domenica 8 giugno 2008

l'Unità 8.6.08
Tokyo Rose
di Furio Colombo


C’è chi non si rassegna. Come Emma Bonino, che dice chiaro e fuori dai denti e con un po’ di maleducazione quello che pensa dello storico momento politico che il Paese sta attraversando, tra benedizioni papali, atti di sottomissione dello Stato alla Chiesa da alto medioevo (anche per esasperata, simbolica teatralità). Una Repubblica laica e indipendente che va in Vaticano rappresentata da un Gentiluomo vaticano, il sottosegretario Gianni Letta (e pensare che Filippo Facci era giunto a scrivere su Il Giornale che Fiamma Nirenstein, vice presidente della commissione Esteri della Camera, Pdl, non può parlare a nome dell’Italia sulla questione di Israele perché è ebrea) e un bel pacchetto di atti crudeli, inventati, costosi e inutili, quasi tutti contro i rom, certo più legati di Bossi e Borghezio alle radici cristiane d’Europa.
Ma ecco perché Emma Bonino è stata così duramente redarguita e rimessa al suo posto dall’editorialista del Giornale Giancarlo Perna. Perché si era permessa, da persona politica di una certa esperienza, di anticipare e interpretare le ragioni della «gioia» del Papa. Si ricorderà che parlando ai vescovi italiani, il Pontefice aveva lodato la nuova armonia (traduzione: la mancanza di confronto democratico tra opposti punti di vista di governo e minoranza) nella vita pubblica italiana. Parlare di «gioia» per l’Italia dopo la caccia ai rom di Ponticelli e prima della caccia ai rom di Venezia, «è un po’ patetico» come dice, commentando le parole del Papa, la Bonino. È vero che l’ex ministro di Prodi («La persona con cui lavoro meglio» aveva detto il professore mentre lei portava a casa, di mese in mese, risultati sempre migliori, e ormai sfumati, nel commercio con l’estero) intendeva soprattutto anticipare il senso profetico di quelle parole. In pochi giorni, il capo della Chiesa e dello Stato Vaticano avrebbe ricevuto il baciamano di sottomissione completa della Repubblica italiana, e la garanzia dei dovuti versamenti per le scuole private cattoliche.
Ma la Bonino avrebbe dovuto sapere che in questa Italia del pensiero liberale (che copre tutta l’area di consenso dalla corporazione Malpensa alla corporazione tassisti) certe cose, se riguardano il Papa, non si possono dire. O meglio si possono dire solo lodi ed esaltazioni, meglio se esagerate, come fanno, scaltri, tutti i telegiornali. Annunciano, con il tono di voce dei “Giornali Luce” di un tempo, che «è durato un’ora e mezzo l’incontro di Berlusconi con il Santo Padre». L’ora e mezza, record di tutti gli incontri mai avvenuti fra un rappresentante politico e il rappresentante di Dio, si raggiunge sommando l’incontro Berlusconi-Papa più l’incontro Berlusconi-Cardinal Bertone, più l’offerta di diamanti e pietre preziose (imbarazzante, no?) in nome della sottomessa e pacificata tribù italiana al re della Chiesa. Più i complimenti al “giovane” Gentiluomo vaticano in veste di sottosegretario italiano, più il tempo che c’è voluto a Berlusconi per aggiustare la giacca del capo del protocollo di Palazzo Chigi, a quanto pare troppo abbottonato.
La disgraziata Bonino, invece, ha parlato di “questua”, e la parola le viene buttata addosso come olio bollente, con una evidente nostalgia di celebrare la gioia papale alla Giordano Bruno.
Non c’è bisogno di essere credenti, basta essere militanti del nuovo ordine, per dare alla peccatrice radicale ciò che le spetta, e che spetta ai suoi compagni radicali di malefatte. Quali malefatte? Darsi da fare per essere eletti, se non hai santi in paradiso, se non hai in terra una mano invisibile che vede, provvede e - al momento giusto - concede. In quei casi sfortunati devi cercare fondi e sostegni alla luce del sole, devi chiederli ai cittadini e agli alleati. Ma qui cade l’asino. La logica dell’accusatore del foglio liberale Il Giornale, organo del Popolo della libertà, è implacabile: come osa una mendicante rimproverare al Papa la nobile questua con cui la Chiesa chiede allo Stato di pagare le scuole cattoliche?
«Sarà l’effetto dei 60 anni che la biondina di Bra ha appena compiuto» osserva l’articolista con delicatezza. Il suo fa parte del gruppo di giornali disposti a qualunque vendetta e ritorsione (per non parlare delle aggressioni preventive) contro chiunque osi accennare, anche per sbaglio o per equivoco, ai tratti fisici dei campioni di destra.
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Vorremmo ricordare (insieme a molte volonterose istituzioni religiose) che oggi - mentre scriviamo dall’Italia di Bossi-Borghezio-Calderoli-Castelli-Maroni - si celebra nel mondo “La giornata del rifugiato”. Proprio oggi (scrivo il sabato 7 giugno) dieci di quei rifugiati sono stati trovati cadaveri in mezzo al Mediterraneo da un peschereccio italiano che - in violazione della futura legge Maroni - ha soccorso i sopravvissuti, tra cui donne e bambini. Li hanno salvati con l’espediente delle gabbie del tonno (si cala la gabbia in mare e si tenta di prendere i corpi) per poi consegnarli a quel tipo di casa-albergo detto Cpt. Le cose vanno in questo modo: o finisci in fondo al mare o vieni salvato, trattato da clandestino e rispedito alla fame e alla minaccia di morte da cui speravi di fuggire in nome del tuo diritto di essere umano.
Sul senso di questa giornata ci illumina il Capo di stato maggiore della Difesa generale Vincenzo Camporini: «Gli aerei senza pilota “Predator”, impiegati anche in Afghanistan, sarebbero sicuramente un modo molto economico per pattugliare i mari e impedire lo sbarco dei clandestini» ha detto il capo dell’esercito italiano durante l’esercitazione aereo-navale italo-maltese “Canale 2008”.
«Ben venga il Predator se è un mezzo per risolvere a fondo il problema» ha commentato il sottosegretario alla Difesa Giuseppe Cossiga (Corriere della Sera, 7 giugno). La parola «a fondo» non è mai stata più appropriata per celebrare la festa italiana del rifugiato.
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Resta la domanda, e anzi si ripropone con forza specialmente se, come sostiene l’organo del liberalismo italiano, ha torto la Bonino che, a causa dell’età, comincia a straparlare benché sia di un decennio e mezzo più giovane del giovane presidente del Consiglio. Che cosa ha il Papa di cui “gioire” nell’Italia più cattiva, punitiva, carceraria, ingegnosamente attiva in ogni aspetto e modo di perseguitare chiunque sia colto in condizioni di inferiorità e debolezza? Che cosa avrà da far festa il Papa in un’Italia che si sarà forse ingessata in certe sue funzioni politiche (come quella di dire no) ma si spezza sulla decenza, sulla tolleranza, sulla tradizione di civiltà, sul rispetto degli esseri umani. E scatena in piena guerra di camorra e in piena tempesta economica (il petrolio a 140 dollari al barile, un’impennata di dieci dollari in un solo giorno) una guerra dello Stato e della forza dello Stato contro tutti i deboli? Le vittime scelte e designate per i pogrom di Stato sono gli immigrati, da considerare tutti sospetti. Sono gli zingari, da definire tutti e pubblicamente “ladri di bambini”, persino se non è mai (mai) accaduto. Sono i clandestini, da associare alla peggiore delinquenza o alla sicura intenzione di delinquere (”vengono qui per commettere reati”), sono le prostitute, immediatamente definite “criminali”, evidentemente capaci di generare, malevolmente e da sole, l’alto patrocinio dei padri di famiglia italiani, compresa una massiccia parte di Popolo della libertà e di leghisti (per naturali, non confutabili ragioni statistiche) che affollano certe strade italiane.
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La fantasia dei persecutori (per capire suggerisco di ascoltare una o due frasi di Borghezio, poi tradotte in italiano dal ministro dell’Interno Maroni, che si finge normale ma è il braccio armato di sentimenti di rivincita e di vendetta che si stanno appena rivelando) però non si placa tanto presto. Geniale l’idea di sequestrare le case affittate ai clandestini, trovata intelligente e crudele per buttare preventivamente sulla strada, con bambini e stracci, gente che lavora e che finora ha pagato cifre oltraggiose per alloggi troppo disumani anche per un film. Ma adesso il passaparola febbrile fa scattare i comportamenti da Ku Klux Klan prima che sia iniziata la discussione di ciascuna delle vergognose leggi di cui stiamo parlando. I padroni di catapecchie le svuotano subito, prima che passi la polizia e senza distinguere. Lo Stato ci sta dicendo che sono tutti feccia. A Roma la polizia si presenta nelle portinerie, rispondendo a soffiate. A Milano si fanno rastrellamenti sui tram finora vietati dalla Costituzione. Qualunque cliente stradale - tra cui ottimi padri di famiglia - si sentirà in diritto di abusare in tutti i modi, psicologici e fisici, di una prostituta. «Che lo vada a dire alla polizia». Intanto i “blitz”, bella parola militare che fa irruzione nelle notti di gente stanca di povertà e di lavoro, si ripetono in tutti i campi nomadi, Forze dell’ordine e volontari, tanto non c’è nessuna norma da rispettare. Tutto sta avvenendo mentre il “pacchetto sicurezza” è stato molto annunciato, ma nulla di esso è stato finora discusso nel luogo chiamato Parlamento.
I vescovi hanno già fatto sapere che su alcune di queste ignobili norme persecutorie non sono d’accordo. Ma l’Italia dell’asse Gentilini-Maroni-Berlusconi farà finta di niente. Dopotutto i clandestini non sono embrioni, le prostitute, nonostante il Vangelo, non c’entrano con la sacralità della famiglia, gli immigrati si adattino a venire in Italia rispettando i “flussi” (che non esistono). Se non li rispettano, sono prede libere, come in certi allucinanti giochi di delirio sul futuro.
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Vorrei ricordare ai miei colleghi dell’opposizione l’esemplare storia di Tokyo Rose. Era una bella voce di donna, apparentemente americana, con lieve e gentile accento del Sud, che la propaganda giapponese ha usato con straordinario successo per fermare o rallentare l’avanzata - e persino la resistenza e la tenuta psicologica - dei soldati americani, inglesi, australiani, nascosti nelle paludi o impantanati nelle trincee in attesa di attaccare. La voce di Tokyo Rose, che ascoltavano da migliaia di altoparlanti per decine di chilometri, ricordava ai ragazzi yankee accampati in una giungla estranea, migliaia di miglia lontani da casa, come è dolce la vita, come è quieta e tranquilla se non insisti nel far la guerra ai giapponesi. Sosteneva che c’è tanto da condividere se si smette di combattere, sussurrava di donne, belle come era bella quella voce, che li aspettavano. I libri di storia americani ricordano Tokyo Rose come il più grande tentativo di guerra psicologica. Centinaia di soldati alleati hanno disertato per scomparire dall’altra parte della giungla. I giapponesi volevano soldati-ombra. Per fortuna solo pochi sono caduti nella trappola.
furiocolombo@unita.it

l'Unità 8.6.08
Fava: la socialdemocrazia è finita
«La sfida del terzo millennio è raccogliere il meglio della tradizione e creare una sinistra di nuovo conio»
di Simone Collini


«UNA SINISTRA di diverso conio», per Claudio Fava, deve saper anche raccogliere una provocazione intellettuale come quella recentemente apparsa sul sito web del Centro per la riforma dello Stato: «Forse il comunismo e la socialdemocrazia sono tradizioni
politiche concluse». Dice il coordinatore di Sinistra democratica: «Io mi sento di raccoglierla. La sfida del terzo millennio è quella di riorganizzare i segni di civiltà che queste tradizioni hanno dato al nostro Paese per costruire qualcosa di nuovo».
A fine mese tenete un congresso: perché se lei è stato appena eletto coordinatore e dentro Sd non ci sono diverse linee politiche?
«Utilizziamo questo appuntamento, che non a caso chiamiamo assemblea, per discutere e rilanciare il progetto del cantiere di sinistra. Oggi c’è bisogno di un nuovo soggetto che rappresenti una sinistra di diverso conio, di diversa intenzione, di diversi linguaggi. È chiaro che progetto come questo ha una sua efficacia se invece di essere calato dall’alto viene costruito con una profonda condivisione e partecipazione dal basso».
Che intende per diverso conio?
«Ci sono stati profondi cambiamenti, mentre il nostro sguardo si è impigrito. Abbiamo continuato ad utilizzare una liturgia, nelle forme di partecipazione, nelle categorie di interpretazione e nelle parole simboliche, che parlava a un Paese che non esisteva più. Oggi c’è bisogno di una sinistra che si ripensi nei propri punti di riferimento, nelle proprie forme organizzative, nella capacità di aprirsi, di essere altro da sé, di mettere dentro finalmente quella sinistra civile diffusa, ampia, che esiste e che ha fatto la storia di questo Paese nei momenti in cui ha deciso di farla. Penso al movimento antimafia in Sicilia, agli autoconvocati di Moretti, ai tre milioni dell’articolo 18, ai movimenti pacifisti cresciuti attorno alla base Dal Molin».
Con quali forze politiche pensate di portare avanti questa operazione?
«In autunno si produrranno due diverse opzioni, entrambe rispettabili ma sostanzialmente inconciliabili. Una di chi sceglie di tornare nella nostalgia identitaria e farà la costituente comunista o tenterà di costruire la federazione di sinistra. E una, che è l’opzione su cui noi lavoriamo, che prevede un cantiere che produrrà un nuovo soggetto politico, capace di superare il culto dell’identità e il mito dell’autosufficienza».
Così sembrano inconciliabili col processo il Pdci e i sostenitori nel Prc della mozione Ferrero: rimarrebbero una parte dei Verdi e i sostenitori della mozione Vendola...
«Una sinistra nuova non può passare attraverso la somma di ciò che esiste, dobbiamo aprire un percorso di inclusione. E il voto di aprile ci dice che servono sinergie naturali, non artificiali, non pensate a tavolino. Dopodiché, mi sembra ovvio che ci sia una parte dei compagni di Rifondazione, come anche dei Verdi e perfino del Pdci, che continui a battersi per questa sinistra di nuovo conio».
Che dovrebbe avere col Pd che tipo di rapporto?
«Di confronto politico. Voglio togliere dal campo l’alibi di chi dovesse dirci, un domani, non si è fatto un nuovo centrosinistra perché la sinistra si è rifiutata di misurarsi su questo tema».
Cosa farete quando darete vita a nuovo soggetto politico insieme a Verdi e Prc, che in Europa siedono in banchi diversi dal Pse?
«Noi stiamo nella famiglia del socialismo europeo e restiamo lì. E non è un caso che Martin Schulz partecipi alla nostra assemblea. Detto questo, con i compagni del Prc e dei Verdi abbiamo prodotto al Parlamento europeo notevoli risultati, nonostante appartenessimo a famiglie politiche diverse. Oggi si pone il problema di come rielaborare le nostre appartenenze e costruire un’anima unitaria di questa nuova sinistra».
Anima unitaria ma rimanendo ognuno nella propria famiglia di origine?
«Se il problema è una collocazione nei banchi dell’Europarlamento, sì. Ma credo che con grande coraggio e senso laico occorre anche affrontare il problema della funzione di queste famiglie di riferimento. Un documento pubblicato sul sito del Centro di riforma dello Stato, che certo non può essere accusato di avere una lettura moderata di ciò che accade, propone una provocazione intellettuale che io mi sento di raccogliere quando dice che forse il comunismo e la socialdemocrazia sono tradizioni politiche concluse. Resta la cifra di civiltà che ha permeato la nostra storia, resta la loro cultura politica. È questo che oggi va riorganizzato per costruire qualcosa di nuovo».

l'Unità 8.6.08
L’eredità dei Rosselli: libertà e democrazia
di Nicola Tranfaglia


Fondò il movimento
antifascista
a Parigi, nell’estate
del 1929, dopo essere
fuggito dal confino
fascista di Lipari

Per questo insiste
sulla rivoluzione
culturale in senso
democratico
che parta dal basso
e dalle comunità locali

IL 9 GIUGNO 1937 furono uccisi, a Bagnoles-sur l’Orne, i due fratelli Carlo e Nello. Ma il pensiero del leader di Giustizia e Libertà è ancora attuale e, forse, può ancora insegnare qualcosa alla sinistra democratica italiana...

Sono passati ormai settantuno anni dall’assassinio di Carlo e Nello Rosselli a Bagnoles-sur l’Orne il 9 giugno 1937.
Ma il pensiero e l’azione di Carlo Rosselli è, senza dubbio, attuale e tale da poter costituire una prospettiva concreta per la sinistra democratica italiana.
Il comunismo è un ideale battuto dal collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 e dagli sviluppi, tutt’altro che incoraggianti, del comunismo cinese e da altri minori esperimenti (tra i quali la Cuba di Castro o il Nord Vietnam).
Vorrei spiegare, nello spazio di un articolo, perché io penso che si tratti di una prospettiva praticabile.
Nel pensiero di Rosselli c’è la salda convinzione della necessità di adottare in politica un metodo liberale e libertario.
Che ha bisogno per attuarsi di una profonda rivoluzione culturale in senso democratico, da cui l’Italia degli anni trenta è assai lontana.
Ma l’obiettivo politico del movimento di Giustizia e Libertà che egli fonda a Parigi nell’estate del 1929, dopo esser fuggito dal confino fascista di Lipari, è quello del socialismo democratico e liberale.
Per un simile obbiettivo, che Rosselli sviluppa nel suo primo libro Socialismo liberale apparso a Parigi nel 1930 ma anche negli scritti successivi fino al giugno 1937 nei Quaderni di Giustizia e Libertà usciti negli anni successivi e poi nel settimanale GL con lo stesso nome pubblicato a Parigi, due aspetti appaiono prevalenti su tutti gli altri.
Il primo è l’analisi della dittatura fascista in Italia e in Europa, la forte consapevolezza di trovarsi di fronte a un regime reazionario di massa, effetto e non causa della crisi e del crollo dello Stato liberale.
Rosselli è convinto del carattere imperialistico del regime, della corsa alla guerra propria del fascismo.
La previsione si rivelerà fondata perché il nesso tra guerra e fascismo porterà Mussolini prima all’impresa coloniale di Etiopia, poi all’intervento avventato nella seconda guerra mondiale, al fianco della Germania di Hitler.
È questa una diagnosi precoce che il giovane leader italiano fa nei primi mesi del 1933, all’indomani della conquista del potere da parte del Fuhrer tedesco che troverà conferma esemplare alla fine degli anni trenta.
C’è, nella riflessione di Rosselli, una critica aperta alla maggior parte delle forze politiche antifasciste raccolte nella Concentrazione antifascista di Parigi, che lascia già nel 1934, come nel partito comunista d’Italia subordinato alla politica dell’Internazionale che fa capo a Stalin e al partito comunista sovietico ma per lui importante, in quanto rappresenta le classi lavoratrici in catene.
La sua visione del futuro è chiara.
Egli è convinto dell’urgenza di una liberazione autonoma del paese da parte di chi non è fascista per le sue idee o perché ha sperimentato il fallimento della dittatura nel suo programma sociale.
Ma non pensa in nessun modo a una dittatura di qualsiasi colore.
Ritiene, al contrario, che debba esserci nel nostro paese una vera e propria rivoluzione politica e culturale in senso democratico.
Duro è il suo giudizio sull’Italia liberale prefascista che ha creato una società centralista, classista e ignorante in mano agli agrari e agli industriali, fortemente diseguale, non in grado di far vivere gli italiani come cittadini di uno Stato moderno.
Anche dal punto di vista economico (la sua formazione era stata da giovane quella di un economista socialista) egli è contrario allo statalismo fascista e alla creazione in Italia di una forte burocrazia statale e parastatale ed è invece favorevole a un’economia a due settori che favorisca l’iniziativa privata ma riservi allo Stato quelle industrie che abbiano una forte attinenza ai settori cruciali e pubblici dell’economia.
Fondamentale nella sua ispirazione è il tema delle autonomie locali e del federalismo all’interno di uno Stato forte ed autorevole.
Di qui la sua insistenza, nel prefigurare la rivoluzione democratica, sulla necessità di far nascere dal basso e dalle comunità locali il metodo democratico che deve caratterizzare una società moderna.
Se Rosselli avesse avuto eredi capaci di concorrere adeguatamente con le altre forze alla preparazione della carta costituzionale, la costituzione repubblicana avrebbe avuto forse caratteristiche di maggior apertura alle tendenze federalistiche che avevano già contrassegnato con forza il pensiero democratico risorgimentale con uomini come Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari.
Potremmo continuare con altri esempi tratti dal pensiero di Rosselli e dai programmi di Giustizia e Libertà solo in parte ripresi qualche anno dopo dal Partito d’Azione durante la Resistenza ma i cenni dati finora parlano da soli, mi pare, in un momento attuale che è di smarrimento e confusione nella sinistra italiana ed europea.
È tempo di scegliere la direzione in cui andare: la società è ormai complessa e in parte postindustriale. Bisogna lanciare messaggi politici in grado di aggregare tecnici, imprenditori, commercianti e lavoratori che vogliano tutti un’Italia moderna e libera, tendenzialmente ugualitaria e meritocratica, in grado di attuare i valori della costituzione democratica e i valori fondamentali della nostra carta.

l'Unità 8.6.08
La musica sinfonica dalla vicina Cina tra world music e realismo socialista
di Giovanni Fratello


Il concerto conclusivo di CinaVicina, che vedrà impegnata stasera all’Auditorium l’Orchestra di Roma e del Lazio diretta da Tan Li Hua, propone il confronto tra due generazioni di compositori del paese della grande muraglia impegnati a creare musica secondo il sistema occidentale ma talvolta con la presenza di elementi della loro tradizione. Nella prima parte infatti saranno eseguiti Four dreams di He Xuntian, un concerto per erhu e orchestra dove solista a questo strumento ad arco della tradizione cinese sarà Chen Chunyuan, e Chou Kong Shan di Guo Wenjing -CinaVicina ha proposto nei giorni scorsi anche la sua opera Poet Li Bai-, dove strumento solista è il flauto di bambù suonato da Tang Junqiao. A concludere il concerto sarà invece la Quarta Sinfonia di Wang Xi-Lin.
I primi due compositori sono nati negli anni 50: Xuntian è in parte autodidatta, mentre Wenjing è stato tra i primi cento allievi ammessi ai corsi di composizione quando, alla fine della rivoluzione culturale, furono riaperti al conservatorio di Beijing. In entrambi i casi dunque rappresentanti della Cina post maoista, nella cui musica non è difficile scorgere influssi dell’occidentale world music, a esempio nell’uso di strumenti tradizionali insieme all’orchestra classica. Nato nel 1937, Xi-Lin, fa parte invece della prima generazione di musicisti della Repubblica Popolare Cinese, cresciuta durante l’apertura che subito dopo la seconda guerra mondiale Mao Zedong fece nei confronti della musica occidentale, incentivando la nascita dei conservatori sul modello di quelli esistenti nell’allora Unione Sovietica.
www.auditorium.com - 06.802.412.81

Corriere della Sera 8.6.08
Dietro le quinte. Il malessere del pd
Margherita e diessini: già separati in casa
di Maria Teresa Meli


Il caso Rutelli: «Noi mai socialisti, che problema c'è?». Ma per Veltroni è l'ennesima «rogna»
Ds e Margherita, nel Pd aria da separati in casa
All'Europarlamento in gruppi diversi. Bindi: non siamo la quarta fase della sinistra

ROMA — Non è ancora vita da separati in casa, ma quasi, visto che, almeno in Europa, Ds e margheritini, molto probabilmente, archivieranno il Pd per sedersi su scranni diversi, senza iscriversi allo stesso gruppo parlamentare a Strasburgo.
Quando queste due forze politiche si sono unite in matrimonio nel rito c'è stato un vizio di forma. I primi si sono sciolti per convolare a nozze confermando la loro permanenza nel partito socialista europeo, i secondi si sono sciolti confermando la loro contrarietà a questa prospettiva. Entrambi hanno messo nero su bianco, nei documenti congressuali del febbraio scorso, queste loro distinte posizioni.
E ora che si intensificano i contatti con i partiti e i leader europei in vista delle elezioni del prossimo anno, la differenza è difficile da aggirare. Francesco Rutelli è stato chiaro con i suoi colleghi di ex partito: l'ipotesi è quella di restare divisi in Europa. Ognuno al proprio posto: i fu Ds con i socialisti, i fu Dl con i liberaldemocratici.
E non si tratta di un capriccio dell'ex vice premier, ma di una presa d'atto della realtà. Martin Schulz, capogruppo del Pse a Strasburgo l'ha ripetuto a Walter Veltroni qualche giorno fa: i socialisti non possono cambiare identità per fare un piacere al Partito Democratico. In parole povere, la definizione socialista non si tocca. Ecco perché Rutelli ritiene che si debbano prendere due strade diverse in Europa.
Per una volta tanto la Margherita è unita e si è riscoperta partito nel partito: da Marini a Parisi (che chiede «una casa nuova e non la vecchia allargata») nessuno pensa che «si debba confluire nel Pse». Anzi. Come osserva Rosy Bindi: «Il Pd non è la quarta fase del partito della sinistra storica italiana». Del resto, per dirla alla Rutelli, «che problema c'è? Anche il centrodestra sarà diviso in Europa».
Lo stop di Rutelli alla confluenza nel partito socialista europeo potrebbe sembrare bizzarro, visto che alle elezioni del parlamento di Strasburgo manca quasi un anno. Così non è, però. La mossa nasce dall'accelerazione che aveva impresso alla vicenda Piero Fassino, che per il Pd si occupa dei rapporti con i colleghi europei. «Lui aveva già dato garanzie al Pse che il partito democratico sarebbe entrato, ma così non sarà. Non ci faranno trovare di fronte al fatto compiuto, perché noi li fermiamo prima », sussurrano gli ex margheritini.
Veltroni non è sulla linea di Fassino: per lui questa è una rogna. L'ennesima. Proprio quando aveva stretto definitivamente il patto con una parte della Margherita, la componente degli ex ppi, affidandosi a Fioroni e Franceschini per la gestione del partito e promettendo la presidenza del Pd a Marini, nell'assemblea che si terrà tra due settimane. Ma è proprio Fioroni che non transige: «Dobbiamo fare qualcosa di nuovo in Europa come lo abbiamo fatto qui in Italia con il Pd».
Probabilmente tutto sarebbe stato più semplice se Veltroni avesse vinto. In pre campagna elettorale persino un democristiano come Marini sembrava non dare eccessivo peso alla prospettiva di finire con i socialisti in Europa. Ma la sconfitta ha fatto riflettere gli ex margheritini. Nelle elezioni non siamo riusciti a prendere i voti del centro — è il succo del ragionamento di Rutelli — e se ora ci sediamo tutti insieme nel Pse va a finire che il Partito Democratico appare come la prosecuzione dei Ds. E invece gli ex Dl pensano a qualcosa di assai diverso: «Il Pd — è il convincimento di Bindi— dovrà essere in qualche modo speculare alla Democrazia cristiana».
E' chiaro che la separazione d'Oltralpe non significa che è in vista un divorzio a casa nostra, ma è indicativa di quel che si sta agitando nel Pd che ha perso le elezioni e che, apparentemente, è andato avanti come se nulla fosse. I dalemiani sembrano quasi pensare a un altro partito, gli ex margheritini rimpiangono il loro... Più che un partito, dice con malizia qualche ex ppi, sembra una coalizione.

Corriere della Sera 8.6.08
La dimensione più intima e la leggenda maledetta dello scrittore morto a 39 anni, mentre in Gran Bretagna sta per uscire un film
Dylan Thomas
Whisky, donne, caramelle Le passioni di un poeta
La figlia Aeronwy: mi leggeva le fiabe, fingevo di non conoscerle
di Melissa Denes


Dylan Thomas aveva solo 39 anni quando morì, lontano da casa, dopo un periodo di intenso lavoro e creatività. Secondo la leggenda sarebbe crollato nella sua camera al Chelsea Hotel di New York dopo aver bevuto 18 bicchieri di whisky. In realtà, le conseguenze di una vita da gran bevitore ebbero un esito meno fulminante e Thomas morì in ospedale vari giorni dopo la sua ultima bevuta, di polmonite o di un'accidentale overdose di morfina.
Fu la brusca interruzione di una fase di piena attività. All'inizio di quell'anno, il 1953, Thomas aveva terminato il suo grande radiodramma, Under Milk Wood ( Sotto il bosco di latte, edito in Italia da Guanda), in cui presentava una notte e un giorno della vita di un piccolo villaggio gallese di pescatori; e stava per cominciare a lavorare a un'opera con Igor Stravinsky. In una delle ultime lettere che scrisse a Stravinsky, a Hollywood, Thomas dice di non vedere l'ora di andare in California. Nella stessa lettera si lamenta per la mancanza di soldi: c'erano da pagare le rette scolastiche dei tre figli piccoli, «che si ostinano a crescere», e le spese per portare con sé in America la moglie Caitlin. Nel 1953 Thomas stava conducendo una doppia vita: era una celebrità a New York e un padre di famiglia assillato dai problemi domestici a Laugharne, nel Galles occidentale. Si lamentava di entrambe le situazioni, ma per parecchi anni navigò dall'una all'altra piuttosto felicemente. Sua figlia Aeronwy, che aveva dieci anni quando il padre mo-rì, crede che avesse bisogno dell'isolamento di casa sua per scrivere, e della compagnia e dell'alcol per vivere. «Agli uomini gallesi piace divertirsi, quando sono via — dice —. Mio padre ritornava poi alla noia mortale, a quel che mia madre chiamava "la landa fangosa di Laugharne", ma la noia rende creativi».
Aeronwy ha oggi 62 anni e somiglia in modo incredibile al padre: i capelli ricci, la fronte alta, il sorriso timido. Ha parlato della sua infanzia al Tricycle Theatre di Londra, dove va in scena una nuova produzione di Under Milk Wood. Scritto in origine per la radio, «l'opera per voci» di Thomas usa un piccolo gruppo di attori per evocare i circa 60 abitanti del villaggio; non c'è azione né storia, solo sogni, chiacchiere e fantasmi.
Tra poco uscirà in Gran Bretagna anche The Edge of Love, il film di John Maybury sui suoi genitori (interpretati da Matthew Rhys e, in modo meno plausibile, da Sienna Miller). Per molti anni è stata Aeronwy a custodire la memoria di suo padre — la madre e i fratelli non hanno mai amato parlare di lui —, ma sembra comunque sorpresa da questo improvviso interesse. Non ha ancora visto il film, ma ammira la sceneggiatrice, Sharman Macdonald, madre di Keira Knightley, che recita nel ruolo dell'amante di Thomas, Vera Killick. «In linea di principio approvo l'idea, purché la gente non prenda il film alla lettera. Il regista mi ha detto: "Non è un documentario". Darà una sensazione di autenticità se riuscirà a evocare quel periodo e quell'atmosfera. Deve funzionare come film, come spettacolo».
Aeronwy era in collegio a Hertfordshire quando sua zia le portò la notizia della morte del padre, uno choc dal quale dice di non essersi mai ripresa. «Ho cercato di rimuovere la cosa. Non ho pianto». Dopo i funerali a Laugharne, la madre si trasferì in Sicilia con i tre figli: Llewellyn, Aeronwy e Colm. Sul continente Thomas non era conosciuto e Caitlin era spesso scambiata per la vedova di Thomas Mann.
Aeronwy dice che a casa non si parlava del padre.
«Non credo che mia madre volesse parlarne. Lo fece solo in seguito, quando fu costretta dai biografi. Devo ammettere che mio padre non entrava spesso nelle nostre conversazioni. Mia madre è stata traumatizzata e devastata dalla sua morte, ma con il tempo le è venuto un gran risentimento. Era stato un bastardo, con tutte le sue infedeltà. Non è mai stata indifferente, credetemi».
Aeronwy cominciò a leggere le opere del padre solo dopo i vent'anni, quando si trasferì a Londra. Vide Under Milk Wood per la prima volta nel 1970, nella messa in scena di Malcolm Taylor, che cura di nuovo la regia al Tricycle. Taylor aveva invitato Caitlin, che allora era in Italia, ad assistere alla prima, nella speranza di farsi un po' di pubblicità aggiuntiva; e lei volle assolutamente che fosse invitata anche Aeronwy. «Prendeva delle pillole contro l'alcol — ricorda Taylor — e aveva bisogno che la figlia le ricordasse di prenderle, altrimenti si sarebbe attaccata alla bottiglia». In seguito Taylor andò a trovarli a Roma: «Era una strana situazione. Caitlin andava a dormire molto presto e si alzava molto tardi. Scrisse un libro su quel periodo intitolato
Leftover Life to Kill, era proprio quel che faceva — ammazzare il tempo. Non beveva, ma non era neanche molto felice».
Come Fern Hill, anche Under Milk Wood fu una rivelazione per Aeronwy, un intenso ritorno all'infanzia. Il villaggio fittizio di pescatori gallesi Llareggub ("bugger all" — insignificante — alla rovescia: quelle lande fangose e noiose...) è una mescolanza di diversi luoghi, ma soprattutto dei villaggi di New Quay e Laugharne. Aeronwy ha riconosciuto metà dei personaggi, oltre a ritrovarvi la voce del padre. La sexy Polly Garter, che sogna uomini e bambini, rievoca due donne che facevano le pulizie nell'albergo del paese; mentre il capitano Cat, il lupo di mare cieco e in pensione, le ricorda il padre. In ogni paese, peraltro, c'è una signora Ogmore-Pritchard, che impone al marito di mettere il pigiama nel cassetto giusto. «Era uno scrittore autobiografico — spiega Aeronwy — e si ispirava alle persone che aveva intorno. Il suo era uno sguardo affettuoso ». Da allora Aeronwy ha visto e ascoltato molte volte Under Milk Wood, e ama i suoi ritmi, il suo calore, «un lungo componimento poetico senza una parola fuori posto». Ama anche le voci maschili dei narratori, che rimandano tutte a suo padre, narratore nella prima registrazione. «Da un inglese non si sente mai una voce come quella, ricca come un budino di Natale. Richard Burton aveva una voce del genere, e ce l'ha anche Anthony Hopkins».
Thomas scrisse gran parte di Under Milk Wood a Laugharne, nel suo studio affacciato sull'estuario. «Avevamo un cottage sul mare — ricorda Aeronwy — e un capanno sugli scogli, oltre il quale c'era un ex garage dove mio padre scriveva. Mia madre ci mise delle finestre in modo che potesse guardar fuori: da una parte c'erano i campi e le fattorie dove erano vissuti i suoi avi; dall'altra la casa colonica di Sir John Hill, su cui ha scritto una poesia. Mia madre cercava sempre di farlo lavorare, lo appoggiava molto da quel punto di vista. Gli si è messa contro solo quando ha capito che sarebbe ritornato in America e avrebbe sprecato il suo talento».
Aeronwy ha, come il padre, la passione per le storie e per le caramelle. Quando la famiglia viaggiava in treno, Thomas lasciava la moglie e i figli in un vagone e andava in un altro con un paio d'etti di mentine e un libro giallo. A casa leggeva ai bambini le fiabe di Grimm, le filastrocche e Pierino Porcospino. «Avevamo un tacito accordo per cui dovevo far finta di non saperle già. Le fiabe di Grimm sono piuttosto spaventose, e io ero sempre molto preoccupata delle implicazioni geografiche. Se Cappuccetto Rosso doveva attraversare il bosco, dov'era la casa in cui doveva andare, e dov'era il lupo, quanto era vicino? Mio padre doveva essere molto preciso con me, a volte risolvevamo la questione sul pavimento usando i fiammiferi. Ero una bambina esasperante e mia madre diceva sempre che ero l'unica persona con cui mio padre perdeva la pazienza».
Era un padre affettuoso, anche se un po' distratto. In una lettera a Caitlin, menzionava il «dolce diavoletto Aeron», e in un'altra, a un amico, prometteva di restituire un manoscritto «in perfetto stato, senza interventi di Aeronwy». Spesso leggeva le sue opere alla moglie, ma raramente ai figli. «Mia madre preparava pasti a parte per mio padre, lui arrivava e le leggeva, o declamava nel bagno, le ultime cose che aveva scritto. Lei si spazientiva, lo ascoltava per un po', poi gli diceva di piantarla».
Le sembra meraviglioso e deprimente al tempo stesso il modo in cui suo padre viene ricordato ora: è meraviglioso che continui a trovare nuovi lettori, e deprimente che il bere sia l'unica cosa che molti sanno di lui. «La gente ha bisogno di queste figure leggendarie e maledette, lui è diventato un'icona, un Brendan Behan, ma non era solo così. Nei suoi 39 anni di vita è stato molto determinato. Era interessato solo alla letteratura e alla scrittura. Per scrivere bisogna isolarsi, e lui lo faceva per molte ore al giorno. Poi andava al pub a giocare a carte o a birilli, ne aveva bisogno. Ora capisco meglio tutto quel suo bisogno di bere e di corteggiare le donne».
(Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 8.6.08
Il secolo breve Un libro di Luciano Canfora sull'anno che vide cadere il mito di Stalin e tramontare il colonialismo
Mosca, Budapest, Suez: la triplice svolta del 1956
di Dino Messina


Da poco finito di leggere un interessante saggio sul papiro di Artemidoro uscito da Laterza e appena chiuso il libro su Filologia e libertà pubblicato da Mondadori, eccoci a un'altra fatica di Luciano Canfora,
1956. L'anno spartiacque, edito da Sellerio (pagine 188, e 12), che raccoglie una serie di conversazioni radiofoniche tenute dall'illustre antichista. Ora, il termine fatica non sembra adeguato: meglio usare la parola «divertimento ». Perché soltanto così si può spiegare una tale mole di lavoro affrontata felicemente in pochi mesi passando da un campo all'altro e, soprattutto, da un'epoca molto lontana a un'altra.
Un accademico di grande classe come Giorgio Rumi, che pure amava la divulgazione, diceva che la qualità peculiare dello storico era la presbiopia. Una caratteristica che aumenta quanto più lontana è l'epoca presa in considerazione. Questa riflessione ci è venuta in mente quando abbiamo letto le pagine in cui Canfora, filologo e studioso del mondo classico, paragona la guerra di Atene contro l'impero persiano al vittorioso sforzo bellico compiuto dall'Unione Sovietica di Stalin contro la Germania nazista. Un paragone che ci dice quanto nel racconto storico conti il disincanto: la voglia di capire va di pari passo con il distacco dalla materia trattata. Al di là naturalmente delle pur forti scelte di campo dell'autore.
Perché, dunque, il 1956 fu un anno spartiacque? Per tre episodi cruciali, raccontati dallo storico dell'Università di Bari con la passione di chi, adolescente, passò buona parte di quei mesi attaccato alla radio per aggiornarsi sulle ultime novità o a discutere con il padre per cercare di capire.
Innanzitutto il 1956 fu l'anno del XX congresso del Pcus, che sancì la destalinizzazione, cioè la condanna del dittatore sovietico da parte di quegli stessi uomini dell'apparato che lo avevano servito anche nei passaggi più discutibili. Al XX congresso seguì la diffusione del rapporto segreto sui crimini di Stalin, che secondo alcuni arrivò sulla stampa americana direttamente dall'Urss, secondo altri attraverso il canale italiano, cioè il Pci di Palmiro Togliatti. E di questo capitolo Canfora ci racconta tutti i sapidi retroscena, dal fulminante dialogo tra Giorgio Amendola e Togliatti alle battute di Concetto Marchesi, altro antichista con la passione per la politica e la storia contemporanea.
Il secondo momento importante del 1956 è la rivolta d'Ungheria e la conseguente repressione sovietica, con le crisi di coscienza e il radicale passaggio di campo di tanti intellettuali fino ad allora vicini alle posizioni ortodosse del Pci.
Il terzo episodio cruciale è la nazionalizzazione del canale di Suez da parte del governo egiziano. La conseguenza immediata fu lo sbarco in Egitto di truppe anglofrancesi e l'attacco lanciato da Israele nel Sinai. La conseguenza a lungo termine fu il rapido declino del colonialismo europeo. E l'inizio di una nuova fase nei rapporti internazionali.

Repubblica 8.6.08
Poche speranze, molta paura
di Eugenio Scalfari


Venerdì scorso in un´ora di contrattazioni il prezzo del greggio a New York è aumentato di dieci dollari arrivando al record di 139. Nelle stesse ore le Borse di tutto il mondo sono crollate, il tasso interbancario è salito al 5,6 (massimo mai raggiunto prima) il dollaro è ulteriormente precipitato rispetto all´euro.
Due giorni prima altre banche d´affari e istituti di credito immobiliare americani e inglesi avevano annunciato deficit pesantissimi. I consumi ristagnano o retrocedono, gli investimenti languono, la domanda globale è ferma. L´inflazione in Europa ha raggiunto il 3 per cento e in molti paesi l´ha superato. Infine il presidente della Banca centrale europea, Trichet, ha detto che a luglio i tassi aumenteranno di un quarto di punto, agitando ulteriormente i mercati già sotto choc.
La cosa singolare è che, mentre questi dati negativi coinvolgono sia la finanza sia l´economia reale, banchieri centrali e ministri del Tesoro dei paesi occidentali continuano a ripetere che «i fondamentali» sono positivi e che quindi si tratta di turbolenze transitorie. Quali siano i fondamentali rimasti integri è ignoto poiché sono invece tutti pericolanti. Se ne deduce che le Autorità monetarie hanno deciso all´unisono di truffare la pubblica opinione con la complicità di gran parte degli osservatori indipendenti.
Oppure nessuno è più indipendente e tutti si sono rassegnati a svolgere il ruolo dei pompieri?
Le ragioni dell´impennata del prezzo del greggio sono due. La prima è l´aumento costante della domanda dei grandi paesi emergenti, soprattutto asiatici, mentre l´offerta è notevolmente più rigida. La seconda dipende dalla perdita di valore del dollaro.
Poiché gran parte delle transazioni sul greggio avvengono in dollari, si è instaurato uno strettissimo rapporto tra il tasso di cambio della moneta Usa e il prezzo del barile di greggio: il dollaro cade, il prezzo del greggio aumenta in conseguenza.
Cause analoghe spingono in alto i prezzi dei cereali e delle materie prime e derrate di base: aumento della domanda, rigidità dell´offerta, ribasso del dollaro sul mercato dei cambi.
Per alcune di quelle derrate si aggiungono elementi specifici. Il prezzo del mais per esempio rincara perché gli Stati Uniti ne consumano larghe quantità in funzione di energia attraverso il ciclo dell´etanolo. Si chiama bio-energia, usata al posto della benzina. Non basta a far diminuire il prezzo del greggio ma è più che sufficiente a portare alle stelle quello del granturco.
L´insieme di questi fenomeni ha come conseguenza l´aumento del tasso di povertà in tutto il mondo. Alla conferenza mondiale della Fao, conclusa lo stesso venerdì nel quale i fatti sopra ricordati sono avvenuti, le statistiche diffuse tra le migliaia di congressisti e di giornalisti hanno documentato che i poveri (cioè quelli che vivono con meno di un dollaro al giorno) sono ormai 900 milioni di persone. Saranno un miliardo nel 2010.
Nel frattempo le disuguaglianze di reddito hanno toccato ovunque dislivelli mai raggiunti prima. La conseguenza è un aumento delle tensioni sociali e una guerra tra poveri per disputarsi le briciole del lauto banchetto dei ricchi.
La conferenza della Fao ha documentato questa situazione preoccupante ma si è conclusa con un "flop" totale: nessuna strategia, nessun programma, nessun provvedimento. Tutti contro tutti, ballando sul crinale di un abisso energetico, alimentare, climatico, sociale, demografico. Nessuna "leadership". Barbara Spinelli ha descritto l´"impasse" mondiale che si sta verificando dopo la vittoria del cosiddetto "pensiero unico" in un articolo sulla Stampa di due giorni fa. Una voce nel deserto. Per tutti gli altri "i fondamentali" sono solidi, perciò è inutile preoccuparsi. A me sembrano matti.
* * *
Ho già ricordato che il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha preannunciato un inasprimento del tasso d´interesse dell´euro, con immediati effetti sul corso del cambio. Si trattasse di un comune mortale, un qualunque tribunale europeo potrebbe aprire un´indagine a suo carico per turbativa di mercato, ma Trichet non è un comune mortale come non lo è stato Silvio Berlusconi quando si è divertito a far schizzare in su e in giù il titolo dell´Alitalia con improvvide dichiarazioni, di fronte ad una magistratura silente e in altre faccende affaccendata.
Spesso i potenti sono indagati perché potenti. Altre volte non lo sono per la stessa ragione, dal che deduco che non tutti i potenti sono eguali, quelli che trafficano col danaro godono di qualche vantaggio in più rispetto a quelli che trafficano con la politica.
Trichet dunque e insieme con lui i componenti del direttorio della Bce e i governatori delle Banche centrali unificate in quella di Francoforte, dichiarano di dover combattere l´inflazione e quindi mantengono il tasso d´interesse dell´euro a più del doppio di quello del dollaro e si apprestano ad ulteriori inasprimenti nel prossimo futuro.
Ho letto ieri un´intervista di Bini Smaghi, uno dei membri del direttorio della Bce, in cui questa politica insana viene spiegata così: «Sappiamo che l´inflazione in Europa è importata dall´estero e quindi è fuori dal nostro controllo, ma ad essa si potrebbe aggiungere un´impennata della domanda interna europea. Per evitare questa prospettiva dobbiamo inasprire il costo del danaro».
A me sembra incredibile questo modo di ragionare e lo scrivo ormai da molti mesi, ma nessuno spiega quale possa mai essere la logica dei banchieri centrali europei. Del resto questo concentrato di ossimori lo ritroviamo in tutti i documenti delle agenzie monetarie ufficiali: Fondo monetario, Ocse, Banche centrali, Commissione europea.
Tutte queste Autorità lamentano un deficit di domanda e propugnano una politica di crescita ma nello stesso tempo raccomandano vivamente misure che contengano la domanda: tagli di spesa, blocco della redistribuzione del reddito, politiche monetarie restrittive. Bini Smaghi lo dice in modo esplicito: dovremo comprimere la domanda. Draghi applaude, come tutti i suoi colleghi. Gli economisti indipendenti concordano. Ma non c´è uno straccio di spiegazione che ci dica in che modo far crescere l´economia restringendo la domanda sia di consumi sia di investimenti.
Il bello è che anche gli industriali concordano con questa strategia sinistramente schizoide. Naturalmente a condizione di essere esentati (loro) da misure restrittive e di essere "accompagnati" verso una riforma dei contratti che agganci il lavoro alla produttività.
* * *
Sulla necessità di agganciare aumenti salariali alla produttività l´accordo è generale (salvo quei poveretti delle sinistre radicali che ancora venerano la salma di Lenin). Pietro Ichino ha presentato un progetto di legge molto equilibrato in proposito e le organizzazioni sindacali sono sostanzialmente d´accordo con lui. Ma Confindustria e governo vogliono ben altro.
Emma Marcegaglia e la giovane Guidi da lei nominata alla testa dei "Giovani industriali" vogliono addirittura il contratto individuale come base nei rapporti industriali. Un Pietro Rossi e Fiat, un Mario Bianchi e Telecom, un Luigi Cacini e Eni. Fior di contratti "tagliati su misura individuale". Taluni di alta moda, talaltri «prêt-à-porter». Questa dovrà essere la contrattistica del prossimo futuro.
Il ministro Brunetta la porterà nel pubblico impiego o almeno farà il possibile. Per quanto riguarda il merito l´ineffabile Guidi vorrebbe considerare anche la «devozione verso l´azienda». Ed ha aggiunto: «In questo nuovo clima si può». Certo, perché no? E dunque avanti, e fate in fretta.
* * *
Le avventate dichiarazioni di Trichet sul tasso d´interesse centrale dell´euro hanno, tra gli altri nefasti effetti, prodotto un drastico aumento nel costo dei mutui immobiliari. I mutui a tasso variabile sono agganciati all´Euribor, che è appunto il tasso praticato dalle Banche europee nelle operazioni liquide tra di loro. L´Euribor è volato alle stelle portandosi appresso i mutui a tasso variabile.
Immagino che ora i titolari di quei mutui faranno ressa agli sportelli per convertirli a tasso fisso seguendo il decreto varato qualche giorno fa da Tremonti. Vedremo quali condizioni spunteranno e vedremo anche se le banche si faranno concorrenza tra loro. Comunque, con l´Euribor a questi livelli, le rate di rimborso saranno ancora più lunghe e più gravose perché il mercato è il mercato e Tremonti denari da spendere per diminuire il costo dei mutui non ne ha.
In realtà Tremonti non ha nulla in cassa salvo quello che gli hanno lasciato Visco e Padoa-Schioppa. Era abbastanza, l´aggravarsi della crisi generale ha assottigliato l´extra-gettito ma ancora ce n´è. Naturalmente non basta per fare tante cose. L´Ici se ne porta via 2,6 miliardi e non serve a niente. Tremonti, non sapendo dove trovare i soldi, li ha presi dalle casse della Regione siciliana (1 miliardo e 300) e calabrese (300). Ma ne è nato un putiferio che è ancora in corso. Poi c´è il Comune di Roma che si porta dietro da dieci anni e più un debito mai saldato dallo Stato e quindi aumentato con interesse composto. Poi c´è la Sanità del Lazio, ereditata dall´epoca Storace e prima ancora.
La defiscalizzazione degli straordinari preoccupa meno: quei soldi vengono dal governo precedente e poi saranno ben poca cosa: in tempi di vacche magre gli straordinari e i premi di produzione costeranno pochi spiccioli. Ma poi, a turbare i sonni del Tesoro, c´è Alitalia. Quello è un pasticcio molto grosso e non se ne vede per ora la fine.
* * *
Ne ho accennato domenica scorsa e quindi non mi ripeto se non per dire che trovare uno o due miliardi, tra Banca Intesa e qualche Colaninno, magari ci si riesce, ma non serve a niente se non entrerà in campo un vettore internazionale di prima grandezza. Il quale: 1. Per ora non c´è. 2. Se spunterà chiederà tagli assai più gravosi di quelli di Air France di tre mesi fa.
Ma se nelle prossime due settimane Bruxelles riterrà di annullare il prestito di 300 milioni portato a patrimonio dallo Stato ad Alitalia, allora la società sarà messa in liquidazione e Tremonti dovrà tirar fuori una bella somma per i ricaschi sociali sul personale di volo e di terra. Insomma una catastrofe. Le speranze e la paura, come è titolato il libro del ministro del Tesoro. Soprattutto la paura.

Repubblica 8.6.08
Bioetica. Testamento di vita per scegliere come dire addio
di Jenner Meletti


Nel nostro Paese esiste da tempo, migliaia di persone hanno firmato il proprio, ma senza una legge il documento non ha valore legale. È l´equivalente dell´americano "Living will": "Lì te lo chiedono appena entri in ospedale", dice Mario Riccio, il medico che ha assistito Piergiorgio Welby "È il paziente a stabilire quali interventi accetta e quali rifiuta"
La prima parte riguarda le terapie La seconda nomina un "rappresentante" del malato
"Spero che almeno i sanitari l´accettino Non potranno dire di non conoscere le mie volontà"

Un bel vestito verde, il colore della speranza. «A me piace davvero stare al mondo. Ho un cancro al seno ma spero di sconfiggerlo. Purtroppo so che a volte vince lui, inutile illudersi di essere immortali. Io sono una donna che nella vita ha accettato poche volte, e malvolentieri, le decisioni prese dagli altri: e allora voglio decidere anche come morire». Giuliana Michelini, sessant´anni compiuti a gennaio, nella borsona da milanese impegnata in mille cose ha anche la «Biocard, carta di autodeterminazione». Sorride e spiega. «Insomma, è il testamento biologico o testamento di vita. Io personalmente preferisco chiamarle "direttive anticipate". Ho scritto tutto quello che voglio sia fatto sul mio corpo quando - spero il più tardi possibile - non sarò più in grado di fare intendere le mie ragioni. Vede, per noi italiani è difficile parlare di certe cose. Siamo scaramantici. Ma io cerco di ragionare: a una certa età, e anche senza essere malata, capisci che la morte fa parte della vita. La morte, non la fine, l´esodo, l´atto finale… La morte deve essere chiamata con il suo nome. E bisogna prendere le misure giuste perché questa morte non sia preceduta da un´agonia infinita, straziante e inutile. I medici debbono fare di tutto per salvarmi la vita vera ma non possono decidere di tenermi comunque attaccata a una vita che non ha più nessun senso».
Il primo incontro con la proposta di testamento biologico in un convegno di due anni fa, organizzato dalla Consulta di bioetica, fondata a Milano nel 1989, «per lo studio dei difficili problemi che si pongono nella medicina di oggi in particolare nelle situazioni di nascita e di morte». A colpire Giuliana Michelini è stata la storia di Eluana Englaro, una ragazza di Lecco in «coma vegetativo permanente» da sedici anni. «C´era suo padre, al convegno, e spiegava che anche senza nessuna speranza la ragazza viene alimentata artificialmente in un´agonia senza senso. Io allora non avevo il cancro al seno ma, come sempre nella mia vita, mi ero organizzata perché la morte non mi trovasse impreparata. Avevo già deciso di donare gli organi e di fare consegnare poi il mio corpo alla scienza, con la speranza che fosse utile per qualche ricerca. Avevo pensato anche al testamento biologico ma non avevo deciso. Poi, al supermercato, mi è successo un fatto piccolo ma importante».
Il carrello della spesa, una macchia d´acqua sul pavimento. «Insomma, sono scivolata all´indietro, stavo per battere la nuca. Potrà sembrare strano ma in quel nanosecondo ho fatto in tempo a pensare: adesso sbatto la testa contro le bottiglie del vino a vado in coma. Oddio, non ho firmato il testamento. Finirò come la povera Eluana. All´ultimo istante ho messo il braccio indietro, me lo sono rovinato ma ho salvato la testa. Dopo pochi giorni sono andata a firmare le mie "direttive anticipate". Come "rappresentante fiduciario", vale a dire la persona che dovrà garantire che siano rispettate le mie volontà, ho nominato un amico, che fra l´altro è un bravo medico».
Sorride, la signora Giuliana. L´appuntamento è in un bar di San Babila, dopo una riunione della Lega italiana nuove famiglie (lei è la coordinatrice) e prima di una riunione della Consulta di bioetica. «Dopo quella firma mi sono sentita meglio. Vede, io non ho parenti stretti e sentivo dentro una certa paura. Nel momento in cui non sarò in grado di parlare o di capire - pensavo - sarò del tutto sola. Mio padre se n´è andato a novantacinque anni ma almeno aveva me vicino. Io spero sempre che la morte arrivi tardi e con un colpo secco, ma adesso so che se non va così avrò al mio fianco il "rappresentante" che farà di tutto per evitarmi le sofferenze che non sono necessarie. Ci ho pensato bene, prima di firmare le diverse clausole del testamento. Ho detto sì, ad esempio, alla rianimazione in caso di arresto cardiaco. Ho detto no a quei "provvedimenti di sostegno vitale" come l´alimentazione artificiale e altri interventi che abbiano soltanto l´obiettivo di "prolungare il mio morire", "mantenermi in uno stato di incoscienza permanente o in uno stato di demenza avanzata non suscettibili di recupero". In ospedale ci sarà comunque il mio rappresentante. Lui mi conosce bene, saprà decidere al posto mio. È per questo che, appena messa quella firma, ho sentito dentro un senso di pace».
Sono ormai migliaia le persone che hanno firmato il testamento biologico che però, in assenza della legge, non ha ancora valore legale. «In Italia», dice Mario Riccio, il medico anestesista rianimatore che ha seguito Piergiorgio Welby, «tanti si dichiarano contrari a questo "testamento" precisando però di essere anche contro l´accanimento terapeutico. A me viene in mente la favola di Bertoldo, che accetta la pena di morte ma chiede di poter scegliere dove essere impiccato e non trova mai la pianta giusta. Insomma, si parla tanto di "accanimento terapeutico" - solo in Italia, perché nel linguaggio medico internazionale si parla di interventi utili o inutili - per non discutere il tema vero, quello dell´autodeterminazione. Accanimento è termine del tutto soggettivo. C´è chi non vuole l´alimentazione forzata e chi invece l´accetta. Welby ha voluto essere staccato dal respiratore artificiale e altri hanno deciso di restare attaccati alle macchine. La signora che ha rifiutato di farsi amputare una gamba ha rifiutato un intervento salvavita o un accanimento terapeutico? Così si continua a discutere per anni e non si arriva a trovare la soluzione più semplice: ogni persona ha il diritto di scegliere se, come e fino a quando essere curata».
Anche il dottor Riccio è nella Consulta di bioetica fondata da Renato Boeri e oggi guidata da Maurizio Mori. «Ci sono medici, giuristi, filosofi e anche persone come Beppino Englaro, il padre di Eluana, la ragazza in stato vegetativo. Il suo caso è stato discusso nei tribunali e anche in Cassazione. Una prima sentenza disse che l´alimentazione forzata "non è terapia ma cura della persona" e come tale non può essere sospesa. La Cassazione, nell´ottobre scorso, ha invece preso atto che la ragazza in due occasioni aveva espresso la volontà di non essere mantenuta in uno stato vegetativo: un suo amico e il suo mito di ragazza sciatrice, Leonardo David, erano finiti in coma a causa di incidenti e lei aveva detto che, se fosse successo a lei, non avrebbe mai voluto essere tenuta in vita con le macchine. Ora si dovrà rifare il processo e non sarà una discussione facile. La Cassazione ha infatti stabilito che l´alimentazione artificiale potrà essere sospesa solo se si avrà "la ragionevole certezza che non ci sia un ritorno di coscienza"».
Il documento da firmare presso la Consulta di bioetica si chiama «testamento di vita». «È una traduzione approssimativa», dice Mario Riccio, «dall´inglese Living will, la volontà del vivente. Negli ospedali americani, quando entri anche per un´otite o un menisco, ti chiedono il Living will. È scritto in due parti. Nella prima il paziente decide quali interventi accettare e quali rifiutare. Alimentazione forzata sì o no, ventilazione artificiale sì o no, rianimazione cardiaca… Tutto scritto, punto per punto. Nella seconda parte c´è invece una delega: si sceglie una persona che possa decidere al posto del malato se questi non sarà in grado di decidere da solo. Abbiamo studiato bene quel documento e la nostra Biocard, carta di autodeterminazione, ne ricalca i punti essenziali».
Difficile comprendere l´opposizione a una proposta come questa. «Certo, come è difficile capire perché la schiavitù sia stata abolita solo nel Diciannovesimo secolo, perché le donne in Italia votino solo da sessant´anni, perché le stesse donne fino al 1961 non potessero fare i magistrati… Il cammino dell´autodeterminazione è lungo e difficile. Quando poi questo concetto entra in un ospedale, si scontra con il paternalismo del medico, nuovo pater familias che "per il tuo bene" decide tutto ciò che riguarda la tua salute, senza chiedere consenso e a volte senza informare. In fin dei conti il nostro è l´unico Paese dove alle ultime elezioni è stata presentata una "lista etica" a sostegno della nascita e soprattutto della "morte naturale". Ecco un altro concetto che blocca la discussione sui temi etici. Cos´è oggi la morte naturale? Soprattutto, esiste ancora? Oggi salvo casi rarissimi si muore tutti dopo una diagnosi, una prognosi, una terapia. La morte di Giovanni Paolo II è stata giudicata "naturale" perché il Papa ha rifiutato di essere attaccato alle macchine. Per Piergiorgio Welby la morte naturale sarebbe arrivata dieci anni prima, quando fu colpito da crisi respiratoria. Lui ha vissuto altri dieci anni attaccato al respiratore poi ha detto basta. Eppure per tanti lui avrebbe dovuto aspettare un´altra "morte naturale". E io, che ho risposto alla sua richiesta di aiuto, per Rosy Bindi avrei commesso "un omicidio di consenziente che nessun tribunale di Dio o degli uomini potrà assolvere". Ma almeno dal tribunale degli uomini sono stato assolto».
La Biocard, per la signora Giuliana Michelini, è una specie di carta di credito. «Anche se ancora non c´è la legge, spero che sia accettata dai medici. Di fronte alle mie "direttive anticipate" almeno non potranno dire di non conoscere le mie volontà. Certo, per i medici è sempre difficile accettare che qualcuno possa decidere della propria vita. Io non voglio nulla di speciale. È da una vita che mi interesso di diritti e di libertà. Mi sono battuta per i consultori delle donne, ho fatto la volontaria per i detenuti di San Vittore. Adesso voglio difendere il mio ultimo diritto: non voglio soffrire inutilmente. Non voglio prolungare la vita, se questa non esiste più. Altre persone possono fare altre scelte. C´è chi crede che la sofferenza purifichi dal peccato ma non è il mio caso. L´ostacolo più grosso è fare i conti con la propria morte. Ecco, credo di avere superato questo ostacolo. Io non chiedo - è scritto nel documento - l´eutanasia. Chiedo solo che sia rispettato il mio diritto alla dignità».

Repubblica 8.6.08
Anche in Italia sta cadendo il tabù
di Umberto Veronesi


il caso di Modena e soprattutto i tanti altri casi che non salgono alla ribalta della cronaca, dimostrano che se il Parlamento non perverrà, neppure con questa maggioranza, a una legge sul testamento biologico, gli italiani tralasceranno la formalizzazione giuridica e utilizzeranno comunque questo strumento di espressione di volontà e autonomia del malato. Succede, del resto, non solo in Italia che se la politica non ascolta i bisogni reali della popolazione, allora la popolazione fa a meno della politica.
Questo è vero almeno per le questioni che toccano da vicino la nostra vita e la sua qualità. Il grande movimento popolare olandese che ha condotto alla legislazione più avanzata in Europa sulle decisioni di fine vita è nato, ormai vent´anni fa, quando la popolazione ha potuto constatare che la medicina oggi è in grado di prolungare artificialmente la vita biologica, opponendosi a una fine naturale per giorni, per mesi o per anni. In Germania, pur in assenza di una legge, a seguito dell´iniziativa popolare, in due anni sono stati depositati sette milioni di testamenti biologici.
In Italia il testamento biologico era tabù e la sua definizione pressoché sconosciuta fino al marzo di due anni fa, quando la Fondazione che porta il mio nome pubblicò il primo opuscolo divulgativo e organizzò la prima presentazione a Roma, alla Cassa Forense. Il motivo: una incomprensibile resistenza ideologica, molto preoccupante per la libertà di ognuno di noi, da parte di molti opinionisti che vedono nel testamento biologico un´anticamera dell´eutanasia - mentre così non è, anzi concettualmente è l´opposto - e anche di molti medici che rivendicano il loro potere di decidere, oppure, al contrario, hanno paura di decidere e preferiscono affidarsi alle potenzialità di una medicina tecnologica. Dal 2006 sono molte migliaia le persone che si sono rivolte a noi, e continuano a farlo, per avere informazioni e sapere che fare.
Innanzitutto va ripetuto che il testamento biologico (che, ricordiamolo, è un´espressione scritta di volontà individuale revocabile e modificabile, circa le cure che si vogliono o non si vogliono ricevere, da utilizzare nel caso in cui non ci si potesse esprimere di persona) può già essere ritenuto valido nel nostro ordinamento perché è un´estensione del consenso informato alle cure, che è non solo legittimo ma obbligatorio nel nostro Paese. Inoltre l´Italia ha siglato la Convenzione di Oviedo sui «diritti umani e la biomedicina» che afferma che «il medico, anche tenendo conto della volontà del paziente laddove espressa, deve astenersi dall´ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento per la qualità di vita».
Anche il mondo cattolico non si è mai opposto al testamento biologico. In Spagna, dove il Testamento Vidal è appena diventato legge, il modulo del testamento si trova sul sito web della Conferenza episcopale spagnola. È indirizzato: «Alla mia famiglia, al mio medico, al mio sacerdote, al mio notaio» e si basa sul principio che «la vita è un dono e una benedizione di Dio, ma non è il valore supremo assoluto». Il giorno dell´approvazione della legge spagnola mi ha colpito il commento di Marcelo Palacios, consigliere del governo Zapatero e presidente della Società internazionale di bioetica: «Un malato terminale non muore perché si sospendono le cure, muore perché era terminale. Dobbiamo concentrarci piuttosto sulla sua dignità di persona». In Italia pare che la politica non la pensi così.

Repubblica 8.6.08
Claudio Abbado. L'incontro sul podio
di Leonetta Bentivoglio


Claudio Magris lo ha definito un uomo di "leggerezza mozartiana" E in lui c´è infatti quiete filosofica, vocazione all´ironia, una levità non priva di zone d´ombra Alla vigilia del settantacinquesimo compleanno e di un´estate traboccante d´impegni il grande direttore e creatore di orchestre parla dei suoi progetti e del male che ha combattuto e vinto: "Pensavo fosse arrivato il momento. Considero tutto ciò che è venuto dopo un regalo"
La musica insegna ad ascoltare Se si ascolta, s´impara e così dovrebbe essere in ogni campo Se i politici conoscessero la musica, tutto funzionerebbe meglio

Qualche anno fa Claudio Magris, a proposito dell´amico Claudio Abbado, scrisse che era un uomo di «leggerezza mozartiana». In effetti Abbado appare leggerissimo: nel fisico sottile, nella voce discreta, nel movimento delle mani. Mani sensibili, abituate a condurre, vibrare, disegnare il tempo, riempire di immagini la trasparenza dello spazio. Ma in questo musicista straordinario c´è dell´altro: negli anni ha conquistato una qualità impalpabile di leggerezza interna, fatta di quiete filosofica, vocazione all´ironia, rapporto distaccato e sorridente col successo. Riflessi di una levità, come s´è detto, «mozartiana». Che dunque ha zone d´ombra, chiaroscuri. E che è volatile, mai afferrabile del tutto.
Questo signore calmo e lieve, molto riservato, che parla poco e ascolta molto («è la musica che insegna ad ascoltare, se si ascolta s´impara, e così dovrebbe essere in ogni campo: se i politici conoscessero la musica tutto funzionerebbe meglio»), non è solo un eccelso direttore d´orchestra. È un mito musicale del nostro tempo. Però non reca segni di nevrosi da star-system. Magicamente rilassato, ha una freschezza fluida, giovanile. Eppure il 26 di questo mese compie settantacinque anni. Dice serafico: «Le cifre non contano, i numeri non mi hanno mai fatto impressione». E spiega che non è prevista alcuna festa per il compleanno: niente smancerie, in puro stile abbadiano. Quel giorno progetta di passarlo in barca, come gli piace tanto, circondato da figli e nipoti, per scivolare con la consueta leggerezza nel vento e sul mare della Sardegna, dove negli ultimi anni trascorre il tempo che dedica al riposo, allo studio e alla lettura («in questo periodo sono preso dai romanzi di Hrabal»). Vicino ad Alghero ha una casa spartana e bellissima, isolata come la chiatta di un naufrago e immersa in un giardino rigoglioso, curato personalmente e con passione dal Maestro (ma non chiamatelo così, non lo sopporta: da tutti si fa chiamare semplicemente «Claudio»). Racconta che le piante gli fanno bene, come il mare: «Quando sono in Sardegna vivo nell´acqua e nel verde».
Ora invece siamo nel cuore di una città, Bologna. Qui la sua casa è anch´essa leggerissima, affacciata sui tetti rossi del centro storico, con un´altana che svetta torreggiante e suscita vertiginose fantasie sul volo. «Quand´ero ragazzo sognavo spesso di volare. Voli alti, stupendi. Era il mio sogno ricorrente. L´ho realizzato da adulto grazie alla musica. Con i musicisti delle orchestre che dirigo - e con molti di loro lavoro da tanti anni - mi succede spesso di volare. Anche per questo ho lavorato tanto di frequente con i giovani, che sanno fidarsi, lanciarsi, volare con me». Abbado è un forgiatore di orchestre, con esiti smaglianti: a fine anni Settanta fondò la European Commmunity Youth Orchestra, a metà anni Ottanta creò la Gustav Mahler Jugendorchester, da cui costituì la Mahler Chamber Orchestra. Nel 2003 plasmò la Lucerne Festival Orchestra, «che dirigo in agosto a Lucerna e con cui in ottobre andrò a Vienna. E sempre con l´orchestra di Lucerna l´anno venturo sarò a Pechino, dove mi ospiteranno in una casa dentro un parco a qualche chilometro a sud della città, con l´aria ottima, e conoscerò attori cinesi come Gong Li, la magnifica protagonista di Lanterne rosse».
Quello di Lucerna è un complesso "all star", con musicisti della Mahler Chamber Orchestra uniti a prime parti dei Berliner e dei Wiener Philharmoniker e ad altri splendidi solisti. Sembra che attorno al carismatico «Claudio» si muova e si condensi a più riprese un´unica, cangiante orchestra, fatta di prodigiosi e dotatissimi amici che gli viaggiano accanto riplasmandosi di continuo in varie formazioni. In più il glorioso direttore ha uno spettacolare fiuto da talent-scout. È stato il primo, tanto per dirne una, a segnalare come futuri astri del podio, quand´erano poco più che ragazzini, l´inglese Daniel Harding e il venezuelano Gustavo Dudamel: «Eppure non li avevo mai sentiti dirigere. Ho capito la loro intelligenza parlando con loro. Ho sentito due forti personalità, ho compreso che avevano davvero qualcosa da dire».
Nel 2004, a Bologna, è nata una sua ennesima creatura, l´Orchestra Mozart: quarantacinque elementi, con giovani professionisti a fianco di solisti affermati. Strumentisti di fama come Giuliano Carmignola, Danusha Waskiewicz, Enrico Bronzi, Mario Brunello, Alessio Allegrini, Daniel Gaede, Rapahel Christ, Guilhaume Santana, Lucas Macias Navarro, Alois Posch, Alessandro Carbonare e Lorenza Borrani, per citarne solo alcuni. Vive con loro «il piacere di suonare insieme» nello spirito del gruppo da camera, dove gli elementi si alternano in diverse combinazioni, dal trio all´ottetto e all´ensemble mozartiano. E questo mese l´Orchestra Mozart compie il suo sfolgorante debutto discografico con due cofanetti di cd siglati Deutsche Grammophon: il primo raccoglie cinque sinfonie mozartiane - 29, 33, 35 Haffner, 38 Praga e 41 Jupiter - registrate live in concerti a Bologna, Modena, Ferrara e Bolzano; il secondo offre l´integrale dei Concerti per violino di Mozart con Carmignola e la Sinfonia concertante per violino e viola K 364.
Nel frattempo Abbado qui a Bologna, al Teatro Manzoni, dirige l´orchestra in una serie di concerti: domani sarà sul podio di un programma tutto votato all´amatissimo Wolfgang Amadeus («non si finisce mai di conoscerlo, è sempre attuale, infinito come Shakespeare»), e replicherà il concerto l´11 giugno a Bolzano, nell´Auditorum Haydn; e sempre a Bologna ha appena diretto una serata sul Settecento "sacro" di Giovanni Battista Pergolesi, musicista al centro di un suo progetto pluriennale (2007-2010): «Compositore fondamentale, ha avuto un forte influsso su Bach e Mozart. Morto a ventisei anni, in un quinquennio appena è riuscito a scrivere capolavori stupefacenti per preveggenza, proiettati un secolo avanti dal punto di vista armonico e musicale. Era un geniale visionario che colse tracce da Gesualdo da Venosa, col quale condivide la capacità di creare musiche eccezionalmente innovative per modulazioni, accordi e cromatismi, legate a testi strazianti, che parlano di dolore, passione e morte».
Il 25 ottobre, ancora sul podio della sua Mozart, unita alla Cherubini "prestata" da Riccardo Muti e all´Orchestra Giovanile Italiana fondata da Piero Farulli, Abbado dirigerà un mega-concerto che farà scalpore: «Su un enorme palcoscenico allestito al PalaDozza di Bologna, per cinquemila spettatori, eseguiremo il Te Deum di Berlioz con le tre orchestre, due cori e un coro di voci bianche formato da seicento bambini. Fu proprio Berlioz a richiedere quest´organico sterminato». In scena ci sarà pure il suo amico Roberto Benigni, esilarante attore per Pierino e il Lupo di Prokofiev, presentato nella prima parte della serata: «Con lui stiamo immaginando futuri concerti-spettacolo dedicati a Dante e Verdi».
Abbado ha già diretto il Te Deum a fine maggio a Berlino per ventimila spettatori, su un impressionante palcoscenico all´aperto: «C´era anche Maurizio Pollini per il Quarto concerto di Beethoven. In realtà si doveva suonare alla Philharmonie, ma un incendio ha bruciato il tetto. Abbiamo deciso di spostarci alla Waldbühne, che ha tredicimila posti in più della Philharmonie, e i tredicimila biglietti messi inaspettatamente in vendita sono andati esauriti in un paio di giorni. In passato avevo già diretto in quel parco, l´atmosfera è bellissima: la gente arriva presto, prende il sole, poi mangia, beve e ascolta il concerto. E per me lavorare coi Berliner è come ritrovare tanti vecchi e cari amici».
Sono stati i Berliner, probabilmente, la sua orchestra «d´elezione». Per dodici anni, fino al 2002, con entusiasmo ed energia, Abbado, giunto in Germania già carico di allori, avendo alle spalle esperienze di direttore musicale alla Scala e alla Staatsoper di Vienna, si tuffò anima e corpo nello spirito della cultura berlinese e nel rimodellamento della fisionomia dell´orchestra guidata a lungo da Karajan: «Berlino è una città civile, ricca di verde e acqua: laghi, fiumi, canali. Ogni volta che vi torno, atterrando con l´aereo, ho la sensazione di scendere in un bosco immenso. La gente vive nel verde, e il verde si riflette nella loro vita. Piena di cultura e musei, è una città che conta su un pubblico musicalmente preparato. Vi ho potuto realizzare stagioni a tema e programmi interdisciplinari, basati sull´intreccio tra musica, teatro, cinema, letteratura e arti visive. E l´orchestra dei Berliner ha ampliato il suo repertorio e si è rinnovata, diventando una delle formazioni più giovani del mondo».
Quando, nel febbraio del ´98, Abbado annuncia ai berlinesi di voler lasciare il prestigioso incarico nel 2002, sembra aver messo a fuoco una sorta di una premonizione inconscia: da lì a qualche mese scoprirà di avere un cancro allo stomaco. «Pensavo che fosse arrivato il momento. Considero tutto ciò che è venuto dopo un regalo». Dice che è la musica ad averlo guarito. E dopo l´operazione s´è avventurato in questo luminoso nuovo corso, come nel segno di una riconquistata giovinezza. È immerso nella musica e nell´ambiente con radicale amore e convinzione. Musica e natura possono salvare il mondo: come due facce di una medesima bellezza. «Forse la mia storia è cambiata anche con le piante. Nove ettari di costa, di fronte a casa mia in Sardegna, adesso sono un parco naturale. Vi ho piantato novemila piante, che oggi sono diventate molte, ma molte di più».
Abbado non è un pessimista. Preferisce concentrarsi sugli aspetti positivi, sugli animi costruttivi, sulle «iniziative esemplari di certe piccole città come Arezzo, dove s´è cominciato a utilizzare i sistemi energetici alternativi al petrolio, dal solare all´idrogeno». E nell´odierno clima italico tanto penalizzante per gli immigrati, il cosmopolita Abbado, nato e cresciuto a Milano e lanciatissimo nel mondo, si definisce un immigrato anch´egli, con fierezza: «Mia madre era palermitana, mio padre era un piemontese di origine araba. Il mio cognome proviene da Mohamed Abbad, principe di Siviglia nel 1040. Nel giardino dell´Alcazar c´è una colonna bianca dov´è impresso il nome. Quando ci sono andato per la prima volta mi sembrava d´esserci già stato, riconoscevo i luoghi, mi ci ritrovavo come se ci fossi nato». Crede nell´inconoscibile? «Credo che siano tante le cose che non si possono spiegare. Non credo nella reincarnazione ma in questa vita, adesso. Credo che la morte faccia parte della vita. Le abbiamo dato quel nome: morte, ma lei è vita, solo un aspetto della nostra esistenza».

sabato 7 giugno 2008

l’Unità 7.6.08
Dove abita il razzismo
di Luigi Manconi


Il sistema di valori e disvalori, stili di vita e di comportamento, l’anarchia e la sregolatezza quali tratti unificanti dell’omologazione culturale, veniva qualificata da Pasolini come «fascismo»

Ha senso oggi utilizzare quella categoria? Penso di sì, e proprio nel significato attribuitogli da Pasolini. Non è prerogativa esclusiva della destra ma con la destra ha affinità

Circola da tempo una cattiva retorica sotto-pasoliniana, rilanciata ed esaltata dai «fatti del Pigneto». Un gran parlare, signora mia, di omologazione culturale, degrado morale, crisi delle comunità e degli stili di vita tradizionali; e un esercitarsi in considerazioni addirittura più antropologiche che sociologiche sulla decadenza di «tutte le identità collettive». Sia chiaro: c’è qualcosa di vero in ciò. E, tuttavia, analizzare quanto sta accadendo nelle nostre città e metropoli (da Verona a Roma) solo, o principalmente, nei termini di un dibattito culturale, che privilegia i processi di disgregazione comunitaria e le forme nuove dell'irrazionalità, rischia di essere -se non fuorviante- perlomeno dispersivo. Non a caso, sia l’omicidio di Verona che i fatti del Pigneto risultano equiparati da una precipitosa esclusione dell'analisi politica, a tutto vantaggio di quella appunto «antropologica». Si dimentica che proprio il PierPaolo Pasolini che, se non citato, viene costantemente evocato, nell'analizzare i processi degenerativi della cultura proletaria e la sua progressiva «borghesizzazione», arrivava a utilizzare, alla fine, categorie politiche.
Il fascismo che richiamava era, evidentemente, non quello ideologico e tantomeno di regime, bensì quello culturale e, ancor più, «mentale».
Tale evocazione è ovviamente opinabile, ma non è certo campata in aria. Il sistema di valori e disvalori, stili di vita e di comportamento, l’anarchia e la sregolatezza quali tratti unificanti di una omologazione culturale inarrestabile, veniva qualificata da Pasolini come «fascismo»: non per criminalizzare quanti dal fascismo storico derivavano la loro collocazione politica - in altri termini il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante - bensì per allargare ed estendere quella categoria fino a vagheggiare la formazione di una sorta di nuovo «carattere nazionale». Ha senso utilizzare quella categoria oggi? Penso di sì, e proprio nel significato attribuitogli da Pasolini. Ciò esige una chiarificazione preliminare: il «fascismo» e, come in questo caso, il «razzismo», non sono ovviamente attribuibili alla sola destra politica e riducibili ad essa: e tanto meno alla sola destra estrema, extraparlamentare e - sotto alcuni aspetti - neonazista. Ciò per alcune ragioni: come insegna l’esperienza storica la sinistra non è immune da tentazioni xenofobe, e in alcune circostanze, apertamente razzistiche. Tantomeno lo è, immune da tentazioni xenofobe, una sinistra come quella attuale, che ha visto sgretolarsi, o comunque vacillare, alcune certezze ideologiche e valoriali. Come sempre, pertanto, è possibile rinvenire tracce di «razzismo» (e con maggiore frequenza di cultura reazionaria), in numerose componenti ed espressioni del campo che si autodefinisce di «sinistra». Resta, tuttavia, un dato. Tra «razzismo» e «neofascismo» e destra politica, in specie italiana, esiste incontrovertibilmente una maggiore affinità di quella intercorrente con la sinistra politica: si tratta di una affinità culturale-ideologica, ma anche di una sorta di corrività rinvenibile nei gruppi dirigenti e in settori organizzati delle formazioni interne al centro destra. È questo, dunque, che autorizza a far ricorso a quelle categorie politiche. In altre parole il «razzismo» e il «neofascismo» esprimono un sistema di valori che non è prerogativa esclusiva dell’area di destra, ma trova in quella stessa area assonanze culturali, intersecazioni, simpatie e, comunque, una maggiore omertà. Più in generale, anche quando il ricorso a linguaggi e argomenti di tipo «razzistico» o «neofascistico» si trovano in aree della sinistra, ciò non deve essere ritenuto un «mascheramento» o una «infiltrazione», ma appunto l’ampliarsi di quelle categorie oltre il perimetro delle sue radici originarie, il suo diffondersi parallelamente alla crisi delle culture e delle comunità tradizionali, il loro attrarre umori e sentimenti, a prescindere dalla scelta politica e di voto dei soggetti coinvolti. E allora, quel Che Guevara tatuato sull’avambraccio dell’«eroe del Pigneto»... significa, in realtà, ben poco. Quasi nulla. Se si andasse a vedere l’iconografia tatuata sui corpi reclusi nelle prigioni italiane, si scoprirebbe agevolmente un caotico intreccio di simboli, immagini, figure, slogan, che ha il solo effetto di trasmettere la sensazione di una disperata ricerca di riferimenti cui aggrapparsi. Non è necessario pertanto, in questo caso, riferirsi al tradizionale sincretismo di alcune sottoculture della destra radicale che da decenni utilizza simboli e icone della sinistra estrema: c’è anche questo, ma c’è soprattutto - per chi si tatua un avambraccio, o compie gesti analoghi - il senso che quel simbolo immediatamente trasmette: un avvicinamento bruciante e semplificato tra il simbolo e ciò che dice. Nessuna mediazione, nessuna contestualizzazione e nessuna interpretazione, oltre il suo messaggio più diretto. Che Guevara, qui, è semplicemente uno che insorge.
Tanto più, va detto, che non è il razzismo classico - quello basato sulla presunzione di superiorità etnico-gerarchica - la forma assunta oggi dall’ostilità verso lo straniero. È, piuttosto, una miscela composita e complessa, eppure a ben vedere tutt’altro che originale, dove intervengono sia pulsioni e argomenti esplicitamente di destra, sia pulsioni ed argomenti esplicitamente di sinistra, sia, infine, pulsioni e argomenti che attengono a quei processi di crisi dell’identità comunitaria o, meglio, di tutte le identità dotate di un qualche senso razionale e di una qualche capacità di accoglienza. Ciò viene sostituito da identità chiuse, che al paradigma della chiusura affidano interamente l’enfasi della propria soggettività e il senso della propria relazione (o mancata relazione) con il mondo. Ma qui si torna - si deve tornare - alla politica. Se la xenofobia (alla lettera: paura dello straniero) è una miscela cui contribuiscono emozioni e dinamiche di entrambi i campi politici, la responsabilità di questi ultimi è estremamente impegnativa. A essi, alla destra e alla sinistra, spetta il compito di elaborare strategie adeguate a garantire sicurezza alla collettività, politiche di integrazione culturale e sociale degli stranieri, ma anche un intransigente e intelligente ruolo pedagogico. È diventato luogo comune della mentalità nazionale un ardito sillogismo, cui offrono credibilità le maggiori fonti di informazione: dal momento che tra gli immigrati irregolari c’è chi commette reato, lo straniero irregolare diventa la minaccia; dal momento che le popolazioni locali temono quella minaccia, quella minaccia diventa la principale domanda politica; dal momento che punto prioritario del programma politico è la difesa dall’immigrato irregolare, la cancellazione dell’immigrato irregolare («fuori tutti i clandestini») viene proposta come la soluzione politica al problema dell’insicurezza collettiva e delle ansie sociali. Ciò ha prodotto quel sillogismo di cui si diceva, diventato rigido e ferreo come - appunto - un dispositivo di sicurezza, una tripla mandata, un chiavistello chiodato.
Quel sillogismo si fonda, sull’equazione immigrato = clandestino = criminale. È tale equazione che le culture politiche di sinistra e, a mio avviso, anche le culture politiche di destra che non vogliano indulgere in tentazioni razzistiche, devono decisamente respingere. Il respingerle non significa combattere contro quella equazione. Ciò è, sul piano della retorica, fin troppo facile. Si tratta, piuttosto, di sottrarre l’intero discorso pubblico e il complesso dei messaggi che si inviano (e dunque, cruciale ruolo del sistema dei media) alle molte implicazioni che quell’equazione comporta. Alle molte implicazioni, cioè, corrispondenti alle tante pieghe e alle infinite espressioni in cui quell’equazione si manifesta (o meglio: si cela), nel discorso quotidiano. È qui, infatti, che quell’equazione si riproduce, si diffonde, diventa verità incontrovertibile. Si pensi a quel dettaglio (che dettaglio è solo in apparenza) costituito dal ricorso al termine clandestino. A rigor di logica e di diritto, tale termine è improprio o comunque sproporzionato. Nella grandissima parte dei casi, quel clandestino è uno straniero titolare di un permesso di soggiorno scaduto o inadeguato, tale da comportare un illecito amministrativo. Finora, infatti, di questo si è trattato: dell’infrazione alle norme sull’ingresso e la permanenza nel territorio nazionale. Non un reato, appunto, ma un illecito.
E la grande differenza conseguente alla diversa qualificazione di quel fatto, (illecito amministrativo o fattispecie penale) si esprime nell’apparato sanzionatorio che l’una o l’altra classificazione comporta: se siamo in presenza di un illecito amministrativo non è prevista la detenzione; se siamo in presenza di un reato, la detenzione è possibile. Ma il ricorso a quel termine «clandestino», è profondamente e irreparabilmente denotativo e discriminatorio. Per capirci: l’irregolarità è sanabile, la clandestinità è solo punibile. Ecco, allora, un punto delicatissimo sul quale, davvero tutti - e senza eccezione (nel corso di una puntata di AnnoZero, si è parlato pressoché esclusivamente di «clandestini»)- risultano distratti. Si è consentito così che per una popolazione di numerose centinaia di migliaia di individui valesse una equazione grossolana e palesemente falsa.
Ovvero: in Italia si trovano tra i settecento mila e il milione di immigrati irregolari, equiparati a settecentomila-un milione di criminali. Ma in quella popolazione di irregolari, come è noto, ma com’è altrettanto facilmente dimenticato, ci sono alcune centinaia di migliaia di badanti e colf, di edili e lavapiatti, di metalmeccanici, pescatori, contadini, pastori, artigiani…Tutto ciò, evidentemente, non significa in alcun modo che l’Italia - per rispondere alla più triviale e ricorrente delle domande - sia diventata un paese «razzista». Ma che si stia incattivendo, questo sì.

l’Unità 7.6.08
Silvio IV: «Dobbiamo compiacere la Chiesa»
L’incontro con il Papa diventa un atto di sottomissione: e promette il quoziente familiare nel Dpef di Natalia Lombardo


DUE BACIAMANO esagerati a Papa Benedetto XVI suggellano il senso della visita di Silvio Berlusconi in Vaticano. Un senso anticipato dure ore prima delle reti di casa Mediaset: «L’attività del governo non può che compiacere lo Stato e la sua Chiesa», ha
detto il presidente del Consiglio intervenuto al telefono con Belpietro su Canale5, nel quale ha «ringraziato» l’apprezzamento del Papa al «nuovo clima» che si è creato col suo governo.
Il corteo di auto con Berlusconi è arrivato al cortile di San Damaso all’interno della Città del Vaticano alle 10,45, con un leggero anticipo. Accompagnato da Gianni Letta, Paolo Bonaiuti, l’ambasciatore presso la Santa Sede, Zanardi Landi, Mauro Masi e altri funzionari di Palazzo Chigi, unica donna Anna Nardini, capo Ufficio studi in nero e veletta. Accolti dal picchetto delle Guardie Svizzere e dal prefetto della Casa Pontificia, hanno atteso dieci minuti nella sala del tronetto: un Berlusconi in doppiopetto blu molto ciarliero con i vari «gentiluomini» di Sua Santità; lo è diventato l’anno scorso anche Letta, che cercava di calmierare l’allegria di Silvio IV, più da party che da anticamera vaticana.
Papa Ratzinger ha salutato il premier col suo accento tedesco, l’altro si è tuffato a baciare l’anello del Pescatore del pontefice, anziché accennare il gesto come da protocollo, rispettato da Letta.
L’«Eminenza azzurrina» ha partecipato all’incontro a porte chiuse nella biblioteca del pontefice. Il clima sembra cordiale fin dall’inizio, un po’ lo stesso copione del 2005. Berlusconi, per la quinta volta in Vaticano, rompe l’imbarazzo suscitandolo negli altri. Inizia con le battute ai fotografi: «Sono più bravi a piazzare le foto che a farle», poi lascia di stucco il Capo del Cerimoniale di Palazzo Chigi, Eugenio Ficorilli, quando davanti al pontefice si è chinato ad abbottonargli la giacca: «Non ha ancora imparato ad allacciarsi i bottoni...», maligna Silvio che insiste: «Santità, guardi cosa deve fare un Presidente del Consiglio...».
L’incontro non ufficiale ma in forma privata, preparato da giorni, ha toccato vari temi accennati per titoli nei comunicati di Palazzo Chigi e della Santa Sede. La famiglia, con assicurazioni da parte del premier sull’aumento degli aiuti, anche alla scuola privata e sul «quoziente familiare» nel Dpef di giugno. Poi i temi internazionali come il Libano, il processo di pace in Medio Oriente, fino alla Russia e la Cina, l’emergenza alimentare, spiega il comunicato che sottolinea «ampie identità di vedute». Nell’inusuale intervista che ha anticipato l’incontro, sull’Osservatore Romano e su Radio vaticana, Berlusconi dà via libera agli Ogm, bloccati da Alemanno quand’era ministro.
Il tema dell’immigrazione non è citato, ma la cautela del premier sul reato di ingresso clandestino che preoccupa il Vaticano, si rivela nel passaggio sul rispetto dei «valori di libertà e tolleranza e sacralità della persona» e la rassicurazione al Papa di un «percorso parlamentare» del ddl. A Canale5 Berlusconi ha ribadito «la linea della fermezza», ma anche i dubbi sulla «funzionalità» del reato.
Ben disposto Benedetto XVI, atteggiamento reverenziale da Silvio IV. Il quale maschera il suo spirito settecentesco (quell’«anarchia di valori» criticata dalle gerarchie ecclesiastiche) con la religiosità di chi gli è vicino. O lo era. Come Mamma Rosa: il pontefice ricorda di averle regalato un rosario l’anno scorso durante un’udienza privata. «Aveva una fede straordinaria», racconta il premier, ed era devota ad alcune «suorine» che la volevano incontrare anche quando non stava più bene...
Quaranta minuti di colloquio, poco più della media. Poi il saluto della delegazione di Palazzo Chigi con altri baciamano, («la vedo sempre in televisione», dice il Papa a Bonaiuti) e scambi di omaggi. Da Berlusconi una vistosa croce d’oro con 11 topazi e un diamante naturale fancy brown, simboli di «concordia e temperanza» (fra Stato e Chiesa?). Silvio la illustra con fare da venditore aprendo un foglio di «expertise»: «È un modello unico, l’abbiamo fatto fare apposta per lei... Quando ha un attimo lo legga, ci sono le significanze di ogni pietra». «Lo farò...» risponde il Papa tedesco, che ricambia con una penna-colonna creata per i 500 anni della Basilica Vaticana e una stampa del ‘600.
Col secondo baciamano si chiude l’incontro, poi un colloquio di tre quarti d’ora con il cardinale Tarcisio Bertone, alle 12,40 il corteo riparte. Berlusconi raccomanda ai suoi, come fossero scolaretti: «Adesso dovete lavorare di più, con più passione e più entusiasmo. Il Santo Padre vi ha fatto un grande regalo».

l’Unità 7.6.08
Scuole cattoliche, legge 40 e la benedizione vaticana
di Roberto Monteforte


La benedizione c’è stata. Come pure la genuflessione. Può essere soddisfatto Silvio Berlusconi dell’udienza di ieri con papa Benedetto XVI con tanto di baciamano. Si può sentire rassicurato papa Ratzinger e il suo stretto collaboratore, il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, che hanno deciso di puntare sulla «carta Berlusconi» e sul «nuovo corso» politico maturato con il dopo voto. Se stabilità, governabilità e dialogo tra maggioranza e opposizione «nell’interesse superiore del paese» sono la cornice fondamentale indicati dalla Chiesa e dallo stesso pontefice per risollevare il Paese dalla sua crisi, allora pare proprio che il governo di centrodestra si sia accredidato come sponda affidabile e ancora più robusta dopo il responso elettorale.
Non solo per le opportunità che offrirebbe il «nuovo clima» politico. L’apertura di credito è anche sui contenuti, su temi come la difesa della vita e la dignità della persona, sulle risposte concrete da dare alle domande delle della famiglie e all’emergenza educativa, che consentano di garantire un futuro alle giovani generazioni, compresi quegli stanziamenti a favore delle scuole cattoliche, sui temi etici e sulla possibilità di coniugare sicurezza e risposte rispettose della dignità delle persone anche al fenomeno dell’immigrazione.
Il presidente del Consiglio pare accettare la sfida. Mostra la sua disponibilità ad affrontare l’agenda fitta e impegnativa indicata da Benedetto XVI nel suo discorso alla recente assemblea dei vescovi italiani. Un discorso che deve essere stato studiato a fondo dallo staff di Palazzo Chigi. Se aveva già anticipato una sua disponibilità nell’inusuale intervista congiunta concessa a «Radio Vaticana» e all’«Osservatore Romano» che ha spianato la strada all’incontro di ieri, l’ha ribadita nell’intervista resa ieri mattina alla «sua emittente», «Canale 5». «L’atteggiamento del governo - afferma - non può che compiacere il Pontefice e la sua Chiesa». È un impegno preciso.
La conferma arriva poco dopo. Nella mezz’ora abbondante di colloquio di Silvio Berlusconi, assistito da Gianni Letta, con Benedetto XVI nella Biblioteca privata del pontefice. Definito «lungo e cordialissimo» da una nota Palazzo Chigi e più sobriamente «cordiale» la «nota vaticana». Offre la disponilità del governo il premier. Lo farà anche nell’incontro tra la delegazione italiana e quella vaticana guidata dal segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. Un’altra quarantina di minuti per affrontare in modo più approfondito per «un giro d’orizzonti» sui temi. Vi è piena identità di vedute tra l’Italia e la Santa Sede e non solo sui nodi di politica estera (dal Medio Oriente al Libano, alla Cina e alla Russia sino all’emergenza alimentare e al sostegno ai paesi più deboli). Quello che Berlusconi ribadisce è il forte apprezzamento per «il contributo della Chiesa cattolica alla vita del paese» e per la «costruttiva collaborazione» bilaterale e a livello europeo, per il suo contributo «nella sua azione sul piano interno e internazionale ai valori di libertà e tolleranza ed alla sacralità della persona umana e della famiglia». Parole suadenti e rassicuranti, pronunciate tra sorrisi e cordialità che devono essere state apprezzate in Vaticano. Ma i punti fermi restano, compresa quella richiesta di coniugare tolleranza e rispetto della persona umana e della vita. Che per la Chiesa vuole dire sicuramente politiche a sostegno della vita e contro l’aborto, ma anche porsi il tema dell’immigrazione garantendo adeguate politiche dell’accoglienza e dell’integrazione, senza imbracciare il fucile. Questo vuole dire mettere da parte il reato di immigrazione clandestina. Si mostra disponibile il premier. Afferma di ritenerlo «impraticabile». È un gesto apprezzato.
Per definire le soluzioni concrete c’è tempo. Soprattutto perché il governo si presenta solido. Dà l’idea di durare. Sui temi che richiamano il «bene comune» può contare sull’appoggio dell’opposizione. E si presenta pronto ad accogliere le sollecitazioni della Chiesa.
Come ha ribadito il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco quello che conta davvero e su cui si giudica un governo, «sono i frutti». Le risposte concrete che vengono date. Per ora vi è la benedizione del Papa e della Chiesa e il governo Berlusconi incassa. Si vedrà se arriveranno e quando il «quoziente familiare» e gli altri aiuti alle famiglie, le decisioni a favore della vita, lo stop a quelle misure come le linee guida sulla legge 40 sulla fecondazione assistita della Turco, ritenute eticamente sensibili e quei finanziamenti alle scuole cattoliche esplicitamente richiesti dal Papa. Per ora Berlusconi assicura «la volontà di continuare la costruttiva cooperazione» tra Santa Sede e Italia.

l’Unità 7.6.08
Clandestini, i magistrati contro il governo
Durissima accusa dell’Anm: «Se passa il reato il sistema giudiziario va in tilt»
di Massimo Solani


IL CLIMA di collaborazione e reciproco ascolto fra governo e magistratura rischia di infrangersi subito sullo scoglio dei primi atti della nuova maggioranza.
Perché alle toghe, da ieri riunite a Roma per il 29° congresso dell’Anm, non sono piaciuti i primi passi dell’esecutivo in materia di sicurezza, a partire dal reato di immigrazione clandestina. «Sul punto - ha infatti spiegato nella relazione inaugurale il presidente Luca Palamara, riferendosi all’incontro avuto col ministro della Giustizia il 28 maggio scorso - abbiamo sottolineato le gravissime disfunzioni per il sistema giudiziario e carcerario che deriverebbero da tale previsione. Tutto ciò senza alcun reale beneficio». Un affondo durissimo, esteso anche all’aggravante per i reati commessi da immigrati clandestini. Che, secondo Palamara, genera «perplessità» sulla sua costituzionalità perché «potrebbe determinare un aumento della pena esclusivamente in ragione della condizione del colpevole» violando così «il principio di eguaglianza». Parole che non sono piaciute al Guardasigilli Angelino Alfano che ha rispedito al mittente le critiche spiegando che il reato di immigrazione clandestina è «presente in numerose legislazioni e non ha prodotto guasti». «Riteniamo che possa essere una misura di deterrenza forte - ha proseguito il ministro - In parlamento troveremo la soluzione più equilibrata». Meno diplomatica, invece, la reazione del presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri. «L’Anm invece di contribuire ad aumentare il tasso di sicurezza nel nostro paese - ha risposto attraverso una nota al vetriolo - si abbandona a critiche contro le nuove norme. Per fortuna in democrazia il Parlamento è sovrano».
Ma la doppia bocciatura al governo è diventata tripla quando il neo presidente dell’Anm ha puntato il dito contro le norme varate per fronteggiare l’emergenza rifiuti a Napoli con cui si punta a creare una superprocura competente per i reati ambientali e un giudice collegiale per le misure cautelari. «Strumenti che - ha spiegato - non sono consentiti dal nostro ordinamento». Perplessità simili a quelle che la sesta commissione del Csm si sta apprestando a mettere nero su bianco per il parere che verrà discusso lunedì dal Plenum di Palazzo dei Marescialli.
Ma non è tutto: perché nella giornata inaugurale del congresso dell’Anm, che oggi si appresta ad accogliere il ministro della Giustizia, il faccia a faccia a distanza Alfano Palamara si è arricchito di un quarto ed ultimo capitolo. Perché, da Lussemburgo, il ministro aveva appena finito di illustrare la sua condivisione all’emendamento introdotto nel pacchetto sicurezza che dichiara le prostitute «pericolose per la morale» quando il presidente dell’Anm si è di nuovo messo di traverso facendosi portavoce di una opinione pressoché unanime fra le toghe. «Penso che la piaga del nostro paese sia lo sfruttamento, non le prostitute che diventano vittime del traffico di esseri umani - ha risposto infatti il pm della procura di Roma ai cronisti che gli chiedevano un commento - Obiettivo del legislatore e dei magistrati deve essere quello di individuare e colpire gli sfruttatori». Un’ultima staffilata che faceva dire a Lanfranco Tenaglia, ministro della Giustizia del governo-ombra del Pd, che «il giudizio dell’Anm riflette le considerazioni che noi facciamo da tempo, quindi ci conforta».

l’Unità 7.6.08
Shaul Mofaz Il vicepremier: Ahmadinejad va preso sul serio, il mondo libero non può più sottovalutare le sue minacce
«L’Iran fermi il riarmo nucleare o Israele l’attaccherà»
di Umberto De Giovannangeli


Capo di stato maggiore e ministro della Difesa tra il 2002 e il 2006, oggi vice premier, Shaul Mofaz contende la leadership di Kadima al primo ministro Ehud Olmert. Una sfida che investe la priorità assoluta per Israele: come garantire la sua sicurezza. Mofaz guarda soprattutto all’Iran - Paese che conosce bene, essendo nato a Teheran - e alla «minaccia mortale» per lo Stato ebraico rappresentata da un «regime teocratico che intende dotarsi dell’arma nucleare per realizzare il suo obiettivo dichiarato: distruggere Israele», afferma il vice premier israeliano. Per Mofaz la risposta di Israele deve essere «decisa, risolutiva». L’opzione militare è in campo, sottolinea l’ex capo di stato maggiore, ed essa va attivata con il sostegno degli Usa. «In nessun caso - avverte il vice premier - Israele tollererebbe l’eventualità che armi nucleari siano in possesso dell’Iran».
A Roma, nei giorni del summit mondiale della Fao, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha rilanciato la sua sfida a Israele: il regime sionista, ha detto, finirà presto.
«Scomparirà prima lui di Israele. Questa non è una speranza. È una certezza».
C’è chi sostiene che le minacce del presidente iraniano siano solo propaganda a fini interni.
«Non sono di questo avviso. Guai a sottovalutare il pericolo iraniano. L’Iran è la più grande minaccia dal tempo dei nazisti. Quelle di Ahmadinejad non sono le farneticazioni di un esagitato. Sono le parole del capo di uno Stato che fa parte delle Nazioni Unite e che continua impunemente ad usare le tribune internazionali, ultima quella della Fao, per propugnare il suo odio antisemita e istigare alla violenza contro Israele. Nella storia dell’Onu non è mia accaduto che uno Stato membro dichiarasse esplicitamente la sua volontà di distruggere un altro Stato membro delle Nazioni Unite. Quando nega l’Olocausto, Ahmadinejad esorta a un altro Olocausto. La comunità internazionale avrebbe dovuto già da tempo considerare un individuo del genere persona non gradita invece di concedergli ogni opportunità per rinvigorire le sue minacce a Israele. L’Iran è una minaccia per noi ma lo è anche per il mondo libero. Non solo perché persegue i suoi piani di riarmo nucleare, che se portati a compimento determinerebbero una corsa alla bomba atomica di altri Paesi arabi sunniti - come l’Egitto e l’Arabia Saudita - che si sentirebbero anch’essi minacciati dall’”atomica sciita”, ma anche per il sostegno incessante, militare, logistico, finanziario, che Teheran fornisce ai più pericolosi gruppi terroristici mediorientali».
Di fronte a una tale minaccia, cosa resta da fare, a suo avviso, a Israele?
«Se l’Iran proseguirà il suo programma di riarmo nucleare, noi non avremmo altra scelta che attaccarlo. Di fronte alla determinazione del regime iraniano, tutte le altre opzioni sembrano destinate al fallimento. Le sanzioni si stanno rilevando inefficaci, e ancor meno incisive si mostrano le pressioni diplomatiche. Questa, purtroppo, è la realtà dei fatti. L’Iran ha già oggi missili a lunga gittata in grado di colpire pesantemente non solo Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, ma anche Roma, Madrid… L’Iran porta avanti la sua strategia destabilizzante fornendo armi e istruttori ad Hamas, Hezbollah, ai gruppi della Jihad islamica. Arma i nemici della pace e prosegue nella costruzione della bomba atomica, il cui utilizzo è chiaro. In questa situazione, e in assenza di un ripensamento che appare inimmaginabile da parte del regime iraniano, Israele non ha altra scelta che attaccare l’Iran per fermare il suo programma nucleare».
Ma Israele potrebbe praticare questa opzione senza o addirittura contro la volontà degli Stati Uniti?
«Sulla portata della minaccia iraniana c’è assoluta convergenza di vedute tra noi e gli Stati Uniti. Non mi riferisco solo all’attuale presidente, ma anche ai due candidati che si contenderanno la Casa Bianca. Il recente discorso del senatore Obama è stato in questo senso molto importante e impegnativo, come lo sono stati i pronunciamenti del senatore McCain: l’America è consapevole del pericolo iraniano. E sarà a nostro fianco nel momento della verità».
Da un fronte all’altro. Come valuta i colloqui avviati, con la mediazione del governo turco, tra Israele e la Siria?
«La via del negoziato è sempre auspicabile se le due parti sono realmente intenzionate a praticarla. Dubito però che sia così per la Siria, che ancora oggi, al di là delle dichiarazioni di facciata, continua ad essere parte attiva del fronte degli estremisti».
Damasco ha ribadito che un negoziato diretto con Israele deve contemplare la restituzione delle Alture del Golan.
«Si tratta di una richiesta inaccettabile, almeno per quanto mi riguarda. La Siria è legata strettamente all’Iran. E come è già avvenuto nel Libano meridionale e nella Striscia di Gaza, gli iraniani si installerebbero anche sul Golan, un altopiano dall’enorme valore strategico».
Ha collaborato Cesare Pavoncello

l’Unità 7.6.08
Brecht: a lezione di tolleranza dal cinese
di Riccardo De Gennaro


C’è, per fortuna, un siero antiveleno anche per questa nuova stagione di aggressioni e devastazione che ricorda le cupe atmosfere dell’Uovo del Serpente, il film di Ingmar Bergmann sui primi anni della repubblica di Weimar. Il siero si chiama Bertolt Brecht e i giovani che non lo conoscono farebbero bene ad assumerne una dose robusta, ora che la guardia contro la violenza e l’ideologia fascista è stata pericolosamente abbassata. Perché il comunismo di Brecht, che con Stalin non ebbe mai nulla da spartire, era prima di tutto questo: l’opposizione più salda e fiera al nazifascismo. Da giovane Brecht era anarchico e ribelle. Poi, una volta scoperto Marx, visse la sua lunga fase comunista (ma quando si trattò di fuggire da Berlino si rifugiò in Danimarca, non a Mosca: «Non avrei potuto trovarci abbastanza zucchero per il mio caffè», disse con una battuta). Non ebbe difficoltà a rendersi conto con largo anticipo del tragico fallimento del socialismo reale: «Il comunismo è stato solo accennato, mai messo in pratica», precisò negli ultimi anni. A quel punto diede carta bianca all’antico saggio cinese che viveva in lui e che gli aveva trasmesso forza nei momenti difficili: non è un caso se nel lungo esilio portò sempre con sé un rotolo contenente il ritratto di un saggio cinese da appendere nel suo studio, a Svendborg, come a Parigi, come a New York.
Più che nel corpus principale delle opere teatrali, dove prevalgono la didattica marxista e la militanza politica, l’anima «taoista» dell’autore dell’Opera da tre soldi si manifesta nella narrativa e nella sterminata produzione poetica. In particolare, nei brevissimi racconti in forma di parabola o di apologo, contenuti in Me-ti, il libro delle svolte, nelle Storie da calendario e in questo prezioso libretto intitolato Storie del signor Keuner, pubblicato ora da Einaudi in versione integrale (pagine 139, euro 15,00). Tali storie, o «storielle», avevano fatto parte finora proprio delle Storie da calendario, ma il ritrovamento, tra le carte del drammaturgo tedesco, di quindici testi inediti aventi come protagonista lo stesso Keuner hanno spinto la casa editrice tedesca Suhrkamp a farne un libro completo e indipendente, prontamente tradotto dalla casa torinese dello Struzzo.
Ma chi è il signor Keuner, che ha accompagnato Brecht nella scrittura dal 1930 al 1956, l’anno della sua morte? È, appunto, il filosofo cinese che viveva in lui, filtrato dall’esperienza marxista e animato da una straordinaria tensione morale. Nel Libro delle svolte, Brecht è Me-ti, il Brecht teorico, dottrinario, politico, ma anche Kin-jeh o Ken-jeh, il poeta innamorato, che predica il contegno, la serenità, la cortesia e la benevolenza. Keuner, altrimenti detto «il pensatore», è la più compiuta fusione tra queste due anime. Ha qualcosa del signor K. (anche Kafka aveva nella sua stanza il ritratto di un vecchio saggio cinese) e conta tra i suoi discendenti anche il signor Palomar di Italo Calvino.
La verità è concreta, sosteneva Brecht. Le storie del signor Keuner (non soltanto «detti memorabili», ma scene, situazioni esemplari, teatro minimo, le ha definite Franco Fortini) contengono esattamente quel tipo di verità. Come scrive Moni Ovadia nella prefazione al libro, «sono un manuale di sopravvivenza in tempi di esilio e di perdita di senso: propongono la radicalità del pensiero come arma di resistenza per non soccombere al mondo e a se stessi». Non ce n’è forse bisogno soprattutto adesso?
Per spiegare che cosa sia la «verità concreta» basta una di queste storielle. Un giorno da Keuner si presenta un professore di filosofia, che intende raccontagli della sua saggezza. Keuner lo ascolta, poi lo interrompe. «Tu siedi scomodamente, parli scomodamente, pensi scomodamente», lo rimprovera. Il professore si arrabbia, gli dice che non voleva sapere qualcosa di sé, ma sul contenuto del suo discorso. Keuner lo raggela: «Non ha contenuto. Parli in modo oscuro e dalle tue parole non viene alcuna luce. Non vedo la tua meta, ma il tuo atteggiamento». Verità concreta. Grazie a Keuner, Brecht tocca vette d’inaspettata ironia: «Anch’io una volta ho assunto un atteggiamento aristocratico (sapete bene: diritto, impettito e superbo, la testa gettata all’indietro). Stavo infatti in una marea montante. Quando mi giunse al mento, assunsi quell’atteggiamento».
Oltre alla verità, i temi più cari a Keuner sono la saggezza, la povertà, l’onestà, l’amicizia, la poesia. Essendo un pensatore, gli preme innanzitutto la sobrietà: «Il pensatore non adopera un lume di troppo, un pane di tropp, un pensiero di troppo». Ama, infatti, più il contegno dell’azione e ai molti pensieri ne preferisce pochi: «Essenziale non è ciò che penso, bensì che penso poco». Vive con poco e non gli importa dove: «Posso patire la fame dovunque», dice. Se va in collera è soltanto quando incontra un nazionalista e, per un minuto, diventa nazionalista anch’egli. «Ed è per questo - riflette - che bisogna estirpare l’imbecillità, giacché essa rende imbecille chi la incontra». Un programma al quale oggi sarebbe urgente aderire.

Corriere della Sera 7.6.08
Il menestrello del rock non aveva mai appoggiato un candidato
Bob Dylan scommette su Barack «Cambierà l'America dal basso»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Quando snobbò i tour «Rock the Vote» di Bruce Springsteen per sostenere i candidati democratici Al Gore e John Kerry — entrambi poi perdenti — i critici gli dettero del «solito qualunquista». Ma se in mezzo secolo di leggenda Bob Dylan non ha mai pubblicamente appoggiato un candidato, neppure lui ha saputo resistere al trascinante fascino di Barack Obama. In una rara intervista al Times di Londra, il 67enne mito della musica dà per la prima volta il suo endorsement. Ad Obama. «L'America è in una fase di tumultuoso cambiamento — spiega Dylan —. La povertà è demoralizzante. Non ti puoi aspettare che la gente abbia la virtù della purezza quando è povera ». «Però — aggiunge — ora abbiamo un uomo che sta ridefinendo la natura della politica partendo dal basso: Barack Obama». Dylan si dice ottimista: «Si, spero che le cose possano cambiare. Alcune cose devono cambiare ». E conclude: «Dovresti sempre prendere il meglio dal passato, lasciarti alle spalle il peggio, e andare avanti nel futuro». Parole ricche di potere simbolico se è vero che, come ricorda il Times, «Dylan è il simbolo della generazione degli anni 60 e, insieme, l'architetto dietro il magico slogan "obamiano" all'insegna del cambiamento».
Il suo inno di protesta The Times They are A-Changin', del '64, sembra rivolgersi all'«era Obama» quando si appella a «critici e scrittori, senatori e deputati, madri e padri»; «non state sulla porta, non bloccate il passaggio »; «non criticate quello che non potete capire», perché «La vostra vecchia via sta decadendo molto in fretta » e «i tempi stanno per cambiare» (da Bob Dylan Lyrics 1962-2001, Feltrinelli). La notizia dell'endorsement è subito rimbalzata sul sito ufficiale
BarackObama.com. Tripudio per i fan del senatore dell'Illinois, che dal suo profilo personale su Facebook avevano già appreso che Dylan è il suo musicista preferito, insieme a Miles Davis, John Coltrane, Bach, Stevie Wonder e The Fugees. Barack, dopotutto, è cresciuto ascoltando Only a Pawn in Their Game e The Lonesome Death of Hattie Carroll, entrambi ispirati a due delitti razzisti del 1963, rimasti impuniti, contro neri innocenti: l'omicidio da parte di un white supremacist di Medgar Evers, attivista per i diritti civili e quello di Hattie, cameriera 51enne madre di 11 figli, uccisa dal 24enne proprietario di una piantagione di tabacco.
La mattina del 28 agosto 1963 Dylan eseguì Only a Pawn ai piedi del monumento a Washington, poche ore prima che Martin Luther King pronunciasse il suo discorso «I Have A Dream» davanti al Lincoln Memorial. Quarantacinque anni più tardi, suo figlio Jesse Dylan ha prodotto insieme ai Black Eyed Peas il cliccatissimo video musicale pro Obama con Kareem Abdul-Jabbar, Herbie Hanckock e Scarlett Johansson. Sarebbe stato Jesse a «convertire» il padre, insieme a Joan Baez, la sua ex. Anche per lei è il primo endorsement ufficiale.

Repubblica 7.6.08
Shakespeare filosofo
di Leopoldo Fabiani

Il genio di William Shakespeare è stato celebrato, commentato, analizzato in innumerevoli modi. Tra i meno consueti è sostenere la tesi il grande Bardo sia stato anche filosofo. Colin McGinn, studioso di filosofia della università di Miami, formatosi a Oxford, collaboratore della London Review of Books, ha esaminato sei capolavori shakespeariani (Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth, Sogno di una notte di mezza estate e La tempesta) in chiave filosofica e ne ha tratto un libro che negli Stati Uniti ha suscitato molta curiosità e qualche discussione: Shakespeare filosofo. Il significato nascosto nella sua opera, che sarà pubblicato a luglio dall´editore Fazi.
L´idea che sta alla base del libro è che nelle sue opere Shakespeare abbia tentato di dare risposta a questioni squisitamente filosofiche come l´effettiva consistenza dell´"Io", la funzione manipolatoria del linguaggio, il concetto di causa, la possibilità della conoscenza del mondo da parte dell´uomo. E che il "genio senza tempo" sia stato comunque un uomo ben piantato nella sua epoca, influenzato da quanto gli avveniva intorno e attento alle novità. Secondo McGinn Shakespeare avrebbe conosciuto e sarebbe stato profondamente influenzato dalle opere di Montaigne (il cui saggio sui cannibali sarebbe a tra le fonti della Tempesta), e sarebbe poi approdato a una concezione scettica della vita (che viene dedotta in particolare dall´Amleto). Anche se l´idea che pensatori come Hume e Wittgenstein siano stati ispirati dal "canone" shakespeariano ha suscitato più di un dubbio, senz´altro il libro di McGinn apre prospettive nuove su un´opera di cui è facile pensare che tutto sia già stato detto.

Repubblica 7.6.08
La sinistra senza ideologia
di Nadia Urbinati

Se chiediamo a un elettore del Pdl le ragioni del suo voto, non avremo difficoltà a comprendere che tra le sue idee e quelle espresse dai ministri e rappresentanti del Pdl esiste una forte sintonia. Comunque giudichiamo quelle idee, è indubbio che la coalizione che ha vinto le elezioni ha un linguaggio ideologico strutturato e un nucleo di valori riconoscibili a chi li condivide e agli altri. La sua forza sta proprio qui, nel fatto di avere un peso che non è solo numerico. Sembra che da questa parte dello spettro politico la ricomposizione dei partiti nel dopo-1992 sia avvenuta e la transizione verso un nuovo assetto di valori e di soggetti politici si sia conclusa. Lo stesso non si può dire della parte sinistra.
A sinistra, la transizione è ancora in corso o probabilmente appena cominciata. La contro-prova? Se chiediamo a un elettore del Pd le ragioni del suo voto non ci vorrà molto a comprendere che, a parte la sacrosanta ragione "contro", manca tra lui e i suoi rappresentanti una comunanza di linguaggio e soprattutto comuni valori o punti di riferimento che valgano a orientare i giudizi politici. Anzi, su questioni centrali come la sicurezza e l´immigrazione, le idee dell´elettore Pd non paiono così diverse da quelle degli elettori del Pdl, salvo essere più moderate e meno populistiche (la qual cosa è comunque apprezzabile). Lo stesso si può dire della sinistra che siede in Parlamento, la cui agenda politica consiste di fatto in un´azione di aggiustamento delle posizioni della destra, per moderarne il tono più che invertirne la tendenza. Il centro-sinistra, e il Pd come suo partito più rilevante, sembra mancare di un´autonoma visione di società giusta o desiderabile, di un linguaggio o un nucleo di valori riconoscibili ai propri sostenitori e agli avversari. E c´è seriamente da dubitare che gli elettori del Pd comprendano o si identifichino sempre con ciò che i loro rappresentanti di volta in volta dicono o fanno.
La sinistra è afona perché è vuota di idealità, ed è vuota di idealità anche perché ha sottovalutato (e continua a sottovalutare) il ruolo dell´ideologia nella democrazia rappresentativa. Per anni abbiamo letto della fine delle ideologie come di un segno di avanzamento della razionalità politica e della modernità (un´espressione ripetuta ad nauseam) – abbiamo appreso che l´ideologia denota fideismo e un´identificazione quasi-religiosa, fattori che sono di ostacolo alla formazione di un giudizio politico spassionato e imparziale. È interessante osservare come l´appello alla politica come imparzialità abbia avuto successo essenzialmente solo a sinistra. Molta parte delle stessa teoria politica, quella liberale non meno di quella democratica, ha contribuito a questo scivolamento normativista della politica, coltivando l´idea, sbagliata, che gli elettori che si recano alle urne siano come i giudici che siedono in tribunale: che lascino a casa opinioni, passioni e interessi per avvalersi solo di una razionalità imparziale. Ma i cittadini (e i loro rappresentanti) non sono come i giudici né come i tecnici o gli amministratori di un´azienda. La ragione del giudice e quella della politica deliberativa non sono forme identiche di giudizio, anche se è desiderabile che il cittadino democratico sappia riconoscerne la differenza.
Indubbiamente le ideologie dei partiti di massa che hanno contribuito a ricostruire le democrazie nel dopoguerra sono definitivamente tramontate e con esse anche quel tipo religioso di ideologia. Ma l´ideologia non è solo fideismo mentre, d´altro canto, non è tramontato il bisogno di ideologia proprio perché le esperienze, le frustrazioni e le speranze che ci portiamo dietro quando andiamo (o non andiamo) a votare hanno bisogno di essere legate in un discorso compiuto che ci consenta di trascendere la nostra esperienza personale per riconoscerci come parte di un progetto pubblico più vasto e per riconoscere i nostri rappresentanti. Un popolo di elettori dissociati non è per se stesso capace di iniziativa politica. Ma una democrazia rappresentativa non è una folla di elettori dissociati come atomi, bensì una collettività di cittadini capaci di iniziativa politica, di giudizio e azione critica. L´iniziativa politica si avvale di un discorso compiuto nel quale gli attori (le idee e i loro portatori) devono poter essere riconoscibili per essere scelti e valutati. Ecco perché le democrazie rappresentative hanno un bisogno strutturale di ideologia. Hanno bisogno di punti di riferimento simbolici o ideali che consentano di raccogliere in unità i nostri interessi concreti e le nostre singole opinioni, distinguendoli da quelli di altri. È semplicemente insensato pensare che la democrazia possa esistere senza ideologie. Insensato e assurdo perché se davvero noi votassimo per candidati con i quali non ci sono legami ideali, non potremmo neppure operare alcun controllo indiretto su di loro, né quindi giudicarne l´operato a fine mandato. Senza una politica delle idee non c´è posto per il mandato politico.
La destra ha compreso molto più velocemente e meglio della sinistra la necessità dell´ideologia e si è mostrata capace di usarla sia come insopportabile adesione fideistica sia, e questo è più interessante, come linguaggio etico: il discorso della compassione e della benevolenza come correttivo del mercato, della critica comunitaria del "mercatismo" globale per dirla con il ministro Giulio Tremonti è, mi faceva giustamente notare un amico, l´unico discorso ideologico oggi in circolazione in Italia, l´unico punto di riferimento capace di orientare l´agire politico. Per quanto riguarda la sinistra, da anni essa sembra mossa da una logica autolesionistica improntata alla sistematica volontà di recidere legami ideali e infine sopprimere anche i luoghi di aggregazione. Scomparse le sezioni dei partiti, scomparso l´associazionismo politico che non sia solo militanza elettorale, si è ora pensato bene di mettere in questione (con l´intenzione di cambiarne il nome) anche un tradizionale appuntamento annuale di lavoro aggregativo come le feste dell´Unità. A chi giova? Una classe politica che non ha legami stabili e simbolici con il territorio e i suoi elettori non è soltanto un ceto politico autoreferenziale, ma anche una classe politica meno controllabile, il segno di una preoccupante trasformazione oligarchica.

il Riformista 7.6.08
Lo vuole ministro degli esteri ue per disinnescare la sfida nel pd
Veltroni cerca una poltrona europea per D'Alema


«Se non puoi batterlo, fattelo amico», recita il noto motto. «Se non puoi fartelo amico, trovagli un posto in Europa», suggerisce la chiosa all'italiana. Una variante che deve essere ben chiara a Walter Veltroni, se è vero che negli ultimi tempi il leader del Pd si sta muovendo per far ottenere a Massimo D'Alema un importante incarico a livello continentale: un modo per impreziosire il già ricco curriculum dell'ex ministro degli Esteri, e soprattutto di sottrarlo in via definitiva allo scontro interno al Pd, dove il fronte dalemiano resta il più critico sulle mosse (o «i continui errori», come si preferisce dire da quelle parti) di Veltroni. E l'occasione è data dalla nuova governance che l'Europa si darà a partire dal 2009 come previsto dal trattato di Lisbona, che istituisce la nuova figura del presidente del Consiglio europeo, ma anche quella dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. In due parole, il ministro degli Esteri dell'Ue. La casella ideale per gli interessi di D'Alema. Il quale, per quel che trapela dal quartier generale della fondazione Italianieuropei, è a conoscenza dell'attivismo di Veltroni e certo non è insensibile all'ipotesi di una carriera europea.
La strada non è spianata, ma nemmeno così impervia. Molto dipenderà da chi sarà il presidente del Consiglio europeo, perché la lottizzazione di Bruxelles impone, per le due poltrone in questione, un ticket popolar-socialista. Se per la principale dovesse farcela Blair, è impensabile che arrivi dal Pse anche il titolare degli Esteri. Viceversa, dovesse prevalere il fronte antiblairiano capeggiato da Angela Merkel, e che ha nel lussemburghese Jean-Claude Juncker il suo candidato alla presidenza, le possibilità di D'Alema salirebbero molto. La concorrenza non è infatti così folta. Il competitor numero uno è il socialista Solana, che ha opzionato la permanenza nel ruolo che, di fatto, già occupa con la benedizione del premier Zapatero. Ma la lunga militanza di Solana potrebbe anche rivelarsi un handicap.
L'agenda di Veltroni di questi giorni è molto europea. L'altroieri ha incontrato Martin Schulz, presidente del gruppo socialista a Strasburgo. Lunedì l'ex sindaco di Roma sarà a Berlino conferenza promossa dal Pse e dall'Spd sul futuro delle socialdemocrazie europee. Il primo nodo da sciogliere in queste sedi di discussione è la collocazione continentale del Pd in vista della tornata elettorale del prossimo anno, ma è probabile che Veltroni ne approfitti anche per tastare il terreno sulla candidatura D'Alema, che ovviamente, in caso di decollo, entrerebbe di forza nell'ordine del giorno del dialogo con Berlusconi e il centrodestra.
Questo scenario non basta comunque a placare il malumore dell'ex presidente Ds sulla situazione attuale. Sotto accusa resta ancora la linea del Pd verso l'esecutivo, considerata troppo incerta e spericolata nella sua alternanza di attacchi sul merito (vedi Alitalia e reato di immigrazione clandestina) e incontri semi-clandestini (vedi abboccamento Letta-Veltroni alla Camera). E prosegue la strutturazione della corrente. Dopo il rilancio della fondazione, i seminari e il varo della tv via satellite, è in preparazione anche un quotidiano on line. (Cappe)