletti, 39 anni insegnante di scienze al liceo scientifico Agnesi di Merate, ha raccontato di essersi scordata la sua terzogenita — che ieri mattina avrebbe dovuto essere affidata alla baby sitter — sul seggiolino della macchina prima di presentarsi in classe. Dopo cinque ore di permanenza dell'abitacolo, quando la fatale dimenticanza è venuta a galla, mamma e bimba si sono precipitate in ospedale, con Maria ormai cianotica. Ogni tentativo di rianimazione è stato vano. Maria è morta, ma le cause del decesso sono ancora misteriose. Hanno tentato di chiarirle i carabinieri, che ieri fin dopo le 23 hanno interrogato Simona nella caserma di Merate, alla presenza di un avvocato. Ma sull'esito del faccia a faccia, nulla per ora è trapelato.
Il primo a rendersi conto di quanto era accaduto è stato il marito della donna, Sergio Campana, ricercatore all'osservatorio astronomico di Brera a Milano.
Ieri, poco dopo le 13, è rincasato nella villetta di famiglia in via fratelli Cervi a Robbiate (Lecco) e ha trovato nella segreteria telefonica una serie di messaggi, piuttosto preoccupati, della baby sitter. «Perché non mi avete portato Maria? È successo qualcosa?», chiedeva la donna. Sergio ha contattato la moglie, che stava ancora tenendo lezione a scuola; a quel punto Simona è parsa folgorata.
La giornata di ieri in Brianza era tutt'altro che torrida, ha piovuto quasi tutto il giorno e dunque è difficile ipotizzare una disidratazione della piccola. Nessuno comunque si è accorto di lei, forse perché la macchina non era parcheggiata in un punto particolarmente visibile.
Dall'ospedale Simona Verzelletti è stata portata in caserma e da lì ha chiamato don Paolo, il parroco di Robbiate: «Anche a me ha detto piangendo che aveva dimenticato la piccola sulla macchina — racconta il sacerdote —. Lei è insegnante di catechismo qui in parrocchia, tutta la famiglia è molto unita. Starò loro il più vicino possibile». Nella vita di Simona e del marito non ci sono ombre: l'unico motivo di preoccupazione è stato un delicato intervento chirurgico a cui Sergio si era sottoposto di recente ma che si era risolto positivamente. «Forse è stato lo stress per quella malattia », commenta don Paolo. Forse, però non è ancora abbastanza per comprendere quanto accaduto.

Corriere della Sera 31.5.08
E negli Usa il creazionismo torna di moda


È una cifra da brivido quella emersa negli Stati Uniti da un sondaggio tra gli insegnanti di scienze nella scuola superiore: ben il 16 per cento si dichiara creazionista, cioè contrario all'evoluzione di Darwin.
Quindi accade che anche se sono costretti ad insegnarla, tendono a dedicarle sempre meno tempo e a presentarla, di certo, non nel modo più appropriato. Non basta dunque, come era prevedibile, il pronunciamento di diverse corti di giustizia americane che avevano decretato un principio importante: il creazionismo e la teoria del «disegno intelligente» sono una religione non una scienza e quindi non devono trovare posto nell'insegnamento scientifico scolastico. La realtà è un'altra e ben radicata con sfumature di interesse non trascurabili, spesso di natura politica. Lo stesso «ambientalista puro» e democratico Al Gore quando era in campagna elettorale per salire alla Casa Bianca aveva strizzato l'occhio ai creazionisti consapevole del loro prezioso consistente numero. Ora l'indagine in duemila high-school distribuite un po' in tutti gli Stati dice che il 2 per cento degli insegnanti di scienze non insegnano l'evoluzione. Un quarto degli insegnanti precisa che dedicano lo stesso tempo ad insegnare il creazionismo e l'evoluzionismo. Metà di loro, inoltre, afferma convinta che «il disegno intelligente è una valida e scientifica alternativa alla spiegazione di Darwin sull'origine delle specie». E ancora: il 16% dei docenti scientifici sostiene di credere che l'uomo sia stato creato da Dio negli ultimi 10 mila anni.
Il fenomeno, comunque, non è solo un'anomalia americana.
Anche in Italia nei programmi della scuola superiore l'ex-ministro Moratti aveva cancellato l'insegnamento dell'evoluzione. E nonostante le proteste e l'intervento di una commissione di scienziati illustri nulla è accaduto. Il contagio continua.

Repubblica 31.5.08
"Lo sguardo di Giano" di Carlo Galli
Oltre il nazismo di Carl Schmitt
di Franco Volpi


«È ora di smetterla con i toni tribunalizi», si lamentava già negli anni Settanta Hans Blumenberg in merito al caso Carl Schmitt. In seguito a quel lamento il rabbino Jacob Taubes cercò, e ottenne, il contatto personale con Schmitt. Nel vedere ancor oggi
il grande giurista attaccato da mediocri professori, lesti a emettere sentenze senza nemmeno una cognizione precisa della materia, viene alla mente una immagine: quella di cagnolini che, per sentirsi grandi, fanno pipì su una piramide.
Dopo la polemica sollevata dall'opuscolo di Yves Charles Zarka (Un dettaglio nazi nel pensiero di Carl Schmitt , il melangolo), sostenuto dallo storico della scienza Paolo Rossi improvvisatosi schmittologo, prende ora la parola Carlo Galli, il più autorevole studioso italiano dell'argomento, ristabilendo le proporzioni e mettendo in chiaro le cose. Nella sua magistrale silloge di studi Galli osserva, intanto, che il nazismo non è affatto un dettaglio nel pensiero di Schmitt, ma un elemento pesante della sua esperienza umana, politica e intellettuale. Sarebbe tuttavia un errore fatale assumerlo come «chiave esclusiva per comprendere il suo pensiero, antecedente e seguente la pur cospicua fase nazista»: bisogna tenere distinti la "dottrina" dal "pensiero" di Schmitt, il lato "ideologico" dall'efficacia "teorica" della sue analisi.
Già nella sua summa sull'opera schmittiana, Genealogia della politica (il Mulino), Galli aveva documentato tutta la capacità del controverso pensatore nell'attingere alla struttura profonda della modernità e nel capire il funzionamento di quella costruzione politica tipicamente moderna che è lo Stato. In questi saggi, Lo sguardo di Giano , egli approfondisce alcune intuizioni della teoria politica schmittiana che sono state recepite perfino a sinistra, determinando la sua vasta fortuna postuma. Tra queste c'è anzitutto l'idea che la forma dello Stato sia una compattazione della comunità politica relativamente recente, avvenuta soltanto in età moderna. In tal senso Schmitt ha dato un contributo essenziale alla relativizzazione storico-concettuale della nozione di Stato, alla ricostruzione della sua nascita e all'analisi della sua attuale crisi di legittimità, con la conseguente critica del parlamentarismo e dei limiti della rappresentanza tradizionale. Strettamente congiunta a ciò è l'ipotesi della "teologia politica", che Schmitt ha riportato in auge e ha sfruttato come chiave ermeneutica per spiegare la genesi dei concetti portanti della scienza politica moderna, procedenti dalla secolarizzazioni di altrettante categorie teologiche. Un'ipotesi, questa, che consente di capire anche perché lo Stato liberale moderno viva di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire.
Nell'ultima sua grande opera, Il nomos della terra , con la diagnosi della crisi dello jus publicum Europeum Schmitt sollevava un lungimirante interrogativo: dopo la fine dell'ordinamento politico-giuridico continentale della vecchia Europa e l'entrata in scena degli Stati Uniti d'America, come è possibile un nuovo nomos su cui basare il governo del mondo? Per quanto attuale appaia la questione, Galli su questo punto si smarca da Schmitt: le categorie e i paradigmi concettuali da lui messi in campo rimangono vincolati alla modernità, e se applicati alla realtà politica attuale perdono il loro carattere stringente. Rispetto al mainstream liberale della politica moderna, effettivamente Schmitt risulta marginale. Certo, si tratta di una marginalità feconda perché apre uno sguardo alternativo sulle logiche politiche della modernità. Ma le nuove dinamiche della realtà globalizzata sembrano spiazzare il suo pensiero politico e consegnarlo all'inattualità.

Repubblica 31.5.08
Jervis contro Basaglia
di Simonetta Fiori


Una rilettura dissacrante dell´antipsichiatria e del suo fondatore Basaglia firmata da Giovanni Jervis, protagonista di quel movimento e stretto collaboratore del medico veneziano. Bollati Boringhieri annuncia per settembre un libro che solleverà non poche discussioni. S´intitola La razionalità negata - proprio a ricalco del celebre L´istituzione negata - ed è un profondo ripensamento di quella esperienza di critica alla psichiatria tradizionale che portò alla chiusura dei manicomi. Il tentativo - spiega nell´introduzione Gilberto Corbellini - è quello di sottrarre l´antipsichiatria dall´alone di mito che l´avvolge, mostrandone anche velleitarismi, contraddizioni, pesanti ideologismi.
Jervis rivela alcuni retroscena a proposito dell´Istituzione negata, apparso nel 1968 da Einaudi con la firma di Basaglia ma curato sostanzialmente da Jervis. Nessuno dei due autori, qualche tempo dopo, voleva farsi carico del titolo. «Ci sentivamo entrambi un po´ a disagio (non in colpa) perché l´istituzione negata era una dizione trionfalistica». Quel titolo pareva suggerire una cosa che nei fatti non era vera, «ossia che una istituzione come un vecchio manicomio di medie dimensioni potesse ribaltare la propria essenza, esistere nel suo rovesciamento. Divenire il luogo dove una rivoluzione culturale aveva creato la possibilità di vivere tutti quanti alla pari, anche i cosiddetti matti, secondo inediti valori umani».
Dopo averne rimarcato l´originalità e il coraggio, Jervis non manca di esprimere riserve verso "l´egocentrismo un po´ esclusivo" mostrato da Basaglia negli anni di Gorizia e, nel periodo successivo, verso quel "romantico protagonismo" che lo rese prigioniero del suo stesso mito. Un vero culto della personalità, scrive Jervis, da cui egli non seppe o non volle liberarsi.

Repubblica 31.5.08
Quando la ricchezza genera la fame
di Amartya Sen


A provocare la crisi alimentare globale c´è per prima cosa una domanda in continua crescita. E ad aggravarla ci sono le scelte politiche sbagliate in primo luogo quelle degli Stati Uniti

Una politica di governo totalmente sbagliata non fece altro che peggiorare il divario: decisi a evitare in pieno conflitto che la popolazione urbana fosse insoddisfatta e irrequieta, i britannici al potere acquistarono nei villaggi i generi alimentari e li rivendettero con forti sussidi nelle città.

Questa loro mossa fece salire ancor più il prezzo dei prodotti delle campagne: nei villaggi chi guadagnava già poco iniziò a patire la fame e nella carestia e nel periodo immediatamente successivo morirono tra i due e i tre milioni di persone.
Si discute molto oggi, e per giusti motivi, del divario creatosi tra chi ha (i ricchi) e chi non ha (i poveri) in un´economia globale, ma di fatto i poveri di questo pianeta si dividono anch´essi in due fronti: quelli che stanno iniziando a migliorare la loro condizione e quelli che non ci riescono. La rapida espansione economica in Paesi quali Cina, India e Vietnam tende ad aumentare fortemente la richiesta di cibo. Di per sé, ovviamente, ciò è positivo e se questi Paesi riuscissero di fatto a ridurre le sperequazioni interne in fatto di crescita, anche chi è nella condizione peggiore riuscirebbe a nutrirsi meglio.
Tuttavia, quella stessa crescita esercita pressioni sui mercati alimentari globali, talvolta tramite l´aumento delle importazioni, altre volte tramite restrizioni o divieti alle esportazioni volti a moderare l´impennarsi dei prezzi dei generi alimentari internamente, come accaduto di recente in vari Paesi, tra i quali India, Cina, Vietnam e Argentina. I più duramente colpiti sono stati ancora una volta i poveri, specialmente in Africa.
Esiste anche una versione più high-tech di questa storia. I raccolti di prodotti agricoli come mais e soia possono essere destinati alla produzione di etanolo, da utilizzare come combustibile per gli autoveicoli. Lo stomaco degli affamati, pertanto, adesso deve competere anche con i serbatoi delle automobili. Anche in questo caso una politica di governo assolutamente sbagliata ha una sua parte di responsabilità: nel 2005 il Congresso degli Stati Uniti ha iniziato a imporre un più ampio uso dell´etanolo come carburante. Questa legge insieme ai relativi sussidi ha creato negli Stati Uniti un florido mercato del granoturco, ma al contempo ha per così dire dirottato le risorse agricole dal mercato alimentare a quello dei combustibili. Per uno stomaco affamato competere con tutto ciò è ancora più difficile.
Usare l´etanolo serve a poco per eludere il riscaldamento globale e precludere un ulteriore degrado ambientale, ma si potrebbe urgentemente porvi rimedio con riforme politiche lungimiranti, se la politica americana lo permettesse. Si potrebbe disincentivare l´uso dell´etanolo, invece di sostenerlo finanziariamente e di caldeggiarlo.
Il problema alimentare globale non è provocato da un calo della produzione mondiale, né, per ciò che può contare, nella produzione di cibo pro capite (cosa che si afferma spesso, senza per altro presentare prove attendibili). È conseguenza, invece, di una domanda in forte crescita. Un problema indotto da un aumento della domanda in ogni caso impone anche una rapida espansione della produzione di generi alimentari, che potrebbe essere realizzata tramite una maggiore collaborazione globale. Se la crescita della popolazione è responsabile soltanto in minima misura dell´aumento della domanda di cibo, può però contribuire al riscaldamento globale e il cambiamento del clima sul lungo periodo può mettere a rischio l´agricoltura. Per fortuna, la crescita della popolazione mondiale sta già rallentando e ci sono ormai prove evidenti che dando maggiori poteri alle donne (ivi compresa una migliore educazione scolastica alle bambine) la si può ridurre ancor più.
Molto più impegnativo è individuare politiche efficaci in grado di gestire le conseguenze di un´espansione incredibilmente asimmetrica dell´economia globale. Le riforme economiche interne sono terribilmente necessarie in molti Paesi a crescita lenta, ma c´è anche bisogno immediato di maggiore collaborazione e di più rilevanti aiuti globali. Il primo passo consiste nel comprendere la natura del problema.

©2008 The New York Times (Distributed by The New York Times Syndicate)
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 31.5.08
La famiglia. Storia di un legame complicato
di Piergiorgio Odifreddi


Per gli Inuit dell´Alaska i rapporti sessuali tra partner istituiscono legami permanenti e permettono unioni intrecciate
Diversamente dalla poliginia la poliandria, diffusa in Congo, Kerala e Tibet, crea problemi per riconoscere la paternità
È stato il Concilio di Trento ad imporre l´indissolubilità del matrimonio ai cattolici: il Vangelo non è così categorico Un pamphlet dell´antropologo Francesco Remotti

Nel 1859 il re Vittorio Emanuele II concesse con Regio Decreto alla sua amante, la Bela Rosin, il casato di Mirafiori e Fontanafredda, il cui motto era ironicamente «Dio, Patria e Famiglia». Nel 1945 il duce Benito Mussolini fu fucilato dai partigiani insieme alla sua amante, Claretta Petacci, dopo che il fascismo aveva proclamato lo stesso motto per un ventennio. E ancora nel 2007 i leader della destra Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini, tutti regolarmente divorziati e risposati, hanno partecipato a un Family Day ispirato ancora una volta ai valori dell´imperituro motto.
Passando dai comportamenti individuali ai pronunciamenti ufficiali, l´articolo 29 della Costituzione recita: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», con una formulazione di compromesso raggiunta il 22 dicembre 1947 dall´Assemblea Costituente fra le opposte formulazioni della destra («la famiglia è una società naturale») e della sinistra («la famiglia è un´istituzione morale»).
Dal canto suo, l´articolo 338 del Compendio del Catechismo afferma che «l´unione matrimoniale dell´uomo e della donna, fondata e strutturata con leggi proprie dal Creatore, per sua natura è ordinata alla generazione dei figli ed è indissolubile, secondo l´originario disegno divino». E l´articolo 502 enumera tra le offese alla dignità del matrimonio «l´adulterio, il divorzio, la poligamia, l´incesto, la libera unione (convivenza, concubinato) e l´atto sessuale prima o al di fuori del matrimonio».
Naturalmente, se il matrimonio eterosessuale, monogamico, procreativo e indissolubile fosse veramente espressione di una volontà divina, anche solo nel senso debole di essere stata enunciata esplicitamente da un testo ritenuto sacro, ci sarebbe poco da discutere, almeno per i fedeli. Il fatto è che questa supposta volontà divina non sembra invece essere altro che l´espressione dei desideri delle gerarchie ecclesiastiche: almeno per quanto riguarda la monogamia e l´indissolubilità tutto si può dire, infatti, meno che la Bibbia ebraica impedisse la poligamia e il divorzio, come testimoniano le storie di patriarchi come Abramo o Giacobbe, o di re come Davide o Salomone. E i l comandamento «non desiderare la donna d´altri» intendeva semplicemente preservare i beni del prossimo, in un ordine d´importanza in cui la moglie veniva prima degli schiavi e delle bestie, ma dopo la casa!
Coerentemente, gli Ebrei rimasero poligami a lungo. Verso l´anno 1000 un decreto del rabbino Gershom di Magonza proibì la poliginia agli Aschenaziti (gli Ebrei europei, che vivevano in ambienti cristiani), ma ancora nel 1578 il vescovo di Feltre rilasciava a un ebreo della sua diocesi il permesso di avere una seconda moglie, «secondo la legge del sacrosanto Antico Testamento». I Sefarditi (gli Ebrei della penisola iberica e del Mediterraneo meridionale, che vivevano in ambienti islamici) rimasero invece poligami in teoria, e in molte comunità anche in pratica, fino a che nel 1950 il rabbinato di Israele estese la proibizione a tutti gli Ebrei.
Se anche Dio ha parlato, è chiaro dunque che è stato inteso diversamente da chi l´ha udito. E non solo dagli Ebrei e dagli Islamici, ai quali com´è noto il Corano (IV, 3) permette fino a quattro mogli, ma anche dai Cristiani: ad esempio, nel 1534 gli Anabattisti fondarono a Munster una comunità protosocialista e poliginica, benché di breve durata, e dal 1830 al 1980 la Chiesa dei Santi dell´Ultimo Giorno, cioè la comunità dei Mormoni dello Utah, ha ammesso ufficialmente la poliginia.
Quanto all´indissolubilità del matrimonio, nemmeno il Vangelo è così categorico come il Catechismo», visto che Gesù ammette esplicitamente il concubinato come motivo di divorzio nel Discorso della Montagna, e nel suo commento ad esso Agostino fa lo stesso con l´adulterio. In realtà è stato il Concilio di Trento a imporre nel 1563 l´indissolubilità ai Cattolici, costringendoli a fare i salti mortali nella rimozione di quel passo evangelico: i Protestanti e gli Ortodossi, che leggono invece il testo com´è scritto, accettano il divorzio, ed è proprio su questa questione che si consumò nel 1533 lo scisma tra Anglicani e Cattolici.
Essendo in gravi difficoltà teologiche a proposito della sua dottrina matrimoniale, oggi la Chiesa cerca di difenderla usando un argomento di tipo scientifico, tra l´altro più consono ai tempi moderni: sostenendo, cioè, che il matrimonio eterosessuale, monogamico, procreativo e indissolubile è «naturale», nel senso di essere la vera espressione della natura dell´uomo. Anzi, arrivando più generalmente a sostenere che il Cristianesimo è una religione naturale, il che giustificherebbe le pretese di universalità suggerite dal termine «cattolico».
Ma questa nuova strategia è ancora più fallimentare dell´appello ai testi sacri, perché richiede la rinuncia alla proclamazione delle opinioni e l´accettazione della discussione dei fatti. E ha facile gioco un antropologo come Francesco Remotti a snocciolare in Contro natura. Una lettera al Papa (Laterza, pagg. 281, euro 15) l´evidenza contraria di mezzo mondo, e a mostrare che la supposta «famiglia naturale» non è altro che l´espressione di un particolare relativismo culturale limitato nello spazio e nel tempo, che la Chiesa pretende di elevare ad assolutismo universale ed eterno.
L´aspetto forse più interessante di questa confutazione scientifica è la dimostrazione della mutua indipendenza delle varie caratteristiche del matrimonio cattolico, in genere presentate in un pacchetto ritenuto a sua volta indissolubile. E invece, anzitutto, per la maggioranza delle società al mondo il matrimonio non richiede la monogamia, benché la Chiesa aborrisca la poligamia sia sincronica, che diacronica: cioè, non solo proibisca di avere più coniugi in parallelo, ma scoraggi anche l´averli in serie (ad esempio, il rimatrimonio di vedovi), secondo la formula del «dato antropologico originario sic per cui l´uomo dev´essere unito in modo definitivo a una sola donna e viceversa» (Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, 13 marzo 2007)
Più interessante del fatto ovvio che il matrimonio è compatibile col divorzio, è quello meno ovvio che la poligamia è compatibile con l´indissolubilità: lo dimostrano ad esempio gli Inuit dell´Alaska, per i quali i rapporti sessuali tra partner istituiscono legami permanenti, benché temporaneamente disattivabili con una separazione, e permettono co-matrimoni intrecciati in cui più uomini sono sposati con una stessa donna, e più donne con uno stesso uomo (in Occidente queste situazioni si verificano informalmente negli scambi di coppia duraturi).
Diversamente dalla poliginia, la poliandria (diffusa in molte società, dal Congo al Kerala al Tibet) crea problemi per il riconoscimento della paternità, ed è anzi un mezzo di contenimento della popolazione: spesso essa si realizza quando una stessa donna è sposata da più fratelli, come la Draupadi andata in moglie ai cinque Pandava nel Mahabharata. A volte, addirittura, come nel caso dei Nayar del Malabar indiano o dei Na dello Yunnan cinese, la società è organizzata su famiglie consanguinee di fratelli e sorelle che convivono e cooperano non solo economicamente, ma anche nell´allevamento e nell´educazione dei figli che le donne concepiscono in rapporti sessuali occasionali: il che dimostra che la famiglia procreativa è compatibile con l´assenza sia di coniugi che di genitori (in Occidente l´analogo più vicino è forse quello dei bambini adottati da individui singoli, ma ci sono anche esempi di famiglie consanguinee che vanno dalla natolocalità galizia alla famiglia mezzadrile toscana).
Insomma, a chi tiene gli occhi aperti, o anche solo socchiusi, l´antropologia mostra che «paese che vai, famiglia che trovi». E´ solo chi tiene gli occhi ben chiusi che può illudersi che le proprie usanze siano «naturali», e quelle degli altri «contro natura». Soprattutto se non vede che il matrimonio non richiede la procreazione, come dimostrano gli sposalizi tra bambini, diffusi dalla Siberia alla Nuova Guinea all´America del Sud, o i matrimoni vicari in cui si affida la procreazione a qualcuno che non è il coniuge istituzionale, praticati dai Nuer del Sudan. O se non vede che l´omosessualità non è contro natura, come dimostrano non solo gli atteggiamenti di Greci e Romani, ma soprattutto il fatto che essa sia praticata in natura, appunto, da centinaia di specie animali in un´impressionante molteplicità di forme.
Ironicamente, volendo descrivere la sua memorabile osservazione che non c´è niente di comune fra i vari usi di una parola, il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche non trovò di meglio di notare che fra essi c´è solo una «somiglianza di famiglia», appunto.

Liberazione 31.5.08
Il mio lavoro per non dimenticare Basaglia
di Lea Melandri


Una cooperativa che già nel nome evoca uno spazio pubblico ideale - Olinda, la città descritta da Calvino, che si allarga senza creare periferia - e un luogo di reclusione, fino a una quindicina di anni fa - l'ex manicomio Paolo Pini, alla periferia ovest di Milano - che è diventato, per la passione di due operatori eccezionali, Thomas Emmenegger e Rosita Volani, la piazza dove si incontrano artisti e persone con disturbi psichici, impegnati nella costruzione di una socialità insolita, produttiva e creativa al medesimo tempo: un ristorante, un ostello, un giardino botanico e oggi il Teatro ricavato dalla ex-cucina del Pini

Lea Melandri
Una cooperativa che già nel nome evoca uno spazio pubblico ideale - Olinda, la città descritta da Calvino, che si allarga senza creare periferia - e un luogo di reclusione, fino a una quindicina di anni fa - l'ex manicomio Paolo Pini, alla periferia ovest di Milano - che è diventato, per la passione di due operatori eccezionali, Thomas Emmenegger e Rosita Volani, la piazza dove si incontrano artisti e persone con disturbi psichici, impegnati nella costruzione di una socialità insolita, produttiva e creativa al medesimo tempo: un ristorante, un ostello, un giardino botanico e oggi il Teatro ricavato dalla ex-cucina del Pini. E' qui, nella suggestiva cornice del grande parco, tra Affori e Comasina, che si è festeggiato il trentennale compleanno della Legge Basaglia, con uno spettacolo che ne evoca lo spirito, ma sotto certi aspetti anche la lettera. Con il suo Marat-Sade , liberamente ripreso dal dramma di Peter Weiss - l'assassinio di Marat rappresentato dai ricoverati del manicomio di Charenton, dove era rinchiuso anche il Marchese De Sade - Maurizio Lupinelli e i suoi sessanta attori, tra i quali una quarantina di disabili, è come se avesse voluto aprire ancora una volta, con la furia liberatrice del suo teatro, porte che qualcuno oggi vorrebbe tornare a chiudere intorno all'handicap e alla malattia mentale.
Lo incontro dopo aver assistito, coinvolta gioiosamente, a quello che è qualcosa di più di un semplice spettacolo. C'è un riferimento testuale, esile come un canovaccio, che si fa pre-testo, contesto, non-testo, travolto dalla vitalità incontrollabile dei corpi in scena, e che richiama non casualmente, data la precedente esperienza teatrale di "Lupo", la "non-scuola" del Teatro delle Albe di Ravenna, il "teatro impuro" di Marco Martinelli e Ermanna Montanari.

Perché scegliere di lavorare con disabili?
Non avendo fatto scuola di teatro, ho obbedito al mio istinto e alla mia provenienza sociale. Vengo da un quartieraccio di Ravenna, la Darsena, dove ho visto molti miei coetanei morire di droga. E' stato come portarsi dietro l'eco di un rumore silenzioso. Ho lavorato molto con bambini e anziani, e sempre l'attenzione all'altro era schietta, fuori da regole e convenzioni. Poi ho incontrato le Albe, e con Marco ho condiviso il rapporto con la città, il lavoro con gli studenti delle superiori, la "non-scuola". Ma già allora sono andato a cercare un gruppo di ragazzi portatori di handicap, di un Centro di Ravenna, e con loro ho fatto un piccolo spettacolo di un quarto d'ora, il Wojzech . In seguito ho ripreso questa esperienza con disabili di una "casa-famiglia" di Lerici. Nel 2002 ho avuto dal direttore del Festival teatro di Castiglioncello i soldi per il Marat-Sade. Il laboratorio con i ragazzi di Lerici e ragazzi toscani è durato un mese. Nel febbraio scorso c'è stato lo spettacolo: un successo, duemila persone. Si è capito che non facevo un teatro per sfigati, che non volevo mettere al centro il dolore, che si può stare con disabili in un rapporto di reciprocità, anche se può apparire più crudele. E ora siamo qui al Pini, un luogo che è stato di emarginazione e che ora è la piazza di una socialità che ha come slogan: "da vicino nessuno è normale".

E' dunque una comunità che si forma all'interno di un lavoro teatrale, ma che per molti aspetti ne fuoriesce. E' il teatro che si lascia invadere dalla vita, non viceversa. Il teatro ritrova il suo tratto originario, come luogo di una socializzazione vitalizzante e catartica.
Dai a queste persone la possibilità di essere se stessi. Nei Centri, sorti dopo la Legge 180 e presto burocratizzati, li fanno apparire deficienti anche se non lo sono. Si tratta di una composizione molto eterogenea: in gran parte sono down, altri schizofrenici. Ma ci sono anche tre attori professionisti e allievi della scuola Paolo Grassi. La cosa più bella per questi ragazzi è che possono andare fuori dalla loro città. Quanto al testo, l'ho riscritto tutto; dal Marat-Sade di Peter Weiss ho preso l'ambientazione, il manicomio, e alcune figure. L'elemento che più mi interessava per giocarci dentro è l'assassinio di Marat, che però non c'è. Elsa, che impersona Carlotta Corday, si avvicina col coltello in mano, ma sempre constata che Marat non c'è.

Nella parte finale il confine tra lo spettatore e la scena quasi scompare. La festa, il ballo esplode all'improvviso e coinvolge tutti. Ma ci siamo limitati ad applaudire insieme a loro. E' probabilmente forte la tentazione di vederli solo come disabili, lasciando sullo sfondo il lavoro teatrale. C'è il rischio di una curiosità morbosa, che si esprime nei risolini con cui viene accolta la comicità di alcuni dei loro gesti o modi di parlare. Eppure c'è un equilibrio straordinario tra l'improvvisazione e l'adeguamento a una parte, tra l'allegria e la crudeltà, l'esplodere della furia del gruppo e l'immobilità dei corpi, come se una naturale loro teatralità lì avesse modo di esprimersi.
Viene fuori la loro libertà di espressione, che è rappresentata molto bene quando uno di loro dice al Marchese De Sade, che vorrebbe riportare uno di loro dentro la recitazione: "E no maestro, questo è il testo, vogliamo la sua verità". Quando mi chiedono, finito lo spettacolo, se ci sarà un seguito, io non li illudo. Dico siamo qui per fare un atto creativo insieme, indipendentemente che tu sia down o universitario. A quella che chiede se potrà fare l'attrice rispondo: possiamo fare questo, sei contenta? Risposta: Sì. E' questo che conta. E' vero che poi, quando rientrano nei loro Centri, si meravigliano che si torni a far loro infilare collanine. Basaglia ha avuto una grande intuizione, poi tutto viene regolato, irrigimentato in istituzioni pubbliche o private, perché anche il disabile diventa ‘soldo' per i servizi sociali che se ne occupano.

l'Unità 30.5.08
Se la scuola va al mercato
di Marina Boscaino


Il duo Brunetta-Gelmini trova - come era prevedibile - un alleato fedele nei poteri forti che sovrintendono alla scuola nei tempi bui. Giorgio Vittadini, ex presidente nazionale della Compagnia delle Opere, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, un’altra società facente capo a Comunione e Liberazione, dalla prima pagina de il Giornale di qualche tempo fa, ha lanciato «Tre idee per la scuola»: parità, autonomia, valutazione. Una prima osservazione: il centrodestra sembra aver capito il fondamentale ruolo che la scuola può giocare nel panorama del Paese. Nonostante sull’argomento in campagna elettorale non abbiano speso parole diverse da quelle che annunciavano il ritorno della scuola delle “3i”, dopo la vittoria elettorale la scuola ha assunto un ruolo di primo piano nelle esternazioni di molti membri del Governo; oltre alle discutibili anticipazioni dei ministri dell’Istruzione e dell’Università e dell’Amministrazione e Innovazione, il presidente della Camera Fini e lo stesso premier sono tornati diverse volte sull’argomento, direttamente e non. La cosa non può rallegrare chi ha a cuore la sorte della scuola pubblica; né chi crede realmente al fatto che la cura della scuola rappresenti il punto di partenza per una rinascita effettiva - sul piano culturale e civile - del Paese. Tra le tante cose che il “rinnovato” centrodestra sembra aver capito, c’è anche il fatto che la scuola è un vero e proprio albero di trasmissione di istanze e modelli. E che quindi su di essa si debba investire ideologicamente per creare consenso e forgiare coscienze.
Nell’articolo di Vittadini si lascia molto spazio alla parola “libertà”. Il partigiano “morto per la libertà” è uno sbiadito ricordo, che molti tendono a liquidare: non va più di moda. E da qualche tempo, nei fatti, si recita il requiem per il significato che a quella parola ha attribuito una porzione importante della storia del Novecento. L’abuso del termine e l’assimilazione di esso a modelli economici “vincenti” ne limita potenzialità e ne cancella la tradizione, appiattendolo su significati economicisti, individualisti, non solidali. Appellandosi alla legge 62/2000 (la Berlinguer sulla parità scolastica, la madre di tutte le derive privatistiche) Vittadini propone di «attuare anche a livello nazionale, come già preannunciato dal ministro Gelmini, quella parità economica tra scuola dello Stato e privata che, laddove si è cominciato a fare in alcune regioni con l’adozione di voucher, ha raggiunto risultati lusinghieri (...). Occorre dare soldi alle famiglie con parametri di equità e poi riconoscere loro la facoltà di scegliere le scuole che preferiscono per il bene del ragazzo». Requiem anche per l’art. 33 della Costituzione, che come è noto, prevede che «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»: lo scardinamento totale della centralità del sistema pubblico. Già, pubblico: un’altra parola che non va più di moda, con la scusa di omologarla ad inefficienza, a demotivazione, a inerzia elefantiaca.
Invece di curare le cause di questo spesso legittimo accostamento, si approfitta per buttare il bambino con l’acqua sporca, liquidando - insieme alla scuola pubblica - i valori che essa configura: tutela di pari opportunità per tutti i cittadini; laicità; garanzia della rimozione degli ostacoli che garantiscono l’uguaglianza; accoglienza, emancipazione, condivisione nella diversità; libertà di insegnamento e diritto allo studio. Gettare frettolosamente tali principi nelle fauci di quell’esigente Minotauro che si chiama mercato, si sa, è una delle massime ambizioni del centro destra; ma una finalità che nemmeno il centro sinistra ha colpevolmente disdegnato. L’operazione porta con sé automaticamente il secondo passaggio del ragionamento di Vittadini: «per favorire un’esperienza di libertà di educazione anche nella scuola statale, occorre conferire alle famiglie pieno autogoverno». L’uso dell’avverbio “anche” non è casuale, e dà un senso ulteriore alla manipolazione del significato della parola libertà cui si accennava. La proposta di Vittadini per rendere le famiglie definitivamente consumatrici della merce-scuola (possibilmente privata), fomentate dall’induzione di bisogni diversificati e illimitati, legittimate e lusingate da un protagonismo mercantile in un servizio a domanda individuale si configura in una curiosa e pericolosissima revisione del concetto di autonomia: «finora è stata data una parziale autonomia di curriculum (20%), un’autonomia didattica paralizzata da enormi rigidità delle cattedre, un’automomia finanziaria bloccata dall’impossibilità di raccogliere soldi sul mercato senza reale autogoverno». Largo dunque alla scuola del Nord, con programmi autonomi e insegnanti reclutati autonomamente; largo al mercato dell’incanto e ponti d’oro al miglior offerente: la concorrenza come criterio privilegiato; largo alla flessibilità lavorativa. Infine la valutazione «esterna della scuola mediante l’accertamento degli apprendimenti e delle competenze dei ragazzi e rilevando le abilità professionali degli insegnanti e dei dirigenti». Questo Mago Merlino del liberismo la fa un po’ troppo facile. Certo, tutto potrebbe essere realmente facile: i numeri ci sono, la determinazione anche. Mi chiedo se, al di là delle buone maniere, del bipartisan a tutti i costi, dei mutamenti di tono, del gentlemen agreement quel che resta dell’opposizione parlamentare vorrà considerare con allarme queste proposte che - ne sono certa - non tarderanno ad essere accolte da Viale Trastevere. Onorevole Maria Pia Garavaglia, ministro ombra della Pubblica Istruzione, se ci sei batti un colpo. Donne e uomini - dentro e fuori dal Parlamento - che avete a cuore il futuro del nostro Paese, di cui la scuola pubblica è garanzia, non scoraggiamoci: l’opposizione siamo anche noi.