Politica e religione. Il Pd, la Chiesa e la persona
di Livia Turco
Conviene ritornare sul tema del rapporto tra il sentimento religioso e la politica. Vorrei farlo a partire da una considerazione, svolta da Massimo D’Alema al seminario di ItalianiEuropei, secondo cui la destra avrebbe vinto perché la migliore interprete di quel che si muove nel fondo della società occidentale.
E perché capace di offrire una risposta che si basa sull’alleanza tra potere e religione. Questa affermazione, se collocata nel contesto della riflessione svolta, propone secondo me un terreno di discussione che va al di là del rapporto tra le gerarchie ecclesiastiche e la politica.
Propone una riflessione che riguarda il rapporto tra il sentimento religioso e il sentimento di solidarietà sociale, di spaesamento culturale e di paura rispetto al rischio di perdita dell’identità e del ruolo della nazione che investe l’Europa rispetto ai processi di globalizzazione. Di fronte a ciò il cattolicesimo per molti cittadini è vissuto come una risposta di ordine, di identità, di senso. Con la sua proposta di centralità della famiglia, di dignità della persona, di morale sessuale, di
dialogo tra interessi sociali diversi e di solidarietà.
Non è un fenomeno solo italiano. La religione torna alla ribalta della sfera pubblica internazionale anche per l’esigenza che c’è di valori sostantivi, di risorse simboliche, di istanze positive capaci di fondare il senso della presenza individuale e collettiva. Si potrebbe obiettare che non c’è nulla di nuovo in questa constatazione, dato che storicamente il cattolicesimo costituisce un ingrediente della nostra identità nazionale. Non è così. Non solo perché i processi di modernizzazione e secolarizzazione che hanno riguardato anche il nostro Paese avrebbero potuto portare ad una marginalizzazione e ad una perdita di influenza della Pastorale cattolica. E in effetti in taluni punti della morale spirituale il messaggio della gerarchie ecclesiastiche non ha un riscontro maggioritario nel Paese, come nel caso della legge 194. La novità risiede nella capacità della Chiesa di proporsi come portatrice di un ordine sociale e di un’identità nazionale. Una proposta non calata dall’alto o affidata solo alle prese di posizione o interferenze della gerarchia ma costruita attraverso un rapporto capillare nella società italiana e nella vita quotidiana delle persone. Una Chiesa popolare, tanto più attraverso il pluralismo del suo associazionismo, che tante volte riempie i vuoti delle istituzioni e della politica. Offre aiuto, presenza, conforto e senso. Questo riproporsi del cattolicesimo come religione civile nazionale è frutto di un lungo cammino che iniziò con il pontificato di Wojtyla e con la stagione del Cardinale Ruini che partì dall’intento di saldare i valori cattolici con l’identità nazionale. Una religione che incida nella vita nazionale, sintetizzata nell’affermazione di Giovanni Paolo II «I cattolici non devono essere solo il lievito della società ma impegnarsi direttamente nella testimonianza per il bene comune». Ma anche una religione che accetta la sfida della modernità e che l’affronta sul suo stesso terreno, quello della visione dell’uomo e della sua collocazione nel Mondo. È quella che viene chiamata la svolta antropologica. La Chiesa vede delinearsi un uomo nuovo, dotato di conoscenze tecniche senza precedenti, svincolato da qualsiasi autorità morale, portatore di un’etica relativista, edonista ed utilitaristica. Accompagnare quest’uomo moderno, proporgli un’autorità morale ed un ordine sociale dotato di senso è ciò che la Chiesa si propone. Con la convinzione che nel mondo cattolico vi sia un patrimonio di valori, di pensiero, di modelli di comportamento capace di rappresentare delle risorse irrinunciabili se si vuole tenere insieme il Paese e arricchire la convivenza sociale.
Il fatto nuovo di questi ultimi anni risiede nella diffusione di questa convinzione nel mondo laico e in quote crescenti di opinione pubblica, indipendentemente dal grado di adesione al cattolicesimo o a un altro credo religioso. È questo mutamento del cattolicesimo, che a sinistra abbiamo poco capito limitandoci ad una critica, talvolta difensiva, delle interferenze della Chiesa. Per esempio abbiamo poco discusso del documento preparatorio del centenario delle Settimane Sociali che ha il significativo titolo «Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano». Un tentativo efficace di proporre la Pastorale cattolica come ingrediente fondamentale per costruire una democrazia matura, da cui scaturisce una nuova e più impegnativa sfida per la politica e le istituzioni: la promozione del bene comune sollecita l’assunzione piena dell’etica della responsabilità dei diritti e dei doveri, valorizzando la dimensione relazione e della persona.
Ma c’è anche un rischio. In che misura la dimensione pubblica della religione e la sua ambizione a rispondere alla crisi dell’uomo moderno, non si trasformano, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, in tentazione di autosufficienza e di chiusura al dialogo? Di una supplenza all’intervento pubblico che, se risponde a problemi concreti, può configurasi anche come occupazione di spazi e di potere? Se è vero che il 14 aprile non c’è stato uno spostamento del voto cattolico a favore del centro destra, tuttavia questo proporsi della Chiesa e della Pastorale cattolica, come riserva etica del Paese e fattore di guida e rassicurazione, si è più facilmente incontrato con il posizionamento culturale del centro destra. Quest’ultimo ha raccolto, seppure in modo frammentario e incoerente, i temi etici e soprattutto ha assunto l’istanza secondo la quale la cultura giudaico-cristiana è fondamento di un rilancio dell’Europa nel Mondo. L’identificazione tra radice giudaico-cristiana dell’Europa e rilancio dell’Occidente per riaffermare il primato dei valori dell’Occidente sul Mondo. Questa operazione è molto chiara nel libro di Tremonti «La paura e la speranza».
Non credo che il pensiero cattolico sia compatto nell’equazione «radici giudaico-cristiane, primato dell’Occidente, autosufficienza dei valori dell’Occidente». Anche nella forte dimensione universalistica della Chiesa. Ma quella saldatura è elaborata da un centro destra che vuole dotarsi di una coerente cultura politica.
C’è un altro aspetto su cui porre l’attenzione. La perdita di autorevolezza della politica e la pratica, in senso riduttivo, della laicità, là dove essa ha rinunciato troppo spesso a proporsi come spazio di dialogo e reciproco riconoscimento per la costruzione di nuove sintesi. In questo contesto il rapporto tra gerarchie cattoliche e politica ha assunto tante volte la forma dello scambio tra interessi cattolici e potere politico. Ed è evidente la simpatia con cui le gerarchie ecclesiastiche e il Vaticano guardano alla nuova stagione del governo Berlusconi. La questione che sta di fronte al Pd è duplice. Promuovere una qualità nuova della politica che sia capace di essere utile ma anche amorevole e rassicurante.
Attraverso la relazione con le persone. Per questo è importante non solo il radicamento nel territorio ma la costruzione di una forte relazione con tutti i mondi vitali e associativi che operano nella società. L’altra è la qualità del nostro progetto che deve essere di governo della società e capace di elaborare un nuovo umanesimo. Che assuma la persona umana quale fine e mezzo dello sviluppo economico e sociale.
Un nuovo umanesimo che ritrovi linfa dall’universalismo dei valori europei e rilanci la funzione dell’Europa nel Mondo dimostrando che l’apertura può comportare nuove opportunità e anche nuove sicurezze.
Un nuovo umanesimo radicato nel rispetto e nella fiducia della persona umana e nella consapevolezza che attraverso l’esercizio della responsabilità si possa coniugare sviluppo scientifico e tecnologico e cultura del limite. Questo nuovo umanesimo non potrà che avvalersi anche del contributo delle religioni, in particolare del messaggio cristiano che è di un umanesimo radicale.
l’Unità 3.6.08
L'eia eia del tassista
di Bruno Ugolini
qui
Corriere della Sera 3.6.08
Un profilo estero che il governo fatica a far capire
di Massimo Franco
Diffidenza dietro le critiche Onu e Ue. E anche il Vaticano scende in campo
Il sospetto della Lega, per la quale l'Italia è trattata come uno Stato di «serie B» è legittimo. Le critiche prima dell'Ue, poi dell'Onu sulle misure che il governo sta prendendo contro l'immigrazione clandestina, sono indizi pesanti. Una parte del centrodestra tende a considerarle prove di una congiura ordita con il contributo dell'opposizione. Ma l'ipotesi non spiega abbastanza quanto sta accadendo. Né migliora un profilo internazionale del Paese, messo a rischio dai problemi che deve fronteggiare; ed almeno altrettanto dal modo in cui alcuni settori del Pdl presentano le soluzioni. Ieri, oltre tutto, anche il Vaticano ha ufficializzato le perplessità. Il segretario del «ministero dell'immigrazione» della Santa Sede, monsignor Agostino Marchetto, ha detto no alla prigione per gli immigrati che non vuole nemmeno chiamare clandestini, ma «irregolari»: una presa di posizione che come minimo indebolisce lo schema del complotto.
È più verosimile che stia emergendo tutta la difficoltà di far capire all'estero quanto è successo con le elezioni di aprile. Lungi dall'essere vista come un modello di democrazia semplificata, l'Italia oggi tende ad essere considerata «esemplare» in termini deteriori. L'alto commissario dell'Onu per i diritti umani, Louise Arbour, ieri a Ginevra ha detto proprio così. Alludendo agli «atteggiamenti xenofobi e intolleranti contro l'immigrazione irregolare e minoranze indesiderate», ha definito i provvedimenti presi di recente da palazzo Chigi come «esempi». I rappresentanti del nostro Paese hanno ricordato l'esistenza di quel reato anche altrove, in Europa. La Lega ha sottolineato il silenzio dell'Onu in altre circostanze. E la Farnesina ha definito «prematuro » il giudizio delle Nazioni Unite. Ma non è detto che sia sufficiente a fermare le polemiche.
Per ora prevale l'immagine di un'Italia bacchettata e messa in mora; osservata come focolaio di una deriva che potrebbe contagiare il resto del Vecchio Continente. Così, quando il ministro Roberto Calderoli chiede perché l'Onu critichi «solo noi», offre un elemento di riflessione alla stessa maggioranza. Porta a chiedersi se la polemica con le istituzioni internazionali e la difesa a oltranza del carcere per i clandestini, capeggiata da Lega e An, aiutino o affossino le misure. E pensare che al vertice della Fao che si inizia oggi a Roma il ministro degli Esteri, Franco Frattini, discuterà con francesi e spagnoli un «patto europeo» sull'immigrazione; e si prevede una sintonia fra le tre nazioni europee.
Forse, i guai nascono dal sovraccarico di emotività col quale la legge sulla sicurezza viene presentata. Si avverte un eccesso di voglia di resa dei conti che probabilmente risponde al mandato elettorale. Ma si scontra con la diffidenza, prima che con la legislazione europea. Preoccupa i custodi della cultura cattolica. E semina perplessità sulla sua efficacia pratica. «In Italia ci sono 700 mila clandestini », fa notare Rocco Buttiglione dell'Udc. «Vogliamo fare 700 mila processi e ingolfare la magistratura?». Per questo, l'opposizione chiede al governo di «ascoltare l'Onu ed il Vaticano». Difficile farlo, tuttavia, senza essere tacciati di marcia indietro, e senza deludere chi chiede ordine.
Si tratta di provvedimenti sui quali qualche contrasto probabilmente esiste nello stesso Pdl. Ma il centrodestra non si può dividere su uno dei temi-simbolo che l'hanno portato alla vittoria ed al potere. La legge «è davanti al Parlamento» si è limitato a commentare il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, in risposta alle critiche di Onu e Vaticano: come dire che saranno le Camere a decidere la forma che dovrà prendere il provvedimento. Dietro la cautela si avverte la preoccupazione per alcune sbavature che in prospettiva possono incrinare la luna di miele fra il centrodestra ed un pezzo del Paese. Ma soprattutto, rischiano di aumentare l'incomprensione fra la comunità internazionale e l'Italia; e di rendere tutto più difficile.
Corriere della Sera 3.6.08
Da sinistra. L'esponente del Prc: se passa lo sbarramento del 5% alle Europee mi incateno nuda a Montecitorio
Gagliardi: la nostra rinuncia alla piazza? E' un periodo di riflessione
di Roberto Zuccolini
La cosa più importante da capire è la terribile batosta elettorale che abbiamo subito
Rifondazione comunista in passato era una forza minore, ma mai minoritaria
ROMA — «Insomma, la gente non è mai contenta. Prima lanciano l'allarme sostenendo che, usciti dal Parlamento, avremmo invaso le piazze e poi si preoccupano se non andiamo alle manifestazioni». Sì, perché al corteo «no global-no discarica» di Chiaiano della sinistra radicale non si è vista l'ombra, fatta eccezione di Marco Rizzo (Pdci) e di Giovanni Russo Spena (Prc). E così Rina Gagliardi, militante storica di Rifondazione, non ci sta: «State tranquilli, in futuro in piazza ci andremo. Ma ora...».
Fuori dal Parlamento e dalle piazze?
«Beh, diciamo che ora non siamo tanto presenti perché si è aperto un periodo di riflessione.
C'è il congresso alle porte e tutti siano concentrati su altre cose. Però, attenzione: la riflessione non deve comunque inibire l'iniziativa o non si va da nessuna parte».
E si rischia di perdere il rapporto con la gente: a Chiaiano c'erano i no global ma non c'eravate voi.
«Sì, è vero: se si resta troppo tempo fermi si perde l'aggancio con la realtà».
Quindi manifestare contro la discarica o meglio disertare, magari per paura di essere contestati?
«Io ci sarei andata, ma solo se fossi stata di quella zona. Russo Spena che è di Acerra».
Perché solo in quel caso?
«Perché la rivolta dei rifiuti è una cosa complessa. C'è un elemento decisivo che noi della sinistra dobbiamo sostenere. Parlo del protagonismo della gente, di un'emergenza che non può essere gestita contro la popolazione. Però è anche vero che quella rivolta non risponde agli schemi classici delle nostre proteste: lì sono le comunità ad essere l'elemento chiave della contestazione, aggregazioni che comprendono cittadini di destra e di sinistra. E noi, a sinistra, abbiamo sempre giudicato la "voglia di comunità" come un fatto negativo. Ora dico, invece: riflettiamo su ciò che sta avvenendo».
Rifondazione sembra più presa dal duello Ferrero-Vendola.
«Al di là delle due diverse linee, la cosa più importante ora è capire le cause dalla terribile batosta elettorale che abbiamo subìto. Rifondazione in passato era una forza minore, ma mai minoritaria. Ora si è rotto questo meccanismo ed è in gioco l'esistenza stessa della sinistra politica. Certo, è un problema generale, vissuto a livello europeo, ma ciò dovrebbe spingerci ancora di più a reagire».
Anche perché manca un anno appena alle europee.
«E già. A proposito, se passa lo sbarramento del 5 per cento sono disposta ad incatenarmi nuda davanti a Montecitorio».
Corriere della Sera 3.6.08
L'Italia vista e giudicata dalla stampa straniera
risponde Sergio Romano
Credo che il problema della considerazione dell'Italia all'estero sia più complicato di un semplice bisticcio in famiglia tra Italia e Spagna.
Il fatto reale a cui nessuno accenna è che tutta l'opinione pubblica e i media europei della parte più avanzata del continente (Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Svizzera) dopo un primo momento di incredulità dopo il risultato delle elezioni di aprile, sono spaventati, e con le orecchie tese su quanto succede in Italia. E questo a prescindere dall'orientamento politico: vedi giornali non proprio comunisti come la Neue Zürcher Zeitung, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, Le Figaro, ecc. Tutti questi Paesi non possono comprendere come sia possibile rieleggere per la terza volta un premier tanto chiacchierato per i suoi trascorsi con la giustizia e il cui conflitto d'interessi con i media lo renderebbe non solo perdente ma neppure candidabile. Noi italiani conosciamo poco le lingue straniere e lo zapping televisivo serale non contempla Ard, Zdf, France1, Bbc ecc., altrimenti non ci si stupirebbe come ogni cosa che questo governo faccia o proponga sia passato sotto la lente d'ingrandimento e, quasi sempre criticato. Credo che la paura che anche questa volta l'Italia possa «esportare» qualcosa che l'Europa assolutamente non vuole induca i nostri cugini europei a vigilare più attentamente di qualche decennio fa.
Luigi Terracciano
Caro Terracciano,
Per molto tempo i collaboratori di Silvio Berlusconi hanno sostenuto che i giudizi dei giornali stranieri sull'Italia rispecchiavano soprattutto le prevenzioni e le frequentazioni sociali dei loro corrispondenti, molto disposti ad assorbire le opinioni della sinistra e poco inclini ad ascoltare quelle della destra. Avevano ragione soltanto in piccola parte. I motivi della diffidenza sono altri e più sostanziali. La prima è certamente l'ambiguità di un presidente del Consiglio che non ha mai smesso di essere contemporaneamente politico e imprenditore. Era impossibile ignorare che la legge sul sistema delle telecomunicazioni, approvata all'epoca del governo Berlusconi, tiene conto degli interessi delle sue aziende. Ed era impossibile nascondere ai propri lettori che buona parte delle leggi approvate dal Parlamento in materia di reati e procedure era destinata a risolvere o mitigare i problemi giudiziari del presidente del Consiglio. Non è normale che il leader di un partito porti con sé in Parlamento i suoi avvocati. E non è normale che debba impiegare una parte considerevole del suo tempo a difendersi da una molteplicità di azioni giudiziarie. I corrispondenti stranieri avrebbero dovuto capire che nella situazione italiana vi erano altre anomalie, fra cui le ambizioni e gli sconfinamenti di una parte della magistratura inquirente. Ma il «caso Berlusconi» faceva notizia più di un sofisticato approfondimento sulle particolari vicende storiche della penisola dopo la fine della guerra fredda.
La seconda ragione della diffidenza della stampa straniera è la Lega. Chi ha seguito la parabola di Umberto Bossi e del suo movimento negli ultimi vent'anni sa che la Lega Nord parla il linguaggio dei bar, degli stadi, delle chiacchiere di paese, ma può dare prova, soprattutto nei Comuni, di un certo solido buon senso. Ogniqualvolta ho cercato di spiegarlo a un interlocutore straniero, tuttavia mi sono accorto di essere guardato con una certa paziente incredulità. Per uno straniero che prende le parole sul serio è difficile intravedere il «buon senso» in discorsi in cui si parla di fucili, disobbedienza fiscale, caccia all'immigrato e maiali che pascolano sul sito di una futura moschea.
La terza ragione è la presenza nella coalizione berlusconiana di un partito «postfascista ». Credo che qualche corrispondente straniero abbia obbedito a una sorta di riflesso automatico e non abbia capito l'utilità per il Paese dell'operazione politica di Gianfranco Fini. Ma esisteva anche in questo caso un'anomalia italiana a cui la stampa straniera non poteva essere indifferente.
Vi è un punto, tuttavia, su cui i critici dell'Italia, come i vecchi generali, fanno la guerra del passato anziché quella del futuro. Non sarà l'Italia, questa volta, a esportare, il morbo di una nuova patologia politica. Siamo una democrazia imperfetta, esposta alle lusinghe del populismo di destra e di sinistra. Ma gli anticorpi assorbiti nel corso del Novecento ci proteggono dalle ricadute.
Corriere della Sera 3.6.08
Scenari Un libro dello scienziato, edito da Mondadori, riapre il dibattito sugli obiettivi della crescente industrializzazione: profitto o miglioramento della vita
L'illusione del capitalismo eterno
Effetto serra e benessere: Severino replica all'«ambientalista scettico» Lomborg
di Emanuele Severino
Dopo la fine dell'Unione Sovietica è divenuta dominante — sebbene da qualche tempo discussa — la convinzione che il capitalismo sia la forma sociale ormai incontrastabile. Molte le conferme. Ad esempio il fatto che l'unica «superpotenza » mondiale rimasta in campo, gli Usa, sia insieme il luogo per eccellenza dello sviluppo capitalistico. Oppure la paradossale adozione del capitalismo da parte della stessa Cina «comunista». O, anche, la consapevolezza che il supporto teorico del socialismo reale, cioè il marxismo, appartenga ormai al passato dell'indagine filosofica ed economica. È una conferma di questo modo di pensare la stessa mobilitazione contro il capitalismo da parte delle forze che ne sentono l'incombere, tra le quali l'Islam, la Chiesa cattolica, i movimenti ecologici e «di sinistra» che vedono nel capitalismo il principale responsabile della devastazione della Terra.
Che ciò sia scientificamente provato è però tutt'altro che pacifico. Anzi, quanto più i mass media, i politici, gli ambientalisti vanno da qualche tempo additando all'opinione pubblica il pericolo di una catastrofe imminente, provocata dalla crescente industrializzazione, tanto più la scienza ufficiale tende a scagionare quest'ultima da tale responsabilità. Esempio notevole di questa tendenza il libro dello scienziato danese Bjorn Lomborg, che Mondadori ha appena pubblicato con il titolo Stiamo freschi. Perché non dobbiamo preoccuparci troppo del riscaldamento globale. Chiaro, compatto, impressionante per la mole e la qualità delle informazioni. Se non erro, l'autore non usa mai la parola «capitalismo», ma si preoccupa di dissipare il sospetto che egli scriva per conto di qualche multinazionale del petrolio. La sua tesi di fondo è, cioè, che l'accusa al capitalismo di devastare la Terra e il conseguente proposito di detronizzarlo non abbiano alcun fondamento scientifico.
Da più di trent'anni i miei scritti sviluppano invece la tesi che anche il capitalismo è destinato al tramonto, come lo era il socialismo reale e come lo sono tutte le altre grandi forze della tradizione occidentale (e orientale). In Declino del capitalismo (Rizzoli, 1993) rilevo che anche supponendo che il carattere distruttivo del capitalismo non abbia alcun riscontro scientifico, anche in questo caso la convinzione dell'esistenza di questa distruttività sta però vistosamente diffondendosi (né Lomborg lo nega, anzi lo depreca vivacemente), e a tal punto da prender piede all'interno dello stesso mondo capitalistico, tanto da indurlo a cambiar strada e, alla fine, a rinunciare a se stesso. Il maggior nemico del capitalismo è il capitalismo stesso, non i suoi avversari dichiarati. Ma Lomborg ritiene, insieme a tanti altri, che la scienza possa aver partita vinta sull'«oscurantismo» (e si dà in molti modi da fare per fargliela vincere); il che implica che, contrariamente a quanto sostengo, non vi sia alcuna destinazione del capitalismo al tramonto. E allora?
Egli mostra in modo persuasivo i gravi pericoli del fatto che a livello mondiale l'unica iniziativa politica per ridurre il riscaldamento del Pianeta sia il protocollo di Kyoto (1997), che sarà probabilmente rinnovato tra pochi anni. Esso stabilisce che tra il 2008 e il 2012 i Paesi industriali riducano del 20 per cento le emissioni di anidride carbonica. Lomborg mostra dettagliatamente che, qualora sia attuata per tutto il XXI secolo, l'applicazione del protocollo avrà un costo elevatissimo e un'efficacia molto bassa, cioè una riduzione molto bassa delle morti dovute al riscaldamento globale, un pericolo peraltro certamente sempre più grave. Molto bassa, tale riduzione, in rapporto al numero delle vittime della fame, della povertà, delle malattie, del freddo: «problemi ben più urgenti», questi, che però possono essere affrontati «con una spesa più bassa e probabilità di successo molto più elevate di quelle offerte dalle severe politiche climatiche, che hanno un costo di miliardi e miliardi di dollari». Evitando questo esborso irrazionale, l'umanità può dotarsi delle tecnologie specifiche capaci di ridurre il riscaldamento del pianeta, ma non promosse dal protocollo di Kyoto. Alla base di tutto il discorso di Lomborg sta infatti la tesi che «l'obiettivo finale non è la riduzione dei gas serra o del riscaldamento globale in sé, ma il miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente» e che la condizione fondamentale per realizzare questo obiettivo è costituita dalla tecnica.
Ma, quando il discorso è impostato in questo modo, la convinzione di proporre soluzioni che, sebbene più razionali, si muovano pur sempre all'interno dell'orizzonte della produzione capitalistica è un'illusione. Lomborg la coltiva. L'«obiettivo finale» di ogni forma di capitalismo, infatti, non è «il miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente», non è il benessere dell'umanità, ma è la crescita indefinita del profitto, anche se, per ottenerla, la produzione capitalistica deve portare sul mercato merci che diano o che i consumatori ritengano che diano benessere e miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente. Ma — eccoci al punto decisivo — se si agisce affinché l'«obiettivo finale» della produzione e distribuzione capitalistica delle risorse sia il benessere dell'umanità, si agisce per far diventare il capitalismo qualcosa di diverso da ciò che esso è, ossia si agisce per distruggerlo. Si agisce così anche quando non si è consapevoli di ciò che propriamente si sta facendo, come accade ad esempio alla Chiesa cattolica quando sollecita il capitalismo ad assumere come obiettivo finale il «bene comune» della società. (Si agisce così anche quando, seguendo la Chiesa, ci si oppone, come ha fatto Giulio Tremonti anche qualche giorno fa sul Corriere, all' «idea del primato del mercato su ogni altra forma sociale»; o quando si limita questo primato auspicando, come mi sembra abbia fatto più volte Mario Monti, che l'«obiettivo» costituito dalla capacità di competere con gli altri Paesi industrializzati sia affiancato, almeno in Italia, dagli «obiettivi di solidarietà»).
Si agisce così, perché nell'agire umano un'azione o un sistema di azioni sono ciò che esse sono proprio in virtù dell'obiettivo che esse si propongono; sì che, se quest'ultimo viene cambiato — e, nella fattispecie, ci si adopera affinchè l'obiettivo del capitalismo sia il benessere dell'uomo o il «bene comune», e quindi il mercato non abbia più il «primato sulle altre forme sociali» —, tali azioni restano distrutte e ci si trova davanti ad azioni diverse, anche se vengono chiamate con i vecchi nomi e si crede che quelle di prima siano ancora in vita.
Questo discorso vale anche per Lomborg, che affida alla tecnica e alle energie alternative il compito di evitare che la produzione capitalistica, lasciata a se stessa, distrugga la Terra. Anch'egli si adopera quindi per un «capitalismo» che abbia come obiettivo finale il benessere dell'uomo e, insieme, la condizione ormai imprescindibile per la realizzazione di tale benessere, cioè lo sviluppo tecnologico. Anche qui, si assegna cioè al «capitalismo» un obiettivo diverso da quello che fa vivere il capitalismo vero e proprio: anche qui si mira, senza rendersene conto, alla distruzione del capitalismo. O anche, se — e poiché — il capitalismo dà ascolto a questo tipo di sollecitazione, è esso stesso a cambiar strada, a rinunciare a se stesso.
Anche accettando la tesi di Lomborg che la scienza ridimensiona fortemente il carattere distruttivo della produzione capitalistica, questa tesi non è dunque una smentita di quel «declino del capitalismo» che da parte mia vado sostenendo, non è una smentita della destinazione del capitalismo al tramonto. E riconoscendo che, su questa Terra, al nostro «obiettivo finale» appartiene lo sviluppo tecnologico, quindi l'eliminazione dei limiti che lo frenano, si riconosce che il tramonto del capitalismo (e di ogni altra forma della tradizione) è la stessa destinazione del mondo a un nuovo «primato »: quello della tecnica.
Corriere della Sera 3.6.08
È morto a 98 anni un intellettuale simbolo della Mitteleuropa e della lotta al totalitarismo
Fejtö, il Montanelli d'Ungheria
Scrittore e giornalista, difese la libertà nella rivolta del 1956
di Dario Fertilio
L'uomo che visse cinque volte, l'intellettuale ungherese François Fejtö, alla fine ha trovato un posto dove fermarsi. Ma non è la Francia, dove è morto e verrà sepolto a conclusione di un esilio durato più di metà della sua vita; e neppure l'Ungheria, dove era nato nel 1909, in una cittadina chiamata Nagykanizsa, il luogo in cui la sua famiglia di origine ebraica lo aveva fatto battezzare. La patria ideale in cui «il Montanelli d'Ungheria» viene accolto ora con tutti gli onori non ha confini precisi, è soltanto una Stimmung, una risonanza spirituale che si prova per certi luoghi e alcune persone, una nostalgia invincibile per il tempo perduto e irrecuperabile in cui si è nati, insomma quell'entità incerta che molti chiamano ancora Mitteleuropa.
François, o Ferenc come suonava il suo nome ungherese prima che lui si decidesse a francesizzarlo, incarnava nei complessi intrecci del suo albero genealogico, prima ancora che con la sua capacità di esprimersi contemporaneamente in cinque o sei lingue, spesso balzando dall'una all'altra per spiegarsi con maggiore efficacia, la mescolanza fra le varie dimensioni nazionali e culturali del Centro Europa. Le ramificazioni dei Fejtö, come quelle dei parenti di François sul versante materno, collegavano tra loro stuoli di fratelli e sorelle, zie, nipoti, cugini, generi e nuore, amici e generici affini, sparsi in un'area compresa tra il Friuli, la Croazia, l'Ungheria, l'Austria, la Boemia e naturalmente la Francia, prescindendo allegramente dalle frontiere ufficiali degli Stati, ma sempre attente a comprendere e rispettare le specificità nazionali.
La prima vita di François Fejtö è stata dunque vissuta in Ungheria, benché già il luogo di nascita, con quel nome impronunciabile, Nagykanizsa, sembrasse annunciare con la sua vicinanza alla Croazia il destino sovrannazionale della famiglia. In una singolare mescolanza letteraria, il ragazzo Ferenc impara allora a conoscere nella biblioteca paterna I ragazzi della via Pál e Cuore, il soldato Nemecek di Molnár e il tamburino sardo di De Amicis. Più tardi, studente e poi professore all'università di Budapest, appassionatamente antifascista e antistalinista, decide di sperimentare la sua seconda esistenza: fonda con il poeta Attila Jószef, grande maledetto dalla vita breve e intensa, una rivista destinata ad essere presto soppressa; sperimenta la prigione durante il regime parafascista di Horty; avvia una carriera di giornalista socialdemocratico che gli costa anche il carcere.
Quando si presenta l'occasione, preferisce trasferirsi come corrispondente a Parigi, e qui comincia a prender corpo il terzo Fejtö, più vicino al ritratto che poi si sarebbe diffuso di lui in Occidente: infiammabile e ribelle, ammiratore del Sartre intellettuale, ma poi avversario di quello filocomunista, in fuga dalle truppe di Hitler quando esse sfondano le linee francesi avvicinandosi alla capitale. L'entrata in campo del quarto Fejtö coincide invece con il ritorno a Parigi, quando decide di scrivere in francese quella Storia delle democrazie popolari che avrebbe completato mezzo secolo più tardi, sulle ceneri del comunismo.
La storia, però, negli anni immediatamente successivi, teneva in serbo altre brutte sorprese per Fejtö: la sua Ungheria comunistizzata, poi tragicamente ribelle nel '56 (è in quei giorni terribili che si stabiliscono i primi rapporti con il grande coetaneo Montanelli, destinati a trasformarsi in amicizia e solidarietà quasi vent'anni dopo, nel '74, quando per iniziativa di Enzo Bettiza accetta di entrare nell'ufficio parigino del nascente
Giornale, diventandone immediatamente una delle bandiere). Fejtö interpreta quegli avvenimenti, come succederà più tardi per la Primavera di Praga, come l'esplosione e la distruzione di un mondo civile di fronte alla barbarie e al male impersonato diabolicamente da Stalin (giudicato il più grande criminale del Novecento, per aver portato a compimento i progetti soltanto avviati dal suo rivale Adolf Hitler). Come sarebbe stato possibile evitare una simile tragedia lo spiegherà nel '96, con l'opera destinata a diventare probabilmente la sua più famosa: Requiem per un impero defunto. Un'alleanza o federazione che avesse recuperato l'eredità dell'Austria-Ungheria, sottraendo i Paesi mitteleuropei alla cortina di ferro — è la sua tesi — sarebbe stata possibile se le potenze vincitrici della Grande Guerra, Francia in testa, non avessero congiurato in senso contrario. E su questo punto, con alcune interpretazioni originali della tragedia del principe Rodolfo d'Asburgo e di Maria Vetsera a Mayerling, avrebbe continuato a battere ancora in anni recenti attraverso la grande stampa europea, comprese le colonne del Corriere.
Resta da tratteggiare la quinta, ultima vita del grande vecchio, ancora caustica nei giudizi (celebre quello che bolla i seguaci dogmatici di Darwin e di Freud come nuovi integralisti, o la difesa appassionata di Silone da coloro che lo accusavano di essere stato doppiogiochista e legato al regime di Mussolini), ma anche rivolta in modo struggente, e senza più usare il velo dello storico, ai ricordi della sua infanzia e giovinezza. Le pagine riviste e pubblicate di recente, e dedicate alla madre perduta, alle filastrocche che lei gli raccontava per addormentarlo, ai ricordi di famiglia usciti da una vecchia scatola e ancora capaci di evocare un mondo scomparso, segnano come un ricongiungimento simbolico con le sue origini. Più ancora della sua gloriosa biblioteca raccolta per iniziativa della famiglia Károlyi nel castello restaurato di Fehérvárcsurgó, a ottanta chilometri da Budapest, è a quel passato che negli ultimi tempi significativamente ha voluto ritornare. E forse in particolare a quei versi infantili in tedesco che la madre continuava a ripetergli per farlo addormentare, liberandolo dagli incubi: « Müde bin Ich/ gehe zur Ruh/ schließe meine Augen zu » («Sono stanco/ vado a riposare/ e chiudere gli occhi»).
Agi 2.6.08
Sinistra: Fausto Bertinotti e la sfida. Il socialismo del 21° secolo
(AGI) - Roma, 2 giu. - Un anno fa, dall'Auditorium di Roma dove presentava il primo numero di 'Alternative per il Socialismo', lancio' la sfida politica e culturale del 'Socialismo del 21° secolo' davanti al rischio, per la sinistra, di essere spazzata via dalla scena: il 'tornado' del 13 e 14 aprile ha puntualmente confermato quel timore. Ora, il 12 giugno, torna a dire la sua sulla debacle elettorale, sul Congresso del Prc, sul futuro. Cosi' l'ex-Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, rompe il silenzio e, dopo due mesi di analisi e riflessioni sul voto, ritorna in pubblico a dire la sua e confrontarsi con altri pezzi della sinistra: Sd, la sinistra del Pd, i Verdi. L'appuntamento e' al Centro Congressi di Via dei Frentani a Roma. "Finalmente si comincia a discutere, capire perche' abbiamo perso, perche' la sinistra e' stata schiantata e finalmente si riporta la Politica al suo giusto posto: non la struttura e la strumentazione dei gruppi dirigenti ma quali le fondamenta sia politiche che culturali per una forza che sia di alternativa", spiega l'ex-senatore del Prc, Salvatore Bonadonna per il quale "la sfida lanciata un anno fa, una mossa del cavallo, continua: o la sinistra fa, costruisce una massa critica o muore nel ritagliarsi ruoli minimali". Insomma, non demorde Bertinotti: difronte ad una 'disfatta' mai accaduta nella lunga storia centenaria della sinistra, non esser rappresentata in Parlamento, rilancia e lo fa proseguendo soprattutto sul terreno culturale. "Lo aveva detto: dedichero' il mio tempo a ricostruire l'egemonia culturale o meglio a fare cultura propria. E' stato di parola", aggiunge l'ex-deputato del Prc, Maurizio Zipponi. "Si e' ripreso dal botto - precisa - che e' stato fragoroso ed enorme: lo ha fatto con grande serenita', con una dimensione di pacatezza e riflessione attenta, molto importante per bypassare un momento per nulla facile". Una giornata, il 12 giugno, dedicata all'analisi del voto e alle prospettive future, poi il confronto con altri pezzi della sinistra ed infine un confronto interno seminariale. L'analisi e la riflessione sul voto la fara' proprio Bertinotti sulla scorta del numero di meta' luglio di 'Alternative per il Socialismo' che annovera olòtre l'editorale di Bertinotti, interventi di Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Marco Revelli, Alfonso Gianni, Lea Melandri, Ritanna Armeni, Francesco Garibaldo. "Ci ha provato in tutti i modi ad indicare, a suggerire un percorso nuovo per la sinistra - conclude Bonadonna - purtroppo una grande operazione politica e culturale si e' ridotta ad un cartello elettorale, incapace di rappresentare una prospettiva politica seria e credibile: si riparte, si ricomincia da un anno fa, dall'Auditorium". In altre parole, Bertinotti si e' trovato a 'fare' campagna elettorale da 'solo', neanche il suo nome e cognome sul simbolo 'Sinistra Arcobaleno', senza cioe' uno schieramento alle spalle: questo si e' ben visto nei giorni di campagna elettorale a Roma chiusa, a Piazza Navona, con un duetto con il comico Vergassola. "Senza di lui, la Sinistra avrebbe preso l'1%", ha detto poi Gabriele La Porta. (AGI) Pat
Asca 30.5.08
Sinistra: Bertinotti rilancia la sua rivista con un seminario sul voto d'aprile
Roma, 30 mag - Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera ed ex segretario di Rifondazione, rompe il suo riserbo dopo l'esito delle elezioni del 13 e 14 aprile. "Alternative per il socialismo", la rivista bimestrale di cui è direttore, ha infatti indetto per il prossimo 12 giugno, presso il Centro congressi di via Frentani a Roma, una giornata di studio in occasione del numero in uscita nel mese di luglio. Sarà lo stesso Bertinotti a introdurre la discussione con una comunicazione su "Le ragioni di una sconfitta", leit-motiv su cui ruoterà l'intero numero della rivista. Ma non si tratterà di una iniziativa alla quale parteciperanno solo i redattori e i collaboratori della rivista. È infatti previsto il coinvolgimento nella discussione di molti esponenti della sinistra e di alcuni dirigenti del Pd. L'obiettivo dell'iniziativa, che non ha però il proposito di indicare possibili terreni di lavoro politico immediato, è piuttosto quello di avviare una ricerca in profondità sulle cause della sconfitta dell'ex Sinistra-Arcobaleno (in questa legislatura non ha rappresentanza parlamentare) e dell'ex centrosinistra che si raccoglieva intorno all'Unione appoggiando il governo Prodi. Da qui l'interesse per ciò che dirà Bertinotti, che dopo aver guidato la campagna elettorale di Sinistra-Arcobaleno non ha partecipato ad alcuna iniziativa pubblica. Con la giornata di studio del 12 giugno, "Alternative per il socialismo" ha infatti intenzione di inaugurare una seconda fase della sua attività. La rivista, nata due anni fa, ha evitato fin qui di farsi promotrice di iniziative culturali e politiche che accompagnassero l'uscita dei propri numeri. Dopo le elezioni dello scorso aprile, il bimestrale ha deciso di accentuare il suo ruolo di luogo di discussione e di ricerca potendo contare sull'impegno a tempo pieno di Bertinotti. Sul numero della rivista in uscita a luglio, oltre a un lungo editoriale dello stesso Bertinotti, sono previsti interventi di Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Marco Revelli, Franco Russo, Francesco Garibaldo, Ritanna Armeni, Alfonso Gianni e Lea Meandri.
(l'Auditorium del Centro congressi di via Frentani può ospitare oltre 400 persone)
il Riformista 3.6.08
Conversazione tra Filippo La Porta e il sociologo americano sul movimento e la nostra civiltà
Il vero '68 fu rivolta e riforme, non rivoluzione
Todd Gitlin contro gli eccessi. Il concetto di patria può essere «progressista», senza degenerare nel nazionalismo. Degli anni 60, di cui fu protagonista, critica le derive egoistiche e anti-autoritarie. Oggi, l'Occidente vive una naturale fase auto-contraddittoria
Pubblichiamo la trascrizione di un incontro avvenuto tra Gitlin e il critico letterario italiano Filippo La Porta all'ambasciata americana a Roma.
Filippo La Porta - «Nel 2003 hai scritto Letters to a young activist , in cui spieghi a un giovane militante di oggi in che modo la "rivolta" deve evitare di diventare "rivoluzione" (ed essere dunque violenta, dispotica, ideologica, etc.). Forse il Sessantotto migliore - più utopico, libertario, etc. - è stato quello vicino alla rivolta e non alla rivoluzione. Perché un giovane dovrebbe rivoltarsi contro l'ordine esistente?».
Todd Gitlin - «Penso che le ragioni fondamentali siano molto diverse rispetto a quelle del 1968. Direi che nel 1968 c'è stato un misto di rivolta culturale e protesta politica, di riforma e, in qualche caso, di rivoluzione. Ma la rivoluzione è stata uno sbaglio, contrariamente alla rivolta ed alla riforma. Oggi, credo che il motivo principale alla base di una rivolta sia politico. Il principio del libero arbitrio del 1960, l'anti-autoritarismo, ha avuto successo. Il risultato è stato che nella nostra cultura non c'è nulla contro cui rivoltarsi: puoi fare ciò che ti pare. Vuoi registrare pornografia? Vai su Internet e lo fai. Ma personalmente, ritengo che oggi la cosa importante della rivolta, che non è stata perpetrata con efficacia, consista nell'opporsi all'usurpazione del potere da parte delle autorità che non rispettano la libertà americana, che non rispettano la nostra tradizione di solidarietà ed uguaglianza, e che hanno tanto danneggiato il nome dell'America nel mondo. Pertanto, l'insistenza nell'entrare in guerra quando sentiamo di doverlo fare, e la rapidità con cui lo facciamo, come pure quella sorta di "resistenza" al resto del mondo, sono secondo me atteggiamenti che devono essere eliminati. Tutto questo costituisce il punto essenziale su cui concentrare le energie per una giusta rivolta, anche se vediamo la cosa in modo frammentario, non nella sua interezza (e anche questo non è necessariamente un male). Quando la rivolta è eccessivamente legata a motivazioni troppo egoistiche e troppo automatiche, ha la tendenza a trasformarsi in una specie di nichilismo auto-distruttivo ed auto-annichilente. Ed è pericoloso».
Occidente. Filippo La Porta - «Susan Sontag ha detto che le torture di Abu Ghraib sono la sintesi dell'Occidente: pornografia, violenza, voyeurismo. Ma l'Occidente è anche altro. Forse esiste un Occidente dei valori diverso da quello reale (così come si credeva all'esistenza di un socialismo dei valori e di un socialismo uno reale)? Ma non sarà, come per il socialismo, che esiste solo l'Occidente reale?».
Todd Gitlin - «L'Occidente è uno spirito immenso, complicato e auto-contraddittorio, non è un luogo, non è un'idea, è un insieme di idee, e tra queste vi sono principi di mutualità, reciprocità, un umanesimo che dà valore all'esperienza umana, una certa tolleranza per la diversità ed una certa convinzione che il miglioramento umano, non la perfezione, ma il miglioramento, è possibile laddove le persone esercitano le loro piene capacità, e migliorano ed agiscono secondo «la parte migliore della loro natura», come disse Lincoln. Quindi, io penso che l'Occidente rappresenti quei valori. Tuttavia, al suo interno, esso racchiude anche le tenebre, le tenebre di una storia brutale, una storia di genocidio, una ripetuta storia di schiavitù, una storia di barbarie. Pertanto, è altrettanto vero affermare che l'Occidente è oggi malato, insolitamente auto-contraddittorio. Ma quale civiltà non è auto-contradditoria? Se esiste un Oriente che si contrappone all'Occidente, possiamo veramente dire che l'Oriente sia una sorta di incarnazione di decenza pura? No, niente affatto. L'Occidente ha commesso dei crimini ed è stato capace di commetterli in parte perché aveva il potere di farlo; tuttavia, io non scelgo qualcosa perché in contrasto con l'Occidente. Io faccio parte di quella storia ed ammiro i valori dell'Occidente Tuttavia non ritengo che l'Occidente abbia il monopolio delle virtù».
Patritotismo. Filippo La Porta - «Contro una tradizione di segno contrario lei difende l'amore per la patria come qualcosa di "progressivo", fatto di sacrificio e spirito critico e responsabilità. Essere patrioti in Usa significa non necessariamente appoggiare acriticamente i marines ma riconoscersi nella tradizione di Jefferson e Franklin… Come italiano vi invidio l'amore per la patria, che precede il senso dello stato, quel sentimento di profonda appartenenza. Per voi la patria non è qualcosa di etnico ma ha a che fare con un contratto, con il consenso a una idea. Crede davvero che questo vostro amore per la patria sia un collante reale in una società come la vostra così divisa in ceti e attraversata da conflitti?».
Todd Gitlin - «Ci sono molte versioni di patriottismo. Mark Twain, che è stato un grande oppositore della politica estera americana ai tempi della guerra ispano-americana, diceva più meno così: patriottismo significa amare il proprio popolo sempre, ed il proprio governo quando lo merita. C'è molto patriottismo simbolico negli Stati Uniti che io ritengo devastante… l'immagine più divertente, dico divertente ma penso anche triste e patetica, è quella dell'America che guida con le bandierine piazzate sulle automobili. Lei le avrà notate quando si trovava lì, questi piccoli oggetti metallici fabbricati in Cina, perché costano meno. D'accordo, cosa realmente significa tutto ciò? Il mio parere, ed io ho trattato questo argomento nel libro The Intellectuals and the Flag (Gli Intellettuali e la Bandiera), è che ne abbiamo veramente tanto di patriottismo simbolico perché non abbiamo abbastanza patriottismo vissuto. Quando dico patriottismo vissuto, intendo dire il coinvolgimento reale nella vita collettiva; non abbiamo il servizio di leva, spediamo in guerra i figli degli altri, non gestiamo bene il servizio pubblico, abbiamo dequalificato e destrutturato le scuole pubbliche, i trasporti e le istituzioni pubbliche non prosperano in America. Ci sono molte altre cose che l'America fa bene, alle quali, però, abbiamo rinunciato, o che abbiamo «tradito». Ecco perché per me l'attaccamento alla vita pubblica vera, significa patriottismo autentico; al suo posto, invece, noi facciamo tanti "mea culpa"… Un'altra cosa di cui discutevo nel mio saggio è che la Sinistra commette un grosso errore dicendo: va bene, d'accordo, il paese è davvero sciovinista, brutale, barbarico, criminale, eccetera, e perciò noi gli voltiamo le spalle. Uno sbaglio che alcuni di noi hanno fatto durante gli anni '60, una specie di rassegnazione…. Era come dire: abbiamo perso, dunque rinneghiamo la maggioranza della popolazione, così come essa è autorizzata a fare la stessa cosa nei nostri confronti; questa è negatività pura, ed è come una secessione! Quindi, io credo nell'attaccamento al popolo e nella possibilità di miglioramento. A proposito, Orwell fece questa distinzione tra patriottismo (positivo) e nazionalismo (negativo). Il patriottismo è qualcosa che ha a che fare con i sentimenti che provi per la gente.
Sogno americano. Filippo La Porta - «Tutti si richiamano al Sogno Americano, alla Terra Promessa dei Padri Pellegrini, sia chi difende lo status quo sia chi vi si oppone. Kennedy, Johnson e la rivolta studentesca degli anni '60, Reagan e Springsteen… Perfino Malcolm X! Oggi il Sogno Americano si traduce in molte cose. Io l'ho ritrovato nella frase che mi disse a New York un musicista nero di jazz che viveva un po' alla giornata: "I'm not poor, I'm broke". Non so se questa frase corrisponde davvero alla realtà(di fatto esiste la poverta negli Usa e riguarda soprattutto certe fasce di popolazione), ma è fondamentale che quel musicista la pensi in quel modo, quella sua autopercezione diventa un fattore attivo».
Todd Gitlin - «È un sogno, è qualcosa di vago, e ciò è parte del suo potere, la gente vi può intravedere tutti i tipi di significati. Io penso che in comune c'è l'idea che ciò che il paese deve rappresentare è la prosperità degli individui e delle famiglie. Malcom X forse non avrebbe condiviso davvero il Sogno Americano, e ne avrebbe disprezzato le molte versioni, ma in fondo il senso anche per lui era che in virtù dell'essere americano si ha il diritto ad un equo compromesso. Questo sogno appartiene legittimamente a Lyndon Johnson, Reagan e a Springsteen, il che è in un certo modo interessante, e parte di ciò che appare così strano ed interessante riguardo all'America, è che noi siamo un paese fondato su di un'idea. Non siamo una nazionalità, non è una linea di sangue, e perciò la nozione di sogno americano è abbastanza singolare. Esiste un sogno italiano? Qualcuno parla mai di sogno francese? C'è un sogno messicano? No, perchè l'America è stata fondata come incarnazione di un'idea, e parte di tutto ciò ci auto-arricchisce, ci rende arroganti, ma nello stesso tempo attraenti e dinamici. È l'insieme di tutte queste cose. Quando le persone sono intervistate e viene loro chiesto a che tipo di classe sociale appartengono, per molti anni, per molti decenni, la maggior parte degli americani ha risposto di appartenere alla classe media. E se viene loro offerta una scelta del tipo: appartenete alla classe operaia, media, medio-alta, alta, essi rispondono classe media. La maggior parte sono persone che effettivamente lavorano per vivere, e pertanto avrebbero potuto scegliere classe operaia; tuttavia, esse non si vedono in quel modo. Come se questa categoria di classe media non avesse niente al di sotto, e quasi nulla al di sopra che fosse degno di nota. Ciò è vero da decenni, ormai».
il Riformista 3.6.08
Il grande doposbornia del Maggio parigino
Predetto da Rawicz e maledetto da Aron
di Guido Vitiello
Il maggio parigino è stato uno psicodramma, una mascherata, una «caricatura della commedia rivoluzionaria». Lo scriveva Raymond Aron ne La Révolution introuvable , un libello pubblicato nel 1968 da Fayard, per lungo tempo dimenticato e "introvabile" quanto e più del suo titolo, che l'editore Rubbettino riporta in Italia. Nel grande carnevale, notava ancora Aron, ciascuno si era scelto una maschera: «Io ho recitato la parte di Tocqueville, cosa certo un po' ridicola, ma altri hanno impersonato Saint-Just, Robespierre o Lenin, il che a conti fatti era ancora più ridicolo». Piotr Rawicz, scrittore ebreo-ucraino sopravvissuto ad Auschwitz, scelse per sé una parte più impegnativa: quella del coro tragico, o meglio ancora del moralista veterotestamentario, una sorta di incrocio tra l'Ecclesiaste e Giobbe , tra il disamorato osservatore dei cicli della storia e il ribelle metafisico che mette Dio con le spalle al muro per imputargli il crimine di aver abbandonato il mondo. Solo l'Ecclesiaste , per Rawicz come per il suo amico e ammiratore Emil Cioran, offriva la chiave per decifrare gli eventi del maggio, per smascherare «il carattere ciclico di tutte queste kermesse della storia. Come il ciclo mestruale delle donne». Al punto che «Il Sessantotto visto da Qohelet» sarebbe un buon sottotitolo per Bloc-notes d'un contre-révolutionnaire , il taccuino che Rawicz compose nei giorni delle barricate e che Gallimard pubblicò nel maggio dell'anno dopo, composto di annotazioni, aforismi, dialoghetti filosofici, scorci fulminanti sul mondo letterario e accademico. È il secondo e ultimo libro di questo inafferrabile erudito e poliglotta, nato a Leopoli nel 1919, braccato dai nazisti e deportato ad Auschwitz, approdato a Parigi dopo la guerra e morto suicida nel 1982. Orientalista, studioso dell'hindi e del sanscrito, profondo conoscitore delle letterature dell'est Europa, Rawicz fu uno sperimentatore del linguaggio non per vezzo ma per necessità, per foggiare una nuova lingua in grado di nominare l'«altro mondo» di Auschwitz. L'altro suo libro, il romanzo Il sangue del cielo (pubblicato in Italia da Giuntina a cura di Guia Risari), è uno dei misconosciuti capolavori della letteratura concentrazionaria.
Anche per il «contro-rivoluzionario» Rawicz, come per Aron, il Sessantotto è una messinscena, tanto più che l'intera storia umana - vanità delle vanità - è una mauvaise mascarade fatta di «ripetizioni monotone dello stesso balletto la cui rappresentazione non avrà mai luogo in questo mondo». Quel che gli insorgenti ignorano, annota Rawicz, «è che in queste "giornate rivoluzionarie" non fanno che ripetere un balletto, una "situazione storica" ben catalogata… 1789, 1848, i nichilisti russi, l'ottobre o piuttosto il marzo-aprile 1917, la guerra di Spagna e tralascio il resto… tutti gli attori di questi eventi, che come loro non erano che marionette di Dio, hanno compiuto gesti simili, vissuto sentimenti affini… credendo di essere i primi».
In molti aspetti la critica di Rawicz al Sessantotto ricalca quella dei liberali come Aron, o perfino di certi tradizionalisti antimoderni. Ce n'è per tutti, nel Bloc-notes : per gli isterismi di Jean-Paul Sartre, «questo sotto-sotto-sotto-Tolstoj francese»; per gli stakhanovisti della firma, i sottoscrittori compulsivi di petizioni, che con questo «misero succedaneo» cercano «un'illusione di attività, di comunione con il mondo»; per i truffatori che maneggiano boriose maiuscole come «socialismo», «classe», «proletariato» nemmeno fossero oggetti materiali, trattando l'ombre come cosa salda; per gli slogan imbecilli, come "Contro la società dell'abbondanza" ("che vuol dire, siamo logici, 'Per la società della penuria'"). C'è anche, nel Bloc-notes, la "Valle Giulia" di Rawicz: "Mi sento solidale con i poliziotti, contro gli studenti". E tuttavia Rawicz non era un reazionario. Al pari di David Rousset, l'esperienza dei Lager nazisti lo spinse a proseguire la battaglia contro il sistema concentrazionario rimasto in piedi, quello sovietico: intercedette per il Nobel ad Aleksandr Solzenicyn, ospitò nel suo appartamento alla periferia di Parigi profughi dei regimi dell'est.
Rawicz non è stato solo il Qohelet del maggio parigino, come da noi l'Elémire Zolla di Che cos'è la tradizione. È stato anche, e assai più ardentemente, il suo Giobbe disperato, l'ammutinato dell'Essere che chiama a una rivolta più radicale di quella contro un ordine sociale iniquo. Perché la società non è che il Grande Animale, Behemoth o Leviatano, che prolunga l'ombra nera di un creatore latitante - in cui pure Rawicz non cessò mai di credere - ed è a quest'ultimo che bisogna chieder conto. «I volti di tutti questi piccoli idioti che giocano a fare gli importanti grazie alla loro "manifestazione"», che però «ignorano che l'unica "rivolta" valida e giustificata (ancorché altrettanto inutile) sarebbe quella contro l'Essere, contro Dio». Che si entusiasmano per le grandi adunate, e non sanno che «dietro ogni "fatto collettivo", dietro ogni fatto sociale magniloquente, io intravedo, il mio organismo intravede… un'anticamera della camera a gas».
L'ombra di Auschwitz e della statolatria totalitaria è onnipresente nelle annotazioni dello scrittore ucraino, per il quale ogni sistema politico è come un water: «Deve funzionare convenientemente, nel meno peggiore dei modi, e puzzare il meno possibile». Se è così, «idealizzare un regime, esaltare la triste necessità di vivere collettivamente in modo appena appena organizzato, entusiasmarsi per un W.C. ipotetico dove la merda profumerebbe di rose… che scemenza!».
Accanto a Qohelet e Giobbe , tuttavia, Rawicz scelse per sé ancora un'altra parte: quella di Isaia, il profeta. E intuì che il maggio parigino avrebbe lasciato in eredità una spaventosa gueule de bois, la gola secca e la bocca impastata di chi si sveglia da un'ubriacatura: «Un doposbornia immenso, cosmico che si annuncia, che si profila all'orizzonte». La veracità della sua profezia, si può dire, è sotto i nostri occhi.
Liberazione 16.4.08
Dopo il 20 ottobre una svolta culturale che ci ha portato al tracollo
di Citto Maselli
Nella valutazione di quanto è accaduto io credo si debba partire dal successo straordinario e inaspettato che ebbe la manifestazione dello scorso 20 ottobre. Tutti sanno che, malgrado il dissenso di Mussi, quella manifestazione era unitaria ma fondamentalmente organizzata, voluta, preparata da Rifondazione comunista. Ne sanno qualcosa le centinaia di nostri compagni che vivendo la militanza forse in modo non propriamente allegro e gioioso - come oggi va di moda dire - ma sicuramente tenacissimo e vivo, erano riusciti a darle vita arrivando a quintuplicare ogni previsione di riuscita. Per dire che, dunque, fino a sei mesi fa e con tutto il problema del governo Prodi, l'immagine e il popolo di Rifondazione comunista avevano conservato tutta intera la loro forza di richiamo e la loro presenza. Ricordo che insieme ai nostri dirigenti presenti sotto il palco a piazza San Giovanni commentavamo felici e stupiti questa verifica di forza, prestigio e capacità che non a caso veniva dopo Carrara e il grande sussulto di orgoglio e rilancio che quell'assise aveva significato.
Dunque. Il nostro tracollo è avvenuto nel corso di questi sei mesi e io credo che senza alcuno spirito polemico e senza volere in alcun modo semplificare le cose, sia proprio nei fatti che è avvenuto in corrispondenza della vera e propria svolta culturale che si è voluta dare da tanta parte della nostra dirigenza con la graduale ma sistematica cancellazione della nostra identità di rifondatori comunisti. Per non scadere in polemiche facili e comunque inadeguate alla gravità storica di quello che è successo, non mi metto qui a citare una per una le tappe, i gesti, le dichiarazioni e le azioni che hanno segnato questo cammino. Mi limito a due cose che sono culturalmente inconsistenti ma tuttavia a loro modo simboliche e significative: la definizione del comunismo come tendenza politico-culturale e la scelta del caffè Hard rock e non so che altro di via Veneto in Roma come luogo di incontro e verifica dei risultati elettorali. Forse per quest'ultima trovata parlo un po' da regista: perché sembra davvero un'idea straordinaria di sceneggiatura per dare il misto di provincialismo e falso giovanilismo con cui si è voluta esprimere plasticamente la propria distanza da un passato e da una storia.
Per quello che mi riguarda nella giornata di ieri e insieme a tanti altri sono andato nella sede del partito cui sono iscritto. E lì è successo che, verso le nove di sera, quando ci siamo salutati un po' tutti, due compagne, credo del Forum delle donne che erano rimaste con noi tutto il pomeriggio, visto che la Sinistra l'Arcobaleno anche alla Camera non andava oltre il 3 per cento, hanno dichiarato di volersi iscrivere - sin dal mattino dopo - al Partito della Rifondazione comunista. Ci siamo guardati tutti, un po' com'era successo sotto il palco di piazza S. Giovanni la sera del venti ottobre. Ultimo scorso.