giovedì 5 giugno 2008

l’Unità 5.6.08
Destra e Xenofobia. La ferocia qualunquista
di Roberto Cotroneo


Ma che Paese è diventato il nostro? Che gente siamo diventati? Neanche dei qualunquisti, neanche degli xenofobi duri e cattivi da far paura agli altri (e meno male), ma miserelli da prato del vicino leggermente più verde, poveracci che vanno a fare il conto delle elemosine di miserevole gente che non ha il diritto di avere due gerani in un prefabbricato.
Perché noi italiani dobbiamo avere le case, ma non i Sinti di Mestre, quelli no. Ma che paese siamo diventati? Quello caritatevole e miserevole che ci siamo tanto tramandati? O dei tragici gaffeur che festeggiano davanti a tutta Europa e all’Onu al reato di immigrazione clandestina, e che hanno piacere nel vedere il pugno duro sulla sicurezza. Un paese ipocrita, propagandistico, miserrimo, dove non nessuno legge niente, neanche le statistiche, quelle in cui si dice che la criminalità è in aumento, ed è vero. Ma per colpa è colpa degli italianissimi mafiosi e camorristi che schiacciano un terzo del paese, mentre la microcriminalità, quella di tutti i giorni, ha subito persino una flessione. Dove il problema dei Rom sembra nato oggi. Dove la pochezza è di casa, in tutti. Ora il Giornale lancia una delle sue campagne da quattro soldi, con un titolo di prima pagina da vergognarsi: «Ecco le ville che regaliamo ai Rom». Un campo per i Sinti, voluto in modo sacrosanto da Massimo Cacciari, dal costo di 3 milioni di euro, che «prevede casette con veranda, giardino e garage, un laghetto e un campo di calcio». Il laghetto e il campo di calcio per i bimbi Sinti. Che eresia, che scandalo. No, li vogliamo brutti, sporchi e cattivi, senza palloni, senza acqua, senza niente. Senza i gerani sui balconi, senza i colori, li vogliamo senza cielo, e senza vestiti, li vogliamo cancellare, perché prima veniamo noi, nazione infetta di pressapochismo, e di povertà culturale, ubriacata di televisioni idiote da almeno un ventennio, di fiction patinate, tutte sui buoni sentimenti, ma che rimangono là sullo schermo, lontani da noi. Un paese bastonato da un immobilismo che non ha generato neanche la minima cultura della solidarietà o perlomeno del buon senso. Le villette regalate ai Sinti, dice il Giornale, e spiega che i cittadini veneziani e della Lega nord hanno protestato all’apertura del cantiere, senza umanità e senza vergogna. E poi dicono il nord est vero? Noi il nord est dobbiamo capirlo, perché gli imprenditori lavorano sodo, perché quello è il motore del paese, perché davanti al nord est ci sentiamo come di fronte a un rebus sofisticato e difficile da risolvere, perché sono gente pratica, che mira al sodo, agli sghei e alle infrastrutture, perché prenderebbe il volo il nord est se non ci fosse la zavorra di Roma, e della politica. E sarà anche vero, forse. Ma più che il volo spesso prende delle derive imbarazzanti. E se qualcuno andasse a cercare in quale discarica è finito il solidarismo cattolico di quella gente che votava Dc e Rumor, e ora vota Gentilini. E adesso eccoli a gridare perché i più poveri non possono avere un vaso di fiori al balconcino prefabbricato.
Non saranno stati molti, certo. Saranno stati i soliti quattro su cui si fanno i titoli nelle prime pagine dei giornali. Ma basta e avanza. Il problema è che possiamo mettercela tutta, decidere che vogliamo essere ottimisti, possiamo sperare in un clima politico di collaborazione, ma poi invece esci di casa e il clima è questo. Ed è fatto di gente che non capisce dove è e cosa vuole. Non è qualunquista, non è buona, non è disinteressata, non vuole vivere tranquilla su suoi privilegi. No, questo era il qualunquismo di un tempo. Ora abbiamo fatto un salto nel livello del qualunquismo. Ora questa gente che protesta, questo paese che vorrebbe in galera un immigrato colpevole solo di essere clandestino, questa gente che chiama «villette» dei prefabbricati, e a sua volta vive in ville vere, con campo da calcio vero, e piscine vere - ma con valori catastali delle loro proprietà falsi, ovviamente - questa gente dicevo non si fa i fatti propri, non pensa al proprio particolare, no peggio: rompe le scatole ai poveracci, a quelli che non hanno tetto, e probabilmente non hanno neanche la legge, perché va tutto assieme. Siamo un popolo di navigatori, artisti, scienzati e santi. Ma anche di egoisti ignoranti e diffidenti. E lo siamo diventati. Quindici giorni fa stavo seduto in un bar all’aperto. Era una domenica mattina di sole, e c’era un sacco di gente ai tavolini. Passa un povero mendicante, anziano. Chiede l’elemosina. Ho alzato lo sguardo dal giornale che stavo leggendo e ho osservato la scena. Saranno state cinquanta le persone sedute, disposte in diversi tavoli. Eccetto me, nessuno ha dato una sola moneta a quel pover uomo. Perché non si dà l’elemosina, perché questi se ne devono andare, e non si dà perché certo «con cinquanta centesimi non gli risolvo la vita». No, la vita no, ma un panino forse sì. Ma chi se ne importa dei Rom, degli immigrati, di un terzo mondo che bussa alle porte di tutti quelli che hanno qualcosa in più. È colpa loro, vero. Andassero a lavorare, vedi che poi i soldi arrivano, e l’appartamentino te lo compri senza Cacciari, che spende tre milioni di euro che spettano di diritti agli italiani. Come no, certo. Siamo caduti in basso. Sabato scorso ero a Salamanca, in Spagna, partecipavo a un convegno della Fondazione Gérman Sánchez Ruipérez sulla letteratura per l’infanzia. I miei amici spagnoli mi hanno sommerso di domande. Preoccupati, turbati, affettuosi persino. Persone informate, capaci di capire oltre i luoghi comuni. Mi guardavano come uno che è costretto a vivere in un paese senza speranza: «Ma che succede in Italia?». Io cercavo di spiegarglielo, con equilibrio, senza esagerare, con un tentativo di orgoglio, persino. Ma non si convincevano. A un certo punto mi hanno detto: «Non permetteremo che l’Italia diventi un paese razzista e xenofobo». Sapessero di cosa possiamo ancora essere capaci...
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 5.6.08
Arresto immediato e pene fino a 4 anni. Cosa dice la legge
di Nedo Canetti


IL GOVERNO ha depositato ieri al Senato il testo del disegno di legge «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica». Primo firmatario, Silvio Berlusconi; seguono, Roberto Maroni e Angelino Alfano, titolari, rispettivamente, degli Interni e della Giustizia.
Il testo è uguale a quello approvato dal Consiglio dei ministri di Napoli. Nessuna modifica, dopo le affermazioni del premier del giorno prima.
Questi i punti salienti:
Arresto clandestini. Si tratta dell’articolo più controverso, il 9. Modifica il decreto legislativo del 1998 sull’immigrazione. Nasce il delitto di ingresso illegale. Questo il testo: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente Testo Unico è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. È obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto e si procede con rito direttissimo. Il giudice, nel pronunciare la sentenza di condanna, ordina l’espulsione dello straniero».
Matrimoni. Si modifica la legge sulla cittadinanza. Vengono limitati i matrimoni tra italiani e stranieri. Si stabilisce che il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano, può acquistare cittadinanza italiana, quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, periodo ridotto della metà, in presenza di figli nati dal matrimonio.
Permanenza. Il periodo di permanenza negli ex Cpt (Centri di permanenza temporanea) diventati Cie (Centro di identificazione ed espulsione) con il recente decreto sulla stessa materia, viene portato a 18 mesi.
Aumento pena. Da sei mesi a due anni di reclusione è punito lo straniero che rimane in territorio nazionale in violazione dell’intimazione di lasciarlo connessa ad un decreto di espulsione già reiterato.
Alloggio. Ricordiamo che nel decreto, attualmente all’esame del Senato sulla sicurezza, è prevista la reclusione da sei mesi a tre anni e la confisca dell’immobile per chi affitta un immobile ad un cittadino straniero soggiornante illegalmente in Italia.
Aggravamento pene. Sempre nel decreto sulla sicurezza le pene per i reati previste dal codice sono aumentate, nel caso si tratti di un immigrato clandestino, di un terzo.
Il ddl Berlusconi-Maroni prevede anche misure diverse dalla materia immigrazione. Derivano, in parte, dal provvedimento Amato non approvato per lo scioglimento delle Camere. Eccone alcune:
Accattonaggio. Chi si avvale, per mendicare, di una persona minore di 14 anni, è punito con la reclusione sino a tre anni. Se è genitore perde la patria potestà.
Anziani, handicappati e minori. Si prevedono aggravamenti di pena per reati commessi nei confronti di chi ha minori difese (anziani, giovanissimi e minorati fisicamente).
Illegalità diffusa. Si tratta di una serie di articoli contro la deturpazione e danneggiamento di beni, il bullismo, l’occupazione abusiva del suolo, la guida in stato di ubriachezza.
Criminalità organizzata. Si tratta di un alcuni articoli che modificano, nel senso di maggiore severità, le disposizioni sui sequestri di beni ai mafiosi e sul riciclaggio di denaro sporco.

l’Unità 5.6.08
Bruxelles. Sit-in e proteste sul pacchetto sicurezza


Protesta ieri a Bruxelles di fronte alla Rappresentanza permanente italiana presso l’Unione europea contro la discriminazione della comunità rom in Italia. Tra i partecipanti, i rappresentanti delle associazioni rom in Europa e tre eurodeputati: l’olandese verde Els De Groen, l’ungherese liberale rom Viktória Mohacsi e Vittorio Agnoletto, Prc. I manifestanti hanno puntato il dito contro il ministro degli Esteri Frattini. «Non si possono espellere gruppi interi di persone, è illegale», ha denunciato Dani Klein, cantante del gruppo belga “Vaya con Dios”. E hanno consegnato all’ambasciatore un documento che chiede al governo Berlusconi di tutelare i rom, evitare qualsiasi provvedimento discriminatorio e punire severamente chi ha attaccato i campi rom. Un gruppo di eurodeputati di Prc, Pdci, Verdi e Sd hanno presentato interrogazioni alla Commissione Ue sul pacchetto sicurezza. Chiedono «di verificare con urgenza la compatibilità con la normativa europea» delle misure sulla sicurezza. Particolarmente «la “circostanza aggravante” per i reati commessi da clandestini crea un doppio binario giuridico fra italiani e non, in contrasto con l’art.21 della Carta dei diritti fondamentali e con il Trattato che istituisce la Comunità europea che vieta le discriminazioni fondate sulla nazionalità».

Corriere della Sera 5.6.08
Il retroscena. Gianni Letta ha preparato con Bertone l'agenda dell'incontro con il Papa. Sul tavolo anche la sicurezza e la scuola
Berlusconi «sceglie» il Vaticano e avverte i suoi alleati
di Francesco Verderami


ROMA — Nei trenta minuti di udienza che Benedetto XVI gli ha concesso per domani, il premier offrirà al Pontefice «la mia personale disponibilità e quella del governo che rappresento». Perché Berlusconi intende capitalizzare la pubblica apertura di credito ricevuta dal Papa, con il quale affronterà le più delicate questioni internazionali del momento. Ed è pronto ad accettare, nel successivo colloquio con il segretario di Stato Bertone, consigli e suggerimenti sui temi di politica interna che sono in agenda, e che spaziano dall'educazione ai diritti civili, dalla salute alla sicurezza. «Visti gli eccellenti rapporti, sarà certamente un incontro dall'esito positivo», preannuncia l'ex presidente del Senato Pera, che di Ratzinger è amico da tempo.
D'altronde il copione della visita Oltre Tevere è già scritto, ci ha pensato il «gentiluomo del Papa» Gianni Letta a redigerlo insieme a Bertone, con cui il sottosegretario alla presidenza del Consiglio si sente con regolarità quasi quotidiana. E non c'è dubbio che Berlusconi assicurerà al segretario di Stato massima attenzione alle richieste che gli verranno presentate. Il Cavaliere intende proporsi come interlocutore affidabile del Vaticano, e uno che di queste cose se ne intende — come Casini — sostiene che le gerarchie «vorranno mettere il premier alla prova»: «Perché la Chiesa ha passato gli ultimi due anni a difendersi sulle questioni eticamente sensibili. E ora che il centrosinistra non è più al governo — prosegue il leader dell'Udc — si attende la difesa di quei valori dalla nuova maggioranza, e anche risposte chiare su alcuni temi che stanno a cuore al Vaticano».
L'ex presidente della Camera li snocciola come se avesse letto l'agenda del colloquio di domani: «C'è anzitutto il problema del pluralismo educativo scolastico, dato che gli istituti cattolici sono ormai allo stremo. C'è il quoziente familiare. E c'è la richiesta di una svolta nel modo in cui sono gestiti oggi i consultori. Noi siamo pronti a sostenere l'esecutivo se si muoverà in tal senso, o ne denunceremo le manchevolezze». In verità è certo che a denunciarle sarebbe Ratzinger in persona, se si pensa al modo in cui stropicciò a gennaio gli amministratori del Lazio, dal sindaco Veltroni al governatore Marrazzo.
Secondo fonti accreditate, in agenda potrebbe esserci anche un altro tema, al quale avrebbe fatto indirettamente riferimento il Papa quando ha espresso la propria «gioia» per il nuovo clima politico in Italia: se è vero infatti che in Parlamento si preannuncia una stagione di riforme, è nelle cose la prospettiva di modificare la Costituzione. E in Vaticano sono molto sensibili alla materia, specie per quegli articoli della Carta che si richiamano alla famiglia, ai diritti della persona, e che vanno difesi per evitare in futuro pericolose brecce legislative.
Nei colloqui troverà certo posto il nodo immigrazione e il contrastato articolo del pacchetto sicurezza sul reato di clandestinità. Ma a parte il fatto che — come spiega Cossiga — «quella norma verrebbe comunque cassata dalla Corte Costituzionale», il primo a dubitarne — fin dall'inizio — è stato Berlusconi. Fu il Cavaliere che, nel gioco di sponda con il Colle, accolse il «suggerimento» di Napolitano e spostò la norma dal decreto al disegno di legge. Si mosse quindi in anticipo rispetto alle critiche giunte dal Vaticano. Semmai proprio quelle critiche lo hanno spinto a pubblicizzare le sue perplessità: «Non è quella la norma chiave del pacchetto sicurezza, e non possiamo farne un totem ideologico come accadde con l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori».
La mossa — che ha spiazzato il Carroccio — è il segno che Berlusconi non vuole farsi risucchiare «nei vecchi schemi del passato, quando era l'Udc a frenare l'alleanza». Nella sua sortita — racconta un ministro forzista — c'è anche «la forte irritazione » per le dichiarazioni di Calderoli sul trattato di Lisbona. Insomma, è certo che il Cavaliere sul tema sicurezza si troverà in sintonia con gli interlocutori Oltre Tevere.
Lui, che guida il governo con la minor presenza di cattolici della storia, vuol essere l'interlocutore del mondo cattolico. Proprio mentre nel Pd la questione è vissuta con apprensione. Ieri la componente rutelliana si è riunita all'hotel Bristol, e ha ascoltato la reprimenda di alcuni intellettuali di area. Oggi Franceschini e Fioroni ne discutono in un seminario a porte chiuse alla Pontificia Università Gregoriana. Tutti devono fare i conti con i dati di uno studio del professor Segatti di Milano: alle elezioni il 56% dei cattolici è «fuggito» dal Pd. E Berlusconi domani sarà dal Papa.

Corriere della Sera 5.6.08
Mostra fotografica Centinaia di immagini sul 5 giugno '45 della Capitale
Andreotti ricorda Roma liberata «A San Pietro una bandiera rossa»
di Marco Nese


Quel giorno ci fu un po' di malumore tra i giovanotti perché le ragazze, felici, correvano come matte incontro ai soldati alleati e li baciavano

ROMA — I romani passarono la giornata del 4 giugno 1944 tappati in casa, a spiare i carri armati tedeschi che lasciavano la città. All'alba del 5, 64 anni fa, la gente cominciò ad affacciarsi sulla strada. «All'inizio — ricorda Giulio Andreotti — solo poche persone. Ma appena fu chiaro che da Sud entravano gli americani, una marea umana invase le piazze e le strade. Sembravano tutti impazziti di gioia».
Andreotti aveva 25 anni. «Ero presidente degli Universitari cattolici. La Dc era clandestina. Ma il 5 giugno siamo usciti allo scoperto. È arrivato nelle edicole anche il giornale del partito Il Popolo, diretto da Guido Gonella. Era la fine di un incubo». Il giorno prima Andreotti aveva visto i tedeschi ritirarsi. «Mi fecero impressione. Sui volti avevano i segni della sconfitta». Ma Kesserling rispettò Roma, ordinò di lasciare intatti i ponti sul Tevere. «Anche prima — racconta Andreotti — fu comprensivo, concesse vari permessi di circolazione d'accordo col Vaticano. Io stesso ne avevo uno che mi consentiva di andare al Nord a prendere la posta per i prigionieri inglesi».
Il ripiegamento dei tedeschi fece di Roma una città aperta, come poi Rossellini intitolò il suo film. Alle 8 del mattino il generale americano Mark Clark con una colonna di jeep cercava il Campidoglio e finì a San Pietro, dove un prete gli indicò la strada. La foto di Clark che sale le scale del Campidoglio è una delle centinaia di immagini di quel memorabile 5 giugno che compongono la Mostra su Roma liberata, a cura di Giovanni Cipriani e Sara Iannone. La inaugura oggi il sindaco Gianni Alemanno. E Giulio Andreotti offrirà i suoi ricordi. «Quel giorno ci fu un po' di malumore dei giovanotti perché le ragazze, felici, correvano come matte incontro ai soldati alleati e li abbracciavano e baciavano ». «Ciò che i tedeschi non erano stati capaci di fare — si legge nella storia della Quinta Armata —, lo fecero le masse compatte della folla romana: esse fermarono i nostri carri».
Tuttavia, Andreotti ricorda che c'era ancora «un senso di paura, come se qualcuno potesse fare la spia e raccontare ai tedeschi cosa stava avvenendo». Un timore fugato dai soldati americani che rallegrarono le strade con le musiche di Glenn Miller. «Una folla immensa invase piazza San Pietro. La gente acclamava il Papa. E ricordo che sventolava perfino una bandiera rossa. La reggeva uno studente, ed è un fatto curioso perché quel giovane è poi diventato sacerdote, don Paolo Pecoraro».
In Campidoglio, il generale Clark, che non era un grande oratore, salutò la folla dicendo semplicemente: «Questo è un grande giorno per la Quinta Armata». Insediò come sindaco il nobile Andrea Doria Pamphili, il quale, racconta Andreotti, ai romani che rivedevano una luce di speranza raccomandò: «Volemose bene».

Corriere della Sera 5.6.08
Alcune ricerche smentiscono l'immagine tradizionale, diffusa dal clero, dei vincoli matrimoniali sacri e indissolubili
Unioni di fatto, la storia di sempre
Rapporti flessibili, convivenze, concubini e cavalieri serventi: il passato «irregolare» della famiglia
di Sergio Luzzatto


Lo sentiamo dire tanto spesso che rischiamo di crederci. Bombardati dai sermoni vaticani sul matrimonio come «unione indissolubile tra un uomo e una donna», storditi dalla propaganda bigotta dei Family Days, colpevolizzati dal discorso pubblico laico intorno ai devastanti effetti sociali della «crisi della coppia», rischiamo di credere davvero nella favola di un bel tempo andato in cui la famiglia era un'istituzione armoniosa, stabile, coesa: papà-mamma- bambini felicemente riuniti sotto lo stesso tetto, senza tentazioni peccaminose né grilli per la testa, come Dio comanda. Giunge allora opportuno il lavoro degli storici, che non si accontentano di racconti favolosi. In una Storia del matrimonio (Il Mulino) appena pubblicata, Daniela Lombardi ci insegna a riconoscere come false le leggende più correnti sulla differenza tra il nostro oggi e lo ieri, o l'altroieri. Falso che il celibato e il nubilato siano fenomeni caratteristici della modernità (nella Bologna del 1796, per esempio, quasi il 40 per cento degli adulti non era sposato). Falso che la sessualità fosse circoscritta entro i confini del matrimonio (in certe grandi città, il numero di nascite illegittime sfiorava il 50 per cento). E falso, in generale, il cliché della famigliola «tradizionale», non foss'altro perché la precarietà delle esistenze (epidemie, guerre, migrazioni) rendeva la vita di coppia costituzionalmente instabile, a rischio.
Con buona pace dei presuli di ogni tempo e dei teodem d'oggidì, gli studiosi insegnano sia la volatilità delle unioni coniugali del passato, sia la varietà dei modi storicamente praticati per metter su famiglia: insegnano la flessibilità — quasi l'elasticità — che per secoli ha contraddistinto la formazione delle coppie e le relazioni tra i sessi, in Italia come altrove in Europa. Coppie di fatto? Non c'è da attendere il Novecento, chissà quale Sessantotto, per incontrare uomini e donne che sceglievano di amarsi e di riprodursi fuori da ogni vincolo matrimoniale, senza «regolarizzare» la propria situazione davanti a un notaio né davanti a un prete. Le coppie di fatto rappresentavano una realtà diffusa già nell'Italia del Cinque e Seicento, come lo storico Giovanni Romeo dimostra bene nel libro Amori proibiti (Laterza).
Fino a quando la Chiesa della Controriforma non decise di rimediare drasticamente al problema, maestri del concubinato erano i sacerdoti. Nel primo Cinquecento, forse metà dei preti viveva more uxorio con la rispettiva perpetua, senza d'altronde che i parrocchiani si scandalizzassero più di tanto. E ancora dopo il Concilio di Trento, vinta la terribile guerra contro i «lutherani d'Italia», le autorità centrali e periferiche della Chiesa si concentrarono nella lotta contro la magia, la bestemmia, la bigamia, piuttosto che contro le coppie di fatto. Soltanto a partire dal Seicento la battaglia contro i concubini divenne prioritaria, per gerarchie vaticane sempre più ossessionate dall'idea di dover sorvegliare la sessualità delle donne.
Specialista di storia religiosa del Mezzogiorno, Romeo si concentra sulla più popolata, la più variopinta e (già allora) la più ingovernabile delle città italiane: Napoli. Un proverbiale porto di mare, una capitale abituata a fare i conti con genti diverse e usanze multiformi, baroni della terra e cortigiani di Spagna, chierici e artisti, puttane e vagabondi, marinai e soldati, musulmani ed ebrei. Una polveriera della carne e dello spirito, dove zelanti arcivescovi venuti da Roma cercarono di imporre le nuove regole della Controriforma: oltre all'obbligo di confessarsi regolarmente e di comunicarsi a Pasqua, il divieto di vivere da concubini.
Fossero le prostitute dei Quartieri spagnoli che coabitavano con il loro sfruttatore, o fossero le popolane troppo indigenti per presentarsi con una dote sul mercato dei matrimoni combinati, ma capaci lo stesso di rimediare un'anima gemella, migliaia di donne del Seicento vennero sottoposte a un articolato sistema di misure sanzionatorie (convocazioni in parrocchia, blitz nelle case, cartelli infamanti, minacce di scomunica) affinché ponessero fine allo scandalo del loro accoppiamento di fatto. Salvo trovare, il più delle volte, un modo per resistere. Urlando a squarciagola come Popa Mazza, la cortigiana calabrese che nel 1639 spiegò al vicinato che la scomunica della Chiesa lei la «teneva in culo». Oppure facendo finta di nulla, aspettando che la tempesta passasse...
Durante l'antico regime, le convenzioni sociali restringevano enormemente la libertà di scelta matrimoniale per uomini e donne. E tanto più nell'alta società, dove la posta in gioco, oltre a un titolo nobiliare, era un patrimonio che si voleva trasmettere integro ai discendenti. Da qui — all'opposto della piramide sociale rispetto alle coppie «'nnammecate » della Napoli plebea — un'altra forma di antidoto al regolatissimo mercato del matrimonio: la curiosa istituzione che è stata, nel tardo Seicento e soprattutto nel Settecento, il sistema del «cavalier servente». Cioè il matrimonio a tre fra una donna aristocratica, un marito di analoga condizione, e l'accompagnatore ufficiale della donna non sua, cui Roberto Bizzocchi ha dedicato ora uno studio altrettanto colto che godibile, Cicisbei (Laterza).
L'importanza del cicisbeismo nella vita italiana del XVIII secolo è illustrata da tutta una segnaletica artistica e letteraria: le incisioni di Longhi come i quadri di Tiepolo, le commedie di Goldoni come i versi di Parini. Ma Bizzocchi non si è limitato a registrare l'onnipresenza dei cicisbei nell'immaginario figurativo, teatrale, poetico, del secolo dei Lumi. Frugando dentro una gran massa di lettere, diari, memorie, Bizzocchi ha saputo riconoscere in quei lontani «triangoli» (semplicemente mondani, o anche affettivi, o anche sessuali) un pezzo di storia sociale e politica dell'Italia moderna.
In effetti, il cicisbeismo fu ben più che una valvola di sfogo per donne frustrate da un matrimonio di convenienza, e per ruspanti cadetti che le strategie ereditarie destinavano al celibato. Fu un vero e proprio gioco di ruoli inteso alla conservazione del primato nobiliare: non a caso si diffuse particolarmente nelle cosiddette Repubbliche aristocratiche, Venezia, Genova, Lucca. Per un «giovin signore», «servire» una dama senza sposarla, di notte come di giorno, era un buon modo per stare alla larga dai due ambienti che più rischiavano di irretirlo, il mondo delle carte da gioco e il mondo delle donne da strapazzo.
Ma il cicisbeismo ha rivestito, da ultimo, anche una valenza illuministica: è stato un esercizio di libertà personale — maschile e femminile — contro il dispotismo coniugale e familiare. Così capitò di viverlo a personaggi di prima grandezza del nostro Settecento, come Pietro Verri. Che lungamente servì da cicisbeo di Maddalena Isimbardi, la sorella di Cesare Beccaria. Al marito di lei, geloso peggio d'«un eunuco del Serraglio», Verri non riservava che disprezzo; mentre ammirava il temperamento focoso della sua Maddalena, «buona, amabile e selvaggia».
François Clouet (1510-1572), «Una scena galante». In basso: Giandomenico Tiepolo (1727-1804), particolare da «Minuetto» (c. 1791)

Tre libri appena pubblicati trattano delle relazioni familiari e sessuali nel passato: il saggio di Daniela Lombardi «Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi» (pp.
296, e 18,50) è edito dal Mulino, mentre da Laterza sono usciti i libri di Giovanni Romeo «Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione» (pp. 256, e 18) e di Roberto Bizzocchi «Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia» (pp. 360, e 20)

Corriere della Sera 5.6.08
Le ricerche del giurista Sami Aldeeb
Islam, fare diritto oltre il Corano
di Marco Ventura


La legge divina è un dato immutabile e l'uomo può soltanto sottomettersi

Il diritto islamico è una tartaruga in letargo: sembra morto, invece sta solo dormendo. Un colpo di sole può svegliarlo e allora sono guai. Sami Aldeeb iniziava così il suo corso nella Strasburgo anni Ottanta; dapprima ostili, noi studenti dovevamo arrenderci alle prove su cui s'infrangeva il nostro mito d'un Islam sorridente. Da poco Mahmud Taha era stato impiccato in Sudan per aver sostenuto una interpretazione più libera del Corano: finito l'estenuante processo, confermata dal presidente Nimeiry l'applicazione della Shari'ah all'apostata, un cordone militare aveva protetto il sito della prigione di Khartoum dove l'esecuzione pubblica aveva avuto luogo il mattino del 18 gennaio 1985; un elicottero aveva poi portato via il corpo verso una destinazione sconosciuta. Già da tempo il diritto islamico si stava svegliando; il palestinese Aldeeb ne raccontava le tante facce e lo stesso cuore: la pluralità delle scuole, l'importanza dell'interpretazione, la diversificazione nello spazio e nel tempo, ma anche la logica intrinseca, le costanti, il patrimonio.
Rigoroso con le fonti, inesorabile con i fatti, Aldeeb si impose come una delle poche luci nella confusione generale. Se ne accorse il governo elvetico che gli riconobbe la nazionalità svizzera e lo volle all'Istituto di diritto comparato di Losanna: lì Aldeeb ha potuto sviluppare la propria ricerca, ma anche dedicarsi ad un'intensa attività di esperto federale. Nel 2001, grazie alla sua consulenza, il governo ha difeso con successo davanti alla Corte di Strasburgo il licenziamento di un'insegnante ginevrina che rifiutava di togliersi il velo islamico in classe. Negli ultimi anni, decine di migliaia di svizzeri hanno contratto matrimoni con musulmani tutelandosi con le istruzioni di Aldeeb raccomandate dalle autorità elvetiche.
Di tanta ricerca e di molta esperienza dell'Islam reale è frutto il suo manuale ora disponibile in italiano (Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Il diritto islamico. Fondamenti, fonti, istituzioni, a cura di Marta Arena, Roma, Carocci, pp. 617, € 37,20).
Il diritto islamico è diritto divino, già dato nelle fonti sacre una volta per sempre: l'uomo non ha altra libertà che sottomettersi ad esso e praticarlo. Per capire bisogna tornare alla penisola arabica dove tutto ebbe inizio. L'uomo si è perso nel deserto, non sa trovare la strada: Dio lo salva indicandogli la Shari'ah, «il cammino che conduce all'abbeveratoio, al corso d'acqua che non si prosciuga». Siamo molto lontani dal diritto d'origine greco-romana e cristiana dell'Occidente secolarizzato. Impossibile una sovranità popo-lare, solo Dio è sovrano; impossibile una cittadinanza d'eguali indipendentemente dal credo di ognuno, prevale la fedeltà alla Ummah, la comunità dei credenti; impossibile la certezza del diritto, l'uomo può tendere alla volontà del Dio legislatore, mai raggiungerla del tutto; impossibile la differenza tra diritto ed etica, il diritto islamico è etico per definizione; arduo anche immaginare diritti individuali, dominano il gruppo e la Salvezza. Risvegliato dal letargo, il diritto islamico porta disuguaglianza tra uomo e donna, tra fedele e infedele; o peggio, cinge cinture esplosive, stringe nodi scorsoi.
Ostaggio di fonti e tradizione, il diritto islamico di Aldeeb è testo sacro intoccabile da Tangeri a Giakarta, da Damasco a Birmingham, ma è anche organismo vivente: incrocio tra madrase medievali e cultura british degli avvocati di Lahore; riforma liberale del matrimonio a Rabat e corti islamiche misogine in Ontario; mufti del Cairo contro imam di Marsiglia.
Ora che il raggio di sole ha svegliato la tartaruga, Aldeeb sa cosa fare. Denuncia la tirannide di fonti sacre nemiche di uomini e donne che vogliono scegliere; lo fa anche se «qualsiasi critica del diritto musulmano, considerato come il diritto perfetto, rischia di mettere in pericolo il suo autore». Lontano dai riflettori, Aldeeb ha il coraggio di pubblicare una propria edizione critica del Corano (arabo e francese, Les Editions de l'Aire); versetti in ordine cronologico, varianti, abrogazioni. È la prima volta in arabo: ufficialmente, la somma bestemmia; per molti, l'unica speranza di uscire dal letargo della libertà.

Repubblica 5.6.08
"La Germania risarcisca gli schiavi di Hitler"
La Cassazione sugli italiani rastrellati dai nazisti dopo l´8 settembre ‘43
di Elsa Vinci


Per il risarcimento potranno essere pignorati beni immobili e conti correnti tedeschi nel nostro paese

ROMA - «Vanno risarciti gli schiavi di Hitler». Ufficiali e soldati semplici, partigiani, ragazzini e padri di famiglia. La Cassazione a Sezioni Unite rende giustizia agli italiani rastrellati dai nazisti dopo l´8 settembre 1943: sono pienamente legittime le cause intentate dagli ex deportati nei confronti della Repubblica Federale tedesca per ottenere il risarcimento delle sofferenze patite nei campi di concentramento o nell´industria bellica del Reich. Un atto di giustizia che rischia di aprire un nuovo contenzioso tra Roma e Berlino.
«Quelle deportazioni sono un crimine contro l´umanità». Con una decina di sentenze definitive la Suprema Corte ha respinto i ricorsi della Germania, rappresentata dall´ambasciatore in Italia. La Repubblica Federale rivendicava in Cassazione il diritto alla «immunità» da ogni forma di risarcimento sugli atti compiuti dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. Ma gli ermellini hanno raccolto l´attesa degli "schiavi di Hitler". Sono una cinquantina di ex deportati, oggi tutti ultra ottantenni, tostissimi e «arcistufi» di aspettare. Il gruppo storico arriva dalla Val di Susa, difeso dall´avvocato Luca Procacci che ha intentato la causa pilota e che ora annuncia centomila ricorsi. Ci sono toscani, siciliani, pugliesi, veneti. Quando li hanno rastrellati avevano chi quindici, chi diciassette anni.
La Corte già nel 2004 aveva bocciato i ricorsi tedeschi. Berlino non si è arresa e ha continuato a contestare l´orientamento espresso dagli ermellini. Ma le Sezioni Unite - con diverse sentenze tra cui la 14201 - hanno ribadito che non si possono escludere dai risarcimenti «crimini che segnano anche il punto di rottura dell´esercizio tollerabile della sovranità». «La Repubblica Federale - avvertono i supremi giudici - non ha il diritto di essere riconosciuta immune dalla giurisdizione civile del giudice italiano, che va pertanto dichiarata». Tanto più - sottolineano i magistrati - che l´inizio delle deportazioni avvenne in Italia dopo l´8 settembre 1943. Non c´è dubbio, conclude la Cassazione, che «la comunità internazionale considera la deportazione e l´assoggettamento dei deportati al lavoro forzato come crimine contro l´umanità».
Adesso le vittime possono ottenere anche il pignortamento dei beni tedeschi in Italia. Per esempio la Germania rischia di dover pagare con i beni immobiliari e i conti correnti che possiede lungo la Penisola - esclusi ambasciate e consolati - il risarcimento di 60 milioni di euro che deve ai familiari della strage nazista di Distomo (Grecia) dove, il 10 giugno 1944, furono uccise per rappresaglia contro i partigiani 218 persone, tutte donne e bambini. La Corte ha infatti convalidato l´iscrizione di una ipoteca parziale sulla bellissima Villa Vigoni, che si affaccia sul lago di Como a Loveno di Menaggio, dove ha sede il centro italo-tedesco, di proprietà della Germania. La misura cautelare convalidata dalla Suprema Corte - sentenza 14199 - fa seguito alla condanna della Germania al pagamento delle spese legali (tremila euro) del processo che si è svolto in Grecia nel 2000 e che non ha mai dato luogo ad alcun risarcimento.
Il portavoce del ministero degli Esteri tedesco ha dichiarato che le sentenze della Cassazione sono già pervenute al governo. Nessuna resa. «Decideremo quali passi avviare».

Repubblica 5.6.08
Gorbaciov: "Via Lenin dalla Piazza Rossa"
L’appello dell´ex presidente: "Un museo delle vittime del terrore nel carcere di Stalin"
"Gesto simbolico contro la carenza di memoria" Ma i comunisti insorgono
di Leonardo Coen


MOSCA - L´ex presidente dell´Urss Mikhail Gorbaciov presenta nella modernissima sala conferenze dell´agenzia Interfax un progetto per trasformare il sinistro carcere moscovita di Butyrka in un Memoriale delle vittime del terrore staliniano: in quella prigione finì, tra gli altri, pure Alexsandr Solgentsyn. La proposta-appello è avanzata da un folto drappello di difensori dei diritti umani, di intellettuali ed artisti come il poeta Evgenij Evtushenko, il regista Alexei Guerman e il premio Nobel per la fisica Vitali Ginzburg. Ma Gorbaciov non si limita a perorare con tutta la sua autorevolezza questa importante iniziativa contro la carenza di memoria storica e la mistificazione del passato attualmente in voga, specialmente in tv. Pretende qualcosa di più. Un gesto altamente simbolico e provocatorio: rimuovere la mummia di Lenin dal mausoleo della Piazza Rossa per inumarla, «il mio punto di vista è che ora non si debba fare i becchini ma arriverà necessariamente un tempo in cui non ci dovrà più essere il cimitero vicino alle mura del Cremlino come non deve esserci il corpo di Lenin. Lui deve essere interrato, lo voleva la sua famiglia».
L´idea di seppellire Lenin non è nuova, ma negli ultimi tempi è sempre più ricorrente. Lo vuole la Chiesa ortodossa che non ha mai apprezzato il rito «pagano» del pellegrinaggio al mausoleo nella stessa piazza della celebre chiesa di san Basilio.
Il primo a sollevare la questione fu Boris Eltsin, ma evitò di andar oltre perché i comunisti erano ancora molto forti e la loro indignazione avrebbe potuto scatenare reazioni incontrollabili. L´autunno scorso fu la volta del Cremlino a lasciar trapelare l´ipotesi di un referendum sulla rimozione della mummia di Lenin, sollevando un putiferio tra i comunisti. Era la vigilia del novantesimo anniversario della Rivoluzione d´Ottobre e a Mosca, in quei giorni, si trovava Oliviero Diliberto, leader dei comunisti italiani, il quale prese la palla al balzo e dichiarò - scherzosamente? - che se proprio volevano cacciar Lenin via dalla Piazza Rossa, allora avrebbe fatto di tutto per portare la mummia a Roma. Apriti cielo!
Appunto. Guai a toccare Lenin. Andrei Vorobiev, ex ministro della Sanità, presente alla conferenza stampa in qualità di co-firmatario dell´appello per il Memoriale Butyrka, si è messo a discutere in modo concitato con Gorbaciov: «A che serve farlo? Perché portarlo via? E´ la nostra storia. Lì sono seppellite le persone che in tempi diversi sono state a capo del nostro paese».
Ivan Melnikov, vicepresidente del partito comunista russo e vicepresidente della Duma, ha dichiarato che i comunisti non lo permetteranno mai: «Non ci stupiamo di sentire cose del genere da parte di Mikhail Sergeevich perché lui è un grande specialista in ciò che riguarda il portar via: ha già portato via la grande Unione Sovietica dalla mappa del mondo ed ora si è ricordato di non averlo fatto in tempo col grande Lenin». Tuttavia, aggiunge Melnikov, la mossa di Gorbaciov metterà in imbarazzo le autorità e frenerà i loro tentativi, «altrimenti sarebbe costretti a fare ciò che Gorbaciov vuole». Meno ironici i dirigenti dell´organizzazione Comunisti di Pietroburgo e della regione di Leningrado che vogliono rivolgersi al comitato dei Nobel perché gli revochi il premio per la Pace: «Il suo appello di fatto è un invito alla guerra civile perché Lenin piace a più di metà dei russi».
Polemiche che non scalfiscono il pensiero-guida dell´ex presidente: combattere la «frenesia, consolidare la libertà e la democrazia», ricordare il regime dispotico e sanguinario che soltanto nel biennio 1937-38 provocò 725mila vittime. In tv, ha denunciato Gorbaciov, si «edulcora» la figura di Stalin, «come è successo nel primo canale, e in certi manuali la vera storia cede il passo ai miti. Su questi terreni vaghi della memoria riappare la sinistra figura di Stalin come amministratore efficiente», e non come un despota, «bisogna completare il processo di riabilitazione, come nel caso dei 22mila soldati polacchi trucidati nel 1940 dalla polizia segreta staliniana a Katyn». La giustizia russa archiviò il caso: vittime di crimini comuni.

il Riformista 5.6.08
Tremonti e i petrolieri. Il fisco di Robin Hood


L'intelligenza tattica di Giulio Tremonti non è in discussione. Scavalcando a sinistra il Pd, il ministro fa tremare il terreno sotto i piedi a chi cominciava a vedere la fine di una transizione cominciata con la caduta del muro. A che è servito, impratichirsi col vocabolario delle liberalizzazioni, se poi la destra vince e tassa? In realtà, le sue mosse vanno valutate ciascuna per conto suo, e non sarebbe giusto incasellarle per categorie facili ma sbagliate. Il Tremonti di governo mantiene una promessa del Tremonti saggista: l'eclettismo.
Con onestà intellettuale, Tremonti non ha presentato la "Robin Hood tax" sui petrolieri come una forma di calmiere sui prezzi alla pompa. Ha detto che «la gente che ha fame non aspetta», ovvero che intende «tassare un po' di più i petrolieri per dare un po' di più a chi ha bisogno. Pane, pasta, burro». Di per sé, in un paese come l'Italia una proposta di questo tipo non è affatto sorprendente, anzi parrebbe plausibile e giusta. Quando i più poveri devono tirare la cinghia, non è ragionevole che siano i più ricchi a sacrificare introiti che vanno ben oltre non solo le loro necessità, ma il «superfluo concepibile»? Una società deve aiutare i meno fortunati; il problema sono i mezzi con cui può scegliere di occuparsi di loro. Per molto tempo si è pensato che la via fosse una tassazione altissima per i redditi più elevati, salvo accorgersi che, oltre una certa soglia, i membri più imprenditoriali di una società si stancavano di «lavorare per gli altri», con conseguenze negative per tutti. A lungo, si è anche pensato che l'unico modo possibile per occuparsi dei più poveri fosse "attraverso lo Stato". Ma, scrive Tremonti in La paura e la speranza , «il modello sociale socialista trova la sua massima espressione nel "trasferimento" pubblico dall'alto verso il basso e con questo aliena la persona, spingendola verso l'astrazione dello Stato provvidenziale». La logica burocratica fa sì che i meccanismi d'aiuto dei più deboli si rivelino farraginosi e controproducenti. Perché allora, dovendo "dare pasta e burro", pensare che oggi debba farlo ancora lo Stato?
Inoltre, una prospettiva liberale imporrebbe di guardare non solo all'immediato. Siamo sicuri che tassare la "speculazione" dei petrolieri non causerà che qualche lacrima dei magnati del greggio? Come ha ricordato tempo fa il professor Angelo Petroni, «ogni qualvolta i neocorporativisti si vantano di come, intervenendo a modificare i risultati del mercato, si sia ottenuta una situazione "migliore", il liberista sa che ciò è stato ottenuto a prezzo di imporre ulteriori oneri ad altri, che si troveranno di conseguenza in una posizione peggiore».

mercoledì 4 giugno 2008

Corriere della Sera Roma 4.6.08
Sapienza-Iran per soli uomini
di Maurizio Caprara


Se si parla dei legami tra Italia e Iran, il pensiero va dritto agli affari. L'interscambio, che nel 2007 è stato di sei miliardi di euro, rende in Europa il nostro Paese il primo partner commerciale della Repubblica islamica. Ma di collegamenti ce ne sono anche altri: gli studenti che si interessano di questioni iraniane non sono soltanto quelli che ieri protestavano contro le minacce di Mahmoud Ahmadinejad al sacrosanto diritto di Israele a esistere. Prova ne è che tra gli imprenditori riuniti in serata all'hotel Hilton per ascoltare il presidente venuto da Teheran c'era anche il preside della facoltà di Studi orientali della «Sapienza», Federico Masini.
«L'Iran è il Paese con il quale la nostra università ha il maggior numero di accordi», spiega Masini. «Ogni anno ci mandiamo a studiare 15 studenti. Vanno a Isfahan e tornano entusiasti da un campus fantastico. In genere, dopo trovano sbocchi lavorativi», dice il professore.
Si capisce perché l'ufficio dell'ambasciatore iraniano Abolfazl Zohrevand abbia invitato Masini. La sua facoltà, fra l'altro, ha pubblicato l'unico dizionario italiano-persiano stampato di recente nel nostro Paese. «In Iran non riusciamo a mandare ragazze. Le famiglie non si fidano», racconta Masini. Però non dispera.

l’Unità 4.6.08
Il volto cattivo
di Dijana Pavlovic


Questa nuova Italia che criminalizza
per decreto la povertà, della violenza
contro gli ultimi, del pregiudizio elevato
a verità, della giustizia fai da te
dovrebbe invece riflettere sul lungo
decorso della malattia che l’affligge

La scelta del Comune di Venezia di offrire una vera opportunità di integrazione ai rom che vi risiedono regolarmente, lavorano e mandano i figli a scuola avrebbe dovuto avere il plauso di chi invoca legalità e sicurezza. Ma per i leghisti veneti non è così. È forse meglio il rogo dei campi a Napoli, le molotov di Pavia, le accuse mai provate di rubare bambini, le ronde che percorrono le città d’Italia? La feroce campagna della «Lega contro zingari e immigrati» continua alimentando l'insofferenza diffusa contro il diverso, l’immigrato, lo zingaro che assume i connotati espliciti della xenofobia e del razzismo.
Ma proprio chi invoca sicurezza sa che quanto più una comunità è in condizioni di stabilità, ha un minimo di sicurezza sociale, più è garantita sicurezza per tutti.

Ma quello che io ho visto è che questo non interessa. I 65 sgomberi di cui si vanta il vicesindaco di Milano non hanno risolto il problema dei campi abusivi - si sono solo spostati altrove - in compenso hanno distrutto quel poco di integrazione che si era realizzato con gli uomini che lavoravano, anche se spesso in nero perché ricattati, e i bambini che frequentavano le scuole. È forse più sicuro rendere queste persone più disperate, costringerle a disperdersi sul territorio e arrangiarsi come possono per sopravvivere?
I dati delle Nazioni unite classificano l’Italia come uno dei paesi industrializzati più sicuri al mondo: solo in Austria e Giappone ci sono meno omicidi che in Italia e per quanto riguarda scippi e borseggi - i reati che più si attribuiscono ai rom - l’Italia e al 14° posto sui 18 paesi esaminati, e così via.
La paura agitata dai leghisti è il frutto di una logica senza prospettiva: chi può pensare di invertire i fenomeni migratori che ovunque stanno cambiando il mondo? È la scelta di un consenso ottenuto all’insegna di una insicurezza costruita gridando a un lupo senza denti. Scarica sul più debole il malessere di una società che ha un disagio sociale e morale profondo, grande responsabilità del quale tocca a una politica che rinuncia al compito di educazione civile per seguire gli istinti peggiori in un perverso circuito: la politica, con il coro condiscendente dei media, alimenta la paura dei cittadini che premiano con il voto questa politica.
Questa nuova Italia che criminalizza per decreto la povertà, della violenza contro gli ultimi, del pregiudizio elevato a verità, della giustizia fai da te dovrebbe invece riflettere sul lungo decorso della malattia che l’affligge e sulle preoccupanti prospettive del suo futuro. Non si può non legare i Maso, le Eriche e gli Omar, che uccidono i genitori per denaro, ai ragazzini che violentano e uccidono una coetanea, al branco che uccide un diverso da loro a Verona, al bullismo nelle scuole, alla violenza praticata nelle famiglie.
Coloro che aizzano i cani, lanciano molotov e sassi, percorrono in ronde minacciose le città, i sindaci che annunciano nei cartelloni che «i clandestini possono stuprare i tuoi figli» sono il volto vigliacco di chi non guarda al male che porta dentro di sé, di chi rifiuta di affrontare la camorra che a Napoli controlla i rifiuti e organizza i roghi dei campi rom, la mafia padrona della vita e del voto dei siciliani, l’andrangheta non solo padrona del territorio calabrese ma di interi quartieri di città come Milano.
Di fronte a tutto questo io, rom e cittadina italiana, che so bene quanto il rispetto della legge protegga me e il mio popolo, dico alla Lega quanto mi pesa che sappia mostrarmi solo il volto vile del paese che amo.
dijana.pavlovic@fastwebnetI

l’Unità 4.6.08
«Niente paura, il mondo è multietnico»
di Francesca De Sanctis


LUCÍA ETXEBARRÍA parla del suo nuovo romanzo Cosmofobia, nel quale convivono, spesso senza mescolarsi, persone di diverse provenienze e culture. La scrittrice spagnola sarà stasera al Festival Letterature

Non credo che il mio
libro possa cambiare
la situazione, ma dice
con forza che
bisogna avere rispetto
per il prossimo

In Italia ci sono molti
problemi, la povertà
un presidente che
controlla tutti i media
Come mai ve la prendete
solo con gli immigrati?

Marocchini, equadoregni, senegalesi...e poi rock star in decadenza, aspiranti stilisti, modelle senza un soldo, pittori, attrici... e una scrittrice, Lucía Etxebarrìa, autrice del romanzo Cosmofobia (Guanda, pagine 386, euro 16,50) e contemporaneamente personaggio del suo stesso «affresco», un mondo variegato dove convivono e si intrecciano una ventina di vite, tutte di diversa nazionalità, di diverse classi sociali, di diversa indole. «Sono personaggi reali quelli cui parlo - ci spiega l’autrice spagnola arrivata a Roma per il Festival Letterature -. Alcuni di loro però mi hanno esplicitamente chiesto di cambiare nome o età in modo tale da non essere riconoscibili». Non lei, che appare così com’è: curiosa, provocatrice e innamorata di sua figlia che mentre parliamo si mette in posa, con il suo abitino azzurro e un succoso arancio tra le mani. Intanto i fotografi scattano foto a questa madre in pantacollant viola, felice di essere a Roma ma nello stesso tempo ben lieta di non viverci. «Tutte le grandi città - ci dice - sono come Catherine Deneuve, da giovane però... devono sempre essere conquistate. Io preferisco le città più piccole».
Lucía però vive a Madrid. «Non ho scelto io di vivere lì - precisa subito - è capitato». Abita a Lavapiés, un quartiere multietnico «dove i prezzi delle case sono più bassi...». Proprio in quel barrio si incrociano i destini dei suoi personaggi: i bambini che giocano nella ludodeca, le donne del centro di auto-aiuto, i piccoli spacciatori, gli immigrati poverissimi, i musulmani che rinnegano il velo.
È «un quartiere piuttosto popolare» dice Antòn all’inizio del romanzo, e «sarà anche multiculturale, ma interculturale no». Lucía, nessuno si mescola con gli altri, perché?
«Le culture non si mescolano per paura dell’altro, oggi ancora più di prima. Naturalmente esiste un utilizzo politico della paura. Tutti gli uomini politici usano qualcosa che esiste già, la paura dell’ignoto, a fini politici. Lo ha fatto Hitler con gli ebrei, lo hanno fatto i cinesi con i giapponesi, i turchi con i curdi, lo ha fatto Stalin e oggi lo stanno facendo Bush con l’Islam, gli italiani con gli albanesi e i rumeni, gli spagnoli con i marocchini e i neri... Se si potessero espellere tutti gli immigrati dall’Italia o dalla Spagna l’economia del Paese subirebbe un bel colpo. Gli immigrati fanno lavori - tipo prendersi cura degli anziani o dei bambini - che permettono loro di guadagnare. In Spagna uno studio pubblicato da El País si interroga proprio su questo: se di colpo venissero espulsi tutti i clandestini quale sarebbe l’economia del Paese? C’è una grande ipocrisia da parte di chi, soprattutto certi ministri, vorrebbe mandare via queste persone: “tutti via tranne la badante di mia madre”...».
Forse è il momento giusto, in Italia, per leggere il suo libro...
«Sì, infatti. Non credo che il mio libro possa cambiare la situazione, ma di sicuro mette in chiaro una cosa: bisogna avere rispetto per il prossimo. E una persona come il vostro presidente del Consiglio, che appoggia una direttiva Onu che permette di lasciare in prigione per 10-18 mesi delle persone innocenti che hanno come unica colpa quella di non avere una nazionalità europea trovo che sia un’assurdità. E pensare che Berlusconi dice di essere cattolico. Io non lo sono, ma la mia famiglia lo è, io lo sono stata, e per un cattolico il rispetto per il prossimo e la misericordia sono fondamentali. Io non credo che un cattolico farebbe mai delle affermazioni xenofobe, Berlusconi lo ha fatto. Detto questo io sono affascinata da quest’uomo! Come tutte le donne italiane, no? Trovo che sia surreale: capelli tinti, botulino, operazioni, è il politico più rosa che si sia mai visto».
A livello nazionale, ma anche in grandi città come Roma, dopo le elezioni politiche si parla molto del problema sicurezza...
«Il vero problema italiano, a mio avviso, è che avete un presidente del Consiglio che controlla tutti mezzi di comunicazione (in Spagna una cosa del genere sarebbe illegale). E avete anche la più alta percentuale di persone che guadagnano meno di mille euro al mese: Non parlo degli immigrati ma di giovani trentenni che non possono sposarsi né avere figli; il più alto tasso di disoccupazione d’Europa e il più alto tasso d’inflazione. Mi chiedo perché allora i giornali parlino solo di immigrazione... Credo che dipenda dal fatto che il capo del governo ha il controllo dei media. È lo stesso motivo per il quale ha vinto le elezioni: chi controlla i mezzi di comunicazione controlla l’opinione pubblica, dunque controlla il voto. Per questo ha vinto, la sinistra non ha potuto farci niente. Purtroppo il rischio è che in questo modo Berlusconi potrebbe diventare un secondo Mussolini. Italia e Spagna - aggiunge - hanno in comune un problema con la corruzione che ha a che fare con le nostre radici arabe: sia gli italiani che gli spagnoli hanno a cuore la famiglia, questo significa, per esempio, che facciamo di tutto per piazzare un nostro parente, e così la corruzione si alimenta...».
«Cosmofobia» è anche un libro che parla di identità.
«È un libro che parla di rapporti personali, di storie amore, della ricerca impossibile dell’amore come segno identitario. Avevo affrontato questo argomento anche in un altro libro: Io non soffro per amore (Guanda 2007)».
Il destino però può influire sull’identità di una persona, come accade nel suo romanzo?
«Se fossi nata in Somalia il mio destino lo avrebbe costruito Bush, ma sono nata in Spagna... credo di essere stata l’unica artefice del mio destino. Dunque ciascuno di noi costruisce il proprio destino e dunque la propria identità, a meno che non si abbia la sfortuna di vivere in condizioni di povertà estrema».
Un’opportunità persa può trasformarsi in una vittoria?
«Sempre, credo che nella vita succeda continuamente. È successo anche a me. Molti anni fa sono stata responsabile della Comunicazione di un grossa multinazionale, ed era professionalmente un grosso successo. Poi però mi sono fatta licenziare perché non sopportavo più di lavorare 14 ore al giorno guadagnando poco. Quando lo feci la mia famiglia rimase scandalizzata: ma come hai potuto?, mi dicevano. Perché di fatto era un posto importante. Però è così che ho iniziato a fare la scrittrice, per me è una grande vittoria».
Lei scrive in casa?
«No, ho uno studio, dove mi reco ogni giorno, come fa un avvocato che va nel suo ufficio. Con una figlia piccola non avrei potuto fare diversamente. Mi piacerebbe avere altri figli, mi piacciono molto i bambini, vorrei dimostrare che una donna può fare tutto senza dover rinunciare alla sua carriera, basta solo essere molto organizzate».
Come si aspetta che reagirà il pubblico italiano al suo libro?
«Un quartiere multietnico esiste anche a Parigi e credo anche a Roma, dunque perché preoccuparsi? Stilisti, stelle del rock, attrici mature esistono anche in Italia...».
E del racconto che leggerà a Massenzio cosa ci dice?
«Il brano che leggerò racconta una storia vera che riguarda un mio amico, molto alcolizzato, che una volta in metrò a Madrid si è messo a cantare dichiarandomi il suo amore. Il bello è che nessuno ci ha fatto caso...Comunque, per concludere, le cose più importanti nella vita non si raccontano mai. È un mito stupido quello di dover dire sempre tutto al proprio compagno o compagna. Il silenzio ci preserva. In Cosmofobia racconto la storia vera di un uomo che è stato squartato e faccio capire che uno dei protagonisti della storia è l’assassino che colpisce all’interno di un rituale sado-maso, ma nessuno sa veramente cosa è accaduto. Uno scrittore deve sempre sapere cosa non deve raccontare, lasciare spazio all’immaginazione».

l’Unità 4.6.08
«Parola, silenzio» una sera al femminile


Prosegue con Lucía Etxebarría (Guanda) e Katherine Dunn (Elliot) il Festival Letterature, promosso dal Comune di Roma e diretto da Maria Ida Gaeta (regia Piero Maccarinelli) in una serata tutta al femminile. Alle 21, sul palco della Basilica di Massenzio, salirà la scrittrice americana che leggerà il brano inedito La mano, poi toccherà all’autrice spagnola che leggerà il testo Parole e silenzi. Saranno introdotte rispettivamente dalle due attrici Antonia Liskova e Sabrina Impacciatore. Musica live di Stefania Tallini. «La mia è una storia in parte vera ma anche un po’ fiaba - spiega la Dunn - , ambientata nel mio quartiere a Portland, in Oregon. Si apre con un incidente che provoca un profluvio di parole e il risultato finale è il silenzio».

l’Unità 4.6.08
Europa e immigrazione. Muscoli di carta
di Gianni Marsilli


Qua e là risuona da Roma una parola assai inabituale nel gergo politico italiano: sovranità. La brandiscono Calderoli (Lega) e Bocchino (An), per rivendicare autonomia rispetto ad istanze sovranazionali come l’Unione europea e l’Onu, preoccupate per la piega che prende in Italia la questione della sicurezza e dell’immigrazione.

È una parola carica di storia ma oggi anche di ambiguità. Nel resto d’Europa serve da lustri ad identificare i «sovranisti», euroscettici o eurocontro, fautori delle prerogative dello Stato nazionale contro l’invadenza comunitaria. Da noi non si capisce ancora, anche perché i «sovranisti», in genere, sono i primi a presenziare alle parate militari e ad inchinarsi davanti al vessillo nazionale. La Lega ha invece disertato la Festa della Repubblica, e del tricolore sappiamo bene quale uso vorrebbe fare, sotto lo sguardo benevolo dei patrioti Bocchino, Gasparri e La Russa. Ma lasciamo a Pontida quel che è di Pontida, e vediamo di ragionare un po’. Non c’è dubbio che la questione dell’immigrazione e della sicurezza abbia carattere d’urgenza, e che sia bisognosa di risposte rapide. Il governo italiano pensava di aver trovato il punto critico e il modo più efficace per aggredirlo: rendere reato l’immigrazione clandestina. Lo prevedono altri codici penali europei, è vero. Ma è altrettanto vero che in nessun paese la norma è risultata dissuasiva. Nel frattempo in Italia, sul terreno, dirigenti e militanti veneti della Lega si sentono autorizzati, dal vento che tira, a bloccare la costruzione di un villaggio per nomadi Scinti, votata dal Comune di Venezia, confermando che Mario Borghezio non è un solitario e pittoresco esaltato, ma la punta gassosa dell’iceberg dell’intolleranza e dell’ottusità. Qualcosa di tutto ciò dev’essere arrivato all’orecchio di Berlusconi, se ieri ha deciso di affondare il rigore esibito dai suoi portavoce: per lui, fatte salve future smentite, l’immigrazione illegale può essere al massimo un’aggravante, ma non un reato. Essendo il capo del governo, si presume che la benvenuta virata di bordo avrà qualche conseguenza concreta sulla discussione in Parlamento. La turbolenza, chiamiamola così, non investe solo l’Italia. Sul piano della sicurezza in Gran Bretagna Gordon Brown, mentre tocca il fondo degli indici di popolarità, pensa di riguadagnare qualche punto proponendo, la settimana prossima in Parlamento, di allungare la detenzione provvisoria per i «sospetti» di terrorismo. È già di 28 giorni, la vorrebbe di 42 giorni, record mondiale. In Francia, per intendersi, è di sei giorni. Mai, inoltre, un magistrato ha sentito la necessità di superare i 28 giorni per incolpare l’arrestato. Il Labour è in rivolta e minaccia di votargli contro. Ma Gordon Brown ha semplicemente un problema di consenso d’opinione, che rincorre con i mezzucci di bordo facendo la voce grossa. Inutile dire che ai conservatori riesce meglio. In Francia Sarkozy continua a fissare quote di espulsione, che ministri e prefetti sono tenuti a rispettare: 30mila per l’anno in corso. Ogni tanto qualche «irregolare» cade da un cornicione, tentando di sfuggire ai gendarmi. Ogni tanto i gendarmi compiono irruzioni maldestre, anche nelle scuole elementari. Ma accade anche che i «clandestini» lavorino e ad un certo punto escano allo scoperto: per cortesia, mi chiamo Yousouf, sgobbo qui da dieci anni, mettetemi in regola. È successo in diversi ristoranti parigini, sotto l’occhio delle telecamere convocate in cucina, e quasi tutti sono stati messi in regola. Le cose, nei fatti, vanno come possono, con buona pace del «reato» di clandestinità. Forse consapevole dell’insufficienza decretizia di un apparato normativo anti-immigrati, è da tempo che Sarkozy ha annunciato la volontà di stringere con i partner un «patto per l’immigrazione» europeo, che dovrebbe essere il fiore all’occhiello della presidenza francese dell’Ue che comincerà tra quattro settimane. Non è ancora chiaro in che cosa dovrebbe consistere, a parte il conclamato rifiuto di sanatorie di massa, ma perlomeno colloca il problema nella sua giusta dimensione, che non è nazionale ma europea, anzi euro-africana. Sembra banale, ma evidentemente non lo era per il governo italiano, convinto che una «linea dura» fatta in casa come la pasta fresca, e nutrita da muscolari dichiarazioni televisive, si dimostrerà pagante. Di cosa l’Italia proponga ai partner europei, invece, non è ancora dato di sapere. Almeno fino a ieri però Sarkozy era contento di Berlusconi. Sapete cosa si diceva ufficiosamente all’Eliseo? «Con la posizione dura di Berlusconi, quella della Francia appare moderata». Forse è qui, nel sano timore di apparire ancora una volta i più mascelluti e stupidamente teatrali della compagnia europea, che trova spiegazione l’abbondante dose di acqua che ieri Berlusconi ha voluto mettere nel suo vino. È la miglior risposta a tutti quelli che dicono che di Europa non c’è bisogno, e che invocano una sovranità del piffero.

l’Unità 4.6.08
D’Alema, laicità e senso dello Stato
di Giuseppe Tamburrano


Nessuno crede che D’Alema si sia ritirato nella sua Fondazione come in un monastero benedettino per dedicarsi a severi studi. È amante sì della cultura ma, come Croce diceva di Togliatti (al quale somiglia), è totus politicus, e la sua cultura non è «disinteressata»: ha sempre un lucido fine politico.
Al recente convegno nel Cilento su «religione e democrazia», di altissimo livello teorico, D’Alema si è scoperto difensore del laicismo nei confronti della Chiesa tentata di un patto col potere politico. E dico a ragione veduta «scoperto» perché questo impegno è nuovo, non lo abbiamo mai notato in passato, né in lui né nel suo partito attuale, recente e antico. E a chi come me e i tanti socialisti dispersi questo D’Alema piace.
In Italia il laicismo come difesa dei diritti dello Stato nei confronti della Chiesa ha, in varie guise, radici millenarie. E per venire ai fondamenti della nostra Repubblica, ha avuto nei componenti la folta pattuglia liberale, repubblicana, azionista, radicale e soprattutto socialista - ma mai comunista - i protagonisti della lotta contro il clericalismo e le «tentazioni del potere» della Chiesa.
Questi partiti e movimenti sono tutti pressoché svaniti; ma sopravvive largamente lo spirito pubblico laico: dunque, viva D’Alema che se ne fa interprete. Se i giornali e i telegiornali «aprono» con il servizio sui vescovi che intervengono non sui temi («eticamente sensibili») che attengono all’insegnamento della Chiesa, ma su sicurezza, immigrazione e rifiuti napoletani, è bene che qualcuno autorevolmente ci ricordi che «lo Stato è di tutti e che il potere non può essere posto al servizio delle convinzioni pur nobili di una parte» (D’Alema, Corriere della Sera 28 maggio 2009). Dunque la Chiesa, nell’esercizio del suo magistero, non può pretendere che quella parte dei cittadini, i suoi fedeli che credono e praticano, trasformino i suoi precetti in legge vincolante per tutti.
D’Alema è stato subito criticato come «comunista», «vetero marxista» da Fioroni e da Riccardi. Eh no! Semmai è «vetero cavourriano».
Ma non è questo del laicismo il solo intervento «alto» di D’Alema. La sua critica alla globalizzazione e, a mio parere, l’anticipo di un ripensamento sul liberismo. Dico a ragion veduta un «ripensamento» perché egli è stato in prima linea nella conversione dal collettivismo comunista al mercato. Ma oggi il numero degli apologeti del liberismo e della globalizzazione si sta diradando in tutto il mondo capitalistico. È l’establishment - Clinton, Obama, l’Economist - che vuole l’intervento dello Stato per salvare il sistema dalle gravi difficoltà in cui si dibatte; è il direttore generale del Wto, Lamy, che chiede un welfare per «addolcire la globalizzazione». È Tremonti che critica il mercatismo e spezza più lance a favore dello Stato. È Bondi che giudica (su l’Unità del 27 maggio 2008) la sinistra «inadeguata... alla sfida... della crisi attuale del mondo globalizzato» per via del suo «liberismo» d’accatto. Può il PD restare l’unica roccaforte a difesa del mercato senza Stato? Credo che su questo problema, che attraversa la crisi del laburismo e del socialismo europeo, sentiremo cose nuove dalla Fondazione Italianieuropei.
Completo il quadro. Subito dopo le elezioni vi è stato un confronto tra Veltroni e D’Alema. Il primo ha difeso la priorità della definizione dell’identità del nuovo partito rispetto alla ricerca delle alleanze, D’Alema invece ha sostenuto che un partito che raccoglie appena un terzo del consenso elettorale non può chiudersi in se stesso, ma deve cercare alleanze, in particolare con quella larga sinistra priva di rappresentanza parlamentare.
Ho osservato a D’Alema (e mi scuso per l’autocitazione: l’Unità 9 maggio 2008) che chi propone alleanze deve anche dire su che cosa. D’Alema lo sta facendo.
Credo che i contenuti del nuovo dalemismo si stiano precisando ed in termini che sono di alto profilo, culturale e strategico, più che tattico-politico. È una linea poggiata su due pilastri: laicismo e rapporto Stato-mercato. Se è così, sarebbe il lancio di una grande idea-forza: un nuovo socialismo, una casa non una cosa, in cui si potrebbe ritrovare tutta la sinistra dispersa, sommersa, diffusa. Sarebbe - come ho scritto - finalmente la nostra Epinay. D’Alema ha promesso che ad ottobre, quando le cose saranno più chiare, parlerà. Non vedo l’ora.

Repubblica 4.6.08
Bondi: "La cultura non è di sinistra"
E Barbareschi attacca Gomorra: "Bravi a esportare solo i nostri guai"
di Carmelo Lopapa


Il programma del ministro illustrato alla Camera. Ma da Tremonti non un euro in più

ROMA - È il brutto che c´è nelle nostre periferie a generare violenza, criminalità, magari anche l´invasione dei rifiuti. La nuova mission del governo sarà allora quella, ardua, di «recuperare la bellezza». E demolire tutto ciò che degrada e abbrutisce le città. Sembra la relazione di un post-estetista, a parlare così è invece Sandro Bondi davanti alla commissione Cultura della Camera alla quale ha illustrato le linee programmatiche del suo ministero. La filosofia di fondo è questa: «Dove non c´è bellezza, lì non c´è creatività, non c´è voglia di fare, non c´è l´humus indispensabile perché possano svilupparsi processi di crescita». E poi, «come potrebbero le persone acquisire uno spirito nobile se intorno a loro non ci sono opere d´arte che rappresentano la nobiltà d´animo?»
Peccato che per la gestione e la salvaguardia di musei, siti archeologici, film e teatro, non ci sarà un solo euro in più. «Non potrò chiederlo a Tremonti» ammette il ministro. Già il taglio dell´Ici ha infierito sul Fondo per lo spettacolo. Le uniche speranze saranno affidate agli investimenti privati. Inatteso plauso trasversale, comunque, al programma con cui Bondi ha invitato a superare le culture di destra e di sinistra. Sebbene i rilievi polemici del Pd non siano mancati. A lanciare una mezza provocazione ci pensa Luca Barbareschi. Film come Gomorra? «Bello, certo - ha spiegato - Ma per ogni film come quello dovremmo esportarne altri dieci che illustrino quanto di positivo c´è nel nostro Paese. Invece siamo bravissimi ad esportare solo i nostri guai». Per concludere col suo cavallo di battaglia, «l´uso distorto» dei fondi per la cinematografia. A suo dire dirottati su quella targata.
La parola d´ordine del ministro Bondi invece è pacificazione, con tanto di riconoscimenti ai predecessori Rutelli, Buttiglione, Urbani. «Per lungo tempo siamo stati indotti a credere che la cultura potesse essere di destra o di sinistra, mai abbiamo pensato che sussistessero valori condivisi a fondamento della nazione» scandisce, ecumenico. Confessa di aver capito al recente festival di Cannes, dopo i successi di "Gomorra" e "Il Divo", che «sta rinascendo un cinema italiano forte, impegnato, forse anche scomodo, diretto da magistrali registi». Ma il piatto forte del programma di governo sarà appunto il «recupero della bellezza». La premessa è che «nelle città devastate dalla bruttezza e dal degrado si annidano fenomeni allarmanti di disagio sociale: la bruttezza e il degrado generano violenza» spiega citando il politologo Michael Novack in commissione Cultura. Ma come si riscopre la bellezza? Attraverso il «recupero delle immense periferie», lo stop a una «nuova cementificazione che il Paese non può permettersi» e le demolizioni. Mentre ci sarà una sorta di super coordinatore che sovrintenderà a tutti i musei. Certo, poi ci sarebbe l´immenso patrimonio, snocciolato dal ministro: 3.500 musei statali, 100 mila tra monumenti e chiese, 300 mila dimore storiche e 2000 siti archeologici. Ecco, per tutto questo l´Italia spende lo 0,28% del bilancio, ovvero 2,3 miliardi di euro contro gli 8,3 miliardi della Svezia e i 3 della Francia. Eppure, l´unico obiettivo raggiungibile sarà «mantenere l´esistente», non un euro in più, ammette Bondi che anzi chiede ai deputati un aiuto per evitare ulteriori tagli.
«C´è un´inedita attenzione alla difesa della bellezza e del paesaggio culturale: la più grande infrastruttura italiana» plaude a nome del Pdl il capogruppo in commissione Fabio Granata. Relazione «generica e contraddittoria», per le democratiche Ghizzoni e De Biasi. Eugenio Mazzarella, docente di Filosofia e deputato Pd, la boccia: « Altro che cultura del bello e politica del fare, se davvero considerassero la cultura la più grande infrastruttura, i soldi li investirebbe lì anziché su una infrastruttura superflua come il Ponte».

Repubblica 4.6.08
Anche gli uomini primitivi rapivano le donne dei nemici Lo rivelano gli studi su una fossa comune in Germania
Ratto delle Sabine il primo è preistorico
di Elena Dusi


Il mistero svelato: "Non c´erano ossa femminili perché avevano ucciso solo i maschi"

Cherchez la femme, per risolvere il primo giallo della storia. Sul luogo del delitto, 34 cadaveri con 7mila anni di storia sulle spalle e nessuna traccia femminile nei paraggi. «C´è un´unica spiegazione. Rapire le donne e portarle via era il vero obiettivo della guerra fra tribù» rivela Alex Bentley. L´antropologo dell´università inglese di Durham per risolvere il complicato caso del neolitico non ha fatto altro che pescare fra i resoconti della mitologia romana. Così al ratto delle Sabine, secondo la sua ricostruzione, si affianca un cruento precedente: quello della battaglia per le donne avvenuta a Talheim, in Germania, quasi 5mila anni prima della nascita di Cristo.
Fra i 34 scheletri accatastati nella fossa comune tedesca, in realtà, alcuni resti femminili ci sono. Ma secondo i ricercatori di Durham, che hanno ricostruito le loro caratteristiche biologiche nei dettagli, si trattava di bimbe o anziane (c´è anche una nonna). Gli uomini hanno quasi tutti i crani sfondati dal lato sinistro: sono stati probabilmente bendati e immobilizzati e poi uccisi con un colpo di ascia sulla testa. Le donne invece, risorsa preziosa nei tempi incerti del neolitico, sono state tutte rapite. Finite nel bottino dei guerrieri vincitori.
Erano vent´anni che gli antropologi si arrovellavano sul giallo di Talheim. La fossa comune fu scoperta negli anni ‘80 e fin da subito, con quei crani fratturati e i frammenti di freccia conficcati nelle ossa, servì a dimostrare che guerre e crudeltà erano prassi comune anche nell´età della pietra. E che la violenza era un carattere indelebile della natura umana. Bentley e i suoi collaboratori, ricostruendo le parentele tra gli sfortunati abitanti della fossa comune, hanno ora allargato la trama della storia, aggiungendo al capitolo del sangue anche quello del sesso.
Per ricostruire l´identità dei protagonisti del giallo - i dettagli sono pubblicati sulla rivista Antiquity - i ricercatori hanno puntato i loro strumenti sullo smalto dei denti. A partire dalle sostanze da cui è composto, è infatti possibile risalire a dieta e regione geografica di provenienza di ciascun individuo. Il primo passo è stato dividere gli scheletri in due. Da una parte c´era la tribù locale, che è stata assalita a colpi di ascia. I rivali erano probabilmente rimasti senza più donne e hanno deciso di scendere nella valle di Talheim dalla montagna in cui vivevano con intenzioni poco cavalleresche.
A lasciarci la pelle, nella mischia, sono stati 18 adulti e 16 bambini, tutti sepolti dai sopravvissuti senza troppe formalità in una buca lunga 3 metri. Fra gli uomini che hanno perso vita e moglie c´erano anche due fratelli, un padre morto con i suoi due bambini (fra cui una bimba di 11 anni), con una donna di 50 anni che probabilmente era la loro nonna. La tribù vittoriosa ha perso anche 4 guerriere di sesso femminile nello scontro, ma alla fine ne ha sicuramente guadagnato di più. «Nel neolitico si litigava per la terra e per il cibo, questo è certo. Ma ora abbiamo dimostrato che anche le donne erano motivo per scatenare una guerra» spiega Bentley. «Rispetto agli uomini, le guerriere erano evidentemente tenute in speciale considerazione. Per questo nonostante la sconfitta sono state lasciate tutte in vita». Con le Sabine o Elena di Troia, le donne delle caverne hanno condiviso un destino comune, e non c´è da sorprendersi. A loro è mancato solo un cantore disposto a tramandare la loro storia.

Repubblica 4.6.08
La scomparsa di un autentico testimone del secolo
Fejtö. Annunciò la fine del comunismo
di Massimo L. Salvadori


I suoi lavori più importanti sono dedicati al mondo delle democrazie popolari, al colpo di Stato di Praga del ´48 e alla rivoluzione ungherese del ´56

François Fejtö era un cittadino d´Europa, che ebbe i suoi due baricentri nella Mitteleuropa e in Francia. Nato nel 1909 in una famiglia di ebrei ungheresi che trafficava con i libri, trovò la sua seconda patria in Francia, dove si stabilì nel 1938. Aver preso parte alla vita letteraria e politica dell´Ungheria fascistoide, in cui era passato attraverso una militanza socialista e antifascista finita nell´adesione al comunismo, gli era costata la prigione.
Dopo aver militato nelle file della Resistenza francese, Fejtö nel 1947 accettò di assumere la direzione dell´Ufficio della stampa e della documentazione dell´ambasciata ungherese di Parigi, da cui diede le dimissioni per protesta contro l´ondata di arresti e processi, tra cui quello dell´amico László Rajk. L´adesione al comunismo era da tempo alle spalle, ed egli si legò a influenti intellettuali francesi liberali come in primo luogo Aron e con loro combatté battaglie in nome della libertà su posizioni di critica aperta nei confronti dello stalinismo. Fu un attivissimo collaboratore di giornali e riviste, da Esprit ad Arguments, Contre-Point, Le Monde, Le Temps modernes, Le Figaro, La Stampa, il Giornale. Nel 1955 prese la cittadinanza francese.
Morto l´altro ieri, quasi centenario, è davvero stato uno dei testimoni intelligenti del suo secolo. Sapeva di esserlo stato e rese conto del suo lungo cammino nel suo libro-bilancio Passeggero del secolo (1999).
Cosmopolita, cittadino d´Europa, Fejtö non aveva dimenticato le sue radici ebraiche ungheresi, come mostrano ad esempio i due libri L´Ungheria e gli ebrei del 1961 e Dio e il suo ebreo. Saggio eretico (1961). E neppure le radici mitteleuropee. Aveva, lui cui era stato dato di assistere da bambino al crollo dell´impero austro-ungarico e poi alle traversie senza pace dei paesi nati dalla sua dissoluzione, una certa nostalgia per quel mondo perduto; e la espresse nel saggio significativo del 1988 Requiem per un impero defunto e nella precedente biografia dedicata nel 1953 a Giuseppe II.
Ma il suo contributo più importante di storico, analista e commentatore Fejtö lo ha dato nei libri e nei saggi dedicati al mondo comunista: nei lavori sulla storia delle democrazie popolari, sul colpo di Stato di Praga del 1948, sulla rivoluzione ungherese del 1956, sulla Primavera di Praga del 1968, sul conflitto cino-sovietico, sull´eredità di Lenin, sull´antisemitismo nei paesi comunisti. Qui mostrò una grande capacità di penetrazione e una conoscenza che pochi altri potevano pareggiare.
C´è da domandarsi quale contributo a occuparsi delle vicende del comunismo e a capirle sovente con straordinaria acutezza sia venuto dall´essere stati prima comunisti e poi dall´aver cessato di esserlo. Vengono alla mente nomi come quelli di Arthur Rosenberg, di Boris Souvarine, di Victor Serge, Arthur Koestler, a cui se ne potrebbero aggiungere tanti altri. Orbene, per quanto riguarda Fejtö, prima della sua Storia delle democrazie popolari, di cui il primo volume uscì nel 1952 e il secondo nel 1969, la conoscenza dei paesi comunistizzati dell´Est era parziale, del tutto inadeguata. L´opera segnò una svolta, ebbe un grande successo e divenne un «classico» della materia. Nel 1992 Fejtö la completò con La fine delle democrazie popolari. Era il coronamento di una ininterrotta e appassionata ricerca.
Quale fosse il suo credo di storico, Fejtö l´aveva espresso nella prefazione al primo volume della Storia delle democrazie popolari, dove scriveva: «Noi, con Marc Bloch, crediamo che lo storico possa rendere un servigio utile alla causa del progresso, della libertà, della giustizia sociale, soltanto col difendere l´integrità, la libertà della passione che lo anima in quanto storico: la passione che sta nel comprendere. E con questa passione, è dal punto di vista dell´uomo che si sforza di "vedere le cose così com´esse sono", ton eonta, come già diceva Erodoto, che ci siamo proposti di studiare un frammento della storia contemporanea, lo sviluppo dopo la seconda guerra mondiale, di sette paesi dell´Europa orientale».
E nel 1971, chiudendo una nuova edizione del secondo volume, Fejtö mostrava di aver pienamente capito quale fosse il tarlo roditore del sistema comunista, che poco meno di venti anni dopo avrebbe condannato quest´ultimo all´implosione: «il volto repressivo assunto dal socialismo, la sua realizzazione dittatoriale e incompetente, vengono messi sotto accusa sempre più spesso. (...) Il sistema non funziona; e siccome non funziona, nessuno ha fiducia nel sistema».
Era la premonizione della catastrofe che si sarebbe rivelata a tutto tondo nel 1989, quando le dittature dell´Est sarebbero cadute in una festa di popoli, senza che nessuno alzasse un dito a loro difesa.

Repubblica 4.6.08
Europa Islam divisi dalla paura
Una tavola rotonda a Istanbul


Jürgen Habermas, Ian Buruma e Giuliano Amato in un confronto, organizzato da "Reset", su immigrazione, integrazione, democrazia e sui rapporti fra le civiltà
HABERMAS: "Il nostro obiettivo deve essere l´integrazione sociale"
BURUMA: "Va tirata una linea e la line è la legge che tutti sono tenuti a rispettare"
AMATO: "Mi è stato chiesto di cacciare imam che facevano discorsi simili a quelli di Ratzinger

ISTANBUL. C´è stato un momento di lieve imbarazzo, ieri, quando nella sala delle conferenze dell´Università Bilgi (La Sapienza), a Istanbul, dove stava parlando il filosofo tedesco Jürgen Habermas, hanno fatto la loro improvvisa comparsa quattro studentesse con indosso il velo. In Turchia solo da pochi mesi il copricapo è ammesso nelle accademie. E l´entrata delle ragazze con il turban, benché forse nel più liberale e aperto istituto universitario del paese, capace di ospitare tre anni fa la prima riunione di studiosi turchi e armeni, ha sorpreso la platea. L´uditorio è rimasto per un attimo congelato, e l´atmosfera come sospesa. Forse perché in ritardo, perché non c´era più posto, o perché a disagio, le quattro giovani si sono ritirate, nella sala a fianco collegata a circuito chiuso. E i lavori sono ripresi come di consueto.
Non ci poteva essere esempio migliore per fotografare la battaglia in atto in Turchia, e uno dei temi al centro del primo "Istanbul Seminar", organizzato lungo questa intera settimana nel Corno d´oro dalla rivista italiana Reset. Il suo direttore, Giancarlo Bosetti, è riuscito a mettere insieme una nutrita pattuglia di filosofi e studiosi di scienze politiche fra i più impegnati a livello internazionale nel dialogo fra civiltà. Benjamin Barber, Otto Schily, Michael Walzer, per citarne solo alcuni, stanno discutendo in questi giorni con i loro colleghi turchi e arabi argomenti come globalizzazione e religione, post-secolarismo e integrazione, donne e cosmpolitismo.
La giornata di ieri ha offerto un´accesa tavola rotonda coordinata da Bosetti che ha visto incrociare le tesi di Jürgen Habermas, Ian Buruma, Giuliano Amato, dello studioso turco Murat Belge e di quello marocchino Abdou Filali-Ansary. Ecco un estratto dell´incontro, dal titolo "L´Islam in Europa: immigrazione, integrazione e democrazia".
BOSETTI: «La questione che vorremmo affrontare riguarda la vita politica in Europa, influenzata dalla massiccia immigrazione proveniente soprattutto dall´Est, e poi da Asia, Africa, America Latina. Paesi come Italia, Germania e Spagna hanno molti immigranti, da sola la Lombardia ne ha preso più di un milione, e in tutta la penisola sono arrivati 600 mila rumeni dopo l´ingresso nella Ue. La paura è una presenza forte nell´opinione pubblica; l´immigrazione potrebbe essere un´opportunità, ma le difficoltà di integrazione sono parecchie tenendo conto che c´è una crescita di violenza e razzismo».
AMATO: «Noi abbiamo avuti pochi attacchi nel nostro paese, rispetto a quello che è avvenuto in Spagna o l´11 settembre. Ma quando c´è un attacco, anche lontano, in Iraq o in Afghanistan, la subito lo si collega alla religione. Ecco allora che scatta la paura. In qualche caso, mi è stato chiesto di allontanare predicatori islamici che hanno pronunciato discorsi non tanto dissimili da quelli fatti dal Papa. Ma nessuno si sognerebbe mai di mandare via il Papa. Le cose da fare, allora, sono molte. Ne individuo una lista. E´ molto importante che nelle nostre comunità le donne musulmane abbiano diritti, possano uscire di casa, ricevano un´educazione, la possano trasmettere ai figli. Occorre poi distinguere fra la parola di Dio e le parole degli esseri umani che nel corso dei secoli hanno creato delle leggi per governarsi. Inoltre, lo sforzo degli studiosi musulmani impegnati a distinguere fra il Corano e quella che è la sua interpretazione, è parte essenziale del dibattito. Ci vuole infine un´interazione con il mondo musulmano che guarda con aspettative all´Europa. Io ho terminato il mio lavoro di ministro continuando a discutere con profitto con musulmani in Italia che rispettavano la nostra legge. Questo va fatto. Perché altrimenti il cocktail che esce dalla paura genera solo razzismo e xenofobia».
BOSETTI: «Come maneggiare allora questa paura rispetto oggi alla situazione politica in Turchia?».
BELGE: «Bisogna buttare giù i muri, accrescere il dialogo e la comprensione fra paesi e realtà diverse. Quando accadono massacri in Egitto o in Gran Bretagna è molto facile per la gente generare nuovi elementi di instabilità. Se un gruppo di persone dice che uno scrittore deve essere ucciso per le sue idee, non si può avere rispetto per ciò che sostengono. Altrimenti resta solo il panico, il mondo come un inferno. In questo senso la Turchia può contribuire molto, perché qui l´Islam non ha mai tollerato l´intolleranza».
BURUMA: «Da quando ho affrontato questi argomenti in un libro sono stato accusato da una parte e dall´altra sulla questione islamica. Io identifico due tipi di paure. Una è quella in atto in molti paesi, e riguarda l´immigrazione da paesi musulmani. Ha a che fare con la globalizzazione economica e diverse altre ragioni. Penso alle persone che hanno visto i loro quartieri, i loro vicini cambiare. E in loro c´è un senso di tradimento. Credo che anche queste ragioni abbiano contribuito alla vittoria di Berlusconi alle ultime elezioni. L´altro tipo di ansietà concerne invece il cambiamento di persone provenienti da sinistra che sono andate a destra. Si dice che la società occidentale debba tentare un compromesso con la componente religiosa che la circonda. Quel che va fatto, secondo me, è tirare una linea: e la linea è la legge dei singoli paesi dove i cittadini vivono e che va rispettata».
FILALI-ANSARY: «Quello che succede adesso nei paesi europei, dove i musulmani arrivano sempre più numerosi, è la paura di un cambiamento totale. Come dice Habermas, ci possono essere diversi processi di apprendimento per fronteggiare questa situazione. Ci sono un sacco di potenzialità positive. Abbiamo tre esempi: l´Europa, gli Stati Uniti d´America, e l´India. Oppure esempi nel passato. Nessuno ha mai pensato al massacro di San Bartolomeo come a un massacro cristiano. E dovrebbe essere così. Molti massacri non dovrebbero essere collegati all´Islam. Di questo ne beneficeremmo tutti».
HABERMAS: Credo che dovremmo parlare in modo più politico di questi argomenti. Amato mi convince molto quando vedo un ex primo ministro che affronta temi simili. Credo che il primo obiettivo dovrebbe essere l´integrazione sociale. Perché ho la netta sensazione che il nazionalismo sfrutti questa situazione. E sono rimasto molto affascinato dalle cose dette anche da Buruma, la sua è un´analisi ottima. Alcuni studiosi islamici mi chiedono: che cosa dovremmo fare? Altri sostengono: dovremmo introdurre i principi del Corano. Ecco, siamo nel pieno di questa situazione».
BARBER: «Secondo me voi avete insistito un po´ sulla questione della paura. Io vorrei che fosse rilevato anche il tema della libertà di espressione. Molto spesso vedo parlare liberamente comunità anche minoritarie, o comunque persone in paesi dove si possono affermare tranquillamente le proprie idee. Ma penso che un vero atto di coraggio sia piuttosto quello di difendere la libertà di espressione, che ne so, a Riad. Questo è un aspetto cruciale dei nostri tempi».
AMATO: «L´aspettativa della gente quando c´è un crimine, è che la legge punisca i colpevoli senza tener conto delle ragioni religiose che l´hanno causato. Se parliamo più generalmente di quello che gli Stati dovrebbero fare, l´Europa guarda all´immigrazione come a un processo a due vie: includere gli ospiti in una sorta di interazione. Possiamo anche definirlo contaminazione. Il problema è che non si può praticare la sharia, la legge islamica, in paesi che ne sono contrari».
HABERMAS: «Diciamo che l´identità europea, infine, non perde la sua ragione per l´allargamento ad altri paesi, ma per la trasformazione delle nostre società. Io credo che l´integrazione delle comunità musulmane piuttosto aiuti questo processo. E quindi occorre varare politiche adeguate. Il ruolo della Turchia è essenziale: dobbiamo includere questi 70 milioni di musulmani democratici nel nostro frontiere? Questa è la domanda che dobbiamo porci. Io sono per il sì».

Corriere della Sera 4.6.08
I giudici dei bambini «Per noi errori vietati»
Il nodo: i rapporti con i servizi sociali
di Giuseppe Guastella


La giustizia minorile funziona abbastanza bene. Abbastanza, non completamente. Tra la sufficienza e l'ottimo c'è tutta la strada che ancora non è stata fatta fare ai servizi sociali per avvicinarli a quelli dei principali paesi europei, gli stessi che paradossalmente guardano all'Italia come a un modello da imitare.
Sarà anche banale dire che un paese che non investe più sui giovani non pensa al suo futuro. Quello che non si spende oggi per prevenire e correggere, lo si tirerà fuori decuplicato domani, quando i comportamenti a rischio si saranno trasformati in criminalità. Nonostante aumentino costantemente i procedimenti sui minori, la politica risponde diminuendo le risorse e lasciando nell'emergenza i servizi sociali, vero braccio operativo della magistratura per i minorenni. Con il risultato che sulla devianza e il disagio minorili si interviene più con la repressione che con la prevenzione. E non mancano gli errori che, seppur pochi rispetto alla massa, trovano un'eco formidabile e talvolta per ragioni contraddittorie. La conseguenza è che l'immagine dei giudici minorili è più quella di chi «porta via i bambini» ai genitori che di chi tenta, anche con passione, di risolvere problemi che possono compromettere l'equilibrio di un minorenne. Ed è così che, per ragioni contraddittorie, talvolta la giustizia minorile finisce in prima pagina, come per il caso di Basiglio.
Dei 9.054 magistrati in servizio in Italia, solo poco più di 300 sono giudici (195) o pubblici ministeri (107) nei tribunali per i minorenni. Con loro collaborano i giudici onorari, che sono specialisti in diverse discipline. Più grandi le città, maggiori le difficoltà: a Roma ci sono 15 giudici togati, uno ogni 531mila abitanti; a Milano sempre 15, ma uno per 417mila abitanti; a Napoli 16 giudici, uno per 290mila; in provincia la percentuale è di molto inferiore: a Trento sono 3 per 157mila, quasi quattro volte meno che a Roma.
In materia penale ci si occupa dei minorenni che commettono reati: aumentano le denunce (circa 40.000), ma si riducono le presenze nelle carceri minorili (circa 400). Il carcere è l'ultima possibilità e deve recuperare il minore. Perché il processo penale ha anche finalità educative da raggiungere e con strumenti specifici, come la messa alla prova che, secondo il dipartimento della giustizia, ha avuto risultati positivi nell'80% dei casi. Nel primo semestre 2007, per 10.174 minori sono state attivate azioni alternative dal servizio sociale, struttura ministeriale che opera su programmi che prevedono misure quali il collocamento in comunità e altri interventi risocializzanti.
Nel settore civile le competenze sono ben 55. Si va dagli interventi a tutela dei minori in condizioni di disagio a sostituire i genitori che non sono in grado di accudire i figli, dall'adottabilità ai matrimoni tra minori e ai figli che ne nascono. In città come Roma e Milano, ciascun giudice tratta ogni anno circa 600 fascicoli. Nel civile a lavorare sui ragazzi sono i servizi dei comuni, e non tutti garantiscono lo stesso standard qualitativo. Il punto è che i servizi sono oberati di lavoro. Tranne qualche eccezione a macchia di leopardo, la situazione in Italia non è florida. Pochi operatori, spesso con contratto a tempo determinato, devono spartirsi ampie fette di territorio dividendosi tra l'anziano depresso e il bambino a rischio. Il risultato è che i servizi, al di là dell'impegno dei singoli, non ce la fanno a coprire tutto con uguale professionalità e celerità. E quando questo riguarda i minori, un'errata analisi aggiunge danno a danno.
«Si parla tanto dei diritti di minori — spiega Piercarlo Pazè, 20 anni di magistratura minorile, direttore di rivista
Minori giustizia — ma tra il dire e il fare ce ne passa. I minori avrebbero bisogno di strutture dedicate, ma spesso i servizi devono occuparsi dell'emergenza». Franco Occhiogrosso, presidente del tribunale per i minori di Bari e del Centro di documentazione e analisi infanzia e adolescenza, dice che «è necessario un rapporto con servizi qualitativamente alti. Da Roma in giù sono inadeguati e insufficienti, percepiti più come controllori e ladri di bambini che come sostegno e aiuto».
Se «a Milano c'è il problema delle babygang, in Campania e al Sud c'è quello delle associazioni mafiose che assoldano i minori. Occorrono progetti mirati », spiega Paolo Giannino, presidente del tribunale per i minorenni di Salerno, il cui ufficio modello è stato premiato dal ministero della giustizia per aver realizzato 12 percorsi lavorativi, compresa l'apertura ai ragazzi di una biblioteca con 2.000 accessi l'anno.
La responsabilità di un'errata valutazione, magari basata su schemi preconcetti, dopo la quale ad esempio vengono tolti i bambini a una famiglia senza che sia necessario, non può essere addebitata agli assistenti sociali. È tutta del giudice e ancor di più di quello che si limita a fare da notaio alle indicazioni dei servizi. «Un giudice attento sa se un servizio risponde per schemi, se è prevenuto o no e sa muoversi di conseguenza — aggiunge Giannino —. Non abbiamo servizi specializzati su minori e famiglia. Qualcosa sta cambiando dove sono stati avviati i piani di zona previsti dalla legge».
L'intervento del giudice è sempre di emergenza, a volte anche su richiesta dei genitori. «Il punto è capire se la segnalazione che ha ricevuto è fondata — dice l'avvocato Grazia Cesaro, vice presidente della Camera minorile di Milano, cui aderiscono legali specializzati —. Gli errori sono pochi, ma quando ci sono sono la conseguenza di problemi macroscopici come segnalazioni incomplete, travisamenti degli insegnanti che non hanno ben compreso, bambini suggestionati. È un terreno di sabbie mobili».
«I nostri sbagli — sostiene Giannino — vengono percepiti come quelli del medico che lascia la pinza nel ventre del malato. Sono sempre gravi. Non bisogna dimenticare, però, che arriviamo a danno compiuto. Togliere i bambini è una misura di grande sofferenza per il giudice alla quale, nei casi non urgentissimi, si giunge con un percorso che coinvolge i genitori assistiti da un avvocato. Il giudice è un terzo che deve saper ascoltare». I giudici «cercano di prendere la decisione più giusta possibile per proteggere il minore. Il problema è come intervenire chiedendosi se si può ancora lavorare sulla famiglia o se sia inevitabile l'allontanamento del minore», aggiunge Occhiogrosso che non nasconde il rischio di giudici-notai: «Non dico che succede spesso, ma accade. Il nodo dei rapporti tra i servizi sociali e la giustizia è equivoco, perché le prove vengono assunte all'esterno della magistratura. In altri Stati i servizi sono parte del sistema giustizia ».
Operatori ed esperti individuano la soluzione per migliorare le cose nella creazione di un tribunale della famiglia che accorpi tutte le competenze sulla materia della giustizia minorile di quella ordinaria. «In Italia si parla tanto di famiglia — denuncia Occhiogrosso — è ora che si faccia qualcosa davvero».

Corriere della Sera 4.6.08
L'amore nell'inferno del Gulag
Lo «chalet» dove i prigionieri incontrano le mogli: l'abisso della degradazione
di Pierluigi Battista


Q uell'incredibile chalet sulla collina del lager siberiano è il luogo simbolico di ciò che rende radicalmente differente l'ultimo romanzo di Martin Amis, La casa degli incontri, ora tradotto e pubblicato da Einaudi, dai lugubri, veritieri, sconvolgenti resoconti dell'incubo concentrazionario stilati da Aleksandr Solgenitsin in Arcipelago Gulag e da Varlam Šalamov nei Racconti della Kolyma. La differenza è la specificità letteraria dell'opera di Amis. Non un saggio storico, ma la raffigurazione della condizione umana nel Gulag, uno degli abissi più profondi della storia umana del Novecento. L'orrore e l'abiezione decifrati attraverso una «casa degli incontri» dove si svolgono le più strazianti «visite coniugali» mai lette nella storia della letteratura, luogo di approdo di povere e cenciose mogli cui, attorno al 1956, veniva permesso di coprire in giorni e giorni di viaggio sfiancanti «distanze continentali» per raggiungere i mariti deportati. Una «casa degli incontri» che si trasformava, troppo spesso, in una spaventosa «casa degli addii ».
A differenza di Solgenitsin e di Šalamov, ovviamente, Amis non ha mai patito nella propria carne gli orrori del Gulag. C'è piuttosto da chiedersi perché, come mai, per effetto scaturito da quale profonda ragione culturale e psicologica, uno scrittore poco più che cinquantenne tra i più brillanti della sua generazione, un inglese moderno e di «tendenza», pieno di glamour, amato dai lettori più vicini a una sensibilità schiettamente metropolitana, autore con L'informazione di uno dei romanzi più rappresentativi di una nuova narrativa vivace e vigorosa, abbia scelto il Gulag come cornice storico-esistenziale della sua creatività letteraria.
Per comprenderne la logica, bisogna collegarsi a un libro di Amis come Koba il terribile, l'antefatto saggistico più prossimo a questo romanzo, in cui il tema dell'orrore comunista veniva tematizzato come grande mito negativo dell'immaginario contemporaneo. Ma anche lì la base documentaria non si limitava ai grandi classici della storia del terrore sovietico, e si nutriva, esibendo ancora una volta la peculiare stoffa letteraria dell'autore, di testi eccentrici, a cominciare dal conturbante epistolario tra l'esule russo Vladimir Nabokov e il critico leftist americano Edmund Wilson, o le conversazioni tra il padre di Martin, Kingsley Amis, e lo storico Robert Conquest. E questo intreccio di letteratura e conoscenza storica si conferma nei singolari «ringraziamenti » collocati alla fine della Casa degli incontri dove Martin Amis si riconosce grato debitore del «magistrale Gulag di Anne Applebaum, costruito con lucidità ed eleganza» o della Danza di Natasha, storia della cultura russa di Orlando Figes. Una lezione severa per gli scrittori che si affidano ingenuamente presuntuosi alla vena narcisistica della loro ispirazione: per scrivere di certe cose bisogna studiare, divorare montagne di libri, come fece Thomas Mann che si dedicò per anni a migliaia di volumi di esegesi biblica per affrontare la sua straordinaria tetralogia di Giuseppe e i suoi fratelli.
Studiando, Martin Amis non dimentica tuttavia di essere, primariamente, uno scrittore. La «casa degli incontri», allestita in un lager sovietico ancora mostruosamente attivo anche nell'anno della denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin, potrebbe significare un piccolo spiraglio di umanità nella disumanità assoluta del Gulag. In realtà misura l'approdo di una totale degradazione di sé dei «sottouomini» reclusi nel lager. Per raggiungere quella casa i deportati partivano «irriconoscibili, scorticati, gli abiti induriti non dalla sporcizia », come sempre, «ma dall'aggressività degli impietosi detergenti ». Però in quale pietosa condizione ritornavano da quei convegni, segreti e tollerati, con volti e corpi delle «mogli dei nemici del popolo», oramai dimenticati dopo anni di sofferenze indicibili? Barcollando «come larve e relitti giù per il fianco della collina». Uomini devastati dall'«anemia cronica» della deportazione e che «cercavano di essere sanguigni, ma avevano il sangue annacquato»: «quest'uomo ce l'ha scritto in faccia, ce l'ha scritto sul corpo che non ci è riuscito: la bocca sghemba, la molle fiacchezza delle membra». Un fallimento senza riscatto, emblema in cui «vedevi l'accumulo di problemi che ti aspettavano in libertà». Prigionieri a vita del loro incubo, che dopo quel breve e tremendo contatto con la vita perduta con il mondo lasciato da chissà quanto, si muravano «sotto un manto di solitudine». Del resto quella casa sulla collina non era forse troppo vicina «al doppio filo spinato che la circondava».
A sua figlia concepita in Occidente anni e anni dopo, alla figlia della libertà americana che come tutti i suoi coetanei sente e percepisce il Gulag alla stregua di una macchia lontana di una storia oramai finita, il protagonista del romanzo che dentro quell'inferno ha passato un pezzo decisivo della vita racconta con meticolosa precisione la gerarchia dell'orrore nei campi della schiavitù. Il regime schiavista instaurato nel Gulag (in cui la nozione di «lavori forzati» è troppo edulcorata per rendere lo stato di totale spossessamento di sé sofferto dai deportati schiavi) aveva una sua logica e un suo ordine mostruoso meticolosamente rispettato. C'erano, ai vertici della schiavitù, lo strato delle «cagne» e dei «bruti» che, in perenne stato di guerra civile, si contendevano il predominio del campo con seghe da tronchi e piedi di porco. Più giù i «porci», nel ruolo di vigilanti. E poi gli «urka», la feccia della delinquenza comune, esentata dal lavoro. E ancora, in una posizione intermedia tra la satrapia del terrore e l'abisso dei perduti: «le serpi», i delatori; «le sanguisughe », truffatori «borghesi». Alla base della piramide i «fascisti», oppositori, «nemici del popolo », i politici; e poi «le cavallette», i minorenni «figli illegittimi della rivoluzione»; e infine, giù nella polvere e nella melma più disgustosa, «i mangiamerda», i casi disperati che si «azzuffavano con un filo di forza per spartirsi escrementi e rifiuti».
Io, dice il protagonista, in questa società irreale e atroce, «ero un elemento socialmente estraneo, un politico, un fascista». Ma il «politico» deve aggiungere: «inutile dire che non ero un fascista. Ero comunista». Sarà pure «inutile», ma Martin Amis sente di dover insistere su questo dettaglio che testimonia l'assurdità del mondo rovesciato incarnatosi nel comunismo e nel Gulag. Un dettaglio che è il cuore di una vita vissuta e il nutrimento di una raffigurazione letteraria che smentisce il pregiudizio sull'irrappresentabilità estetica del totalitarismo moderno. La letteratura come chiave di lettura di un orribile mondo alla rovescia.
Confini
L'ultimo romanzo dello scrittore inglese— «La casa degli incontri» — descrive le più strazianti «visite coniugali» della letteratura.
E smentisce il pregiudizio sulla «non rappresentabilità » del totalitarismo moderno

Corriere della Sera 4.6.08
L'attacco del 1941
Perché Stalin non credeva all'azzardo di Hitler
di Giuseppe Galasso


In molti avvertirono Stalin dell'attacco di Hitler, e perfino della data: il 22 giugno 1941. Stalin non vi credette. L'attacco lo lasciò inebetito. Poi si riprese e grandeggiò fino alla vittoria. E come mai un uomo così scaltro e diffidente fu così imprudente? John Lukacs conferma i motivi già noti, ma mette l'accento sui due protagonisti. Stalin aveva rispetto e ammirazione per la Germania. E per Hitler? Lukacs suggerisce che Stalin lo ritenesse infido, ma attento alla realtà prima che all'ideologia (cioè, in fondo, simile a lui). Perciò fino all'ultimo l'attacco tedesco gli parve un assurdo, utile solo agli inglesi, di cui non si fidava come del bruto realismo che vedeva in Hitler, contro il quale non voleva essere «usato».
Sbagliava? Hitler scrisse a Mussolini, nota Lukacs, che quell'attacco, nato da «mesi di ansiosa riflessione e incessante logorio nervoso», era stato la «più difficile decisione » della sua vita. E forse ansia e logorio non gli diedero la lucidità necessaria. In ultimo («molto tardi») egli «rimuginava sulla ragione» dell'attacco all'Urss, «rimpiangendo invece il conflitto» con gli Usa, aperto per l'alleanza col Giappone, che non si era unito a lui contro Stalin, stringendo anzi coi sovietici un patto di non aggressione (analogo a quello russo-tedesco del 1939: i contrappassi della storia!). E ciò fa capire che Hitler errò non tanto nel valutare i russi e nell'aprirsi un secondo fronte, bensì nel non aver ben contestualizzato sul piano mondiale, perché riuscisse come voleva, l'attacco a Mosca.
JOHN LUKACS 22 giugno 1941. L'attacco alla Russia CORBACCIO PP. 184, € 16


EU-GENIO SCALFARI OUTING: IL MIO VIAGGIO ATTRAVERSO IL FASCISMO
“ESSERE STATO FASCISTA HA POI RESO SOLIDO IL MIO ANTIFASCISMO”
“IL SALUTO ROMANO SI FA IN UN SOLO MODO. S’AVANZA A PASSO MARZIALE…”
Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio


QUESTO COLLOQUIO
Questo colloquio nato da una recensione con richiesta d’intervista comincia con una telefonata. E’ l’Uomo che non credeva in Dio che parla: “Io ho smesso di essere fascista solo quando ne sono stato espulso, quando, appunto, fui messo fuori dal partito. E devo dire che ne ebbi un grande dispiacere. Fu un dolore inferto alla mia giovinezza vedermi strappare le stellette dalle spalline, una sconfitta che generò in me una profonda crisi”.

Eugenio Scalfari – fondatore de La Repubblica, erede della grande tradizione liberale e democratica de Il Mondo e de l’Espresso – è stato messo sull’avviso dagli amici più cari: “Non vorrai cadere nella stessa trappola in cui incappò Bobbio?”. Inutile dire che Norberto Bobbio, proprio su queste stesse pagine, non ebbe apparecchiata trappola alcuna.

Il filosofo stesso, infatti, il 14 novembre 1999, dunque due giorni dopo la pubblicazione dell’intervista dove confessava di essere stato fascista coi fascisti e antifascista con gli antifascisti (“Non ho parlato prima perché me ne ver-go-gna-vo”), mise la parola basta alle polemiche. Con un colonnino di prima pagina su La Stampa, Bobbio replicò ad un articolo di un incredulo e scandalizzato Gad Lerner confermando tutto – doppiezza compresa – e laureando altresì la correttezza dell’incontro avuto col Foglio.

Niente lacci, nessun trabocchetto: “E poi la tagliola dove eventualmente imbattermi“, ci dice Scalfari, “l’ho già messa io stesso tante di quelle volte da perderci il conto. Ho persino fatto pubblicare sul Venerdì di Repubblica la foto con mia madre dove io sono in orbace. Non me ne sono mai vergognato di quella giovinezza nei Guf (Gruppi universitari fascisti, ndr), anzi: tutto quel mio essere stato orgogliosamente fascista ha poi reso solido il mio antifascismo. Ho compreso sulla mia pelle quanto può essere efficace la mobilitazione del moderno partito di massa sulla cera molle della gioventù”.
Nessun calappio, niente inganno. Fine della telefonata.

L’INTERVISTA
Bisogna dire che Eugenio Scalfari è anche un uomo di spirito, l’imprinting c’è tutto e a vederlo col braccio levato, pur da seduto alla sua scrivania nell’ufficio a largo Fochetti (il regno da lui creato da dove oggi s’emana il gruppo editoriale L’Espresso-La Repubblica) l’effetto è strepitoso. “Il saluto romano si fa in un solo modo. Tanto per cominciare s’avanza a passo marziale, quasi un passo dell’oca, dopo di che si porta il palmo della mano aperta all’altezza degli occhi, ci s’irrigidisce e si battono i tacchi”. Eugenio Scalfari che s’impossessò del fascismo dei giovanissimi avrebbe ricevuto l’encomio da Achille Starace in persona: “Perdevamo mesi e mesi per imparare queste stronzate”.

Appuntamento a largo Fochetti, palazzo “Repubblica”, quello che per i taxi è via Cristoforo Colombo 90. Eugenio Scalfari che ha dedicato al fascismo un bellissimo capitolo del suo commovente romanzo autobiografico, “L’Uomo che non credeva in Dio” (Einaudi), non ha cancellato le tracce. Non ha vissuto la doppiezza né quel patto di rimozione collettiva cui, al contrario, la maggior parte dei “redenti” ha fatto affidamento per poi fabbricare la verginità democratica e antifascista.

Scalfari che accetta di raccontarci il suo viaggio attraverso l’Italia del Duce quando “quaranta milioni di fascisti scoprirono di essere antifascisti”, ci ricorda la polemica che nell’Italia ormai matura di democrazia investì Leopoldo Piccardi: “In una nota a margine di uno dei libri di Renzo De Felice si venne a sapere di una partecipazione di Piccardi nel 1936 ad un convegno sulla razza a Berlino. Con Piccardi c’era anche Giuliano Vassalli ma Leopoldo non ne aveva mai fatto parola di questo suo viaggio in Germania, lui era anche uno dei tre segretari del Partito Radicale (gli altri due erano Francesco Libonati e Arrigo Olivetti, una strana idea del verticismo, era previsto un solo vice segretario: io), insomma, divamparono le polemiche: cosa poteva aver fatto un Piccardi a Berlino?

Mario Pannunzio e Nicolò Carandini ne pretendevano le dimissioni ma Piccardi trovò al suo fianco Ernesto Rossi. E Rossi appunto – uno che l’antifascismo l’aveva attraversato nelle galere e non nel frondismo, uno che s’irritava quando Pannunzio e Carandini volevano accreditare il loro antifascismo solo perché facevano uso di fondini grigi nella grafica di Oggi, il loro giornale – chiuse le polemiche con un chiaro sbotto di impazienza: ma che volete tutti voi da Leopoldo, voi e i vostri fondini? Ma non state a rompere il cazzo!”.

Scalfari ride divertito alla reminiscenza: “Lo ricordo bene perché assistetti alla scena. Pannunzio e Carandini raccontavano ancora di quando ebbero la solidarietà – solidarietà clandestina, ben inteso – di Mario Missiroli per la chiusura del loro giornale. Era il 1938, io facevo ancora il liceo e Missiroli li consolava dicendo loro: ‘Vi hanno chiuso il giornale non per quello che avete scritto, ma per quello che non avete scritto’”.
Dovevano dunque fare l’elogio del Regime Pannunzio e Carandini, potevano scrivere tutto quello che volevano, potevano usare tutti i fondini grigi che preferivano, ma la vera pietra sopra tutto – ricorda oggi Scalfari – l’ha messa Ernesto Rossi: “Ma non venite adesso a rompermi il cazzo!”.

Il viaggio attraverso il fascismo di Eugenio Scalfari allora. “Faccio mio il titolo di Ruggero Zangrandi, è un’intestazione che ben s’aggrada al mio racconto… sempre…” – aggiunge con eleganza e sincero distacco il Direttore – ”…sempre che possa interessare a qualcuno questo ricordo. Sono solo i ricordi di un signore di ottantaquattro anni questi miei, ma ho l’abitudine di non aggiustarli, i ricordi. Almeno i miei ricordi io non li accomodo”.

Nessuna gabbia, solo ricordi. “…e dunque: nella memoria di quello che fu il gennaio del 1943, l’anno della mia espulsione dal partito, c’è il fascismo in mano ai giovanissimi. E’ quello degli Alicata, degli Ingrao, dei Guttuso, quello stesso dei ragazzi dei Littoriali e dei giornali del Guf. Un focolaio frondista il mondo del Guf dove se da un lato c’erano alcuni dei quali avevano posizioni esasperate nei toni per un ritorno al fascismo sociale – tipo Mario Tedeschi, il futuro direttore de Il Borghese – ce n’erano altri che, al contrario, si riconoscevano nel riformismo di Giuseppe Bottai.

A me piaceva molto questo ministro così intellettuale. Mi piaceva la sua rivista, Primato, mi coinvolgeva il dibattito culturale e quel fascismo era così in mano ai giovanissimi che io, appena diciottenne, potevo ingaggiare una virulenta polemica non con qualche sbarbatello, ma direttamente con il ras Roberto Farinacci il quale poi replicava ai miei articoli su La Gazzetta di Cremona. Chi volesse fare una ricerca in emeroteca troverebbe traccia di ciò”.

E’ un viaggio dentro la giovinezza quello che Scalfari ci offre: “Fu così che Bottai potè accorgersi di me, per via della mia controversia con Farinacci, altrimenti non avrebbe mai saputo della mia esistenza. Io scrivevo su Roma Fascista, il direttore era Ugo Indrio, e il capo redattore invece – non lo dimenticherò mai per via della singolare combinazione tra nome e cognome – era Regdo Scodro”.

Un viaggio per raccontare come Eugenio Scalfari dal fascismo ne venne espulso: “Fu in un breve periodo – saranno state due settimane – che in assenza dei due capi il giornale si faceva lo stesso, senza filtro professionale. E fu proprio in quell’intervallo d’anarchia che io, in prima pagina, piazzai due o tre neretti non firmati e perciò riconducibili all’orientamento della testata. Era la stagione del nascente quartiere dell’Eur, quella. La nazione intera attendeva ai preparativi per l’Esposizione, gli interessi sull’edificazione dell’intera area erano alti (poi venne la guerra, tutto finì, è vero, ma l’atmosfera allora era quella d’attesa), tutti guardavano alla realizzazione del nuovo modello urbanistico. Ebbene: io nei miei pezzi attaccavo i profittatori, accusavo i gerarchi e i loro prestanomi di fare sui movimenti d’acquisto ‘affari non chiari’. Fu questo ciò che scrissi in quei neretti, senza però fare nome e cognomi. Una generica e accalorata denuncia, pronunciata in nome della purezza ideologica”.

Il fascismo in mano ai giovanissimi. “Nessuno disse niente”, prosegue Scalfari nel suo racconto, “passò qualche giorno e dopo arrivò una telefonata a casa. Io abitavo a Roma a quel tempo, da mia nonna. Era una voce femminile che mi parlava alla cornetta: ‘E’ il fascista Eugenio Scalfari che ascolta?’. Emozionato mi qualificai, certo dissi, sono io. ‘Deve presentarsi domani a palazzo Littorio. Alle dieci’. Ero turbato dalla chiamata, ma ancor più della perentoria richiesta, da un preciso dettaglio che l’accompagnava. La voce femminile fu, infatti, categorica: ‘Il fascista Eugenio Scalfari deve presentarsi domani, alle dieci, a palazzo Littorio, in divisa’”.

In divisa dunque, l’uniforme dei giovanissimi padroni del fascismo. “Io adoravo la divisa. E fui meticoloso nella vestizione quel mattino. Era molto elegante la tenuta. Avevo la giacca – quella che al tempo si chiamava sahariana – i pantaloni grigio verde a sbuffo alto, gli stivali, le losanghe sulle spalle, idem sulle maniche, con le stelline, quindi il fazzoletto azzurro e la camicia nera naturalmente”. Forse c’è solo un errore nella descrizione che offre di sé Scalfari, non poteva più avere il fazzoletto azzurro dei balilla nell’età dei Guf ma è un dettaglio, questo, che può colpire i puristi, quegli stessi che però, davanti alla descrizione puntuale del saluto romano e del come si fa, da Scalfari devono proprio andare a lezione. “Il saluto romano si fa in un solo modo. Tanto per cominciare s’avanza a passo marziale, quasi un passo dell’oca, dopo di che si porta il palmo della mano aperta all’altezza degli occhi, ci s’irrigidisce e si battono i tacchi”.

L’imprinting c’è tutto, la cera molle della giovinezza s’è modellata su quella freschezza scanzonata e drammatica: “Credevamo che il mondo si fermasse alla nostra piccola serra. E noi eravamo le piante costrette a crescere in quel vivaio. Che ne potevamo sapere di quello che c’era fuori? Certo, c’erano i comunisti, ma erano tutti lontani dalla nostra patria. Tornavano di tanto in tanto per delle operazioni clandestine ma l’Italia vigilava su di loro, li puniva per come era giusto che fosse, e l’Italia che tornava grande al cospetto del mondo cantava con noi ragazzi “E se la Francia non è una troia, Nizza e Savoia c’ha da tornà…”.

Ce n’era un’altra. Faceva così e capita di cantarla ancora: E se l’Italia non è un bordello, col manganello si salverà. “Questa non la conosco”, ci dice Scalfari che ritorna al racconto di quella mattina a palazzo del Littorio: “E’ il palazzo bianco dopo il Foro Mussolini, la sede del Pnf (partito nazionale fascista, ndr) scelta prima di trasmigrare sulla stessa via alla Farnesina. Il segretario del partito a quel tempo era Aldo Vidussoni ma io ero stato chiamato per conferire con il vice segretario, Carlo Scorza (fondatore del Fascio di Lucca, estensore dell’ordine del giorno a favore del Duce il 25 luglio, ndr).

Quando arrivo nell’anticamera c’è Indrio che è già stato ricevuto. Mi viene incontro e mi sussurra: ‘C’è tempesta’. Emozionato, vengo introdotto nella stanza di Scorza, lo vedo seduto sulla scrivania e mi porto avanti scattando nel saluto romano. Lui mi ordina il riposo e quando solleva gli occhi, alza anche il suo capoccione mussoliniano dalle carte che stava leggendo, manovrando di matita rossa e blu con le sue larghe mani da squadrista. Sono i miei neretti pubblicati su Roma Fascista quelle carte.

Scorza sventaglia i fogli sotto il naso e mi chiede: ‘Li hai scritti tu, camerata?’. Scorza ha i polsi larghi quanto la coscia di un uomo, è un omone degno della sua fama di lottatore. ‘Però non li hai firmati…’aggiunge appoggiando l’incartamento sul tavolo. Quindi si leva dalla scrivania e mi viene di fronte: ‘Camerata, dammi i nomi di questi mascalzoni che lucrano sul lavoro dell’Italia proletaria e io li farò arrestare!’. Io non ho nomi da dargli, la mia leggerezza professionale non può trovare giustificazione alcuna, non posso neppure balbettare un si dice, un mi pare, un ‘è risaputo’ che Scorza comincia a urlare: “Sei un irresponsabile! Un calunniatore”. A un certo punto si ferma e mi chiede: ‘E poi perché non sei a Bir El Gobi?’. Bir El Gobi è un avamposto del deserto africano difeso dai ragazzi della Gil (la Gioventù italiana del Littorio, ndr). Io trovo la risposta più fessa, gli dico: ‘Veramente avrei il rinvio universitario…”.

Scorza allora mi prende per il petto e mi stringe acchiappandomi dalla bandoliera, dalla giacca, dalla camicia, insomma: da ogni cosa che avessi addosso dove potermi afferrare, lui mi agguanta. Mi solleva dal pavimento, mi tiene alzato e urla in faccia a me questo discorso: ‘Dovrei farti sbattere fuori dal partito ma Vidussoni ha conosciuto a Fiume tuo padre e perciò ti espello dal Guf’. Mi riporta a terra, mi strappa le mostrine e mi congeda: ‘Vattene e non farti vedere mai più’. Stupefatto che si espellesse un fascista esco da palazzo Littorio e torno a casa, preda di una crisi fortissima, disarmato.

Il mio silenzio viene violato da una prima telefonata. E’ Nelson Page (funzionario del Minculpop, ministero della cultura popolare, nel dopoguerra diventerà direttore de Lo Specchio, il Dagospia degli anni ’50) che mi chiama: ‘Sei il figlio di Pietro? E’ meglio che tu non faccia telefonate per un periodo, stattene buono”. Un’altra telefonata me la fa Nino D’Aroma, direttore de Il Giornale d’Italia. E’ un altro bottaiano e fa un’edizione di metà giornata, un quotidiano chiamato Il Piccolo. Mi offre di scrivere per questo giornali. Pezzi non firmati ovviamente”.

Un lungo viaggio di attraversamento del fascismo. E l’uscita. “Avevo diciotto anni e giorno dopo giorno prendo coscienza che forse avevano avuto ragione ad espellermi dal Guf. Forse non ero fascista. Mi costò tanto sforzo venirne fuori: uscii dal fascismo brancolando. Non sapevo nulla, certo, conoscevo Benedetto Croce perché pubblicava. Anche Montale, Ungaretti, Quasimodo. Tutti i poeti che stampavano i loro libri li conoscevo, così come i filosofi che dibattevano su Primato. Avevo cognizione di tutto ciò ma ignoravo Gobetti, Gramsci, i martiri uccisi dai sicari del regime. Non avevo idea su chi fosse Togliatti e non sapevo che farmene della decrepita Italia liberale smantellata dalla vera modernità di Mussolini – che non era non certo la terra redenta delle paludi pontine, ma la creazione del nuovo partito di massa. Niente era proibito ma una manipolazione della moltitudine ci isolava da tutto ciò che era isolabile. Ecco qual è il peccato mortale del regime, ecco perché ne ho ricavato una sorta di vaccino contro una malattia epidemica. Io sono come gli animali che avvertono i terremoti quando stanno per arrivare, io fiuto il fascismo quando sta per formarsi…”

A questo punto sarebbe stato perfetto chiedere quando e quante altre volte è stato sul punto di arrivare, tornare e sbucare il fascismo, ma le domande che non si fanno sono solo domande cretine, quelle sì che sono trappole, tagliole e calappi.
La parola ancora a Scalfari: “…ed essendo io una persona che ha sempre faticato nel conquistare un’autonomia non potevo consentirmi di sfuggire a me stesso. Aveva ragione Scorza: io non ero più un fascista”.

Dagospia 31 Maggio 2008