venerdì 6 giugno 2008

l’Unità 6.6.08
Girotondo dell’orrore
di Elena Stancanelli


Violenze
Ci sono voluti molti anni
prima che le donne riuscissero
a ottenere una legge che
interpretasse lo stupro come
una violenza vera e non morale
Che imparassero a denunciarlo

La vicenda dell’italiano che stupra la ragazzina di quattordici anni marocchina ci colpisce non tanto per il fatto in sé, ma perché i ruoli sono ribaltati rispetto a quella che ci stiamo abituando a credere debba essere la norma. L’uomo nero è bianco e la vittima non sono io, o mia sorella, o la figlia di un deputato leghista. La vittima è una ragazzina cresciuta tra persone che le avranno insegnato cose diverse da quelle che impariamo e insegniamo noi nelle nostre famiglie. Probabilmente. O forse questa ragazzina è identica alle sue coetanee e compagne di classe, prega lo stesso dio e veste gli stessi jeans a vita bassa e le stesse canottiere.
Si fa le canne e tiene in camera il poster di Vasco Rossi o dei ballerini di Amici.
Non lo sappiamo, e non ci sembra nemmeno importante, oggi. Perché si tratta di una ragazzina di quattordici anni che un uomo, un mostro, ha portato in una casa e ha violentato, mettendola incinta. Per noi, giustamente, che porti il velo o no, vale quanto che si chiami Giulia o Federica. Nessuno si sognerebbe mai di pensare che, in uno dei due casi, la violenza sarebbe stata più dolorosa o più sopportabile. Un uomo di trent’anni che stupra una ragazzina, comunque questa ragazzina si chiami o si vesta, commette lo stesso reato e procura lo stesso immendicabile dolore nella vittima. Nessuno, nemmeno un idiota, potrebbe affermare il contrario.
Perché facendolo, giudicando un reato e le sue conseguenze in base alla religione, al colore della pelle e al modo in cui veste o mangia la vittima o il carnefice, produciamo uno slittamento che, piano piano, diventa mostruoso e immendicabile quanto la violenza stessa: cancelliamo il reato. Non esiste più la violenza sessuale di un uomo su una donna, una ragazzina, ma un ipnotico affastellarsi di attenuanti o aggravanti, giochi di prestigio per abili avvocati o politici senza scrupoli. Le chiacchiere si accumulano, i commenti, le tirate per la giacchetta da una parte all’altra. Ma al centro, immobile e nuda, sanguinante, rimane quella donna, quella ragazzina. Io, mia sorella, la figlia del deputato leghista.
Non ce lo dobbiamo dimenticare. Perché la cosa più complicata, nel caso della violenza sulle donne, non è mai stato trovare il colpevole, ma non dimenticare mai che esiste una colpevolezza. Non dimenticare che la violenza non confina con niente, non è la conseguenza di qualcosa e non somiglia a nulla, tantomeno all’amore. La violenza è il marcio che sbuca da noi quando la vita ci costringe dentro spazi troppo stretti, e non ci consente niente.
Non è facile. Ci sono voluti molti anni prima che le donne riuscissero a ottenere una legge che interpretasse lo stupro come una violenza vera e non morale. Che imparassero a denunciarlo, a sopportare l’orrore dello scherno, a scriverne e a parlarne. È quindi intollerabile che xenofobia politici dissennati e stupidità senza aggettivi ci riportino in tempi nei quali si voleva far credere che le donne andassero difese dalle aggressioni dei barbari, dei Sabini. In questo modo evitando di dover controllare cosa succedeva nelle nostre case, tra padri e figlie, nei posti di lavoro. Rumeno violenta italiana. Rumeno violenta rumena. Italiano violenta marocchina... Per quanto vogliamo declinare questo girotondo dell’orrore prima di riuscire a dire che si tratta della violenza di un uomo su una donna, e come tale è intollerabile?

l’Unità 6.6.08
Pillola del giorno dopo, il Pm non archivia il procedimento contro chi rifiutò la ricetta


Altri quattro mesi di tempo per indagare sul comportamento dei medici e infermieri del san Giovanni e dell’Umberto I che nel dicembre 2005 rifiutarono a una biologa di 37 anni la ricetta della pillola del giorno dopo per obiezione di coscienza. Un analogo procedimento sarà discusso l’11 giugno a Roma davanti al gip Luisanna Figliola. Qui il rifiuto di somministrare la pillola del giorno dopo il 5 dicembre 2006 all’ospedale Sant’Eugenio. La ragazza sporse denuncia, affiancata dall’associazione Luca Coscioni. Il magistrato chiede l’archiviazione ritenendo «che non sono emersi elementi utili per l’identificazione dei responsabili», mentre l’avvocato della donna si è opposto: «i medici che non forniscono la ricetta per la “pillola del giorno dopo” compiono un reato di interruzione di pubblico servizio e di omissione d’atti d’ufficio, non un atto di rispetto della propria coscienza non è previsto né consentito dalla legge, come per i profilattici e la contraccezione».

l’Unità 6.6.08
Oggi l’Udienza con Benedetto XVI
Incensa la Chiesa e frena sulla laicità:
il Cavaliere a rapporto da Ratzinger
di Roberto Monteforte


Vuole essere lui Silvio Berlusconi, l’unico, vero interlocutore politico della Chiesa in Italia. Liberatosi da chi nel centrodestra come il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, poteva ambire ad essere sponda delle sollecitazione vaticane sui «valori non negoziabili», ora che nel suo governo non spiccano interlocutori che possano presentarsi come referenti sicuri per i Sacri Palazzi, è tutta sua la piazza. D’altra parte, l’unica personalità dell’esecutivo su cui la gerarchia vaticana può contare è un suo fedelissimo, quel Gianni Letta, mente politica e gran tessitore di rapporti diplomatici del premier, talmente di casa e stimato Oltretevere da essersi guadagnato l’ambito titolo di «gentiluomo di Sua Santità».
Con l’incontro di oggi Berlusconi sa di giocarsi la carta dello statista, malgrado le intemperanze della maggioranza che lo sorregge. Lo fa partendo dall’apertura di credito già assicuratagli da Benedetto XVI con il pubblico apprezzamento nel suo discorso ai vescovi italiani per quel «clima nuovo» del paese e per quell’assunzione di responsabilità da parte dell’intera classe politica, impegnata a favore del «bene comune» apertasi. È l’effetto dopo-voto osservato con compiacimento dal pontefice. La Chiesa afferma di apprezzare stabilità e governabilità e il premier è pronto ad incassare. Mentre si affinano i temi dell’agenda del faccia a faccia tra il premier e il pontefice, cui hanno lavorato Gianni Letta, l’«uomo ponte» tra le due sponde del Tevere e il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, spiana la strada all’incontro un’inconsueta e ampia intervista concessa da Berlusconi all’Osservatore Romano e a Radio Vaticana.
«La Chiesa è una ricchezza per lo Stato e il dialogo è aperto su ogni argomento» è la premessa impegnativa e suadente del premier che si fa garante ad un tempo delle prerogative e libertà della Chiesa, compreso quello di dire pubblicamente la propria, e della laicità dello Stato. Si ritaglia il ruolo di campione di quella «sana laicità» evocata anche nel recente viaggio negli Usa da papa Ratzinger. «La Chiesa e le sue organizzazioni hanno tutto il diritto di esprimere le proprie valutazioni e lo Stato laico poi esprimerà un suo giudizio e potrà seguire queste valutazioni nella sua azione politica» rassicura. «Con la Chiesa - aggiunge - è possibile ogni dialogo su ogni argomento» dato che, afferma, «la nostra Costituzione su questo punto è molto chiara». «Quindi - prosegue Berlusconi - non ci possono essere preclusioni alla manifestazione di opinioni e principi da parte di alcuno». Rigetta così la possibile accusa di ingerenza lanciata contro una Chiesa che spesso non si limita ad indicare le sue verità, ma fa anche pesare i suoi veti. Per Berlusconi la Chiesa è e continuerà ad essere un interlocutore essenziale, una «ricchezza per lo Stato» puntualizza «per la sua millenaria esperienza, per il suo contatto con tutte le fasce sociali, a cominciare dalle fasce sociali più deboli». Quindi detta la sua ricetta per un Stato che voglia restare laico: «Deve fuggire dal pericolo ideologico di diventare settario o addirittura totalitario». Perciò - spiega «il dialogo che precede il rapporto tra Stato e Chiesa è un dialogo assolutamente positivo che risiede nella natura stessa della società e dimostra la libertà e la pluralità della società». Conclude che «sarebbe una perdita significativa di libertà per lo Stato escludere e soffocare manifestazione e convinzioni della Chiesa». Nel suo ragionare il premier spazia da problemi come l’emergenza alimentare e le contraddizioni della globalizzazione - cui la Santa Sede è sensibilissima - al centro della recente assemblea della Fao, al ruolo della Ue e dell’Europa di fronte alle emergenze sociali, compresa la questione giovanile, rassicura la Chiesa che chiede valori di riferimento da offrire per contrastare il pericolo dell’egoismo sociale. Indica le iniziative che il governo assumerà a favore della famiglia. Rassicura sul nuovo clima politico tra maggioranza, governo e opposizione. Offre aperture e disponibilità al suo illustre interlocutore che lo riceverà questa mattina in udienza. Ed anche possibili risposte ai temi che molto probabilmente Benedetto XVI gli sottoporrà e poi affronterà con il cardinale Bertone. Troverà un interlocutore attento e disponibile. È indicativa quell'inusuale espressione di «gioia» usata dal Papa nel suo discorso ai vescovi, per sottolineare il nuovo clima registratosi con il dopo elezioni. Come il costante richiamo del pontefice al «bene comune», alla difesa della vita e contro l’aborto, con l’esplicito invito a rivedere la legge 194, quindi le esigenze delle famiglie, istituto da rafforzare e da proteggere mettendolo al riparo da possibili equiparazioni con le unioni civili e introducendo il «quoziente» familiare, e ancora il nodo del lavoro e della condizione giovanile, l’emergenza educativa che per Benedetto XVI non vuole dire soltanto valori da trasmettere, ma anche, più prosaicamente, finanziamenti alle scuole cattoliche . Vi sono i temi di politica internazionale, vi è anche quello della sicurezza e dell’immigrazione da coniugare con i diritti della persona. Siamo sul «non negoziabile» per la Chiesa. E anche per la Lega.

l’Unità 6.6.08
Ferrero è in testa e Bertinotti
torna per aiutare Vendola
di Simone Collini


C’è chi guarda al pomodoro olandese (il “partito sociale” a cui punta Paolo Ferrero) e chi si interroga ancora sulle ragioni della sconfitta (Fausto Bertinotti), chi prova a far decollare il ticket per la costituente della sinistra che verrà (Nichi Vendola-Claudio Fava, primo faccia a faccia pubblico lunedì alla Festa della sinistra, a Genova) e chi si abbandona a una «dormita conviviale nel verde per combattere il mito della crescita infinita» (sabato a Torino, in chiusura della tre giorni titolata “Sinistra pride”). Libera da impegni parlamentari, la sinistra radicale prepara i congressi estivi ma intensifica anche le iniziative che dovrebbero portarla a risalire la china. Gli appuntamenti in piazza sono all’insegna dell’ottimismo, ma all’interno dei partiti il clima è tutt’altro che buono, complici gli ultimi sondaggi (il Prc non si muove dal 2,9% e il Pdci ruota attorno allo 0,9%) e divisioni precongressuali che nessuno sa dire a cosa potrebbero portare una volta che i congressi saranno terminati.
I rapporti più tesi si registrano dentro Rifondazione comunista, nella quale la discesa in campo di Vendola finora non ha portato alla linea bertinottiana della costituente della sinistra quel valore aggiunto che ci si era aspettati: alla fine delle votazioni nei comitati politici la mozione con cui il governatore della Puglia si candida a segretario del Prc ha incassato la maggioranza dei consensi nelle regioni del sud e nelle isole, ma nel nord a prevalere è stata la mozione Ferrero-Grassi, che ha anche ottenuto un successo superiore alle aspettative in una regione importante come la Toscana. È vero, come dice l’ex responsabile Organizzazione del partito Francesco Ferrara, che il vero congresso inizia ora e che finora sono stati consultati soltanto i gruppi dirigenti. Ma visti i botta e risposta delle ultime settimane, è facile intuire cosa succederà se la mozione Vendola vincerà senza però ottenere il 50%, oppure se (visto che dalla mozione Ferrero-Grassi già è partita qualche frecciata su un presunto tesseramento gonfiato nel sud) il governatore vincerà grazie ai tanti iscritti di Puglia, Campania e Calabria, pur non riuscendo a prevalere nelle regioni dal Lazio in su.
A rilanciare nei prossimi giorni la proposta della costituente di sinistra sarà Bertinotti. L’ex presidente della Camera ha pianificato una graduale rentrée politica che prevede lunedì la presentazione a Roma del libro di Piero Bevilacqua “Miseria dello sviluppo”, martedì un dibattito a Genova con Edoardo Sanguineti, giovedì un convegno dal titolo “Le ragioni della sconfitta”: Bertinotti aprirà e chiuderà i lavori, e con lui ci saranno Vendola, Rossana Rossanda, Ritanna Armeni, Franco Giordano, Alfonso Gianni.
Nello stesso giorno, nelle stesse ore, Ferrero sarà a un convegno sul cosiddetto «partito sociale», insieme all’ex ministro della Pianificazione sociale del governo del Venezuela Jorge Giordani e al parlamentare del Partito socialista olandese Tiny Cox. Il progetto di rilancio di Rifondazione, nelle intenzioni dell’ex titolare della Solidarietà sociale, si ispira proprio al cosiddetto partito del pomodoro (è nel simbolo, come richiamo alla protesta), che grazie al forte radicamento locale e alla centralità data alla questione morale (tetto massimo degli stipendi dei suoi eletti fissato a 2000 euro) è passato negli ultimi cinque anni dal 6 al 16%. Al convegno ci saranno associazioni di base che sperimentano pratiche contro il carovita, palestre popolari, centri sociali. «Non è un caso che organizziamo l’iniziativa al Pigneto», dice il responsabile politiche sociali del Prc Francesco Piobbichi.
Anche nel Pdci le acque si fanno piuttosto agitate. Per la prima volta dalla nascita del partito, ci saranno mozioni contrapposte a quella del segretario. A sfidare Oliviero Diliberto e la linea dell’«unire i comunisti» sarà Katia Bellillo, prima firmataria della mozione «Unire la sinistra». Nel documento si dice che «bisogna superare tutte le posizioni settarie e anacronistiche» e che «fra la sinistra e il Pd dobbiamo costruire un leale rapporto di collaborazione-competizione». Potrebbe non essere la sola a sfidare il segretario, visto l’attivismo dimostrato in commissione politica da Marco Rizzo, il suo parlare di una più specifica «costituente dei comunisti» e l’insistenza con cui ricorda che lui l’aveva detto che l’Arcobaleno era un fallimento. Se verrà bocciata la proposta di andare al congresso con documenti emendabili, Rizzo potrebbe uscire allo scoperto al comitato centrale di questo fine settimana, data ultima per la presentazione delle mozioni.

l’Unità 6.6.08
I conti in tasca a Santa Romana Chiesa
di Giancarlo De Cataldo


NELLA «QUESTUA» Curzio Maltese indaga sul «viaggio del denaro» verso il Vaticano: quattro miliardi di euro l’anno, dei quali solo una parte minima viene destinata a opere di carità...

Perché siete diventati, di colpo, così duri, così intransigenti, ho chiesto a un amico cattolico, un signore ben addentro alle vaticane cose? Perché tanta insistenza, così ossessiva, sulla morale individuale, sulla sessualità, sulla tradizione? Perché quando abbiamo mollato, è stata la laconica risposta, stavamo scomparendo. Papa Giovanni, la Populorum Progressio, la Promozione Umana, la Teologia della Liberazione... tutto questo ci stava condannando all’estinzione. Tutte le fedi si rafforzano, noi non potevamo tirarci indietro. Il dialogo, in sostanza, non paga. E il rafforzamento della fede costa, e costa caro.
La Chiesa impiega solo una parte minima dell’8 per mille in opere di carità (fonte Cei). Il resto va in proselitismo, in rafforzamento dell’istituzione. Nella gestione di molteplici attività a sfondo imprenditoriale. E in egemonia culturale.
Ecco una delle tante informazioni che si ricavano da La Questua, l’inchiesta di Curzio Maltese sul potere economico della Chiesa cattolica che ha meritato all’autore gli strali del cardinal segretario di Stato della Santa Sede (con la collaborazione di Carlo Pontesilli e Maurizio Turco, Feltrinelli serie bianca, pagine 172, euro 14,00). Finiamola! ha tuonato l’altissimo prelato. La lettura del libro giustifica una simile reazione: Maltese, nella sua documentatissima indagine, ignora e trascura la superficie, il pettegolezzo, il facile veleno del gossip. Va diritto al cuore del problema, usando un punto di vista particolare - diciamo il «viaggio del denaro» - come escamotage narrativo per raccontare una storia ben più problematica e articolata. E costringe il lettore a confrontarsi con il tema del rapporto fra Chiesa e Stato nell’Italia di oggi, e, più in generale, fra laici e credenti nel mondo contemporaneo.
La Chiesa costa ogni anno, alle tasche degli italiani, quattro miliardi e passa di euro. Approssimato per difetto, l’equivalente del costo della «Casta» secondo il bestseller di Stella&Rizzo. Soltanto una piccola parte di questo «bendiddio» (come abbiamo visto) finisce in opere di assistenza e concreta carità. La Chiesa dispone di un patrimonio immobiliare talmente imponente da sfuggire, nella sua reale estensione, agli stessi detentori. La Chiesa è uno dei più intelligenti e spregiudicati operatori turistici sul mercato. Notizie di pubblico dominio, oltretutto mai smentite (e non risultano, allo stato, querele). Maltese scrive per un giornale che ha appoggiato i governi di centrosinistra mentre la Chiesa sembra essersi da tempo «posizionata» sull’opposta sponda. Eppure, la Questua è decisamente bipartisan. Sottolinea come l’intera classe politica- tranne rarissime eccezioni- sia da sempre estremamente sensibile al prestigio (e al peso elettorale) della Chiesa. Non omette di menzionare, ma anzi evidenzia, assai criticamente, l’impegno del cattolico Prodi nell’evitare il confronto, sollecitato dall’Unione Europea, sui privilegi fiscali dei beni ecclesiastici. Riconosce al centro-sinistra il «merito» di aver favorito le scuole cattoliche con agevolazioni negate per cinquant’anni dai governi a maggioranza democristiana. Maltese non è nemmeno un acceso anticlericale. Non tratta la Chiesa da «casta» in termini sprezzanti. Evita accuratamente giudizi approssimativi, rifiuta di confondere santi e faccendieri, si allontana orgogliosamente dal coro dei livorosi libellisti che alimentano la cultura del sospetto e del mugugno. Il suo rispetto nei confronti dell’istituzione d’oltretevere è palese. Ammira i preti di frontiera, i volontari che combattono in situazioni estreme, gli ambasciatori di pace, quelli che combattono dalla parte degli ultimi. A tratti affiora persino una venatura di nostalgia per quell’Italia più povera, ma più solida e solidale, nella quale alla parrocchia e alla sezione del Pci era rimesso il compito, fondamentale, di accompagnare, sostenere, educare i nostri ragazzi. Nonostante tutto questo, o, meglio, proprio a causa di tutto questo, ben si comprendono il diktat prelatizio e la «reazione a catena» degli ambienti cattolici di cui parla, nell’introduzione al volume, Ezio Mauro.
Maltese ha un peccato originale: è un laico. E lo rivendica nel momento nel quale più acuto e conflittuale è il distacco fra il sentire laico e quello religioso.
Il suo racconto, intessuto di regalìe, spregiudicate operazioni finanziarie, abili inziative imprenditoriali, segnato da qualche nefandezza e da qualche eroismo, coinvolge davvero tutti: santi e faccendieri, credenti e non. E il «viaggio» del denaro e dei beni materiali può illuminarci, sui nodi di fondo, meglio di tanti saggi di ben più ambizioso spessore. Fra Stato e Chiesa c’è un patto non scritto. Lo Stato, smantellando il welfare, si ritira da territori che la Chiesa prontamente occupa. Gli ultimi, abbandonati a sè stessi dall’imperante neoliberismo, sono affidati alle mani amorevoli di un’istituzione millenaria. Donazioni, esenzioni, accumulazioni sono il prezzo dello scambio. Ma un simile accordo può reggere, e rivelarsi un bene per tutti, solo a condizione di assoluta reciprocità. Il che accade quando il laico e il credente, e le istituzioni che li rappresentano, si «sentano» simili. Ovvero, rispettino ciascuno le sfere di propria competenza. Argomento che è alla base del sentire laico ma che, oggi, la grande maggioranza dei credenti rifiuta. La grande bestia nera della fede si chiama relativismo etico. Categoria concettuale incompatibile con il regno dell’assoluto che impone altrettanto assoluta adesione. Nelle parole dell’amico addentro alle vaticane cose c’è il riconoscimento di una verità che il laico Maltese non può non condividere: esiste, oggi, un limite, nel dialogo, oltre il quale il credente non può spingersi. Anche perché - in perfetta buona fede - per un credente, oggi più che mai, il laico è un oggetto misterioso. Come può accadere, ad esempio, che un laico si prodighi per gli ultimi, assista i malati, si prenda cura della famiglia se non gliel’ha comandato Dio? Perché non si limita ad arricchirsi e a peccare, come ogni altra creatura che non è ancora stata toccata dalla Luce? Dal mistero alla conversione il passo è breve. Quella pecorella smarrita deve essere ricondotta alla ragione. Rectius: alla fede. In questa situazione di contrapposizione, è quanto meno paradossale che uno dei due contendenti finanzi generosamente l’altro. Ma è esattamente ciò che accade, oggi, in Italia. Ed è la rivelazione del paradosso, con ogni evidenza, a suscitare lo «scandalo».
Lo Stato, ufficialmente laico, finanzia un’istituzione che non riconosce il valore della laicità, ed utilizza, in larga misura, i soldi che le vengono elargiti per rivendicare la propria ostilità contro di essa. La Chiesa istituzione ne esce rafforzata, lo Stato indebolito, quasi succube.
E poiché un paradosso tira l’altro, nota Maltese, citando autorevoli commentatori cattolici (di solito decisamente più acuti e coraggiosi di tanti maestri del pensiero laico), la Chiesa non è mai stata così forte mediaticamente ed economicamente, e così debole nella sua «presa» sul quotidiano. Proprio quella «presa» che l’egemonia culturale dovrebbe garantire.
Difficile dar torto ai cardinali e ai commentatori che intuiscono l’humus insidioso di questo libro. Difficile, anche, dar torto ai fatti che Maltese enuncia. E forse impossibile condividere la sua speranza finale: che, cioè, un giorno (ma quando?) una forza autenticamente riformista e riformatrice batta un colpo alle porte del Vaticano.

l’Unità 6.6.08
La lunga strada dei diritti umani
di Souhayr Belhassen


Pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento tenuto a Orvieto da Souhayr Belhassen (presidente della Federazione internazionale delle leghe dei diritti umani) vincitrice del premio internazionale diritti umani «Città di Orvieto».

L’anniversario della Dichiarazione ci fornisce anche l’occasione per evidenziare come ogni giorno con le nostre lotte noi guadagnamo terreno. E quando dico noi non intendo semplicemente la Fidh, ma le donne e gli uomini che difendono l’universalità della dichiarazione nella vita quotidiana.
Tra i successi ottenuti desidero evidenziare due avvenimenti ai quali la Fidh tiene particolarmente, in quanto frutto di una fortissima mobilitazione delle nostre organizzazioni sul campo.
Si tratta in primo luogo dell’arresto di Jean-Pierre Bemba Gombo a Bruxelles, una settimana fa, a seguito del mandato di cattura della Corte penale internazionale. Ex Vice-Presidente della Repubblica Democratica del Congo, presidente e comandante in capo del Movimento di Liberazione del Congo (MLC), Jean-Pierre Bemba è ritenuto responsabile di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità compiuti sul territorio della Repubblica centrafricana. Sotto la sua direzione, le truppe del MLC avrebbero in effetti portato un attacco sistematico e generalizzato contro la popolazione civile e commesso stupri e atti di tortura.
La Fidh e le sue organizzazioni aderenti sono state le prime ad indagare su questi tragici avvenimenti e a darne notizia, attraverso la testimonianza di vittime di gravi crimini internazionali. L’arresto di Jean-Pierre Bemba è una grande vittoria per le vittime centrafricane, il cui coraggio e la cui abnegazione debbono oggi essere messi in evidenza. Si tratta di un fantastico passo avanti nella lotta contro l’impunità in Africa e nel mondo, e in particolare nella lotta contro le violenze a danno delle donne in tempo di guerra.
Questo arresto avviene sulla scia dell’apertura, nello scorso dicembre, del processo ad un altro grande criminale, l’ex dittatore peruviano Alberto Fujimori, indagato per omicidi, attentato all’integrità fisica e sequestro aggravato.
Fujimori aveva cercato per quasi sette anni di sfuggire alla giustizia rifugiandosi prima in Giappone e poi in Cile, paese dal quale è poi stato estradato. Il 12 dicembre è stato condannato a sei anni di prigione per aver mandato uno dei suoi collaboratori a rubare dei documenti presso il capo dei servizi segreti. Egli risponde attualmente del massacro di 25 persone a Barrios Altos e all’Università di Cantuta nel 1991 e 1992 ad opera di uno squadrone della morte, il gruppo Colina, di cui sarebbe l’ispiratore. Egli è anche implicato nel sequestro di un imprenditore e di un giornalista, oppositore del suo regime, imprigionati negli scantinati dei servizi segreti nel 1992. Il procuratore ha chiesto una condanna a 30 anni. È una buona notizia, in quanto si tratta del primo presidente ad essere giudicato nel suo stesso paese, dopo essere stato estradato da un paese terzo. Un’eccellente notizia perché questo processo mette fine a più di 15 anni di attesa per le vittime, sostenute durante tutto questo periodo dalla Fidh e dalla sua organizzazione aderente in Peru, l’Aprodeh.
Se sottolineo questi successi è perchè essi ci sono necessari per continuare a far fronte alle violazioni in tutto il mondo, per dare speranza alle vittime, per continuare a credere, malgrado l’attualità spesso troppo moribonda, che l’universalità dei diritti umani può essere realizzata.
Tuttavia questa lotta è ancora lunga, dobbiamo mobilitarci e rimanere sempre vigili. Vigili affinché non si torni indietro. E dico questo oggi qui, in Italia, un paese che fu tra i primi a lottare per i diritti umani.
È in effetti in Italia che è nato San Tommaso d’Acquino, teologo e filosofo, uno dei primi a parlare dell’esistenza di diritti inalienabili della persona, che si impongono al sovrano. Ancora fortemente impregnati del diritto divino, questi scritti furono tra i primi a riconoscere l’esistenza dei diritti umani, di tutti gli uomini.
Nel 18° secolo Cesare Beccaria insistette affinché si rifiutasse di considerare il criminale un individuo da escludere dalla società. Egli dimostrò che la pena di morte non ha alcuna legittimità in quanto è impossibile che l’individuo decida naturalmente di delegare allo Stato il suo diritto alla vita. Una lotta che continuiamo a combattere oggi in tutto il mondo, e di cui l’Italia è uno dei grandi difensori presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Ma la lotta per il riconoscimento di questi diritti richiede la nostra vigilanza e deve rispondere a nuove sfide:
Le sfide, qui, sono quelle poste dal Vaticano che, un anno fa, dopo la mobilitazione di Amnesty International a favore dei diritti riproduttivi, ha invitato, attraverso la voce del Cardinale Renato Martino, tutte le persone di fede cattolica a sospendere il loro sostegno all’organizzazione che difende i diritti umani, accusandola di aver "tradito la sua missione".
in Italia, lo Stato affronta la sfida della non discriminazione violando tale diritto, rimandando collettivamente i romeni nel loro paese d’origine e facendo subire a una intera comunità le conseguenze delle malefatte di alcuni connazionali. Vi è una frontiera tra la responsabilità individuale e l’accusa collettiva, passare dall’una all’altra, come ha fatto il Consiglio italiano, nell’ottobre scorso, significa adottare atteggiamenti razzisti.
Le sfide sono anche quelle poste dal Tribunale di Bologna e dalla Corte di Cassazione italiana che hanno riconosciuto il diritto della sharia e, in nome della tradizione e della religione, hanno rifiutato di condannare i comportamenti violenti inflitti dai membri della sua famiglia a Fatima, una giovane donna di origine musulmana. Fatima era stata sequestrata e legata ad una sedia e poi brutalmente picchiata, come punizione per le sue amicizie e il suo stile di vita. La Corte di Cassazione ha assolto la sua famiglia ritenendo in primo luogo che la giovane donna fosse stata picchiata "non per motivi vessatori e per disprezzo", ma - e riconosce la motivazione di questi atti - per dei comportamenti "giudicati non corretti". I diritti umani, qui il diritto di non essere percosso, debbono essere gli stessi per tutti, senza distinzione di religione.
Infine le sfide sono quelle poste dal Governo italiano quando, queste ultime settimane, in un pacchetto di riforme per la Sicurezza, fa un amalgama riprovevole tra l’immigrazione e la criminalità.
La Fidh è particolarmente preoccupata per queste nuove disposizioni, che vanno ancora una volta nel senso della stigmatizzazione degli stranieri, della restrizione dell’accesso alle procedure di asilo e di una gestione puramente repressiva del fenomeno migratorio. Dalla mia elezione alla presidenza della Fidh ho potuto visitare in Europa dei centri di detenzione di immigrati e richiedenti asilo in Polonia o in Belgio e constatare ogni volta la miseria umana di intere famiglie, di bambini privati della loro libertà.
Poco tempo fa avevamo indagato, insieme all’Unione per la Tutela dei diritti dell’uomo (Uftdu) la nostra organizzazione partner in Italia, sulla realizzazione del diritto di asilo e siamo costretti a constare che i responsabili italiani fanno fatica ad uscire da questo circolo infernale.
È ormai tempo che gli Stati europei, e l’Italia in particolare, adottino delle politiche ambiziose che prendano in considerazione i diritti inalienabili dei migranti.
Per i 60 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani esprimiamo l’auspicio che venga riaffermata la sua universalità, non solo per le popolazioni più lontane dall’Europa, ma anche nelle nostre città e nelle nostre contrade, per i nostri vicini, tutti i nostri vicini, queste donne e questi uomini che vivono accanto a noi. È dalla nostra capacità di riconoscere i loro diritti che riusciremo a trarre la nostra legittimità e a rivendicarli per tutti e dovunque.

Corriere della Sera 6.6.08
Frontiere Test e studi psichiatrici dimostrano come lo sviluppo della sfera intellettuale renda gli individui prudenti e tradizionalisti
L'intelligente non è creativo troppo talento frena il genio
Darwin, Einstein e Churchill furono anticonvenzionali e cattivi studenti
di Edoardo Boncinelli


Per molti autori la creatività è parte integrante dell'insieme di capacità e abilità comprese sotto il nome di intelligenza. Altri autori, invece, sostengono una sostanziale autonomia delle capacità creative rispetto a quelle dell'intelligenza. In particolare, se si concepisce l'intelligenza come un costrutto i cui contorni sono delineati interamente dagli strumenti di misura utilizzati nelle ricerche empiriche, cioè se viene misurata come l'insieme delle capacità che contribuiscono a favorire risposte corrette a quesiti di natura verbale o logico- matematica, la creatività deve necessariamente essere concepita come separata dall'intelligenza. Fornire risposte corrette a quesiti che richiedono estese conoscenze e l'applicazione di regole o formule esclude quasi automaticamente l'uso di capacità che si basano sull'innovazione.
Ciò che è nuovo, infatti, non necessariamente è derivabile da quanto precedentemente noto, e anche quando la fonte dell'innovazione si basi su fatti o materiali noti, la loro associazione nel determinare il nuovo prodotto non risulta dall'applicazione di regole condivise: in caso contrario non si avrebbe una novità, ma solo l'estensione di quanto già conosciuto.
In questa linea, gli studi indicano che i soggetti creativi tendono a riportare un punteggio elevato nei test di intelligenza generale. Però, quando tali misure di intelligenza sono poste in relazione con indici di creatività basati sul giudizio di terzi o in base ai risultati conseguiti (numero di opere, premi ricevuti, e così via), intelligenza e creatività si dimostrano scarsamente correlate tra loro.
Un problema di non poco conto è la mancanza di test adeguati per la misurazione delle capacità creative, analoghi a quelli utilizzati nella ricerca sull'intelligenza. Molti test sviluppati a tale scopo hanno dimostrato una affidabilità e una specificità molto modeste.
Il principio base utilizzato nella creazione di molti test di creatività fa riferimento al carattere indeterminato e non regolamentabile della creatività. Molti test per la misurazione della creatività, quindi, sono costruiti in forma di risposta aperta o multipla, dove la singolarità e rarità della risposta, rispetto alla media, costituisce elemento indicativo. Un simile criterio, ovviamente, permette anche l'inclusione di risposte totalmente implausibili. Soggetti apertamente disturbati possono fornire risposte inusuali, e quindi giudicate creative, senza esserlo realmente.
Misurare la creatività in azione appare assai difficile, anche perché resta ancora da dimostrare il potere di predizione delle risposte date a questi test. A differenza dei test di intelligenza, infatti, i test di creatività non si sa ancora se siano o meno in grado di prevedere la riuscita in campo creativo. Per quanto riguarda i primi, cioè i test di intelligenza, i pochi studi condotti sino a oggi non sembrano indicare un vantaggio particolare di un elevato quoziente d'intelligenza ai fini del successo in campo creativo. Essere intelligenti, probabilmente, è un prerequisito per l'espressione della creatività, ma essere pienamente creativi implica il possesso di qualità distinte da quelle che contribuiscono all'espressione dell'intelligenza.
Secondo alcuni autori, l'intelligenza in certi casi può addirittura costituire un freno alla piena espressione della creatività. Secondo lo psichiatra Silvano Arieti, che ha dedicato importanti studi alla relazione tra creatività e malattia mentale, un'intelligenza troppo sviluppata può inibire le risorse interiori dell'individuo, poiché la sua autocritica diventa troppo rigida, o perché egli impara troppo presto ciò che l'ambiente gli offre, diventando così costretto entro i limiti della tradizione. Secondo Arieti, infatti «una grande capacità di dedurre secondo le leggi della logica e della matematica crea dei pensatori disciplinati ma non necessariamente delle persone creative», un'affermazione questa che mi sento molto di condividere e che io uso esprimere dicendo che «spesso il talento può fare ostacolo al genio». Da una parte, le persone alle quali riesce sempre tutto, magari alla prima, non hanno forse la spinta interiore per impegnarsi allo spasmo e possibilmente divenire creativi, dall'altra, un eccessivo adattamento alle convenzioni sociali sicuramente limita l'espressione della creatività. Il soggetto creativo solitamente sente la norma come una costrizione, e il suo desiderio di superare i limiti del già noto lo pone talvolta in forte contrasto con la società.
Attitudini di personalità orientate in senso anticonvenzionale possono essere presenti già in età scolastica, e influenzare negativamente l'adattamento scolastico. Darwin, Einstein e Churchill ebbero difficoltà scolastiche, anche notevoli. È possibile, però, che tali difficoltà originassero da fattori non necessariamente legati alle loro successive realizzazioni creative. Di Darwin è nota una propensione all'ipocondria, e pare abbia sofferto di attacchi di panico. Churchill soffrì di psicosi maniaco-depressiva. Einstein era forse affetto da disturbi dell'attenzione, e possedeva un'inusuale capacità di pensare per immagini, che si accompagnava a un'altrettanto pronunciata tendenza ad astrarsi da quanto lo circondava.
Un altro aspetto che è emerso dagli studi dedicati alla personalità dei soggetti creativi è l'estremo attaccamento che mostrano nei riguardi della loro attività. Tale dedizione si accompagna, in genere, a una considerevole competenza e conoscenza degli argomenti collegati alla professione scelta. Seppure non è possibile programmare la creatività, pure si può preparare insomma il terreno per la miglior riuscita del «seme» dell'evento creativo. Ampliare e approfondire al massimo le conoscenze nel campo in cui si vuole esprimere la propria creatività diventa quindi una strategia che, se non assicura il risultato, pure lo rende assai più probabile.
La sola conoscenza non è però sufficiente per la realizzazione del potenziale creativo. È necessaria anche la pratica, e la continua messa alla prova delle proprie capacità. Il creativo che si esprima una sola volta, dedicandosi poi alla coltivazione della propria unica scoperta, è molto raro. In genere i soggetti creativi tendono a essere produttivi, esprimendosi anche in campi non direttamente collegati al proprio principale settore. Leonardo da Vinci è l'esempio più noto di creativo universale.
La «spinta a creare» è un altro elemento che caratterizza le personalità maggiormente creative. Tale impulso a produrre distingue il creativo dall'esecutore e lo conduce, talora, a trascurare ogni altra attività. L'inventore che si rinchiude in un eremo a sperimentare le proprie creazioni è solo una parodia di quanto accade nella realtà, ma l'aneddotica è ricca di esempi di scienziati che trascurano ogni cosa per stare dietro alla propria ultima intuizione, sino al punto di dimenticarsi di se stessi e dei propri impegni.

Il testo pubblicato in questa pagina è tratto dal saggio di Edoardo Boncinelli Come nascono le idee (Laterza, pp. 154, e
10), in uscita oggi. Insieme al libro di Guido Barbujani e Pietro Cheli Sono razzista, ma sto cercando di smettere (Laterza, pp.
144, € 10), il volume inaugura la collana «I libri del Festival della Mente», frutto della sinergia fra Laterza e l'omonima manifestazione, diretta da Giulia Cogoli, che si tiene ogni anno a Sarzana. La collana comprende testi in cui sono sviluppati i temi di conferenze svolte al Festival della Mente.

Corriere della Sera 6.6.08
Pechino, capitale imperiale
Da Cattaneo alle Olimpiadi
di Giuseppe Galasso


Perché — si chiedeva Carlo Cattaneo nel 1858 — definiamo «barbara» l'Asia? La risposta era di grande interesse. «Non è già — diceva — che non siano quivi sontuose città; che non siavi agricoltura e commercio, e più di un modo di squisita industria, e certa tradizione d'antiche scienze, e amore di poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti ed armature e generosi cavalli e ogni altra eleganza». Non era, dunque, in ciò la barbarie dell'Asia, bensì nel fatto che «in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità», come «esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati » a subire un «fatalismo», ossia un destino di sottomissione, che non era «figlio della religione, ma della politica». E di qui «il divario tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene». È un brano letterariamente bello di Cattaneo, importante anche perché attesta un'idea a lungo diffusa sulla storia civile dei Paesi extraeuropei. Per Cattaneo le città erano il luogo storico in cui meglio lo si vedeva. In Occidente, autonomia e libertà delle città. Altrove non libertà cittadina, né libere città-stato, né liberi comuni; e, quindi, neppure alcunché della libertà dei moderni.
Tesi discutibile, ma con qualche motivo, e in specie allora, che di storie di città non occidentali si sapeva poco. Oggi se ne sa molto di più, e si sa che la città non è affatto un monopolio occidentale. E, tuttavia, il nucleo duro del giudizio di Cattaneo conserva un senso. Lo confermano Lilian M. Li, Alison J. Dray-Novey e Haili Kong nel loro
Pechino. Storia di una capitale
(Einaudi). Dal secolo XIII, coi Mongoli, capitale di tutta la Cina, Pechino appare, infatti, storicamente dominata dal suo ruolo di capitale imperiale (solo dal 1928 al 1949 non lo è stata). Da otto secoli la vita della città gira, quindi, intorno a tale ruolo. Sottoposta a un rigido controllo statale, dicono le autrici, «Pechino non ha una tradizione di élite locale quali un'aristocrazia ereditaria o un notabilato», né i suoi mercanti divennero ricchi e influenti come a Costantinopoli o in varie città islamiche, mentre «alti funzionari e altre persone importanti» venuti da fuori vi risiedettero, ma senza stabilirvisi. Perciò, «la funzione dirigente dell'élite locale e la sua partecipazione al governo della cosa pubblica», consuete in Cina, «a Pechino sono, invece, deboli e rare». Una «identità urbana indipendente » la città sembrò acquisirla solo dopo la caduta dell'impero nel 1912. Ci si contrappose, così, come Jingpai o «scuola di Pechino» (gradualismo politico e spirito teorico, raffinatezza culturale, elitismo conservatore), a Haipai o «scuola di Shanghai» (di sinistra e radicale, impegno sociale, azioni immediate).
Ciò non significa che la storia di Pechino sia monotona o unidimensionale o «senza qualità ». È la storia di una metropoli di un milione d'abitanti già secoli fa, quando questo era una rarità; che vide impiantarsi e trasformarsi un assetto urbano grandioso, con una topografia e con una monumentalità eccezionali (si pensi solo alla «città proibita »), con istituzioni culturali e con ordinamenti amministrativi di grande interesse storico; che fu il centro dell'azione politica di uno dei più grandi imperi del mondo; che non mancò di ripetuti e talora drammatici sussulti (come la rivolta dei Boxer nel 1901 o quella della «rivoluzione culturale» fra il 1966 e il 1976 o quella di piazza Tienanmen nell'aprile- giugno 1989); che anche dopo l'avvento comunista nel 1949 ha mostrato un'imprevedibile capacità di commuoversi e agitarsi, e non solo coi suoi studenti.
Ora è una megalopoli di 15 milioni di persone e ospiterà le Olimpiadi, centro direttivo di una delle maggiori realtà politiche ed economiche di oggi. Da città imperiale a città olimpica, come dicono le autrici? In realtà, così non si direbbe ancora nulla. Il suo storico interrogativo, a parte i problemi di sostenibilità di ogni metropoli di oggi, è sempre se, per dirla alla Cattaneo, la megalopoli diventerà, o no, un grande e libero municipio. Un problema cinese, si sa, e non solo di Pechino, per cui sembra esservi oggi qualche prospettiva.

Corriere della Sera 6.6.08
Se i fondi cinesi comprano Manhattan
di Massimo Gaggi


La Freedom Tower, il grattacielo di 540 metri simbolo della rinascita di New York dopo l'attentato del 2001 alle Torri gemelle, ospiterà al suo interno anche il China Center, un istituto dedicato alla promozione della cultura cinese nel mondo del «business», oltre che allo sviluppo degli affari tra gli Usa e il Paese asiatico. La torre di 102 piani con la quale si cerca di rimarginare la ferita di «Ground zero» viene presentata dalla città di New York come la sua nuova grande calamita commerciale, ma fin qui solo il governo federale e quello dello Stato si sono impegnati ad affittarne una parte, senza tuttavia poter ancora indicare quali uffici verranno trasferiti nell'edifico. Quello firmato da Vantone, una società immobiliare di Pechino, per gli spazi compresi tra il 64˚e il 69˚piano è il primo contratto significativo ottenuto dai proprietari dell'edificio la cui costruzione procede tra molte difficoltà. È uno dei segnali dell'attivismo delle società cinesi che approfittano del calo del dollaro per comprare pezzi di Manhattan.
Qualche decina di isolati più a nord un'altra torre celebre — quella un tempo occupata dal quartier generale della General Motors — è stata venduta per 2,9 miliardi di dollari, la cifra più alta mai pagata per un singolo edificio, alla Boston Properties: un'immobiliare dietro la quale ci sono i capitali dei «fondi sovrani» di alcuni Paesi arabi con le casse zeppe di petrodollari. E, intanto, anche gli uomini delle finanziarie governative di Abu Dhabi e Dubai continuano a battere New York a caccia di buoni investimenti.
Quando, l'anno scorso, i cinesi entrarono nel capitale di Blackstone, il gigante del «private equity», mentre altri «sovereign funds» diventavano azionisti di alcune banche di Wall Street in difficoltà, l'America cominciò a vivere nell'incubo dell'invasione finanziaria. Al Congresso molti parlamentari chiesero norme capaci di limitare l'attività di fondi che, essendo posseduti dai governi e non da investitori privati, erano sospettati di operare con logiche politiche anziché di mercato.
A Washington la disputa tra chi vorrebbe limitare l'operatività di questi fondi e i sostenitori di un «free trade» assoluto e reciproco si è risolta da sola: la crisi creditizia degli ultimi mesi ha distrutto buona parte del valore degli investimenti fatti da questi «sovereign funds » nelle banche, spingendoli a battere in ritirata.
Per «riciclare» i petrodollari non restava che il vecchio «mattone sicuro». Che però, con la «bolla» immobiliare e la crisi dei mutui, tanto sicuro non è più, almeno negli Usa. New York, che rimane un grande «hub» mondiale, è sembrato a questi investitori il mercato meno vulnerabile e così in cima ai grattacieli di Manhattan sono cominciate a spuntare bandiere arabe e asiatiche.
Per il miliardario Warren Buffett, un investitore di cui tutti celebrano la saggezza, c'è poco da storcere il naso: «Chi, come l'America, pensa di vivere con un deficit permanente degli scambi commerciali deve rassegnarsi a vendere ogni anno un pezzetto del Paese».

Repubblica 6.6.08
Francesca Pirani "Il mio film dieci anni dopo"
di Franco Montini


ROMA -I miracoli, a volte, accadono anche nel cinema. È il caso della resurrezione di "L’appartamento", il film di Francesca Pirani, realizzato una decina d´anni fa per RaiDue, giudicato troppo cinematografico e proprio per questo, condannato all´invisibilità, ovvero trasmesso una sola volta sul piccolo schermo in orario impossibile a notte fonda. «Per un tempo lunghissimo - racconta la regista - il mio primo film praticamente non è esistito, ma io ne ero molto fiera e non mi volevo arrendere, così ho cercato in tutti i modi di rilanciarlo». L´occasione arriva adesso con la pubblicazione in dvd per la Cecchi Gori Home Video. "L’appartamento" racconta l´incontro fra due giovani immigrati in una casa nel centro di Roma. Lui è un pizzaiolo egiziano che cerca un rifugio, lei una ragazza bosniaca, in fuga dalla guerra dei Balcani, che lavora come cameriera. Fra i due sconosciuti all´inizio emerge un sentimento di reciproca diffidenza, quasi di razzismo, poi, un poco alla volta, s´instaura un rapporto di complice solidarietà.
Marco Bellocchio, che ha prodotto il film, lo ha definito: «Molto sottile, raffinato, che racconta sentimenti ricercati». «Il mio film - aggiunge Francesca Pirani - è centrato sul tema dell´immigrazione, ma in una chiave che non ha nulla da spartire con le vicende drammatiche della cronaca nera dei nostri giorni. I miei protagonisti sono due immigrati regolari ed è assai curioso notare come in dieci anni sia profondamente cambiato il nostro atteggiamento nei confronti degli altri; alla disponibilità, curiosità, accoglienza si sono sostituiti inquietudine, paura, terrore. Mi auguro che "L´appartamento" possa aiutare a guardare al fenomeno con sentimenti più umani».

Repubblica 6.6.08
Vendite record, ora uscirà l’opera omnia di Ratzinger
Un Papa da bestseller ha incassato due milioni
di Orazio La Rocca


Il Papa dei best seller vale 2 milioni di euro
Ratzinger, il cugino ucciso dai nazisti "Era Down, lo strapparono alla famiglia"
Tre anni di vendite record per i libri di Benedetto XVI. In pubblicazione l´opera omnia
L´ultimo volume, su Gesù, ha già venduto 2,5 milioni di copie in tutto il mondo

CITTA´ DEL VATICANO - Tre anni di vendite record per i libri scritti da Papa Ratzinger. Benedetto XVI ha maturato diritti per circa 2 milioni di euro. D´altra parte il pontefice scrittore può vantare una produzione imponente , un catalogo da 132 titoli. Un lavoro che presto sarà pubblicato in un´opera omnia. Benedetto XVI comunque vanta numeri da best- seller. Il suo ultimo libro «Gesù di Nazaret» ha venduto in tutto il mondo oltre 2 milioni e mezzo di volumi.

Un catalogo di ben 132 titoli tra libri, monografie e commenti. E´ l´«opera omnia» prodotta da Joseph Ratzinger a partire dal 1950, da giovane docente universitario, fino all´elezione papale del 2005. Una monumentale raccolta pubblicistica sui temi della fede che presto sarà ristampata dalla più grande casa editrice cattolica europea, la tedesca Helder, con l´attenta supervisione - nonché compartecipazione - della Libreria Editrice Vaticana (Lev), titolare dei diritti di tutti gli scritti di Benedetto XVI.
«Il progetto prevede la stampa di 13 volumi. Il primo, che sarà pubblicato a fine anno, sarà dedicato alle tematiche teologiche e liturgiche trattate dal Papa prima dell´ascesa al soglio di Pietro», annuncia don Giuseppe Costa, salesiano, direttore della Libreria Editrice Vaticana che curerà la traduzione in lingua italiana. Gli altri libri usciranno entro il 2009. Tutta l´opera partirà, quindi, dalle prime pubblicazioni di Ratzinger - molte delle quali quasi introvabili come «Popolo e casa di Dio in S. Agostino» del 1954 e «La Teologia della storia di S. Bonaventura» del 1959 - fino alle meditazioni fatte dal futuro pontefice alla Via Crucis del 2005. Compresi i libri più famosi di Ratzinger, come l´«Introduzione al cristianesimo», il «Sale della terra» e il notissimo «Rapporto sulla fede» scritto con Vittorio Messori. «È una pubblicistica ricca e straordinaria a cui guarda con crescente interesse un variegato pubblico di lettori di ieri e di oggi, che ha in Ratzinger un sicuro punto di riferimento religioso e culturale», commenta don Costa, il quale però aggiunge che non è stato facile strappare il consenso del Papa per la pubblicazione. È verosimile immaginare che Ratzinger alla fine abbia dato il suo assenso forse spinto dal successo che stanno avendo i suoi vecchi e nuovi lavori editoriali. Basti pensare che il suo ultimo libro, «Gesù di Nazaret» finora ha venduto in tutto il mondo oltre 2.500.000 di copie. Vendite da primato anche per le sue encicliche, la «Deus caritas est» con oltre 1.600.000 copie vendute, e la «Spe salvi» finora arrivata intorno a 1.400.000 copie. Ma c´è un altro dato meritevole di indubbia considerazione: da quando Benedetto XVI è stato eletto, i diritti maturati dai suoi libri ammontano ad oltre 2 milioni di euro. «Sì, è verosimile», conferma don Costa, il quale, però, ama mettere in evidenza in modo particolare «il grande valore socio-culturale ed umanitario che è legato alla produzione letteraria del Santo Padre». Un innegabile fiume di denaro che - assicurano in Vaticano - per volontà del Papa sarà oculatamente gestito da una istituzione ad hoc per tutelare le opere letterarie del pontefice, la Fondazione Ratzinger, con sede in Vaticano e in Germania. Tratto caratterizzante di questo organismo - al quale aderiranno studiosi, ex colleghi universitari, ex allievi ed ecclesiastici filo ratzingeriani - l´attenzione alle opere di carità, gli aiuti ai poveri e la vicinanza ai giovani studenti bisognosi con borse di studio.

Repubblica 6.6.08
I grandi impotenti
di Guido Rampoldi


Il difficile compromesso tra interessi contrastanti ma ugualmente legittimi
Una Babele di progetti senza una vera strategia
E sui biocarburanti nessun linguaggio comune
Sotto accusa il protezionismo agricolo che viene praticato dall´Europa
Ciascun governo si è fatto portatore degli interessi della propria nazione

NON poteva essere un summit organizzato in fretta e furia da un´istituzione internazionale tra le più contestate ad esorcizzare la tesi che ci inquieta dal remoto 1798, l´anno in cui il reverendo Thomas Malthus consegnò il suo Saggio sul Principio di Popolazione al catalogo delle profezie più spaventose. Ma se fossimo uno di quegli 800 milioni di esseri umani oggi minacciati dalla morte per fame, lo strumento con cui secondo Malthus la natura provvede a "tenere sotto controllo" (check) la crescita demografica facendo fuori vaste masse umane, non saremmo affatto rassicurati da questa Conferenza di Roma sulla crisi alimentare.
Non che siano mancati le idee, i progetti, le promesse di finanziamenti spettacolari e, crediamo, le buone intenzioni. Ma quando si è trattato di arrivare ad una sintesi, di immaginare una strategia, di imboccare un percorso comune, i cosiddetti "potenti della Terra" hanno mostrato una penosa impotenza, e quel formidabile consesso in cui erano sfilati premier e ministri di infinite nazioni è parso una rumorosa, sovraffollata, patetica Babele. Era abbastanza prevedibile che ciascun governo si facesse portatore degli interessi della propria nazione, certo legittimi ancorché divergenti o addirittura opposti rispetto agli interessi delle altre. Ma è mancato perfino un linguaggio comune, una koinè che permettesse almeno di intendersi, un vocabolario in cui termini come ogm, bio-carburanti, liberalizzazione, avessero lo stesso significato. I francesi, che non mancano di un certo umorismo, hanno proposto di ripristinare un qualche "metodo scientifico", termine che non udivano dai tempi della Quarta internazionale, per mezzo di un comitato di saggi incaricati, se intendiamo bene, di trovare una verità "oggettiva". Intenzione apprezzabile, ma purtroppo destinata a confermare, temiamo, la tendenza degli scienziati a modulare la verità sui desideri dei governi cui essi devono l´incarico. Però forse un comitato siffatto riuscirebbe a restringere il ventaglio delle verità soggettive, allo stato francamente troppe. E magari a mettere fuori gioco quel manicheismo che continua a raccontarci la crisi alimentare nei termini dello scontro "capitalisti ricchi e avidi contro poveri e indifesi". Non che avidi e indifesi non siano parte dello spettacolo. Ma la crisi è ben più complicata di queste miniature morali, le parti di solito non sono così nitide, e la denuncia degli "egoismi" spesso è ipocrita. Provate a togliere le sovvenzioni di cui godono anche i contadini spagnoli, così da aiutare i contadini del Terzo mondo, e vedrete uno Zapatero meno solidale di quello che a Roma ha lanciato un appello all´altruismo col tono dolente che si addice a questo genere retorico.
In realtà la crisi alimentare - almeno su questo vi è una certa unanimità - è parte di una crisi globale che contiene varie crisi tra loro interconnesse, dalla crisi finanziaria americana fino all´irresistibile ascesa dei prezzi del petrolio (cui Lula attribuisce il 30% dell´aumento del costo di generi alimentari in Brasile). Se questa è la dimensione reale, allora può venire a capo della Crisi globale soltanto quella governance mondiale da più parti invocata durante la Conferenza di Roma. Purtroppo non si vede traccia all´orizzonte quel governo planetario che dovrebbe mettere in fuga la speculazione e orientare Stati e mercati verso condotte virtuose.
Come del resto è evidente, una governance di quella portata non può nascere dal consenso, ma soltanto da una chiara gerarchia internazionale, da un ordine definito nel quale una superpotenza, o un consesso di potenze, sia in grado di imporsi ai recalcitranti. Stati Uniti ed Europa non sembrano in grado di svolgere quel ruolo, né, allo stato, di trovare la coesione necessaria per attrarre altre nazioni intorno ad progetto forte. E in attesa che il mondo multipolare trovi il suo equilibrio, pare difficile trovare compromessi tra interessi contrastanti e ugualmente legittimi.
Così nessuno può dare torto alle economie emergenti come il Brasile quando deridono il falso liberismo dell´Unione europea e ne smascherano il protezionismo agricolo, affidato a dazi e a laute sovvenzioni ai coltivatori. Ma nessuno può condannare gli europei se difendono la propria agricoltura, una riserva strategica fondamentale nel caso di gravi turbolenze planetarie, e comunque la condizione perché sopravvivano un paesaggio e una cultura. Non ci sono buoni e cattivi in questa storia. É vero che le terapie degli istituti del credito internazionale hanno devastato agricolture, per esempio Haiti, privando la popolazione della possibilità di sussistenza; ma non sempre è andata così. É vero che le multinazionali si sono impossessate, con gli ogm, di produzioni agricole tramandate, selezionate e difese dai coltivatori per millenni (come ci ricorda Giacomo Santoleri). Ma in Argentina, in Cina, ovunque i contadini siano riusciti a ibridare, per esempio, la soia transgenica, teoricamente sterile, essi oggi dispongono di una coltivazione che richiede meno fatica e meno pesticidi della soia tradizionale. Questioni complicate. Il problema è che gli affamati non attenderanno le soluzioni né si immoleranno alle leggi del reverendo Malthus senza tentare di sovvertire l´ordine che li spinge su quell´altare.

Repubblica 6.6.08
La prima manifestazione nazionale domenica a Roma, adesioni del centrosinistra e del mondo intellettuale
Rom e Sinti in corteo: "C´è un clima da pogrom"
di Alberto Custodero


ROMA - Rom e Sinti in piazza per protestare contro il razzismo degli italiani di cui si sentono vittime. La manifestazione, la prima del genere in Italia, si svolgerà domenica pomeriggio a Roma, partenza dal Colosseo, arrivo al Villaggio Globale a Testaccio. Ed è stata organizzata da Santino Spinelli, musicista - in arte Alexian, fondatore dell´associazione thèm romanò - l´unico rom al mondo ad avere una docenza universitaria e due lauree. Fra chi ha aderito all´iniziativa di forte protesta (per dirla con il rom Spinelli), «contro un clima da pogrom nazista», centinaia di intellettuali, dallo storico Angelo del Boca allo scrittore Marco Revelli. Pochissimi politici, alcuni del centrosinistra (radicali, comunisti italiani, Verdi), nessuno del Pdl. Hanno aderito esponenti della Comunità ebraica (con la presenza dell´ex deportato ad Auschwitz Piero Terracina), don Federico Schiavon, direttore della Pastorale rom e sinti della Cei, Elena Montani, della rappresentanza italiana della Commissione Europea, e l´ex europarlamentare socialista spagnolo Juan de Dios Ramirez-Hredia. Il professor Alberto Asor Rosa spiega così la sua adesione: «La campagna sulla delinquenza rom ha superato i livelli di guardia, nel senso che, da fatto occasionale ed episodico, s´è trasformata in una sorta di persecuzione organizzata. Cosa che mi pare che questa popolazione non meriti». Dopo le molotov alla baraccopoli di Ponticelli, nel Napoletano, e le proteste della Lega contro la costruzione di un campo nomadi a Mestre, per Meo Nedzad Hamidovic, dell´associazione Bosnia Herzegovina, «è giunto il giorno dell´orgoglio rom, per dire basta all´odio». Ma a spiegare il perché di questa clamorosa manifestazione, è il suo ideatore, Spinelli.
«Vogliamo innanzitutto stemperare la tensione - ha spiegato - e calmare gli animi, ma per farlo, occorre trovare soluzioni concrete ai problemi e far conoscere agli italiani l´arte e la cultura rom e sinti». Spinelli ha dieci suggerimenti da proporre al presidente del consiglio e al ministro dell´Interno. Fra questi, «lo smantellamento dei campi nomadi che sono pattumiere sociali degradanti, centri di segregazione razziale e emblema della discriminazione». E «la presa d´atto del palese fallimento dell´assistenzialismo delle associazioni di volontariato che si sono arrogate il diritto di rappresentare il nostro popolo, sperperando centinaia di migliaia di euro per progetti di nessun valore per rom e sinti». Fra le iniziative politiche, Rita Bernardini, segretaria del Partito radicale, ha lanciato la proposta di un censimento per i nomadi «non per schedarli, ma per capire gli interventi da fare». E ha promosso l´«intergruppo» di deputati e senatori «per l´amicizia con il popolo rom» al quale hanno aderito molti esponenti dell´opposizione. E finora solo un deputato della maggioranza, Adriana Poli Bortone, di An.

Repubblica 6.6.08
La scuola non ama gli artisti
di Simonetta Fiori


L´Italia ha un primato: è l´unico paese al mondo dove la storia dell´arte è una materia scolastica. Ora la Francia ha deciso di imitarci, ma nonostante il boom delle mostre da noi nulla è cambiato rispetto alla legge Gentile
Gli orari in otto decenni sono rimasti immutati e la collocazione è mortificante
La conoscenza del nostro patrimonio dovrebbe essere un cardine dell´educazione
Per comprendere l´eccezionalità italiana, basterebbe un episodio recente: l´incursione a Trastevere, nel monumentale palazzo della Pubblica Istruzione, di Pierre Baqué e Vincent Maestracci, autorevoli rappresentanti dell´Education nationale francese per l´insegnamento delle arti. Qualche mese fa gli uomini di Sarkozy sono venuti da noi per chiedere lumi sulla storia dell´arte, materia che il presidente francese ha deciso di introdurre a partire dal prossimo anno nelle scuole di ogni ordine e grado. La Francia che chiede lumi all´Italia? Una delegazione parigina che si prende la briga di chiedere a noi come si fa?
La straordinarietà del voyage en Italie richiede una spiegazione, che consiste in un dato poco conosciuto: siamo l´unico paese al mondo che preveda nei propri programmi scolastici l´insegnamento della storia dell´arte. Un primato dettato dall´inestimabile patrimonio artistico di cui gli italiani sono titolari. Ma a spegnere ogni orgoglio patrio arriva il più clamoroso dei paradossi: proprio nel paese di Giotto e Caravaggio, in quell´unica scuola che includa la storia dell´arte tra le proprie materie, la disciplina fatica a uscire da una condizione ancillare alla quale sembra condannata fin dalle origini. Il grande studioso Adolfo Venturi citava sempre un professore di filosofia di Napoli che ai primi del Novecento, per persuadere il ministero dell´Istruzione ad affidargli l´insegnamento della storia dell´arte, adduceva tra gli argomenti il fatto "d´essere malato", "affetto di nevrastenia", "disposto quindi a dire senza affaticarmi solo della piacevole e lieve materia". Soltanto un debole di mente, in sostanza, poteva occuparsi di Michelangelo o Bernini.
"Cenerentola dell´insegnamento classico in Italia": così fu battezzata, ottantacinque fa, al suo ingresso ufficiale nelle secondarie con la riforma di Giovanni Gentile. Così viene definita ancora oggi dalle battagliere professoresse dell´Anisa, l´associazione che dal 1950 raccoglie i docenti di storia dell´arte. In poco meno d´un secolo, dopo numerose e radicali riforme, specie per i licei classici non è cambiato granché (tra autonomia e sperimentazione, la storia dell´arte figura ormai sotto nomi diversi in molti istituti secondari superiori). Nel 1930 le ore di insegnamento erano "una" in prima liceo, "una" in seconda e "due" in terza: l´orario fotocopia dell´anno scolastico ancora in corso. Senza esiti sono rimasti i buoni propositi di Francesco Rutelli, allora ministro dei Beni Culturali, che due anni fa su Repubblica s´impegnò a valorizzare la materia nei programmi scolastici. «Dopo Religione, è la disciplina meno presente nei classici», esemplifica Clara Rech, quarantenne preside del liceo romano Augusto e attuale presidente dell´Anisa. «Il tempo giudicato insufficiente per l´educazione fisica è ritenuto invece più che decoroso per la storia dell´arte».
Non solo gli orari in otto decenni sono rimasti invariati, ma la collocazione il più delle volte appare mortificante. «Capita spesso», interviene Teresa Calvano, guida dell´Anisa fino al settembre scorso, «che alla storia dell´arte venga destinata l´ultima ora, come fosse una materia leggera e glamour, una pennellata di colore al termine di una gravosa giornata dedicata alle lingue antiche o alla storia. D´altronde anche all´epoca di Giovanni Gentile era considerata una disciplina per signorine, introdotta nei licei classici e negli istituti femminili». Allora non è solo una questione di tempo, ma anche di considerazione più profonda della materia, elemento fondante ma non sufficientemente riconosciuto della storia culturale e civile d´un paese.
A questi ritardi dedica un informato volumetto Cesare De Seta, Perché insegnare la storia dell´arte (Donzelli, pagg. 126, euro 13,50), che delinea la parabola d´una disciplina sempre più svuotata di dignità e privata di qualsiasi rapporto con un patrimonio nazionale fuori dal comune. Declino che appare rovinoso in un paese che proprio nei beni culturali, "statue, dipinti, codici miniati, architetture, aree archeologiche, centri storici", e anche ambientali, "sistemi paesistici, coste, catene montuose, fiumi, laghi, aree naturalistiche protette", vanta alcune delle risorse più preziose e remunerative. La marginalità della storia dell´arte, nel processo di formazione delle generazioni più giovani, ha radici antiche che è difficile sradicare. Fin da principio la disciplina appare minata da una sorta di isolamento dagli altri campi del sapere, soprattutto dalla storia, dunque da una strumentazione che permetta di leggere la civiltà nella quale sono immersi Leonardo Bruni e Filippo Brunelleschi oppure Machiavelli e Michelangelo. Sul finire degli anni Trenta storici autorevoli come Roberto Longhi e Giulio Carlo Argan - lo ricorda De Seta - spinsero la disciplina verso la letteratura, tendenza che negli ultimi anni della dittatura fascista consentì alla storia dell´arte di salvarsi da rozze contaminazioni politiche e ideologiche. Ma sul dialogo tra discipline diverse, storia e letteratura ma anche filosofia e religione, ha finito per prevalere negli anni un approccio estetizzante, quello secondo cui l´arte è mistero per pochi, e la storia dell´arte linguaggio per iniziati. Fumi idealistico-formalisti mai del tutto dissolti.
Sulla disciplina continuano a gravare ingombranti stereotipi, denunciati qualche anno fa da un numero monografico del quadrimestrale diretto da Antonio Pinelli Ricerche di storia dell´arte (Carocci). «Se si cerca quale idea di educazione storico-artistica sia racchiusa in alcune formule correnti», sintetizza Alessandra Rizzi, «vengono in mente le parole di Meneghello: "Che cos´è un´educazione? Avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos´è una diseducazione"». Prevale un´idea elitaria della disciplina, ridotta ad abbellimento piuttosto che nutrimento necessario per la crescita culturale e morale del cittadino. Inascoltati sono rimasti gli insegnamenti dei grandi maestri, che molto hanno insistito sulla necessità di educare i ragazzi al rispetto del patrimonio pubblico. Gli effetti possono essere sconvolgenti. La stessa Rizzo cita un sondaggio promosso tra gli studenti del primo anno della facoltà di Lettere di Bologna con indirizzo Dams Arte. Dovendo porre in ordine cronologico alcuni grandi fenomeni stilistici, c´è chi colloca la civiltà greco-romana dopo Bisanzio e chi predilige la sequenza Bizantino-Gotico-Rococò-Romanico-Neoclassico-Rinascimentale. Ma non bisogna scoraggiarsi. «Se agli esami si sente dire che Simone Martini ha dipinto nel Settecento o che il Duomo di Milano è di stile bizantino, ci si può consolare pensando che Catilina è divenuto la moglie di Nerone, senza che per questo si possa sostenere l´inutilità dell´insegnamento del latino o della storia». Lo scriveva Lionello Venturi nel 1926, da allora l´alfabetizzazione artistica non ha fatto grandi passi avanti (la citazione è tratta dal saggio di Elena Franchi).
Sulla conoscenza dell´arte prevale il più delle volte la curiosità per l´evento, quel fenomeno per il quale si è disposti a intraprendere estenuanti file per Van Gogh o Klimt non avendo mai messo piede nella pinacoteca più vicina a casa. Lo documenta anche un sondaggio promosso di recente per il Fai da Astra Ricerche tra i giovani nella fascia d´età tra i 15 e i 24 anni (vedi box accanto). Il modello prevalente della fruizione artistica è il mix di "viaggio, enogastronomia, divertimento", mentre appare assai debole l´interesse per l´arte della propria città. E anche tra i giovani appassionati (cinque milioni settecentomila su nove milioni) quel che manca è una discreta o buona conoscenza della storia dell´arte: gli "abbastanza" o "molto informati" - sono loro a definirsi tali - non arrivano ai due milioni (ossia il 33 per cento degli appassionati, e il 21 per cento dell´intera fascia d´età). Tutti gli altri non esitano a confessare la propria irredimibile ignoranza. Viene in mente Domenico Starnone quando chiede all´allieva Seroni Catia che cos´è per lei il "bello ideale" e lei d´un fiato risponde: Claudio Baglioni.
Eppure i professori di storia dell´arte sono generalmente di qualità eccellente, sopravvissuti a scoraggianti selezioni. Ma hanno la sfortuna di insegnare una materia trascurata dagli equilibri ministeriali e anche dalle attenzioni sindacali. Alla catastrofe assiste indifferente la comunità dei critici d´arte, estranea a tutto quel che accade dentro le aule scolastiche. «Con rare eccezioni, prevale un atteggiamento di spocchia se non di disprezzo verso la scuola e i suoi professori», denuncia Teresa Rech. «Un costume ben rappresentato da Vittorio Sgarbi. Quando era sottosegretario dei Beni Culturali elogiò la Moratti per aver escluso la storia dell´arte dalle materie scolastiche. L´ha salvata dalla rovina della scuola, disse con entusiasmo. Quello della Moratti era un merito inconsapevole: secondo Sgarbi i valori dell´arte e della bellezza confliggono inesorabilmente con l´obbligo dello studio. L´unico possibile rapporto con l´arte è un rapporto amoroso, rigorosamente dopo l´orario delle lezioni». Sempre l´allora viceministro dei Beni Culturali definì "coglioni" i professori che portano i ragazzi nei musei. Però a Pierre Baqué e Vincent Maestracci, agli emissari mandati da Sarkozy per vedere come si fa, questo non è stato raccontato: troppo complicato da spiegare.

Repubblica 6.6.08
Il fascino eterno dell’antico"
Scoprire le Civiltà" è la nuova collana di "Repubblica" e "L´Espresso". Da oggi in edicola il volume "Roma"
di Lucio Villari


Per i romani la parola "civilitas" indicava semplicemente lo stato di cittadino, in qualche caso il governo politico
La forza degli istituti repubblicani e imperiali ha lasciato un segno indelebile nelle idee, nella letteratura e nell´arte

È strano che la parola "civiltà", il cui senso appare comprensibile e indiscutibile e che riceve luce e spiegazione dalla storia, cioè dallo svolgersi della vita degli esseri umani come individui e come popoli, sia in realtà un termine di cui, nel succedersi degli eventi storici, non sempre si ha consapevolezza. Talvolta gli eventi stessi si incaricano di smentirlo o di metterlo in discussione rovesciandolo nel suo contrario. La civiltà è un concetto pensato e usato soltanto dopo che il suo oggetto, cioè l´insieme delle attività spirituali e materiali delle società umane che hanno raggiunto una condizione elevata, si è dispiegato nel tempo e nello spazio senza che i protagonisti e i partecipi di quelle civiltà fossero in grado di definirle tali. I romani, ad esempio, non ne possedevano la parola; per loro civilitas era lo stato di cittadino (in qualche caso si intendeva anche il governo politico) ma non quel livello complessivo, alto, prezioso che poi è stato, ed è, indicato come "civiltà romana" nella quale normalmente includiamo le cose belle, raffinate lasciate a noi da arte, letteratura, poesia, architettura, strumenti di vita quotidiana, gusto, mode.
Una analoga riflessione si può fare per la civiltà egiziana, assiro-babilonese, mesopotamica, greca, cinese, e così via. Perfino quando i romani, Cicerone tra gli altri, usavano l´aggettivo o il sostantivo cultus si riferivano generalmente alle colture agricole più che al significato, per noi scontato, di coltivato, elegante, curato (nel vestire, nel parlare, nel fare ginnastica, eccetera) intuito da qualche poeta dell´età imperiale.
La difficoltà di una percezione precisa nel mondo antico dell´idea di civiltà si è prolungata per secoli fino alla netta distinzione che, nel linguaggio filosofico e scientifico di fine Ottocento, in pieno trionfo della rivoluzione industriale, si è dovuta fare, soprattutto in Germania, tra la "civilizzazione" (materiale) e la "cultura" (i prodotti dello spirito). Una distinzione sempre più valida (un esempio per tutti: la "civiltà dell´automobile" - e di qualsiasi altro consumo invadente - non è più compatibile con la cultura della città e con il vivere "civile") e con la quale ora si fanno i conti nella maggior parte del mondo sviluppato.
Questa premessa è necessaria per rendere il senso dell´iniziativa della Repubblica e dell´Espresso, per sottolinearne, appunto, l´idea ispiratrice: «scoprire le civiltà» del passato senza darle, come è consuetudine, per scontate (spaziando dal Mediterraneo e dal Vicino e Medio Oriente - Madri che hanno generato noi occidentali - all´Estremo Oriente, ai Vichinghi, all´Islam, all´Africa, alla Mesoamerica). Renderle vive, queste civiltà, descrivendole con bellissime immagini scultoree, pittoriche architettoniche, ambientali e riproponendone, per puntuali accenni, il vissuto: dunque, le civiltà mentre si formano. L´intenzione è di riproporre, in una efficace sintesi divulgativa, per i monumenti fisici la stessa attenzione che si presta da più di mille anni ai monumenti della parola salvati dai monaci e amanuensi medievali: i lasciti eterni della letteratura, della poesia, della filosofia, della drammaturgia, del pensiero del mondo antico. L´attenzione di un ammiratore della classicità come Petrarca che teneva religiosamente sul suo tavolo l´opera di Omero in greco pur senza conoscerne la lingua. L´attenzione che spinse Boccaccio a tradurre in latino l´Iliade e l´Odissea con l´aiuto di un greco originario della Calabria. Ammirare ma anche conoscere, dunque, le antiche civiltà.
Il progetto editoriale comprenderà diversi volumi. Il primo ad apparire è Roma. Un compendio di testi, di commenti, di immagini e di brani di autori latini che scorrono come epigrafi all´inizio di ogni capitolo (il volume è di 382 pagine). Ne è curatrice Ada Gabucci che ha scelto il metodo di svolgere la storia di Roma dalla fondazione della città nel 754 a. C. alla caduta politica e istituzionale dell´impero romano d´Occidente nel 476 d. C. senza occuparsi della regolarità cronologica e seguendo piuttosto una scansione tematica (Personaggi, Divinità, Città, Vita quotidiana, Mondo dei morti, Potere e vita pubblica) al cui interno c´è di tutto, dalle strade, alle acconciature, ai teatri e circhi, ai giocattoli, alle ville, agli antenati, ai trionfi militari, alle tecnologie, ai capi politici, agli imperatori, eccetera. La stessa scansione sarà adottata, con variazioni, per tutti gli altri volumi.
Al concludersi di Roma il lettore si porrà certamente la tormentata domanda: nel 476 è caduta anche la "civiltà romana" insieme all´ultimo, fragile imperatore e ai segni visibilmente svuotati di un potere politico durato quasi mezzo millennio?
L´interrogativo è, come si sa, antico, e proprio rispondendo negativamente ad esso è stato elaborato, a partire dal Medio Evo e soprattutto nel Rinascimento, il concetto che oggi possediamo di "civiltà". Cioè la potenza politica di Roma, la religione pagana, la forza giuridica e "civile" degli istituti repubblicani e imperiali hanno sempre suscitato il rispetto culturale anche se crollati quasi improvvisamente con la spallata dei barbari e per malattia interna (complicata dai germi del Cristianesimo): soprattutto perché hanno lasciato un segno indelebile nelle idee, nelle immagini letterarie e nei monumenti che le hanno rappresentate, combattute o esaltate. Dante lo dirà esplicitamente in un passo del Convito dedicato alle vestigia di Roma: «Le pietre che nelle mura sue stanno sono degne di reverenzia e ´l suolo dov´ella siede è degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato». Dante voleva così dire che la civiltà romana è degna anche di più (oltre) di quanto è stato testimoniato da coloro che l´hanno prodotta e da quanti l´hanno ereditata. È l´intuizione, con due secoli di anticipo, del Rinascimento o (avrebbe detto a metà Ottocento lo storico Jacob Burckhardt) del «risorgimento dell´antichità» e quindi della prima, compiuta elaborazione del concetto di civiltà occidentale.
Della dignità richiamata da Dante si farà interprete autorevolissimo Raffaello che in una celebre lettera a lui attribuita e inviata a Leone X protestava per le distruzioni dei resti storici romani invitando il papa a proteggere quel che rimaneva del mondo classico sia per confermarne la grandezza e bellezza, sia perché la loro «presenza» avrebbe acceso sentimenti sublimi.

il Riformista 6.6.08
Attento Veltroni, la terza via è finita
di Leonardo Morlino


P er anni abbiamo pensato che la «terza via» avrebbe portato lontano. Soprattutto il ripensamento neo-liberale e flessibile delle politiche economiche e l'alleggerimento dei vecchi, ormai ingombranti apparati di partito, avrebbero rigenerato la sinistra portandola verso un nuovo e radioso futuro. In questo senso, Blair e Clinton, soprattutto, sono stati leader che per diversi anni hanno costituito un punto di riferimento per tutto il resto della sinistra, specie europea. Che la caduta del muro di Berlino sancisse il fallimento economico di alternative politiche autoritarie era un'ottima notizia anche per la sinistra democratica che si trovava a godere della grande opportunità di avere uno spazio politico più ampio. Che le gioiose macchine da guerra partitiche si fossero liquefatte era, anch'esso, un altro aspetto positivo perché in questo modo le ingombranti burocrazie partitiche scomparivano e i leader avevano ben maggiore facilità di cambiare le proprie proposte politiche verso l'esterno e di riorganizzarsi internamente.
Le illusioni sono, però, durate solo qualche anno. La sconfitta recente della sinistra italiana è solo l'ultima di una serie che, andando a ritroso, è passata per la Francia, per la Germania, dove il glorioso partito socialdemocratico è un partner minoritario di una coalizione moderato-conservatrice, e per diversi altri paesi del nord Europa, anch'essi una volta patria incontrastata della sinistra. La stessa apparente eccezione spagnola va vista con occhi diversi quando si considera che il partito popolare ha in realtà guadagnato voti e seggi e alla fine Zapatero si è salvato a danno della sinistra estrema, in un spazio complessivo destra-sinistra non radicalizzato.
Allora, è finita? Non c'è più futuro, soprattutto in un quadro in cui la stessa destra si è modernizzata sul piano organizzativo e ha rivolto il proprio appello ai ceti economicamente più bassi assumendo temi e forme neo-populiste? Ottimisticamente, si potrebbe sostenere che basterà aspettare. Approfittando di leggi elettorali che spingono alla bipolarizzazione la sinistra tornerà inevitabilmente al governo come risultato dell'insoddisfazione e dei problemi non risolti in tema di immigrazione, impatto della globalizzazione e assenza di crescita economica. Ma se non fosse così? Se i termini stessi del confronto politico con l'altra parte dovessero essere ripensati? Se oltretutto l'elettore di sinistra fosse ormai irrimediabilmente perduto nell'astensione cronica? Una riflessione comparata sul passato recente delle nostre democrazie ci può aiutare? Un suggerimento - importante - che quella riflessione ci suggerisce è semplice: sono state tre le divisioni di fondo che nella storia europea si sono tradotte in altrettanti conflitti politici sostenuti da partiti di parti opposte: la religione, la classe sociale e il territorio. Se per ragioni diverse religione e classe non riescono più ad aggregare e mobilitare politicamente in quanto idee e comportamenti connessi sono scomparsi o largamente marginali e minoritari, rimane il territorio come unico ambito di confronto. Ma questo che cosa significa per una sinistra che ha smarrito la sua via, dal momento che territorio ha significato di solito conflitto tra centro e periferie?
La risposta sembrerebbe semplice: la sinistra si deve ripensare, senza cercare facili e apparentemente miracolistici slogan, focalizzando sforzi e programmi nel governo del territorio, anche se a livello locale si sta all'opposizione. Questo non può significare ricostituzione di comunità che spesso non esistono più, né si possono ricreare in quanto basate su cultura e tradizioni in larga misura scomparse. Significa, innanzi tutto, attenzione alla sicurezza personale dei cittadini e a tutti i servizi sociali, dalla sanità all'assistenza degli anziani, che si svolgono soprattutto nel territorio e a contatto con i cittadini. La presa d'atto della frammentazione dei territori dovrà essere superata da una leadership unificante - e questa è la lezione di Blair che rimane - che colleghi i diversi territori con una modernizzazione della comunicazione elettorale e, più in generale, politica, che sviluppi e metta meglio a punto quanto Veltroni ha dovuto fare in gran fretta e qualche errore nel poco tempo a disposizione prima delle elezioni.
Come fare più in concreto a costruire un tale futuro per la sinistra italiana è un altro discorso che passa anche dalla sistemazione dei rapporti con tutto l'arcipelago degli altri gruppi, da Rifondazione ai Verdi, che affiancano il Pd. Ma questa prospettiva di ripensamento della sinistra dà un significato diverso a parecchi temi: dal senso effettivo delle primarie, all'importanza centrale del federalismo fiscale, alla ripresa del controllo del territorio in diverse zone del sud. In breve, una agenda densa di contenuti e di problemi, non tutti risolvibili.

giovedì 5 giugno 2008

l’Unità 5.6.08
Destra e Xenofobia. La ferocia qualunquista
di Roberto Cotroneo


Ma che Paese è diventato il nostro? Che gente siamo diventati? Neanche dei qualunquisti, neanche degli xenofobi duri e cattivi da far paura agli altri (e meno male), ma miserelli da prato del vicino leggermente più verde, poveracci che vanno a fare il conto delle elemosine di miserevole gente che non ha il diritto di avere due gerani in un prefabbricato.
Perché noi italiani dobbiamo avere le case, ma non i Sinti di Mestre, quelli no. Ma che paese siamo diventati? Quello caritatevole e miserevole che ci siamo tanto tramandati? O dei tragici gaffeur che festeggiano davanti a tutta Europa e all’Onu al reato di immigrazione clandestina, e che hanno piacere nel vedere il pugno duro sulla sicurezza. Un paese ipocrita, propagandistico, miserrimo, dove non nessuno legge niente, neanche le statistiche, quelle in cui si dice che la criminalità è in aumento, ed è vero. Ma per colpa è colpa degli italianissimi mafiosi e camorristi che schiacciano un terzo del paese, mentre la microcriminalità, quella di tutti i giorni, ha subito persino una flessione. Dove il problema dei Rom sembra nato oggi. Dove la pochezza è di casa, in tutti. Ora il Giornale lancia una delle sue campagne da quattro soldi, con un titolo di prima pagina da vergognarsi: «Ecco le ville che regaliamo ai Rom». Un campo per i Sinti, voluto in modo sacrosanto da Massimo Cacciari, dal costo di 3 milioni di euro, che «prevede casette con veranda, giardino e garage, un laghetto e un campo di calcio». Il laghetto e il campo di calcio per i bimbi Sinti. Che eresia, che scandalo. No, li vogliamo brutti, sporchi e cattivi, senza palloni, senza acqua, senza niente. Senza i gerani sui balconi, senza i colori, li vogliamo senza cielo, e senza vestiti, li vogliamo cancellare, perché prima veniamo noi, nazione infetta di pressapochismo, e di povertà culturale, ubriacata di televisioni idiote da almeno un ventennio, di fiction patinate, tutte sui buoni sentimenti, ma che rimangono là sullo schermo, lontani da noi. Un paese bastonato da un immobilismo che non ha generato neanche la minima cultura della solidarietà o perlomeno del buon senso. Le villette regalate ai Sinti, dice il Giornale, e spiega che i cittadini veneziani e della Lega nord hanno protestato all’apertura del cantiere, senza umanità e senza vergogna. E poi dicono il nord est vero? Noi il nord est dobbiamo capirlo, perché gli imprenditori lavorano sodo, perché quello è il motore del paese, perché davanti al nord est ci sentiamo come di fronte a un rebus sofisticato e difficile da risolvere, perché sono gente pratica, che mira al sodo, agli sghei e alle infrastrutture, perché prenderebbe il volo il nord est se non ci fosse la zavorra di Roma, e della politica. E sarà anche vero, forse. Ma più che il volo spesso prende delle derive imbarazzanti. E se qualcuno andasse a cercare in quale discarica è finito il solidarismo cattolico di quella gente che votava Dc e Rumor, e ora vota Gentilini. E adesso eccoli a gridare perché i più poveri non possono avere un vaso di fiori al balconcino prefabbricato.
Non saranno stati molti, certo. Saranno stati i soliti quattro su cui si fanno i titoli nelle prime pagine dei giornali. Ma basta e avanza. Il problema è che possiamo mettercela tutta, decidere che vogliamo essere ottimisti, possiamo sperare in un clima politico di collaborazione, ma poi invece esci di casa e il clima è questo. Ed è fatto di gente che non capisce dove è e cosa vuole. Non è qualunquista, non è buona, non è disinteressata, non vuole vivere tranquilla su suoi privilegi. No, questo era il qualunquismo di un tempo. Ora abbiamo fatto un salto nel livello del qualunquismo. Ora questa gente che protesta, questo paese che vorrebbe in galera un immigrato colpevole solo di essere clandestino, questa gente che chiama «villette» dei prefabbricati, e a sua volta vive in ville vere, con campo da calcio vero, e piscine vere - ma con valori catastali delle loro proprietà falsi, ovviamente - questa gente dicevo non si fa i fatti propri, non pensa al proprio particolare, no peggio: rompe le scatole ai poveracci, a quelli che non hanno tetto, e probabilmente non hanno neanche la legge, perché va tutto assieme. Siamo un popolo di navigatori, artisti, scienzati e santi. Ma anche di egoisti ignoranti e diffidenti. E lo siamo diventati. Quindici giorni fa stavo seduto in un bar all’aperto. Era una domenica mattina di sole, e c’era un sacco di gente ai tavolini. Passa un povero mendicante, anziano. Chiede l’elemosina. Ho alzato lo sguardo dal giornale che stavo leggendo e ho osservato la scena. Saranno state cinquanta le persone sedute, disposte in diversi tavoli. Eccetto me, nessuno ha dato una sola moneta a quel pover uomo. Perché non si dà l’elemosina, perché questi se ne devono andare, e non si dà perché certo «con cinquanta centesimi non gli risolvo la vita». No, la vita no, ma un panino forse sì. Ma chi se ne importa dei Rom, degli immigrati, di un terzo mondo che bussa alle porte di tutti quelli che hanno qualcosa in più. È colpa loro, vero. Andassero a lavorare, vedi che poi i soldi arrivano, e l’appartamentino te lo compri senza Cacciari, che spende tre milioni di euro che spettano di diritti agli italiani. Come no, certo. Siamo caduti in basso. Sabato scorso ero a Salamanca, in Spagna, partecipavo a un convegno della Fondazione Gérman Sánchez Ruipérez sulla letteratura per l’infanzia. I miei amici spagnoli mi hanno sommerso di domande. Preoccupati, turbati, affettuosi persino. Persone informate, capaci di capire oltre i luoghi comuni. Mi guardavano come uno che è costretto a vivere in un paese senza speranza: «Ma che succede in Italia?». Io cercavo di spiegarglielo, con equilibrio, senza esagerare, con un tentativo di orgoglio, persino. Ma non si convincevano. A un certo punto mi hanno detto: «Non permetteremo che l’Italia diventi un paese razzista e xenofobo». Sapessero di cosa possiamo ancora essere capaci...
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 5.6.08
Arresto immediato e pene fino a 4 anni. Cosa dice la legge
di Nedo Canetti


IL GOVERNO ha depositato ieri al Senato il testo del disegno di legge «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica». Primo firmatario, Silvio Berlusconi; seguono, Roberto Maroni e Angelino Alfano, titolari, rispettivamente, degli Interni e della Giustizia.
Il testo è uguale a quello approvato dal Consiglio dei ministri di Napoli. Nessuna modifica, dopo le affermazioni del premier del giorno prima.
Questi i punti salienti:
Arresto clandestini. Si tratta dell’articolo più controverso, il 9. Modifica il decreto legislativo del 1998 sull’immigrazione. Nasce il delitto di ingresso illegale. Questo il testo: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente Testo Unico è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. È obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto e si procede con rito direttissimo. Il giudice, nel pronunciare la sentenza di condanna, ordina l’espulsione dello straniero».
Matrimoni. Si modifica la legge sulla cittadinanza. Vengono limitati i matrimoni tra italiani e stranieri. Si stabilisce che il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano, può acquistare cittadinanza italiana, quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, periodo ridotto della metà, in presenza di figli nati dal matrimonio.
Permanenza. Il periodo di permanenza negli ex Cpt (Centri di permanenza temporanea) diventati Cie (Centro di identificazione ed espulsione) con il recente decreto sulla stessa materia, viene portato a 18 mesi.
Aumento pena. Da sei mesi a due anni di reclusione è punito lo straniero che rimane in territorio nazionale in violazione dell’intimazione di lasciarlo connessa ad un decreto di espulsione già reiterato.
Alloggio. Ricordiamo che nel decreto, attualmente all’esame del Senato sulla sicurezza, è prevista la reclusione da sei mesi a tre anni e la confisca dell’immobile per chi affitta un immobile ad un cittadino straniero soggiornante illegalmente in Italia.
Aggravamento pene. Sempre nel decreto sulla sicurezza le pene per i reati previste dal codice sono aumentate, nel caso si tratti di un immigrato clandestino, di un terzo.
Il ddl Berlusconi-Maroni prevede anche misure diverse dalla materia immigrazione. Derivano, in parte, dal provvedimento Amato non approvato per lo scioglimento delle Camere. Eccone alcune:
Accattonaggio. Chi si avvale, per mendicare, di una persona minore di 14 anni, è punito con la reclusione sino a tre anni. Se è genitore perde la patria potestà.
Anziani, handicappati e minori. Si prevedono aggravamenti di pena per reati commessi nei confronti di chi ha minori difese (anziani, giovanissimi e minorati fisicamente).
Illegalità diffusa. Si tratta di una serie di articoli contro la deturpazione e danneggiamento di beni, il bullismo, l’occupazione abusiva del suolo, la guida in stato di ubriachezza.
Criminalità organizzata. Si tratta di un alcuni articoli che modificano, nel senso di maggiore severità, le disposizioni sui sequestri di beni ai mafiosi e sul riciclaggio di denaro sporco.

l’Unità 5.6.08
Bruxelles. Sit-in e proteste sul pacchetto sicurezza


Protesta ieri a Bruxelles di fronte alla Rappresentanza permanente italiana presso l’Unione europea contro la discriminazione della comunità rom in Italia. Tra i partecipanti, i rappresentanti delle associazioni rom in Europa e tre eurodeputati: l’olandese verde Els De Groen, l’ungherese liberale rom Viktória Mohacsi e Vittorio Agnoletto, Prc. I manifestanti hanno puntato il dito contro il ministro degli Esteri Frattini. «Non si possono espellere gruppi interi di persone, è illegale», ha denunciato Dani Klein, cantante del gruppo belga “Vaya con Dios”. E hanno consegnato all’ambasciatore un documento che chiede al governo Berlusconi di tutelare i rom, evitare qualsiasi provvedimento discriminatorio e punire severamente chi ha attaccato i campi rom. Un gruppo di eurodeputati di Prc, Pdci, Verdi e Sd hanno presentato interrogazioni alla Commissione Ue sul pacchetto sicurezza. Chiedono «di verificare con urgenza la compatibilità con la normativa europea» delle misure sulla sicurezza. Particolarmente «la “circostanza aggravante” per i reati commessi da clandestini crea un doppio binario giuridico fra italiani e non, in contrasto con l’art.21 della Carta dei diritti fondamentali e con il Trattato che istituisce la Comunità europea che vieta le discriminazioni fondate sulla nazionalità».

Corriere della Sera 5.6.08
Il retroscena. Gianni Letta ha preparato con Bertone l'agenda dell'incontro con il Papa. Sul tavolo anche la sicurezza e la scuola
Berlusconi «sceglie» il Vaticano e avverte i suoi alleati
di Francesco Verderami


ROMA — Nei trenta minuti di udienza che Benedetto XVI gli ha concesso per domani, il premier offrirà al Pontefice «la mia personale disponibilità e quella del governo che rappresento». Perché Berlusconi intende capitalizzare la pubblica apertura di credito ricevuta dal Papa, con il quale affronterà le più delicate questioni internazionali del momento. Ed è pronto ad accettare, nel successivo colloquio con il segretario di Stato Bertone, consigli e suggerimenti sui temi di politica interna che sono in agenda, e che spaziano dall'educazione ai diritti civili, dalla salute alla sicurezza. «Visti gli eccellenti rapporti, sarà certamente un incontro dall'esito positivo», preannuncia l'ex presidente del Senato Pera, che di Ratzinger è amico da tempo.
D'altronde il copione della visita Oltre Tevere è già scritto, ci ha pensato il «gentiluomo del Papa» Gianni Letta a redigerlo insieme a Bertone, con cui il sottosegretario alla presidenza del Consiglio si sente con regolarità quasi quotidiana. E non c'è dubbio che Berlusconi assicurerà al segretario di Stato massima attenzione alle richieste che gli verranno presentate. Il Cavaliere intende proporsi come interlocutore affidabile del Vaticano, e uno che di queste cose se ne intende — come Casini — sostiene che le gerarchie «vorranno mettere il premier alla prova»: «Perché la Chiesa ha passato gli ultimi due anni a difendersi sulle questioni eticamente sensibili. E ora che il centrosinistra non è più al governo — prosegue il leader dell'Udc — si attende la difesa di quei valori dalla nuova maggioranza, e anche risposte chiare su alcuni temi che stanno a cuore al Vaticano».
L'ex presidente della Camera li snocciola come se avesse letto l'agenda del colloquio di domani: «C'è anzitutto il problema del pluralismo educativo scolastico, dato che gli istituti cattolici sono ormai allo stremo. C'è il quoziente familiare. E c'è la richiesta di una svolta nel modo in cui sono gestiti oggi i consultori. Noi siamo pronti a sostenere l'esecutivo se si muoverà in tal senso, o ne denunceremo le manchevolezze». In verità è certo che a denunciarle sarebbe Ratzinger in persona, se si pensa al modo in cui stropicciò a gennaio gli amministratori del Lazio, dal sindaco Veltroni al governatore Marrazzo.
Secondo fonti accreditate, in agenda potrebbe esserci anche un altro tema, al quale avrebbe fatto indirettamente riferimento il Papa quando ha espresso la propria «gioia» per il nuovo clima politico in Italia: se è vero infatti che in Parlamento si preannuncia una stagione di riforme, è nelle cose la prospettiva di modificare la Costituzione. E in Vaticano sono molto sensibili alla materia, specie per quegli articoli della Carta che si richiamano alla famiglia, ai diritti della persona, e che vanno difesi per evitare in futuro pericolose brecce legislative.
Nei colloqui troverà certo posto il nodo immigrazione e il contrastato articolo del pacchetto sicurezza sul reato di clandestinità. Ma a parte il fatto che — come spiega Cossiga — «quella norma verrebbe comunque cassata dalla Corte Costituzionale», il primo a dubitarne — fin dall'inizio — è stato Berlusconi. Fu il Cavaliere che, nel gioco di sponda con il Colle, accolse il «suggerimento» di Napolitano e spostò la norma dal decreto al disegno di legge. Si mosse quindi in anticipo rispetto alle critiche giunte dal Vaticano. Semmai proprio quelle critiche lo hanno spinto a pubblicizzare le sue perplessità: «Non è quella la norma chiave del pacchetto sicurezza, e non possiamo farne un totem ideologico come accadde con l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori».
La mossa — che ha spiazzato il Carroccio — è il segno che Berlusconi non vuole farsi risucchiare «nei vecchi schemi del passato, quando era l'Udc a frenare l'alleanza». Nella sua sortita — racconta un ministro forzista — c'è anche «la forte irritazione » per le dichiarazioni di Calderoli sul trattato di Lisbona. Insomma, è certo che il Cavaliere sul tema sicurezza si troverà in sintonia con gli interlocutori Oltre Tevere.
Lui, che guida il governo con la minor presenza di cattolici della storia, vuol essere l'interlocutore del mondo cattolico. Proprio mentre nel Pd la questione è vissuta con apprensione. Ieri la componente rutelliana si è riunita all'hotel Bristol, e ha ascoltato la reprimenda di alcuni intellettuali di area. Oggi Franceschini e Fioroni ne discutono in un seminario a porte chiuse alla Pontificia Università Gregoriana. Tutti devono fare i conti con i dati di uno studio del professor Segatti di Milano: alle elezioni il 56% dei cattolici è «fuggito» dal Pd. E Berlusconi domani sarà dal Papa.

Corriere della Sera 5.6.08
Mostra fotografica Centinaia di immagini sul 5 giugno '45 della Capitale
Andreotti ricorda Roma liberata «A San Pietro una bandiera rossa»
di Marco Nese


Quel giorno ci fu un po' di malumore tra i giovanotti perché le ragazze, felici, correvano come matte incontro ai soldati alleati e li baciavano

ROMA — I romani passarono la giornata del 4 giugno 1944 tappati in casa, a spiare i carri armati tedeschi che lasciavano la città. All'alba del 5, 64 anni fa, la gente cominciò ad affacciarsi sulla strada. «All'inizio — ricorda Giulio Andreotti — solo poche persone. Ma appena fu chiaro che da Sud entravano gli americani, una marea umana invase le piazze e le strade. Sembravano tutti impazziti di gioia».
Andreotti aveva 25 anni. «Ero presidente degli Universitari cattolici. La Dc era clandestina. Ma il 5 giugno siamo usciti allo scoperto. È arrivato nelle edicole anche il giornale del partito Il Popolo, diretto da Guido Gonella. Era la fine di un incubo». Il giorno prima Andreotti aveva visto i tedeschi ritirarsi. «Mi fecero impressione. Sui volti avevano i segni della sconfitta». Ma Kesserling rispettò Roma, ordinò di lasciare intatti i ponti sul Tevere. «Anche prima — racconta Andreotti — fu comprensivo, concesse vari permessi di circolazione d'accordo col Vaticano. Io stesso ne avevo uno che mi consentiva di andare al Nord a prendere la posta per i prigionieri inglesi».
Il ripiegamento dei tedeschi fece di Roma una città aperta, come poi Rossellini intitolò il suo film. Alle 8 del mattino il generale americano Mark Clark con una colonna di jeep cercava il Campidoglio e finì a San Pietro, dove un prete gli indicò la strada. La foto di Clark che sale le scale del Campidoglio è una delle centinaia di immagini di quel memorabile 5 giugno che compongono la Mostra su Roma liberata, a cura di Giovanni Cipriani e Sara Iannone. La inaugura oggi il sindaco Gianni Alemanno. E Giulio Andreotti offrirà i suoi ricordi. «Quel giorno ci fu un po' di malumore dei giovanotti perché le ragazze, felici, correvano come matte incontro ai soldati alleati e li abbracciavano e baciavano ». «Ciò che i tedeschi non erano stati capaci di fare — si legge nella storia della Quinta Armata —, lo fecero le masse compatte della folla romana: esse fermarono i nostri carri».
Tuttavia, Andreotti ricorda che c'era ancora «un senso di paura, come se qualcuno potesse fare la spia e raccontare ai tedeschi cosa stava avvenendo». Un timore fugato dai soldati americani che rallegrarono le strade con le musiche di Glenn Miller. «Una folla immensa invase piazza San Pietro. La gente acclamava il Papa. E ricordo che sventolava perfino una bandiera rossa. La reggeva uno studente, ed è un fatto curioso perché quel giovane è poi diventato sacerdote, don Paolo Pecoraro».
In Campidoglio, il generale Clark, che non era un grande oratore, salutò la folla dicendo semplicemente: «Questo è un grande giorno per la Quinta Armata». Insediò come sindaco il nobile Andrea Doria Pamphili, il quale, racconta Andreotti, ai romani che rivedevano una luce di speranza raccomandò: «Volemose bene».

Corriere della Sera 5.6.08
Alcune ricerche smentiscono l'immagine tradizionale, diffusa dal clero, dei vincoli matrimoniali sacri e indissolubili
Unioni di fatto, la storia di sempre
Rapporti flessibili, convivenze, concubini e cavalieri serventi: il passato «irregolare» della famiglia
di Sergio Luzzatto


Lo sentiamo dire tanto spesso che rischiamo di crederci. Bombardati dai sermoni vaticani sul matrimonio come «unione indissolubile tra un uomo e una donna», storditi dalla propaganda bigotta dei Family Days, colpevolizzati dal discorso pubblico laico intorno ai devastanti effetti sociali della «crisi della coppia», rischiamo di credere davvero nella favola di un bel tempo andato in cui la famiglia era un'istituzione armoniosa, stabile, coesa: papà-mamma- bambini felicemente riuniti sotto lo stesso tetto, senza tentazioni peccaminose né grilli per la testa, come Dio comanda. Giunge allora opportuno il lavoro degli storici, che non si accontentano di racconti favolosi. In una Storia del matrimonio (Il Mulino) appena pubblicata, Daniela Lombardi ci insegna a riconoscere come false le leggende più correnti sulla differenza tra il nostro oggi e lo ieri, o l'altroieri. Falso che il celibato e il nubilato siano fenomeni caratteristici della modernità (nella Bologna del 1796, per esempio, quasi il 40 per cento degli adulti non era sposato). Falso che la sessualità fosse circoscritta entro i confini del matrimonio (in certe grandi città, il numero di nascite illegittime sfiorava il 50 per cento). E falso, in generale, il cliché della famigliola «tradizionale», non foss'altro perché la precarietà delle esistenze (epidemie, guerre, migrazioni) rendeva la vita di coppia costituzionalmente instabile, a rischio.
Con buona pace dei presuli di ogni tempo e dei teodem d'oggidì, gli studiosi insegnano sia la volatilità delle unioni coniugali del passato, sia la varietà dei modi storicamente praticati per metter su famiglia: insegnano la flessibilità — quasi l'elasticità — che per secoli ha contraddistinto la formazione delle coppie e le relazioni tra i sessi, in Italia come altrove in Europa. Coppie di fatto? Non c'è da attendere il Novecento, chissà quale Sessantotto, per incontrare uomini e donne che sceglievano di amarsi e di riprodursi fuori da ogni vincolo matrimoniale, senza «regolarizzare» la propria situazione davanti a un notaio né davanti a un prete. Le coppie di fatto rappresentavano una realtà diffusa già nell'Italia del Cinque e Seicento, come lo storico Giovanni Romeo dimostra bene nel libro Amori proibiti (Laterza).
Fino a quando la Chiesa della Controriforma non decise di rimediare drasticamente al problema, maestri del concubinato erano i sacerdoti. Nel primo Cinquecento, forse metà dei preti viveva more uxorio con la rispettiva perpetua, senza d'altronde che i parrocchiani si scandalizzassero più di tanto. E ancora dopo il Concilio di Trento, vinta la terribile guerra contro i «lutherani d'Italia», le autorità centrali e periferiche della Chiesa si concentrarono nella lotta contro la magia, la bestemmia, la bigamia, piuttosto che contro le coppie di fatto. Soltanto a partire dal Seicento la battaglia contro i concubini divenne prioritaria, per gerarchie vaticane sempre più ossessionate dall'idea di dover sorvegliare la sessualità delle donne.
Specialista di storia religiosa del Mezzogiorno, Romeo si concentra sulla più popolata, la più variopinta e (già allora) la più ingovernabile delle città italiane: Napoli. Un proverbiale porto di mare, una capitale abituata a fare i conti con genti diverse e usanze multiformi, baroni della terra e cortigiani di Spagna, chierici e artisti, puttane e vagabondi, marinai e soldati, musulmani ed ebrei. Una polveriera della carne e dello spirito, dove zelanti arcivescovi venuti da Roma cercarono di imporre le nuove regole della Controriforma: oltre all'obbligo di confessarsi regolarmente e di comunicarsi a Pasqua, il divieto di vivere da concubini.
Fossero le prostitute dei Quartieri spagnoli che coabitavano con il loro sfruttatore, o fossero le popolane troppo indigenti per presentarsi con una dote sul mercato dei matrimoni combinati, ma capaci lo stesso di rimediare un'anima gemella, migliaia di donne del Seicento vennero sottoposte a un articolato sistema di misure sanzionatorie (convocazioni in parrocchia, blitz nelle case, cartelli infamanti, minacce di scomunica) affinché ponessero fine allo scandalo del loro accoppiamento di fatto. Salvo trovare, il più delle volte, un modo per resistere. Urlando a squarciagola come Popa Mazza, la cortigiana calabrese che nel 1639 spiegò al vicinato che la scomunica della Chiesa lei la «teneva in culo». Oppure facendo finta di nulla, aspettando che la tempesta passasse...
Durante l'antico regime, le convenzioni sociali restringevano enormemente la libertà di scelta matrimoniale per uomini e donne. E tanto più nell'alta società, dove la posta in gioco, oltre a un titolo nobiliare, era un patrimonio che si voleva trasmettere integro ai discendenti. Da qui — all'opposto della piramide sociale rispetto alle coppie «'nnammecate » della Napoli plebea — un'altra forma di antidoto al regolatissimo mercato del matrimonio: la curiosa istituzione che è stata, nel tardo Seicento e soprattutto nel Settecento, il sistema del «cavalier servente». Cioè il matrimonio a tre fra una donna aristocratica, un marito di analoga condizione, e l'accompagnatore ufficiale della donna non sua, cui Roberto Bizzocchi ha dedicato ora uno studio altrettanto colto che godibile, Cicisbei (Laterza).
L'importanza del cicisbeismo nella vita italiana del XVIII secolo è illustrata da tutta una segnaletica artistica e letteraria: le incisioni di Longhi come i quadri di Tiepolo, le commedie di Goldoni come i versi di Parini. Ma Bizzocchi non si è limitato a registrare l'onnipresenza dei cicisbei nell'immaginario figurativo, teatrale, poetico, del secolo dei Lumi. Frugando dentro una gran massa di lettere, diari, memorie, Bizzocchi ha saputo riconoscere in quei lontani «triangoli» (semplicemente mondani, o anche affettivi, o anche sessuali) un pezzo di storia sociale e politica dell'Italia moderna.
In effetti, il cicisbeismo fu ben più che una valvola di sfogo per donne frustrate da un matrimonio di convenienza, e per ruspanti cadetti che le strategie ereditarie destinavano al celibato. Fu un vero e proprio gioco di ruoli inteso alla conservazione del primato nobiliare: non a caso si diffuse particolarmente nelle cosiddette Repubbliche aristocratiche, Venezia, Genova, Lucca. Per un «giovin signore», «servire» una dama senza sposarla, di notte come di giorno, era un buon modo per stare alla larga dai due ambienti che più rischiavano di irretirlo, il mondo delle carte da gioco e il mondo delle donne da strapazzo.
Ma il cicisbeismo ha rivestito, da ultimo, anche una valenza illuministica: è stato un esercizio di libertà personale — maschile e femminile — contro il dispotismo coniugale e familiare. Così capitò di viverlo a personaggi di prima grandezza del nostro Settecento, come Pietro Verri. Che lungamente servì da cicisbeo di Maddalena Isimbardi, la sorella di Cesare Beccaria. Al marito di lei, geloso peggio d'«un eunuco del Serraglio», Verri non riservava che disprezzo; mentre ammirava il temperamento focoso della sua Maddalena, «buona, amabile e selvaggia».
François Clouet (1510-1572), «Una scena galante». In basso: Giandomenico Tiepolo (1727-1804), particolare da «Minuetto» (c. 1791)

Tre libri appena pubblicati trattano delle relazioni familiari e sessuali nel passato: il saggio di Daniela Lombardi «Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi» (pp.
296, e 18,50) è edito dal Mulino, mentre da Laterza sono usciti i libri di Giovanni Romeo «Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione» (pp. 256, e 18) e di Roberto Bizzocchi «Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia» (pp. 360, e 20)

Corriere della Sera 5.6.08
Le ricerche del giurista Sami Aldeeb
Islam, fare diritto oltre il Corano
di Marco Ventura


La legge divina è un dato immutabile e l'uomo può soltanto sottomettersi

Il diritto islamico è una tartaruga in letargo: sembra morto, invece sta solo dormendo. Un colpo di sole può svegliarlo e allora sono guai. Sami Aldeeb iniziava così il suo corso nella Strasburgo anni Ottanta; dapprima ostili, noi studenti dovevamo arrenderci alle prove su cui s'infrangeva il nostro mito d'un Islam sorridente. Da poco Mahmud Taha era stato impiccato in Sudan per aver sostenuto una interpretazione più libera del Corano: finito l'estenuante processo, confermata dal presidente Nimeiry l'applicazione della Shari'ah all'apostata, un cordone militare aveva protetto il sito della prigione di Khartoum dove l'esecuzione pubblica aveva avuto luogo il mattino del 18 gennaio 1985; un elicottero aveva poi portato via il corpo verso una destinazione sconosciuta. Già da tempo il diritto islamico si stava svegliando; il palestinese Aldeeb ne raccontava le tante facce e lo stesso cuore: la pluralità delle scuole, l'importanza dell'interpretazione, la diversificazione nello spazio e nel tempo, ma anche la logica intrinseca, le costanti, il patrimonio.
Rigoroso con le fonti, inesorabile con i fatti, Aldeeb si impose come una delle poche luci nella confusione generale. Se ne accorse il governo elvetico che gli riconobbe la nazionalità svizzera e lo volle all'Istituto di diritto comparato di Losanna: lì Aldeeb ha potuto sviluppare la propria ricerca, ma anche dedicarsi ad un'intensa attività di esperto federale. Nel 2001, grazie alla sua consulenza, il governo ha difeso con successo davanti alla Corte di Strasburgo il licenziamento di un'insegnante ginevrina che rifiutava di togliersi il velo islamico in classe. Negli ultimi anni, decine di migliaia di svizzeri hanno contratto matrimoni con musulmani tutelandosi con le istruzioni di Aldeeb raccomandate dalle autorità elvetiche.
Di tanta ricerca e di molta esperienza dell'Islam reale è frutto il suo manuale ora disponibile in italiano (Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Il diritto islamico. Fondamenti, fonti, istituzioni, a cura di Marta Arena, Roma, Carocci, pp. 617, € 37,20).
Il diritto islamico è diritto divino, già dato nelle fonti sacre una volta per sempre: l'uomo non ha altra libertà che sottomettersi ad esso e praticarlo. Per capire bisogna tornare alla penisola arabica dove tutto ebbe inizio. L'uomo si è perso nel deserto, non sa trovare la strada: Dio lo salva indicandogli la Shari'ah, «il cammino che conduce all'abbeveratoio, al corso d'acqua che non si prosciuga». Siamo molto lontani dal diritto d'origine greco-romana e cristiana dell'Occidente secolarizzato. Impossibile una sovranità popo-lare, solo Dio è sovrano; impossibile una cittadinanza d'eguali indipendentemente dal credo di ognuno, prevale la fedeltà alla Ummah, la comunità dei credenti; impossibile la certezza del diritto, l'uomo può tendere alla volontà del Dio legislatore, mai raggiungerla del tutto; impossibile la differenza tra diritto ed etica, il diritto islamico è etico per definizione; arduo anche immaginare diritti individuali, dominano il gruppo e la Salvezza. Risvegliato dal letargo, il diritto islamico porta disuguaglianza tra uomo e donna, tra fedele e infedele; o peggio, cinge cinture esplosive, stringe nodi scorsoi.
Ostaggio di fonti e tradizione, il diritto islamico di Aldeeb è testo sacro intoccabile da Tangeri a Giakarta, da Damasco a Birmingham, ma è anche organismo vivente: incrocio tra madrase medievali e cultura british degli avvocati di Lahore; riforma liberale del matrimonio a Rabat e corti islamiche misogine in Ontario; mufti del Cairo contro imam di Marsiglia.
Ora che il raggio di sole ha svegliato la tartaruga, Aldeeb sa cosa fare. Denuncia la tirannide di fonti sacre nemiche di uomini e donne che vogliono scegliere; lo fa anche se «qualsiasi critica del diritto musulmano, considerato come il diritto perfetto, rischia di mettere in pericolo il suo autore». Lontano dai riflettori, Aldeeb ha il coraggio di pubblicare una propria edizione critica del Corano (arabo e francese, Les Editions de l'Aire); versetti in ordine cronologico, varianti, abrogazioni. È la prima volta in arabo: ufficialmente, la somma bestemmia; per molti, l'unica speranza di uscire dal letargo della libertà.

Repubblica 5.6.08
"La Germania risarcisca gli schiavi di Hitler"
La Cassazione sugli italiani rastrellati dai nazisti dopo l´8 settembre ‘43
di Elsa Vinci


Per il risarcimento potranno essere pignorati beni immobili e conti correnti tedeschi nel nostro paese

ROMA - «Vanno risarciti gli schiavi di Hitler». Ufficiali e soldati semplici, partigiani, ragazzini e padri di famiglia. La Cassazione a Sezioni Unite rende giustizia agli italiani rastrellati dai nazisti dopo l´8 settembre 1943: sono pienamente legittime le cause intentate dagli ex deportati nei confronti della Repubblica Federale tedesca per ottenere il risarcimento delle sofferenze patite nei campi di concentramento o nell´industria bellica del Reich. Un atto di giustizia che rischia di aprire un nuovo contenzioso tra Roma e Berlino.
«Quelle deportazioni sono un crimine contro l´umanità». Con una decina di sentenze definitive la Suprema Corte ha respinto i ricorsi della Germania, rappresentata dall´ambasciatore in Italia. La Repubblica Federale rivendicava in Cassazione il diritto alla «immunità» da ogni forma di risarcimento sugli atti compiuti dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. Ma gli ermellini hanno raccolto l´attesa degli "schiavi di Hitler". Sono una cinquantina di ex deportati, oggi tutti ultra ottantenni, tostissimi e «arcistufi» di aspettare. Il gruppo storico arriva dalla Val di Susa, difeso dall´avvocato Luca Procacci che ha intentato la causa pilota e che ora annuncia centomila ricorsi. Ci sono toscani, siciliani, pugliesi, veneti. Quando li hanno rastrellati avevano chi quindici, chi diciassette anni.
La Corte già nel 2004 aveva bocciato i ricorsi tedeschi. Berlino non si è arresa e ha continuato a contestare l´orientamento espresso dagli ermellini. Ma le Sezioni Unite - con diverse sentenze tra cui la 14201 - hanno ribadito che non si possono escludere dai risarcimenti «crimini che segnano anche il punto di rottura dell´esercizio tollerabile della sovranità». «La Repubblica Federale - avvertono i supremi giudici - non ha il diritto di essere riconosciuta immune dalla giurisdizione civile del giudice italiano, che va pertanto dichiarata». Tanto più - sottolineano i magistrati - che l´inizio delle deportazioni avvenne in Italia dopo l´8 settembre 1943. Non c´è dubbio, conclude la Cassazione, che «la comunità internazionale considera la deportazione e l´assoggettamento dei deportati al lavoro forzato come crimine contro l´umanità».
Adesso le vittime possono ottenere anche il pignortamento dei beni tedeschi in Italia. Per esempio la Germania rischia di dover pagare con i beni immobiliari e i conti correnti che possiede lungo la Penisola - esclusi ambasciate e consolati - il risarcimento di 60 milioni di euro che deve ai familiari della strage nazista di Distomo (Grecia) dove, il 10 giugno 1944, furono uccise per rappresaglia contro i partigiani 218 persone, tutte donne e bambini. La Corte ha infatti convalidato l´iscrizione di una ipoteca parziale sulla bellissima Villa Vigoni, che si affaccia sul lago di Como a Loveno di Menaggio, dove ha sede il centro italo-tedesco, di proprietà della Germania. La misura cautelare convalidata dalla Suprema Corte - sentenza 14199 - fa seguito alla condanna della Germania al pagamento delle spese legali (tremila euro) del processo che si è svolto in Grecia nel 2000 e che non ha mai dato luogo ad alcun risarcimento.
Il portavoce del ministero degli Esteri tedesco ha dichiarato che le sentenze della Cassazione sono già pervenute al governo. Nessuna resa. «Decideremo quali passi avviare».

Repubblica 5.6.08
Gorbaciov: "Via Lenin dalla Piazza Rossa"
L’appello dell´ex presidente: "Un museo delle vittime del terrore nel carcere di Stalin"
"Gesto simbolico contro la carenza di memoria" Ma i comunisti insorgono
di Leonardo Coen


MOSCA - L´ex presidente dell´Urss Mikhail Gorbaciov presenta nella modernissima sala conferenze dell´agenzia Interfax un progetto per trasformare il sinistro carcere moscovita di Butyrka in un Memoriale delle vittime del terrore staliniano: in quella prigione finì, tra gli altri, pure Alexsandr Solgentsyn. La proposta-appello è avanzata da un folto drappello di difensori dei diritti umani, di intellettuali ed artisti come il poeta Evgenij Evtushenko, il regista Alexei Guerman e il premio Nobel per la fisica Vitali Ginzburg. Ma Gorbaciov non si limita a perorare con tutta la sua autorevolezza questa importante iniziativa contro la carenza di memoria storica e la mistificazione del passato attualmente in voga, specialmente in tv. Pretende qualcosa di più. Un gesto altamente simbolico e provocatorio: rimuovere la mummia di Lenin dal mausoleo della Piazza Rossa per inumarla, «il mio punto di vista è che ora non si debba fare i becchini ma arriverà necessariamente un tempo in cui non ci dovrà più essere il cimitero vicino alle mura del Cremlino come non deve esserci il corpo di Lenin. Lui deve essere interrato, lo voleva la sua famiglia».
L´idea di seppellire Lenin non è nuova, ma negli ultimi tempi è sempre più ricorrente. Lo vuole la Chiesa ortodossa che non ha mai apprezzato il rito «pagano» del pellegrinaggio al mausoleo nella stessa piazza della celebre chiesa di san Basilio.
Il primo a sollevare la questione fu Boris Eltsin, ma evitò di andar oltre perché i comunisti erano ancora molto forti e la loro indignazione avrebbe potuto scatenare reazioni incontrollabili. L´autunno scorso fu la volta del Cremlino a lasciar trapelare l´ipotesi di un referendum sulla rimozione della mummia di Lenin, sollevando un putiferio tra i comunisti. Era la vigilia del novantesimo anniversario della Rivoluzione d´Ottobre e a Mosca, in quei giorni, si trovava Oliviero Diliberto, leader dei comunisti italiani, il quale prese la palla al balzo e dichiarò - scherzosamente? - che se proprio volevano cacciar Lenin via dalla Piazza Rossa, allora avrebbe fatto di tutto per portare la mummia a Roma. Apriti cielo!
Appunto. Guai a toccare Lenin. Andrei Vorobiev, ex ministro della Sanità, presente alla conferenza stampa in qualità di co-firmatario dell´appello per il Memoriale Butyrka, si è messo a discutere in modo concitato con Gorbaciov: «A che serve farlo? Perché portarlo via? E´ la nostra storia. Lì sono seppellite le persone che in tempi diversi sono state a capo del nostro paese».
Ivan Melnikov, vicepresidente del partito comunista russo e vicepresidente della Duma, ha dichiarato che i comunisti non lo permetteranno mai: «Non ci stupiamo di sentire cose del genere da parte di Mikhail Sergeevich perché lui è un grande specialista in ciò che riguarda il portar via: ha già portato via la grande Unione Sovietica dalla mappa del mondo ed ora si è ricordato di non averlo fatto in tempo col grande Lenin». Tuttavia, aggiunge Melnikov, la mossa di Gorbaciov metterà in imbarazzo le autorità e frenerà i loro tentativi, «altrimenti sarebbe costretti a fare ciò che Gorbaciov vuole». Meno ironici i dirigenti dell´organizzazione Comunisti di Pietroburgo e della regione di Leningrado che vogliono rivolgersi al comitato dei Nobel perché gli revochi il premio per la Pace: «Il suo appello di fatto è un invito alla guerra civile perché Lenin piace a più di metà dei russi».
Polemiche che non scalfiscono il pensiero-guida dell´ex presidente: combattere la «frenesia, consolidare la libertà e la democrazia», ricordare il regime dispotico e sanguinario che soltanto nel biennio 1937-38 provocò 725mila vittime. In tv, ha denunciato Gorbaciov, si «edulcora» la figura di Stalin, «come è successo nel primo canale, e in certi manuali la vera storia cede il passo ai miti. Su questi terreni vaghi della memoria riappare la sinistra figura di Stalin come amministratore efficiente», e non come un despota, «bisogna completare il processo di riabilitazione, come nel caso dei 22mila soldati polacchi trucidati nel 1940 dalla polizia segreta staliniana a Katyn». La giustizia russa archiviò il caso: vittime di crimini comuni.

il Riformista 5.6.08
Tremonti e i petrolieri. Il fisco di Robin Hood


L'intelligenza tattica di Giulio Tremonti non è in discussione. Scavalcando a sinistra il Pd, il ministro fa tremare il terreno sotto i piedi a chi cominciava a vedere la fine di una transizione cominciata con la caduta del muro. A che è servito, impratichirsi col vocabolario delle liberalizzazioni, se poi la destra vince e tassa? In realtà, le sue mosse vanno valutate ciascuna per conto suo, e non sarebbe giusto incasellarle per categorie facili ma sbagliate. Il Tremonti di governo mantiene una promessa del Tremonti saggista: l'eclettismo.
Con onestà intellettuale, Tremonti non ha presentato la "Robin Hood tax" sui petrolieri come una forma di calmiere sui prezzi alla pompa. Ha detto che «la gente che ha fame non aspetta», ovvero che intende «tassare un po' di più i petrolieri per dare un po' di più a chi ha bisogno. Pane, pasta, burro». Di per sé, in un paese come l'Italia una proposta di questo tipo non è affatto sorprendente, anzi parrebbe plausibile e giusta. Quando i più poveri devono tirare la cinghia, non è ragionevole che siano i più ricchi a sacrificare introiti che vanno ben oltre non solo le loro necessità, ma il «superfluo concepibile»? Una società deve aiutare i meno fortunati; il problema sono i mezzi con cui può scegliere di occuparsi di loro. Per molto tempo si è pensato che la via fosse una tassazione altissima per i redditi più elevati, salvo accorgersi che, oltre una certa soglia, i membri più imprenditoriali di una società si stancavano di «lavorare per gli altri», con conseguenze negative per tutti. A lungo, si è anche pensato che l'unico modo possibile per occuparsi dei più poveri fosse "attraverso lo Stato". Ma, scrive Tremonti in La paura e la speranza , «il modello sociale socialista trova la sua massima espressione nel "trasferimento" pubblico dall'alto verso il basso e con questo aliena la persona, spingendola verso l'astrazione dello Stato provvidenziale». La logica burocratica fa sì che i meccanismi d'aiuto dei più deboli si rivelino farraginosi e controproducenti. Perché allora, dovendo "dare pasta e burro", pensare che oggi debba farlo ancora lo Stato?
Inoltre, una prospettiva liberale imporrebbe di guardare non solo all'immediato. Siamo sicuri che tassare la "speculazione" dei petrolieri non causerà che qualche lacrima dei magnati del greggio? Come ha ricordato tempo fa il professor Angelo Petroni, «ogni qualvolta i neocorporativisti si vantano di come, intervenendo a modificare i risultati del mercato, si sia ottenuta una situazione "migliore", il liberista sa che ciò è stato ottenuto a prezzo di imporre ulteriori oneri ad altri, che si troveranno di conseguenza in una posizione peggiore».