lunedì 2 giugno 2008

l’Unità 2.6.08
Il reato di clandestinità colpisce anche l’infanzia
di Luigi Cancrini


L’allarme che voglio lanciare riguarda i "bambini invisibili". I pediatri di famiglia che si riconoscono nella Federazione Italiana Medici Pediatri (Fimp) sono oltre settemila e sono preoccupati per le norme del pacchetto sicurezza licenziato dal Governo. Oggi - ha dichiarato il presidente nazionale della Fimp Giuseppe Mele - tantissimi figli di immigrati, sino ad oggi non rei, vanno a scuola e sono assistiti dai Pediatri di famiglia, come prevede la legge, il contratto nazionale e le relative deroghe che ne disciplinano l’accesso temporaneo al Servizio sanitario nazionale. L’introduzione del concetto di reato di immigrazione clandestina - ha aggiunto Mele - non potrà che avere come esito, che era ed è facilmente immaginabile, il fatto che questi bambini verranno dai loro genitori tolti dalla scuola e dall’accesso ai servizi sanitari diventando, in breve tempo, bambini invisibili". L’allarme per il quale la Fimp fa appello anche all’Unicef, è una richiesta di attenzione al problema da parte del governo, cui fa richiesta di un incontro urgente, "che dovrà tener conto anche di questo genere di problemi i cui effetti ricadranno sulla salute di migliaia di bambini, innocenti per natura, colpevoli per genesi e per decreto". Lei che ne pensa?
Antonella Ciurlia

Ne penso che il pacchetto sicurezza approvato dal Governo provocherà, se interamente approvato dal Parlamento, effetti disastrosi. Che non riuscirà a fermare una immigrazione le cui ragioni, economiche e politiche, sono più forti di qualsiasi legge e che il suo risultato sarà, come ben dice Mele, quello di spingere nella clandestinità chi dovrebbe essere soprattutto aiutato ad integrarsi. Anche se tanta stampa ne ha parlato come di una iniziativa politica necessaria ed anche se l’opposizione parlamentare ne ha sostanzialmente avallato le scelte e l’orientamento. Senza preoccuparsi del modo in cui (lo scrive Livio Pepino su l’Unità del 28 Maggio) "il nuovo diritto penale dello straniero alla base di questi decreti è espressione della convinzione, profondamente razzista, che sia possibile importare braccia e non persone. Inutile sottolineare la distanza di tale impostazione dal dettato della Costituzione e dai principi di uguaglianza che la ispirano. Quel che nessuno può ignorare è che misure come queste produrranno solo ulteriore insicurezza": per le persone che si trovano in condizioni di clandestinità perché quello che i clandestini eviteranno sistematicamente d’ora in poi è il contatto, a qualsiasi livello, con le istituzioni dello Stato e, inevitabilmente, anche per i cittadini italiani che sempre di più avranno a che fare con persone piene di difficoltà e di paura. Per ciò che riguarda le conseguenze che tutto questo avrà sui minori (ed in particolare sui bambini) il problema segnalato da Mele è, dunque, un problema reale. Di cui non è difficile immaginare le conseguenze.L’esempio più banale è quello del bambino che ha una febbre alta. Portarlo in Ospedale chiede, al genitore clandestino, di presentarsi. Se il suo essere clandestino diventerà un reato, farlo significherà autodenunciarsi, finire in carcere e andare incontro ad una espulsione: rischiando di perdere (questo nel suo immaginario è inevitabile) il rapporto con il bambino. In modo analogo andranno le cose, del resto per quello che riguarda le vaccinazioni e la scuola. Aprendo un vero e proprio conflitto d’interessi fra il figlio ed i suoi genitori, di fronte al semplice manifestarsi di un diritto del bambino: di ogni diritto, per ogni bambino che si trovi coinvolto in questo grande ciclone, nello tsunami umanitario che si determina intorno a tutte le emigrazioni.L’obiezione che viene fatta a questo discorso è quella che riguarda la necessità di contrastare a qualsiasi costo i comportamenti che si sviluppano nell’illegalità. Chi entra illegalmente in un paese, si dice, deve accettarne le leggi affrontando le conseguenze delle sue scelte. Se qualcuno decide di entrare clandestinamente in un paese in cui la clandestinità è un reato, dunque, è lui (o lei) quello che coinvolge il figlio in una situazione sbagliata. Se qualcosa di negativo ne deriverà per il minore la colpa non è della legge ma di colui che non l’ha rispettata. Quella che si combatte contro l’illegalità (lo dice ogni giorno il Ministro Maroni col tono di chi vuole mettere riparo alle inadempienze dei suoi predecessori) è una battaglia senza esclusione di colpi. Produce, probabilmente, dei danni secondarii ma va combattuta. La risposta da dare a questo ragionamento non piace oggi al governo né, purtroppo, all’opposizione. Si basa sull’osservazione di fondo per cui decidere che la clandestinità è un reato in una situazione caratterizzata da una differenza inaccettabile fra i paesi ricchi dell’occidente e quelli da cui gli emigranti provengono significa applicare a degli esseri umani l’idea per cui (la frase è di La Fontaine, la favola è quella del lupo e dell’agnello) "la loi du plus fort est toujours la meilleure": giustificando con una legge ad hoc la violenza di chi non accetta di confrontarsi con le difficoltà di chi sta peggio di lui. Delittuosa è la legge stabilita da chi si sente più forte, dunque, non il tentativo di sopravvivere e di far sopravvivere i propri figli alla miseria o alla persecuzione politica e delittuoso è soprattutto il modo in cui, definendo reato la richiesta di aiuto, si fa diventare criminale chi non lo è. Mettendo insieme quelli che cercano lavoro e rispetto del loro diritto di esistere e quelli che arrivano da noi con l’idea di prendere tutto quello che c’è da prendere. Osservato da questo punto di vista il problema dei "bambini invisibili" non è più il danno secondario prodotto da una scelta giusta. E, più semplicemente, la più infame e la più vergognosa delle conseguenze prodotte da una scelta sbagliata. Il sentimento più forte che provo in questa fase è una grande malinconia. Può darsi che io stia male ovviamente e che abbia bisogno degli antidepressivi di cui continuo a contestare inutilmente l’utilità, ma lo spettacolo del paese in cui vivo è davvero sconfortante se ci troviamo di fronte ad un governo che dichiara reato la clandestinità, ad una opposizione che non si scandalizza, ad un Papa e ad una stampa che lodano il clima "nuovo" che di questa collusione è il frutto avvelenato mentre nessuno risponde a questo appello dei pediatri italiani. Come se tutti fossero d’accordo insomma, nel pensare che il Berlusconi quater di quella che alcuni cominciano a chiamare pomposamente la terza repubblica sta facendo una cosa giusta nel momento in cui dà forza di legge all’odio della Lega e dei leghisti contro gli emigranti e contro i loro bambini. Mentre l’unica strada che resterà aperta a chi la pensa in modo diverso, credendo davvero nelle ragioni della vita, potrebbe essere la disobbedienza civile: di protezione dei clandestini e dei loro figli dai rigori stretti di una legge inaccettabile.

Corriere della Sera 2.6.08
Ogni mese nascono più di cento nuove postazioni
I temi. Approfondimenti religiosi ma anche musica e giochi

La fede ai tempi di Internet
L'Italia ha il record mondiale dei siti cattolici
di Andrea Garibaldi


È opportuno fare attenzione, dentro Internet. C'è un sito che si chiama preghiamo.net che ti precipita dentro un vortice terribile di stupri e di incesti. Ciò non vuol dire che l'universo cattolico abbia equiparato il web al Maligno. Anzi.
Si può parlare di un lento e inesorabile dispiegamento dei siti di ispirazione cattolica nella Rete. Negli ultimi dieci anni sono diventati 12 mila e 500. Ogni mese si contano 100-120 nuovi arrivi. Qui non stiamo trattando quella ventina di indirizzi che fanno capo a gruppi di cristiani omosessuali o a preti sposati, parliamo di ortodossia cattolica. Su queste cifre, l'Italia non ha competitori all'altezza, solo gli Stati Uniti seguono, alla lontana.
Proprio negli Usa è nato Godtube.com, definito da Newsweek «la risposta cristiana a Youtube»: contiene video su funzioni religiose, video personali che esprimono idee di religione, chat o forum in cui dibattere temi sociali o di fede.
Da noi hanno un sito molte parrocchie (2902), associazioni e i movimenti ecclesiali (2408), ordini, istituti religiosi e le missioni (1504), istituzioni della Chiesa (724), luoghi cattolici, e poi santi, beati e testimoni, radio e tv cattoliche, come Radiovaticana.it, da cui si può fare Godcasting, evoluzione spirituale del podcasting, si possono cioè scaricare omelie, preghiere, mp3 di musica sacra.
All'inizio di maggio c'è stata la premiazione del secondo Concorso per i migliori siti cattolici, organizzato dall'Associazione Web Cattolici (Weca). Per le diocesi ha vinto Vicenza («naturale freschezza, navigabilità, capacità empatica di compenetrare animatori giovanili, operatori pastorali, semplici navigatori»). Per le categoria «associazioni », premio a Qumran2.net, sito che ha milioni di contatti mensili: commenti al Vangelo e alla Bibbia (doppio clic su «Parole nuove»), case per ritiri, campi, incontri di gruppo, esercizi spirituali, terreni per campeggio («Il grande libro delle case»), aiuti per chi vuole pregare e meditare («Ritiro on line»), riflessioni sui brani evangelici proposte da don Prospero («Il pane quotidiano »), 610 giochi educativi («Lo scrigno dei giochi»). Animatori, fin dal 1998, don Giovanni Benvenuto, presbitero genovese e Andrea Ros, scrittore per ragazzi e regista. Attenzione a digitare correttamente: se l'iniziale diventa C anziché Q (Cumran2.net) si ottengono capitoli come «Rito del matrimonio» e «Doni dello Spirito Santo », ma anche un link «Entertainment» che con un solo passaggio trascina a «Top gay porn series».
Fra i «siti personali» ha prevalso religione20.net, curato da Luca Paolini, docente di religione di Livorno che si è dedicato soprattutto a sposare le nuove tecnologie con l'insegnamento della sua materia. Ecco dunque una serie di «mappe concettuali», molto utilizzate nella scuola di oggi.
La mappa su Gesù porta dall'infanzia, alla crocifissione, alla sindone, alla Resurrezione. Un'altra sezione si chiama «webinari» (binari sul web) e permette, ad esempio, di percorrere «in pochi minuti» la vita di San Francesco o di virtualmente visitare la basilica di San Francesco.
L'uomo che sovrintende alle relazioni fra chiesa e Internet si chiama Francesco Diani. Per ventuno anni ha diretto un'azienda agro industriale a Mantova, poi ha preso ad occuparsi della Rete. Sul suo siticattolici.it si trova la summa della materia. La parte del leone (quantitativa) la fanno le parrocchie, ce ne sono quasi duemila con un proprio sito. Come grandi bacheche elettroniche.
La parrocchia di San Martino in Rassina (Arezzo) lancia un sondaggio per parrocchiani: cosa pensate dei Dico? Favorevoli (a sorpresa) il 42,9 per cento, contrari il 39,3.
La parrocchia di San Gabriele Arcangelo di Collecorvino (Pescara) lancia in rete una campagna contro la Lavazza, che remunera con cifre irrisorie i contadini del Sud del mondo: «Se San Pietro beve il caffè la sua marca preferita non è Lavazza».
La Diocesi di Fano mette in rete la foto di monsignor Armando Trasarli che premia Lorena Bianchetti, star tv. E poi gli annunci di «chi è mancato», i matrimoni, i compleanni dei parrocchiani, le foto alla fine della messa, le messe e i rosari on line.
Da siticattolici si arriva anche a preti online.it dove, regione per regione, sono elencati oltre duemila sacerdoti da interpellare. Vicino a ciascuno un pallino verde, giallo o rosso (disponibile al colloquio, impegnato temporaneamente, non attualmente disponibile). Ogni sacerdote in poche righe si presenta: «Interessi principali Bibbia, teologia, spiritualità, il pensiero debole di Gianni Vattimo, chitarra classica e musica», scrive don Angelo Cannata di Noto (Siracusa). «Prete sempre contento di essere prete», si proclama don Giuseppe Di Bella dall'isola di Lipari. Poi c'è bricioledisperanza che diffonde solo buone notizie, atti di carità e misericordia. Innamoratidella madonna.it è uno degli 80 mila siti dedicati alla Vergine Maria. In anim@tamente ci sono corsi di educazione all'amore. In Cybermidi musica sacra da scaricare, karaoke cristiano, testi e accordi.
Un altro pioniere è don Ilario Rolle, 56 anni, torinese: «Era il 1996, il vescovo di Torino, Balestrero, mi disse: qualcuno di noi si deve occupare di Internet. Io avevo già esperienze di rete...». Don Ilario e i suoi collaboratori forniscono aiuto a parrocchie e altre associazioni cattoliche per aprire e gestire i siti, tramite l'Associazione del web cattolico. Come ci si orienta nell'immensa Rete? «Un filtro è fornito da davide.it che elimina chi offre pornografia, violenza, pedofilia».
Il Vaticano, come da tradizione, è prudente. Ha i suoi siti molto ufficiali, prima di tutti chiesa cattolica.it, che conduce verso molti indirizzi censiti anche da Diani, ma non a tutti: esclusi sono ad esempio quelli «personali ». Riguardo a Internet il punto di riferimento è tuttora un documento (febbraio 1992) del Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, dove si definiscono i nuovi mezzi di comunicazione sociale come «meravigliose invenzioni tecniche, doni di Dio», ma si giudica necessario un utilizzo di Internet «soltanto per fare il bene». Dice don Ilario Rolle: «Ci sono molti timori nella gerarchia. Internet è troppo democratico, troppo «aperto». Nel documento del 1992 si ipotizzava «una certificazione con la supervisione di rappresentanti del Magistero », sorta di patente per siti cattolici. Sei anni più tardi non c'è ancora in Vaticano un ufficio incaricato di controllare il web. Disse Benedetto XVI ai dipendenti della Radio Vaticana che gli avevano appena fatto dono di un iPod: «Non abbiate paura, apritevi alla Rete». Con giudizio, però.

Corriere della Sera 2.6.08
Sacro e profano La gamma dell'e-commerce: dal busto del Papa al calice modello Santo Graal
Quando spirito e business vanno d'accordo
I gadget legati alla sfera religiosa rappresentano anche un affare milionario
di A. Gar.


Serve un tronco di ulivo a croce con Cristo (69 euro, iva esclusa)?
Un calice modello estate in argento e oro (1950 euro)?
Una statua di Sant'Antonio con bambino in braccio, con 2 coppie di occhi di cristallo (1350 euro)?
Un'icona in legno di Giovanni Paolo II (20 euro)?
Basta riempire il carrello elettronico, fare l'ordine, pagare con carta di credito ed entro due-tre settimane riceverete tutto quel ben di Dio a casa. O in parrocchia.
Nella prateria dei siti cattolici c'è una sezione che si occupa meno di spirito, più di mercato.
Sul grande contenitore www.siticattolici.it questa parte si trova sotto il link «Universo pro chiesa», a sua volta suddiviso in vari capitoli come, «arredo liturgico », «paramenti, abiti e confezioni », «vetrate artistiche e mosaici », «vini per Sante Messe e ostie», «campane e orologi da torre », «presepi, rosari, gadget e souvenir ». Dentro, si trovano le numerose ditte del ramo.
«Articoli sacri», per fare un esempio, è un negozio elettronico che riscuote i pagamenti presso un'agenzia del Banco di Napoli a Caivano. Ha un lungo campionario di «sopra culla», angioletti e immaginette per neonati, prezzi da un euro e mezzo a sei. E poi portachiavi, porta rosari, acquasantiere, icone rotonde, vetrofanie per auto.
«Città Cattolica» assicura di spedire in ogni parte del globo, «Polo Nord e Polo Sud inclusi» e di coprire ogni prodotto con la garanzia «soddisfatti o rimborsati». Inoltre, informa: «Ci fregiamo del supporto di un Pantografo Computerizzato capace di realizzare qualsiasi intaglio o disegno su legno».
Si possono avere in 30 giorni altari in ottone fuso e marmo, un «calice cesellato a mano in oro e argento modello Graal» a 1280 euro, una coppia di angeli in adorazione (68 oppure 89 euro, a seconda dell'altezza), una statua in vetroresina di San Francesco d'Assisi, dipinta a mano, ottima per esterni e/o interni (697 euro), un mezzo busto di Giovanni XXIII in bronzo a cera persa (3950 euro).
Su questo sito si trovano anche utili avvisi da scaricare come la «Petizione al santo Padre perché venga riconosciuto a Maria Santissima il triplice titolo di Corredentrice, Mediatrice, Avvocata».
Nel listino di Holyart ci sono un turibolo in stile classico (329 euro), una Madonna in nicchia in acero naturale con ante apribili (109), sette fiamme con candele (384 euro), incenso olibano di Gedda aromatizzato al patchouli (prezzo scontato 10, 73 euro), mirra in pezzettini 8 scontata a 7,13 euro) e un rosario elettronico con cuffie (26,55 euro).
Quest'ultimo articolo «è utile per chi viaggia, per chi vuole pregare in movimento (auto, treno, aereo, ecc.) ed è consigliato per anziani o ammalati».
Il rosario è recitato da una voce femminile e da un coro che risponde. Dispone di «un pulsante per selezionare il giorno della settimana desiderato, ciascuno con i suoi misteri».
Dice Francesco Diani, che è l'animatore di siticattolici.it: «Abbiamo inserito la sezione Universo- pro-chiesa solo da un anno. Non volevamo mescolare sacro e profano, ma queste ditte danno un contributo che ci serve per l'autofinanziamento. Certo, dobbiamo stare attenti agli aspetti meno limpidi del settore».
Leggiamo un annuncio pubblicitario: «Novità: dipinto La Risurrezione. Sconto meno 30 per cento, da euro 340 a euro 238».

Corriere della Sera 2.6.08
Il segretario del Pdci: preferisco Ferrero
Diliberto avverte Vendola: siamo incompatibili col Pd


CARACAS — Cuba, Venezuela: la settimana alla ricerca del comunismo nel mondo è finita e Oliviero Diliberto volge lo sguardo al futuro incerto della sinistra. Osserva il processo dentro Rifondazione, le parole d'incoraggiamento di D'Alema a Vendola: «Quella parte, Pd e Vendola, io la chiamo "sinistra compatibile". Noi Comunisti italiani, invece, ci riteniamo "sinistra incompatibile". Incompatibile con le attuali dinamiche politiche e guardiamo con interesse alla linea di Paolo Ferrero». Sullo sfondo, l'ipotesi che al Congresso lo scontro dentro Rifondazione sia duro e possa sfociare in una separazione e quindi in una ricostituzione degli assetti a sinistra.
L'obiettivo dei mesi a venire sono le elezioni europee del 2009. Col timore che venga cambiato il sistema elettorale e che uno sbarramento alto cancelli la sinistra radicale anche nel continente. Diliberto però è fiducioso: «Veltroni è determinato a introdurre lo sbarramento. Ma non credo che Forza Italia sarà compatta al suo fianco. Al partito di Berlusconi non conviene la nostra sparizione dalle istituzioni: possiamo essere spine nel fianco per il Pd». Diliberto progetta altre missioni estere: «Faremo valere, anche per il bene dell'Italia, i rapporti internazionali che abbiamo costruito negli anni. Prossima tappa Libano, dove c'è da difendere la sicurezza dei nostri soldati».

Corriere della Sera 2.6.08
Dispute. Finalmente tradotto in Italia il pamphlet sulla rivolta studentesca del Maggio parigino
Aron, la bestia nera del Sessantotto
Contestò i contestatori. E Sartre lo definì «indegno di insegnare»
di Antonio Carioti


Demistificare e dissacrare sono di solito gli scopi che si propongono innovatori e rivoluzionari nei riguardi delle istituzioni antiche e venerande, difese dai conservatori. Ma a volte i ruoli s'invertono. Così, nell'estate del 1968, a prefiggersi di sloggiare dagli altari la contestazione studentesca parigina, che aveva celebrato i suoi fasti nel maggio precedente e ormai stava entrando nel mito, fu uno studioso moderato nelle idee come nei toni, Raymond Aron. Ne nacque un libro di vigorosa polemica, La rivoluzione introvabile, solo adesso finalmente tradotto dall'editore Rubbettino grazie al lodevole impegno dei curatori Alessandro Campi e Giulio De Ligio.
L'aspro giudizio di Aron sul Sessantotto lo tramutò nella bestia nera degli ambienti progressisti, che già non lo amavano per il modo in cui li aveva fustigati, tredici anni prima, nel libro L'oppio degli intellettuali (appena riedito in Italia da Lindau, pp. 427, e 24). A botta calda il filosofo Jean-Paul Sartre, suo ex compagno di studi, definì Aron «indegno di fare il professore», dipingendolo come un accademico tronfio e arrogante, portatore di un sapere fossilizzato. E il settimanale Le Nouvel Observateur lo additò come il simbolo di una «ragione fuorviante». In seguito, placatisi gli ardori iniziali, prese piede l'immagine del brillante sociologo di origine ebraica quale paladino dell'università tradizionale, sordo alle istanze di cambiamento degli studenti.
In realtà, sottolinea giustamente Campi nella presentazione del volume, si tratta di uno stereotipo infondato. Da sempre critico verso le istituzioni accademiche francesi, Aron ebbe anzi buon gioco nel punzecchiare i docenti refrattari alle sue precedenti proposte di riforma, che adesso lo avevano «superato spensieratamente» sull'onda della ribellione giovanile: «Ignoravo, lo ammetto, che tra i miei colleghi si nascondessero così tanti rivoluzionari». E qui si coglie anche il senso profondo della sua polemica, il cui bersaglio non erano soltanto i ragazzi convinti di poter rivoltare la società come un calzino, da lui bollati come «barbari inconsapevoli della propria barbarie», ma anche e soprattutto gli adulti che erano venuti meno al loro compito di freno e indirizzo, cedendo alle suggestioni di un «nichilismo da esteti».
In Aron era fortissimo il senso della responsabilità spettante allo studioso, che proprio per via dell'esperienza e delle conoscenze acquisite ha il dovere di farsi sentire quando dilagano le semplificazioni arbitrarie, le utopie a buon mercato e gli entusiasmi puerili, richiamando tutti all'esigenza di un sano realismo. Non sopportava il conformismo di chi asseconda la corrente: «Una volta ancora — notava sarcastico — intellettuali di indubbio prestigio si sono lasciati estasiare da testi adatti al massimo per le scuole elementari».
Un'altra preoccupazione ribadita più volte — nel dialogo di Aron con Alain Duhamel che costituisce la spina dorsale del libro — riguarda la fragilità dell'ordine liberale di fronte alle spinte populiste, soprattutto quando la classe dirigente ha la coscienza sporca e non sente l'orgoglio del proprio ruolo. Un fenomeno ben noto in Italia (si pensi al modo in cui un intero sistema politico crollò all'inizio degli anni Novanta) e che nella Francia dell'epoca era acuito dall'accentramento del potere nelle mani del generale Charles de Gaulle, che aveva dato una netta impronta personalistica al proprio stile di governo dopo la fondazione della Quinta Repubblica.
Fra le accuse rivolte ad Aron ci fu anche quella di essere salito sul carro del vincitore, dopo che la maestosa sfilata dei francesi moderati sugli Champs Elisées, il 30 maggio, e le elezioni tenute in giugno avevano segnato la rivincita del gollismo. Ma a parte il fatto che lo studioso liberale era uscito allo scoperto sin dal 15 maggio (con il primo degli articoli sul quotidiano Le Figaro poi inclusi nel volume), quando la situazione era ben diversa, nelle sue pagine non c'è traccia di un allineamento sulle posizioni del presidente. Al contrario, Aron ribadisce le sue critiche alla politica estera di de Gaulle, che considerava inutilmente ostile agli Stati Uniti e troppo compiacente verso Mosca; lo accusa di aver «rafforzato in modo considerevole i difetti strutturali della società francese», in particolare il deleterio centralismo burocratico; lo definisce senza mezzi termini «ignorante in economia», bocciando i suoi ambiziosi progetti di riforma come dannosi per le imprese; ne biasima la presunzione, ironizzando sulla sua «infinita saggezza», e lo scarso rispetto per i cittadini. Insomma, ai carri dei vincitori — fossero guidati da giovani ribelli scapigliati o da anziani statisti — Aron era inguaribilmente allergico. Preferiva procedere appiedato, con l'andatura serena di chi obbedisce soltanto al proprio spirito libero.

Corriere della Sera 2.6.08
Le critiche dello studioso liberale a Lacan, Godard, Althusser, Lévi-Strauss
Quando fini intellettuali diventano nichilisti
di Raymond Aron


Come comportarsi in un paese nel quale gloriosi intellettuali si limitano ad ammirare la distruzione, senza concepire un ordine capace di rimpiazzare quello che si vuole abbattere? Non so come rispondere. Di solito, gli intellettuali esercitano una funzione critica. Personalmente, ho sempre criticato volentieri i governi francesi, tanto che difficilmente mi si potrebbe accusare di conformismo o di servilismo verso il Potere, ma la funzione critica diviene nichilismo quando denuncia globalmente la società senza alcuna rappresentazione di una società alternativa, o quando predica il culto della pura violenza.
All'inizio del movimento studentesco, alcuni importanti intellettuali hanno firmato una petizione della quale ho dimenticato le parole esatte ma il cui significato era il seguente: continuate a dire no, ma soprattutto enunciate senza fretta le vostre asserzioni o i vostri obiettivi. L'intellighenzia più raffinata guardava i film di Godard, leggeva senza capirli gli scritti di Lacan, si fidava ciecamente della scientificità di Althusser e si richiamava allo strutturalismo di Lévi-Strauss. Curiosamente, taluni di questi intellettuali d'avanguardia pretendevano di essere scientifici in etnologia o in economia e maoisti nell'azione. Durante il maggio, la scientificità è svanita; in compenso, il culto dell'azione e della rivoluzione culturale è fiorito sotto diverse forme: Sartre e la Ragion dialettica, il gruppo in fusione e la folla rivoluzionaria hanno preso la loro rivincita sulle strutture.
La critica sistematica della società liberale da parte dell'intellighenzia indebolisce e mina un ordine già di per sé fragile. Tende a sporcare la coscienza dei responsabili della società e soprattutto dei loro figli. Ora, se è vero che nessuna classe dirigente governa in modo innocente, è anche vero che una classe dirigente incerta di se stessa si condanna a morte. Chi dirige un'impresa privata senza crederci abdica in anticipo e cederà al primo scontro. Il gauchisme vago ed emozionale dell'intellighenzia ha contagiato i benpensanti e i loro figli. Una delle cause della decomposizione di maggio è stata probabilmente questa specie di coscienza sporca in coloro che detengono l'autorità.
Questo brano è tratto dal libro di Raymond Aron «La rivoluzione introvabile » (Rubbettino).

il Riformista 2.6.08
Il Pisa (Program for International Student Assessment) mira a censire il grado di competenza di studenti di quindici anni di età: persone ancora lontane sì dagli anni universitari, ma al centro del loro processo formativo
Gli studenti sono sempre più ciucci


Il Pisa (Program for International Student Assessment) mira a censire il grado di competenza di studenti di quindici anni di età: persone ancora lontane sì dagli anni universitari, ma al centro del loro processo formativo. È alle scuole superiori che si formano, o non si formano, competenze destinate poi ad accompagnarci per tutta la vita. Anche per questo motivo, il Pisa è un programma particolarmente utile. La sua importanza sta nel fornire dati attendibili per la comparazione dei sistemi scolastici a livello internazionale e di fatto nel sostituirsi ai sistemi di valutazione a livello nazionale nelle realtà che stentano a dotarsi di un simile servizio.
La fotografia scattata dal rapporto (che monitora 57 paesi del mondo) è agghiacciante. L'Italia è - come riportiamo in questa tabella - al 36esimo per cultura scientifica, al 38esimo posto per quella matematica, al 33esimo posto per competenze di lettura. Quello che il rapporto evidenzia è, soprattutto, l'alto numero (un quarto o più) di studenti che hanno raggiunto un risultato sotto il livello 2, in pratica l'insufficienza. E i dati sono peggiorati, nel tempo.
Se nel 2003 i quindicenni italiani figuravano al 27esimo posto per le loro competenze nelle materie scientifiche, nel 2006 sono slittati al 36esimo posto (475 punti). In cima alla lista ci sono gli studenti della Finlandia, Paese che continua a mantenere buoni risultati (da 548 punti a 563). Non si può non rilevare che i punteggi sono significativamente inferiori sia per gli studenti meridionali. Gli score sono pari a 448 per gli studenti meridionali contro i 520 e 501 rispettivamente del Nord-Est e del Nord-Ovest, con un gap che quindi varia tra 72 e 53. Quello che il punteggio italiano (475) non dice è che, se né il Nord né il Sud sono a livello della Finlandia, i ragazzi del Nord sono nella media Ocse e appaiono più bravi, ad esempio, dei francesi (495) mentre quelli del Sud se la battono con israeliani (454) e cileni (438). Nel complesso, fra i Paesi al di sotto della media Ocse, assieme con noi si posizionano Croazia, Slovacchia, Lituania, Norvegia.
Rispetto invece alla cultura matematica, il nostro 38esimo posto (462 punti) ci vede precedere, in Europa, solo la Grecia, 39esima, Bulgaria e Romania. Anche per la cultura matematica, come per la capacità di lettura, almeno un quarto degli studenti che hanno partecipato al progetto non ha raggiunto la sufficienza del secondo livello di conoscenza.
Come hanno evidenziato Giovanni Ferri e Vito Peragine su lavoce.info, «sulla base di ipotesi prudenti, si può stimare che la percentuale di studenti di 15 anni meridionali e immigrati sul totale Italia salirà dal 45,6 per cento del 2006 al 51,4 per cento del 2016. Se nel frattempo le performance rimanessero costanti, nel 2016 il valore medio del test Pisa scenderebbe di almeno 10 punti». Davanti a uno scenario come questo, vale lo sconforto per le riforme dell'istruzione di ieri - ma anche un disperato bisogno di riportare il merito nella scuola, oggi.

domenica 1 giugno 2008

l’Unità 1.6.08
Questi fantasmi
di Furio Colombo


In poche settimane l’Italia è peggiorata così rapidamente da indurre a chiederci: se questo è il passo della Repubblica sotto il presente governo, vuol dire che dovremo vivere nella paura? Parlo della paura come attesa, non come stato d’animo.
In brevissimo tempo abbiamo avuto uccisioni (Verona) ferimenti, pestaggi, aggressioni, l’incendio di campi nomadi, la fuga di gente disperata, donne e bambini cacciati e minacciati. Che sia di destra o no, tutto ciò è cominciato ad accadere dopo la clamorosa vittoria della destra. Chi vince può anche decidere di salire di un gradino per avere un orizzonte più largo, una capacità di decisione non legata al sentimento di vendetta e di rivincita. Ma invece di ingresso in un futuro un po’ meno claustrofobico, un po’ meno segnato dalle ossessioni e dai fantasmi di leader e di partiti che - per vincere - hanno giocato tutto sulla paura, si è deciso di continuare e rilanciare la paura come modo di governare. Tiene occupati i cittadini a dare la caccia agli stranieri. A Milano sono già cominciati i rastrellamenti degli immigrati sui tram. Li individuano (dalla pelle?) a uno a uno, poi li allineano sul marciapiede in attesa del cellulare, di fronte agli altri passeggeri che, probabilmente, provano vergogna o disagio.
Purtroppo sono stati di parola. Governano, isolati in Europa, in compagnia dei loro fantasmi, della loro antica ossessione di popoli da far vivere chiusi dentro i sacri confini, con ampolle di acqua fluviale, con giuramenti in costume da film di terza serie, con un protezionismo senza alcuna consapevolezza del mondo, sempre in cerca di qualche carro potente a cui agganciarsi e ubbidire (perché un vassallo cerca sempre un imperatore) e l’inflessibile mantenimento delle posizioni di rendita. In altri secoli erano terre, valli e ponti sorvegliati da torri e guardie armate. Adesso - con lo stesso spirito - è un grosso affare di televisioni private vigilate giorno e notte da fedelissimi deputati e senatori della Repubblica.
Ma fermiamoci per un momento a osservare il mondo di cui siamo parte, sia pure attraverso i vetri appannati e le finestre a feritoia dei nostri media.
Nel mondo è improvvisamente riapparsa la penuria di cibo, un dramma finora estraneo alla economia contemporanea, che sembrava invece essere fondata sull’abbondanza e lo spreco. È vero, c’era il problema della fame in intere aree del mondo che eravamo abituati a citare nobilmente riservandoci, in ogni convegno, di fare grandi interventi il prossimo anno, o in quello dopo.
La penuria diffusa, però, è un’altra cosa. Perché avviene simultaneamente dovunque, determina paurose impennate dei prezzi, provoca vaste macchie di improvvisa povertà anche in aree di ormai lungo e stabilizzato benessere.
La causa è in parte nota (dirottamento di prodotti alimentari dal naturale mercato alle nuove fonti di energia), in parte dovuta al drastico cambiamento del clima nel pianeta, in parte alla tragica decisione adottata simultaneamente nei Paesi “moderni”, di abbandonare l’agricoltura. In parte dall’arrivo - nel mondo del consumo - di nuovi consumatori.
Il mondo è sconvolto dal costo del petrolio, che continua a crescere dopo essere rapidamente decuplicato, e pone di fronte a una ambivalenza senza soluzione: oltre certi limiti non si può pagare.
Ma, qualunque sia il costo, non si può rinunciare. Per questo sale e continuerà a salire l’inflazione.
Il mondo vede due guerre che divampano, e altre che possono esplodere in ogni momento. Vede un contesto di tensione e di violenza internazionale in cui il fuoco passa vicinissimo al petrolio e l’instabilità minaccia in tanti punti diversi un equilibrio mai così precario.
Il mondo conosce tempeste finanziarie globali sottratte ad ogni controllo democratico, capaci di attraversare in un lampo luoghi lontani e sconnessi. Il crollo di un fondo di investimenti basato su mutui inesigibili in una provincia americana può svuotare il fondo pensioni pubblico di un Paese estraneo e lontano, in Europa o in Asia.
* * *
Nell’Italia di Berlusconi e di Bossi passeggiano i fantasmi. Un Paese moderno, sesta o settima economia del mondo, è ossessionato dalla minaccia dei Rom. Non milioni di Rom, che in Italia non esistono, ma appena 150mila persone, metà delle quali italiane, metà delle quali bambini. E metà degli adulti, donne. Dunque il pericolo incombente, in una delle grandi (o ex grandi) potenze del mondo, di sessanta milioni di cittadini dei nostri giorni, sono due decine di migliaia di uomini Rom, la maggior parte dei quali, come mostra qualunque statistica, non è dedita ad alcun crimine.
Ma la credenza - una credenza alimentata dal governo e da una parte non piccola di stampa e televisione - è identica al più squallido medioevo di isolati villaggi agricoli: i Rom rubano i bambini. Alcuni episodi di denunce, allarme, accuse, drammatiche narrazioni di tentati rapimenti di nostri bambini da parte di pericolosissimi zingari sono venuti uno dopo l’altro in pochi giorni. Ci sono stati arresti, persone sono state portate via con l’accusa più bizzarra, per una comunità carica di figli (ho già detto che la metà della esigua popolazione Rom italiana è composta di bambini). Ebbene, di quelle accuse, arresti, gravissime imputazioni di rapimento, nessuna notizia, nessuna conferma, è venuta. Soltanto un oscuro silenzio. Eppure non si tratta di un problema di indagini, poiché i fatti sono avvenuti in modo istantaneo, sotto gli occhi dei denuncianti, e sempre in luoghi pubblici e con altre persone presenti. Eppure le cronache dei migliori giornali - che non hanno esitato, almeno nei titoli paurosi e nei drammatici occhielli, a gridare “rapimento” - non hanno più nulla da dirci né voglia di sapere. Era vero?
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Nell’Italia di Berlusconi si aggira e minaccia il Paese il fantasma del clandestino. Intendesi per clandestino un uomo, una donna, un bambino, che vive nel nostro Paese (perché è miracolosamente arrivato vivo dalla traversata in mare) e ci vive non per turismo ma per disperato bisogno. In questo Paese il clandestino lavora, quasi sempre nei mestieri peggiori, quasi sempre per una paga da fame, senza una casa che possa chiamarsi casa, senza cure o scuola (in molte città è proibito, o lo vogliono proibire) per i bambini. Dicono tutti gli esperti - dall’America all’Europa - che gli immigranti senza diritti producono ricchezza per il Paese ospitante. Nell’Italia di Berlusconi personalità di governo variamente disposte in posizioni chiave agitano pregiudizio, paura, antagonismo, odio, in una brutta formula primitiva che in politica funziona (porta voti) ma nella vera vita punta al linciaggio, da Verona al Pigneto. Spiegate pure ai morti e ai feriti che i picchiatori e i saccheggiatori dei loro negozi non erano iscritti al fascio. Immaginate il sollievo degli zingari di Ponticelli, dei familiari del ragazzo di Verona o degli aggrediti all’Università La Sapienza o dei cittadini del Bangladesh al Pigneto nell’apprendere che le sprangate non erano politiche, o che il mandante era Che Guevara.
Mentre il mondo è percorso dal brivido penuria-fame-petrolio-guerra-rischio di nuovo terrorismo, allarmanti scossoni ai più solidi edifici finanziari, l’Italia di Berlusconi introduce nelle leggi italiane 23 nuovi reati a carico dei clandestini e dei lavoratori immigrati (fonte: Il Sole 24 ore, 26, 27 maggio). Lo sguardo sfuocato dal provincialismo disinformato e dalla vista annebbiata della Lega xenofoba guida l’azione “decisionista” di un governo che - come certi giocattoli - sbatte e torna a sbattere contro muri che non vede.
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Sono i muri di un provincialismo e di una autoreferenzialità soffocante che impediscono di percepire il mondo. Mentre l’Alitalia sta per scomparire dai cieli, ti annunciano all’improvviso, con una incosciente allegria da Titanic, il Ponte di Messina, opera gigantesca per cui non esistono disegni e studi di fattibilità e di (immenso, rovinoso) impatto ambientale. E non ci sono e non possono esserci i fondi.
Ti rispondono, con sorrisi fuori posto, che provvede la finanza privata. Sarà la stessa finanza privata che sta affollandosi per rilanciare febbrilmente la grande cordata nazionale e patriottica che salverà l’Alitalia?
Intanto sta per scatenarsi anche sull’Italia impoverita (è povera una famiglia su tre, la metà vive con poco più di mille euro) la più grande tempesta economica dal 1929, ci dicono, i più credibili esperti americani. Loro - il governo fuori dal mondo e dalla realtà e immerso in un cattivo teatro dell’assurdo - si presentano ad annunciare, senza il minimo senso della parole gravissime che stanno pronunciando, il nostro glorioso “ritorno al nucleare”.
Neppure economisti fantasiosi e disinvolti come Tremonti e Brunetta hanno provato a calcolare, sia pure per scherzo, una cifra, per esempio il costo di un abbozzo di progetto di un solo impianto nucleare. Nessuno ha provato a dirci in quanti anni (o decenni) un simile gigantesco investimento sarà compensato da costi minori dell’energia elettrica in Italia, rispetto al costo di oggi. Nessuno ha tentato, magari con una solenne dichiarazione da Napoli, di parlarci della gestione delle scorie.
In questo cupo teatro si aggiunge, perfettamente giustificata dal clima di irrealtà, l’offerta del Primo ministro Berisha. Dice: «Venite a fare i vostri nuovi impianti nucleari in Albania. Noi siamo pronti».
Ecco dunque il nuovo orizzonte di azione del governo fieramente decisionista: la repubblica nucleare d’Italia e di Albania, con Berlusconi capo indiscusso.
Accade però che, dopo aver fatto la faccia feroce a clandestini e immigrati, Berlusconi si impantani nell’immondizia di Napoli, benché abbia fatto di nuovo finta di risolvere il problema con “leggi speciali” (la definizione, tristemente esatta, è di Stefano Rodotà, La Repubblica, 27 maggio).
Il problema è drammatico e invoca soluzioni urgenti di adulti competenti.
Berlusconi ha portato a Napoli il suo miglior abito elettorale (spingere in là il problema per occupare da solo tutta la scena) ma tutto ciò che ha saputo fare è una legge che nega il federalismo, cancella Comuni e Regioni, circonda di Forze armate alcune zone del Paese (la Lega accetta perché a loro importa la secessione, non il federalismo, meno che mai nel Sud). E si blocca di fronte a un nodo maledetto che nessuno dei suoi ha studiato o capito. È vero, neppure i governi locali o nazionali del centrosinistra avevano saputo farlo. Ma questa realtà, allarmante e triste, non autorizza alla celebrazione di Berlusconi che “finalmente ha deciso”. L’immondizia continua. Continuerà.
Purtroppo lo squallido film del finto governo, delle finte decisioni, delle finte soluzioni che sono o illegali o impossibili (la cattiveria di governo, le ronde spontanee contro gli immigrati e i Rom sono l’unico segno della nuova era) è seguito da due comiche finali.
Una è quella, segnata dalla concitazione di gesti e di azioni dei film da ridere di un tempo, una concitazione tipica anche dei sofferenti di iperattivismo, e del ministro Renato Brunetta. È la “Festa del fannullone” in cui la finzione è evidente: il capro espiatorio si vede al primo sguardo (il capo ti rovina quando vuole, secondo le buone regole del mobbing, che - come tutti sanno - impediscono a qualcuno di lavorare). E l’intimidazione contro i medici che rilasciano certificati finti è roba forse vera e forse falsa, e non annuncia nulla se non disprezzo per chi lavora davvero e si ammala davvero. Infatti l’accusa ai medici non viene da una rigorosa inchiesta, ma dal sentito dire sul pianerottolo del condominio. In altre parole, come sempre nell’Italia della burocrazia, volano gli stracci e zompa chi può. Ve lo immaginate, in un clima improvvisato e superficiale di questo genere, come saranno bravi i dirigenti e i funzionari peggiori nel liberarsi di rompiscatole laboriosi che, per giunta, sono inclini a denunciare le complicità fra politica e burocrazia?
Però non è tutto. Il cambio di stagione non si apprezza, nella sua triste portata, se non si dice, e si ricorda, e si dovrà ricordare, che tutta la prima fase di lavoro alla Camera dei Deputati italiana è stata spesa nel tentativo della maggioranza di difendere gli interessi e gli affari di Mediaset e di Berlusconi (salvataggio sfacciato di Rete 4). Ha fatto blocco, nell’aula di Montecitorio, l’impegno del Partito democratico, dell’Italia dei valori di Di Pietro, e - questa volta - anche del gruppo di Casini, per impedire un simile uso immorale delle Istituzioni italiane.
Questa volta, almeno un poco, almeno in parte, l’opposizione ha vinto. Il vero punto segnato, però, è quello che tanti negano e di cui si fingono annoiati. È avere dimostrato che tutto continua, che non c’è alcun nuovo Berlusconi, che il conflitto di interessi esiste, cresce e, come un totem primitivo, è l’unica cosa salda e solida al centro del disastrato paesaggio italiano.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 1.6.08
Il nemico non è l’immigrato
di Rula Jebreal


Il mix è esplosivo. E si fa ormai fatica a capire che parte hanno l’intolleranza, il razzismo, l’odio politico, la giustizia fai-da-te nell’esplosione di violenza che da qualche giorno scuote il Paese dalle fondamenta. L’unico elemento comune che si trova all’origine di tutte le analisi che tentano di dipanare l’intricata matassa è il fallimento dello Stato, delle politiche che ha adottato, della Politica con la P maiuscola che ne ha guidato l’azione.
Vengono al pettine i nodi di tutte le contraddizioni prodotte dai continui compromessi che la politica ha accettato negli ultimi anni per governare fenomeni sociali molto complessi che avevano invece bisogno di essere affrontati con il massimo di trasparenza e di linearità. Quando il Capo della Polizia Manganelli dichiara l’impotenza delle forze dell’ordine e vede nell’azione della Magistratura un elemento di freno che vanifica gran parte del lavoro svolto; quando la Magistratura chiamata in causa risponde che non può sottrarsi all’applicazione letterale della legge e che non saremmo in uno Stato di diritto se l’azione giudiziaria si facesse strumento di una strategia operativa del governo, dobbiamo allora riconoscere che il Parlamento della Repubblica ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte e che ne è venuta fuori una situazione di stallo. Una condizione di immobilismo che gioca tutta a favore di chi, italiano o immigrato, è interessato a delinquere. In passato ho spesso denunciato l’incapacità degli uffici amministrativi a fare una selezione tra gli immigrati in base alla cultura, alla professionalità, alla condotta di vita, e mi sono lamentata di un livellamento verso il basso che produceva umiliazione e malessere nelle tante persone oneste e perbene che sono approdate in Italia da altri Paesi. Ora mi rendo conto di un secondo effetto, forse persino più grave, di questo atteggiamento: nel novero indistinto degli immigrati non c’è solo il mancato riconoscimento per i giusti; c’è anche un comodo rifugio per i delinquenti. Sono sinceramente dispiaciuta che la stampa non colga questa macroscopica anomalia e si faccia invece amplificatore di un giudizio che rischia di sovrapporre il fenomeno immigrazione al fenomeno delinquenza, senza capire che solo il riconoscimento di piena cittadinanza per gli immigrati, intesa nel senso di una comune condivisione dei diritti civili, può portare a enucleare gli aspetti di degenerazione illegale o addirittura criminale che fisiologicamente accompagnano le migrazioni di massa. In Italia il confronto tra il buonismo e l’ostracismo ha soppiantato ogni serio dibattito sul funzionamento delle strutture che devono separare le mele marce da quelle sane e garantire ai cittadini la necessaria e dovuta serenità. Tutto è stato ricondotto a una equazione tanto semplice quanto antistorica: per fermare la delinquenza bisogna fermare l’immigrazione. E ciò a dispetto delle statistiche che ci ricordano che ancora oggi oltre i due terzi di tutti i delitti sono commessi in Italia da italiani.
C’è da augurarsi che il nuovo governo sappia trarre le giuste indicazioni dalle esperienze e che coordinando le politiche della sicurezza, della giustizia e delle carceri possa restituire serenità alla popolazione, ritrovando anche il giusto ruolo dello Stato che ha il monopolio della forza e non deve aver bisogno di alcuna surroga. Su un diverso fronte mi aspetto l’avvio di una rigorosa politica di integrazione per gli immigrati che ponga anche requisiti severi ma che offra la possibilità a chi merita di sedersi a pieno titolo tra i cittadini degni di questo nome. Non ho dimenticato lo sforzo che fece il Ministro Pisanu con il suo progetto di Consulta e spero che questa strada venga ripresa con maggior vigore e porti ad attribuire responsabilità se non politiche almeno amministrative a immigrati che lo hanno meritato. Nessun segnale è oggi più importante per riportare sulla giusta rotta un’opinione pubblica che si è troppo sbilanciata verso l’adozione di un giudizio sommario sul fenomeno immigrazione, sollecitata da troppe frasi irresponsabili pronunciate nei palazzi della politica e, purtroppo, dal risalto asimmetrico e poco oggettivo che i media danno agli avvenimenti.
Dobbiamo insieme puntare l’indice contro la diffusa illegalità che in questo paese regna sovrana e ricostruire un sistema di regole che valgano per tutti senza privilegi e senza eccezioni di razza, di censo o di potere. Sta qui il punto debole del sistema, un peso insopportabile che esaspera la cittadinanza e che si trasforma invece nella condizione più favorevole per i malintenzionati. La ragione per cui il numero degli extra-comunitari che delinquono è in Italia superiore alla media europea.
Vengono al pettine i nodi di tutte le contraddizioni prodotte dai continui compromessi che la politica ha accettato negli ultimi anni per governare fenomeni sociali molto complessi che avevano invece bisogno di essere affrontati con il massimo di trasparenza e di linearità. Quando il Capo della Polizia Manganelli dichiara l’impotenza delle forze dell’ordine e vede nell’azione della Magistratura un elemento di freno che vanifica gran parte del lavoro svolto; quando la Magistratura chiamata in causa risponde che non può sottrarsi all’applicazione letterale della legge e che non saremmo in uno Stato di diritto se l’azione giudiziaria si facesse strumento di una strategia operativa del governo, dobbiamo allora riconoscere che il Parlamento della Repubblica ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte e che ne è venuta fuori una situazione di stallo. Una condizione di immobilismo che gioca tutta a favore di chi, italiano o immigrato, è interessato a delinquere. In passato ho spesso denunciato l’incapacità degli uffici amministrativi a fare una selezione tra gli immigrati in base alla cultura, alla professionalità, alla condotta di vita, e mi sono lamentata di un livellamento verso il basso che produceva umiliazione e malessere nelle tante persone oneste e perbene che sono approdate in Italia da altri Paesi. Ora mi rendo conto di un secondo effetto, forse persino più grave, di questo atteggiamento: nel novero indistinto degli immigrati non c’è solo il mancato riconoscimento per i giusti; c’è anche un comodo rifugio per i delinquenti. Sono sinceramente dispiaciuta che la stampa non colga questa macroscopica anomalia e si faccia invece amplificatore di un giudizio che rischia di sovrapporre il fenomeno immigrazione al fenomeno delinquenza, senza capire che solo il riconoscimento di piena cittadinanza per gli immigrati, intesa nel senso di una comune condivisione dei diritti civili, può portare a enucleare gli aspetti di degenerazione illegale o addirittura criminale che fisiologicamente accompagnano le migrazioni di massa. In Italia il confronto tra il buonismo e l’ostracismo ha soppiantato ogni serio dibattito sul funzionamento delle strutture che devono separare le mele marce da quelle sane e garantire ai cittadini la necessaria e dovuta serenità. Tutto è stato ricondotto a una equazione tanto semplice quanto antistorica: per fermare la delinquenza bisogna fermare l’immigrazione. E ciò a dispetto delle statistiche che ci ricordano che ancora oggi oltre i due terzi di tutti i delitti sono commessi in Italia da italiani.
C’è da augurarsi che il nuovo governo sappia trarre le giuste indicazioni dalle esperienze e che coordinando le politiche della sicurezza, della giustizia e delle carceri possa restituire serenità alla popolazione, ritrovando anche il giusto ruolo dello Stato che ha il monopolio della forza e non deve aver bisogno di alcuna surroga. Su un diverso fronte mi aspetto l’avvio di una rigorosa politica di integrazione per gli immigrati che ponga anche requisiti severi ma che offra la possibilità a chi merita di sedersi a pieno titolo tra i cittadini degni di questo nome. Non ho dimenticato lo sforzo che fece il Ministro Pisanu con il suo progetto di Consulta e spero che questa strada venga ripresa con maggior vigore e porti ad attribuire responsabilità se non politiche almeno amministrative a immigrati che lo hanno meritato. Nessun segnale è oggi più importante per riportare sulla giusta rotta un’opinione pubblica che si è troppo sbilanciata verso l’adozione di un giudizio sommario sul fenomeno immigrazione, sollecitata da troppe frasi irresponsabili pronunciate nei palazzi della politica e, purtroppo, dal risalto asimmetrico e poco oggettivo che i media danno agli avvenimenti.
Dobbiamo insieme puntare l’indice contro la diffusa illegalità che in questo paese regna sovrana e ricostruire un sistema di regole che valgano per tutti senza privilegi e senza eccezioni di razza, di censo o di potere. Sta qui il punto debole del sistema, un peso insopportabile che esaspera la cittadinanza e che si trasforma invece nella condizione più favorevole per i malintenzionati. La ragione per cui il numero degli extra-comunitari che delinquono è in Italia superiore alla media europea.

l’Unità 1.6.08
Parla Eric Hobsbawm. Se Karl Marx piace ai capitalisti
«Perché non possiamo non dirci marxisti oggi»
Il punto è accettare l’espansione mondiale delle forze produttive per poterle plasmare
di Marcello Musto


PARLA ERIC HOBSBAWM a 150 anni dalla stesura dei famosi Grundrisse di Karl Marx, l’opera chiave che preparò Il Capitale: «La crisi globale rilancia le analisi del capostipite del socialismo scientifico. E i capitalisti lo sanno...»

Eric Hobsbawm, «italianista», studioso di Gramsci, profondamente legato al nostro paese e alla cultura politica di sinistra del nostro paese, è considerato uno dei più grandi storici viventi.
È presidente del Birkbeck College (università di Londra) e professore emerito presso la New School for Social Research (New York). Tra i suoi molti scritti la trilogia sul «lungo 19° secolo»: L’età della rivoluzione: 1789-1848 (1962), L’età dell’impero: 1875-1914 (1987) e Il secolo breve, 1914-1991 (1994).

Professor Hobsbawm, a due decenni dal 1989 Karl Marx è tornato sotto le luci della ribalta. Nel corso di una conversazione con Jacques Attali lei ha detto che sono stati i capitalisti più degli altri a riscoprirlo e ha parlato della sua sorpresa quando l’uomo d’affari liberal George Soros le ha detto «ho appena letto Marx e c’è molto di vero in quello che dice». Quali sono le ragioni di questa riscoperta?
«Senza dubbio c’è una ripresa di interesse per Marx nel mondo capitalistico, ma il fenomeno non riguarda ancora i Paesi dell’est europeo che fanno parte dell’Unione Europea. Questa ripresa di interesse è stata probabilmente accelerata dal fatto che il 150° anniversario del Manifesto del Partito Comunista è coinciso con una crisi economica internazionale particolarmente drammatica nel bel mezzo di un processo di rapidissima globalizzazione dell’economia di mercato. Marx aveva previsto la natura dell’economia mondiale dell’inizio del 21° secolo, 150 anni prima in base alla sua analisi della “società borghese”. Non c’è da sorprendersi se i capitalisti intelligenti, in particolare il settore finanziario globalizzato, sono rimasti colpiti da Marx in quanto più consapevoli degli altri della natura e delle instabilità dell’economia capitalistica nella quale operavano. La maggior parte della sinistra intellettuale non sapeva più che farsene di Marx. Era uscita demoralizzata dal crollo del progetto social-democratico nel Paesi del nord Atlantico nel corso degli anni 80 e dalla conversione di massa dei governi nazionali all’ideologia del libero mercato nonché dal collasso dei sistemi politici ed economici che sostenevano di essersi ispirati a Marx e Lenin. I cosiddetti “nuovi movimenti sociali” come il femminismo non avevano alcun legame logico con l’anti-capitalismo (anche se i suoi membri presi individualmente erano schierati su queste posizioni) oppure non condividevano la fede nell’incessante progresso del controllo dell’uomo sulla natura che era stata condivisa sia dal capitalismo che dal socialismo tradizionale. Al tempo stesso il proletariato, diviso e indebolito, cessò di essere credibile come agente storico della trasformazione sociale. C’è da aggiungere che a partire dal 1968 i principali movimenti radicali avevano preferito l’azione diretta non necessariamente fondata su grandi letture o su una analisi teorica della realtà. Naturalmente ciò non vuol dire che Marx smetterà di essere considerato un grande pensatore classico, anche se per, ragioni politiche, specialmente in Paesi come la Francia e l’Italia che hanno avuto forti e influenti partiti comunisti, c’è stata una accesa offensiva intellettuale contro Marx e le analisi marxiste che ha toccato il momento di massima espansione negli anni 80 e 90. Ora secondo alcuni segnali questa offensiva dovrebbe aver esaurito il suo slancio».
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito alla crisi finanziaria in Asia orientale, alla crisi economica in Argentina e alla crisi dei mutui subprime iniziata negli Stati Uniti e diventata la più grande crisi finanziaria del dopoguerra. È giusto dire che la ripresa di interesse per Marx si basa anche sulla crisi della società capitalistica e sulla capacità di Marx di spiegare le contraddizioni profonde del mondo contemporaneo?
«Se in futuro la politica della sinistra sarà ancora una volta ispirata dall’analisi di Marx, dipenderà dall’andamento del capitalismo mondiale. Ciò vale non solo per Marx, ma per la sinistra nel suo complesso intesa come progetto e come ideologia politica coerente. E dal momento che, come lei ha detto giustamente, il ritorno di Marx si basa in larga misura sull’attuale crisi della società capitalistica, le prospettive sono più promettenti di quanto non fossero negli anni 90. L’attuale crisi finanziaria mondiale, che negli Stati Uniti potrebbe diventare una grave depressione economica, drammatizza il fallimento della “teologia” del libero mercato globale e incontrollato e costringe persino il governo americano a prendere in considerazione interventi pubblici come non avveniva dagli anni 30. Le pressioni politiche stanno già indebolendo l’impegno dei governi neo-liberali nei confronti di una globalizzazione incontrollata, illimitata e senza regole. In alcuni casi (Cina) le enormi disuguaglianze e ingiustizie causate dalla transizione verso una economia di libero mercato causano già grossi problemi alla stabilità sociale e sollevano dubbi persino ai vertici del governo. È chiaro che qualsivoglia “ritorno a Marx” sarà essenzialmente un ritorno all’analisi del capitalismo fatta da Marx e alla sua collocazione nell’evoluzione storica dell’umanità. Ivi compresa la sua analisi della inevitabile instabilità dello sviluppo capitalistico che procede per periodiche crisi economiche auto-generate che si riflettono sulla condizione politica e sociale. Nessun marxista poteva credere nemmeno per un momento che, come sostennero nel 1989 gli ideologi del neo-liberalismo, il capitalismo liberale avvrebbe vinto per sempre, che la storia era finita o che qualsivoglia sistema di relazioni umane potesse essere definitivo e immutabile».
Non ritiene che se le forze politiche e intellettuali della sinistra internazionale rinnegassero le idee di Marx perderebbero una guida fondamentale per l’esame e la trasformazione della realtà contemporanea?
«Nessun socialista può rinnegare le idee di Marx in quanto la sua convinzione che il capitalismo deve essere sostituito da un’altra forma di società si basa su una seria analisi dello sviluppo storico, in particolare nell’era capitalistica. La sua previsione che il capitalismo sarebbe stato sostituito da una sistema gestito o pianificato socialmente sembra ancora ragionevole anche se certamente Marx sottovalutò gli elementi di mercato destinati a sopravvivere in qualunque sistema post-capitalistico. Dal momento che si astenne deliberatamente dal fare previsioni sul futuro, non può essere ritenuto responsabile dei modi specifici in cui le economie “socialiste” furono organizzate nel socialismo reale. Per quanto riguarda gli obiettivi del socialismo, Marx non è stato solamente un pensatore che voleva una società senza sfruttamento e alienazione nella quale tutti gli uomini potessero realizzare appieno le loro potenzialità, ma espresse questa aspirazione con più forza di chiunque altro e le sue parole hanno ancora una notevole forza ispiratrice. Tuttavia Marx non potrà tornare ad essere di ispirazione politica alla sinistra fin quando non si comprenderà che i suoi scritti non vanno considerati programmi politici, autorevoli o meno, né descrizioni dell’attuale situazione del capitalismo mondiale, ma piuttosto guide per comprendere la natura dello sviluppo capitalistico. Né possiamo o dobbiamo dimenticare che Marx non arrivò ad esporre in maniera completa e sistematica le sue idee malgrado i tentativi di Engels ed altri di ricavare dai manoscritti di Marx un Capitale II e III. D’altro canto Marx non tornerà alla sinistra fin quando non verrà abbandonata l’attuale tendenza dei militanti radicali a trasformare l’anti-capitalismo in anti-globalizzazione. La globalizzazione esiste e, a meno di un collasso della società umana, è irreversibile. Tanto vero che Marx lo riconobbe come un dato di fatto e, da internazionalista, lo giudicò positivamente, almeno in linea di principio. Quello che egli criticò, e che anche noi dobbiamo criticare, era il tipo di globalizzazione prodotto dal capitalismo».

l’Unità 1.6.08
Che cosa sono quei complicati «Grundrisse»
Tecnica e borsa in quelle carte profetiche
di Bruno Gravagnuolo


Il testo che qui pubblichiamo è tratto da un volume che vedrà la luce quasi contemporaneamente quest’estate negli Usa, in Canada e in Cina e dedicato ai 150 anni dei Grundrisse di Karl Marx. Mentre la versione italiana uscirà all’inizio del 2009 per Carocci: I Grundrisse di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 150 anni dopo. È a cura di Marcello Musto, giovane studioso presso la Fondazione Firpo di Torino, impegnato in lavori sull’opera di Marx e attualmente dedito a una monografia che ha per tema una nuova biografia di Karl Marx alla luce della nuova delle nuova edizione storico-critica delle sue opere (MEGA 2).
L’intervista ad Hobsbawm, di cui riproduciamo un ampio stralcio, è la prefazione al volume sui Grundrisse di cui sopra, opera collettiva che si vale di una batteria di autori internazionali, oltre allo stesso Musto. Tra i quali Terrel Carver, John Bellamy Foster, Iring Fetscher, Andreé Tosel, José Paulo Netto, Ljudmilla L. Vasina, Hiroshi Ucida, Mario Tronti, Jannis Milios, Moishe Postone e ancora. Perché i Grundrisse? Che cosa sono, e quale il loro valore? Presto detto. Sono il laboratorio di Karl Marx. L’arsenale teorico preparatorio da cui egli trasse il suo Capitale. Dunque il cuore pulsante delle sue idee scientifiche, nel momento in cui venivano affilate teoricamente e rese chiare alla mente del loro artefice. In pratica sono manoscritti che Marx stese a Londra nella seconda metà degli anni 50 dell’800 e conclusisi nel 1858. Culminati poi con la Critica dell’economia politica del 1859 e in seguito con la comparsa del primo libro del Capitale (1863). «Laboratorio-labirinto», alla fine del quale c’è la famosa Introduzione metodologica mai pubblicata del 1857 (ma edita da Kautsky nel 1903). Che consente di intendere la «storia vertebrata» di Marx». Storia «logico-storica», dove il presente capitalistico spiega «all’indietro» gli antecedenti «modi di produzione». All’insegna del dominio del Capitale che sottomette la rendita. E delle forme oggi divenute prevalenti: merce, lavoro salariato, denaro, plusvalore.
E però non c’è solo metodologia, in quell’arsenale preparatorio, scritto nel vivo di una crisi ieri come oggi globale dell’economia, da un Marx eroico, tormentato dai debiti e malato. Ci sono anticipazioni folgoranti. Sul nesso tecnica-natura. Sull’incorporarsi della tecnologia dentro il processo produttivo, che automatizza e rende «astratto» il lavoro. E lo consegna alle potenze impersonali della finanza e della borsa. Pensieri affascinanti. Non di ieri, ma di oggi. Addirittura di domani.

l’Unità 1.6.08
Correggio e il trionfo del corpo morbido
di Renato Barilli


LA GALLERIA BORGHESE ospita una mirabile mostra dedicata al genio emiliano, nato Antonio Allegri: una splendida serie di tele e disegni ne ricostruisce il percorso dai dipinti giovanili a quelli della maturità

Ho appena finito di tessere le lodi di Claudio Strinati, soprintendente del polo museale romano, che già un nuovo petalo egli aggiunge alla sua corolla. Si tratta della mostra dedicata al genio emiliano nato a Correggio, Antonio Allegri (1489-1534), una cui splendida serie di tele e disegni compare alla Galleria Borghese, a cura di Anna Coliva, nel quadro delle competenze che la Soprintendenza romana assegna ai suoi funzionari. Questo affascinante abbinamento tra i capolavori stanziali della Galleria ed ospiti d’eccezione si era già presentato in altre occasioni, qui puntualmente recensite, come l’indagine su Raffaello nel momento di passaggio da Firenze a Roma, o sul Canova, in accompagnamento a uno dei più bei trofei della Borghese, la Paolina Bonaparte. E altre prestigiose accoppiate del genere sono annunciate dalla Coliva. Tuttavia, dopo un devoto e dovuto omaggio a combinazioni di questo livello, mi si permetta di insinuare qualche dubbio. La Borghese è già di per se stessa un luogo di alta densità, asfissiante per il premere di tanti capolavori, non so quindi fino a che punto sia opportuno trovare a fatica qualche margine per accogliere appunto gli ospiti, anche se d’eccezione. In particolare, non so se una simile coesistenza sia giovevole per le folle di visitatori, cui riesce difficile distinguere tra il permanente e il temporaneo, anche se un’opportuna segnaletica cerca di prenderli per mano. Nelle occasioni precedenti c’era il valido motivo che nel permanente della Galleria si trovano opere essenziali alla perspicuità di un certo percorso, ma d’altra parte inamovibili, o tali da fornir
e un inevitabile termine di paragone con le presenze temporanee. Però non è così per il Correggio, di cui, a conti fatti, la Borghese conserva unicamente una Danae, seppure splendida. Scatta però un altro motivo, l’opportunità di condurre un confronto con le opere permanenti sulla base di un tema specifico che dovrebbe giustificare l’accostamento, tema reperito, nell’occasione specifica, in un confronto con l’Antico. Ma diciamolo subito, questo è un tema pretestuoso, o marginale. Quando l’Allegri, attorno al 1518, compie il suo viaggio a Roma, che oggi nessuno più osa negare, da cui trae l’incitamento per l’alto cammino che poi compirà a Parma, lo fa per riempirsi la vista dei capolavori di Michelangelo e di Raffaello, cioè per ricavare un magnifico messaggio di modernità. Non lo interessano i marmi polverosi, dato che la missione assegnatagli dalla storia, semmai, è di imprimere su di essi un mirabile tocco che li restituisca a una vita calda, palpitante, sensuosa e perfino sessuale, rorida di profumi, forse perfino di afrori di pelli sudate per l’esposizione al caldo estivo delle terre padane. È quanto ci dice il perfetto osservatore di quella rivoluzione in atto che sarà il Vasari, quando appunto teorizzerà l’avvento di una maniera moderna, con Raffaello e Michelangelo al centro, e alle ali il Correggio e Tiziano. Si aggiunga al giudizio del Vasari l’arguta battuta recata, in tempi assai più prossimi a noi, da Roberto Longhi, che si è valso della frase felice con cui, a quanto pare, Picasso usava presentare il collega Braque, dicendo che era la sua moglie, senza doppisensi sessuali. E il Correggio, dice magistralmente il Longhi, era proprio la moglie di Michelangelo, ossia ridava palpiti di vita alla muscolatura, essa sì forse alquanto succube dell’antico, ostentata dai Profeti e dalle Sibille del Buonarroti.
Espressa questa cauta riserva di taglio organizzativo, per cui, ritengo, sarebbe meglio che il polo museale romano conducesse le sue convincenti proposte, poniamo, a Palazzo Venezia, a costo di far subire ai capolavori della Borghese qualche momentanea delocazione, riconosciamo pure che il percorso correggesco fornito in quelle gremite stanze è perfetto, se solo ci si assoggetta allo slalom. Ci sono quasi al completo i dipinti giovanili, le Madonne e Bambino in cui il grande emiliano prende le distanze dal Mantegna, o già imposta le figure di Santi e Re Magi in lunga catena, rifiutando i ritmi allineati come parate di belle figurine già cari agli uomini del Quattrocento, per andare verso il coinvolgimento, il dinamismo dei corpi. E poi vengono i mirabili raggiungimenti della corta maturità concessa all’artista, dove compare l’alta sintesi tra Michelangelo e Raffaello, propendendo però decisamente a favore di quest’ultimo, e preparando una miscela esplosiva che poi rimbalzerà nei secoli fino ai Carracci, a Rubens, a Courbet, a Renoir. Per rendere omaggio al contenitore romano tutti i grandi musei del mondo si sono prodigati, le tele provengono dal Louvre, dal Prado, dalla National Gallery di Londra, e ovviamente da Brera, e da Parma stessa. In ogni caso trionfano i valori del corpo, della carne, sia nelle ore del dolore, quando per esempio i Quattro Santi della tela parmense cadono sotto i colpi degli scherani, ma sembrano teneri fiori di bosco recisi da maldestri raccoglitori. E sempre da Parma viene un Compianto sul cristo morto in cui le carni si afflosciano su se stesse, in un tenero deliquio. Altrove però, quando si tratta di visitare i costumi libidinosi degli dei dell’Olimpo, è come se il Nostro penetrasse nel tepore delle alcove, a spiare da voyeur i segreti delle carni femminili, aperte alla profferta morosa, maliziosamente propiziata da Cupidi anch’essi morbidi, sinuosi e insinuanti.

l’Unità 1.6.08
Etica, patria potestà e accanimento
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


L’agenesia renale bilaterale è una della condizioni qualificanti della sindrome di Potter, una malattia congenita non infrequente e particolarmente grave. Così, sinteticamente, l’ha spiegata Ignazio Marino, giorni addietro, al Corriere della Sera: "Il problema non sono solo i reni mancanti ma anche gli ureteri e la vescica. Cioè l’intero apparato che forma la pipì, per usare termini comuni. Il feto, com’è noto, non respira con i polmoni, che entrano in funzione solo al momento della nascita. Ora, la loro maturazione avviene grazie al liquido amniotico in cui galleggia il feto e che è formato proprio dall’apparato urinario fetale. Quindi, con un Potter, non si forma il liquido che permette la maturazione dell’apparato respiratorio. In conclusione, alla nascita il bimbo non riesce nemmeno a respirare. Solo le macchine lo tengono in vita". Ovvero, tentano di prolungarne la crescita sin quando non sia in condizione di sopportare un doppio trapianto renale (sin quando non abbia almeno 9-10 kg di peso) e la ricostruzione di un apparato urinario. La versione inglese di Wikipedia (sono pochissime le fonti italiane che descrivono questa patologia) dice che nella "storia documentale della medicina e della ricerca la sindrome di Potter, nella variante con agenesia renale bilaterale, si è dimostrata letale nel 100% dei casi"; o, ancora, la prognosi per la sindrome di Potter è "costantemente infausta" (R. Domini-R. De Castro, Chirurgia delle malformazioni urinarie e genitali).
Davide è nato a Foggia il 28 aprile scorso. Alla nascita, per quanto riportano le cronache, era senza reni e ureteri (i condotti che uniscono i reni alla vescica), con una vescica poco sviluppata e gravi malformazioni polmonari. I medici hanno formulato una diagnosi di Sindrome di Potter; e hanno prospettato alla sua famiglia come le cure cui il neonato avrebbe potuto essere sottoposto apparivano sproporzionate rispetto alle attese di vita. Davide, in altre parole, sembrava essere nato senza speranza alcuna di sopravvivenza. "Abbiamo supplicato i medici chiedendo di cercare un centro specializzato per verificare se si potesse fare qualcosa per il bambino. Tutti ci hanno detto di non essere egoisti e di lasciarlo morire in pace". Così la madre del bambino, Maria Rita, in una dichiarazione a Il Giornale.
Poi è successo qualcosa di inatteso; di tanto inatteso da mettere persino in dubbio, per alcuni, la diagnosi iniziale. Perché Davide ha cominciato a respirare autonomamente. Dunque si sono aperte nuove possibilità terapeutiche, in particolare quella di sottoporre il neonato a dialisi. Una decisione che, a parere dei medici, andava presa in tempi rapidissimi.
I genitori vengono informati e viene sollecitato il loro parere; e chiedono qualche ora per riflettere: per capire se procedere in quella direzione non voglia semplicemente dire prolungare inutilmente la sofferenza del bambino. "Siamo stati di nuovo chiamati in ospedale: qui ci hanno spiegato che il bimbo respirava da solo e che giuridicamente era trasportabile", continua la donna. "Noi avevamo solo chiesto qualche ora in più. Volevamo riflettere, intendevamo parlare con l’ospedale del Bambin Gesù di Roma per cercare di capire come muoverci: perché avevamo saputo che spesso molti bambini in queste condizioni riescono a superare il problema con un trapianto".
E invece, racconta ancora Maria Rita, "prima mio marito è stato convocato dai carabinieri; il giorno dopo siamo andati in ospedale: abbiamo scoperto che nostro figlio era stato trasferito e abbiamo saputo che ci era stata sospesa la patria potestà. (…) Mio figlio è sottoposto ad un calvario, per ora riesce a sopportare queste terapie, ma poi la vita per lui sarà un inferno".
La situazione, lo si intuisce, è delicatissima e di estrema complessità. Fatto sta che ai genitori è stato chiesto un parere cruciale; che loro non hanno potuto formularlo nei tempi attesi dai medici (parliamo di poche ore); che questi hanno riunito il comitato etico al quale il padre e la madre non hanno avuto accesso; che, infine, il primario del reparto di terapia intensiva degli Ospedali Riuniti si è rivolto al Tribunale per i Minori di Bari, per chiedere la sospensione della potestà genitoriale, essere lui stesso nominato tutore e autorizzare, in quanto tale, il trasferimento di Davide presso un ospedale attrezzato per la dialisi.
Qualche sera addietro a Primo Piano, su Rai Tre, i genitori del bambino e il loro legale spiegavano di comprendere perfettamente come medici, giudici e tutti coloro sin qui coinvolti nella vicenda abbiano agito a fin di bene. Dicevano, dei medici che stanno assistendo Davide nella dialisi, che sono "eccellenti"; si mostravano convinti di essere, a breve, reintegrati nella piena potestà del loro piccolo (la cosa è avvenuta proprio ieri). Ora sono speranzosi, comprensibilmente, Massimo e Maria Rita; e cominciano ad esserlo anche i medici. Rimangono due questioni.
La prima riguarda la dialisi cui il neonato deve essere sottoposto. La dialisi è una terapia invasiva, di non facile tolleranza neppure negli adulti. Il sistema arterioso di un neonato potrà sopportarla? Per quanto tempo? Lo zio di Davide, Angelo, pochi giorni addietro si esprimeva con parole sofferte e allarmate: "Per dializzarlo hanno adoperato l’arteria ombelicale. Poi quella inguinale. Quando non sarà possibile usare altre arterie dovranno intervenire sulla giugulare. Poi non ci sarà più nulla da fare. Questo non è accanimento?". Maria Cristina D’Amelio, dirigente responsabile dell’ospedale dove Davide è ricoverato, pur dicendosi ottimista sugli sviluppi della vicenda, ammette il concreto rischio di un’infezione.
La seconda questione - il punto più controverso, per alcuni aspetti, della vicenda - riguarda la revoca della potestà genitoriale. Che, ancorché la ristrettezza dei tempi a disposizione imponesse scelte unilaterali e rapide, deve essere procedura più attenta, più rispettosa, più in sintonia con le condizioni di vita del minore e con gli intenti e le possibilità dei suoi genitori. In un caso come questo, comunque vada a finire, la prassi medica si è rivelata capace di sottrarre ogni determinazione possibile sulla vita di un neonato - di un neonato gravemente malato, con pochissime o nulle attese di vita - al controllo dei genitori; che prima sono stati invitati a lasciarlo morire compassionevolmente, poi sono stati espropriati della propria facoltà per procedere a cure che potrebbero rivelarsi sproporzionate e superflue. La medicina può prevaricare, per potenzialità scientifiche, prassi e forme burocratiche, la volontà delle persone.
In ogni caso, e soprattutto, forza Davide. E forza Massimo e Maria Rita.

Corriere della Sera 1.6.08
Andrea Graziosi rilegge la storia del potere bolscevico in Russia: dietro il paravento ideologico, il peso della barbarie
Stalin, un despota come Gengis Khan
L'Urss da Lenin in poi: una tirannia «asiatica» sulle donne, gli operai e i contadini
di Ernesto Galli Della Loggia


È abbastanza raro per la storiografia italiana, e quindi da salutare con compiacimento, un libro come questo di Andrea Graziosi ( L'Urss di Lenin e Stalin. Storia dell'Unione Sovietica 1914-1945, Il Mulino); un libro che per la sua importanza merita dunque un discorso ulteriore più ampio di quelli che lo hanno riguardato finora. È uno di quei testi, fra l'altro, che per solito la nostra editoria è costretta a tradurre dall'inglese perché da noi non si scrivono: e cioè il racconto di un grande nodo di storia mondiale, di carattere divulgativo sì, ma, come si usa dire, di alta divulgazione e frutto, oltre che di una amplissima bibliografia, di ricerche di prima mano negli archivi.
Un libro godibile, tutto fatti, spesso ignoti anche al pubblico colto, e che tra i filoni d'indagine fa posto anche a dimensioni di solito trascurate, quali per esempio il rapporto tra i generi (la condizione femminile fu tra le prime vittime della rivoluzione), i quanto mai eloquenti andamenti demografici, l'intricato problema delle nazionalità. Il tutto sorretto da un robusto impianto interpretativo, al cui centro sta un'ipotesi certo non comune tra gli addetti ai lavori. L'ipotesi cioè che il regime comunista russo non sia stato in realtà un totalitarismo, come oggi quasi universalmente si dice, ma piuttosto un caso particolarmente brutale di «dispotismo asiatico» (viene in mente la celebre definizione buchariniana di Stalin come «un Gengis khan col telefono »), dunque non un a suo modo modernissimo regime di massa, ma assai più un «ancien régime di tipo nuovo», un regime dove, per dirne solo una, che però serve a far capire di che si trattava, in tutto il periodo considerato la regola fu sempre quella di tenere la popolazione all'oscuro dei provvedimenti adottati dal potere.
Una delle conclusioni apparentemente sorprendenti a cui ci costringe la lettura delle pagine di Graziosi è che è difficile trovare negli ultimi due secoli un regime che abbia attuato una criminalizzazione altrettanto sistematica della classe operaia e dei contadini come quella messa in opera dal bolscevismo in Russia. Sapevamo già, naturalmente, della repressione politica, delle stragi di massa durante la collettivizzazione delle campagne, della carestia artificiale in Ucraina, ma ignoravamo per esempio che negli anni Trenta fu di fatto cancellata qualunque legislazione sul lavoro come qualunque presenza sindacale; che l'«emulazione socialista» prevedeva un inferno di 12 ore di lavoro quotidiano con nessun riposo festivo; che in un anno-tipo come il 1929-30 i licenziamenti per assenteismo potevano arrivare a colpire il 30 per cento (il 30 per cento!) della forza lavoro occupata. Né conoscevamo, per fare un altro esempio, quali fossero (ovviamente per le classi popolari, non di certo per la nomenklatura) le terrificanti condizioni abitative a Mosca circa vent'anni dopo l'Ottobre: con il 40 per cento degli inquilini che risiedeva in una sola stanza, il 23,6 in «parte di una stanza», il 5 per cento in una cucina o in un corridoio, e la bellezza del 25 per cento in dormitori (in dormitori!).
Era questo uno dei tanti esiti paradossali di una «rivoluzione proletaria» destinata in realtà a segnare la catastrofe non solo della grande tradizione rivoluzionaria russa, ma dello stesso movimento operaio di quel Paese (non a caso tuttora inesistente), e più ancora delle radici contadine dell'una e dell'altro.
L'idea di trapiantare un'ideologia industrialista- statalista, com'era quella che animava fanaticamente Lenin e il gruppo dirigente bolscevico, entro una società per tre quarti formata di contadini unicamente desiderosi di diventare proprietari ebbe fin dall'inizio conseguenze devastanti. Ciò che infatti mostra questo libro è che, contrariamente ad una leggenda ancora oggi dura a morire, un'età d'oro della Rivoluzione e del Comunismo in Russia in realtà non vi fu mai. Così come fin dalle prime settimane, infatti, il nuovo regime diede il via ad una dura repressione poliziesca contro qualunque genere d'oppositori, allo stesso modo esso prese a colpire le campagne. Sta qui il punto centrale dell'impianto interpretativo di Graziosi. Egli vede tutto il primo ventennio della storia sovietica dominato da una vera e propria guerra mossa dallo Stato contro i contadini: una lotta tanto più crudele in quanto dominata dall'impossibilità di un compromesso. A parte ogni pregiudizio ideologico, infatti, per i bolscevichi consentire al desiderio contadino di proprietà della terra avrebbe voluto dire né più né meno che rinunciare di fatto a stabilire nelle campagne una qualunque rete capillare di controllo politico-sociale da parte dello Stato- partito. Non solo: lasciare le campagne nelle mani di milioni di piccoli-medi proprietari (oltre tutto padroni del sostentamento delle città) sarebbe equivalso altresì alla necessità di continuare a far esistere il mercato, e quindi la moneta, cioè esattamente le due cose nell'abolizione delle quali i bolscevichi pensavano che dovesse consistere il comunismo.
Da qui l'impeto barbarico con il quale i bolscevichi si avventarono sulle campagne fin dal 1918: dapprima allo scopo di farsi consegnare a viva forza il grano, in seguito per imporvi il proprio assoluto dominio culminante alla metà degli anni Trenta nella definitiva collettivizzazione della terra. Lenin — il «buon» Lenin, non il «cattivo» Stalin del sempre evocato «stalinismo » da parte di quelli che vogliono salvare l'onore del comunismo non pronunciandone il nome — Lenin, dicevo, non arretrò di fonte a nulla: reparti «di sterminio» (sì, si chiamavano così, senza falsi pudori), deportazioni e impiccagioni in massa, incendi di villaggi, torture di massa, fucilazioni di ostaggi fino alla misura di cinquanta a uno, bombardamenti aerei pure con l'uso di gas asfissianti, addirittura il ritorno alle fustigazioni in massa, una delle più odiose pratiche repressive dello zarismo. Giustamente Graziosi, che in queste pagine come in tutto il libro si basa esclusivamente su dati ufficiali o su documenti d'archivio, parla di «sfruttamento genocidiario » dei contadini, riportati di fatto alla condizione di servi della gleba (non a caso saranno sottoposti pure all'obbligo delle corvée),
e invano protagonisti, nel solo primo semestre del 1932, di ben milleseicento insurrezioni nelle campagne.
Fu su questa pratica collaudata di violenza «sterminazionista» leniniana, replicata già a suo tempo da sanguinose operazioni repressivo- militari di tipo coloniale nel Caucaso e in Asia centrale, che Stalin innestò poi quello che l'autore chiama un «terrore categoriale e preventivo». Il risultato stupefacente fu, alla fine, uno Stato edificato «contro» la propria società, «contro» il proprio popolo, e dunque fisiologicamente incapace di fare a meno di quello che una volta un contadino, rivolgendosi a Kalinin, osò definire «il partito revolver ». Un partito che già durante la rivoluzione aveva cominciato ad attingere per i suoi quadri all'ampio serbatoio plebeo-criminale prodotto dalla disgregazione sociale circostante, e che via via conobbe perciò una profonda trasformazione antropologica dei propri gruppi dirigenti, nei quali da un certo punto in avanti l'alcolismo, la brutalità, il cinismo, la corruzione e il più violento maschilismo divennero la regola. Fino al vertice simbolico difficilmente eguagliabile della replica di Pjatakov, alla fine degli anni Venti capo della banca di Stato, il quale a coloro che alla sua proposta di vendere per fare cassa i quadri dei musei russi — e per primo lo «schifoso Botticelli» — obiettavano che così si precipitava nella barbarie, non esitò a rispondere: «Ma io sono per la barbarie!».
L'analisi
Questo libro smentisce una leggenda ancora oggi dura a morire: a Mosca non ci fu mai un'età d'oro della Rivoluzione e del Comunismo L'opera
Il libro di Andrea Graziosi «L'Urss di Lenin e Stalin» (Il Mulino, pp. 630, e
30) è il primo di due volumi sulla storia dell'Urss. Il secondo, che arriva fino al 1991, uscirà in settembre

Corriere della Sera 1.6.08
Basilea: si apre oggi alla Fondazione Beyeler la rassegna dedicata al pittore francese
Léger sulla rotta Parigi-New York
Subisce il fascino della «Grande mela» e influenza la Pop art Usa
di Sebastiano Grasso


Ottobre 1940. La Francia è occupata dai tedeschi e il cinquantanovenne Fernand Léger si imbarca per gli Stati Uniti. Vi resterà cinque anni. Negli Usa, il pittore francese è di casa. L'ultima volta che c'è stato? Dal settembre '38 al marzo del '39. A Princeton è ospite dello scrittore John Dos Passos. In questo periodo, inoltre, lavora anche a pitture murali in casa dei Rockefeller e frequenta il pittore-miliardario «precisionista di motivi industriali » Gerald Murphy (preso a modello da Fritzgerald per Il grande Gatsby). E insegna, anche, alla Yale university, con Henri Focillon e André Maurois.
In casa di Pierre Matisse, a New York, Léger ritrova alcuni esiliati come Breton, Ernst, Tanguy, Mondrian, Zadkine e Chagall. Si sposta negli States in pullman e tiene corsi in vari atenei. Fra gli incontri americani — che avranno poi un seguito in Francia —, quello con padre Couturier (amico anche di Le Corbusier) che lo coinvolgerà nel suo progetto di ricostruire alcune basiliche in Francia. Nel '45, Léger aderisce al Partito comunista francese e, in dicembre, rientra in patria.
Coetaneo e amico di Picasso (entrambi nati nel 1881), Léger, assieme allo spagnolo, a Braque e a Gris era considerato un protagonista del Cubismo. Ma non tutti erano d'accordo. Anche se riconosciuto come il creatore di un nuovo linguaggio, egli era considerato da molti un artista superficiale, meccanico e monotono. Cubista? Qualcuno lo definiva «tubista ». Quando Léger arriva a Parigi dalla Normandia, la capitale francese vive un momento di transizione fra due ere, fra due modi di vivere. Lentamente, tram e cavalli vengono sostituiti dal métro, l'elettricità disarciona le lampade a gas.
Abbandonate le avanguardie artistiche, Léger osserva e studia l'acciaio, il ferro, le macchine. È il periodo in cui Parigi accoglie il futurista Marinetti e compagni. Léger ne è incuriosito e attratto, ma non condizionato. Poi, il «colpo di grazia », datogli dalla guerra. «Sotto le armi ho avuto amici che erano minatori, terrazzieri, artigiani del legno e del ferro— dirà —. Lì ho scoperto com'è la gente. Al tempo stesso sono rimasto abbagliato dalla culatta d'un cannone da 75 millimetri, aperta in pieno sole, magìa della luce sul metallo bianco. Non ci voleva altro per farmi dimenticare l'arte astratta del '12-'13».
Decide, allora, di vivere la realtà. Ma la realtà è fatta anche dal «ferro lavorato delle centrali elettriche» che cresce «ogni giorno accanto agli alberi». Da questo momento, la civiltà delle macchine indirizzerà tutta la sua pittura. Figure e personaggi diventano meccanismi di una grande macchina in cui viti, bulloni, traverse, cunei vengono integrati da occhi, orecchie, braccia, mani e volti. Il binomio uomo-macchina diventa inscindibile. Quando Léger dipinge operai, acrobati, giocolieri, costruttori, pur dando vita a un'epopea popolare, riesce sempre a contenerla nelle leggi di un'architettura possente e monumentale, dal ritmo talvolta scenografico, di grande effetto, talvolta persino neoromantico. Il Léger che, nel 1940, approda — per la quarta volta — negli Usa, si guarda intorno e la meraviglia riempie i suoi occhi. Tutto gli appare grandioso. Ritrova la New York «città verticale» di Le Corbusier, le enormi pubblicità al neon che si riflettono sui grattacieli, l'archeologia industriale che sperimenta nuove strade. Universo, questo, che trasferisce sulle proprie tele.
Léger è affascinato dal vortice americano, s'è detto. Ma, a sua volta, affascina diversi giovani artisti, tanto da esercitare su di loro una notevole influenza. Valgano per tutti gli esempi di Roy Lichtenstein (1923) e di Robert Rauschenberg (1925).
Basta mettere a confronto i lavori dei due esponenti della Pop art americana con i suoi. È proprio questo confronto il
leit motiv della retrospettiva Léger: Paris- New York che si apre oggi a Basilea.
LÉGER: PARIS-NEW YORK
Basilea, Fondazione Beyeler, sino al 7 settembre. Tel. +41/61/6459700

Corriere della Sera 1.6.08
Libri. Tina Modotti: «Edwardito caro...»


«Oh Edward, quanta bellezza hai aggiunto alla mia vita!». Inizia così il carteggio epistolare fra Tina Modotti e il suo mentore-amante Edward Weston, dopo il loro primo incontro, a Los Angeles. Le lettere di Tina, riunite nel volume Vita, arte e rivoluzione, evocano emozioni quasi visive. Nata a Udine nel 1896, la fotografa lavorò in una fabbrica tessile, impersonò a Hollywood una servetta italiana, divenne l'emblema dell'attivismo politico e artistico e fu tra le donne più amate del Messico rivoluzionario di Diego de Rivera e José Clemente Orozco. Nel carteggio appare sensuale e combattuta «nel tragico conflitto fra la vita che cambia continuamente e la forma che la fissa immutabile»: dalle piccole impressioni quotidiane, di una stanza vuota e un terrazzo assolato, al drammatico esilio in Russia.
M. G.
VITA, ARTE E RIVOLUZIONE Lettere a Edward Weston di Tina Modotti
a cura di Valentina Agostinis, Abscondita, pp.240, € 24 Weston: Tina Modotti

Repubblica 1.6.08
Draghi il trapezista e Tremonti il dittatore
di Eugenio Scalfari


Dopo un´intensa produzione di editti tribunizi da parte del governo, dei quali si attendono ancora gli effetti anche se ne è chiaro l´orientamento strategico, è arrivata la radiografia economica contenuta nella relazione annuale della Banca d´Italia: venti cartelle, una prosa stringata, una raccolta oggettiva di informazioni e di altrettanti elementi di giudizio.
Il Governatore le ha lette con voce neutrale, senza impennata di accenti e di toni, lasciando al dibattito pubblico di interpretarne il significato e di coglierne il senso. Operazione difficile ed anche inevitabilmente arbitraria poiché nelle «considerazioni finali» di Mario Draghi c´è tutto e il contrario di tutto: dalla critica del lavoro precario ai suoi benefici effetti sull´occupazione, dalla necessità di ridurre il peso della fiscalità ai positivi risultati ottenuti dal precedente governo nella riduzione del debito pubblico e del deficit di bilancio, dall´esorbitanza della spesa all´urgenza di aumentare il potere d´acquisto dei ceti più disagiati, dalla sconsolata constatazione d´una produttività calante da almeno un decennio all´insufficienza dei consumi e della domanda interna. Infine il crescente dislivello tra Nord e Sud e la convinzione che il federalismo fiscale possa utilmente trattenere le risorse nei luoghi dove esse vengono prodotte.
Da questo punto di vista le considerazioni del Governatore potrebbero esser giudicate come una densa raccolta di ossimori, una sorta di opera aperta offerta agli operatori, al governo, alla pubblica opinione, un quadro in chiaroscuro dal quale i vari destinatari potranno trarre spunti a favore delle proprie tesi, ancorché contrastanti le une con le altre.
Solo su un punto Draghi è stato univoco: il ripetuto elogio all´operato delle Banche centrali per contenere gli effetti devastanti della crisi dei "subprime"; la Fed americana e la Bce europea - ha detto - sono state perfettamente all´altezza dei loro compiti innaffiando i mercati con ampie immissioni di liquidità ed evitando in tal modo che la crisi assumesse le dimensioni d´una catastrofe del tipo di quella che scardinò l´economia negli anni Trenta del secolo scorso.
Questo giudizio così esplicitamente positivo inserito in un documento per il resto cautissimo si presterebbe a qualche osservazione critica. Si potrebbe per esempio osservare che l´eccezionale fornitura di liquidità non è riuscita a spegnere l´incendio che, dopo due anni dal suo inizio, arde tuttora con notevole virulenza e non cessa di alimentare preoccupazioni.
Si potrebbe aggiungere che la ferma decisione della Banca europea di mantenere elevati i tassi d´interesse non ha minimamente contenuto l´inflazione né poteva farlo poiché si tratta d´una inflazione interamente importata dall´estero (prezzi del petrolio, delle materie prime e dei cereali) sulla quale il tasso d´interesse vigente in Europa non esercita alcun effetto mentre deprime ulteriormente le aspettative dei consumatori e degli investitori.
Sarebbe tuttavia troppo pretendere dalla Banca d´Italia, che è strutturalmente la sezione italiana della Bce, qualche riserva sull´operato del suo Quartier Generale. Si tratta d´una difesa d´ufficio dovuta sulla quale è dunque inutile insistere.
* * *
Se si legge con attenzione il documento Draghi i lineamenti d´una strategia emergono anche se impliciti e quasi dissimulati tra i tanti ossimori che lo costellano. La strategia sembra basata sui punti seguenti:
1. Sostenere la domanda interna dei ceti deboli (pensioni, salari). Defiscalizzare tariffe e liberalizzare catene commerciali e rendite di posizione.
2. Predisporre programmi di riduzione di aliquote fiscali con date certe ma differite.
3. Aumentare la produttività della pubblica amministrazione.
4. Accelerare - se possibile - l´aumento dell´età pensionabile e destinarne le risorse alla costruzione d´un sistema efficace di ammortizzatori sociali.
5. Agganciare retribuzioni e produttività.
6. Ridurre l´economia sommersa.
Si direbbe una strategia su due pedali, da non usare simultaneamente: prima accelerare e poi più dolcemente frenare, laddove l´acceleratore equivale a interventi espansivi e il freno a recuperi di risorse. Resta un problema di copertura per l´immediato, ma qui l´implicito non diventa esplicito e l´ossimoro resiste ad ogni possibile interpretazione.
Complessivamente queste considerazioni finali, con tutto il rispetto che meritano la Banca d´Italia il Direttorio e il Governatore, sono piuttosto deludenti. Carli, Baffi e Ciampi ci avevano abituato ad imparare molto di più dai loro interventi; c´era la freddezza e l´oggettività dell´analisi, ma anche l´impeto della passione, la sferza del giudizio, il sostegno dei poteri deboli contro le arciconfraternite.
Draghi ha un carattere diverso da loro, i sentimenti se li tiene per sé. Le tracce che lascia sul terreno bisogna cercarle con la pazienza d´un certosino e sono sempre passibili di smentita. Noi comunque ci abbiamo provato.
* * *
Il suo principale interlocutore, Giulio Tremonti, è di tutt´altra pasta. Lui, la sua strategia non solo non la dissimula ma la grida da tutti i cantoni. E´ un banditore della sua politica. Ci scrive anche dei libri e li vende benissimo.
E´ stato detto che Berlusconi ha militarizzato la politica ed è vero. Tremonti militarizza l´economia. L´ha sempre fatto, ma ora, in questa sua terza reincarnazione al ministero dell´Economia, ha indossato le vesti del pro - dittatore. La nuova vestizione era nell´aria ma la scena madre è avvenuta nel Consiglio dei ministri di due giorni fa. Si dovevano prendere decisioni sull´Alitalia, Tremonti doveva presentare la bozza d´un decreto che il Consiglio avrebbe dovuto discutere ed approvare (e magari emendare). Ma il decreto non era pronto, lo stavano limando gli uffici. Tremonti lo ha raccontato e il Consiglio ha dovuto approvarlo ad occhi chiusi. «Abbiamo fretta» ha detto Berlusconi «lo vedrete dopo intanto approviamolo». Eppure quel decreto ancora fantasma è una sorta di editto rivoluzionario.
L´Alitalia viene di fatto commissariata dal governo. Ad essa non si applicheranno le leggi vigenti che regolano la vita delle società quotate in Borsa. È esentata da ogni tipo di comunicazione alla Consob e al mercato. Il governo ha nominato un "advisor" nella persona di Banca Intesa e del suo consigliere delegato Corrado Passera il quale avrà accesso alla contabilità di Alitalia per farsi un´idea della situazione.
Normalmente l´advisor lavora per una società interessata ad entrare nell´azienda in vendita, ma in questo caso Banca Intesa lavora per se stessa ed è incaricata di farlo dal governo. La situazione è del tutto nuova e palesemente anomala. Banca Intesa, compiuti gli accertamenti del caso, potrà: ritirarsi dall´operazione, proporsi come azionista in proprio, designare una rosa di possibili acquirenti, presentarsi come mallevadore finanziario di uno di essi o più d´uno.
A quel punto il governo potrà: mettere l´Alitalia in liquidazione, chiedere agli acquirenti indicati dall´advisor un´offerta vincolante, sceglierne insindacabilmente uno, chiudere l´operazione con la vendita della compagnia aerea oppure mandare a monte tutto. Il tutto senza che il mercato, la Consob, l´Antitrust, possano seguire l´operazione in barba agli azionisti di minoranza, ai creditori e al mercato. Sono vecchio amico ed estimatore di Corrado Passera, perciò mi permetto di raccomandargli molta prudenza visto il rischio anche personale che si è assunto.
La bravissima Marcegaglia sembra un po´ spaventata da queste prospettive. Parlando a Trento al Festival dell´economia ha detto che l´operazione Alitalia si può fare soltanto se si troverà un imprenditore internazionale. Ha perfettamente ragione la Marcegaglia, ma chi? Air France ha chiuso o meglio è stata buttata fuori dai sindacati Alitalia e da Berlusconi in campagna elettorale. Lufthansa non ritiene che Alitalia sia appetibile ed eguale giudizio ne ha dato Aeroflot. Altre compagnie aeree in Europa non ci sono. In Usa, forse. Di seconda e terza fila. Ma il vero obiettivo di Tremonti (e di Air One) è di mettere in piedi un´azienda locale, regionale, con una flotta prevalentemente basata su aerei di media grandezza impegnati nel traffico nazionale e regionale (europeo). Una ristrutturazione «tricolore». Una sorta di Swissair dopo il fallimento o di Klm prima della fusione con Air France. Il tutto naturalmente attraverso una ristrutturazione rispetto alla quale quella proposta da Air France era zucchero filato. Questo sembra essere il piano di Tremonti. E anche di Bossi. E di Formigoni. È anche il piano di Passera?
* * *
Nel quadro degli editti tribunizi e della militarizzazione della politica e dell´economia, bisognerebbe ora parlare di Brunetta, neoministro della Funzione pubblica, ma lo spazio è tiranno. Ne parlerò un´altra volta, ma intanto segnalo un gustosissimo corsivo di Massimo Gramellini sulla «Stampa» del 28 maggio, intitolato «Nel suo piccolo» che poi sarebbe appunto il Brunetta. Per ora basti sapere che il neoministro della Funzione pubblica ha deciso di riformare la pubblica amministrazione (cioè nientepopodimeno che lo Stato, con due milioni e mezzo di dipendenti) e di ricavarne risparmi di 30-50 miliardi. A tal fine ha presentato un memorandum ai sindacati interessati ed ha chiesto di avere un sì o un no entro quarantott´ore. Altrimenti andrà avanti da solo perché ha fretta e le riunioni lunghe gli danno allergia. Che successo, che carriera!

Repubblica 1.6.08
I fedeli della dea America
di Vittorio Zucconi


Così si accomiata dai grandi della propria storia che prima avventatamente uccide e poi amarissimamente rimpiange
La passione corale con cui la gente saluta i suoi leader caduti è segno di un rapporto non più civile o politico ma religioso

Il treno più lento del mondo lasciò la stazione di Washington alle ore 8 di venerdì 21 aprile e arrivò a destinazione a Chicago alle ore 10 del 3 maggio, viaggiando alla lugubre velocità di otto chilometri all´ora. Ci vollero tredici giorni perché il convoglio con la salma di Abraham Lincoln, e del figlio Willie morto ancora bambino e disseppellito per unirsi al padre nel viaggio verso la tomba, lasciasse la capitale dove il presidente era stato assassinato e raggiungesse la città dove sarebbe stato sepolto. Fu un corteo funebre lungo duemila e cinquecento chilometri, il più lungo che il mondo avesse visto. E che avrebbe costruito il rito del lutto pubblico americano, la scenografia colossale e spontanea di quei lunghi addii dell´America ai grandi della propria storia, che prima avventatamente uccide e poi amarissimamente rimpiange.

Per trovare un´esplosione di rimpianto e di tenerezza paragonabile a quella che gli Stati Uniti vissero accompagnando il treno funebre di Lincoln nel 1865, di Franklyn Delano Roosevelt nel 1945, di Robert Kennedy e di Martin Luther King nel 1968, noi dobbiamo tornare alle miracolose giornate dell´aprile di tre anni or sono, in quella Roma dolce e malinconica allagata dai milioni di pellegrini in coda lungo il Tevere per un ultimo sguardo a Giovanni Paolo II.
E in questa evidente somiglianza fra i due milioni e mezzo di persone che sfilarono accanto al feretro di Karol Wojtyla e i milioni che hanno chinato la testa o inviato un bacio al passaggio del treno funebre dei presidenti americani assassinati o del carretto che trasportava la bara di Martin Luther King c´è un indizio importante per capire l´enormità corale e la passione con la quale il popolo americano saluta i propri leader caduti. C´è il segno di un rapporto non più politico o civile, e neppure più soltanto umano, ma religioso con coloro che incarnano, adorati o odiati che siano, la «Religione America» e ne divengono, laicamente ma definitivamente, i martiri.
Nelle folle immense che seguono il viaggio dei convogli funerari, munite di orari ferroviari precisi pubblicati dai giornali locali, trasmessi dalle radio o dal tamtam del passaparola, con l´ora e il minuto esatti nei quali il treno attraverserà il proprio villaggio in Georgia, in Pennsylvania, in Indiana, o nelle città fuligginose dei Grandi Laghi del Nord, non ci sono mai, neppure nella Atlanta nera che vide passare il feretro di King, quelle tracimazioni di isteria collettiva che accompagnarono la morte della «principessa del popolo», di Diana Spencer. E neppure si assiste alle scene da grande melodramma latino che accompagnarono l´addio dell´Argentina a Evita Peron. La compostezza dolente dei contadini in salopette o cuffie plissettate lungo i binari sui quali passavano i convogli di Lincoln, Roosevelt o Bobby, o il rispetto silenzioso degli operai delle ferriere hanno il sapore delle illustrazioni puritane di Norman Rockwell e la nitidezza di un dipinto iperrealista. Ma sempre con i connotati di una manifestazione religiosa.
La mistica dell´americanità trova nella grande tragedia pubblica l´occasione per esprimersi, soprattutto se è un funerale ferroviario, perché è il treno, più ancora del Winchester a ripetizione, della carabina Remington o della Colt 45, il mezzo che ha costruito una nazione e ha unificato le sue membra lontane. In una democrazia fondata sulla libertà di religione e quindi, implicitamente e fortunatamente, sulla assenza di religioni di stato, di ayatollah e di gerarchie ingombranti, la sola affermazione di fede comune è la fede nella propria appartenenza a una comunità umana che ha avuto, nel treno che conquistò il West, uno dei suoi massimi totem. E quando la persona che questa comunità rappresenta muore, o viene uccisa, la perdita è sentita come una perdita collettiva e l´offesa portata dai proiettili dell´assassino come un´offesa fatta a tutti, all´essenza della propria fede laica.
Per questo sembra sorprendente assistere all´unanimità del cordoglio, alla totalità della partecipazione di fronte all´assassinio di personaggi che, da vivi, erano invisi, addirittura esecrati da quelli che poi andranno ad assieparsi lungo la massicciata ferroviaria per onorarne il passaggio, da morti.
Racconta la più minuziosa studiosa delle presidenze americane, Doris Kearns Goodwin, che i sindaci delle cittadine e dei paesi attraversati dal convoglio funebre di Lincoln restavano stupefatti contando il doppio, a volte il triplo degli abitanti di quelle località, accorsi per salutare il feretro di un presidente nel cui nome, e per i cui ordini, settecentomila dei loro uomini più giovani, figli, fratelli e mariti, erano stati sacrificati.
«Non sapevo che tanta gente vivesse nel mio comune», disse il sindaco di Ashley, un paese di tremila persone nell´Ohio che contò ottomila fra donne, uomini e bambini alla stazioncina dove il "Lincoln Special", come si chiamava il treno funebre, sostò per due minuti esatti. A Indianapolis, dove la bara fu prelevata dal treno ed esposta nel palazzo del comune, sull´edificio di fronte era stato teso uno striscione con la scritta: «Riposa sereno Abe», l´abbreviazione affettuosa di Abraham, «ora ti amano anche i nemici».
La morte violenta, l´assassinio politico, sigilla, come quello striscione proclamava, la universalità della fede nell´America, proprio nel momento in cui l´odio dell´infedele, quasi un anticristo, si manifesta nel modo più definitivo. Lincoln fu eletto, nelle ultime presidenziali prima della secessione del Sud e della guerra, con appena il 39 per cento dei voti, e anche nel 1864, quando alla sua elezione parteciparono soltanto gli stati del suo Nord, vinse con un mediocre 55 per cento contro il 45 dell´avversario, anche in quelle città e in quei paesi che appena un anno dopo avrebbero venerato la sua salma nel lungo addio sulla sacra rotaia. «Sic semper tirannis», questa sia sempre la sorte dei tiranni, aveva gridato il suo assassino, nel teatro dove gli aveva sparato.
Roosevelt, eletto per quattro volte, era visto, anche lui, come un despota da quei 22 milioni di americani, su 47 milioni di elettori, che gli votarono contro anche nel novembre 1944, quando la Depressione era stata superata e le forze armate americane stavano trionfando in Europa e lavando l´infamia di Pearl Harbor.
Ma, come avrebbe detto molti anni dopo il chirurgo toracico dell´ospedale George Washington a un Ronald Reagan gravemente ferito dall´attentatore prima di addormentarlo e cercare di salvargli la vita sul tavolo operatorio: «Dorma tranquillo Presidente, oggi qui siamo tutti repubblicani».
Tutti repubblicani per Lincoln, tutti democratici per i Kennedy, detestati in vita dai cittadini degli stati del Sud e in particolare del Texas che non perdonavano l´imposizione dei diritti civili e la lotta contro l´apartheid di fatto. Tutti "civil righters" neri, tutti attivisti accanto al feretro di Luther King, trascinato per le vie della sua Atlanta, sopra un carretto da mezzadro tirato dai muli, l´umile simbolo della fine dello schiavismo quando ai neri liberati venivano regalati come compensazione quaranta acri di terra, sedici ettari, e appunto un mulo per coltivarli. Il corteo che seguiva la bara si allungò, secondo la polizia della Georgia, per oltre dieci chilometri, ben oltre il limite della città.
Di nuovo tutti democratici, e addirittura kennediani, alla fine di questo maggio, quando è arrivata dal Massachussetts General Hospital la diagnosi tremenda sul tumore terminale al cervello di Ted, che per due giorni ha occupato senza interruzione, in un «funerale per un uomo vivo», tutte le televisioni americane, in una dettagliata e impudica prova generale delle future esequie e dell´addio all´ultimo dei veri Kennedy, celebrato anche dai suoi avversarsi politici e personali più accaniti.
Tutti sembravano aver dimenticato che nei quarantasei anni della sua presenza in Senato, in quel seggio che il fratello John Fitzgerald aveva lasciato vacante dopo l´elezione alla Casa Bianca, Teddy era stato il bersaglio preferito dell´odio, del dileggio e del sarcasmo delle destre, che lo descrivevano come la manifestazione satanica del liberalismo statalista e del libertinismo di famiglia.
Non ci furono per i caduti sul lavoro, per i presidenti, i politici, i leader uccisi, neppure per quelli considerati più di parte, oppositori che uccidessero la gallina più grassa per festeggiarne la morte, come nelle campagne rosse alla notizia della scomparsa dell´odiato Alcide De Gasperi. E soltanto la morte improvvisa sul fronte della lotta politica di Enrico Berlinguer sfiorò il sentimento di un lutto collettivo oltre le appartenenze di bandiera, come invece l´assassinio di Aldo Moro, immediatamente avvelenato da polemiche di partiti, non fece. Se controversie e spasmi dietrologici scoppiano anche negli Stati Uniti, essi avvengono sempre a posteriori, dopo che la comunione dei credenti nel dio America ha pagato il proprio tributo unanime alla vittima, cioè il tributo a sé stessa.
Se attorno al regicidio più straziante del Ventesimo secolo, l´assassinio di JFK a Dallas, continua il tormentone del «chi ha davvero ucciso Kennedy» anche quarantaquattro anni più tardi, forse è perché a lui, e alla nazione, fu negato quel lungo addio sull´altare ferroviario che fu tributato a Lincoln e, più tardi, al fratello Bobby. Il corpo di John F Kennedy fu trasportato in fretta, quasi clandestinamente, la sera stessa dell´omicidio da Dallas a Washington nel timore di trame e attacchi bellici, in piena Guerra fredda, per ordine di colui che sulla sua bara, con il braccio alzato in un gesto quasi rattrappito, avrebbe giurato e assunto la successione accanto alla vedova Jackie con l´abito macchiato di sangue, Lyndon Johnson. Una nazione che non poté riconciliarsi con i suoi resti, non vuole, non può accettare la sua fine. Privata di quel lungo addio su rotaie nel quale avrebbe perdonato sé stessa per averlo lasciato uccidere.

Repubblica 1.6.08
Picasso e Bosè. Un angelo-toro per Lucia
di Maria Pia Fusco


Un grande pittore, una bellissima attrice, un celebre torero La loro amicizia è ricca di aneddoti che Lucia Bosè ci ha raccontato adesso che, per finanziare il suo Museo degli Angeli, ha deciso di vendere la collezione di disegni e ceramiche dell´artista in un´asta che si sta per tenere da Christie´s a Londra
"Miguel vestiva Pablo con abiti da corrida e spadino Lui si metteva in posa da arena"
"Fece per me lo schizzo dell´omino coi baffi. Mi disse: così non ti sentirai sola"

Una serata a "La Californie", la villa di Picasso a Cannes. Que bonita!, esclama il maestro all´apparizione di Lucia Bosé, appena uscita dalla doccia, avvolta in una sontuosa vestaglia rossa firmata Dior. Anche l´altro ospite, Luis Miguel Dominguin, esprime ammirazione per la moglie e per la vestaglia. Che attrae in modo particolare Picasso, tanto da spingerlo a chiedere al torero di provarla, poi la indossa anche lui, decide che conserva eleganza anche su un uomo. «Era una serata come tante, scherzavamo e ridevamo così, c´era la gioia di stare insieme, tra amici. Per Pablo le occasioni più entusiasmanti erano quando Miguel lo vestiva da torero, con lo spadino e tutti gli ornamenti. Lui si metteva in posa e faceva i movimenti da arena. Ho ancora le fotografie. Non ho mai capito perché, ma la vera arte per Picasso era la tauromachia, un´arte sacra, la più bella secondo i canoni estetici. Per Dominguin aveva un´adorazione, lo guardava come un dio, gli diceva che avrebbe amato essere lui. "Ma non so se io avrei voluto essere te", rispondeva Dominguin», racconta Lucia Bosé. «Personalmente non sono mai stata attratta dalle corride, ne avrò viste un paio nella mia vita. Che c´entro io, milanese, con la corrida? Però è una parte importante della cultura spagnola e le rispetto, non mi piace quando qualcuno ne parla con disprezzo senza sapere di che parla».
Lucia Bosé, con la sua calda voce roca da fumatrice, è al telefono dalla casa di Madrid, dove vive dagli anni Cinquanta, da quando nel ‘55 sposò Dominguin, allora il più famoso torero di Spagna. L´occasione per tornare ai ricordi della bella amicizia tra la sua famiglia e Picasso è l´asta della sua collezione privata di opere su carta e ceramiche del pittore, che si terrà da Christie´s a Londra a partire dal 25 giugno, dopo un´esposizione pubblica il giorno 20. «Ho preso una decisione: non voglio più possedere nulla. Ho fatto tanti sforzi per mettere insieme questa collezione, ma mantenerla è un problema, poi arrivano i figli e dicono "questo è mio" e "questo è mio". Poi i nipoti e ognuno vuole una cosa. Non so cosa ne farebbero in futuro, ognuno ha la sua vita, i suoi interessi, piuttosto che lasciare che vendano loro, preferisco venderla io. Ne ho bisogno per mantenere il mio Museo degli Angeli a Siviglia».
Tre figli - Miguel, Lucia e Paola «in omaggio a Pablo, che è stato il suo padrino»; sette nipoti e «sono anche bisnonna» - Lucia Bosè ha collezionato angeli di ogni tipo, oggetti, sculture, dipinti: «Era un sogno che coltivavo da ragazza, da quando vidi per la prima volta le statue di pietra di Ponte Sant´Angelo. L´ho realizzato, il museo si arricchisce di continuo. È un sogno che costa, i ricavi dell´asta mi servono per quello, ma è una mia scelta e sono felice così». Ed è felice anche «per la possibilità di mostrare ad altri un aspetto di Picasso che credo pochi conoscano. Io non so parlarne da critico, per me era l´amico che toccavo, che abbracciavo, con cui avevo il privilegio di dividere momenti di gioia o di malinconia. Soprattutto di gioia, perché Pablo amava la vita, il mare, la bellezza, il cibo. Non dimenticherò mai le nostre lunghe serate tra mille chiacchiere e mille sigarette».
Le opere che Picasso regalava alla famiglia Dominguin non erano legate ad occasioni particolari: «Erano le sue dimostrazioni di affetto, erano slanci del momento. Come quando fece per me il disegno dell´omino con i baffi. "Luis Miguel è spesso in giro, non voglio che tu ti senta sola. Tieni questo omino sul cuscino e sarà lui a tenerti compagnia, vedrai"».
Miguel e Lucia Dominguin, i figli più grandi, «hanno vissuto a lungo con Pablo, una volta, quando accompagnai mio marito in un giro in Sudamerica, ce li lasciammo per tre mesi. La prima volta che Miguel entrò nello studio di Picasso rimase incantato dalla confusione di tele, di sculture incompiute, di oggetti, di pennelli di ogni tipo, era affascinato dai colori. «Ma questo è un paradiso!», disse. «Forse per te, per me è più l´inferno», rispose lui. Gli piaceva discutere con Miguel perché anche quando lo provocava lui rispondeva a tono. Una volta Dominguin chiamò Miguel dopo una corrida, gli disse che aveva tagliato quattro orecchie al toro. Quando glielo raccontò tutto eccitato, Picasso lo prese in giro, gli disse che non esistevano tori con quattro orecchie. "E allora tu perché fai le donne con quattro occhi"», replicò il bambino. Nacque così il disegno di un toro con quattro orecchie».
La Bosè ricorda divertita anche l´"incidente" con la piccola Lucia. «Lei voleva tanto una bambola che andava molto di moda tra le bambine nella Spagna di quegli anni. Pablo le face un disegno alla sua maniera e Lucia scoppiò a piangere, la trovava bruttissima e gliela tirò in faccia. Lui non si arrabbiò. "I bambini dicono sempre la verità", fu la sua reazione».
Tra gli scherzi di Picasso «c´è quello delle uova di rondine. Una volta a pranzo mi offrì un piccolo uovo, disse che era una specialità arrivata dalla Cina. Lo mangiai, non aveva nessun sapore. "Ne vuoi un altro?". Mangiai anche il secondo, anch´esso senza sapore. Lui scoppiò a ridere. "Sono uova di rondine, hanno trecento anni, per forza non sanno di niente. Stasera proviamo la zuppa che si fa con il nido", disse ridendo. Poi però per tutto il giorno si preoccupò di come stavo, temeva che mi avessero fatto male».
Il primo incontro della Bosè con Picasso avvenne a Bordeaux. «Dominguin andava spesso a toreare in Francia e Pablo una volta gli chiese di portarmi con lui, voleva conoscermi. Mi strinse la mano. "Ma noi ci siamo già incontrati. A casa di Visconti, tanti anni fa, avevi un bellissimo tailleur nero". E mi ricordò di colpo una serata da Luchino, in cui c´erano Renato Guttuso, Antonello Trombadori e tanto partito comunista italiano. L´avevo completamente dimenticata, ma avevo diciannove anni, era entrata da poco in quel mondo, chissà cosa avevo nella mente. Certo, il periodo romano fu meraviglioso, c´erano amici fantastici, c´era una solidarietà e un entusiasmo tra la gente del cinema e della cultura che quelli di oggi se la sognano».
Un altro primo incontro è quello con Dominguin. «Fu all´ambasciata di Cuba, una festa per il film La morte di un ciclista. Il torero era amico del produttore che me lo presentò. Al primo impatto lo trovai antipatico, mi sembrava un po´ troppo fanatico. Poi è scattato qualcosa, non il grande amore, ma una grande passione». Una passione che ha cambiato la sua vita: per la durata del matrimonio - dal 1955 al 1967 - la Bosé ha lasciato il cinema, che pure le aveva offerto occasioni, incontri, riconoscimenti prestigiosi e l´affetto di tanti compagni di lavoro. «Non ci puoi tradire con un torero!», le dicevano Mastroianni e Interlenghi che «quando giravamo Parigi è sempre Parigi rientravano in albergo prima di me e li trovavo nella mia camera, tutti e due dentro il letto. Quanto ridevamo! Ci volevamo bene, ma li cacciavo via, ero incorruttibile». Se Visconti l´aveva notata, ancora Lucia Borloni, commessa in una pasticceria milanese, dopo l´elezione a miss Italia ‘47, l´ingresso nel cinema bello fu grazie ad autori come Giuseppe De Santis (Non c´è pace tra gli ulivi) e Antonioni (Cronaca di un amore).
«Non ho mai avuto rimpianti. Volevo i figli, volevo una famiglia e l´ho avuta. Poi non ha funzionato, ho ripreso a lavorare e la vita mi ha regalato altri incontri, amanti e la fortuna di un grande amore. Dopo il divorzio, l´amicizia con Picasso è rimasta viva, ma non ci sono più state le vacanze insieme, le serate infinite. Mi è mancata la sua gioia di vivere, mi è rimasta la ricchezza della memoria». Ha ancora i capelli blu? «Sì. Ero diventata bionda, tutti dicevano che stavo male e sono tornata blu. Mi dà energia, blu è mare ed è cielo. E c´era tanto blu anche in Picasso».