mercoledì 4 giugno 2008

Corriere della Sera Roma 4.6.08
Sapienza-Iran per soli uomini
di Maurizio Caprara


Se si parla dei legami tra Italia e Iran, il pensiero va dritto agli affari. L'interscambio, che nel 2007 è stato di sei miliardi di euro, rende in Europa il nostro Paese il primo partner commerciale della Repubblica islamica. Ma di collegamenti ce ne sono anche altri: gli studenti che si interessano di questioni iraniane non sono soltanto quelli che ieri protestavano contro le minacce di Mahmoud Ahmadinejad al sacrosanto diritto di Israele a esistere. Prova ne è che tra gli imprenditori riuniti in serata all'hotel Hilton per ascoltare il presidente venuto da Teheran c'era anche il preside della facoltà di Studi orientali della «Sapienza», Federico Masini.
«L'Iran è il Paese con il quale la nostra università ha il maggior numero di accordi», spiega Masini. «Ogni anno ci mandiamo a studiare 15 studenti. Vanno a Isfahan e tornano entusiasti da un campus fantastico. In genere, dopo trovano sbocchi lavorativi», dice il professore.
Si capisce perché l'ufficio dell'ambasciatore iraniano Abolfazl Zohrevand abbia invitato Masini. La sua facoltà, fra l'altro, ha pubblicato l'unico dizionario italiano-persiano stampato di recente nel nostro Paese. «In Iran non riusciamo a mandare ragazze. Le famiglie non si fidano», racconta Masini. Però non dispera.

l’Unità 4.6.08
Il volto cattivo
di Dijana Pavlovic


Questa nuova Italia che criminalizza
per decreto la povertà, della violenza
contro gli ultimi, del pregiudizio elevato
a verità, della giustizia fai da te
dovrebbe invece riflettere sul lungo
decorso della malattia che l’affligge

La scelta del Comune di Venezia di offrire una vera opportunità di integrazione ai rom che vi risiedono regolarmente, lavorano e mandano i figli a scuola avrebbe dovuto avere il plauso di chi invoca legalità e sicurezza. Ma per i leghisti veneti non è così. È forse meglio il rogo dei campi a Napoli, le molotov di Pavia, le accuse mai provate di rubare bambini, le ronde che percorrono le città d’Italia? La feroce campagna della «Lega contro zingari e immigrati» continua alimentando l'insofferenza diffusa contro il diverso, l’immigrato, lo zingaro che assume i connotati espliciti della xenofobia e del razzismo.
Ma proprio chi invoca sicurezza sa che quanto più una comunità è in condizioni di stabilità, ha un minimo di sicurezza sociale, più è garantita sicurezza per tutti.

Ma quello che io ho visto è che questo non interessa. I 65 sgomberi di cui si vanta il vicesindaco di Milano non hanno risolto il problema dei campi abusivi - si sono solo spostati altrove - in compenso hanno distrutto quel poco di integrazione che si era realizzato con gli uomini che lavoravano, anche se spesso in nero perché ricattati, e i bambini che frequentavano le scuole. È forse più sicuro rendere queste persone più disperate, costringerle a disperdersi sul territorio e arrangiarsi come possono per sopravvivere?
I dati delle Nazioni unite classificano l’Italia come uno dei paesi industrializzati più sicuri al mondo: solo in Austria e Giappone ci sono meno omicidi che in Italia e per quanto riguarda scippi e borseggi - i reati che più si attribuiscono ai rom - l’Italia e al 14° posto sui 18 paesi esaminati, e così via.
La paura agitata dai leghisti è il frutto di una logica senza prospettiva: chi può pensare di invertire i fenomeni migratori che ovunque stanno cambiando il mondo? È la scelta di un consenso ottenuto all’insegna di una insicurezza costruita gridando a un lupo senza denti. Scarica sul più debole il malessere di una società che ha un disagio sociale e morale profondo, grande responsabilità del quale tocca a una politica che rinuncia al compito di educazione civile per seguire gli istinti peggiori in un perverso circuito: la politica, con il coro condiscendente dei media, alimenta la paura dei cittadini che premiano con il voto questa politica.
Questa nuova Italia che criminalizza per decreto la povertà, della violenza contro gli ultimi, del pregiudizio elevato a verità, della giustizia fai da te dovrebbe invece riflettere sul lungo decorso della malattia che l’affligge e sulle preoccupanti prospettive del suo futuro. Non si può non legare i Maso, le Eriche e gli Omar, che uccidono i genitori per denaro, ai ragazzini che violentano e uccidono una coetanea, al branco che uccide un diverso da loro a Verona, al bullismo nelle scuole, alla violenza praticata nelle famiglie.
Coloro che aizzano i cani, lanciano molotov e sassi, percorrono in ronde minacciose le città, i sindaci che annunciano nei cartelloni che «i clandestini possono stuprare i tuoi figli» sono il volto vigliacco di chi non guarda al male che porta dentro di sé, di chi rifiuta di affrontare la camorra che a Napoli controlla i rifiuti e organizza i roghi dei campi rom, la mafia padrona della vita e del voto dei siciliani, l’andrangheta non solo padrona del territorio calabrese ma di interi quartieri di città come Milano.
Di fronte a tutto questo io, rom e cittadina italiana, che so bene quanto il rispetto della legge protegga me e il mio popolo, dico alla Lega quanto mi pesa che sappia mostrarmi solo il volto vile del paese che amo.
dijana.pavlovic@fastwebnetI

l’Unità 4.6.08
«Niente paura, il mondo è multietnico»
di Francesca De Sanctis


LUCÍA ETXEBARRÍA parla del suo nuovo romanzo Cosmofobia, nel quale convivono, spesso senza mescolarsi, persone di diverse provenienze e culture. La scrittrice spagnola sarà stasera al Festival Letterature

Non credo che il mio
libro possa cambiare
la situazione, ma dice
con forza che
bisogna avere rispetto
per il prossimo

In Italia ci sono molti
problemi, la povertà
un presidente che
controlla tutti i media
Come mai ve la prendete
solo con gli immigrati?

Marocchini, equadoregni, senegalesi...e poi rock star in decadenza, aspiranti stilisti, modelle senza un soldo, pittori, attrici... e una scrittrice, Lucía Etxebarrìa, autrice del romanzo Cosmofobia (Guanda, pagine 386, euro 16,50) e contemporaneamente personaggio del suo stesso «affresco», un mondo variegato dove convivono e si intrecciano una ventina di vite, tutte di diversa nazionalità, di diverse classi sociali, di diversa indole. «Sono personaggi reali quelli cui parlo - ci spiega l’autrice spagnola arrivata a Roma per il Festival Letterature -. Alcuni di loro però mi hanno esplicitamente chiesto di cambiare nome o età in modo tale da non essere riconoscibili». Non lei, che appare così com’è: curiosa, provocatrice e innamorata di sua figlia che mentre parliamo si mette in posa, con il suo abitino azzurro e un succoso arancio tra le mani. Intanto i fotografi scattano foto a questa madre in pantacollant viola, felice di essere a Roma ma nello stesso tempo ben lieta di non viverci. «Tutte le grandi città - ci dice - sono come Catherine Deneuve, da giovane però... devono sempre essere conquistate. Io preferisco le città più piccole».
Lucía però vive a Madrid. «Non ho scelto io di vivere lì - precisa subito - è capitato». Abita a Lavapiés, un quartiere multietnico «dove i prezzi delle case sono più bassi...». Proprio in quel barrio si incrociano i destini dei suoi personaggi: i bambini che giocano nella ludodeca, le donne del centro di auto-aiuto, i piccoli spacciatori, gli immigrati poverissimi, i musulmani che rinnegano il velo.
È «un quartiere piuttosto popolare» dice Antòn all’inizio del romanzo, e «sarà anche multiculturale, ma interculturale no». Lucía, nessuno si mescola con gli altri, perché?
«Le culture non si mescolano per paura dell’altro, oggi ancora più di prima. Naturalmente esiste un utilizzo politico della paura. Tutti gli uomini politici usano qualcosa che esiste già, la paura dell’ignoto, a fini politici. Lo ha fatto Hitler con gli ebrei, lo hanno fatto i cinesi con i giapponesi, i turchi con i curdi, lo ha fatto Stalin e oggi lo stanno facendo Bush con l’Islam, gli italiani con gli albanesi e i rumeni, gli spagnoli con i marocchini e i neri... Se si potessero espellere tutti gli immigrati dall’Italia o dalla Spagna l’economia del Paese subirebbe un bel colpo. Gli immigrati fanno lavori - tipo prendersi cura degli anziani o dei bambini - che permettono loro di guadagnare. In Spagna uno studio pubblicato da El País si interroga proprio su questo: se di colpo venissero espulsi tutti i clandestini quale sarebbe l’economia del Paese? C’è una grande ipocrisia da parte di chi, soprattutto certi ministri, vorrebbe mandare via queste persone: “tutti via tranne la badante di mia madre”...».
Forse è il momento giusto, in Italia, per leggere il suo libro...
«Sì, infatti. Non credo che il mio libro possa cambiare la situazione, ma di sicuro mette in chiaro una cosa: bisogna avere rispetto per il prossimo. E una persona come il vostro presidente del Consiglio, che appoggia una direttiva Onu che permette di lasciare in prigione per 10-18 mesi delle persone innocenti che hanno come unica colpa quella di non avere una nazionalità europea trovo che sia un’assurdità. E pensare che Berlusconi dice di essere cattolico. Io non lo sono, ma la mia famiglia lo è, io lo sono stata, e per un cattolico il rispetto per il prossimo e la misericordia sono fondamentali. Io non credo che un cattolico farebbe mai delle affermazioni xenofobe, Berlusconi lo ha fatto. Detto questo io sono affascinata da quest’uomo! Come tutte le donne italiane, no? Trovo che sia surreale: capelli tinti, botulino, operazioni, è il politico più rosa che si sia mai visto».
A livello nazionale, ma anche in grandi città come Roma, dopo le elezioni politiche si parla molto del problema sicurezza...
«Il vero problema italiano, a mio avviso, è che avete un presidente del Consiglio che controlla tutti mezzi di comunicazione (in Spagna una cosa del genere sarebbe illegale). E avete anche la più alta percentuale di persone che guadagnano meno di mille euro al mese: Non parlo degli immigrati ma di giovani trentenni che non possono sposarsi né avere figli; il più alto tasso di disoccupazione d’Europa e il più alto tasso d’inflazione. Mi chiedo perché allora i giornali parlino solo di immigrazione... Credo che dipenda dal fatto che il capo del governo ha il controllo dei media. È lo stesso motivo per il quale ha vinto le elezioni: chi controlla i mezzi di comunicazione controlla l’opinione pubblica, dunque controlla il voto. Per questo ha vinto, la sinistra non ha potuto farci niente. Purtroppo il rischio è che in questo modo Berlusconi potrebbe diventare un secondo Mussolini. Italia e Spagna - aggiunge - hanno in comune un problema con la corruzione che ha a che fare con le nostre radici arabe: sia gli italiani che gli spagnoli hanno a cuore la famiglia, questo significa, per esempio, che facciamo di tutto per piazzare un nostro parente, e così la corruzione si alimenta...».
«Cosmofobia» è anche un libro che parla di identità.
«È un libro che parla di rapporti personali, di storie amore, della ricerca impossibile dell’amore come segno identitario. Avevo affrontato questo argomento anche in un altro libro: Io non soffro per amore (Guanda 2007)».
Il destino però può influire sull’identità di una persona, come accade nel suo romanzo?
«Se fossi nata in Somalia il mio destino lo avrebbe costruito Bush, ma sono nata in Spagna... credo di essere stata l’unica artefice del mio destino. Dunque ciascuno di noi costruisce il proprio destino e dunque la propria identità, a meno che non si abbia la sfortuna di vivere in condizioni di povertà estrema».
Un’opportunità persa può trasformarsi in una vittoria?
«Sempre, credo che nella vita succeda continuamente. È successo anche a me. Molti anni fa sono stata responsabile della Comunicazione di un grossa multinazionale, ed era professionalmente un grosso successo. Poi però mi sono fatta licenziare perché non sopportavo più di lavorare 14 ore al giorno guadagnando poco. Quando lo feci la mia famiglia rimase scandalizzata: ma come hai potuto?, mi dicevano. Perché di fatto era un posto importante. Però è così che ho iniziato a fare la scrittrice, per me è una grande vittoria».
Lei scrive in casa?
«No, ho uno studio, dove mi reco ogni giorno, come fa un avvocato che va nel suo ufficio. Con una figlia piccola non avrei potuto fare diversamente. Mi piacerebbe avere altri figli, mi piacciono molto i bambini, vorrei dimostrare che una donna può fare tutto senza dover rinunciare alla sua carriera, basta solo essere molto organizzate».
Come si aspetta che reagirà il pubblico italiano al suo libro?
«Un quartiere multietnico esiste anche a Parigi e credo anche a Roma, dunque perché preoccuparsi? Stilisti, stelle del rock, attrici mature esistono anche in Italia...».
E del racconto che leggerà a Massenzio cosa ci dice?
«Il brano che leggerò racconta una storia vera che riguarda un mio amico, molto alcolizzato, che una volta in metrò a Madrid si è messo a cantare dichiarandomi il suo amore. Il bello è che nessuno ci ha fatto caso...Comunque, per concludere, le cose più importanti nella vita non si raccontano mai. È un mito stupido quello di dover dire sempre tutto al proprio compagno o compagna. Il silenzio ci preserva. In Cosmofobia racconto la storia vera di un uomo che è stato squartato e faccio capire che uno dei protagonisti della storia è l’assassino che colpisce all’interno di un rituale sado-maso, ma nessuno sa veramente cosa è accaduto. Uno scrittore deve sempre sapere cosa non deve raccontare, lasciare spazio all’immaginazione».

l’Unità 4.6.08
«Parola, silenzio» una sera al femminile


Prosegue con Lucía Etxebarría (Guanda) e Katherine Dunn (Elliot) il Festival Letterature, promosso dal Comune di Roma e diretto da Maria Ida Gaeta (regia Piero Maccarinelli) in una serata tutta al femminile. Alle 21, sul palco della Basilica di Massenzio, salirà la scrittrice americana che leggerà il brano inedito La mano, poi toccherà all’autrice spagnola che leggerà il testo Parole e silenzi. Saranno introdotte rispettivamente dalle due attrici Antonia Liskova e Sabrina Impacciatore. Musica live di Stefania Tallini. «La mia è una storia in parte vera ma anche un po’ fiaba - spiega la Dunn - , ambientata nel mio quartiere a Portland, in Oregon. Si apre con un incidente che provoca un profluvio di parole e il risultato finale è il silenzio».

l’Unità 4.6.08
Europa e immigrazione. Muscoli di carta
di Gianni Marsilli


Qua e là risuona da Roma una parola assai inabituale nel gergo politico italiano: sovranità. La brandiscono Calderoli (Lega) e Bocchino (An), per rivendicare autonomia rispetto ad istanze sovranazionali come l’Unione europea e l’Onu, preoccupate per la piega che prende in Italia la questione della sicurezza e dell’immigrazione.

È una parola carica di storia ma oggi anche di ambiguità. Nel resto d’Europa serve da lustri ad identificare i «sovranisti», euroscettici o eurocontro, fautori delle prerogative dello Stato nazionale contro l’invadenza comunitaria. Da noi non si capisce ancora, anche perché i «sovranisti», in genere, sono i primi a presenziare alle parate militari e ad inchinarsi davanti al vessillo nazionale. La Lega ha invece disertato la Festa della Repubblica, e del tricolore sappiamo bene quale uso vorrebbe fare, sotto lo sguardo benevolo dei patrioti Bocchino, Gasparri e La Russa. Ma lasciamo a Pontida quel che è di Pontida, e vediamo di ragionare un po’. Non c’è dubbio che la questione dell’immigrazione e della sicurezza abbia carattere d’urgenza, e che sia bisognosa di risposte rapide. Il governo italiano pensava di aver trovato il punto critico e il modo più efficace per aggredirlo: rendere reato l’immigrazione clandestina. Lo prevedono altri codici penali europei, è vero. Ma è altrettanto vero che in nessun paese la norma è risultata dissuasiva. Nel frattempo in Italia, sul terreno, dirigenti e militanti veneti della Lega si sentono autorizzati, dal vento che tira, a bloccare la costruzione di un villaggio per nomadi Scinti, votata dal Comune di Venezia, confermando che Mario Borghezio non è un solitario e pittoresco esaltato, ma la punta gassosa dell’iceberg dell’intolleranza e dell’ottusità. Qualcosa di tutto ciò dev’essere arrivato all’orecchio di Berlusconi, se ieri ha deciso di affondare il rigore esibito dai suoi portavoce: per lui, fatte salve future smentite, l’immigrazione illegale può essere al massimo un’aggravante, ma non un reato. Essendo il capo del governo, si presume che la benvenuta virata di bordo avrà qualche conseguenza concreta sulla discussione in Parlamento. La turbolenza, chiamiamola così, non investe solo l’Italia. Sul piano della sicurezza in Gran Bretagna Gordon Brown, mentre tocca il fondo degli indici di popolarità, pensa di riguadagnare qualche punto proponendo, la settimana prossima in Parlamento, di allungare la detenzione provvisoria per i «sospetti» di terrorismo. È già di 28 giorni, la vorrebbe di 42 giorni, record mondiale. In Francia, per intendersi, è di sei giorni. Mai, inoltre, un magistrato ha sentito la necessità di superare i 28 giorni per incolpare l’arrestato. Il Labour è in rivolta e minaccia di votargli contro. Ma Gordon Brown ha semplicemente un problema di consenso d’opinione, che rincorre con i mezzucci di bordo facendo la voce grossa. Inutile dire che ai conservatori riesce meglio. In Francia Sarkozy continua a fissare quote di espulsione, che ministri e prefetti sono tenuti a rispettare: 30mila per l’anno in corso. Ogni tanto qualche «irregolare» cade da un cornicione, tentando di sfuggire ai gendarmi. Ogni tanto i gendarmi compiono irruzioni maldestre, anche nelle scuole elementari. Ma accade anche che i «clandestini» lavorino e ad un certo punto escano allo scoperto: per cortesia, mi chiamo Yousouf, sgobbo qui da dieci anni, mettetemi in regola. È successo in diversi ristoranti parigini, sotto l’occhio delle telecamere convocate in cucina, e quasi tutti sono stati messi in regola. Le cose, nei fatti, vanno come possono, con buona pace del «reato» di clandestinità. Forse consapevole dell’insufficienza decretizia di un apparato normativo anti-immigrati, è da tempo che Sarkozy ha annunciato la volontà di stringere con i partner un «patto per l’immigrazione» europeo, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello della presidenza francese dell’Ue che comincerà tra quattro settimane. Non è ancora chiaro in che cosa dovrebbe consistere, a parte il conclamato rifiuto di sanatorie di massa, ma perlomeno colloca il problema nella sua giusta dimensione, che non è nazionale ma europea, anzi euro-africana. Sembra banale, ma evidentemente non lo era per il governo italiano, convinto che una «linea dura» fatta in casa come la pasta fresca, e nutrita da muscolari dichiarazioni televisive, si dimostrerà pagante. Di cosa l’Italia proponga ai partner europei, invece, non è ancora dato di sapere. Almeno fino a ieri però Sarkozy era contento di Berlusconi. Sapete cosa si diceva ufficiosamente all’Eliseo? «Con la posizione dura di Berlusconi, quella della Francia appare moderata». Forse è qui, nel sano timore di apparire ancora una volta i più mascelluti e stupidamente teatrali della compagnia europea, che trova spiegazione l’abbondante dose di acqua che ieri Berlusconi ha voluto mettere nel suo vino. È la miglior risposta a tutti quelli che dicono che di Europa non c’è bisogno, e che invocano una sovranità del piffero.

l’Unità 4.6.08
D’Alema, laicità e senso dello Stato
di Giuseppe Tamburrano


Nessuno crede che D’Alema si sia ritirato nella sua Fondazione come in un monastero benedettino per dedicarsi a severi studi. È amante sì della cultura ma, come Croce diceva di Togliatti (al quale somiglia), è totus politicus, e la sua cultura non è «disinteressata»: ha sempre un lucido fine politico.
Al recente convegno nel Cilento su «religione e democrazia», di altissimo livello teorico, D’Alema si è scoperto difensore del laicismo nei confronti della Chiesa tentata di un patto col potere politico. E dico a ragione veduta «scoperto» perché questo impegno è nuovo, non lo abbiamo mai notato in passato, né in lui né nel suo partito attuale, recente e antico. E a chi come me e i tanti socialisti dispersi questo D’Alema piace.
In Italia il laicismo come difesa dei diritti dello Stato nei confronti della Chiesa ha, in varie guise, radici millenarie. E per venire ai fondamenti della nostra Repubblica, ha avuto nei componenti la folta pattuglia liberale, repubblicana, azionista, radicale e soprattutto socialista - ma mai comunista - i protagonisti della lotta contro il clericalismo e le «tentazioni del potere» della Chiesa.
Questi partiti e movimenti sono tutti pressoché svaniti; ma sopravvive largamente lo spirito pubblico laico: dunque, viva D’Alema che se ne fa interprete. Se i giornali e i telegiornali «aprono» con il servizio sui vescovi che intervengono non sui temi («eticamente sensibili») che attengono all’insegnamento della Chiesa, ma su sicurezza, immigrazione e rifiuti napoletani, è bene che qualcuno autorevolmente ci ricordi che «lo Stato è di tutti e che il potere non può essere posto al servizio delle convinzioni pur nobili di una parte» (D’Alema, Corriere della Sera 28 maggio 2009). Dunque la Chiesa, nell’esercizio del suo magistero, non può pretendere che quella parte dei cittadini, i suoi fedeli che credono e praticano, trasformino i suoi precetti in legge vincolante per tutti.
D’Alema è stato subito criticato come «comunista», «vetero marxista» da Fioroni e da Riccardi. Eh no! Semmai è «vetero cavourriano».
Ma non è questo del laicismo il solo intervento «alto» di D’Alema. La sua critica alla globalizzazione e, a mio parere, l’anticipo di un ripensamento sul liberismo. Dico a ragion veduta un «ripensamento» perché egli è stato in prima linea nella conversione dal collettivismo comunista al mercato. Ma oggi il numero degli apologeti del liberismo e della globalizzazione si sta diradando in tutto il mondo capitalistico. È l’establishment - Clinton, Obama, l’Economist - che vuole l’intervento dello Stato per salvare il sistema dalle gravi difficoltà in cui si dibatte; è il direttore generale del Wto, Lamy, che chiede un welfare per «addolcire la globalizzazione». È Tremonti che critica il mercatismo e spezza più lance a favore dello Stato. È Bondi che giudica (su l’Unità del 27 maggio 2008) la sinistra «inadeguata... alla sfida... della crisi attuale del mondo globalizzato» per via del suo «liberismo» d’accatto. Può il PD restare l’unica roccaforte a difesa del mercato senza Stato? Credo che su questo problema, che attraversa la crisi del laburismo e del socialismo europeo, sentiremo cose nuove dalla Fondazione Italianieuropei.
Completo il quadro. Subito dopo le elezioni vi è stato un confronto tra Veltroni e D’Alema. Il primo ha difeso la priorità della definizione dell’identità del nuovo partito rispetto alla ricerca delle alleanze, D’Alema invece ha sostenuto che un partito che raccoglie appena un terzo del consenso elettorale non può chiudersi in se stesso, ma deve cercare alleanze, in particolare con quella larga sinistra priva di rappresentanza parlamentare.
Ho osservato a D’Alema (e mi scuso per l’autocitazione: l’Unità 9 maggio 2008) che chi propone alleanze deve anche dire su che cosa. D’Alema lo sta facendo.
Credo che i contenuti del nuovo dalemismo si stiano precisando ed in termini che sono di alto profilo, culturale e strategico, più che tattico-politico. È una linea poggiata su due pilastri: laicismo e rapporto Stato-mercato. Se è così, sarebbe il lancio di una grande idea-forza: un nuovo socialismo, una casa non una cosa, in cui si potrebbe ritrovare tutta la sinistra dispersa, sommersa, diffusa. Sarebbe - come ho scritto - finalmente la nostra Epinay. D’Alema ha promesso che ad ottobre, quando le cose saranno più chiare, parlerà. Non vedo l’ora.

Repubblica 4.6.08
Bondi: "La cultura non è di sinistra"
E Barbareschi attacca Gomorra: "Bravi a esportare solo i nostri guai"
di Carmelo Lopapa


Il programma del ministro illustrato alla Camera. Ma da Tremonti non un euro in più

ROMA - È il brutto che c´è nelle nostre periferie a generare violenza, criminalità, magari anche l´invasione dei rifiuti. La nuova mission del governo sarà allora quella, ardua, di «recuperare la bellezza». E demolire tutto ciò che degrada e abbrutisce le città. Sembra la relazione di un post-estetista, a parlare così è invece Sandro Bondi davanti alla commissione Cultura della Camera alla quale ha illustrato le linee programmatiche del suo ministero. La filosofia di fondo è questa: «Dove non c´è bellezza, lì non c´è creatività, non c´è voglia di fare, non c´è l´humus indispensabile perché possano svilupparsi processi di crescita». E poi, «come potrebbero le persone acquisire uno spirito nobile se intorno a loro non ci sono opere d´arte che rappresentano la nobiltà d´animo?»
Peccato che per la gestione e la salvaguardia di musei, siti archeologici, film e teatro, non ci sarà un solo euro in più. «Non potrò chiederlo a Tremonti» ammette il ministro. Già il taglio dell´Ici ha infierito sul Fondo per lo spettacolo. Le uniche speranze saranno affidate agli investimenti privati. Inatteso plauso trasversale, comunque, al programma con cui Bondi ha invitato a superare le culture di destra e di sinistra. Sebbene i rilievi polemici del Pd non siano mancati. A lanciare una mezza provocazione ci pensa Luca Barbareschi. Film come Gomorra? «Bello, certo - ha spiegato - Ma per ogni film come quello dovremmo esportarne altri dieci che illustrino quanto di positivo c´è nel nostro Paese. Invece siamo bravissimi ad esportare solo i nostri guai». Per concludere col suo cavallo di battaglia, «l´uso distorto» dei fondi per la cinematografia. A suo dire dirottati su quella targata.
La parola d´ordine del ministro Bondi invece è pacificazione, con tanto di riconoscimenti ai predecessori Rutelli, Buttiglione, Urbani. «Per lungo tempo siamo stati indotti a credere che la cultura potesse essere di destra o di sinistra, mai abbiamo pensato che sussistessero valori condivisi a fondamento della nazione» scandisce, ecumenico. Confessa di aver capito al recente festival di Cannes, dopo i successi di "Gomorra" e "Il Divo", che «sta rinascendo un cinema italiano forte, impegnato, forse anche scomodo, diretto da magistrali registi». Ma il piatto forte del programma di governo sarà appunto il «recupero della bellezza». La premessa è che «nelle città devastate dalla bruttezza e dal degrado si annidano fenomeni allarmanti di disagio sociale: la bruttezza e il degrado generano violenza» spiega citando il politologo Michael Novack in commissione Cultura. Ma come si riscopre la bellezza? Attraverso il «recupero delle immense periferie», lo stop a una «nuova cementificazione che il Paese non può permettersi» e le demolizioni. Mentre ci sarà una sorta di super coordinatore che sovrintenderà a tutti i musei. Certo, poi ci sarebbe l´immenso patrimonio, snocciolato dal ministro: 3.500 musei statali, 100 mila tra monumenti e chiese, 300 mila dimore storiche e 2000 siti archeologici. Ecco, per tutto questo l´Italia spende lo 0,28% del bilancio, ovvero 2,3 miliardi di euro contro gli 8,3 miliardi della Svezia e i 3 della Francia. Eppure, l´unico obiettivo raggiungibile sarà «mantenere l´esistente», non un euro in più, ammette Bondi che anzi chiede ai deputati un aiuto per evitare ulteriori tagli.
«C´è un´inedita attenzione alla difesa della bellezza e del paesaggio culturale: la più grande infrastruttura italiana» plaude a nome del Pdl il capogruppo in commissione Fabio Granata. Relazione «generica e contraddittoria», per le democratiche Ghizzoni e De Biasi. Eugenio Mazzarella, docente di Filosofia e deputato Pd, la boccia: « Altro che cultura del bello e politica del fare, se davvero considerassero la cultura la più grande infrastruttura, i soldi li investirebbe lì anziché su una infrastruttura superflua come il Ponte».

Repubblica 4.6.08
Anche gli uomini primitivi rapivano le donne dei nemici Lo rivelano gli studi su una fossa comune in Germania
Ratto delle Sabine il primo è preistorico
di Elena Dusi


Il mistero svelato: "Non c´erano ossa femminili perché avevano ucciso solo i maschi"

Cherchez la femme, per risolvere il primo giallo della storia. Sul luogo del delitto, 34 cadaveri con 7mila anni di storia sulle spalle e nessuna traccia femminile nei paraggi. «C´è un´unica spiegazione. Rapire le donne e portarle via era il vero obiettivo della guerra fra tribù» rivela Alex Bentley. L´antropologo dell´università inglese di Durham per risolvere il complicato caso del neolitico non ha fatto altro che pescare fra i resoconti della mitologia romana. Così al ratto delle Sabine, secondo la sua ricostruzione, si affianca un cruento precedente: quello della battaglia per le donne avvenuta a Talheim, in Germania, quasi 5mila anni prima della nascita di Cristo.
Fra i 34 scheletri accatastati nella fossa comune tedesca, in realtà, alcuni resti femminili ci sono. Ma secondo i ricercatori di Durham, che hanno ricostruito le loro caratteristiche biologiche nei dettagli, si trattava di bimbe o anziane (c´è anche una nonna). Gli uomini hanno quasi tutti i crani sfondati dal lato sinistro: sono stati probabilmente bendati e immobilizzati e poi uccisi con un colpo di ascia sulla testa. Le donne invece, risorsa preziosa nei tempi incerti del neolitico, sono state tutte rapite. Finite nel bottino dei guerrieri vincitori.
Erano vent´anni che gli antropologi si arrovellavano sul giallo di Talheim. La fossa comune fu scoperta negli anni ‘80 e fin da subito, con quei crani fratturati e i frammenti di freccia conficcati nelle ossa, servì a dimostrare che guerre e crudeltà erano prassi comune anche nell´età della pietra. E che la violenza era un carattere indelebile della natura umana. Bentley e i suoi collaboratori, ricostruendo le parentele tra gli sfortunati abitanti della fossa comune, hanno ora allargato la trama della storia, aggiungendo al capitolo del sangue anche quello del sesso.
Per ricostruire l´identità dei protagonisti del giallo - i dettagli sono pubblicati sulla rivista Antiquity - i ricercatori hanno puntato i loro strumenti sullo smalto dei denti. A partire dalle sostanze da cui è composto, è infatti possibile risalire a dieta e regione geografica di provenienza di ciascun individuo. Il primo passo è stato dividere gli scheletri in due. Da una parte c´era la tribù locale, che è stata assalita a colpi di ascia. I rivali erano probabilmente rimasti senza più donne e hanno deciso di scendere nella valle di Talheim dalla montagna in cui vivevano con intenzioni poco cavalleresche.
A lasciarci la pelle, nella mischia, sono stati 18 adulti e 16 bambini, tutti sepolti dai sopravvissuti senza troppe formalità in una buca lunga 3 metri. Fra gli uomini che hanno perso vita e moglie c´erano anche due fratelli, un padre morto con i suoi due bambini (fra cui una bimba di 11 anni), con una donna di 50 anni che probabilmente era la loro nonna. La tribù vittoriosa ha perso anche 4 guerriere di sesso femminile nello scontro, ma alla fine ne ha sicuramente guadagnato di più. «Nel neolitico si litigava per la terra e per il cibo, questo è certo. Ma ora abbiamo dimostrato che anche le donne erano motivo per scatenare una guerra» spiega Bentley. «Rispetto agli uomini, le guerriere erano evidentemente tenute in speciale considerazione. Per questo nonostante la sconfitta sono state lasciate tutte in vita». Con le Sabine o Elena di Troia, le donne delle caverne hanno condiviso un destino comune, e non c´è da sorprendersi. A loro è mancato solo un cantore disposto a tramandare la loro storia.

Repubblica 4.6.08
La scomparsa di un autentico testimone del secolo
Fejtö. Annunciò la fine del comunismo
di Massimo L. Salvadori


I suoi lavori più importanti sono dedicati al mondo delle democrazie popolari, al colpo di Stato di Praga del ´48 e alla rivoluzione ungherese del ´56

François Fejtö era un cittadino d´Europa, che ebbe i suoi due baricentri nella Mitteleuropa e in Francia. Nato nel 1909 in una famiglia di ebrei ungheresi che trafficava con i libri, trovò la sua seconda patria in Francia, dove si stabilì nel 1938. Aver preso parte alla vita letteraria e politica dell´Ungheria fascistoide, in cui era passato attraverso una militanza socialista e antifascista finita nell´adesione al comunismo, gli era costata la prigione.
Dopo aver militato nelle file della Resistenza francese, Fejtö nel 1947 accettò di assumere la direzione dell´Ufficio della stampa e della documentazione dell´ambasciata ungherese di Parigi, da cui diede le dimissioni per protesta contro l´ondata di arresti e processi, tra cui quello dell´amico László Rajk. L´adesione al comunismo era da tempo alle spalle, ed egli si legò a influenti intellettuali francesi liberali come in primo luogo Aron e con loro combatté battaglie in nome della libertà su posizioni di critica aperta nei confronti dello stalinismo. Fu un attivissimo collaboratore di giornali e riviste, da Esprit ad Arguments, Contre-Point, Le Monde, Le Temps modernes, Le Figaro, La Stampa, il Giornale. Nel 1955 prese la cittadinanza francese.
Morto l´altro ieri, quasi centenario, è davvero stato uno dei testimoni intelligenti del suo secolo. Sapeva di esserlo stato e rese conto del suo lungo cammino nel suo libro-bilancio Passeggero del secolo (1999).
Cosmopolita, cittadino d´Europa, Fejtö non aveva dimenticato le sue radici ebraiche ungheresi, come mostrano ad esempio i due libri L´Ungheria e gli ebrei del 1961 e Dio e il suo ebreo. Saggio eretico (1961). E neppure le radici mitteleuropee. Aveva, lui cui era stato dato di assistere da bambino al crollo dell´impero austro-ungarico e poi alle traversie senza pace dei paesi nati dalla sua dissoluzione, una certa nostalgia per quel mondo perduto; e la espresse nel saggio significativo del 1988 Requiem per un impero defunto e nella precedente biografia dedicata nel 1953 a Giuseppe II.
Ma il suo contributo più importante di storico, analista e commentatore Fejtö lo ha dato nei libri e nei saggi dedicati al mondo comunista: nei lavori sulla storia delle democrazie popolari, sul colpo di Stato di Praga del 1948, sulla rivoluzione ungherese del 1956, sulla Primavera di Praga del 1968, sul conflitto cino-sovietico, sull´eredità di Lenin, sull´antisemitismo nei paesi comunisti. Qui mostrò una grande capacità di penetrazione e una conoscenza che pochi altri potevano pareggiare.
C´è da domandarsi quale contributo a occuparsi delle vicende del comunismo e a capirle sovente con straordinaria acutezza sia venuto dall´essere stati prima comunisti e poi dall´aver cessato di esserlo. Vengono alla mente nomi come quelli di Arthur Rosenberg, di Boris Souvarine, di Victor Serge, Arthur Koestler, a cui se ne potrebbero aggiungere tanti altri. Orbene, per quanto riguarda Fejtö, prima della sua Storia delle democrazie popolari, di cui il primo volume uscì nel 1952 e il secondo nel 1969, la conoscenza dei paesi comunistizzati dell´Est era parziale, del tutto inadeguata. L´opera segnò una svolta, ebbe un grande successo e divenne un «classico» della materia. Nel 1992 Fejtö la completò con La fine delle democrazie popolari. Era il coronamento di una ininterrotta e appassionata ricerca.
Quale fosse il suo credo di storico, Fejtö l´aveva espresso nella prefazione al primo volume della Storia delle democrazie popolari, dove scriveva: «Noi, con Marc Bloch, crediamo che lo storico possa rendere un servigio utile alla causa del progresso, della libertà, della giustizia sociale, soltanto col difendere l´integrità, la libertà della passione che lo anima in quanto storico: la passione che sta nel comprendere. E con questa passione, è dal punto di vista dell´uomo che si sforza di "vedere le cose così com´esse sono", ton eonta, come già diceva Erodoto, che ci siamo proposti di studiare un frammento della storia contemporanea, lo sviluppo dopo la seconda guerra mondiale, di sette paesi dell´Europa orientale».
E nel 1971, chiudendo una nuova edizione del secondo volume, Fejtö mostrava di aver pienamente capito quale fosse il tarlo roditore del sistema comunista, che poco meno di venti anni dopo avrebbe condannato quest´ultimo all´implosione: «il volto repressivo assunto dal socialismo, la sua realizzazione dittatoriale e incompetente, vengono messi sotto accusa sempre più spesso. (...) Il sistema non funziona; e siccome non funziona, nessuno ha fiducia nel sistema».
Era la premonizione della catastrofe che si sarebbe rivelata a tutto tondo nel 1989, quando le dittature dell´Est sarebbero cadute in una festa di popoli, senza che nessuno alzasse un dito a loro difesa.

Repubblica 4.6.08
Europa Islam divisi dalla paura
Una tavola rotonda a Istanbul


Jürgen Habermas, Ian Buruma e Giuliano Amato in un confronto, organizzato da "Reset", su immigrazione, integrazione, democrazia e sui rapporti fra le civiltà
HABERMAS: "Il nostro obiettivo deve essere l´integrazione sociale"
BURUMA: "Va tirata una linea e la line è la legge che tutti sono tenuti a rispettare"
AMATO: "Mi è stato chiesto di cacciare imam che facevano discorsi simili a quelli di Ratzinger

ISTANBUL. C´è stato un momento di lieve imbarazzo, ieri, quando nella sala delle conferenze dell´Università Bilgi (La Sapienza), a Istanbul, dove stava parlando il filosofo tedesco Jürgen Habermas, hanno fatto la loro improvvisa comparsa quattro studentesse con indosso il velo. In Turchia solo da pochi mesi il copricapo è ammesso nelle accademie. E l´entrata delle ragazze con il turban, benché forse nel più liberale e aperto istituto universitario del paese, capace di ospitare tre anni fa la prima riunione di studiosi turchi e armeni, ha sorpreso la platea. L´uditorio è rimasto per un attimo congelato, e l´atmosfera come sospesa. Forse perché in ritardo, perché non c´era più posto, o perché a disagio, le quattro giovani si sono ritirate, nella sala a fianco collegata a circuito chiuso. E i lavori sono ripresi come di consueto.
Non ci poteva essere esempio migliore per fotografare la battaglia in atto in Turchia, e uno dei temi al centro del primo "Istanbul Seminar", organizzato lungo questa intera settimana nel Corno d´oro dalla rivista italiana Reset. Il suo direttore, Giancarlo Bosetti, è riuscito a mettere insieme una nutrita pattuglia di filosofi e studiosi di scienze politiche fra i più impegnati a livello internazionale nel dialogo fra civiltà. Benjamin Barber, Otto Schily, Michael Walzer, per citarne solo alcuni, stanno discutendo in questi giorni con i loro colleghi turchi e arabi argomenti come globalizzazione e religione, post-secolarismo e integrazione, donne e cosmpolitismo.
La giornata di ieri ha offerto un´accesa tavola rotonda coordinata da Bosetti che ha visto incrociare le tesi di Jürgen Habermas, Ian Buruma, Giuliano Amato, dello studioso turco Murat Belge e di quello marocchino Abdou Filali-Ansary. Ecco un estratto dell´incontro, dal titolo "L´Islam in Europa: immigrazione, integrazione e democrazia".
BOSETTI: «La questione che vorremmo affrontare riguarda la vita politica in Europa, influenzata dalla massiccia immigrazione proveniente soprattutto dall´Est, e poi da Asia, Africa, America Latina. Paesi come Italia, Germania e Spagna hanno molti immigranti, da sola la Lombardia ne ha preso più di un milione, e in tutta la penisola sono arrivati 600 mila rumeni dopo l´ingresso nella Ue. La paura è una presenza forte nell´opinione pubblica; l´immigrazione potrebbe essere un´opportunità, ma le difficoltà di integrazione sono parecchie tenendo conto che c´è una crescita di violenza e razzismo».
AMATO: «Noi abbiamo avuti pochi attacchi nel nostro paese, rispetto a quello che è avvenuto in Spagna o l´11 settembre. Ma quando c´è un attacco, anche lontano, in Iraq o in Afghanistan, la subito lo si collega alla religione. Ecco allora che scatta la paura. In qualche caso, mi è stato chiesto di allontanare predicatori islamici che hanno pronunciato discorsi non tanto dissimili da quelli fatti dal Papa. Ma nessuno si sognerebbe mai di mandare via il Papa. Le cose da fare, allora, sono molte. Ne individuo una lista. E´ molto importante che nelle nostre comunità le donne musulmane abbiano diritti, possano uscire di casa, ricevano un´educazione, la possano trasmettere ai figli. Occorre poi distinguere fra la parola di Dio e le parole degli esseri umani che nel corso dei secoli hanno creato delle leggi per governarsi. Inoltre, lo sforzo degli studiosi musulmani impegnati a distinguere fra il Corano e quella che è la sua interpretazione, è parte essenziale del dibattito. Ci vuole infine un´interazione con il mondo musulmano che guarda con aspettative all´Europa. Io ho terminato il mio lavoro di ministro continuando a discutere con profitto con musulmani in Italia che rispettavano la nostra legge. Questo va fatto. Perché altrimenti il cocktail che esce dalla paura genera solo razzismo e xenofobia».
BOSETTI: «Come maneggiare allora questa paura rispetto oggi alla situazione politica in Turchia?».
BELGE: «Bisogna buttare giù i muri, accrescere il dialogo e la comprensione fra paesi e realtà diverse. Quando accadono massacri in Egitto o in Gran Bretagna è molto facile per la gente generare nuovi elementi di instabilità. Se un gruppo di persone dice che uno scrittore deve essere ucciso per le sue idee, non si può avere rispetto per ciò che sostengono. Altrimenti resta solo il panico, il mondo come un inferno. In questo senso la Turchia può contribuire molto, perché qui l´Islam non ha mai tollerato l´intolleranza».
BURUMA: «Da quando ho affrontato questi argomenti in un libro sono stato accusato da una parte e dall´altra sulla questione islamica. Io identifico due tipi di paure. Una è quella in atto in molti paesi, e riguarda l´immigrazione da paesi musulmani. Ha a che fare con la globalizzazione economica e diverse altre ragioni. Penso alle persone che hanno visto i loro quartieri, i loro vicini cambiare. E in loro c´è un senso di tradimento. Credo che anche queste ragioni abbiano contribuito alla vittoria di Berlusconi alle ultime elezioni. L´altro tipo di ansietà concerne invece il cambiamento di persone provenienti da sinistra che sono andate a destra. Si dice che la società occidentale debba tentare un compromesso con la componente religiosa che la circonda. Quel che va fatto, secondo me, è tirare una linea: e la linea è la legge dei singoli paesi dove i cittadini vivono e che va rispettata».
FILALI-ANSARY: «Quello che succede adesso nei paesi europei, dove i musulmani arrivano sempre più numerosi, è la paura di un cambiamento totale. Come dice Habermas, ci possono essere diversi processi di apprendimento per fronteggiare questa situazione. Ci sono un sacco di potenzialità positive. Abbiamo tre esempi: l´Europa, gli Stati Uniti d´America, e l´India. Oppure esempi nel passato. Nessuno ha mai pensato al massacro di San Bartolomeo come a un massacro cristiano. E dovrebbe essere così. Molti massacri non dovrebbero essere collegati all´Islam. Di questo ne beneficeremmo tutti».
HABERMAS: Credo che dovremmo parlare in modo più politico di questi argomenti. Amato mi convince molto quando vedo un ex primo ministro che affronta temi simili. Credo che il primo obiettivo dovrebbe essere l´integrazione sociale. Perché ho la netta sensazione che il nazionalismo sfrutti questa situazione. E sono rimasto molto affascinato dalle cose dette anche da Buruma, la sua è un´analisi ottima. Alcuni studiosi islamici mi chiedono: che cosa dovremmo fare? Altri sostengono: dovremmo introdurre i principi del Corano. Ecco, siamo nel pieno di questa situazione».
BARBER: «Secondo me voi avete insistito un po´ sulla questione della paura. Io vorrei che fosse rilevato anche il tema della libertà di espressione. Molto spesso vedo parlare liberamente comunità anche minoritarie, o comunque persone in paesi dove si possono affermare tranquillamente le proprie idee. Ma penso che un vero atto di coraggio sia piuttosto quello di difendere la libertà di espressione, che ne so, a Riad. Questo è un aspetto cruciale dei nostri tempi».
AMATO: «L´aspettativa della gente quando c´è un crimine, è che la legge punisca i colpevoli senza tener conto delle ragioni religiose che l´hanno causato. Se parliamo più generalmente di quello che gli Stati dovrebbero fare, l´Europa guarda all´immigrazione come a un processo a due vie: includere gli ospiti in una sorta di interazione. Possiamo anche definirlo contaminazione. Il problema è che non si può praticare la sharia, la legge islamica, in paesi che ne sono contrari».
HABERMAS: «Diciamo che l´identità europea, infine, non perde la sua ragione per l´allargamento ad altri paesi, ma per la trasformazione delle nostre società. Io credo che l´integrazione delle comunità musulmane piuttosto aiuti questo processo. E quindi occorre varare politiche adeguate. Il ruolo della Turchia è essenziale: dobbiamo includere questi 70 milioni di musulmani democratici nel nostro frontiere? Questa è la domanda che dobbiamo porci. Io sono per il sì».

Corriere della Sera 4.6.08
I giudici dei bambini «Per noi errori vietati»
Il nodo: i rapporti con i servizi sociali
di Giuseppe Guastella


La giustizia minorile funziona abbastanza bene. Abbastanza, non completamente. Tra la sufficienza e l'ottimo c'è tutta la strada che ancora non è stata fatta fare ai servizi sociali per avvicinarli a quelli dei principali paesi europei, gli stessi che paradossalmente guardano all'Italia come a un modello da imitare.
Sarà anche banale dire che un paese che non investe più sui giovani non pensa al suo futuro. Quello che non si spende oggi per prevenire e correggere, lo si tirerà fuori decuplicato domani, quando i comportamenti a rischio si saranno trasformati in criminalità. Nonostante aumentino costantemente i procedimenti sui minori, la politica risponde diminuendo le risorse e lasciando nell'emergenza i servizi sociali, vero braccio operativo della magistratura per i minorenni. Con il risultato che sulla devianza e il disagio minorili si interviene più con la repressione che con la prevenzione. E non mancano gli errori che, seppur pochi rispetto alla massa, trovano un'eco formidabile e talvolta per ragioni contraddittorie. La conseguenza è che l'immagine dei giudici minorili è più quella di chi «porta via i bambini» ai genitori che di chi tenta, anche con passione, di risolvere problemi che possono compromettere l'equilibrio di un minorenne. Ed è così che, per ragioni contraddittorie, talvolta la giustizia minorile finisce in prima pagina, come per il caso di Basiglio.
Dei 9.054 magistrati in servizio in Italia, solo poco più di 300 sono giudici (195) o pubblici ministeri (107) nei tribunali per i minorenni. Con loro collaborano i giudici onorari, che sono specialisti in diverse discipline. Più grandi le città, maggiori le difficoltà: a Roma ci sono 15 giudici togati, uno ogni 531mila abitanti; a Milano sempre 15, ma uno per 417mila abitanti; a Napoli 16 giudici, uno per 290mila; in provincia la percentuale è di molto inferiore: a Trento sono 3 per 157mila, quasi quattro volte meno che a Roma.
In materia penale ci si occupa dei minorenni che commettono reati: aumentano le denunce (circa 40.000), ma si riducono le presenze nelle carceri minorili (circa 400). Il carcere è l'ultima possibilità e deve recuperare il minore. Perché il processo penale ha anche finalità educative da raggiungere e con strumenti specifici, come la messa alla prova che, secondo il dipartimento della giustizia, ha avuto risultati positivi nell'80% dei casi. Nel primo semestre 2007, per 10.174 minori sono state attivate azioni alternative dal servizio sociale, struttura ministeriale che opera su programmi che prevedono misure quali il collocamento in comunità e altri interventi risocializzanti.
Nel settore civile le competenze sono ben 55. Si va dagli interventi a tutela dei minori in condizioni di disagio a sostituire i genitori che non sono in grado di accudire i figli, dall'adottabilità ai matrimoni tra minori e ai figli che ne nascono. In città come Roma e Milano, ciascun giudice tratta ogni anno circa 600 fascicoli. Nel civile a lavorare sui ragazzi sono i servizi dei comuni, e non tutti garantiscono lo stesso standard qualitativo. Il punto è che i servizi sono oberati di lavoro. Tranne qualche eccezione a macchia di leopardo, la situazione in Italia non è florida. Pochi operatori, spesso con contratto a tempo determinato, devono spartirsi ampie fette di territorio dividendosi tra l'anziano depresso e il bambino a rischio. Il risultato è che i servizi, al di là dell'impegno dei singoli, non ce la fanno a coprire tutto con uguale professionalità e celerità. E quando questo riguarda i minori, un'errata analisi aggiunge danno a danno.
«Si parla tanto dei diritti di minori — spiega Piercarlo Pazè, 20 anni di magistratura minorile, direttore di rivista
Minori giustizia — ma tra il dire e il fare ce ne passa. I minori avrebbero bisogno di strutture dedicate, ma spesso i servizi devono occuparsi dell'emergenza». Franco Occhiogrosso, presidente del tribunale per i minori di Bari e del Centro di documentazione e analisi infanzia e adolescenza, dice che «è necessario un rapporto con servizi qualitativamente alti. Da Roma in giù sono inadeguati e insufficienti, percepiti più come controllori e ladri di bambini che come sostegno e aiuto».
Se «a Milano c'è il problema delle babygang, in Campania e al Sud c'è quello delle associazioni mafiose che assoldano i minori. Occorrono progetti mirati », spiega Paolo Giannino, presidente del tribunale per i minorenni di Salerno, il cui ufficio modello è stato premiato dal ministero della giustizia per aver realizzato 12 percorsi lavorativi, compresa l'apertura ai ragazzi di una biblioteca con 2.000 accessi l'anno.
La responsabilità di un'errata valutazione, magari basata su schemi preconcetti, dopo la quale ad esempio vengono tolti i bambini a una famiglia senza che sia necessario, non può essere addebitata agli assistenti sociali. È tutta del giudice e ancor di più di quello che si limita a fare da notaio alle indicazioni dei servizi. «Un giudice attento sa se un servizio risponde per schemi, se è prevenuto o no e sa muoversi di conseguenza — aggiunge Giannino —. Non abbiamo servizi specializzati su minori e famiglia. Qualcosa sta cambiando dove sono stati avviati i piani di zona previsti dalla legge».
L'intervento del giudice è sempre di emergenza, a volte anche su richiesta dei genitori. «Il punto è capire se la segnalazione che ha ricevuto è fondata — dice l'avvocato Grazia Cesaro, vice presidente della Camera minorile di Milano, cui aderiscono legali specializzati —. Gli errori sono pochi, ma quando ci sono sono la conseguenza di problemi macroscopici come segnalazioni incomplete, travisamenti degli insegnanti che non hanno ben compreso, bambini suggestionati. È un terreno di sabbie mobili».
«I nostri sbagli — sostiene Giannino — vengono percepiti come quelli del medico che lascia la pinza nel ventre del malato. Sono sempre gravi. Non bisogna dimenticare, però, che arriviamo a danno compiuto. Togliere i bambini è una misura di grande sofferenza per il giudice alla quale, nei casi non urgentissimi, si giunge con un percorso che coinvolge i genitori assistiti da un avvocato. Il giudice è un terzo che deve saper ascoltare». I giudici «cercano di prendere la decisione più giusta possibile per proteggere il minore. Il problema è come intervenire chiedendosi se si può ancora lavorare sulla famiglia o se sia inevitabile l'allontanamento del minore», aggiunge Occhiogrosso che non nasconde il rischio di giudici-notai: «Non dico che succede spesso, ma accade. Il nodo dei rapporti tra i servizi sociali e la giustizia è equivoco, perché le prove vengono assunte all'esterno della magistratura. In altri Stati i servizi sono parte del sistema giustizia ».
Operatori ed esperti individuano la soluzione per migliorare le cose nella creazione di un tribunale della famiglia che accorpi tutte le competenze sulla materia della giustizia minorile di quella ordinaria. «In Italia si parla tanto di famiglia — denuncia Occhiogrosso — è ora che si faccia qualcosa davvero».

Corriere della Sera 4.6.08
L'amore nell'inferno del Gulag
Lo «chalet» dove i prigionieri incontrano le mogli: l'abisso della degradazione
di Pierluigi Battista


Q uell'incredibile chalet sulla collina del lager siberiano è il luogo simbolico di ciò che rende radicalmente differente l'ultimo romanzo di Martin Amis, La casa degli incontri, ora tradotto e pubblicato da Einaudi, dai lugubri, veritieri, sconvolgenti resoconti dell'incubo concentrazionario stilati da Aleksandr Solgenitsin in Arcipelago Gulag e da Varlam Šalamov nei Racconti della Kolyma. La differenza è la specificità letteraria dell'opera di Amis. Non un saggio storico, ma la raffigurazione della condizione umana nel Gulag, uno degli abissi più profondi della storia umana del Novecento. L'orrore e l'abiezione decifrati attraverso una «casa degli incontri» dove si svolgono le più strazianti «visite coniugali» mai lette nella storia della letteratura, luogo di approdo di povere e cenciose mogli cui, attorno al 1956, veniva permesso di coprire in giorni e giorni di viaggio sfiancanti «distanze continentali» per raggiungere i mariti deportati. Una «casa degli incontri» che si trasformava, troppo spesso, in una spaventosa «casa degli addii ».
A differenza di Solgenitsin e di Šalamov, ovviamente, Amis non ha mai patito nella propria carne gli orrori del Gulag. C'è piuttosto da chiedersi perché, come mai, per effetto scaturito da quale profonda ragione culturale e psicologica, uno scrittore poco più che cinquantenne tra i più brillanti della sua generazione, un inglese moderno e di «tendenza», pieno di glamour, amato dai lettori più vicini a una sensibilità schiettamente metropolitana, autore con L'informazione di uno dei romanzi più rappresentativi di una nuova narrativa vivace e vigorosa, abbia scelto il Gulag come cornice storico-esistenziale della sua creatività letteraria.
Per comprenderne la logica, bisogna collegarsi a un libro di Amis come Koba il terribile, l'antefatto saggistico più prossimo a questo romanzo, in cui il tema dell'orrore comunista veniva tematizzato come grande mito negativo dell'immaginario contemporaneo. Ma anche lì la base documentaria non si limitava ai grandi classici della storia del terrore sovietico, e si nutriva, esibendo ancora una volta la peculiare stoffa letteraria dell'autore, di testi eccentrici, a cominciare dal conturbante epistolario tra l'esule russo Vladimir Nabokov e il critico leftist americano Edmund Wilson, o le conversazioni tra il padre di Martin, Kingsley Amis, e lo storico Robert Conquest. E questo intreccio di letteratura e conoscenza storica si conferma nei singolari «ringraziamenti » collocati alla fine della Casa degli incontri dove Martin Amis si riconosce grato debitore del «magistrale Gulag di Anne Applebaum, costruito con lucidità ed eleganza» o della Danza di Natasha, storia della cultura russa di Orlando Figes. Una lezione severa per gli scrittori che si affidano ingenuamente presuntuosi alla vena narcisistica della loro ispirazione: per scrivere di certe cose bisogna studiare, divorare montagne di libri, come fece Thomas Mann che si dedicò per anni a migliaia di volumi di esegesi biblica per affrontare la sua straordinaria tetralogia di Giuseppe e i suoi fratelli.
Studiando, Martin Amis non dimentica tuttavia di essere, primariamente, uno scrittore. La «casa degli incontri», allestita in un lager sovietico ancora mostruosamente attivo anche nell'anno della denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin, potrebbe significare un piccolo spiraglio di umanità nella disumanità assoluta del Gulag. In realtà misura l'approdo di una totale degradazione di sé dei «sottouomini» reclusi nel lager. Per raggiungere quella casa i deportati partivano «irriconoscibili, scorticati, gli abiti induriti non dalla sporcizia », come sempre, «ma dall'aggressività degli impietosi detergenti ». Però in quale pietosa condizione ritornavano da quei convegni, segreti e tollerati, con volti e corpi delle «mogli dei nemici del popolo», oramai dimenticati dopo anni di sofferenze indicibili? Barcollando «come larve e relitti giù per il fianco della collina». Uomini devastati dall'«anemia cronica» della deportazione e che «cercavano di essere sanguigni, ma avevano il sangue annacquato»: «quest'uomo ce l'ha scritto in faccia, ce l'ha scritto sul corpo che non ci è riuscito: la bocca sghemba, la molle fiacchezza delle membra». Un fallimento senza riscatto, emblema in cui «vedevi l'accumulo di problemi che ti aspettavano in libertà». Prigionieri a vita del loro incubo, che dopo quel breve e tremendo contatto con la vita perduta con il mondo lasciato da chissà quanto, si muravano «sotto un manto di solitudine». Del resto quella casa sulla collina non era forse troppo vicina «al doppio filo spinato che la circondava».
A sua figlia concepita in Occidente anni e anni dopo, alla figlia della libertà americana che come tutti i suoi coetanei sente e percepisce il Gulag alla stregua di una macchia lontana di una storia oramai finita, il protagonista del romanzo che dentro quell'inferno ha passato un pezzo decisivo della vita racconta con meticolosa precisione la gerarchia dell'orrore nei campi della schiavitù. Il regime schiavista instaurato nel Gulag (in cui la nozione di «lavori forzati» è troppo edulcorata per rendere lo stato di totale spossessamento di sé sofferto dai deportati schiavi) aveva una sua logica e un suo ordine mostruoso meticolosamente rispettato. C'erano, ai vertici della schiavitù, lo strato delle «cagne» e dei «bruti» che, in perenne stato di guerra civile, si contendevano il predominio del campo con seghe da tronchi e piedi di porco. Più giù i «porci», nel ruolo di vigilanti. E poi gli «urka», la feccia della delinquenza comune, esentata dal lavoro. E ancora, in una posizione intermedia tra la satrapia del terrore e l'abisso dei perduti: «le serpi», i delatori; «le sanguisughe », truffatori «borghesi». Alla base della piramide i «fascisti», oppositori, «nemici del popolo », i politici; e poi «le cavallette», i minorenni «figli illegittimi della rivoluzione»; e infine, giù nella polvere e nella melma più disgustosa, «i mangiamerda», i casi disperati che si «azzuffavano con un filo di forza per spartirsi escrementi e rifiuti».
Io, dice il protagonista, in questa società irreale e atroce, «ero un elemento socialmente estraneo, un politico, un fascista». Ma il «politico» deve aggiungere: «inutile dire che non ero un fascista. Ero comunista». Sarà pure «inutile», ma Martin Amis sente di dover insistere su questo dettaglio che testimonia l'assurdità del mondo rovesciato incarnatosi nel comunismo e nel Gulag. Un dettaglio che è il cuore di una vita vissuta e il nutrimento di una raffigurazione letteraria che smentisce il pregiudizio sull'irrappresentabilità estetica del totalitarismo moderno. La letteratura come chiave di lettura di un orribile mondo alla rovescia.
Confini
L'ultimo romanzo dello scrittore inglese— «La casa degli incontri» — descrive le più strazianti «visite coniugali» della letteratura.
E smentisce il pregiudizio sulla «non rappresentabilità » del totalitarismo moderno

Corriere della Sera 4.6.08
L'attacco del 1941
Perché Stalin non credeva all'azzardo di Hitler
di Giuseppe Galasso


In molti avvertirono Stalin dell'attacco di Hitler, e perfino della data: il 22 giugno 1941. Stalin non vi credette. L'attacco lo lasciò inebetito. Poi si riprese e grandeggiò fino alla vittoria. E come mai un uomo così scaltro e diffidente fu così imprudente? John Lukacs conferma i motivi già noti, ma mette l'accento sui due protagonisti. Stalin aveva rispetto e ammirazione per la Germania. E per Hitler? Lukacs suggerisce che Stalin lo ritenesse infido, ma attento alla realtà prima che all'ideologia (cioè, in fondo, simile a lui). Perciò fino all'ultimo l'attacco tedesco gli parve un assurdo, utile solo agli inglesi, di cui non si fidava come del bruto realismo che vedeva in Hitler, contro il quale non voleva essere «usato».
Sbagliava? Hitler scrisse a Mussolini, nota Lukacs, che quell'attacco, nato da «mesi di ansiosa riflessione e incessante logorio nervoso», era stato la «più difficile decisione » della sua vita. E forse ansia e logorio non gli diedero la lucidità necessaria. In ultimo («molto tardi») egli «rimuginava sulla ragione» dell'attacco all'Urss, «rimpiangendo invece il conflitto» con gli Usa, aperto per l'alleanza col Giappone, che non si era unito a lui contro Stalin, stringendo anzi coi sovietici un patto di non aggressione (analogo a quello russo-tedesco del 1939: i contrappassi della storia!). E ciò fa capire che Hitler errò non tanto nel valutare i russi e nell'aprirsi un secondo fronte, bensì nel non aver ben contestualizzato sul piano mondiale, perché riuscisse come voleva, l'attacco a Mosca.
JOHN LUKACS 22 giugno 1941. L'attacco alla Russia CORBACCIO PP. 184, € 16


EU-GENIO SCALFARI OUTING: IL MIO VIAGGIO ATTRAVERSO IL FASCISMO
“ESSERE STATO FASCISTA HA POI RESO SOLIDO IL MIO ANTIFASCISMO”
“IL SALUTO ROMANO SI FA IN UN SOLO MODO. S’AVANZA A PASSO MARZIALE…”
Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio


QUESTO COLLOQUIO
Questo colloquio nato da una recensione con richiesta d’intervista comincia con una telefonata. E’ l’Uomo che non credeva in Dio che parla: “Io ho smesso di essere fascista solo quando ne sono stato espulso, quando, appunto, fui messo fuori dal partito. E devo dire che ne ebbi un grande dispiacere. Fu un dolore inferto alla mia giovinezza vedermi strappare le stellette dalle spalline, una sconfitta che generò in me una profonda crisi”.

Eugenio Scalfari – fondatore de La Repubblica, erede della grande tradizione liberale e democratica de Il Mondo e de l’Espresso – è stato messo sull’avviso dagli amici più cari: “Non vorrai cadere nella stessa trappola in cui incappò Bobbio?”. Inutile dire che Norberto Bobbio, proprio su queste stesse pagine, non ebbe apparecchiata trappola alcuna.

Il filosofo stesso, infatti, il 14 novembre 1999, dunque due giorni dopo la pubblicazione dell’intervista dove confessava di essere stato fascista coi fascisti e antifascista con gli antifascisti (“Non ho parlato prima perché me ne ver-go-gna-vo”), mise la parola basta alle polemiche. Con un colonnino di prima pagina su La Stampa, Bobbio replicò ad un articolo di un incredulo e scandalizzato Gad Lerner confermando tutto – doppiezza compresa – e laureando altresì la correttezza dell’incontro avuto col Foglio.

Niente lacci, nessun trabocchetto: “E poi la tagliola dove eventualmente imbattermi“, ci dice Scalfari, “l’ho già messa io stesso tante di quelle volte da perderci il conto. Ho persino fatto pubblicare sul Venerdì di Repubblica la foto con mia madre dove io sono in orbace. Non me ne sono mai vergognato di quella giovinezza nei Guf (Gruppi universitari fascisti, ndr), anzi: tutto quel mio essere stato orgogliosamente fascista ha poi reso solido il mio antifascismo. Ho compreso sulla mia pelle quanto può essere efficace la mobilitazione del moderno partito di massa sulla cera molle della gioventù”.
Nessun calappio, niente inganno. Fine della telefonata.

L’INTERVISTA
Bisogna dire che Eugenio Scalfari è anche un uomo di spirito, l’imprinting c’è tutto e a vederlo col braccio levato, pur da seduto alla sua scrivania nell’ufficio a largo Fochetti (il regno da lui creato da dove oggi s’emana il gruppo editoriale L’Espresso-La Repubblica) l’effetto è strepitoso. “Il saluto romano si fa in un solo modo. Tanto per cominciare s’avanza a passo marziale, quasi un passo dell’oca, dopo di che si porta il palmo della mano aperta all’altezza degli occhi, ci s’irrigidisce e si battono i tacchi”. Eugenio Scalfari che s’impossessò del fascismo dei giovanissimi avrebbe ricevuto l’encomio da Achille Starace in persona: “Perdevamo mesi e mesi per imparare queste stronzate”.

Appuntamento a largo Fochetti, palazzo “Repubblica”, quello che per i taxi è via Cristoforo Colombo 90. Eugenio Scalfari che ha dedicato al fascismo un bellissimo capitolo del suo commovente romanzo autobiografico, “L’Uomo che non credeva in Dio” (Einaudi), non ha cancellato le tracce. Non ha vissuto la doppiezza né quel patto di rimozione collettiva cui, al contrario, la maggior parte dei “redenti” ha fatto affidamento per poi fabbricare la verginità democratica e antifascista.

Scalfari che accetta di raccontarci il suo viaggio attraverso l’Italia del Duce quando “quaranta milioni di fascisti scoprirono di essere antifascisti”, ci ricorda la polemica che nell’Italia ormai matura di democrazia investì Leopoldo Piccardi: “In una nota a margine di uno dei libri di Renzo De Felice si venne a sapere di una partecipazione di Piccardi nel 1936 ad un convegno sulla razza a Berlino. Con Piccardi c’era anche Giuliano Vassalli ma Leopoldo non ne aveva mai fatto parola di questo suo viaggio in Germania, lui era anche uno dei tre segretari del Partito Radicale (gli altri due erano Francesco Libonati e Arrigo Olivetti, una strana idea del verticismo, era previsto un solo vice segretario: io), insomma, divamparono le polemiche: cosa poteva aver fatto un Piccardi a Berlino?

Mario Pannunzio e Nicolò Carandini ne pretendevano le dimissioni ma Piccardi trovò al suo fianco Ernesto Rossi. E Rossi appunto – uno che l’antifascismo l’aveva attraversato nelle galere e non nel frondismo, uno che s’irritava quando Pannunzio e Carandini volevano accreditare il loro antifascismo solo perché facevano uso di fondini grigi nella grafica di Oggi, il loro giornale – chiuse le polemiche con un chiaro sbotto di impazienza: ma che volete tutti voi da Leopoldo, voi e i vostri fondini? Ma non state a rompere il cazzo!”.

Scalfari ride divertito alla reminiscenza: “Lo ricordo bene perché assistetti alla scena. Pannunzio e Carandini raccontavano ancora di quando ebbero la solidarietà – solidarietà clandestina, ben inteso – di Mario Missiroli per la chiusura del loro giornale. Era il 1938, io facevo ancora il liceo e Missiroli li consolava dicendo loro: ‘Vi hanno chiuso il giornale non per quello che avete scritto, ma per quello che non avete scritto’”.
Dovevano dunque fare l’elogio del Regime Pannunzio e Carandini, potevano scrivere tutto quello che volevano, potevano usare tutti i fondini grigi che preferivano, ma la vera pietra sopra tutto – ricorda oggi Scalfari – l’ha messa Ernesto Rossi: “Ma non venite adesso a rompermi il cazzo!”.

Il viaggio attraverso il fascismo di Eugenio Scalfari allora. “Faccio mio il titolo di Ruggero Zangrandi, è un’intestazione che ben s’aggrada al mio racconto… sempre…” – aggiunge con eleganza e sincero distacco il Direttore – ”…sempre che possa interessare a qualcuno questo ricordo. Sono solo i ricordi di un signore di ottantaquattro anni questi miei, ma ho l’abitudine di non aggiustarli, i ricordi. Almeno i miei ricordi io non li accomodo”.

Nessuna gabbia, solo ricordi. “…e dunque: nella memoria di quello che fu il gennaio del 1943, l’anno della mia espulsione dal partito, c’è il fascismo in mano ai giovanissimi. E’ quello degli Alicata, degli Ingrao, dei Guttuso, quello stesso dei ragazzi dei Littoriali e dei giornali del Guf. Un focolaio frondista il mondo del Guf dove se da un lato c’erano alcuni dei quali avevano posizioni esasperate nei toni per un ritorno al fascismo sociale – tipo Mario Tedeschi, il futuro direttore de Il Borghese – ce n’erano altri che, al contrario, si riconoscevano nel riformismo di Giuseppe Bottai.

A me piaceva molto questo ministro così intellettuale. Mi piaceva la sua rivista, Primato, mi coinvolgeva il dibattito culturale e quel fascismo era così in mano ai giovanissimi che io, appena diciottenne, potevo ingaggiare una virulenta polemica non con qualche sbarbatello, ma direttamente con il ras Roberto Farinacci il quale poi replicava ai miei articoli su La Gazzetta di Cremona. Chi volesse fare una ricerca in emeroteca troverebbe traccia di ciò”.

E’ un viaggio dentro la giovinezza quello che Scalfari ci offre: “Fu così che Bottai potè accorgersi di me, per via della mia controversia con Farinacci, altrimenti non avrebbe mai saputo della mia esistenza. Io scrivevo su Roma Fascista, il direttore era Ugo Indrio, e il capo redattore invece – non lo dimenticherò mai per via della singolare combinazione tra nome e cognome – era Regdo Scodro”.

Un viaggio per raccontare come Eugenio Scalfari dal fascismo ne venne espulso: “Fu in un breve periodo – saranno state due settimane – che in assenza dei due capi il giornale si faceva lo stesso, senza filtro professionale. E fu proprio in quell’intervallo d’anarchia che io, in prima pagina, piazzai due o tre neretti non firmati e perciò riconducibili all’orientamento della testata. Era la stagione del nascente quartiere dell’Eur, quella. La nazione intera attendeva ai preparativi per l’Esposizione, gli interessi sull’edificazione dell’intera area erano alti (poi venne la guerra, tutto finì, è vero, ma l’atmosfera allora era quella d’attesa), tutti guardavano alla realizzazione del nuovo modello urbanistico. Ebbene: io nei miei pezzi attaccavo i profittatori, accusavo i gerarchi e i loro prestanomi di fare sui movimenti d’acquisto ‘affari non chiari’. Fu questo ciò che scrissi in quei neretti, senza però fare nome e cognomi. Una generica e accalorata denuncia, pronunciata in nome della purezza ideologica”.

Il fascismo in mano ai giovanissimi. “Nessuno disse niente”, prosegue Scalfari nel suo racconto, “passò qualche giorno e dopo arrivò una telefonata a casa. Io abitavo a Roma a quel tempo, da mia nonna. Era una voce femminile che mi parlava alla cornetta: ‘E’ il fascista Eugenio Scalfari che ascolta?’. Emozionato mi qualificai, certo dissi, sono io. ‘Deve presentarsi domani a palazzo Littorio. Alle dieci’. Ero turbato dalla chiamata, ma ancor più della perentoria richiesta, da un preciso dettaglio che l’accompagnava. La voce femminile fu, infatti, categorica: ‘Il fascista Eugenio Scalfari deve presentarsi domani, alle dieci, a palazzo Littorio, in divisa’”.

In divisa dunque, l’uniforme dei giovanissimi padroni del fascismo. “Io adoravo la divisa. E fui meticoloso nella vestizione quel mattino. Era molto elegante la tenuta. Avevo la giacca – quella che al tempo si chiamava sahariana – i pantaloni grigio verde a sbuffo alto, gli stivali, le losanghe sulle spalle, idem sulle maniche, con le stelline, quindi il fazzoletto azzurro e la camicia nera naturalmente”. Forse c’è solo un errore nella descrizione che offre di sé Scalfari, non poteva più avere il fazzoletto azzurro dei balilla nell’età dei Guf ma è un dettaglio, questo, che può colpire i puristi, quegli stessi che però, davanti alla descrizione puntuale del saluto romano e del come si fa, da Scalfari devono proprio andare a lezione. “Il saluto romano si fa in un solo modo. Tanto per cominciare s’avanza a passo marziale, quasi un passo dell’oca, dopo di che si porta il palmo della mano aperta all’altezza degli occhi, ci s’irrigidisce e si battono i tacchi”.

L’imprinting c’è tutto, la cera molle della giovinezza s’è modellata su quella freschezza scanzonata e drammatica: “Credevamo che il mondo si fermasse alla nostra piccola serra. E noi eravamo le piante costrette a crescere in quel vivaio. Che ne potevamo sapere di quello che c’era fuori? Certo, c’erano i comunisti, ma erano tutti lontani dalla nostra patria. Tornavano di tanto in tanto per delle operazioni clandestine ma l’Italia vigilava su di loro, li puniva per come era giusto che fosse, e l’Italia che tornava grande al cospetto del mondo cantava con noi ragazzi “E se la Francia non è una troia, Nizza e Savoia c’ha da tornà…”.

Ce n’era un’altra. Faceva così e capita di cantarla ancora: E se l’Italia non è un bordello, col manganello si salverà. “Questa non la conosco”, ci dice Scalfari che ritorna al racconto di quella mattina a palazzo del Littorio: “E’ il palazzo bianco dopo il Foro Mussolini, la sede del Pnf (partito nazionale fascista, ndr) scelta prima di trasmigrare sulla stessa via alla Farnesina. Il segretario del partito a quel tempo era Aldo Vidussoni ma io ero stato chiamato per conferire con il vice segretario, Carlo Scorza (fondatore del Fascio di Lucca, estensore dell’ordine del giorno a favore del Duce il 25 luglio, ndr).

Quando arrivo nell’anticamera c’è Indrio che è già stato ricevuto. Mi viene incontro e mi sussurra: ‘C’è tempesta’. Emozionato, vengo introdotto nella stanza di Scorza, lo vedo seduto sulla scrivania e mi porto avanti scattando nel saluto romano. Lui mi ordina il riposo e quando solleva gli occhi, alza anche il suo capoccione mussoliniano dalle carte che stava leggendo, manovrando di matita rossa e blu con le sue larghe mani da squadrista. Sono i miei neretti pubblicati su Roma Fascista quelle carte.

Scorza sventaglia i fogli sotto il naso e mi chiede: ‘Li hai scritti tu, camerata?’. Scorza ha i polsi larghi quanto la coscia di un uomo, è un omone degno della sua fama di lottatore. ‘Però non li hai firmati…’aggiunge appoggiando l’incartamento sul tavolo. Quindi si leva dalla scrivania e mi viene di fronte: ‘Camerata, dammi i nomi di questi mascalzoni che lucrano sul lavoro dell’Italia proletaria e io li farò arrestare!’. Io non ho nomi da dargli, la mia leggerezza professionale non può trovare giustificazione alcuna, non posso neppure balbettare un si dice, un mi pare, un ‘è risaputo’ che Scorza comincia a urlare: “Sei un irresponsabile! Un calunniatore”. A un certo punto si ferma e mi chiede: ‘E poi perché non sei a Bir El Gobi?’. Bir El Gobi è un avamposto del deserto africano difeso dai ragazzi della Gil (la Gioventù italiana del Littorio, ndr). Io trovo la risposta più fessa, gli dico: ‘Veramente avrei il rinvio universitario…”.

Scorza allora mi prende per il petto e mi stringe acchiappandomi dalla bandoliera, dalla giacca, dalla camicia, insomma: da ogni cosa che avessi addosso dove potermi afferrare, lui mi agguanta. Mi solleva dal pavimento, mi tiene alzato e urla in faccia a me questo discorso: ‘Dovrei farti sbattere fuori dal partito ma Vidussoni ha conosciuto a Fiume tuo padre e perciò ti espello dal Guf’. Mi riporta a terra, mi strappa le mostrine e mi congeda: ‘Vattene e non farti vedere mai più’. Stupefatto che si espellesse un fascista esco da palazzo Littorio e torno a casa, preda di una crisi fortissima, disarmato.

Il mio silenzio viene violato da una prima telefonata. E’ Nelson Page (funzionario del Minculpop, ministero della cultura popolare, nel dopoguerra diventerà direttore de Lo Specchio, il Dagospia degli anni ’50) che mi chiama: ‘Sei il figlio di Pietro? E’ meglio che tu non faccia telefonate per un periodo, stattene buono”. Un’altra telefonata me la fa Nino D’Aroma, direttore de Il Giornale d’Italia. E’ un altro bottaiano e fa un’edizione di metà giornata, un quotidiano chiamato Il Piccolo. Mi offre di scrivere per questo giornali. Pezzi non firmati ovviamente”.

Un lungo viaggio di attraversamento del fascismo. E l’uscita. “Avevo diciotto anni e giorno dopo giorno prendo coscienza che forse avevano avuto ragione ad espellermi dal Guf. Forse non ero fascista. Mi costò tanto sforzo venirne fuori: uscii dal fascismo brancolando. Non sapevo nulla, certo, conoscevo Benedetto Croce perché pubblicava. Anche Montale, Ungaretti, Quasimodo. Tutti i poeti che stampavano i loro libri li conoscevo, così come i filosofi che dibattevano su Primato. Avevo cognizione di tutto ciò ma ignoravo Gobetti, Gramsci, i martiri uccisi dai sicari del regime. Non avevo idea su chi fosse Togliatti e non sapevo che farmene della decrepita Italia liberale smantellata dalla vera modernità di Mussolini – che non era non certo la terra redenta delle paludi pontine, ma la creazione del nuovo partito di massa. Niente era proibito ma una manipolazione della moltitudine ci isolava da tutto ciò che era isolabile. Ecco qual è il peccato mortale del regime, ecco perché ne ho ricavato una sorta di vaccino contro una malattia epidemica. Io sono come gli animali che avvertono i terremoti quando stanno per arrivare, io fiuto il fascismo quando sta per formarsi…”

A questo punto sarebbe stato perfetto chiedere quando e quante altre volte è stato sul punto di arrivare, tornare e sbucare il fascismo, ma le domande che non si fanno sono solo domande cretine, quelle sì che sono trappole, tagliole e calappi.
La parola ancora a Scalfari: “…ed essendo io una persona che ha sempre faticato nel conquistare un’autonomia non potevo consentirmi di sfuggire a me stesso. Aveva ragione Scorza: io non ero più un fascista”.

Dagospia 31 Maggio 2008

martedì 3 giugno 2008

l’Unità 3.6.08
Politica e religione. Il Pd, la Chiesa e la persona
di Livia Turco


Conviene ritornare sul tema del rapporto tra il sentimento religioso e la politica. Vorrei farlo a partire da una considerazione, svolta da Massimo D’Alema al seminario di ItalianiEuropei, secondo cui la destra avrebbe vinto perché la migliore interprete di quel che si muove nel fondo della società occidentale.
E perché capace di offrire una risposta che si basa sull’alleanza tra potere e religione. Questa affermazione, se collocata nel contesto della riflessione svolta, propone secondo me un terreno di discussione che va al di là del rapporto tra le gerarchie ecclesiastiche e la politica.
Propone una riflessione che riguarda il rapporto tra il sentimento religioso e il sentimento di solidarietà sociale, di spaesamento culturale e di paura rispetto al rischio di perdita dell’identità e del ruolo della nazione che investe l’Europa rispetto ai processi di globalizzazione. Di fronte a ciò il cattolicesimo per molti cittadini è vissuto come una risposta di ordine, di identità, di senso. Con la sua proposta di centralità della famiglia, di dignità della persona, di morale sessuale, di
dialogo tra interessi sociali diversi e di solidarietà.
Non è un fenomeno solo italiano. La religione torna alla ribalta della sfera pubblica internazionale anche per l’esigenza che c’è di valori sostantivi, di risorse simboliche, di istanze positive capaci di fondare il senso della presenza individuale e collettiva. Si potrebbe obiettare che non c’è nulla di nuovo in questa constatazione, dato che storicamente il cattolicesimo costituisce un ingrediente della nostra identità nazionale. Non è così. Non solo perché i processi di modernizzazione e secolarizzazione che hanno riguardato anche il nostro Paese avrebbero potuto portare ad una marginalizzazione e ad una perdita di influenza della Pastorale cattolica. E in effetti in taluni punti della morale spirituale il messaggio della gerarchie ecclesiastiche non ha un riscontro maggioritario nel Paese, come nel caso della legge 194. La novità risiede nella capacità della Chiesa di proporsi come portatrice di un ordine sociale e di un’identità nazionale. Una proposta non calata dall’alto o affidata solo alle prese di posizione o interferenze della gerarchia ma costruita attraverso un rapporto capillare nella società italiana e nella vita quotidiana delle persone. Una Chiesa popolare, tanto più attraverso il pluralismo del suo associazionismo, che tante volte riempie i vuoti delle istituzioni e della politica. Offre aiuto, presenza, conforto e senso. Questo riproporsi del cattolicesimo come religione civile nazionale è frutto di un lungo cammino che iniziò con il pontificato di Wojtyla e con la stagione del Cardinale Ruini che partì dall’intento di saldare i valori cattolici con l’identità nazionale. Una religione che incida nella vita nazionale, sintetizzata nell’affermazione di Giovanni Paolo II «I cattolici non devono essere solo il lievito della società ma impegnarsi direttamente nella testimonianza per il bene comune». Ma anche una religione che accetta la sfida della modernità e che l’affronta sul suo stesso terreno, quello della visione dell’uomo e della sua collocazione nel Mondo. È quella che viene chiamata la svolta antropologica. La Chiesa vede delinearsi un uomo nuovo, dotato di conoscenze tecniche senza precedenti, svincolato da qualsiasi autorità morale, portatore di un’etica relativista, edonista ed utilitaristica. Accompagnare quest’uomo moderno, proporgli un’autorità morale ed un ordine sociale dotato di senso è ciò che la Chiesa si propone. Con la convinzione che nel mondo cattolico vi sia un patrimonio di valori, di pensiero, di modelli di comportamento capace di rappresentare delle risorse irrinunciabili se si vuole tenere insieme il Paese e arricchire la convivenza sociale.
Il fatto nuovo di questi ultimi anni risiede nella diffusione di questa convinzione nel mondo laico e in quote crescenti di opinione pubblica, indipendentemente dal grado di adesione al cattolicesimo o a un altro credo religioso. È questo mutamento del cattolicesimo, che a sinistra abbiamo poco capito limitandoci ad una critica, talvolta difensiva, delle interferenze della Chiesa. Per esempio abbiamo poco discusso del documento preparatorio del centenario delle Settimane Sociali che ha il significativo titolo «Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano». Un tentativo efficace di proporre la Pastorale cattolica come ingrediente fondamentale per costruire una democrazia matura, da cui scaturisce una nuova e più impegnativa sfida per la politica e le istituzioni: la promozione del bene comune sollecita l’assunzione piena dell’etica della responsabilità dei diritti e dei doveri, valorizzando la dimensione relazione e della persona.
Ma c’è anche un rischio. In che misura la dimensione pubblica della religione e la sua ambizione a rispondere alla crisi dell’uomo moderno, non si trasformano, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, in tentazione di autosufficienza e di chiusura al dialogo? Di una supplenza all’intervento pubblico che, se risponde a problemi concreti, può configurasi anche come occupazione di spazi e di potere? Se è vero che il 14 aprile non c’è stato uno spostamento del voto cattolico a favore del centro destra, tuttavia questo proporsi della Chiesa e della Pastorale cattolica, come riserva etica del Paese e fattore di guida e rassicurazione, si è più facilmente incontrato con il posizionamento culturale del centro destra. Quest’ultimo ha raccolto, seppure in modo frammentario e incoerente, i temi etici e soprattutto ha assunto l’istanza secondo la quale la cultura giudaico-cristiana è fondamento di un rilancio dell’Europa nel Mondo. L’identificazione tra radice giudaico-cristiana dell’Europa e rilancio dell’Occidente per riaffermare il primato dei valori dell’Occidente sul Mondo. Questa operazione è molto chiara nel libro di Tremonti «La paura e la speranza».
Non credo che il pensiero cattolico sia compatto nell’equazione «radici giudaico-cristiane, primato dell’Occidente, autosufficienza dei valori dell’Occidente». Anche nella forte dimensione universalistica della Chiesa. Ma quella saldatura è elaborata da un centro destra che vuole dotarsi di una coerente cultura politica.
C’è un altro aspetto su cui porre l’attenzione. La perdita di autorevolezza della politica e la pratica, in senso riduttivo, della laicità, là dove essa ha rinunciato troppo spesso a proporsi come spazio di dialogo e reciproco riconoscimento per la costruzione di nuove sintesi. In questo contesto il rapporto tra gerarchie cattoliche e politica ha assunto tante volte la forma dello scambio tra interessi cattolici e potere politico. Ed è evidente la simpatia con cui le gerarchie ecclesiastiche e il Vaticano guardano alla nuova stagione del governo Berlusconi. La questione che sta di fronte al Pd è duplice. Promuovere una qualità nuova della politica che sia capace di essere utile ma anche amorevole e rassicurante.
Attraverso la relazione con le persone. Per questo è importante non solo il radicamento nel territorio ma la costruzione di una forte relazione con tutti i mondi vitali e associativi che operano nella società. L’altra è la qualità del nostro progetto che deve essere di governo della società e capace di elaborare un nuovo umanesimo. Che assuma la persona umana quale fine e mezzo dello sviluppo economico e sociale.
Un nuovo umanesimo che ritrovi linfa dall’universalismo dei valori europei e rilanci la funzione dell’Europa nel Mondo dimostrando che l’apertura può comportare nuove opportunità e anche nuove sicurezze.
Un nuovo umanesimo radicato nel rispetto e nella fiducia della persona umana e nella consapevolezza che attraverso l’esercizio della responsabilità si possa coniugare sviluppo scientifico e tecnologico e cultura del limite. Questo nuovo umanesimo non potrà che avvalersi anche del contributo delle religioni, in particolare del messaggio cristiano che è di un umanesimo radicale.

l’Unità 3.6.08
L'eia eia del tassista
di Bruno Ugolini
qui

Corriere della Sera 3.6.08
Un profilo estero che il governo fatica a far capire
di Massimo Franco


Diffidenza dietro le critiche Onu e Ue. E anche il Vaticano scende in campo

Il sospetto della Lega, per la quale l'Italia è trattata come uno Stato di «serie B» è legittimo. Le critiche prima dell'Ue, poi dell'Onu sulle misure che il governo sta prendendo contro l'immigrazione clandestina, sono indizi pesanti. Una parte del centrodestra tende a considerarle prove di una congiura ordita con il contributo dell'opposizione. Ma l'ipotesi non spiega abbastanza quanto sta accadendo. Né migliora un profilo internazionale del Paese, messo a rischio dai problemi che deve fronteggiare; ed almeno altrettanto dal modo in cui alcuni settori del Pdl presentano le soluzioni. Ieri, oltre tutto, anche il Vaticano ha ufficializzato le perplessità. Il segretario del «ministero dell'immigrazione» della Santa Sede, monsignor Agostino Marchetto, ha detto no alla prigione per gli immigrati che non vuole nemmeno chiamare clandestini, ma «irregolari»: una presa di posizione che come minimo indebolisce lo schema del complotto.
È più verosimile che stia emergendo tutta la difficoltà di far capire all'estero quanto è successo con le elezioni di aprile. Lungi dall'essere vista come un modello di democrazia semplificata, l'Italia oggi tende ad essere considerata «esemplare» in termini deteriori. L'alto commissario dell'Onu per i diritti umani, Louise Arbour, ieri a Ginevra ha detto proprio così. Alludendo agli «atteggiamenti xenofobi e intolleranti contro l'immigrazione irregolare e minoranze indesiderate», ha definito i provvedimenti presi di recente da palazzo Chigi come «esempi». I rappresentanti del nostro Paese hanno ricordato l'esistenza di quel reato anche altrove, in Europa. La Lega ha sottolineato il silenzio dell'Onu in altre circostanze. E la Farnesina ha definito «prematuro » il giudizio delle Nazioni Unite. Ma non è detto che sia sufficiente a fermare le polemiche.
Per ora prevale l'immagine di un'Italia bacchettata e messa in mora; osservata come focolaio di una deriva che potrebbe contagiare il resto del Vecchio Continente. Così, quando il ministro Roberto Calderoli chiede perché l'Onu critichi «solo noi», offre un elemento di riflessione alla stessa maggioranza. Porta a chiedersi se la polemica con le istituzioni internazionali e la difesa a oltranza del carcere per i clandestini, capeggiata da Lega e An, aiutino o affossino le misure. E pensare che al vertice della Fao che si inizia oggi a Roma il ministro degli Esteri, Franco Frattini, discuterà con francesi e spagnoli un «patto europeo» sull'immigrazione; e si prevede una sintonia fra le tre nazioni europee.
Forse, i guai nascono dal sovraccarico di emotività col quale la legge sulla sicurezza viene presentata. Si avverte un eccesso di voglia di resa dei conti che probabilmente risponde al mandato elettorale. Ma si scontra con la diffidenza, prima che con la legislazione europea. Preoccupa i custodi della cultura cattolica. E semina perplessità sulla sua efficacia pratica. «In Italia ci sono 700 mila clandestini », fa notare Rocco Buttiglione dell'Udc. «Vogliamo fare 700 mila processi e ingolfare la magistratura?». Per questo, l'opposizione chiede al governo di «ascoltare l'Onu ed il Vaticano». Difficile farlo, tuttavia, senza essere tacciati di marcia indietro, e senza deludere chi chiede ordine.
Si tratta di provvedimenti sui quali qualche contrasto probabilmente esiste nello stesso Pdl. Ma il centrodestra non si può dividere su uno dei temi-simbolo che l'hanno portato alla vittoria ed al potere. La legge «è davanti al Parlamento» si è limitato a commentare il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, in risposta alle critiche di Onu e Vaticano: come dire che saranno le Camere a decidere la forma che dovrà prendere il provvedimento. Dietro la cautela si avverte la preoccupazione per alcune sbavature che in prospettiva possono incrinare la luna di miele fra il centrodestra ed un pezzo del Paese. Ma soprattutto, rischiano di aumentare l'incomprensione fra la comunità internazionale e l'Italia; e di rendere tutto più difficile.

Corriere della Sera 3.6.08
Da sinistra. L'esponente del Prc: se passa lo sbarramento del 5% alle Europee mi incateno nuda a Montecitorio
Gagliardi: la nostra rinuncia alla piazza? E' un periodo di riflessione
di Roberto Zuccolini


La cosa più importante da capire è la terribile batosta elettorale che abbiamo subito
Rifondazione comunista in passato era una forza minore, ma mai minoritaria

ROMA — «Insomma, la gente non è mai contenta. Prima lanciano l'allarme sostenendo che, usciti dal Parlamento, avremmo invaso le piazze e poi si preoccupano se non andiamo alle manifestazioni». Sì, perché al corteo «no global-no discarica» di Chiaiano della sinistra radicale non si è vista l'ombra, fatta eccezione di Marco Rizzo (Pdci) e di Giovanni Russo Spena (Prc). E così Rina Gagliardi, militante storica di Rifondazione, non ci sta: «State tranquilli, in futuro in piazza ci andremo. Ma ora...».
Fuori dal Parlamento e dalle piazze?
«Beh, diciamo che ora non siamo tanto presenti perché si è aperto un periodo di riflessione.
C'è il congresso alle porte e tutti siano concentrati su altre cose. Però, attenzione: la riflessione non deve comunque inibire l'iniziativa o non si va da nessuna parte».
E si rischia di perdere il rapporto con la gente: a Chiaiano c'erano i no global ma non c'eravate voi.
«Sì, è vero: se si resta troppo tempo fermi si perde l'aggancio con la realtà».
Quindi manifestare contro la discarica o meglio disertare, magari per paura di essere contestati?
«Io ci sarei andata, ma solo se fossi stata di quella zona. Russo Spena che è di Acerra».
Perché solo in quel caso?
«Perché la rivolta dei rifiuti è una cosa complessa. C'è un elemento decisivo che noi della sinistra dobbiamo sostenere. Parlo del protagonismo della gente, di un'emergenza che non può essere gestita contro la popolazione. Però è anche vero che quella rivolta non risponde agli schemi classici delle nostre proteste: lì sono le comunità ad essere l'elemento chiave della contestazione, aggregazioni che comprendono cittadini di destra e di sinistra. E noi, a sinistra, abbiamo sempre giudicato la "voglia di comunità" come un fatto negativo. Ora dico, invece: riflettiamo su ciò che sta avvenendo».
Rifondazione sembra più presa dal duello Ferrero-Vendola.
«Al di là delle due diverse linee, la cosa più importante ora è capire le cause dalla terribile batosta elettorale che abbiamo subìto. Rifondazione in passato era una forza minore, ma mai minoritaria. Ora si è rotto questo meccanismo ed è in gioco l'esistenza stessa della sinistra politica. Certo, è un problema generale, vissuto a livello europeo, ma ciò dovrebbe spingerci ancora di più a reagire».
Anche perché manca un anno appena alle europee.
«E già. A proposito, se passa lo sbarramento del 5 per cento sono disposta ad incatenarmi nuda davanti a Montecitorio».

Corriere della Sera 3.6.08
L'Italia vista e giudicata dalla stampa straniera
risponde Sergio Romano


Credo che il problema della considerazione dell'Italia all'estero sia più complicato di un semplice bisticcio in famiglia tra Italia e Spagna.
Il fatto reale a cui nessuno accenna è che tutta l'opinione pubblica e i media europei della parte più avanzata del continente (Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Svizzera) dopo un primo momento di incredulità dopo il risultato delle elezioni di aprile, sono spaventati, e con le orecchie tese su quanto succede in Italia. E questo a prescindere dall'orientamento politico: vedi giornali non proprio comunisti come la Neue Zürcher Zeitung, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, Le Figaro, ecc. Tutti questi Paesi non possono comprendere come sia possibile rieleggere per la terza volta un premier tanto chiacchierato per i suoi trascorsi con la giustizia e il cui conflitto d'interessi con i media lo renderebbe non solo perdente ma neppure candidabile. Noi italiani conosciamo poco le lingue straniere e lo zapping televisivo serale non contempla Ard, Zdf, France1, Bbc ecc., altrimenti non ci si stupirebbe come ogni cosa che questo governo faccia o proponga sia passato sotto la lente d'ingrandimento e, quasi sempre criticato. Credo che la paura che anche questa volta l'Italia possa «esportare» qualcosa che l'Europa assolutamente non vuole induca i nostri cugini europei a vigilare più attentamente di qualche decennio fa.
Luigi Terracciano

Caro Terracciano,
Per molto tempo i collaboratori di Silvio Berlusconi hanno sostenuto che i giudizi dei giornali stranieri sull'Italia rispecchiavano soprattutto le prevenzioni e le frequentazioni sociali dei loro corrispondenti, molto disposti ad assorbire le opinioni della sinistra e poco inclini ad ascoltare quelle della destra. Avevano ragione soltanto in piccola parte. I motivi della diffidenza sono altri e più sostanziali. La prima è certamente l'ambiguità di un presidente del Consiglio che non ha mai smesso di essere contemporaneamente politico e imprenditore. Era impossibile ignorare che la legge sul sistema delle telecomunicazioni, approvata all'epoca del governo Berlusconi, tiene conto degli interessi delle sue aziende. Ed era impossibile nascondere ai propri lettori che buona parte delle leggi approvate dal Parlamento in materia di reati e procedure era destinata a risolvere o mitigare i problemi giudiziari del presidente del Consiglio. Non è normale che il leader di un partito porti con sé in Parlamento i suoi avvocati. E non è normale che debba impiegare una parte considerevole del suo tempo a difendersi da una molteplicità di azioni giudiziarie. I corrispondenti stranieri avrebbero dovuto capire che nella situazione italiana vi erano altre anomalie, fra cui le ambizioni e gli sconfinamenti di una parte della magistratura inquirente. Ma il «caso Berlusconi» faceva notizia più di un sofisticato approfondimento sulle particolari vicende storiche della penisola dopo la fine della guerra fredda.
La seconda ragione della diffidenza della stampa straniera è la Lega. Chi ha seguito la parabola di Umberto Bossi e del suo movimento negli ultimi vent'anni sa che la Lega Nord parla il linguaggio dei bar, degli stadi, delle chiacchiere di paese, ma può dare prova, soprattutto nei Comuni, di un certo solido buon senso. Ogniqualvolta ho cercato di spiegarlo a un interlocutore straniero, tuttavia mi sono accorto di essere guardato con una certa paziente incredulità. Per uno straniero che prende le parole sul serio è difficile intravedere il «buon senso» in discorsi in cui si parla di fucili, disobbedienza fiscale, caccia all'immigrato e maiali che pascolano sul sito di una futura moschea.
La terza ragione è la presenza nella coalizione berlusconiana di un partito «postfascista ». Credo che qualche corrispondente straniero abbia obbedito a una sorta di riflesso automatico e non abbia capito l'utilità per il Paese dell'operazione politica di Gianfranco Fini. Ma esisteva anche in questo caso un'anomalia italiana a cui la stampa straniera non poteva essere indifferente.
Vi è un punto, tuttavia, su cui i critici dell'Italia, come i vecchi generali, fanno la guerra del passato anziché quella del futuro. Non sarà l'Italia, questa volta, a esportare, il morbo di una nuova patologia politica. Siamo una democrazia imperfetta, esposta alle lusinghe del populismo di destra e di sinistra. Ma gli anticorpi assorbiti nel corso del Novecento ci proteggono dalle ricadute.

Corriere della Sera 3.6.08
Scenari Un libro dello scienziato, edito da Mondadori, riapre il dibattito sugli obiettivi della crescente industrializzazione: profitto o miglioramento della vita
L'illusione del capitalismo eterno
Effetto serra e benessere: Severino replica all'«ambientalista scettico» Lomborg
di Emanuele Severino


Dopo la fine dell'Unione Sovietica è divenuta dominante — sebbene da qualche tempo discussa — la convinzione che il capitalismo sia la forma sociale ormai incontrastabile. Molte le conferme. Ad esempio il fatto che l'unica «superpotenza » mondiale rimasta in campo, gli Usa, sia insieme il luogo per eccellenza dello sviluppo capitalistico. Oppure la paradossale adozione del capitalismo da parte della stessa Cina «comunista». O, anche, la consapevolezza che il supporto teorico del socialismo reale, cioè il marxismo, appartenga ormai al passato dell'indagine filosofica ed economica. È una conferma di questo modo di pensare la stessa mobilitazione contro il capitalismo da parte delle forze che ne sentono l'incombere, tra le quali l'Islam, la Chiesa cattolica, i movimenti ecologici e «di sinistra» che vedono nel capitalismo il principale responsabile della devastazione della Terra.
Che ciò sia scientificamente provato è però tutt'altro che pacifico. Anzi, quanto più i mass media, i politici, gli ambientalisti vanno da qualche tempo additando all'opinione pubblica il pericolo di una catastrofe imminente, provocata dalla crescente industrializzazione, tanto più la scienza ufficiale tende a scagionare quest'ultima da tale responsabilità. Esempio notevole di questa tendenza il libro dello scienziato danese Bjorn Lomborg, che Mondadori ha appena pubblicato con il titolo Stiamo freschi. Perché non dobbiamo preoccuparci troppo del riscaldamento globale. Chiaro, compatto, impressionante per la mole e la qualità delle informazioni. Se non erro, l'autore non usa mai la parola «capitalismo», ma si preoccupa di dissipare il sospetto che egli scriva per conto di qualche multinazionale del petrolio. La sua tesi di fondo è, cioè, che l'accusa al capitalismo di devastare la Terra e il conseguente proposito di detronizzarlo non abbiano alcun fondamento scientifico.
Da più di trent'anni i miei scritti sviluppano invece la tesi che anche il capitalismo è destinato al tramonto, come lo era il socialismo reale e come lo sono tutte le altre grandi forze della tradizione occidentale (e orientale). In Declino del capitalismo (Rizzoli, 1993) rilevo che anche supponendo che il carattere distruttivo del capitalismo non abbia alcun riscontro scientifico, anche in questo caso la convinzione dell'esistenza di questa distruttività sta però vistosamente diffondendosi (né Lomborg lo nega, anzi lo depreca vivacemente), e a tal punto da prender piede all'interno dello stesso mondo capitalistico, tanto da indurlo a cambiar strada e, alla fine, a rinunciare a se stesso. Il maggior nemico del capitalismo è il capitalismo stesso, non i suoi avversari dichiarati. Ma Lomborg ritiene, insieme a tanti altri, che la scienza possa aver partita vinta sull'«oscurantismo» (e si dà in molti modi da fare per fargliela vincere); il che implica che, contrariamente a quanto sostengo, non vi sia alcuna destinazione del capitalismo al tramonto. E allora?
Egli mostra in modo persuasivo i gravi pericoli del fatto che a livello mondiale l'unica iniziativa politica per ridurre il riscaldamento del Pianeta sia il protocollo di Kyoto (1997), che sarà probabilmente rinnovato tra pochi anni. Esso stabilisce che tra il 2008 e il 2012 i Paesi industriali riducano del 20 per cento le emissioni di anidride carbonica. Lomborg mostra dettagliatamente che, qualora sia attuata per tutto il XXI secolo, l'applicazione del protocollo avrà un costo elevatissimo e un'efficacia molto bassa, cioè una riduzione molto bassa delle morti dovute al riscaldamento globale, un pericolo peraltro certamente sempre più grave. Molto bassa, tale riduzione, in rapporto al numero delle vittime della fame, della povertà, delle malattie, del freddo: «problemi ben più urgenti», questi, che però possono essere affrontati «con una spesa più bassa e probabilità di successo molto più elevate di quelle offerte dalle severe politiche climatiche, che hanno un costo di miliardi e miliardi di dollari». Evitando questo esborso irrazionale, l'umanità può dotarsi delle tecnologie specifiche capaci di ridurre il riscaldamento del pianeta, ma non promosse dal protocollo di Kyoto. Alla base di tutto il discorso di Lomborg sta infatti la tesi che «l'obiettivo finale non è la riduzione dei gas serra o del riscaldamento globale in sé, ma il miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente» e che la condizione fondamentale per realizzare questo obiettivo è costituita dalla tecnica.
Ma, quando il discorso è impostato in questo modo, la convinzione di proporre soluzioni che, sebbene più razionali, si muovano pur sempre all'interno dell'orizzonte della produzione capitalistica è un'illusione. Lomborg la coltiva. L'«obiettivo finale» di ogni forma di capitalismo, infatti, non è «il miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente», non è il benessere dell'umanità, ma è la crescita indefinita del profitto, anche se, per ottenerla, la produzione capitalistica deve portare sul mercato merci che diano o che i consumatori ritengano che diano benessere e miglioramento della qualità della vita e dell'ambiente. Ma — eccoci al punto decisivo — se si agisce affinché l'«obiettivo finale» della produzione e distribuzione capitalistica delle risorse sia il benessere dell'umanità, si agisce per far diventare il capitalismo qualcosa di diverso da ciò che esso è, ossia si agisce per distruggerlo. Si agisce così anche quando non si è consapevoli di ciò che propriamente si sta facendo, come accade ad esempio alla Chiesa cattolica quando sollecita il capitalismo ad assumere come obiettivo finale il «bene comune» della società. (Si agisce così anche quando, seguendo la Chiesa, ci si oppone, come ha fatto Giulio Tremonti anche qualche giorno fa sul Corriere, all' «idea del primato del mercato su ogni altra forma sociale»; o quando si limita questo primato auspicando, come mi sembra abbia fatto più volte Mario Monti, che l'«obiettivo» costituito dalla capacità di competere con gli altri Paesi industrializzati sia affiancato, almeno in Italia, dagli «obiettivi di solidarietà»).
Si agisce così, perché nell'agire umano un'azione o un sistema di azioni sono ciò che esse sono proprio in virtù dell'obiettivo che esse si propongono; sì che, se quest'ultimo viene cambiato — e, nella fattispecie, ci si adopera affinchè l'obiettivo del capitalismo sia il benessere dell'uomo o il «bene comune», e quindi il mercato non abbia più il «primato sulle altre forme sociali» —, tali azioni restano distrutte e ci si trova davanti ad azioni diverse, anche se vengono chiamate con i vecchi nomi e si crede che quelle di prima siano ancora in vita.
Questo discorso vale anche per Lomborg, che affida alla tecnica e alle energie alternative il compito di evitare che la produzione capitalistica, lasciata a se stessa, distrugga la Terra. Anch'egli si adopera quindi per un «capitalismo» che abbia come obiettivo finale il benessere dell'uomo e, insieme, la condizione ormai imprescindibile per la realizzazione di tale benessere, cioè lo sviluppo tecnologico. Anche qui, si assegna cioè al «capitalismo» un obiettivo diverso da quello che fa vivere il capitalismo vero e proprio: anche qui si mira, senza rendersene conto, alla distruzione del capitalismo. O anche, se — e poiché — il capitalismo dà ascolto a questo tipo di sollecitazione, è esso stesso a cambiar strada, a rinunciare a se stesso.
Anche accettando la tesi di Lomborg che la scienza ridimensiona fortemente il carattere distruttivo della produzione capitalistica, questa tesi non è dunque una smentita di quel «declino del capitalismo» che da parte mia vado sostenendo, non è una smentita della destinazione del capitalismo al tramonto. E riconoscendo che, su questa Terra, al nostro «obiettivo finale» appartiene lo sviluppo tecnologico, quindi l'eliminazione dei limiti che lo frenano, si riconosce che il tramonto del capitalismo (e di ogni altra forma della tradizione) è la stessa destinazione del mondo a un nuovo «primato »: quello della tecnica.

Corriere della Sera 3.6.08
È morto a 98 anni un intellettuale simbolo della Mitteleuropa e della lotta al totalitarismo
Fejtö, il Montanelli d'Ungheria
Scrittore e giornalista, difese la libertà nella rivolta del 1956
di Dario Fertilio


L'uomo che visse cinque volte, l'intellettuale ungherese François Fejtö, alla fine ha trovato un posto dove fermarsi. Ma non è la Francia, dove è morto e verrà sepolto a conclusione di un esilio durato più di metà della sua vita; e neppure l'Ungheria, dove era nato nel 1909, in una cittadina chiamata Nagykanizsa, il luogo in cui la sua famiglia di origine ebraica lo aveva fatto battezzare. La patria ideale in cui «il Montanelli d'Ungheria» viene accolto ora con tutti gli onori non ha confini precisi, è soltanto una Stimmung, una risonanza spirituale che si prova per certi luoghi e alcune persone, una nostalgia invincibile per il tempo perduto e irrecuperabile in cui si è nati, insomma quell'entità incerta che molti chiamano ancora Mitteleuropa.
François, o Ferenc come suonava il suo nome ungherese prima che lui si decidesse a francesizzarlo, incarnava nei complessi intrecci del suo albero genealogico, prima ancora che con la sua capacità di esprimersi contemporaneamente in cinque o sei lingue, spesso balzando dall'una all'altra per spiegarsi con maggiore efficacia, la mescolanza fra le varie dimensioni nazionali e culturali del Centro Europa. Le ramificazioni dei Fejtö, come quelle dei parenti di François sul versante materno, collegavano tra loro stuoli di fratelli e sorelle, zie, nipoti, cugini, generi e nuore, amici e generici affini, sparsi in un'area compresa tra il Friuli, la Croazia, l'Ungheria, l'Austria, la Boemia e naturalmente la Francia, prescindendo allegramente dalle frontiere ufficiali degli Stati, ma sempre attente a comprendere e rispettare le specificità nazionali.
La prima vita di François Fejtö è stata dunque vissuta in Ungheria, benché già il luogo di nascita, con quel nome impronunciabile, Nagykanizsa, sembrasse annunciare con la sua vicinanza alla Croazia il destino sovrannazionale della famiglia. In una singolare mescolanza letteraria, il ragazzo Ferenc impara allora a conoscere nella biblioteca paterna I ragazzi della via Pál e Cuore, il soldato Nemecek di Molnár e il tamburino sardo di De Amicis. Più tardi, studente e poi professore all'università di Budapest, appassionatamente antifascista e antistalinista, decide di sperimentare la sua seconda esistenza: fonda con il poeta Attila Jószef, grande maledetto dalla vita breve e intensa, una rivista destinata ad essere presto soppressa; sperimenta la prigione durante il regime parafascista di Horty; avvia una carriera di giornalista socialdemocratico che gli costa anche il carcere.
Quando si presenta l'occasione, preferisce trasferirsi come corrispondente a Parigi, e qui comincia a prender corpo il terzo Fejtö, più vicino al ritratto che poi si sarebbe diffuso di lui in Occidente: infiammabile e ribelle, ammiratore del Sartre intellettuale, ma poi avversario di quello filocomunista, in fuga dalle truppe di Hitler quando esse sfondano le linee francesi avvicinandosi alla capitale. L'entrata in campo del quarto Fejtö coincide invece con il ritorno a Parigi, quando decide di scrivere in francese quella Storia delle democrazie popolari che avrebbe completato mezzo secolo più tardi, sulle ceneri del comunismo.
La storia, però, negli anni immediatamente successivi, teneva in serbo altre brutte sorprese per Fejtö: la sua Ungheria comunistizzata, poi tragicamente ribelle nel '56 (è in quei giorni terribili che si stabiliscono i primi rapporti con il grande coetaneo Montanelli, destinati a trasformarsi in amicizia e solidarietà quasi vent'anni dopo, nel '74, quando per iniziativa di Enzo Bettiza accetta di entrare nell'ufficio parigino del nascente
Giornale, diventandone immediatamente una delle bandiere). Fejtö interpreta quegli avvenimenti, come succederà più tardi per la Primavera di Praga, come l'esplosione e la distruzione di un mondo civile di fronte alla barbarie e al male impersonato diabolicamente da Stalin (giudicato il più grande criminale del Novecento, per aver portato a compimento i progetti soltanto avviati dal suo rivale Adolf Hitler). Come sarebbe stato possibile evitare una simile tragedia lo spiegherà nel '96, con l'opera destinata a diventare probabilmente la sua più famosa: Requiem per un impero defunto. Un'alleanza o federazione che avesse recuperato l'eredità dell'Austria-Ungheria, sottraendo i Paesi mitteleuropei alla cortina di ferro — è la sua tesi — sarebbe stata possibile se le potenze vincitrici della Grande Guerra, Francia in testa, non avessero congiurato in senso contrario. E su questo punto, con alcune interpretazioni originali della tragedia del principe Rodolfo d'Asburgo e di Maria Vetsera a Mayerling, avrebbe continuato a battere ancora in anni recenti attraverso la grande stampa europea, comprese le colonne del Corriere.
Resta da tratteggiare la quinta, ultima vita del grande vecchio, ancora caustica nei giudizi (celebre quello che bolla i seguaci dogmatici di Darwin e di Freud come nuovi integralisti, o la difesa appassionata di Silone da coloro che lo accusavano di essere stato doppiogiochista e legato al regime di Mussolini), ma anche rivolta in modo struggente, e senza più usare il velo dello storico, ai ricordi della sua infanzia e giovinezza. Le pagine riviste e pubblicate di recente, e dedicate alla madre perduta, alle filastrocche che lei gli raccontava per addormentarlo, ai ricordi di famiglia usciti da una vecchia scatola e ancora capaci di evocare un mondo scomparso, segnano come un ricongiungimento simbolico con le sue origini. Più ancora della sua gloriosa biblioteca raccolta per iniziativa della famiglia Károlyi nel castello restaurato di Fehérvárcsurgó, a ottanta chilometri da Budapest, è a quel passato che negli ultimi tempi significativamente ha voluto ritornare. E forse in particolare a quei versi infantili in tedesco che la madre continuava a ripetergli per farlo addormentare, liberandolo dagli incubi: « Müde bin Ich/ gehe zur Ruh/ schließe meine Augen zu » («Sono stanco/ vado a riposare/ e chiudere gli occhi»).

Agi 2.6.08
Sinistra: Fausto Bertinotti e la sfida. Il socialismo del 21° secolo

(AGI) - Roma, 2 giu. - Un anno fa, dall'Auditorium di Roma dove presentava il primo numero di 'Alternative per il Socialismo', lancio' la sfida politica e culturale del 'Socialismo del 21° secolo' davanti al rischio, per la sinistra, di essere spazzata via dalla scena: il 'tornado' del 13 e 14 aprile ha puntualmente confermato quel timore. Ora, il 12 giugno, torna a dire la sua sulla debacle elettorale, sul Congresso del Prc, sul futuro. Cosi' l'ex-Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, rompe il silenzio e, dopo due mesi di analisi e riflessioni sul voto, ritorna in pubblico a dire la sua e confrontarsi con altri pezzi della sinistra: Sd, la sinistra del Pd, i Verdi. L'appuntamento e' al Centro Congressi di Via dei Frentani a Roma. "Finalmente si comincia a discutere, capire perche' abbiamo perso, perche' la sinistra e' stata schiantata e finalmente si riporta la Politica al suo giusto posto: non la struttura e la strumentazione dei gruppi dirigenti ma quali le fondamenta sia politiche che culturali per una forza che sia di alternativa", spiega l'ex-senatore del Prc, Salvatore Bonadonna per il quale "la sfida lanciata un anno fa, una mossa del cavallo, continua: o la sinistra fa, costruisce una massa critica o muore nel ritagliarsi ruoli minimali". Insomma, non demorde Bertinotti: difronte ad una 'disfatta' mai accaduta nella lunga storia centenaria della sinistra, non esser rappresentata in Parlamento, rilancia e lo fa proseguendo soprattutto sul terreno culturale. "Lo aveva detto: dedichero' il mio tempo a ricostruire l'egemonia culturale o meglio a fare cultura propria. E' stato di parola", aggiunge l'ex-deputato del Prc, Maurizio Zipponi. "Si e' ripreso dal botto - precisa - che e' stato fragoroso ed enorme: lo ha fatto con grande serenita', con una dimensione di pacatezza e riflessione attenta, molto importante per bypassare un momento per nulla facile". Una giornata, il 12 giugno, dedicata all'analisi del voto e alle prospettive future, poi il confronto con altri pezzi della sinistra ed infine un confronto interno seminariale. L'analisi e la riflessione sul voto la fara' proprio Bertinotti sulla scorta del numero di meta' luglio di 'Alternative per il Socialismo' che annovera olòtre l'editorale di Bertinotti, interventi di Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Marco Revelli, Alfonso Gianni, Lea Melandri, Ritanna Armeni, Francesco Garibaldo. "Ci ha provato in tutti i modi ad indicare, a suggerire un percorso nuovo per la sinistra - conclude Bonadonna - purtroppo una grande operazione politica e culturale si e' ridotta ad un cartello elettorale, incapace di rappresentare una prospettiva politica seria e credibile: si riparte, si ricomincia da un anno fa, dall'Auditorium". In altre parole, Bertinotti si e' trovato a 'fare' campagna elettorale da 'solo', neanche il suo nome e cognome sul simbolo 'Sinistra Arcobaleno', senza cioe' uno schieramento alle spalle: questo si e' ben visto nei giorni di campagna elettorale a Roma chiusa, a Piazza Navona, con un duetto con il comico Vergassola. "Senza di lui, la Sinistra avrebbe preso l'1%", ha detto poi Gabriele La Porta. (AGI) Pat

Asca 30.5.08
Sinistra: Bertinotti rilancia la sua rivista con un seminario sul voto d'aprile

Roma, 30 mag - Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera ed ex segretario di Rifondazione, rompe il suo riserbo dopo l'esito delle elezioni del 13 e 14 aprile. "Alternative per il socialismo", la rivista bimestrale di cui è direttore, ha infatti indetto per il prossimo 12 giugno, presso il Centro congressi di via Frentani a Roma, una giornata di studio in occasione del numero in uscita nel mese di luglio. Sarà lo stesso Bertinotti a introdurre la discussione con una comunicazione su "Le ragioni di una sconfitta", leit-motiv su cui ruoterà l'intero numero della rivista. Ma non si tratterà di una iniziativa alla quale parteciperanno solo i redattori e i collaboratori della rivista. È infatti previsto il coinvolgimento nella discussione di molti esponenti della sinistra e di alcuni dirigenti del Pd. L'obiettivo dell'iniziativa, che non ha però il proposito di indicare possibili terreni di lavoro politico immediato, è piuttosto quello di avviare una ricerca in profondità sulle cause della sconfitta dell'ex Sinistra-Arcobaleno (in questa legislatura non ha rappresentanza parlamentare) e dell'ex centrosinistra che si raccoglieva intorno all'Unione appoggiando il governo Prodi. Da qui l'interesse per ciò che dirà Bertinotti, che dopo aver guidato la campagna elettorale di Sinistra-Arcobaleno non ha partecipato ad alcuna iniziativa pubblica. Con la giornata di studio del 12 giugno, "Alternative per il socialismo" ha infatti intenzione di inaugurare una seconda fase della sua attività. La rivista, nata due anni fa, ha evitato fin qui di farsi promotrice di iniziative culturali e politiche che accompagnassero l'uscita dei propri numeri. Dopo le elezioni dello scorso aprile, il bimestrale ha deciso di accentuare il suo ruolo di luogo di discussione e di ricerca potendo contare sull'impegno a tempo pieno di Bertinotti. Sul numero della rivista in uscita a luglio, oltre a un lungo editoriale dello stesso Bertinotti, sono previsti interventi di Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Marco Revelli, Franco Russo, Francesco Garibaldo, Ritanna Armeni, Alfonso Gianni e Lea Meandri.
(l'Auditorium del Centro congressi di via Frentani può ospitare oltre 400 persone)

il Riformista 3.6.08
Conversazione tra Filippo La Porta e il sociologo americano sul movimento e la nostra civiltà
Il vero '68 fu rivolta e riforme, non rivoluzione
Todd Gitlin contro gli eccessi. Il concetto di patria può essere «progressista», senza degenerare nel nazionalismo. Degli anni 60, di cui fu protagonista, critica le derive egoistiche e anti-autoritarie. Oggi, l'Occidente vive una naturale fase auto-contraddittoria


Pubblichiamo la trascrizione di un incontro avvenuto tra Gitlin e il critico letterario italiano Filippo La Porta all'ambasciata americana a Roma.

Filippo La Porta - «Nel 2003 hai scritto Letters to a young activist , in cui spieghi a un giovane militante di oggi in che modo la "rivolta" deve evitare di diventare "rivoluzione" (ed essere dunque violenta, dispotica, ideologica, etc.). Forse il Sessantotto migliore - più utopico, libertario, etc. - è stato quello vicino alla rivolta e non alla rivoluzione. Perché un giovane dovrebbe rivoltarsi contro l'ordine esistente?».
Todd Gitlin - «Penso che le ragioni fondamentali siano molto diverse rispetto a quelle del 1968. Direi che nel 1968 c'è stato un misto di rivolta culturale e protesta politica, di riforma e, in qualche caso, di rivoluzione. Ma la rivoluzione è stata uno sbaglio, contrariamente alla rivolta ed alla riforma. Oggi, credo che il motivo principale alla base di una rivolta sia politico. Il principio del libero arbitrio del 1960, l'anti-autoritarismo, ha avuto successo. Il risultato è stato che nella nostra cultura non c'è nulla contro cui rivoltarsi: puoi fare ciò che ti pare. Vuoi registrare pornografia? Vai su Internet e lo fai. Ma personalmente, ritengo che oggi la cosa importante della rivolta, che non è stata perpetrata con efficacia, consista nell'opporsi all'usurpazione del potere da parte delle autorità che non rispettano la libertà americana, che non rispettano la nostra tradizione di solidarietà ed uguaglianza, e che hanno tanto danneggiato il nome dell'America nel mondo. Pertanto, l'insistenza nell'entrare in guerra quando sentiamo di doverlo fare, e la rapidità con cui lo facciamo, come pure quella sorta di "resistenza" al resto del mondo, sono secondo me atteggiamenti che devono essere eliminati. Tutto questo costituisce il punto essenziale su cui concentrare le energie per una giusta rivolta, anche se vediamo la cosa in modo frammentario, non nella sua interezza (e anche questo non è necessariamente un male). Quando la rivolta è eccessivamente legata a motivazioni troppo egoistiche e troppo automatiche, ha la tendenza a trasformarsi in una specie di nichilismo auto-distruttivo ed auto-annichilente. Ed è pericoloso».

Occidente. Filippo La Porta - «Susan Sontag ha detto che le torture di Abu Ghraib sono la sintesi dell'Occidente: pornografia, violenza, voyeurismo. Ma l'Occidente è anche altro. Forse esiste un Occidente dei valori diverso da quello reale (così come si credeva all'esistenza di un socialismo dei valori e di un socialismo uno reale)? Ma non sarà, come per il socialismo, che esiste solo l'Occidente reale?».
Todd Gitlin - «L'Occidente è uno spirito immenso, complicato e auto-contraddittorio, non è un luogo, non è un'idea, è un insieme di idee, e tra queste vi sono principi di mutualità, reciprocità, un umanesimo che dà valore all'esperienza umana, una certa tolleranza per la diversità ed una certa convinzione che il miglioramento umano, non la perfezione, ma il miglioramento, è possibile laddove le persone esercitano le loro piene capacità, e migliorano ed agiscono secondo «la parte migliore della loro natura», come disse Lincoln. Quindi, io penso che l'Occidente rappresenti quei valori. Tuttavia, al suo interno, esso racchiude anche le tenebre, le tenebre di una storia brutale, una storia di genocidio, una ripetuta storia di schiavitù, una storia di barbarie. Pertanto, è altrettanto vero affermare che l'Occidente è oggi malato, insolitamente auto-contraddittorio. Ma quale civiltà non è auto-contradditoria? Se esiste un Oriente che si contrappone all'Occidente, possiamo veramente dire che l'Oriente sia una sorta di incarnazione di decenza pura? No, niente affatto. L'Occidente ha commesso dei crimini ed è stato capace di commetterli in parte perché aveva il potere di farlo; tuttavia, io non scelgo qualcosa perché in contrasto con l'Occidente. Io faccio parte di quella storia ed ammiro i valori dell'Occidente Tuttavia non ritengo che l'Occidente abbia il monopolio delle virtù».

Patritotismo. Filippo La Porta - «Contro una tradizione di segno contrario lei difende l'amore per la patria come qualcosa di "progressivo", fatto di sacrificio e spirito critico e responsabilità. Essere patrioti in Usa significa non necessariamente appoggiare acriticamente i marines ma riconoscersi nella tradizione di Jefferson e Franklin… Come italiano vi invidio l'amore per la patria, che precede il senso dello stato, quel sentimento di profonda appartenenza. Per voi la patria non è qualcosa di etnico ma ha a che fare con un contratto, con il consenso a una idea. Crede davvero che questo vostro amore per la patria sia un collante reale in una società come la vostra così divisa in ceti e attraversata da conflitti?».
Todd Gitlin - «Ci sono molte versioni di patriottismo. Mark Twain, che è stato un grande oppositore della politica estera americana ai tempi della guerra ispano-americana, diceva più meno così: patriottismo significa amare il proprio popolo sempre, ed il proprio governo quando lo merita. C'è molto patriottismo simbolico negli Stati Uniti che io ritengo devastante… l'immagine più divertente, dico divertente ma penso anche triste e patetica, è quella dell'America che guida con le bandierine piazzate sulle automobili. Lei le avrà notate quando si trovava lì, questi piccoli oggetti metallici fabbricati in Cina, perché costano meno. D'accordo, cosa realmente significa tutto ciò? Il mio parere, ed io ho trattato questo argomento nel libro The Intellectuals and the Flag (Gli Intellettuali e la Bandiera), è che ne abbiamo veramente tanto di patriottismo simbolico perché non abbiamo abbastanza patriottismo vissuto. Quando dico patriottismo vissuto, intendo dire il coinvolgimento reale nella vita collettiva; non abbiamo il servizio di leva, spediamo in guerra i figli degli altri, non gestiamo bene il servizio pubblico, abbiamo dequalificato e destrutturato le scuole pubbliche, i trasporti e le istituzioni pubbliche non prosperano in America. Ci sono molte altre cose che l'America fa bene, alle quali, però, abbiamo rinunciato, o che abbiamo «tradito». Ecco perché per me l'attaccamento alla vita pubblica vera, significa patriottismo autentico; al suo posto, invece, noi facciamo tanti "mea culpa"… Un'altra cosa di cui discutevo nel mio saggio è che la Sinistra commette un grosso errore dicendo: va bene, d'accordo, il paese è davvero sciovinista, brutale, barbarico, criminale, eccetera, e perciò noi gli voltiamo le spalle. Uno sbaglio che alcuni di noi hanno fatto durante gli anni '60, una specie di rassegnazione…. Era come dire: abbiamo perso, dunque rinneghiamo la maggioranza della popolazione, così come essa è autorizzata a fare la stessa cosa nei nostri confronti; questa è negatività pura, ed è come una secessione! Quindi, io credo nell'attaccamento al popolo e nella possibilità di miglioramento. A proposito, Orwell fece questa distinzione tra patriottismo (positivo) e nazionalismo (negativo). Il patriottismo è qualcosa che ha a che fare con i sentimenti che provi per la gente.

Sogno americano. Filippo La Porta - «Tutti si richiamano al Sogno Americano, alla Terra Promessa dei Padri Pellegrini, sia chi difende lo status quo sia chi vi si oppone. Kennedy, Johnson e la rivolta studentesca degli anni '60, Reagan e Springsteen… Perfino Malcolm X! Oggi il Sogno Americano si traduce in molte cose. Io l'ho ritrovato nella frase che mi disse a New York un musicista nero di jazz che viveva un po' alla giornata: "I'm not poor, I'm broke". Non so se questa frase corrisponde davvero alla realtà(di fatto esiste la poverta negli Usa e riguarda soprattutto certe fasce di popolazione), ma è fondamentale che quel musicista la pensi in quel modo, quella sua autopercezione diventa un fattore attivo».
Todd Gitlin - «È un sogno, è qualcosa di vago, e ciò è parte del suo potere, la gente vi può intravedere tutti i tipi di significati. Io penso che in comune c'è l'idea che ciò che il paese deve rappresentare è la prosperità degli individui e delle famiglie. Malcom X forse non avrebbe condiviso davvero il Sogno Americano, e ne avrebbe disprezzato le molte versioni, ma in fondo il senso anche per lui era che in virtù dell'essere americano si ha il diritto ad un equo compromesso. Questo sogno appartiene legittimamente a Lyndon Johnson, Reagan e a Springsteen, il che è in un certo modo interessante, e parte di ciò che appare così strano ed interessante riguardo all'America, è che noi siamo un paese fondato su di un'idea. Non siamo una nazionalità, non è una linea di sangue, e perciò la nozione di sogno americano è abbastanza singolare. Esiste un sogno italiano? Qualcuno parla mai di sogno francese? C'è un sogno messicano? No, perchè l'America è stata fondata come incarnazione di un'idea, e parte di tutto ciò ci auto-arricchisce, ci rende arroganti, ma nello stesso tempo attraenti e dinamici. È l'insieme di tutte queste cose. Quando le persone sono intervistate e viene loro chiesto a che tipo di classe sociale appartengono, per molti anni, per molti decenni, la maggior parte degli americani ha risposto di appartenere alla classe media. E se viene loro offerta una scelta del tipo: appartenete alla classe operaia, media, medio-alta, alta, essi rispondono classe media. La maggior parte sono persone che effettivamente lavorano per vivere, e pertanto avrebbero potuto scegliere classe operaia; tuttavia, esse non si vedono in quel modo. Come se questa categoria di classe media non avesse niente al di sotto, e quasi nulla al di sopra che fosse degno di nota. Ciò è vero da decenni, ormai».

il Riformista 3.6.08
Il grande doposbornia del Maggio parigino
Predetto da Rawicz e maledetto da Aron
di Guido Vitiello


Il maggio parigino è stato uno psicodramma, una mascherata, una «caricatura della commedia rivoluzionaria». Lo scriveva Raymond Aron ne La Révolution introuvable , un libello pubblicato nel 1968 da Fayard, per lungo tempo dimenticato e "introvabile" quanto e più del suo titolo, che l'editore Rubbettino riporta in Italia. Nel grande carnevale, notava ancora Aron, ciascuno si era scelto una maschera: «Io ho recitato la parte di Tocqueville, cosa certo un po' ridicola, ma altri hanno impersonato Saint-Just, Robespierre o Lenin, il che a conti fatti era ancora più ridicolo». Piotr Rawicz, scrittore ebreo-ucraino sopravvissuto ad Auschwitz, scelse per sé una parte più impegnativa: quella del coro tragico, o meglio ancora del moralista veterotestamentario, una sorta di incrocio tra l'Ecclesiaste e Giobbe , tra il disamorato osservatore dei cicli della storia e il ribelle metafisico che mette Dio con le spalle al muro per imputargli il crimine di aver abbandonato il mondo. Solo l'Ecclesiaste , per Rawicz come per il suo amico e ammiratore Emil Cioran, offriva la chiave per decifrare gli eventi del maggio, per smascherare «il carattere ciclico di tutte queste kermesse della storia. Come il ciclo mestruale delle donne». Al punto che «Il Sessantotto visto da Qohelet» sarebbe un buon sottotitolo per Bloc-notes d'un contre-révolutionnaire , il taccuino che Rawicz compose nei giorni delle barricate e che Gallimard pubblicò nel maggio dell'anno dopo, composto di annotazioni, aforismi, dialoghetti filosofici, scorci fulminanti sul mondo letterario e accademico. È il secondo e ultimo libro di questo inafferrabile erudito e poliglotta, nato a Leopoli nel 1919, braccato dai nazisti e deportato ad Auschwitz, approdato a Parigi dopo la guerra e morto suicida nel 1982. Orientalista, studioso dell'hindi e del sanscrito, profondo conoscitore delle letterature dell'est Europa, Rawicz fu uno sperimentatore del linguaggio non per vezzo ma per necessità, per foggiare una nuova lingua in grado di nominare l'«altro mondo» di Auschwitz. L'altro suo libro, il romanzo Il sangue del cielo (pubblicato in Italia da Giuntina a cura di Guia Risari), è uno dei misconosciuti capolavori della letteratura concentrazionaria.
Anche per il «contro-rivoluzionario» Rawicz, come per Aron, il Sessantotto è una messinscena, tanto più che l'intera storia umana - vanità delle vanità - è una mauvaise mascarade fatta di «ripetizioni monotone dello stesso balletto la cui rappresentazione non avrà mai luogo in questo mondo». Quel che gli insorgenti ignorano, annota Rawicz, «è che in queste "giornate rivoluzionarie" non fanno che ripetere un balletto, una "situazione storica" ben catalogata… 1789, 1848, i nichilisti russi, l'ottobre o piuttosto il marzo-aprile 1917, la guerra di Spagna e tralascio il resto… tutti gli attori di questi eventi, che come loro non erano che marionette di Dio, hanno compiuto gesti simili, vissuto sentimenti affini… credendo di essere i primi».
In molti aspetti la critica di Rawicz al Sessantotto ricalca quella dei liberali come Aron, o perfino di certi tradizionalisti antimoderni. Ce n'è per tutti, nel Bloc-notes : per gli isterismi di Jean-Paul Sartre, «questo sotto-sotto-sotto-Tolstoj francese»; per gli stakhanovisti della firma, i sottoscrittori compulsivi di petizioni, che con questo «misero succedaneo» cercano «un'illusione di attività, di comunione con il mondo»; per i truffatori che maneggiano boriose maiuscole come «socialismo», «classe», «proletariato» nemmeno fossero oggetti materiali, trattando l'ombre come cosa salda; per gli slogan imbecilli, come "Contro la società dell'abbondanza" ("che vuol dire, siamo logici, 'Per la società della penuria'"). C'è anche, nel Bloc-notes, la "Valle Giulia" di Rawicz: "Mi sento solidale con i poliziotti, contro gli studenti". E tuttavia Rawicz non era un reazionario. Al pari di David Rousset, l'esperienza dei Lager nazisti lo spinse a proseguire la battaglia contro il sistema concentrazionario rimasto in piedi, quello sovietico: intercedette per il Nobel ad Aleksandr Solzenicyn, ospitò nel suo appartamento alla periferia di Parigi profughi dei regimi dell'est.
Rawicz non è stato solo il Qohelet del maggio parigino, come da noi l'Elémire Zolla di Che cos'è la tradizione. È stato anche, e assai più ardentemente, il suo Giobbe disperato, l'ammutinato dell'Essere che chiama a una rivolta più radicale di quella contro un ordine sociale iniquo. Perché la società non è che il Grande Animale, Behemoth o Leviatano, che prolunga l'ombra nera di un creatore latitante - in cui pure Rawicz non cessò mai di credere - ed è a quest'ultimo che bisogna chieder conto. «I volti di tutti questi piccoli idioti che giocano a fare gli importanti grazie alla loro "manifestazione"», che però «ignorano che l'unica "rivolta" valida e giustificata (ancorché altrettanto inutile) sarebbe quella contro l'Essere, contro Dio». Che si entusiasmano per le grandi adunate, e non sanno che «dietro ogni "fatto collettivo", dietro ogni fatto sociale magniloquente, io intravedo, il mio organismo intravede… un'anticamera della camera a gas».
L'ombra di Auschwitz e della statolatria totalitaria è onnipresente nelle annotazioni dello scrittore ucraino, per il quale ogni sistema politico è come un water: «Deve funzionare convenientemente, nel meno peggiore dei modi, e puzzare il meno possibile». Se è così, «idealizzare un regime, esaltare la triste necessità di vivere collettivamente in modo appena appena organizzato, entusiasmarsi per un W.C. ipotetico dove la merda profumerebbe di rose… che scemenza!».
Accanto a Qohelet e Giobbe , tuttavia, Rawicz scelse per sé ancora un'altra parte: quella di Isaia, il profeta. E intuì che il maggio parigino avrebbe lasciato in eredità una spaventosa gueule de bois, la gola secca e la bocca impastata di chi si sveglia da un'ubriacatura: «Un doposbornia immenso, cosmico che si annuncia, che si profila all'orizzonte». La veracità della sua profezia, si può dire, è sotto i nostri occhi.

Liberazione 16.4.08
Dopo il 20 ottobre una svolta culturale che ci ha portato al tracollo
di Citto Maselli


Nella valutazione di quanto è accaduto io credo si debba partire dal successo straordinario e inaspettato che ebbe la manifestazione dello scorso 20 ottobre. Tutti sanno che, malgrado il dissenso di Mussi, quella manifestazione era unitaria ma fondamentalmente organizzata, voluta, preparata da Rifondazione comunista. Ne sanno qualcosa le centinaia di nostri compagni che vivendo la militanza forse in modo non propriamente allegro e gioioso - come oggi va di moda dire - ma sicuramente tenacissimo e vivo, erano riusciti a darle vita arrivando a quintuplicare ogni previsione di riuscita. Per dire che, dunque, fino a sei mesi fa e con tutto il problema del governo Prodi, l'immagine e il popolo di Rifondazione comunista avevano conservato tutta intera la loro forza di richiamo e la loro presenza. Ricordo che insieme ai nostri dirigenti presenti sotto il palco a piazza San Giovanni commentavamo felici e stupiti questa verifica di forza, prestigio e capacità che non a caso veniva dopo Carrara e il grande sussulto di orgoglio e rilancio che quell'assise aveva significato.
Dunque. Il nostro tracollo è avvenuto nel corso di questi sei mesi e io credo che senza alcuno spirito polemico e senza volere in alcun modo semplificare le cose, sia proprio nei fatti che è avvenuto in corrispondenza della vera e propria svolta culturale che si è voluta dare da tanta parte della nostra dirigenza con la graduale ma sistematica cancellazione della nostra identità di rifondatori comunisti. Per non scadere in polemiche facili e comunque inadeguate alla gravità storica di quello che è successo, non mi metto qui a citare una per una le tappe, i gesti, le dichiarazioni e le azioni che hanno segnato questo cammino. Mi limito a due cose che sono culturalmente inconsistenti ma tuttavia a loro modo simboliche e significative: la definizione del comunismo come tendenza politico-culturale e la scelta del caffè Hard rock e non so che altro di via Veneto in Roma come luogo di incontro e verifica dei risultati elettorali. Forse per quest'ultima trovata parlo un po' da regista: perché sembra davvero un'idea straordinaria di sceneggiatura per dare il misto di provincialismo e falso giovanilismo con cui si è voluta esprimere plasticamente la propria distanza da un passato e da una storia.
Per quello che mi riguarda nella giornata di ieri e insieme a tanti altri sono andato nella sede del partito cui sono iscritto. E lì è successo che, verso le nove di sera, quando ci siamo salutati un po' tutti, due compagne, credo del Forum delle donne che erano rimaste con noi tutto il pomeriggio, visto che la Sinistra l'Arcobaleno anche alla Camera non andava oltre il 3 per cento, hanno dichiarato di volersi iscrivere - sin dal mattino dopo - al Partito della Rifondazione comunista. Ci siamo guardati tutti, un po' com'era successo sotto il palco di piazza S. Giovanni la sera del venti ottobre. Ultimo scorso.