martedì 10 giugno 2008

Repubblica 10.6.08
L'ex leader di Prc prepara il seminario sul futuro della sinistra
Bertinotti al rientro invito a D´Alema
Veltroni manda Bettini. E Ferrero fa un contro convegno in contemporanea
di Umberto Rosso



ROMA - Per la sua prima uscita politica, lavora a mettere insieme il parterre più ricco e variegato. Ma sotto il segno dell´anti-veltronismo. Come si conviene ad un ex presidente della Camera, che per giunta dal day after elettorale ad oggi è rimasto con la bocca sigillata, mantenendo la promessa del silenzio. Così Fausto Bertinotti, che ieri è ricomparso in pubblico per presentare il libro della storico Piero Bevilacqua "Miseria dello sviluppo", pensa al colpaccio per il suo seminario di dopodomani al Frentani di Roma: è atteso, fra gli altri, anche Massimo D´Alema ad ascoltare le «Ragioni della sconfitta della sinistra». A confermare in questo modo anche "fisicamente" il ponte lanciato dall´ex vicepremier verso quella che fu la Cosa rossa. In ogni caso, a rappresentare i dalemiani alla giornata di studio promossa da "Alternative per il socialismo", la rivista teorica di Bertinotti, ci sarà Nicola Latorre, il vicecapogruppo del Pd al Senato che in questi mesi ha tenuto per conto del "capo" i contatti, in particolare con Franco Giordano. Fino all´incontro segreto fra l´ex segretario del Prc e Massimo D´Alema, allarmato per lo sbarramento elettorale alle europee, avvenuto per qualche strana coincidenza proprio mentre Veltroni era per la prima volta faccia a faccia con Berlusconi (a metà del maggio scorso). Ma Walter non intende lasciare a Massimo mano libera nella rincorsa a sinistra, ed ecco perciò che alla rentrée bertinottiana a rappresentare il segretario del Pd ci sarà Goffredo Bettini. Una presenza che ha un po´ il sapore del disgelo, visto che secondo la sinistra proprio il coordinatore del Pd sarebbe stato uno dei più accaniti fautori della ghigliottina elettorale anti-arcobaleno. Ancora, del Pd, ci sarà Pierluigi Castagnetti, anima cattolica del partito, e soprattutto ex ppi ed ex Margherita che ha lanciato l´offensiva contro l´adesione al Pse. Ancora nel doppio segno di cattolico e critico del veltronismo, non è esclusa la presenza al seminario di Bruno Tabacci, testa pensante dell´Udc che già ieri alla Feltrinelli ha fatto "da spalla" a Bertinotti nelle critiche agli sbarramenti elettorali, «concepiti da cattivi consiglieri di Veltroni». L´ex presidente della Camera fornisce previsioni cupe: «La lunga marcia del capitalismo verso la catastrofe continua».
Ma, al seminario dei Frentani, che sinistra? In dubbio (ma per ragioni personali) la presenza di Rossana Rossanda, della quale il nuovo numero di "Alternative per il socialismo" ospita un saggio, Bertinotti per questo suo ritorno sulla scena ha voluto raccogliere intellettuali, sindacalisti, ma anche quei pezzi della sinistra arcobaleno più vicini al suo progetto. Che resta quello di un grande cantiere per andare oltre Rifondazione. Ci saranno lo storico Marco Revelli, Aldo Tortorella, Mario Tronti, Tiziano Rinaldini della Fiom. Per i Verdi, la Francescato e Paolo Cento. Per la Sinistra democratica Claudio Fava e Cesare Salvi. Per il Pdci, anche se in freddo con il partito, il professor Nicola Tranfaglia. Pezzi della sinistra veltroniana di Vita e Brutti. Oltre naturalmente ai suoi fedelissimi nel Prc, a cominciare da Nichi Vendola. Di tutt´altro segno il controconvegno che, giovedì in contemporanea, Paolo Ferrero organizza nel quartiere di Torpignattara. Si parla di sinistra sociale, «niente comparsate radical-chic».

Il Giornale 9.6.08
Galimberti. Vent'anni di copia e incolla


«Ecco, sì è successo... Ma vede, non ne voglio parlare. Nel 1989 abbiamo fatto un accordo tramite gli avvocati. Il professor Umberto Galimberti avrebbe fatto mettere una noticina di avviso in apertura del suo libro... Io però mi impegnavo a non tornare più sulla questione... Perché ho accettato? Mah, mi sembrava andasse bene, era comunque un'ammissione... Poi in ambito filosofico ci sono dei pesi, delle autorevolezze... Insomma lo sa anche lei, ci sono intellettuali ad alta visibilità... che hanno un certo accesso alle case editrici, e altri meno... Ma insomma non voglio parlarne e onestamente credo, in base a quell'accordo, di essere tenuto a non parlarne...».
Difficile strappare qualcosa più di quel che avete appena letto a Guido Zingari, ricercatore dell'Università di Roma Tor Vergata che ha in affidamento la cattedra di Istituzioni di filosofia. Rispetto di un vecchio accordo passato attraverso gli avvocati, timidezza, forse anche poca voglia di esporsi contro un peso massimo della filosofia che ha spazi televisivi, giornalistici ed editoriali. Anzi, se non ci fossero già stati i casi di Giulia Sissa, Alida Cresti, Salvatore Natoli - tutti ampiamente «saccheggiati» dal professor Galimberti - forse Zingari avrebbe attaccato il telefono alla prima domanda. Allora meglio lasciar parlare i fatti, le pagine dei libri e una noticina a inizio volume che, con il senno del poi, più che ammissione di colpa sembra il programma di un modus operandi eretto a stile di vita. Sì, perché quando questa noticina l'abbiamo trovata ci siamo chiesti: e se quello fosse stato il primo dei calchi? Il «copia e incolla» praticato e brevettato dal professor Umberto Galimberti prima che Bill Gates si ingegnasse a inserirlo in Windows?
Ma, abbiamo detto, spazio ai fatti. Nel 1983 Guido Zingari pubblica Heidegger. I sentieri dell'essere per una piccola casa editrice romana: Studium. Una introduzione al pensiero del grande filosofo tedesco, un piccolo itinerario biografico e speculativo. Un onesto libro per studenti o semplici curiosi.
Nel 1986 il professor Umberto Galimberti, allora associato (diventerà ordinario solo nel 1999), ma già in odor di notorietà, pubblica Invito al pensiero di Heidegger, per la più grande e meglio distribuita casa editrice Mursia. Una introduzione al pensiero del filosofo tedesco, un piccolo itinerario biografico e speculativo. Un libro per studenti o semplici curiosi.
Insomma, proprio lo stesso prodotto, con un'unica mancanza: l'aggettivo «onesto». Aggettivo impossibile da usare, visto l'uso massivo del saccheggio. Un solo esempio di svariate righe. Zingari a pag. 19: «Husserl giungeva a Friburgo nel 1916 quale successore designato di Heinrich Rickert, che a sua volta andava ad occupare la cattedra di Windelband ad Heidelberg. Per Heidegger si trattò, come è facile immaginare, di un evento memorabile. L'insegnamento di Husserl, ricorda Heidegger, si svolgeva nella forma di un graduale esercizio al "vedere" (Sehen) fenomenologico, che nello stesso tempo era un imparare guardando (Absehen). L'esposizione e lo studio dei testi di Aristotele e degli altri pensatori greci assumevano, attraverso la fenomenologia, un significato inaspettato».
Umberto Galimberti a pag.14: «Nel 1916 Edmund Husserl giungeva a Friburgo quale successore designato di Rickert, che a sua volta andava a occupare la cattedra di Windelband ad Heidelberg. Per Heidegger si trattò, come è facile immaginare, di un evento memorabile. L'insegnamento di Husserl, ricorda Heidegger, si svolgeva nella forma di un graduale esercizio al "vedere" (Sehen) fenomenologico che nello stesso tempo era un "imparare guardando" (Absehen). L'esposizione e lo studio dei testi di Aristotele e degli altri pensatori assumevano, attraverso la fenomenologia, un significato inaspettato».
È una delle clonazioni che ha spinto Zingari e l'editrice Studium a procedere a mezzo avvocati verso Galimberti e la Mursia. E così ecco il fatidico accordo, raggiunto nell'89. Le edizioni seguenti di Invito al pensiero di Heidegger, pur non modificando il testo, pur senza aggiungere quelle note e virgolette che sarebbero di rigore (come una citazione nell'indice dei nomi...) recano sul retro del frontespizio (dove si guarda poco) questa breve notazione che dà conto del saccheggio: «Diversi passi riportati nel presente volume relativi alla vita e alle opere di Heidegger, sono stati tratti dal volume di Guido Zingari, Heidegger. I sentieri dell'essere (presentazione di J.B. Lotz), Roma, Studium, 1983. In quest'ultimo essi si trovano specificatamente alle pp. 16, 17, 18, 19, 21, 22, 23, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 36, 121, 125 (citazione identica) e alle pp. 23, 25, 26, 28, 29 (citazione con alcune modifiche e interpolazioni)».
Al solito, un'ammissione di colpa, però microscopica, e in quelle pagine dove nessuno guarda. Un'ammissione con un accordo che però mette il danneggiato (accademicamente più debole) nella condizione di tacere, che evita troppa pubblicità ad un fatto che avrebbe potuto screditare un Galimberti in ascesa. Il risultato? Il libro di Zingari, che deve essere ben scritto, visto che Galimberti lo ha copiato a piene mani, è quasi introvabile. Il saggetto di Galimberti è stato invece ristampato per anni, è diffuso in moltissime biblioteche. Peggio, campeggia sul sito dell'Università di Venezia nella bibliografia del professore come se fosse una nota di merito e non un'opera scientificamente dubbia. Insomma quanto si sbagliava Friedrich Schiller quando scriveva: «La posterità non intreccia ghirlande per gli imitatori»! Almeno nel mondo accademico italiano c'è il rischio che le intrecci, eccome.

l’Unità 10.5.08
I bambini di Gaza «grandi» per forza
di Umberto De Giovannangeli


IL TERRORE si riflette nei loro occhi. La paura li accompagna dalla nascita. Hanno visto i loro genitori o amici morire. La violenza segna anche i loro giochi. Nabil, Ahmed, la piccola Zahira... Storie di una infanzia negata. Storie dei bambini di Gaza. Senza diritti, senza speranze. Dimenticati dal mondo

Rabh Masoud ha 8 anni e vice con i genitori e sei fratelli in un monolocale a Jabaliya, il più grande campo profughi nella Striscia di Gaza, vicino al confine con Israele. «Per dormire - dice - dobbiamo fare i turni - i miei fratellini sono terrorizzati dai bombardamenti. Piangono, e per giorni si rifiutano di uscire. Io provo a far loro coraggio, ma anch’io ho paura, tanta paura». Subhiya ha 6 anni e vive anche lei con la famiglia a Jabaliya. La sua salute non è buona. La bimba soffre di orifizio ovale, problemi di deambulazione, deviazione al setto nasale e ha un fragile sistema nervoso. Necessità di un’assistenza medica pressoché costante. Il padre di Subhiya è morto sotto un bombardamento. Ora la sua famiglia dipende interamente dagli aiuti umanitari delle organizzazioni non governative.
La vita bloccata dei bimbi di Gaza. Storie di sofferenze, patimenti, mancanza di tutto che marchia fin dai primi giorni la vita di bambine e bambine «ingabbiati» in quella enorme prigione a cielo aperto che è Gaza. Storie di vite bloccate. In attesa di un aiuto che tarda ad arrivare. Storie come quelle dei bambini della scuola elementare Omar Bin Abdul Aziz che tornati a scuola dopo la pausa invernale, hanno trovato le aule buie e fredde: in quella scuola, come nelle altre 400 della Striscia, la corrente elettrica è saltuaria e le finestre sono murate per proteggere gli alunni da proiettili vaganti. Storie di piccole vite appese a un filo. A Gaza anche gli aiuti umanitari sono soggetti a restrizioni. Aya, 4 anni, affetta da meningite ha atteso per tre mesi il permesso di essere curata in Israele. Dopo tanto penare, l’agognato permesso alla fine è arrivato, per Aya ma non per i suoi genitori, che non potranno quindi accompagnarla. Storie di bambini costretti a divenire «grandi» prima del tempo. Come Ahmed, 11 anni e 5 fratelli e sorelle più piccole. Ahmed deve mantenere la famiglia dopo che il padre, Nabil, è stato ucciso, due anni fa, in un raid di Tsahal a Khan Yunes, sempre nella Striscia. «La mera sopravvivenza è ormai lo standard di vita dei bambini di Gaza», sottolinea un recente rapporto dell’Unicef. I bambini di Gaza piangono per l’orrore e l’indifferenza. Uno studio della Queen’s University ha rivelato che il 90% dei bambini di Gaza sono state vittime dirette di gas lacrimogeni, perquisizioni alle proprie case, danni personali e testimoni di sparatorie ed esplosioni. Dall’inizio della seconda Intifada, settembre 2000, studi del Gaza Community Mental Health Programme, indicano che il 70% dei bambini non riesce a concentrarsi, il 96% ha paura del buio, il 35% si isola e il 45% soffre alti livelli di ansia e di stress. «Abbiamo visto che i bambini non vogliono uscire perché sanno che qualcosa di terribile gli può succedere in qualsiasi momento, sono aumentate le liti in casa, così come il numero dei minori con incubi o attacchi di panico», riferisce il dottor Fadel Abu Hin, specialista del centro.
L’infanzia cancellata. Come quella di Faysal, 6 anni, che da quella notte di fuoco, due anni fa, ha lo sguardo perso nel vuoto: quella notte, Faysal ha visto morire sua madre, Zahira, colpita da una pallottola vagante: a Rafah, era in corso un raid dell’esercito israeliano. Da quel giorno, il piccolo Faysal non ha più parlato. Se potesse parlare, Faysal racconterebbe una storia comune alla grande maggioranza degli 884mila bambini di Gaza, dei quali 588mila sono rifugiati. È la storia di Ayman, 13 anni, e della sua sorellina, Amira, 5 anni: le sparatorie e i bombardamenti hanno terrorizzato così tanto Amira, racconta Ayman, che «mia sorella continua a svegliarsi di notte urlando». Ayman ha un sogno: poter studiare. Ayman e i suoi fratelli leggono a lume di candela. A causa del blocco dei rifornimenti di carburante (imposto da Israele in risposta ai lanci di razzi da Gaza) l’elettricità è sospesa per 8 ore al giorno. «La notte - racconta - accendiamo una candela e fino a quando non si spegne facciamo i compiti...La scuola? È stata bombardata e da mesi siamo costretti a restare a casa...». «Una intera generazione di bambini giornalmente assiste sempre più a episodi di violenza , persino all’interno delle scuole. Uno studio della Birzeit University ha rilevato che il 45% degli studenti nella Striscia di Gaza ha visto la propria scuola assediata dall’esercito israeliano, il 18% ha assistito all’uccisione di un compagno di scuola e il 13% a quello di un insegnante», rileva Save the Children, la più grande organizzazione internazionale indipendente per la tutela e la promozione dei diritti dei bambini nel mondo. Ma i bambini di Gaza non hanno diritti. E neanche speranze. Bamini come Talal, 5 anni. che allo staff di Save the Children racconta: «Vado all’asilo ogni giorno da solo. Ho paura quando vado da solo. Ho paura che gli israeliani mi spareranno. Vorrei che fosse mia madre a portarmi all’asilo, ma mia madre è occupata. Mio padre è stato arrestato dagli israeliani e adesso è in prigione. Ho visto gli israeliani prenderlo. Non l’ho più visto d’allora».
A Gaza gioco e realtà s’intrecciano. Marchiati da un comun denominatore: la violenza. Fra la polvere e la sabbia nell’infuocata periferia di Gaza City, i piccoli palestinesi giocano alla guerra. Ma non a una guerra lontana, come fanno milioni di altri bambini del mondo, ma alla guerra vera, proprio quella che praticamente ogni giorno si combatte davanti alle loro case. La guerra con Israele. La guerra tra Fatah e Hamas. Realtà e gioco. «Se noi catturiamo un giocatore di Hamas - dice Ahmed, 11 anni, che nella battaglia indossa l’uniforme di Al Fatah - possiamo deciderlo di picchiarlo, oppure ucciderlo subito. Ma se l’altra squadra ha fatto uno di noi prigioniero, allora scambiamo i due giocatori, e torniamo alla pari...». La squadra di Hamas è appena riuscita a scoprire il nascondiglio di tre miliziani di Fatah: come a mosca cieca basta toccarli perché in questa finzione si considerino presi. Hamas adesso non ha nessuno dei propri giocatori da liberare, e così sfrutta il vantaggio. I tre giocatori avversari vengono fatti inginocchiare, urlano «aiuto, aiuto» ma secondo un copione che si ripete mille volte, vengono fucilati senza esitazione. «Boom, boom, boom», scandisce il bambino tenendo puntato il fucile di legno. Poi si ricomincia, con tre punti di vantaggio. Quel giorno Nabil, 9 anni, era fiero delle sue nuovissime scarpe da calcio. Nabil non vedeva l’ora di raggiungere i suoi amici nel campetto di calcio a Jabaliya. Nabil era in ritardo, e quei minuti gli hanno salvato la vita. Il campo di calcio era stato raggiunto da granate sparate da carri armati israeliani. Nabil ha visto morire quattro bambini. Dilaniati dall’esplosione. Ancora oggi, a distanza di mesi, Nabil piange mentre ricorda di aver visto la testa decapitata di suo cugino lanciata lontano dal suo corpo, dalle sue braccia e dalle sue gambe, lontano da dove stavano giocando a calcio. Piange mentre racconta la storia, il piccolo Nabil, e le sue lacrime gli fanno più male del suo dolore psicologico, dal momento che ha ustioni sugli occhi. Ricordo di un incubo che porterà sempre con sé.

Corriere della Sera 10.6.08
E il Pdci si sgretola a colpi di mozioni e manifesti Diliberto, Rizzo e Katia Bellillo: tutti contro tutti
di R. Zuc.


ROMA — C'era una volta il Pdci. E domani? Se lo chiedono i militanti alle prese con un partito-rebus, in perenne rischio di scissione. Dell'atomo, s'intende, perché ormai la percentuale vera si perde nei calcoli infinitesimali della sinistra radicale: prendi il 3 per cento delle politiche, sottrai Rifondazione, Sd, Verdi e alla fine dividi per tre. Cioè i tre che attualmente si contendono la bandiera dei comunisti italiani: Diliberto contro Rizzo contro Bellillo.
All'insegna del meno si è, più si litiga, sono ormai in guerra tra loro. Oliviero Diliberto ( foto) canta vittoria per l'approvazione del suo documento al comitato centrale. E guarda dall'alto Marco Rizzo, concedendo al suo emendamento un residuale 8,35%.
Quest'ultimo s'arrabbia: «Non è vero: abbiamo ottenuto il 31% perché al momento del voto c'erano solo 144 presenti su 383».
Ma si parla di un semplice emendamento. A non essere d'accordo sull'intero documento è Katia Bellillo, che non partecipa al voto, crea una sua componente e lancia un contromanifesto.
Obiettivo: guardare alla Costituente della Sinistra, già sponsorizzata dall'area bertinottiana di Rifondazione e da Sinistra Democratica.
Spiega la Bellillo: «Sinceramente non capisco qual è la differenza tra Diliberto e Rizzo: entrambi ora vogliono l'unità dei comunisti. Mi sembra più che altro che il primo sia caduto nella rete del secondo. Noi invece vogliamo un movimento aperto, che guarda alle esperienze che vengono dal sociale: non possiamo tornare indietro. Abbiamo dalla nostra parte anche l'astronauta Umberto Guidoni». E Diliberto? Continua la sua battaglia contro gli attacchi che vengono da dentro e da fuori del partito.
Di ieri è il suo appello contro gli hacker:
«In queste ore il nostro sito larinascita.org è sotto attacco dei pirati informatici: vogliono far tacere la voce dei comunisti. Ma non ci riusciranno».

Corriere della Sera 10.6.08
Sassonia. I neonazisti sono al 5%


BERLINO — L'estrema destra tedesca (Npd) ha ottenuto il 5,1% delle preferenze alle elezioni comunali che si sono tenute domenica nel Land della Sassonia, nell'est della Germania. Il risultato rafforza ulteriormente la presenza del partito nella regione, con un totale di 160 mila voti, quattro volte in più rispetto ai 41 mila voti registrati alle elezioni del 2004. Forte di questo successo la Npd potrà contare su un proprio rappresentante in ogni Comune della Sassonia. Non solo: in due comuni il Partito ha perfino battuto il socialdemocratici della Spd. Allo stesso tempo, però, la Cdu della cancelliera Angela Merkel, si è confermata al primo posto con il 39,5% dei voti, seguita dalla Sinistra (Linke) con il 18,7%. Il terzo principale Partito in Sassonia è la Spd con l'11,5% dei voti.

Corriere della Sera 10.6.08
I nuovi dati Nel 2007 in Italia 270 mila confezioni, 50 mila in più del 2006
Boom della pillola del giorno dopo tra le ragazze dai 14 ai 20 anni
I ginecologi: è l'unica forma di contraccezione usata dalle giovani
di Paola D'Amico


In controtendenza il ginecologo Silvio Viale: poche le pillole vendute, bisogna incentivare la disponibilità

MILANO — La pillola del giorno dopo spopola tra le adolescenti. Sono le giovanissime tra i 14 e i 20 anni a consumare oltre la metà delle confezioni vendute. I bilanci sul ricorso alla contraccezione d'emergenza sono tali da allarmare i ginecologi. E sotto accusa finiscono i genitori, che sembrano essere totalmente all'oscuro delle abitudini sessuali dei propri figli. «Non solo sono ignoranti e danno informazioni sbagliate sull'educazione sessuale — denuncia Alessandra Graziottin, direttore del Centro di ginecologia del San Raffaele di Milano, nel corso di un convegno sull'aborto —. Ma spesso non hanno veramente idea di chi siano i loro figli. Solo 5 su cento immaginano che le figlie quattordicenni abbiano rapporti sessuali, quando in realtà si tratta del 38 per cento».
In verità, le omissioni in tema di educazione sessuale accomunano famiglia e scuola, società e medici. E se il ricorso del preservativo, accantonato lo spettro dell'Aids dopo il picco di infezioni degli anni Novanta, è in netto calo, anche la stragrande maggioranza delle mamme di figlie quindicenni «continua a non parlare di contraccezione e le spiegazioni arrivano spesso quando è troppo tardi».
Sono i dati a far riflettere: dal 2006 al 2007, le vendite del farmaco noto come «pillola del giorno dopo» sono aumentate di oltre 50mila unità, passando da 220mila a 270 mila. «Questo significa che o si sono rotti 50mila profilattici o la pillola del giorno dopo è diventata l'unica forma di contraccezione che le giovani usano», semplifica Giorgio Vittori, presidente della Sigo (Società italiana di ginecologia e ostetricia), che con l'Associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi) ha organizzato nella Capitale il convegno «Politiche per un contrasto all'interruzione di gravidanza nelle donne a rischio ».
I genitori oggi «dormono», accusano i medici che, però, fanno anche autocritica: «Aver puntato solo sulle giovani per promuovere l'uso del profilattico è stato un errore storico».
Perché non usare il preservativo, «oltre a portare a gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili», può anche «danneggiare la fertilità della donna quando vorrà avere un figlio». Non è un caso se le infezioni da clamidia (con il gonococco è la prima causa di lesione dell'endometrio e delle tube) sono decuplicate in dieci anni.
L'allarme sull'impennata del ricorso al contraccettivo di emergenza non è condiviso da tutti. Silvio Viale, ginecologo torinese e sostenitore della necessità di abolire la ricetta medica per la pillola del giorno dopo, controbatte che «trecentomila pillole vendute sono pochissime ». Perché, occorre «incentivarne la conoscenza e la disponibilità ». E su un milione di ragazze tra i 15 e i 20 anni, se questi sono i numeri, precisano dalla clinica milanese Mangiagalli, «significa che vi ha fatto ricorso appena il 10 per cento».
In fatto di legge sull'aborto, il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, ha fatto sapere che «sulla 194 potremmo varare linee guida sul modello della legge 40». Una necessità, ha concluso Roccella, «perché l'applicazione delle legge è troppo disomogenea».
Sessuologa Alessandra Graziottin accusa le mamme delle ragazze

Alessandra Kustermann: «Rifiutano i farmaci tradizionali per paura della cellulite»
«Non sono le mamme e i papà a dover pensare all'educazione sessuale dei figli», dice Alessandra Kustermann, ginecologa presso la Clinica Mangiagalli.
Chi se ne deve far carico?
«La scuola e i medici. Un genitore ti può facilitare e dire dov'è il consultorio se hai dolori mestruali, se hai le perdite bianche, se hai dei dubbi. Oltre mi pare un'intrusione. La sfera sessuale fa parte di una crescita autonoma».
I medici sono nemici degli anticoncezionali?
«Ad essere restie, per la verità, sono le ragazze, convinte che la pillola sia causa di cellulite e di aumento di peso. E, più grave ancora, che non basti per rimanere incinte il primo o anche un unico rapporto sessuale».

Corriere della Sera 10.6.08
Gli anni di piombo al centro del romanzo di Sergio Givone
Se il filosofo «rilegge» il terrorismo
di Ermanno Paccagnini


L a prima impressione, alla lettura di Non c'è più tempo di Sergio Givone, è il tentativo di fondere in narrazione le sue due anime di filosofo e romanziere. Lo fa rivisitando il 1978 terroristico, in un testo però spurio, che mescola in modo squilibrato le due carte, perdipiù poste sotto intestazione editorialmente infelice, dato che Non c'è più tempo è titolo d'un romanzo di Andrea Carraro del 2002 (Rizzoli).
Parlo volutamente di «testo», e non di «romanzo», perché Non c'è più tempo (Einaudi) ha forma espositiva e andamento propri di una sorta di rappresentazione di laica sacralità, considerando che tutto poggia sull'assurda e nullificante ritualità d'un tribunale terroristico: con capitoli-atti nei quali un protagonista, Venturino Filisdei, ex docente di architettura ora intrappolato su una sedia a rotelle e sospettato di collusione coi brigatisti, accompagnato da una badante, si reca a un appuntamento notturno nel sottosuolo fiorentino per incontrare quel figlio avuto da un'allieva sordomuta poi suicidatasi e che non ha mai conosciuto. E qui incontra via via (capitoli 2-5) singoli personaggi appartenenti a una cellula terroristica (Max Pententi e poi Quisqualis e Feuer; Dolores; il figlio; Confiteor, il capo), per poi, dopo una disamina interiore (6), ritrovarli tutti quanti insieme (7) in una sorta di tribunale rivoluzionario.
Una struttura che incrocia forma narrativa e forma dialogico-argomentativa di tradizione platonica, con ampi squarci di riflessione interiore: ove i momenti del pensiero — specie quelli del protagonista — sono calibrati, tra gli altri, su testi di Enrico Fenzi e Toni Negri (con richiami anche ai loro saggi su Petrarca e Leopardi), rileggendo l'esperienza terroristica alla luce della riflessione più propriamente givoniana sul Nulla, Morte, Nichilismo, Religione, Ethos e altro ancora.
E, in effetti, la trama (con finale narrativo a sorpresa) suona piuttosto pretesto di riflessione in forma narrativa: per un testo alfine sì anomalo, ma soprattutto di non agevole lettura e anzi pesante e dispersivo. Un testo fortemente penalizzato su entrambi i versanti, senza la forza argomentativa del saggio, ma neanche la forza narrativa che pure Givone possiede, che s'affaccia solo qua e là e si evidenzia nel finale (pp. 230-34) quando si abbandona al racconto. La riprova è nella opacità stessa degli sbiaditi personaggi: più parole che gesti. Tra i quali salvo solo la figura del prete spretato Max Penitenti.
Sergio Givone, filosofo e scrittore, è autore del romanzo «Non c'è più tempo», (Einaudi, pp. 242, € 14)

Corriere della Sera 10.6.08
Evoluzione Due studiosi a confronto sulla dimensione morale e spirituale dell'Homo sapiens
L'enigma dell'intelligenza umana
Facchini: ha origini trascendenti. Pievani: no, la scienza può capirla
di Antonio Carioti


Riduzionismo
Alcuni biologi ritengono che nei geni si trovi la grammatica universale che guida e regola il comportamento etico

Il famoso biologo ateo Richard Dawkins lo definisce (sulla scorta del collega Jared Diamond) «grande balzo in avanti». Il pontefice Giovanni Paolo II lo chiamava invece «salto ontologico». Di certo ai nostri antenati, in una fase collocabile tra 150 e 45 mila anni fa, succede qualcosa di sbalorditivo: gli ominidi appartenenti alla specie Homo sapiens
cominciano a realizzare pitture rupestri, a seppellire i cadaveri secondo un rituale, ad abbellire i propri corpi, a fabbricare oggetti ornamentali. In breve, producono cultura.
Come questo sia potuto accadere resta non solo un enigma affascinante, ma anche uno dei punti più controversi della storia naturale, al pari della questione riguardante l'origine della vita, di cui si è occupato ieri sul Corriere Sandro Modeo. E ad accrescere l'interesse del tema ci sono le sue implicazioni filosofiche, che dividono chi vede nell'intelligenza umana una scintilla divina da chi la considera il frutto più sofisticato di processi evolutivi dominati dal caso.
La polemica infuria nel mondo anglosassone, dove hanno grande risalto le posizioni estreme. Da una parte gli scienziati riduzionisti (come il già citato Dawkins, Daniel Dennett, Marc Hauser), secondo i quali lo studio della biologia può consentirci di arrivare a dire l'ultima parola sulla mente umana. Sul versante opposto i fautori del «disegno intelligente», spesso legati ad ambienti religiosi, affermano che non solo il comportamento dell'uomo, ma l'intero percorso dell'evoluzione si può spiegare solo chiamando in causa un intervento sovrannaturale.
Più sfumati e articolati sono i punti di vista prevalenti tra gli studiosi italiani. Per esempio Fiorenzo Facchini, sacerdote cattolico e docente di Antropologia, nel suo ultimo libro Le sfide della evoluzione (Jaca Book, pp. 174, e 16) critica la teoria del «disegno intelligente», che a suo dire «non appartiene alla scienza» e «porta a una confusione di piani che non giova a nessuno ». Ma al tempo stesso tiene a sottolineare che l'uomo, in quanto dotato della facoltà di pensare, «reclama una trascendenza nella sua origine, perché lo spirito non può derivare dalle forze della materia».
Insomma, bisogna distinguere l'umanità dal resto degli esseri viventi: «I sostenitori del disegno intelligente — spiega Facchini al Corriere
— commettono l'errore di introdurre un elemento sovrannaturale per spiegare fatti che rimangono nell'ambito fisico e biologico. Ma con la comparsa del pensiero umano si verifica una discontinuità molto netta, a mio avviso innegabile. L'attitudine a fare progetti, il linguaggio simbolico, l'autocoscienza e l'autodeterminazione, la capacità di gestire consapevolmente l'ambiente sono caratteristiche peculiari dell'uomo, che non si possono ricondurre al semplice sviluppo dell'attività cerebrale. A mio parere in questo caso è vano cercare una spiegazione con i metodi delle scienze naturali, perché siamo dinanzi a fenomeni trascendenti che sfuggono alla loro indagine».
Sul fatto che sia sbagliato ridurre la natura umana al dato biologico si trova d'accordo anche il filosofo della scienza Telmo Pievani, convinto darwiniano e curatore del volume L'evoluzione della mente (Sperling e Kupfer, pp. 131, e 9,20), comprendente contributi in cui alcuni illustri scienziati s'interrogano sulle origini del comportamento culturale umano.
«C'è chi dice — dichiara Pievani al Corriere — che un giorno scopriremo il cromosoma della morale, la grammatica universale del comportamento etico inscritta nel genoma umano. Ma anche se ciò dovesse avvenire, saremmo ben lontani dall'avere risolto tutti i problemi in questo campo. Si pensi alla questione della violenza. Una volta acclarato che l'uomo tende ad aggredire i suoi simili per ragioni biologico- adattative, posso al tempo stesso decidere per altre motivazioni, di natura morale, che quel comportamento è illegittimo e va messo al bando. C'è dunque un ulteriore livello di studio, nella valutazione delle vicende umane, di cui le scienze naturali non possono dar conto». Qui, però, sorge un interrogativo: per spiegare la dimensione culturale dell'Homo sapiens è necessario richiamarsi alla trascendenza?
Facchini risponde positivamente: «Una volta ammesso che l'uomo è un unicum e la sua comparsa segna un salto di qualità, ci troviamo su un piano che sfugge agli strumenti della conoscenza empirica. Non è detto che l'unica soluzione sia ammettere l'esistenza del Dio biblico: c'è chi vede il trascendente come uno spirito universale e impersonale che avvolge la realtà. Dal punto di vista cristiano l'uomo risponde a un progetto del Creatore: non un disegno intelligente che determina lo sviluppo dell'universo, ma piuttosto un "disegno superiore", posto al di là della natura e della storia».
Diverso l'approccio di Pievani: «L'irriducibilità del comportamento umano alla biologia non richiama automaticamente la trascendenza. È come dire che c'è un mistero su cui l'indagine scientifica non ha nulla da dire. Io, invece, non credo che esista una dimensione per principio inattingibile. Può esserlo di fatto, perché la scienza è un sapere provvisorio e avrà sempre di fronte a sé l'ignoto. Ma se i meccanismi biologici dell'evoluzione non bastano a spiegare la peculiarità culturale dell'uomo possiamo ricorrere ad altri livelli di analisi riguardanti le scienze umane: psicologia, sociologia, filosofia morale. Il tutto rimanendo su un terreno naturalistico e senza ricorrere a fattori trascendenti».

Repubblica 10.6.08

Le tesi di Mendel furono cassate perché contrarie al marxismo. E chi le sosteneva fu perseguitato E anche il Pci si allineò
Buzzati Traverso contestò i sovietici Calvino esaltò l´Urss e i progressi della cultura
Aragon scrisse una prefazione in cui si magnificavano i metodi dei ricercatori

La rivoluzione era cominciata quando, il 7 agosto 1948, un oscuro agronomo ucraino, Trofim Lysenko, annunziò nel corso di una importante assise scientifica sovietica: «Il Comitato Centrale del Partito Comunista dell´Unione Sovietica ha esaminato la mia relazione e l´ha approvata». Era la campana a morte per la genetica sovietica, che fino a quel momento era in piena fioritura ed era conosciuta e rispettata in tutto il mondo scientifico, dove ormai trionfava, sulla base di incontestabili evidenze, la teoria di Mendel che attribuisce ai geni, alle minuscole unità discrete contenute nei cromosomi di tutti gli esseri viventi, la responsabilità della trasmissione ereditaria dei caratteri fenotipici. Una teoria, suffragata da migliaia di rigorosi esperimenti, che coniugata con l´evoluzione darwiniana costituisce tuttora il fondamento stesso della biologia moderna e che ha assicurato uno straordinario passo avanti nella comprensione della vita e anche della medicina. E che, sulla base di questi risultati, ha spazzato via definitivamente l´ipotesi, elaborata nel ‘700 dal grande zoologo francese Jean Baptiste Lamarck, della «trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti», che attribuiva le trasformazioni del mondo vivente (animale e vegetale) alla trasmissione ai discendenti dei caratteri acquisiti da ogni individuo nel corso della sua esistenza per meglio adattarsi al suo ambiente, dal lunghissimo collo delle giraffe, frutto dello sforzo individuale di raggiungere le foglie dei rami più alti, agli artigli dei predatori: i caratteri di ogni specie - e quindi il motore dell´evoluzione, delle trasformazioni che nel corso dei millenni hanno dato vita alle nuove specie - erano quindi per Lamarck e i lamarckiani il prodotto delle trasformazioni di ogni individuo nell´adattarsi al suo ambiente.

La scoperta che alla base dell´eredità c´erano i «geni» e che l´agente delle mutazioni erano le casuali mutazioni nelle basi della lunga catena molecolare del Dna, evidenziate dalla selezione naturale secondo la loro maggiore o minore «fitness», aveva definitivamente mandato in soffitta le ipotesi lamarckiane. Un meccanismo, quello mendeliano, che, introducendo la casualità delle mutazioni puntiformi e riducendo alla selezione naturale i motori dell´evoluzione, appariva (a Stalin e agli ortodossi interpreti del materialismo dialettico di Engels) in contrasto con uno dei canoni del marxismo e quindi con la convinzione che fosse l´ambiente a determinare l´evolversi delle trasformazioni del mondo vivente, nel caso degli esseri umani l´ambiente economico e sociale che, radicalmente trasformato dalla Rivoluzione d´Ottobre, non poteva che dar luogo «all´uomo nuovo sovietico». In più si insinuava che la teoria cromosomica avvalorasse teorie eugenetiche (care ai nazisti, fautori della «razza pura») e quindi fosse non solo sbagliata, ma anche idealistica, borghese, reazionaria e - perché no? - immorale.
Su questa base si innestò, nel secondo dopoguerra, una feroce polemica che non solo ebbe in Unione Sovietica esiti tragici, ma determinò una dura crisi anche tra gli intellettuali europei che avevano aderito al comunismo e alle idee del «socialismo scientifico». A questo tema è dedicato un appassionante libro dello storico della scienza Francesco Cannata (Le due scienze. Il caso Lysenko in Italia Bollati Boringhieri, pagg. 290, euro 28), una puntigliosa e illuminante analisi del «caso Lysenko», e degli effetti che si intrecciarono almeno in Europa con gli sviluppi della guerra fredda.
L´incoronazione staliniana delle idee lamarckiane di Lysenko costituirono, allora, lo scalino che consentì all´agronomo ucraino di iniziare una lunga scalata ai vertici delle istituzioni scientifiche sovietiche condotta con l´astuta intuizione delle preferenze del dittatore russo e che portò all´ostracismo della genetica russa e alla persecuzione degli scienziati che la praticavano. In effetti, alcune innovazioni sostenute da Lysenko aveva registrato qualche successo iniziale e ciò gli diede l´autorità per partire nella sua crociata contro gli esponenti della genetica russa. Lysenko promise che in base ai suoi metodi l´agricoltura sovietica guidata dagli «scienziati scalzi» che seguivano il suo metodo, fondato non sulle astratte teorie della «scienza borghese», ma sulla pratica contadina, avrebbe trasformato le immense steppe in giardini fioriti. La genetica russa e i suoi cultori si trovarono esposti all´accusa - micidiale, in quel contesto - di essere quinte colonne della borghesia capitalista e nemici dello stato sovietico: molti scienziati furono marginalizzati, privati dei loro incarici accademici e istituzionali e il loro principale esponente, Vavilov (uno studioso di grande levatura internazionale) addirittura arrestato, rinchiuso in un carcere siberiano nel quale morì.
L´eco del terremoto che aveva investito le istituzioni scientifiche russe si propagò in Europa, suscitando l´indignazione e la protesta di molti scienziati di alto livello, anche tra quelli che aderivano apertamente al marxismo o ai rispettivi partiti comunisti: John Haldane in Inghilterra, Jacquel Monod (premio Nobel) per la Francia, Adriano Buzzati Traverso in Italia.
Inserito negli sviluppi anche ideali della guerra fredda, il «caso Lysenko» fornì l´opportunità per una campagna - robustamente incoraggiata dagli Stati Uniti - di condanna dell´Unione Sovietica e dei rozzi metodi staliniani, della violenta intrusione della politica nella ricerca scientifica. Un tema vissuto meno drammaticamente nel nostro paese, dove forse risentiva di una certa indifferenza degli intellettuali del Pci nei confronti di un dibattito che investiva lo stesso metodo scientifico, forse per la tradizionale egemonia - anche in buona parte del comunismo italiano - della cultura letteraria rispetto a quella scientifica. Un distacco di cui si fece portavoce anche uno degli scrittori più acuti e sensibili del nostro paese, Italo Calvino, che nel dicembre ‘48, scriveva su L´Unità piemontese: «In un paese socialista il progresso della cultura non è staccato dal progresso comune di tutta la società. Bisogna che lo scienziato non si proponga la scienza per la scienza. Il primo criterio deve essere serve o non serve allo sviluppo della rivoluzione».
Insomma, la propaganda sovietica aveva trasformato le ipotesi ben poco scientifiche del furbo agronomo ucraino nel paradigma della cultura socialista. Al punto che il poeta francese Aragon firmò l´introduzione a un pamphlet edito dal Partito Comunista francese dedicato alla esaltazione di Lysenko e dei suoi metodi. Nonostante l´opposizione e le messe in guardia di parecchi scienziati europei, buona parte dell´intellighentzia era convinta che come la Rivoluzione d´Ottobre aveva aperto una nuova fase nella storia umana, così la cultura che esprimeva doveva rappresentare una svolta radicale in ogni campo: lì, nelle immense distese russe, nasceva una nuova società, un uomo nuovo, «l´uomo sovietico», libero dallo sfruttamento e dai condizionamenti di classe e dall´individualismo egoistico borghese che non poteva non produrre una nuova cultura, un nuovo rapporto con la natura, nuovi rapporti umani e quindi anche una scienza nuova.
Invano, anche in Italia, alcuni scienziati pure legati al Partito Comunista, come Massimo Aloisi, cercarono di contrastare l´esaltazione acritica di Lysenko e giustificare l´ostracismo contro la genetica: contro di loro c´era l´autorità di Emilio Sereni, responsabile della commissione culturale del Pci, uomo di cultura enciclopedica e di grande intelligenza, che cercò invano di convincere l´editore Giulio Einaudi, a far tradurre e pubblicare le relazioni lisenkiane o anche il pamphlet francese prefato da Aragon. Il fiuto culturale di Einaudi e la critica di Aloisi e di altri oppositori riuscirono a impedire una operazione, la cui unica giustificazione era che «tutto ciò che viene dall´Urss è giusto e va difeso» anche se si è convinti che si tratti di una mistificazione

Repubblica 10.6.08
I nuovi rapporti tra Stato e chiesa
di Aldo Schiavone


A leggere, più a freddo, i commenti del giorno dopo, sembra proprio che l´effetto, ancora una volta, sia stato raggiunto. Con il duplice, studiatissimo bacio deposto sull´anello di Benedetto XVI all´inizio e alla fine del loro ultimo incontro, Silvio Berlusconi ha fatto ricorso all´immagine di una inattesa sottomissione per lanciare un messaggio inequivocabile: è arrivato, in Italia, il momento di una nuova alleanza fra Chiesa e guida politica del Paese. Il gesto, al posto della parola o del discorso, per trasmettere in modo sintetico e diretto il senso di una scelta. Comunicare è vincere. Poi si ragionerà. La centralità della "questione cattolica" è stata così riproposta con il valore di un annuncio e di un programma. Insieme a tanti altri aspetti del nostro passato, è venuto il momento – questo voleva dire quell´inchino – di mettere da parte anche la difficile e ingombrante laicità che aveva accompagnato finora il nostro cammino repubblicano. Fra i due lati del Tevere può scorrere ormai una nuova acqua.
Qualche tempo fa, avevo scritto su questo giornale di "un´onda neoguelfa" che sta scuotendo nel profondo la nostra società – un sentimento diffuso che assegna al Pontefice l´esercizio di una specie di protettorato nei confronti della democrazia italiana, e ne fa il custode della stessa unità morale della nazione. Ebbene, con il suo gesto Berlusconi ha assunto pienamente la leadership di questa tendenza, cercando di piegarla a suo vantaggio. In questo senso, il bacio all´anello viene dal capopartito, più che dal presidente del Consiglio: serve a completare la collocazione postelettorale del Pdl, prima che a trasmettere una certa idea del Governo e dello Stato.
Di fronte alla nettezza di questa posizione, la cosa più sbagliata sarebbe di sottovalutarne la portata e l´importanza, riducendola a un semplice aggiustamento tattico, dettato solo da un opportunismo di corto respiro. Non è così. Al contrario, essa nasconde una valutazione strategica, e si fonda su un´intuizione non banale dei cambiamenti in atto. È vero: la fine della stagione democristiana, non meno che i mutamenti del nostro scenario sociale e mentale, ci stanno spingendo verso la sperimentazione di nuovi intrecci, anche organizzativi, fra religione e politica, che si presentano in termini molto diversi rispetto al nostro più recente passato. Ed è proprio intorno a questo groviglio – alla capacità di darvi una forma matura e compiuta – che sarà combattuta la battaglia per la futura egemonia culturale del Paese, per la costruzione del tessuto intellettuale e morale in cui vivremo.
Le religioni monoteiste tendono ad avere tutte, geneticamente, un rapporto strettissimo con la politica. La loro pretesa di interezza – controllare l´uomo nella totalità della sua esistenza – e la loro esclusività («non avrai altro Dio…») le immettono sin dall´inizio in uno spazio di potere e di violenza. Il messaggio cristiano ha cercato tuttavia di spezzare in modo rivoluzionario questo nodo, recidendolo con un colpo di spada ignoto alle altre tradizioni: «A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio», come leggiamo nei Sinottici. Lungo tutta la sua storia, l´Occidente ha cercato di elaborare questa separazione, offrendone di volta in volta letture prudentemente concilianti o aspramente radicali. In questo cammino, un punto di forza della modernità è stata la distinzione fra interiorità della coscienza ed esteriorità della norma giuridica, riflessa nel corrispondente principio della neutralità etica dello Stato e del discorso pubblico che ne sorregge le basi.
Ora, il punto è che questa divisione, così come ci è stata consegnata dai classici, non regge più, e in questa crisi c´è un fortissimo segno del nostro tempo. Lo Stato e la politica (per non parlare del diritto) piuttosto che distanziarsene, hanno sempre maggior bisogno di integrare al loro interno contenuti etici forti e vincolanti, per essere in grado di disciplinare la potenza di economie e di tecniche onnipotenti, capaci di incidere sulla vita e sulla morte, di trasformare il naturale in artificiale, di arrivare a toccare lo stesso statuto biologico dell´umano. E nel conseguente corto circuito che si sta determinando finisce con il saltare ogni distinzione fra coscienza interiore e discorso pubblico, fra legge e moralità, almeno per quanto riguarda alcuni terreni decisivi, dalla genetica alla procreazione, all´idea di matrimonio e di famiglia. In un simile quadro, la pretesa di tener fuori della politica – della biopolitica che decide sulla forma della vita – il magistero morale della Chiesa, proprio nel momento in cui più acuta se ne fa la domanda a causa dell´incertezza che stiamo attraversando, diventa una pretesa assurda.
Dobbiamo saperlo accettare: i confini fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio hanno assunto contorni imprevisti, e passano su terre incognite, che appena cominciamo a esplorare. Non abbiamo bisogno di una nuova laicità per attraversarle, ma piuttosto di sondare le possibilità di una integrazione inedita tra fede e ragione, che ci accompagni almeno per un certo tratto di strada, al di là di vecchi e inservibili steccati.
Riconoscere pienamente il diritto della Chiesa di intervenire con tutto il suo peso nel discorso pubblico sull´intreccio fra etica, Stato e diritto che darà forma al futuro del Paese non deve significare però attribuirle un primato a priori. Vorremmo che questo fosse chiaro a Berlusconi e ai suoi consiglieri.
Quando l´esperienza religiosa diventa discorso pubblico, la sua verità, la sua pretesa di assoluto, devono, per dir così, accettare di relativizzarsi. Ogni democrazia è, intrinsecamente, una democrazia relativa, quanto al merito delle sue decisioni. Una Chiesa che abbia davvero compiuto quell´"autocritica" rispetto alla modernità di cui parla Benedetto XVI deve essere in grado non di rinunciare all´assoluto – e dunque alla vocazione a evangelizzare e convertire – ma alla pretesa di imporlo in quanto corazzato di potere, al di fuori di una limpida formazione del consenso democratico. È un passaggio non facile: e tuttavia non se ne intravedono altri, se non rovinosi. L´ultima cosa di cui l´Italia ha bisogno è di ritrovarsi ancora divisa fra "laici" e "cattolici". Sono convinto che la fine della Dc abbia anche condotto al tramonto del cosiddetto "cattolicesimo democratico" (ha ragione in questo Gaetano Quagliariello che ne ha appena parlato in un convegno). Il Pd dovrà tenerne debito conto. Ma come oggi sono improponibili i paradigmi di una laicità che ha perduto i suoi presupposti storici, sarebbe altrettanto inaccettabile qualunque tentativo da parte delle gerarchie cattoliche di attribuirsi il ruolo di ago della bilancia nel nascente bipartitismo italiano, per poter dettare con più agio le proprie soluzioni. Arrivano purtroppo segnali non tranquillizzanti in questa direzione. Il Pdl farebbe bene a non incoraggiarli, e a non eccedere. Prima o poi, ne pagherebbe il prezzo.

lunedì 9 giugno 2008

l'Unità 9.6.08
«Non aspettiamo la Shoah»
Roma: Migliaia di rom sfilano contro il razzismo
di Maristella Iervasi


IN PRIMA FILA a guidare la manifestazione dei rom per le vie di Roma c’è Pietro Terracina, ex deportato ebreo, perché, spiega, il razzismo che colpisce oggi gli «zingari» è come quello che portò ai campi di concentramento nazisti. Quelli in cui furono sterminati proprio ebrei e rom.

«SIAMO TUTTI ROM» Pietro Terracina è in prima fila e lo ripete di continuo mentre regge lo striscione: «Basta razzismo contro i rom». Anche lui, ex deportato ebreo ad Auschwitz - come i 10mila partecipanti (600 secondo la polizia) alla prima manifestazione naziona-
le dei rom e sinti a Roma - sfila in corteo con un triangolino nero con la lettera Z: zingari, appuntata sul petto. «È il simbolo degli internati Rom - sottolinea Stoianovic Vojislau -. Lo rindossiamo oggi perché anche il governo italiano punta a differenziarci: vuole cacciarci via. E visto che non esiste lo Stato Rom-Zingaria, rischiamo proprio di essere marchiati di nuovo col quel triangolo nero». Arriva Furio Colombo, ex direttore de l’Unità e senatore Pd e dice ai cronisti: «Si racconta di tre donne rom fermate per aver rapito dei bambini. Non se n’è saputo più nulla dopo. Terracina è un testimone importante di come le cose possono cominciare e poi finire». E proprio contro ogni razzismo, xnenofobia e discriminazione che i rom e sinti per la prima volta sono scesi in piazza. Dietro l’appello-slogan: «Non aspettiamo la Shoah per intervenire»!
La testa del corteo lascia il Colosseo per il campo Boario, l’ex Mattatoio del Testaccio, dove fino a qualche giorno fa c’era un campo nomadi poi sgomberato in tutta fretta dal sindaco Gianni Alemanno. È la prima manifestazione nazionale, ma ne seguiranno molte altre. Anche perchè dai fatti del campo di Ponticelli di Napoli ad oggi non sono mancate le intolleranze. Così indigna ma non stupisce la denuncia di un attivista di EveryOne: Neli, 16 anni, incinta di 6 mesi, l’altro giorno è stata presa a calci a Pesaro mentre chiedeva l’elemosina ai tavolini di un bar. Un cliente italiano l’ha insultata perchè zingara, poi l’ha colpita alla schiena. Il tutto nell’indifferenza dei presenti.
Johnson, 25 anni, del campo rom di Ciampino si toglie l’impermeabile e mostra la maglietta con su scritto: «I rom saranno sempre discriminati. Io sono rom, eccomi qua!». Poi il giovane mediatore culturale manifesta tutto il suo scetticismo: «Che ho scritto sulla t-shirt? Posso lavorare e comportarmi bene ma se entro in condominio e scoprono che non ho un paese, che sono un rom, sarò all’infinito discriminato». Si fanno avanti Carla del quartiere Spinaceto e Berta, una turista di Barcellona: «Noi stiamo con i rom», dicono. E alla fine Johnson abbozza un sorriso.
Le ragazze e le bambine si esibiscono in danze sul camion musicale dell’organizzazione, con la collaborazione di 50 associazioni tra cui l’Arci, Sant’Egidio e l’adesione della Comunità ebraica. Santino Spinelli, rom, professore universitario, sottolinea il fatto storico della prima manifestazione interculturale. «No ai pogrom. Siamo qui - sottolinea per stemperare il clima orrendo che si è creato». E come leader dell’associazione «Them romanò», detta la linea: «Smantellare i campi rom, liberare i rom. Ci sono falsi profeti (riferimento all’Opera Nomadi, ndr) che vogliono far passare il campo nomadi come espressione culturare, invece è una forma di segregazione razziale. I rom - continua Spinelli - non vogliono vivere in questo modo. Stop all’informazione razzista. Non è vero che l’integrazione pesa sulle tasche degli italiani: i progetti ricevono fondi Ue».

Repubblica 9.6.08
Il popolo rom esce dai campi: alt al razzismo
Slogan, musica e danze al corteo di Roma. Sfila anche l´ex deportato Terracina
di Alessandra Longo


ROMA - Un triangolo nero con il vertice capovolto e, sopra, la lettera zeta, Zigeuner, zingari in tedesco. Lo usavano nei campi di sterminio. Lo porta sul bavero della giacca il vecchio Piero Terracina, deportato ad Auschwitz, che sfila in testa al corteo di rom e sinti «contro il razzismo». Un´immagine forte, quasi surreale, nel cuore di Roma. E´ la prima volta che il popolo Rom si autofinanzia e si autorganizza, esce dai campi, dalle bidonville e dà voce al proprio disagio. L´anima della manifestazione è Santino Spinelli, rom italiano, musicista (in arte Alexian), insegnante, saggista, fondatore dell´associazione nazionale Thèm Romanò. Si aggira vestito di bianco, stringendo mani, spiegando perché è stato necessario uscire dal silenzio: «Troppo acuti certi toni usati contro i rom, troppo brutti certi episodi, non vogliamo essere usati come capro espiatorio. Gli italiani non sono razzisti ma in questo Paese c´è una disinformazione dilagante, una mistificazione, una violenza mediatica che va fermata». Il rom Spinelli vede Terracina e lo abbraccia: «Ciao fratello, grazie di essere venuto». Ebrei e "zingari", uniti per sempre nella memoria delle persecuzioni. La cronaca regala storie di campi sgomberati da un giorno all´altro senza pianificazione, racconta le molotov di Napoli, l´assedio leghista di Mestre. Immigrazione, sicurezza, razzismo: temi che rischiano di saldarsi pericolosamente quando non prevale il buon senso, l´equilibrio, il rispetto della dignità umana o, più semplicemente, della Costituzione. Il vecchio Terracina coglie nell´Italia di destra «segnali» inquietanti: «Per questo voglio esprimere la mia solidarietà a questa gente. Oggi ci dobbiamo sentire un po´ tutti rom».
Si parte dal Colosseo, in duemila. C´è un camion dell´Arci, a bordo ragazzine rom vestite con i colori della festa, gruppo «Cheja Celen». Danzano, il ventre si muove al ritmo della musica, sotto i bambini battono le mani e sventolano il tricolore. Sì, il tricolore «perché ci sentiamo italiani», ti spiegano. Ecco le magliette d´ordinanza: «Siamo rom-ani». Vengono dai campi della capitale, da via di Salone, da Monte Mario, dal Casilino 900, le donne portano orecchini e collane d´oro, gonne lunghe cui si aggrappano figli divertiti che scambiano questa marcia di protesta, di «autorappresentazione, come la definisce l´antropologa Anna Maria Rivera, con una bellissima festa piena di gente "strana", che non sta nelle roulotte con loro. Qualche politico, più o meno gli stessi che hanno partecipato al Gay Pride, quelli che sanno di non rischiare fischi. Tanta Rifondazione che ricomincia dalla base, dalle battaglie per i diritti: ecco l´europarlamentare Roberto Musacchio, ecco Giovanni Russo Spena, Elettra Deiana, la già viceministra agli Esteri Patrizia Sentinelli che dice: «Vedo avanzare una cultura giuridica che è un obbrobrio. C´è bisogno di sostegno, di solidarietà, di politiche di integrazione in sintonia con la cultura rom. Trattarli da persone, e non da topi, è possibile». Ci sono la radicale Rita Bernardini, Furio Colombo, il gruppo Everyone, rappresentanti della Comunità di Sant´Egidio e di associazioni per i diritti umani. Doveva marciare a Roma anche Viktoria Mohbcsi, l´europarlamentare Romanì che ha ispezionato i campi e denunciato la situazione della comunità in Italia. Ha rilasciato un´intervista a «Le Monde», finita ieri in prima pagina. Insiste: «Ciò che accade in Italia è semplicemente spaventoso». Dal camion Arci il monito: «Alemanno stai sbagliando, i nostri bambini sono nati a Roma, vanno a scuola, non possono essere cacciati così!».
«Vuestra pena è nuestra pena», dice Juan de Dios Ramirez Heredia, presidente dell´Unione romanì di Spagna, europarlamentare . Lui c´è e parla da un palco allestito al «Villaggio Globale» dove la marcia si conclude, senza incidenti, con le bande del Kossovo e di Bucarest pronte a far musica fino a notte. A terra rimane un striscione scritto col pennarello: «Ogni popolo è una ricchezza per l´umanità».

Repubblica 9.6.08
Demagogia. Lo scrittore spagnolo: "Criminalizzare un gruppo etnico è fascismo"
Marias: brutta e povera Italia che non sa più essere solidale
di Alessandro Oppes


Berlusconi e Bossi non capiscono neppure cos´è una democrazia Il leader della Lega è un demagogo
Nella politica trionfa il linguaggio da bar: si è ormai abbattuto il muro tra ciò che si può dire o non dire in pubblico

MADRID - «Un paese cupo, antipatico, di cattivo umore, che ha perso il senso della solidarietà, e dove persino, l´espressione può sembrare un po´ forte, emerge qualche sintomo di razzismo». Javier Marías lo dice con rammarico, ma ne è profondamente convinto: la "decadenza" italiana è un dato di fatto secondo l´autore della trilogia Il tuo volto domani. E nasconde una minaccia che lo scrittore non ha timore a sintetizzare in una sola parola: «Fascismo».
In un articolo pubblicato su El País, lei parla di una "brutta e povera Italia". Che paese è l´Italia che lei ha conosciuto, e che ora rimpiange?
«I miei primi viaggi risalgono agli anni Ottanta. Andavo a Venezia, e lì ho trascorso diversi periodi di vari mesi: in tutto un paio d´anni. Ma poi ho continuato a visitare il paese, spesso, fino ad oggi. L´Italia mi piace moltissimo, posso dire che - fuori dalla Spagna - è il paese dove mi sento più a mio agio, insieme alla Gran Bretagna. Per questo ho difficoltà a capire come un paese così squisito, e così dotato di senso dell´umorismo - lo dico come un grande elogio - sia potuto diventare tutto il contrario. Insomma, l´Italia per me era un paese "leggero", nel senso che vi sembrava prevalere l´allegria. Ora ho la sensazione che sia diventato pesante».
Dove individua i sintomi, e le ragioni, della decadenza?
«In Italia è stata ormai chiaramente abbattuta la frontiera tra ciò che si può dire o non dire in pubblico. Il linguaggio da bar, quello che io preferisco chiamare "linguaggio da caverna", si è trasferito alla politica. È una forma superiore di demagogia, perché non si tratta solo di dire alla gente ciò che vuole sentire: il fatto che i politici adottino in pubblico il linguaggio crudo e brutale che dovrebbe essere confinato nel privato, gli dà legittimità. E ricompare nella bocca dei cittadini, ma con una veemenza molto superiore. Il pericolo è innegabile, perché può sempre accadere che ciò che si è detto si decida di metterlo in pratica, che si passi dalle parole ai fatti».
Crede davvero che esista la seria minaccia di un rigurgito del fascismo?
«Spererei di no, però… sì. Esiste, eccome. La parola fascismo è una parola abusata. In Spagna la si utilizza ormai semplicemente come un insulto. Ma quando io l´ho utilizzata, ho ricordato il periodo del fascismo storico. Ci sono una serie di atteggiamenti, dichiarazioni, misure, che mi riportano alla memoria Mussolini, mi dispiace molto. Quello che sorprende è che certe cose possano accadere senza che la gente percepisca il pericolo. Parecchi di noi non hanno vissuto il periodo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale, però sappiamo come nacquero certi regimi. Qui si annunciano misure contro i rom, si criminalizza un intero gruppo etnico: non dimentichiamo che i gitani furono una delle etnie perseguitate dal nazismo. Immaginiamo che si dicessero degli ebrei le stesse cose che si stanno dicendo in questi giorni dei rom: il mondo intero insorgerebbe».
Questo che significa, che non abbiamo appreso la lezione del passato? O forse che 60 anni sono sufficienti per dimenticare?
«Darei per buona la seconda: la gente dimentica, dimentica molto facilmente. E soprattutto non associa, non stabilisce un collegamento tra gli eventi della storia e i fatti del presente».
Come pensa che si sia potuto imporre, in Italia, il fenomeno Berlusconi?
«Immagino che le ragioni vengano da una classe politica che, per quanto abile, è molto instabile. Dopo i lunghi anni di governo democristiano, il crollo del Psi di Craxi, la perdita di prestigio della sinistra seguita al crollo del muro di Berlino, lo scandalo di Mani Pulite, la gente ha cominciato a diffidare dei professionisti della politica. Berlusconi non lo è, o per lo meno non lo era. Lo stesso Bossi ho l´impressione che non lo sia: è più che altro un demagogo. Gente che non capisce neppure che cos´è una democrazia. Possono essere pure arrivati al potere in modo democratico, ma questo non basta: la patente di autentici democratici bisogna guadagnarsela giorno per giorno, con i fatti. Visto come stanno le cose, preferisco di gran lunga che siamo governati da politici professionisti».
Lei parla di populismo, ma ammette che, di questi tempi, l´Italia non è un caso unico: con tutte le differenze, cita Hugo Chávez, la Polonia dei gemelli Kaczynski e lo stesso presidente francese Sarkozy.
«Ricordo un dibattito al quale partecipai, due anni fa, insieme a William Boyd. Riconoscevo, allora, di avere sempre avuto una grande ammirazione per la Francia: ma aggiungevo che il fatto che Sarkozy fosse in quel momento il politico più ammirato (ancora non era stato eletto presidente) mi inquietava profondamente. Temo che il tempo mi stia dando la ragione. Il caso dell´Italia è ancor più plateale, perché tutto sta avvenendo in modo più gridato, più scoperto. Quello che temo di più è che tutte queste cose possano essere contagiose, che possano contagiare altri paesi. Si sa, l´imbecille ha successo nel mondo. Le idee più stupide trionfano».

l'Unità 9.6.08
Vendola al Prc: basta vecchi cimeli
di Simone Collini


Il futuro della sinistra non può dipendere da ciò che si ha in cantina, siano i vecchi cimeli o le logiche puramente identitarie. Il governatore della Puglia Nichi Vendola in un’intervista a l’Unità spiega come intende rilanciare la sfida di Rifondazione comunista (è candidato alla segreteria nazionale) dopo la sconfitta choc delle politche e la conseguente scomparsa dal Parlamento di ogni voce della sinistra cosidetta radicale. «La fedeltà alla tradizione - dice - non è la chiave per risorgere».

«Basta nicchie, la sinistra rischia il deserto»
Vendola: nessuno scioglimento del Prc, ma una costituente che vada oltre il recinto del partito

VA BANDITA «qualunque spocchia ideologica», rifiutata l’idea che sia «necessario rifugiarsi nelle proprie nicchie identitarie» ed evitata quella secondo la quale «la fedeltà alla tradizione è la chiave per risorgere». Per Nichi Vendola si deve partire da qui per far «rimettere radici» a una sinistra «spiantata». Il governatore della Puglia si candida a segretario di Rifondazione comunista con una mozione che propone l’avvio di un processo costituente perché, dice definendo questo «il vero punto del dissidio» rispetto alla mozione Ferrero-Grassi, «siamo una minoranza ma non vogliamo essere segnati da una cultura minoritaria».
La fine delle votazioni nei comitati politici federali mostra un partito spaccato a metà. Come premessa al congresso vero e proprio non è delle migliori...
«Fa parte del gioco democratico. Quello che sarebbe grave è la cristallizzazione di questa divisione, il permanere di una frattura. La diversità delle opinioni dovrebbe essere una ricchezza e dovrebbe avere un carattere propedeutico alle scelte».
Perché dice questo?
«Perché io non ho nessuna intenzione di sciogliere il partito che ho contribuito a costruire, ma mi piacerebbe molto sciogliere le dinamiche di corrente che talvolta corrodono elementi fondativi, di solidarietà, dentro una comunità politica».
Una risposta alle accuse che le hanno rivolto?
«Un appello a rispettare le storie personali e a evitare parole usate come oggetti contundenti».
Lei dice che non vuole sciogliere il partito, però propone una costituente della sinistra: come fanno a tenersi le due cose?
«Proponiamo un processo costituente. Sono due parole, entrambe importanti. Processo significa un cammino, la sperimentazione di luoghi nuovi nei quali restituire senso al fare politica. E costituente perché abbiamo di fronte una radicale desertificazione sociale e culturale della sinistra. Quella di oggi è una sinistra spiantata dalla terra del lavoro, dalle comunità urbane e anche dal senso comune. Si tratta appunto di rimettere radici nella società. Questo è il processo costituente. E sarebbe un po’ strano, per uno come me che nei 37 anni di militanza comunista ha fatto della critica alla forma partito uno dei fuochi della sua passione, costruire questo esclusivamente dentro il recinto della forma partito».
Come fa la sinistra a “rimettere radici”?
«Rifiutando l’idea che sia necessario rifugiarsi nelle proprie nicchie identitarie, dismettendo qualunque spocchia ideologica e evitando di immaginare che la fedeltà alla tradizione sia la chiave per risorgere. Viceversa, occorre un aggiornamento radicale dell’analisi della nostra società».
Che ne pensa della proposta di Diliberto di unire i comunisti, cioè Pdci e Prc?
«Che è esattamente il contrario di ciò che necessita. Quella è la scorciatoia del feticismo dei simboli, del tradizionalismo identitario. Io penso a un partito che abbia due obiettivi: rimettere in campo se stesso come un cantiere dell’innovazione e sentire preminente la necessità di contribuire a ricostruire il campo largo della sinistra».
Innovazione fino all’abbandono delle famiglie politiche di appartenenza?
«Non si tratta di fare un’operazione liquidazionista, anzi. Ma non basta neanche contrapporre un richiamo retorico, l’identità come un bene museale, il partito come trincea e riparo. Serve immaginare il partito come un corpo vivente e vivere gli elementi tipici delle culture politiche non come cimeli».
Fava si è detto pronto a raccogliere la provocazione intellettuale per la quale comunismo e socialdemocrazia sono tradizioni politiche concluse: lei che dice?
«Mi pare un congedo frettoloso da vicende che non meritano veloci cerimonie di addio. Personalmente penso che la categoria del comunismo abbia oggi un potenziale largamente inesplorato. A condizione, appunto, di essere agìto non come una risposta precotta, ma come una ricerca comune e una domanda radicale sulla espropriazione di senso anche della vita, in questa fase storica».
Dopo che D’Alema si è espresso in suo favore e Diliberto per Ferrero, lo stesso Ferrero ha invitato tutti a rispettare il dibattito interno senza interferire.
«Rifondazione comunista dovrebbe essere considerata un bene comune del popolo della sinistra e quindi dovrebbe essere interesse di tutti lavorare per un congresso aperto, che non ruoti solo attorno al nostro ombelico ma che coinvolga nella discussione una platea molto ampia».
Rifondazione come “bene comune”, dice, eppure nei siti web delle diverse mozioni inizia a spuntare la parola scissione.
«Se ne parla a sproposito, e comunque penso che la scissione peggiore sia quella dalla realtà».
Che vuole dire?
«Immaginare che un partito debba essere un piccolo gruppo è una scissione dalle necessità sociali. Noi abbiamo bisogno di un grande partito, di un Prc che abbia come obiettivo la ricostruzione di una sinistra di popolo. Questo è il punto vero del dissidio, siamo una minoranza ma non vogliamo essere segnati da una cultura minoritaria».

l'Unità 9.6.08
Pdci. Congresso, due mozioni. Ma anche Rizzo insidia Diliberto


Saranno due le mozioni che si sfideranno, al congresso del Pdci di metà luglio. Ma l’insidia, per Oliviero Diliberto, non arriverà soltanto dai sostenitori del documento che ha come prima firmataria Katia Bellillo. Marco Rizzo ha deciso di non presentare una propria mozione, ma al comitato centrale di ieri ha fatto capire che nelle prossime settimane farà sentire la sua voce. Alla riunione a porte chiuse ha presentato un emendamento che proponeva una revisione critica dell’appoggio al governo Prodi e alla scelta di partecipare all’esperienza della Sinistra arcobaleno. L’emendamento è stato bocciato, ma dopo si è aperta una discussione sui numeri: una nota dell’ufficio stampa del partito faceva sapere che l’emendamento Rizzo ha raccolto 32 voti sui 383 membri del comitato centrali, pari all’8,35%; passati pochi minuti è però intervenuto lo stesso Rizzo per correggere le cifre: «La votazione in cui si chiedeva di valutare criticamente l’Arcobaleno ha dato come esito non, come è stato erroneamente riportato, l’8 ma il 31%, perché ha ricevuto 44 voti su 144 presenti».
Al di là della battaglia dei numeri - non secondaria quando poi si tratterà di calcolare le percentuali da assegnare negli organismi dirigenti - Rizzo sta portando avanti un’operazione tendente a dimostrare che Diliberto si sta ora posizionando su una linea che lui aveva sostenuto da tempo, e che la proposta di unire i comunisti rappresenta la sconfessione dell’esperienza dell’Arcobaleno, sostenuta dal segretario e osteggiata dal coordinatore nei mesi precedenti il voto di aprile.
Non è la sola grana con cui avrà a che fare Diliberto al congresso. Per la prima volta dalla fondazione del Pdci il segretario sarà sfidato da un’altra mozione, quella di Katia Bellillo, che tra gli altri sarà sostenuta anche da Umberto Guidoni. La Bellillo, alla riunione di ieri, ha anche contestato il regolamento congressuale: «È taroccato e scritto per la maggioranza», è stato suo giudizio: «Altro che aprirci agli altri con la costituente comunista, se non riusciamo neanche a garantire il pluralismo nel nostro congresso».

l'Unità 9.6.08
Alla Camera il ddl Aprea: gli istituti diventeranno fondazioni, gli albi per i docenti regionali, spariranno le Rsu
La destra vuole privatizzare la scuola pubblica
di Marina Boscaino


Il ministro tace. Ma i suoi progetti sarebbero nella stessa direzione

Come in un casalingo film horror - a volte tornano. Valentina Aprea, responsabile scuola di Forza Italia e presidente della Commissione Cultura della Camera, ha tirato fuori un disegno di legge molto simile a quello che era stato esaminato in commissione durante il precedente governo Berlusconi. In quella circostanza firmatari, assieme all’Aprea, erano stati Bondi, Bonaiuti, Adornato, Cicchitto. "Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti" è il titolo del ddl, che al momento è stato assegnato in sede referente alla VII commissione. Nel testo si concretizzano tutti i timori che una parte degli insegnanti aveva prima delle elezioni; e un’idea di scuola - e soprattutto una direzione di marcia verso una riforma della scuola - completamente opposte a quelle che avremmo auspicato.
Alcune dei mutamenti più significativi: le scuole verranno trasformate in fondazioni (ma ricordiamo che la proposta era già contenuta nel decreto Bersani del 2007). Per quanto riguarda gli organi collegiali, consigli di circolo e consigli di istituto spariranno, sostituiti da consigli di amministrazione, in cui saranno presenti anche "rappresentanti dell’ente tenuto per legge alla fornitura dei locali della scuola ed esperti esterni, scelti in ambito educativo, tecnico e gestionale". Per quanto riguarda i docenti, si configura un’ulteriore rivoluzione: saranno istituiti albi regionali; la carriera sarà articolata in tre livelli (iniziale, ordinario ed esperto); l’aumento stipendiale, oltre che dall’anzianità, sarà determinato dall’appartenenza al singolo livello e a selezioni interne. Si diventa docente ordinario con concorso per soli titoli; esperto con concorso per titoli ed esami. Ciascun istituto potrà bandire autonomamente concorsi per reclutare il personale docente: niente più maxi concorsi e graduatorie. La formazione iniziale dei docenti prevede la laurea magistrale abilitante e un anno di "inserimento formativo al lavoro" presso una scuola. Infine, spariranno le Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU) e per i docenti verrà istituita una specifica area contrattuale.
Il silenzio di Mariastella Gelmini, probabilmente, non è sintomo di riflessività e di volontà di appropriarsi di una materia che le è del tutto sconosciuta. Il ministro è comunque intervenuto sulla questione dei debiti scolastici, con una nota ambigua, che lascia aperto il campo alle più diverse interpretazioni, che getterà le scuole in un ulteriore caos, nel caso facilmente ascrivibile, però, al ministro Fioroni, autore originario del provvedimento. Il silenzio è più ragionevolmente dovuto al fatto che nel ddl di Aprea si configurano le più rosee previsioni della proposta di legge, a firma della stessa Gelmini, del febbraio scorso. L’attacco dei "falchi" - Brunetta e Aprea - condito da una insperata, sovrabbondante dose di mercato e di liberismo d’assalto, rischia di far impallidire persino la proposta Gelmini. Che colomba non è, considerati i suoi trascorsi. Ma che attende che i colleghi panzer da sfondamento le spianino la strada per completare l’opera.
Se dovesse passare, il ddl di Valentina Aprea porterebbe una vera e propria rivoluzione nell’istruzione. In un senso che crea un esplicito e pericoloso accostamento tra scuola e azienda; in cui la concorrenza avrà una funzione fondamentale; in cui al principio della partecipazione si sostituisce quello del soddisfacimento di esigenze e bisogni individuali dell’ "utenza" (i genitori, più volte evocati); in cui la logica del profitto - sotto l’imprimatur dei termini "efficacia", "efficienza" e "modernità", buoni ormai per ogni stagione - si sostituisce alle logiche dell’art. 33 e 34 della Costituzione; in cui si sottolinea che la "sfida è quella di riallocare le risorse finanziarie destinate all’istruzione partendo dalla libertà di scelta delle famiglie, secondo i principi che le risorse seguono l’alunno ("fair founding follows the pupil"). Principio - ci ricorda l’Aprea - affermato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, ma che nel nostro Paese, si può starne certi, rappresenterà una risposta all’"emergenza educativa" denunciata da Benedetto XVI e alla conseguente richiesta di finanziamento delle scuole cattoliche. Attraverso l’abolizione dei concorsi pubblici, inoltre, ciascuna scuola potrà reclutare il personale, secondo criteri che violeranno principi di uguaglianza e di pari opportunità: la scuola - sotto la competenza regionale - darà carta bianca, come ampiamente previsto, ai principi secessionisti. Senza parlare del fatto che la regionalizzazione porterebbe all’assenza di docenti al Nord, a un esubero al Sud - con fondi minimali - oltre a violare il principio della libera circolazione dei lavoratori. E poi quel che il ddl inserisce sotto la dizione "stato giuridico degli insegnanti" (un problema reale, al quale pure sarà necessario mettere mano con modalità e intenti diversi) è sottoposto ad una serie di punti interrogativi, alee, arbitri. Pericolosissimi.

l'Unità 9.6.08
Così muore la Scuola di Cinema a Roma. Grazie al governo
di Adele Cambria


Se lo chiede Stefania Brai, responsabile nazionale del Dipartimento Cultura Prc, aprendo il convegno indetto dall’Anac al Nuovo Olimpia: «Perché siamo qui in un sabato mattina di giugno, e dopo la sconfitta elettorale che abbiamo subito, a parlare del Centro Sperimentale di Cinematografia, minacciato nella sua stessa identità dai provvedimenti e dalla linea scelta, fin dalla campagna elettorale, dal nuovo Governo?». La domanda è abbastanza sconsolata, ed effettivamente dispiace che nella piccola platea di una delle due sale del cinema d’essai dietro il Parlamento, le teste bianche, pur se prestigiose,(Maselli, Montaldo, Gregoretti, Cerami), sopravanzino al 90% quelle giovanili (se non giovani); insomma, mancano gli studenti del Csc, eppure della loro sorte ci si preoccupa qui. «E per forza, - dirà nel suo appassionato intervento Paola Pellegrini, area Pdci - gli abbiamo detto e ripetuto che tutto il nostro passato è da buttar via, che "le grandi narrazioni" di cui parlava Ernesto De Martino non esisteranno più, allora, perché meravigliarci?». Anche la risposta che Stefania Brai dà al proprio interrogativo è di dura autocritica: «La nostra sconfitta è stata culturale. Perciò abbiamo scelto, noi che crediamo nel cinema, di ricominciare da questa che sembra una piccola questione e non lo è affatto: lo smantellamento del Centro Sperimentale di Cinematografia, all’insegna del monito lanciato dal ministro Brunetta: "Il mercato è la medicina amara che il mondo dello spettacolo deve ingoiare"».
E da qui cominciano le analisi, le denunce e le controproposte. Allo slogan di Brunetta infatti hanno risposto, ben prima che l’economista berlusconiano arrivasse al governo, i lavoratori del Centro (della sezione CGIL Funzione Pubblica) con le loro lotte, siglate da tre aggettivi rivendicativi - «Unico, pubblico, indivisibile» - con i quali si vuole ribadire l’identità del Centro. E gli stessi aggettivi sono stati adottati dall’Anac come titolo all’incontro di ieri mattina.
L’unicità del Csc, intesa come unica Scuola di Cinema italiana costituita come pubblica - spiegano i sindacalisti Moscoviti e Musumeci - è già stata intaccata dal trasferimento a Torino della sezione cartoni animati e a Milano di quella televisiva. La controproposta attorno alla quale l’Anac aveva cominciato a lavorare non appena nel 2006 era stato eletto il governo Prodi,- il neosenatore di Sinistra Democratica Vincenzo Vita si è impegnato, con la lealtà che lo caratterizza, a farla entrare quanto prima nel dibattito parlamentare - prevede che, pure avendo il Csc la sua sede nazionale a Roma, possano essere aperte sedi periferiche in tutte le regioni italiane..
Ma la nuova linea governativa, peraltro già profilatasi sotto il governo Prodi, è quella di creare una s.r.l. che svolga privatisticamente, e sia pure con una partecipazione dello Stato, quasi tutte le funzioni finora svolte dal Centro. Intanto le condizioni di fatto dell’istituzione sono «sotto la soglia di povertà». Il recentissimo taglio del Fus (attraverso il quale lo Stato finanzia lo spettacolo) è stato interpretato da Francesco Alberoni, rimasto al suo posto anche con il secondo governo Prodi, nella maniera più estrema: soppresse le borse di studio per i fuorisede, sospeso il bando di concorso per il biennio 2007-2009, è in arrivo anche una norma secondo la quale per realizzare i saggi di fine d’anno e quello finale del diploma gli allievi di regia dovranno trovarsi lo sponsor. Insomma: «Il Fus fattelo regalare da papà»!
Da segnalare che i due grandi film italiani di Cannes 2008, cioè Il divo e Gomorra, avevano usufruito della tax credit voluta dal Ministro Francesco Rutelli e ora abolita: la legge relativa riconosceva ai privati che investissero nella realizzazione di un film di qualità, uno sconto fiscale del 40%. «E lo Stato non ci perdeva niente perché il privato in questione concorreva come coproduttore agli incassi del film, sui quali pagava regolarmente le tasse!». Me lo spiega Michele Conforti, ex membro del CdA di Cinecittà.

l'Unità 9.6.08
«Del mutare dei tempi» è il primo di due volumi
Marisa Rodano, storia d’Italia dal 1921 al 1948
di Graziella Falconi


Memoria autobiografia, racconto, saggio? Questi interrogativi Marisa Cinciari, coniugata Rodano, consegna al lettore del libro che ha scritto nella consapevolezza della forte difficoltà del raggiungimento dell’oggettività, poiché la memoria, sia quella individuale che quella collettiva, occulta elimina esalta seleziona. Con suo marito Franco condivideva un aristocratico fastidio verso i compiaciuti del proprio passato, degli innamorati di quello che si è stati. Preferivano entrambi guardare al presente e ancora di più al futuro. Quale allora la molla che l’ha spinta a scrivere questo corposo libro, dove i ricordi affiorano «come massi erratici di montagna»? Pochi mesi prima di morire, suo marito Franco le aveva chiesto di comperare un quaderno bello grosso per scrivervi insieme le loro memorie. Dunque un debito d’amore verso l’uomo straordinario conosciuto sui banchi del liceo Visconti con il quale dividerà più di mezzo secolo di vita. Un tale impegno non poteva che essere onorato in modo ponderoso, poiché impegnativi sono i contraenti di quell’impegno. Non la sola storia privata, ma la testimonianza «del mutare dei tempi». Così infatti si intitola il primo dei due tomi editi dalla casa editrice Memori. Marisa, che è nata - nello stesso mese giorno e anno del PCI - da una famiglia altoborghese di costruttori, di origine ebraica, riflette su vari cambiamenti sociali. Le sue memorie sono come un compendio di storia sociale dell’Italia dal 1921 al 1948. Non provenendo da una tradizione cattolica, la Rodano stenta a riconoscersi nelle ricostruzioni storiche che collocano le origini del movimento dei cattolici comunisti e della sinistra cristiana nell’alveo della tradizione popolare cattolica. E forse questa è stata per lei una molla aggiuntiva per scrivere. Una scrittura giovane piacevole, ricca di immagini, precisa, complessa come i suoi rapporti con Franco, al quale sedicenne si era dichaiarata con un contorto ragionamento. Vivevano insieme, in clandestinità e castità, perché volevano arrivare vergini al matrimonio e qualcuno aveva messo in giro la voce che il letto fosse diviso in due da...un rosario. La ragazza ricca, sposatasi indossando un cappottaccio infestato dai pidocchi bianchi, termina il primo tomo delle sue memorie con le elezioni del 1948 quando inizia la sua lunga marcia nelle assemblee elettive. Ma questa, come lei scrive, è un’altra storia.
Del mutare dei tempi, vol. 1 Marisa Rodano pagine 380, euro 18,00

l'Unità 9.6.08
Musica e parole: la stessa origine nel nostro cervello
di Pietro Greco


Non esiste una scala universale di sette note. Tutto è legato alla cultura
Le orecchie occidentali non sentono i microtoni delle melodie indiane

NON C’È un luogo nei nostri emisferi cerebrali dedicato esclusivamente alle attitudini musicali che invece sono strettamente connesse alle lingue. I risultati di una ricerca pubblicata su «Nature»

Non c’è un’isola della musica nel nostro cervello. Né nell’emisfero destro né altrove. La musica è legata ad altri processi cognitivi, il linguaggio in primo luogo; il suo apprendimento è largamente determinato da fattori culturali; coinvolge, sia pure in maniera differenziata, molte aree cerebrali; non c’è una scala musicale universale; tanto meno quella scala è la nostra, basata sulle sette note che dividono l’ottava.
È questo il messaggio che Aniruddh D. Patel, ricercatore dell’Istituto di neuroscienze di San Diego in California, autore del recentissimo libro «Music, Language, and the Brain» e tra i primi a studiare le basi neurobiologiche delle nostre attitudini musicali attraverso l’analisi dei linguaggi e delle musiche utilizzati nei paesi non occidentali, ha affidato a un articolo pubblicato sulla rivista Nature giovedì scorso. Ed è un messaggio in molte parti nuovo.
L’uomo è una specie musicale, così come è una specie parlante. Ma, come ci ricorda Silvia Bencivelli in un altro libro, «Perché ci piace la musica» pubblicato lo scorso anno dall’editore Sironi, le due funzioni sono state a lungo considerate poco connesse anche dai neuroscienziati che le hanno iniziate a studiare con scientifica sistematicità a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso. Diana Deutsch, anche lei neurobiologa in California, nel 1969 dimostrò che la memoria musicale è cosa diversa e indipendente dalla memoria verbale. E pochi anni dopo la psicologa canadese Doreen Kimura ha dimostrato che la memoria musicale è localizzata nell’emisfero destro, mentre quella verbale è localizzata nell’emisfero sinistro.
Vero è che, negli ultimi anni, un’intera costellazione di studi ha dimostrato che questa indipendenza tra quelle nostre due capacità cognitive è più apparente che reale. Già dalla metà degli anni ‘70, per esempio, sappiamo che la localizzazione della memoria musicale nell’emisfero destro vale solo per i non musicisti, chi fa musica per professione o comunque con continuità usa l’emisfero sinistro. E quindi usano strategia di apprendimento e memorizzazione diverse.
Ciò che sappiamo oggi delle basi neurobiologiche della musica è molto di più e di più complesso rispetto a quello che sapevamo solo trent’anni fa. Ma pochi, finora, avevano studiato insieme linguaggi e tradizioni musicali che non appartenessero alla cultura occidentale. Aniruddh D. Patel è tra i pochi pionieri.
Abbiamo capito, per esempio, che la nostra scala musicale non è affatto universale e non si fonda su leggi matematiche assolute, come sosteneva Pitagora. Le scale pelog e slendro della musica gamelan di Giava e Bali, in Indonesia, usano timbri a noi sconosciuti. E le nostre orecchie occidentali neppure riescono a percepire alcuni microtoni della musica indiana e araba. È evidente, dunque, che la nostra scala musicale non è universale. E che non esistono scale universali.
Eppure sulla base di questo assunto (sbagliato) ci siamo formati un’idea (relativamente corretta) sulla percezione del ritmo con cui abbiamo stabilito le prime connessioni tra musica e linguaggio. In particolare tra la sintassi musicale e la sintassi linguistica. Per esempio pensavamo che appartenesse alla sintassi musicale universale il susseguirsi di suoni brevi e lunghi nella percezione normale del ritmo, come succede da noi. Ma in Giappone si verifica esattamente il contrario. E secondo Aniruddh D. Patel ciò è legato alla sintassi del linguaggio: in occidente quando parliamo costruiamo frasi in cui il suono breve di un articolo precede sempre il suono più lungo di un sostantivo - il libro (in italiano), the book (in inglese), le livre (in francese). In Giappone si verifica il contrario: il libro si dice hon-wo, dove hon è il sostantivo e wo è l’articolo. Il ritmo della frase ne è profondamente cambiato. E ciò in relazione con la percezione del ritmo musicale.
Patel ritiene che ci siano molti legami neurobiologici, anche di natura computazionale, tra musica e linguaggio. Per esempio il cervello usa meccanismi simili per processare i suoni non periodici prodotti sia in ambito musicale che in ambito linguistico. E, molto probabilmente nella elaborazione della sintassi dei due sistemi sonori usa il medesimo sistema di integrazione dell’organizzazione gerarchica dei suoni. Ma nel suo articolo su Nature, Patel insiste sullo studio comparato delle musiche e dei linguaggi non occidentali. Ci diranno, sostiene, se i due sistemi di comunicazione hanno un’origine comune e se si sono evoluti da un sistema unico e più generale di riconoscimento dei suoni prodotti nell’ambiente. Diventando al tempo stesso effetto e concausa dello sviluppo delle nostre capacità cognitive.

l'Unità 9.6.08
Il linguaggio del tamburo


Linguaggio e musica sono strettamente correlati, sostiene Aniruddh D. Patel. Lo dimostra tra l'altro il fatto che alcune popolazione del Congo usano il tamburo non solo per fare musica o «parlare», inviandosi messaggi a distanza. Ma anche per fare musica e «parlare» nel medesimo tempo.
Con due particolarità davvero degne di nota. La prima è che il suono prodotto passa del tutto inosservato per chiunque ascolti la musica e non conosca il «linguaggio del tamburo». Il secondo è che il «linguaggio del tamburo» usato dai congolesi mentre fanno musica è un vero linguaggio, perché consente di formare frasi nuove, proprio come facciamo noi con le parole. Anche se la sua efficienza non è paragonabile al linguaggio parlato, a causa del fatto che molte parole nel «linguaggio del tamburo» hanno un tono simile e possono essere facilmente confuse.
Un altro surrogato del linguaggio parlato, sostiene Aniruddh D. Patel, è quello dei fischi, ben modulati nei toni per formare vere e proprie sillabe. Viene usato da diverse popolazioni in Africa, in Asia e in America centrale. Spesso con la stessa ricchezza linguistica.
Il bello è che, a differenza del linguaggio parlato, anche il linguaggio dei fischi non viene neppure percepito da chi non lo sa parlare. Le popolazioni Hmong dell'Asia sud-orientale, per esempio, possono dialogare a lungo e noi occidentali neppure ci accorgiamo che lo stanno facendo.

l'Unità 9.6.08
Fao, la fame e le brioche
di Maurizio Chierici


Negli ultimi sei mesi drammatiche rivolte per riso e pane hanno sconvolto ventidue nazioni. Ed è solo l’inizio se non succede qualcosa. La marea dei profughi continua a montare

La concretezza delle assemblee Fao ricorda le infiorate in costume tra Umbria e Toscana. Sbandieratori di gonfaloni. Mentre il battito del computer sposta i capitali delle banche e decide affari in meno di un secondo, i ministri del mondo arrivano a Roma con lunghi discorsi. Esercizi di vanità mediatica. Medioevo della politica che continua nell’evo elettronico. Promesse retoriche, indignazioni solenni, spot che imbrogliano la gente attribuendo dimensioni planetarie a comprimari del potere alla ribalta sul palcoscenico Fao.
Quanto costa la sceneggiata? Ogni capo di governo arriva con le sue troupe di giornalisti, ministri, esperti, assistenti fidati. E poi le mogli. Le cento ambasciate straniere di Roma assicurano alberghi adeguati alla dignità dei protagonisti; organizzano pranzi di benvenuto, cene e conferenze stampa, cocktail con uomini d’affari. Milioni in fumo così. Quanti euro beve la gigantesca parata? Le macchine di ogni agenzia delle Nazioni Unite - Fao, Unicef, e l’Acnur che assiste i profughi - assorbono il 70 per cento delle disponibilità che passa il Palazzo di Vetro o raccolte nelle campagne «aiutiamo i bambini poveri, aiutiamo i profughi senza casa». Pagati stipendi e manifestazioni, resta il 30 per cento da distribuire nelle opere di bene. Sommando le spese romane ai costi di ogni paese, nei tre giorni dell’assemblea, vien fuori una somma spropositata. La si potrebbe spendere in altro modo. Prendiamo un posto africano non ancora infernale: Ghana, 21 milioni di persone, vite appese alle esportazioni di legno pregiato, carne, pesce, oro. Il liberismo sta cambiando l’agricoltura: niente grano e patate dolci, ma soia e canna da zucchero per etanolo. Da un po’ di anni la popolazione non cresce. Fanno figli, ma i figli muoiono piccoli. Denutrizione, eccetera; è soprattutto la malaria a tagliare le teste. Metà dei piccoli finisce all’ospedale quando ha meno di cinque anni. Un quarto non ce la fa. Basterebbe un kit, costa meno di tre euro, per impedire migliaia e migliaia di morti. Le spese del meeting Fao possono salvare una generazione. I più o meno grandi del mondo fra due anni dovrebbero incontrare ad Accra tanto per uscire dalla retorica delle bugie per confrontarsi con la realtà. Intanto le promesse restano promesse: 8 miliardi di dollari per evitare la fame, si è giurato l’altro ieri. Dei miliardi annunciati nelle assemblee degli ultimi anni è arrivato qualche spicciolo. L’Italia del Berlusconi Tre ha preferito combattere in Iraq tagliando i fondi destinati alle Ong impegnate a contrastare sottosviluppo e fame. Guai mettere in dubbio le urgenze democratiche del mondo libero. Patria e bandiera prima di tutto. L’ipocrisia non è una novità. Le parole non costano niente. Vaghe, tranquillizzanti e la coscienza respira. Dal 1990 si ripetono le stesse cose; si giura lo stesso impegno. Ogni due anni per diciotto anni così e gli affamati aumentano e le multinazionali ingrassano e i disperati continuano a sbarcare con l’arroganza dei clandestini che è sacrosanto chiudere in galera. Le Leghe si inquietano: perché vengono a mangiare proprio da noi senza timbri e carte ufficiali? Noi, obesi, che difendiamo coi denti legittime comodità. Il rapporto affamati e chi mette un piatto in tavola non è cambiato da quel ’90. Adesso 850 milioni di bocche vuote drammatizzano la crisi in caduta libera. La conclusione di Roma sembra chiara: nel 2009 noi del G8 faremo sul serio. Pance piene per tutti. Fra dodici mesi gli affamati saranno cento milioni in più. Purtroppo devono portare pazienza. Prima o poi la globalizzazione salverà i sopravvissuti.
Noi del G8, chi siamo? Un’indicazione c’è. Proprio mentre le promesse riempivano i taccuini, il primo paese del mondo votava una legge bipartisan che fa capire tante cose. Democratici e Repubblicani degli Stati Uniti si sono trovati d’accordo nell’approvare al Congresso un provvedimento da guerra fredda. I grandi produttori agricoli, multinazionali che si allargano da un tropico all’altro, riceveranno dal governo di Washington sovvenzioni questa volta imponenti: cinque miliardi di dollari. Protezionismo nella cattedrale del libero commercio. Affama non solo i paesi poveri, anche gli americani poveri travolti da prezzi irraggiungibili. E cominciano a tirare la cinghia le folle italiane: vanno a far spesa quando i mercati spengono le luci e la merce deperibile è sull’orlo dell’immondizia. Cinque miliardi di mancia e protezioni doganali rendono invincibili le esportazioni Usa, americani che anni fa nutrivano le mandrie con la stessa quantità di cereali destinati da India e Cina al consumo umano. Bistecche strepitose. Ma India e Cina stanno cambiando. Le multinazionali dei cereali avevano calcolato che sviluppo industriale e nuovo benessere di Pechino avrebbero gonfiato le esportazioni di 700mila tonnellate. Invece la Cina fa da sola nella transizione dal comunismo duro e puro al capitalismo d’assalto: esporta 15 milioni di tonnellate, proteggendo i suoi raccolti con grandi e piccole muraglie. Copiano le muraglie alzate dagli Stati Uniti contro la concorrenza dei paesi latini. Ogni banana o chicco di grano in arrivo negli Usa da produttori del sud, è tartassato da balzelli che eliminano la concorrenza. E gli americani che non frequentano Wall Street sono alle corde; e i produttori latini fanno fatica a vendere. Quindi riducono a niente le paghe da fame distribuite alle braccia della manovalanza campesina. Cinismo che arriva nei giorni dei guadagni record degli agricoltori Usa. Prezzi internazionali alle stelle. Riso più caro del 75 per cento; tortillas messicane vendute come oro. Pane, carne, frutta si comprano dal gioielliere. Milioni di tasche vuote possono solo guardare le vetrine mentre il sussidio statale consola gli speculatori. Due milioni e 600mila persone guadagnano meno di due dollari al giorno. Il 90 per cento dei pochi soldi serviva a mangiare in qualche modo. Ma negli ultimi cinque mesi impossibile rincorrere i prezzi e la fame si sta trasformando in una forma occulta di terrorismo organizzato dai grandi mercanti. Ho paura che le promesse Fao restino promesse se la nazione che ancora guida il mondo apre il cuore così. Non solo Nancy Pelosi, leader democratica della Camera dei Rappresentanti; non solo cento legislatori repubblicani appoggiano con entusiasmo la mancia dei cinque miliardi aggiungendo altre gentilezze; anche la speranza Barack Obama è d’accordo. Il sogno della nuova frontiera ingrigisce a tavola perché le campagne presidenziali vanno unte con pacchi di soldi. E i giganti alimentari non ne hanno mai raccolti tanti. La scalata alla Casa Bianca pretende finanziamenti da far tremare. E nei mesi della grande corsa Obama fa finta di non vedere. Una volta presidente, cambierà? Intanto nel paese dalla democrazia esemplare si distribuiscono altri aiuti settoriali. Milioni e milioni ai produttori di prugne della California; milioni a chi affetta i salmoni da infilare nelle buste di plastica; milioni a chi raccoglie asparagi o alleva cavalli. Mentre il liberismo del mercato asfissia la sopravvivenza di 40 nazioni alle corde, l’industria del primo paese è coperta d’oro per sbaragliare mercati lontani. Sussidi a go go a chi coltiva soia o mais da trasformare in etanolo. Le holding ormai rovesciano il 25 per cento dei raccolti nell’imbuto dell’energia rinnovabile: paga benissimo trascurando l’appetito della gente. Washington si dice disposta a sospendere i sussidi se anche l’Europa li sospende. Ma l’Europa del latte è pronta a marciare con i trattori su Bruxelles. O ad assediare Linate, o a bloccare le autostrade. Insomma, ognuno si tenga il suo. L’anno venturo penseremo agli altri. Negli ultimi sei mesi rivolte per riso e pane hanno sconvolto 22 nazioni. Ed è solo l’inizio se non succede qualcosa. La marea dei profughi continua a montare. Venerdì il Senato americano non è riuscito a raccogliere le venti firme necessarie alla presentazione della legge che affronta i problemi del cambio climatico. Controllo dei gas che stravolgono il tempo. «Pazienza se qualche isola poco abitata del Pacifico va sotto per lo scioglimento dei ghiacciai. Passata la crisi, provvederemo e con vigore». Il silenzio dei senatori democratici fa capire: anche il nuovo è d’accordo. Nessuno ha firmato.
Se democratici e repubblicani degli Stati Uniti marciano sui mercati lasciando da parte la gente che, tanto, è sempre morta di fame e continuerà a morire nei paesi del sottosviluppo, bisogna rendere giustizia a una signora non molto considerata per come si è guadagnata la presidenza. Il marito presidente in carica aveva tenuto le primarie in pigiama durante la prima colazione in famiglia: io non corro, andrai tu alla Casa Rosada. Democrazia coniugale, obiettivo raggiunto. Christina Fernandez Kirchner, immagine dell’Argentina, è arrivata a Roma nell’intervallo del braccio di ferro coi magnati agricoli del supermercato del mondo. Argentina di latte, grano, carne, soia. Immensità dove si produce 150 milioni di tonnellate di alimenti basici. Mettono a tavola 450 milioni di persone. Le esportazioni hanno permesso al paese travolto da una crisi che sembrava senza speranza, di tornare quasi normale. Quasi, perché qualche milione di argentini sopravvive fra le immondizie delle villas miserias e attorno a Tucuman si continua a morire di tante malattie che poi è solo fame. Buenos Aires torna grande caricando sulle navi alimenti che trascurano il mercato interno. Sei mesi fa Christina aveva vinto promettendo due pasti al giorno, a tutti, proprio tutti, ma gli esportatori resistono. Finora pagavano spiccioli per portar fuori il ben di dio. Christina impone le tasse necessarie a sfamare le folle dalle tasche vuote, e la protesta esplode con la violenza di chi non vuol perdere il mercato internazionale. Braccio di ferro tra i signori dell’agricoltura e governo. Blocco delle strade da parte dei potenti infastiditi dai dazi. Governo che resiste spulciando colossali evasioni fiscali. Il paradosso è che buona parte degli argentini è d’accordo con gli speculatori in quanto l’aumento della ricchezza di un certo numero di famiglie rianima le abitudini della borghesia compradora. La quale appoggia serrate e blocchi; strade e città impazzite. Applausi alle cisterne che versano sull’asfalto un mare di latte. Piuttosto che pagare le tasse export, meglio buttarlo. Agitazione che svuota gli scaffali dei negozi. Tutti fanno provviste, non si sa mai. L’esempio cileno dell’era pre Pinochet minaccia il governo. Per resistere, il marito della signora Kirchner ha chiesto al sindacato dei camionisti peronisti di bloccare i trasporti dei produttori agricoli. Tu mi impedisci di viaggiare, io ti impedisco di esportare. In Argentina come in Italia certe anime buone non rinunciano al tornaconto e all’evasione fiscale. A Roma c’era anche Lula, bravo nello scaldare la speranza. Ma nella pratica pensa a confortare i bilanci del Brasile: la soia divora l’Amazzonia e Lula costringe alle dimissioni Marina Silva, ministro che difendeva la foresta essendo cresciuta accanto a Chico Mendes ucciso dal latifondo. Nel mese di aprile l’occhio del satellite scopre che 1234 chilometri quadrati di foresta sono spariti in soli trenta giorni. Camion della soia transgenica già al lavoro. Lula è stato l’unico protagonista a rappresentare i paesi-continente che decidono il destino delle economie. Quindi delle pance vuote. Usa, Russia, Cina, India hanno mandato a Roma le seconde file. Bush, Putin e gli altri guardano da lontano. La fame non è quotata in Borsa.mchierici2@libero.it

l'Unità 9.6.08
Quel vento del razzismo che soffia sul Paese
di Luigi Cancrini


I Rom a Venezia che, secondo Libero, non debbono diventare stanziali. Le prostitute che debbono essere allontanate perché sono «pericolose per la morale» e possono essere allontanate con il foglio di via. I rifiuti tossici che sono il risultato della maleducazione e della cultura debole del Sud. Torna il razzismo? È davvero questa l’Italia in cui viviamo?
Lettera firmata

L’idea di Filippo Berselli e Carlo Vizzini, deputati del Pdl, per cui le prostitute vanno inserite nell’elenco dei soggetti pericolosi per la sicurezza e la pubblica moralità, accanto «agli oziosi e vagabondi, coloro che trafficano traffici illeciti, i delinquenti abituali, gli sfruttatori di prostitute e minori e gli spacciatori» è un’idea che merita di essere conosciuta. Se questo accadesse, infatti, il questore potrebbe allontanarle con foglio di via obbligatorio e inibirle dal ritornare per un periodo massimo di tre anni: per le disobbedienti quello che scatterebbe è il carcere fino a sei mesi. Dando un contributo, nella mente dei due onorevoli, al miglioramento della morale pubblica quotidianamente edificata dai comportamenti pubblici e privati dei nostri Vip. Un presidio della Lega con tanto di bandiere, megafoni e facce democraticamente indignate presidia intanto (e Sky ce lo mostra, ce lo spiega e implicitamente lo sostiene ossessivamente ogni ora, giorno dopo giorno) l’area dove il sindaco «rosso» di Venezia Cacciari vorrebbe costruire le case per i Rom (cittadini italiani, da tempo insediati nell’area del Comune), con l’appoggio esplicito di chi, dalle colonne di Libero, tuona contro l’idea di rendere stanziali i nomadi (secondo Libero loro non lo sono per natura, per irreparabile disposizione genetica) giudicandola incompatibile con la serenità dei cittadini che sono più italiani di loro (dotati, forse, della doppia cittadinanza, italiana e padana). I leghisti non smettono di tuonare, intanto, contro il presidente Napolitano reo di aver ricordato al paese che dietro al problema dei rifiuti non c’è soltanto la maleducazione dei «terroni» e la debolezza degli amministratori locali ma anche, e soprattutto, la mano d’una camorra che ha tratto guadagni anche dalla possibilità di seppellire, nelle discariche da lei controllate al Sud, i rifiuti tossici che venivano dal Nord. Dimenticando le relazioni firmate anche dai loro rappresentanti. Alimentando con argomenti poveri ma efficaci (e maligni) la polemica di chi crede ancora oggi che il bene e il male siano divisi, nell’Italia di oggi, dalle acque del Po. Se tutto questo è vero, e tristemente vero, la conclusione non può che essere una. Quello che soffia sul nostro paese è lo scirocco sgradevole e pesante del razzismo nelle sue manifestazioni più pesanti e più pervasive. Un vento che trova forza nell’ignoranza pigra di chi non vuole riflettere e, soprattutto, nel bisogno diffuso di trovare oggetti deboli per il proprio bisogno di dare sfogo con l’odio ad una aggressività altrimenti senza sbocco. Un vento rinforzato ad arte da chi sostiene i suoi personali interessi politici fomentando, su un piano più generale, la convinzione per cui chi vive male (le campagne sull’insicurezza) deve trovare qualcuno (un tempo gli ebrei ed oggi i rom, le prostitute e, di nuovo, i terroni) che di questo vivere male può essere accusato e da cui lui (il politico di destra, forte, puro e coraggioso, San Giorgio che combatte contro il drago) lo salverà. Con le sue leggi e con il suo furore di guerriero. O più semplicemente cavalcando, su piani più circoscritti, il vento del pregiudizio: rendendosi visibile, cioè, facendosi vedere per un attimo (l’emendamento Berselli-Vizzini) alla testa dell’orda di giustizieri che, lancia in resta, galoppano contro il nemico (il male). All’interno di un clima in cui alcuni giornali e alcune Tv sentono (d’istinto: con la rapidità del rapace o con l’entusiasmo del neofita poco intelligente) che cavalcare l’odio serve a vendere di più. Ad aumentare la propria popolarità ed i propri introiti pubblicitari. A bearsi del sorriso soddisfatto e riconoscente del proprio idolo o del proprio padrone. È davvero questa l’Italia in cui viviamo? Non credo. L’Italia in cui viviamo è sicuramente anche e soprattutto altro. È fiducia nel fatto che, come dicevano gli anarchici nell’inno dedicato alla condizione degli operai nell’800 («son nostre figlie /le prostitute/ che muoion tisiche/negli ospedali/le poverette si son vendute /per una cena per un grembial... »), le prostitute non sono persone pericolose per la morale (di chi?) ma le vittime di uno sfruttamento, di una violenza fatta su di loro da persone voraci e davvero, prive di morale. È sicurezza, basata sulla riflessione e sulla conoscenza della storia, del fatto che i nomadi possono diventare stanziali se si assicura l’istruzione ai loro figli e la salute alle loro famiglie favorendo insieme l’integrazione con le popolazioni locali e la sicurezza di queste ultime. È certezza, infine, del fatto per cui parlare di loro come di una spazzatura (lo ha fatto Feltri, sul suo giornale che non è in realtà Libero ma solo schiavo della sua aggressività becera e fuori controllo) attiene solo alla vigliaccheria di chi sa di poter offendere, senza correre alcun rischio, esseri umani che si permette di considerare inferiori. Anche se oggi purtroppo tutta questa Italia che sa, che ragiona e che riflette, l’Italia delle persone più colte e più mature, sembra soffrire di una qualche forma di afasia. Di una incertezza grande. Di un obnubilamento da cui stenta a riprendersi.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto...
Comincia così la poesia dedicata da Guido Gozzano alla donna che gli parla quando lui è ancora bambino, dalle sbarre del cancello, nel giardino di casa. Di cui ricorda le parole, il bacio leggero e la nostalgia indicibile del volto quando la madre lo rimprovera di aver parlato con una cocotte: la "cattiva signorina" con cui lui dice la madre, non dovrà parlare più e con cui lui parla invece ancora perché lei
Un giorno - giorni dopo - mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
"O piccolino, non mi vuoi più bene!..."
"È vero che tu sei una cocotte?"
Perdutamente rise... E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.
È di questa poesia che avrebbero bisogno, penso, i deputati che si preoccupano tanto della nostra morale. È di una poesia come questa che avrebbero bisogno, penso, i leghisti che presidiano il campo di Venezia e i giornalisti arrabbiati con i "terroni". Avessero il tempo di leggere un po’ di poesie, mi dico, potrebbero chiedersi che impressione farebbero i loro discorsi se quello che li ascolta è un bambino.

Corriere della Sera 9.6.08
Convivenza a rischio. La trappola delle identità
di Giuseppe De Rita


Vivere accanto e non connettersi. Questa è verosimilmente la base di quel declino della convivenza collettiva che a molti appare addirittura come una regressione civile.
Guardiamoci dentro e attorno: viviamo tutti come componenti solitarie di una società che ha perso luoghi, occasioni e meccanismi di integrazione sociale. Le lotte per la liberazione individuale hanno rotto le connessioni di famiglia, di gruppo parentale, di osteria o circolo, di parrocchia, di comunità locale; la storia degli ultimi anni ha rotto il ritrovarsi dei singoli in ideologie, partiti, sindacati, luoghi e lotte di lavoro. Restiamo molecole che possano accostarsi ma che non si legano e integrano fra loro: facciamo «mucillagine», distesa informe di vegetazioni mai interconnesse.
Per reagire a tale stato di cose non bastano certo i richiami al riarmo civico o valoriale, magari con la spinta pendolare a rivitalizzare gli antichi luoghi e meccanismi di connessione (per qualcuno dei quali il tempo è scaduto per sempre). Occorre invece far maturare una cultura processuale in cui i nostri cervelli e i nostri sentimenti siano dinamici e non chiusi in se stessi.
Occorre anzitutto uscire dalla tragica propensione a vivere qui e ora in un continuo presente di emozioni e responsabilità labili e cangianti. Tutto, dalla impressività mediatica ai proclami politici all'accidia personale, vive di presente: non c'è memoria, non c'è futuro, non c'è lo spessore temporale della vita, non c'è direzione di marcia; c'è solo spettacolo e ricerca di consenso, qui e ora. Se non facciamo processi di storia collettiva non possiamo poi sorprenderci se non abbiamo classe dirigente capace di chiamare i singoli a connettersi fra loro.
Tanto più che lo spettacolo e il consenso sono oggi quasi sempre esercitati sfruttando il difensivo primato dell'identità rispetto alla dinamica della relazione con gli altri. Non ci accorgiamo di bestemmiare quando pensiamo di noi stessi «io sono colui che sono» come avessimo una splendida identità da non mutare, da preservare, da imporre magari con la violenza; mentre l'altro è il diverso, è il pericolo, è il portatore di male (si tratti di un immigrato o del condomino della porta accanto). E così non cambiamo, non maturiamo, non diventiamo più forti. In fondo un grande filosofo del secolo scorso ha detto che «l'identità non è nel soggetto ma nella relazione». La relazione è l'unica strada processuale per la dinamica dei cervelli e dei sentimenti.
Uscire dal qui ed ora per vivere il tempo con gli altri, questa è la responsabilità che va restituita a tutti. E' una strada faticosa ma non evitabile per chi abbia coscienza che occorre rifare le giunture di connessione della società e che occorre rifarle partendo dal basso, dalle piccole minute relazioni e strutture della vita quotidiana, lontano dalle sacrali tentazioni di verticalizzare il potere e l'annuncio. Nella dinamica sociale il «sacro» non esiste (neppure nei clerici delle istituzioni), esiste solo la santa pazienza di fare insieme una migliore qualità di vita collettiva.


Corriere della Sera 9.6.08
Caro Galimberti, qual è il suo segreto?
Lei ha rischiato la reputazione impadronendosi di parole scritte da altri: perché?
di Pierluigi Battista


Egregio professor Umberto Galimberti, si rincorrono in questi giorni voci che denuncerebbero una sua reiterata propensione a includere nei libri da lei firmati interi brani ricavati dal lavoro altrui, senza dichiararne, come pure sarebbe d'obbligo, l'origine. In realtà si tratta di qualcosa di più di semplici voci, perché anche il più banale accostamento comparativo tra alcuni cospicui passaggi dei suoi libri e quelli di Giulia Sissa, Alida Cresti e Salvatore Natoli dimostrano senza possibilità di equivoco che un robusto lavoro, come si dice, di «copia-e-incolla», finisce per configurarsi come un' indebita appropriazione intellettuale. Ora si aggiunge, sul Giornale, la scoperta di un lontano episodio del 1986 quando lei fu costretto a inserire una breve avvertenza nella seconda edizione di un libro su Heidegger in cui si ammetteva il fondamentale debito contratto a scapito di un lavoro del professor Guido Zingari. Ma non sarebbe ora, professor Galimberti, di rompere con fierezza il suo sdegnoso silenzio su tutta questa faccenda?
Inizialmente lei ha ammesso almeno uno dei misfatti, attribuendone la responsabilità a qualche disguido editoriale, così devastante da aver lasciato vanificare virgolette e indicazioni bibliografiche, che rendono differente una citazione da una volgare copiatura. Poi, un po' goffamente, ha avanzato autodifensivamente l'idea che in fondo gli artisti, Mozart in testa, copiano sempre, e che la storia della cultura forma da sempre un reticolo intricato di prestiti e rimandi in cui si stenta a riconoscere l'originale dalla sua riproduzione. Un comprensibile imbarazzo e il meritato prestigio di cui gode la sua attività pubblicistica hanno indotto anche i più feroci tra i suoi detrattori a non infierire su un intellettuale di fama in evidente difficoltà. Ma adesso che viene alla luce una sua certa ripetitività copiatrice, una certa sua inclinazione recidiva a ciò che grossolanamente potrebbe definirsi un saccheggio di opere altrui, non sarebbe il caso che lei, apprezzato indagatore delle insondabili profondità dell'animo umano, uscisse con coraggio dal guscio della reticenza e ci aiutasse a comprendere qual è la segreta molla psicologica del suo così ricorrente e autodistruttivo operare?
Lei capisce, professor Galimberti, che una volta può essere un incidente, due volte una sfortunata coincidenza: ma quattro volte accertate delineano una prassi, un metodo, un'ossessione compulsiva. Che cosa davvero può averla indotta a rischiare ripetutamente la sua reputazione impadronendosi di parole scritte da altri, e non da remoti e sconosciuti autori magari mai tradotti in italiano, ma da figure stimate e note, o come nel caso di Natoli addirittura notissime? Lei sa benissimo che non avrebbe potuto farla franca, e che prima o poi i ripetuti misfatti sarebbero venuti a galla. E allora, chi e che cosa ha pensato di sfidare, rischiando di dilapidare con uno sciocco lavoro di copiatura anni e anni di onorata carriera intellettuale? Ci racconta una volta per tutte quale pulsione indomabile può suggerire a un uomo saggio e posato come lei di cadere sempre nello stesso catastrofico errore? Non è una banale autocritica che le si chiede, ma un'illuminazione sulle oscurità che albergano nei recessi più nascosti dell'essere umano.
Con immutata stima

Repubblica 9.6.08
I confini dei diritti
di Stefano Rodotà


I toni e i contenuti dell´annuncio del presidente del Consiglio in materia di intercettazioni telefoniche sono il segno di una politica smodata, che cerca l´eccesso, che non sa più misurare sulla realtà gli interventi che decide di fare.
Quel martellante «cinque anni… cinque anni» come pena per qualsiasi infrazione rivela la voglia di sollecitare l´applauso di una platea più che la consapevolezza della necessità di differenziare le sanzioni a seconda della gravità dei diversi comportamenti, che è quasi l´abc della civiltà giuridica. Non è un caso isolato. Tutte le mosse del nuovo Governo sul terreno della pena hanno avuto questo carattere.
Berlusconi alza la voce, ma non si capisce con chi polemizzi. La sua lunga presidenza tra il 2001 e il 2006, osannata come un record nella storia repubblicana, ha visto l´assenza di vero interesse per questo delicatissimo problema, anche se in Parlamento erano state presentate ben otto proposte di legge, con convergenze tra maggioranza e opposizione che avrebbero consentito l´approvazione di una legge equilibrata. Ma non vi fu alcun determinato impulso governativo. Il ritorno di fiamma di questi giorni manifesta la volontà di colmare quella colpevole lacuna? O assomiglia piuttosto ad un regolamento di conti lungamente covato?
Da tempo si minaccia la riduzione dell´ammissibilità delle intercettazioni telefoniche alle sole indagini su criminalità organizzata e terrorismo. E sempre, dalle parti più diverse, si è obiettato che così diventa impossibile indagare su altri gravissimi reati, dall´omicidio ai reati finanziari, alla corruzione. Se fosse stata vigente la disciplina oggi minacciata, nessuno dei grandi scandali degli ultimi anni sarebbe stato scoperto. Dopo l´annuncio del presidente del Consiglio diviene evidente una linea di politica legislativa violenta verso l´emarginazione e compiacente nei confronti di chi quotidianamente distrugge la moralità pubblica, divenendo così protagonista di quella "regressione civile" denunciata dal Presidente della Repubblica. Una riforma non può costruire una nuova rete di protezione dell´illegalità.
Per giustificare la stretta legislativa, si confondono maliziosamente la necessità di avere un uso più fisiologico delle intercettazioni e l´urgenza di forti tutele per chi non è indagato, e anche per le conversazioni degli indagati estranee alla materia dell´inchiesta. Le violazioni della vita privata non si eliminano limitando i casi in cui è legittimo intercettare. Non faccio una apologia delle intercettazioni, alle quali si è fatto ricorso anche quando sarebbe stato possibile ricorrere ad altre tecniche investigative. Sottolineo che è necessario soprattutto avere regole procedurali più rigorose per quanto riguarda tempi e modalità delle intercettazioni. E che il problema più delicato nasce nella fase successiva, quando il magistrato entra in possesso delle intercettazioni. I punti da definire sono diversi e riguardano le modalità di acquisizione delle conversazioni ritenute rilevanti, alla cui definizione devono partecipare gli avvocati delle parti. Una volta effettuata la selezione e disposta l´acquisizione delle conversazioni rilevanti, il segreto verrebbe meno ed i testi potrebbero essere diffusi. Qui, infatti, l´interesse all´informazione dell´opinione pubblica, spogliato dal puro voyeurismo, potrebbe legittimamente riprendere il sopravvento. E si potrebbe mettere a punto un sistema di sanzioni rigoroso e equilibrato per ogni violazione di segreti.
Che cosa fare, però, delle conversazioni non rilevanti? Distruggerle in tutto o in parte o conservarle in un archivio riservato? L´istituzione di uno specifico archivio può consentire l´individuazione di un magistrato responsabile, di un ristretto numero di suoi collaboratori e di procedure controllabili di accesso, facilitando così l´accertamento delle colpe nel caso di fughe di notizie. Ma è pure vero che, fatte salve le esigenze di eventuali riscontri successivi su documenti inizialmente ritenuti non rilevanti, l´esperienza suggerisce che la distruzione può essere la più opportuna forma di garanzia. Dopo il tam tam di questi giorni c´è da augurarsi che in Parlamento prevalga una linea di analisi razionale.

Repubblica 9.6.08
Un Paese da incubo
Se anche l´Italia di sinistra ora respinge lo straniero
Cresce il senso di insicurezza. Soprattutto verso nomadi e immigrati. Ecco la geografia trasversale di un Paese spaventato
di Ilvo Diamanti


L´Osservatorio Demos-Coop, dedicato alle opinioni in tema di sicurezza, tratteggia uno scenario da incubo. Quasi tutti gli italiani pensano che la criminalità sia notevolmente aumentata, in Italia. Due su dieci temono di essere derubati, scippati, rapinati, raggirati. Quasi metà della popolazione ha paura degli stranieri. 8 italiani su 10 vorrebbero sgomberare i campi nomadi non a norma. Quasi tutti invocano più poliziotti sul territorio. Sistemi di videosorveglianza dovunque. Pronti, la maggior parte, a difendersi da soli. Piacciono anche le ronde (a 6 persone su 10). L´insicurezza è più acuta a destra, ma diffusa anche a sinistra. Più forte fra le persone anziane e sole. Fra coloro che passano più tempo davanti alla tivù. Ma si tratta solo di percezioni, raccolte da un sondaggio. Non può essere vera l´immagine un Paese così spaventato. Da paura.

Se la percezione è la realtà realmente vissuta dalle persone, allora la realtà in cui vivono gli italiani assomiglia a un incubo. Una fiction nera, di quelle che, non a caso, hanno tanto successo in questi tempi. Come CSI. Gli italiani: immersi, a tempo pieno, in una Scena del Crimine. Protagonisti vulnerabili di un mondo ostile. È l´immagine proiettata dall´Osservatorio Demos-Coop, in base a un sondaggio condotto nelle scorse settimane. Naturalmente, i sondaggi collezionano soltanto segni. Sollecitati, talora perfino "estorti". Tuttavia, si tratta di segni di inquietudine assolutamente inquietanti, se letti in sequenza.
1. Quasi 9 italiani su 10 ritengono che la criminalità in Italia sia aumentata, negli ultimi anni. Il 53% lo pensa, in rapporto alla zona di residenza. Quasi metà degli sostiene, quindi, che la criminalità sia cresciuta. Altrove. In Italia, ma lontano dal loro luogo di vita. Il 23% degli italiani si dice "frequentemente" preoccupato di subire un furto in casa, il 20% di essere scippato. La stessa percentuale teme di essere derubato dell´auto o del motorino. Poco più di quanti (19%) hanno paura di essere raggirati attraverso bancomat o carta di credito. Mentre il 14%, infine, teme di cadere vittima di aggressioni o di essere rapinato. Se, però, consideriamo anche coloro che ammettono di sentirsi preoccupati solo "qualche volta" per questi motivi, le misure indicate si gonfiano notevolmente. Perlopiù raddoppiano. Talora salgono anche oltre. Timori fondati, si dirà, visto che il numero dei reati "minori" - nel linguaggio dei media, ma di certo "maggiori" per le persone comuni - è effettivamente in crescita. Con il risultato che oggi oltre la metà degli italiani confessa di aver paura. A tempo pieno oppure parziale.
2. Il mondo intorno a noi, d´altronde, ci appare affollato da estranei e stranieri.
Estranei: due italiani su tre ritengono che "gli altri, se gli si presentasse l´occasione, approfitterebbero della mia (loro) buona fede". Per cui guardano con sospetto crescente chiunque esca dalla loro cerchia più stretta. Famiglia, località, categoria professionale.
Ma soprattutto, temiamo gli stranieri. Siamo diventati, stiamo diventando xenofobi. Gli stranieri ci sembrano tanti. Troppi. D´altronde, quasi un italiano su due guarda con malcelata inquietudine gli immigrati. Regolari, irregolari o clandestini. Non c´è grande differenza, nel sentire comune. Anche perché, in effetti, la differenza non è così chiara. Gran parte dei regolari sono entrati da clandestini. Gran parte degli irregolari sono entrati regolarmente, da turisti; oppure erano regolarmente occupati. E oggi lo sono come prima. Ma irregolarmente.
3. Gli stranieri più stranieri di tutti, però, sono gli zingari. Tanto che non riusciamo neppure a definirli. Nomadi, rom, sinti. Chissenefrega. Sono zingari e basta. Mendicanti. Ladri di bambini. Ladri e basta. Senza fissa dimora. "Nomadi", appunto. Anche se e quando sono stanziali. Come i sinti veneziani, che si esprimono in dialetto, meglio di molti "indigeni". Per noi italiani, popolo immobile (quasi nove su dieci residenti nella stessa provincia in cui sono nati i genitori), con il mito della casa (in proprietà, per oltre 7 famiglie su 10). Una eresia. Da cancellare, semplicemente. Per cui oltre il 75% degli italiani chiede di sgomberare campi nomadi e quartieri illegalmente occupati da stranieri. In buona parte, senza preoccuparsi di trovare altre sistemazioni. D´altra parte, progetti volti a riqualificare la presenza e l´esistenza degli zingari attraverso la costruzione di zone residenziali attrezzate e dignitose, come a Venezia, hanno suscitato moti popolari. Organizzati, perlopiù, dai leghisti, che sull´insicurezza locale hanno costruito le recenti fortune elettorali. E giustificati da uomini del governo (come ha fatto Gasparri). Insomma, gli zingari: meglio farli scomparire. In un modo o nell´altro.
4. Abbiamo e sentiamo un crescente bisogno di protezione. Dai nemici che ci assediano e ci insidiano, dovunque. Per cui oltre il 90% chiede di allargare la presenza dei poliziotti sulle strade e nei quartieri. La stessa percentuale di persone che rivendica l´aumento della videosorveglianza nei luoghi pubblici. Oltre un terzo degli italiani, però, non si fida neppure di poliziotti e di video poliziotti. E contro la criminalità dilagante non vede che una sola, unica soluzione: difendersi da soli.
5. Abbiamo paura perché ci sentiamo seguiti, scrutati. Ma, al tempo stesso, chiediamo provvedimenti che aumentino il controllo sulla nostra vita quotidiana. Sul nostro privato. Che sta scomparendo rapidamente, con il nostro attivo contributo. Così, quasi metà degli italiani è d´accordo nel consentire alle autorità pubbliche di "monitorare le transazioni bancarie e gli acquisti con carta di credito". Oltre un quanto, invece, (a dispetto dei propositi di Berlusconi) è disposto a concedere alle autorità di leggere la nostra posta elettronica e di intercettare le nostre telefonate. Ovviamente a nostra insaputa.
6. In nome della sicurezza. Accettiamo che il territorio venga militarizzato. La moltiplicazione di poliziotti, pubblici e privati. E di ronde. Viste con favore da oltre il 60% degli italiani. Non solo nel Nord, dove sono state inventate e sperimentate. Dovunque. L´area in cui sono viste con maggior favore, anzi, è il Mezzogiorno. Dove, d´altra parte, l´insicurezza poggia su buone e solide basi. Dove lo Stato è più debole. Perché, come è facile intuire, la diffusione di questo bricolage securitario, di queste iniziative di giustizia-fai-da-te, sottolinea soprattutto il distacco dallo Stato. La sfiducia nelle istituzioni. E se le ronde sono simulacri di una comunità locale che non c´è più, che importa? Mica servono a combattere la malavita. Ci mancherebbe. Ma a proteggerci da noi stessi.
7. Nessuno è al sicuro dall´insicurezza. Certo, la maggiore domanda di ordine e polizia viene dagli elettori di destra. (Ben assecondati dai loro leader politici). Ma anche a sinistra le paure sono diffuse. Le zone rosse, in particolare, sembrano più reattive delle altre. Impaurite e sensibili alle soluzioni più rigide. D´altronde, i leader politici e gli amministratori (compresi quelli di sinistra) temono di apparire deboli e tolleranti quando i cittadini chiedono uomini forti e tolleranza-zero.
Per difenderci dagli stranieri, vista l´impossibilità di erigere "muri reali" intorno alla nostra penisola, penetrabile da ogni punto, si alzano "muri simbolici". Come ha sottolineato in modo esplicito il ministro Umberto Bossi, riferendosi al reato di clandestinità. La politica, cioè, preferisce inseguire e monetizzare la nostra insicurezza, piuttosto che curarla. La destra per tradizione e vocazione, la sinistra per … insicurezza.
8. L´insicurezza è una moneta pregiata, dal punto di vista del consenso. Ma anche dell´audience. Mischiata alla paura, riempie i nostri schermi, le pagine dei giornali. Le serate, ma anche le mattine e i pomeriggi tivù. Ispira serial e fiction di successo. D´altronde, la paura del futuro, degli stranieri, il richiamo all´autodifesa militante, il sostegno alle ronde: raggiungono i livelli massimi fra coloro che trascorrono, ogni giorno, oltre 4 ore davanti alla televisione. Asserragliati (quasi imprigionati) in casa e separati dal mondo: da antifurti, porte blindate, mura inaccessibili, cani mostruosi…
Tuttavia, conviene diffidare dei sondaggi. Leggerli con scetticismo. Collezionano percezioni "estorte". Il Paese descritto da questo Osservatorio certamente non è credibile. A confronto, "La notte dei morti viventi" è un film dei fratelli Vanzina. Non può essere vera una società così spaventata. Francamente un po´ spaventosa. Da paura.

Repubblica 9.6.08
Geografia di un paese spaventato
I timori dei cittadini riflettono le differenze territoriali e, a sorpresa, dall´indagine Demos-Coop sul Capitale sociale degli italiani, emerge che nelle regioni "rosse" l´allarme sicurezza raggiunge i livelli più alti
La xenofobia tocca il massimo livello tra chi è vicino al centrodestra
di Fabio Bordignon


Anche la paura presenta una sua "geografia", piuttosto articolata. Riflette non solo caratteristiche sociografiche e di orientamento politico degli individui, ma anche e soprattutto differenze territoriali. È uno degli aspetti di maggiore interesse che emerge dalla 18° indagine Demos-coop sul Capitale sociale degli italiani, che in questa edizione si focalizza sul senso di (in) sicurezza.
È noto che la paura segue specifici tratti sociali. Le donne, in particolare, percepiscono un rischio maggiore: temono di più per i borseggi, le aggressioni e i furti in casa. Le casalinghe, fra le varie categorie socio-professionali, mostrano i livelli più elevati di preoccupazione rispetto alle diverse forme di microcriminalità. I giovani, invece, si dicono preoccupati per il rischio di vedersi sottrarre l´auto oppure lo scooter. Trasversale rispetto alle diverse classi d´età appare, invece, il timore di subire truffe attraverso gli strumenti di pagamento elettronico - si riduce solo tra gli anziani, che però usano meno bancomat e carte di credito. L´idea politica influenza le opinioni in materia di sicurezza e, di riflesso, le prese di posizione sul tema dell´immigrazione. La xenofobia per ragioni di sicurezza raggiunge i massimi livelli tra chi si orienta politicamente verso il centro-centrodestra (50%) e, ancor più, verso la destra (56%). Gli elettori di questa parte politica, peraltro, esprimono in modo più intenso la domanda di controllo del territorio, anche attraverso forme "autodifesa" (dall´installazione di sistemi di sicurezza all´uso di armi).
Si tratta di orientamenti conosciuti e ormai poco sorprendenti. Qualche motivo di interesse in più lo desta, invece, la disarticolazione territoriale dei risultati. Le sorprese, in questo senso, vengono soprattutto dalle "zone rosse" del Centro Italia. Le regioni dove la tradizione di sinistra è più radicata sembrano, infatti, soffrire in modo particolare del problema della sicurezza. La preoccupazione di subire un furto in casa o del mezzo di trasporto, di essere vittima di un´aggressione, un borseggio oppure una truffa al bancomat: per tutte queste voci, il livello di allarme si attesta su livelli generalmente più alti di quanto registrato nelle altre regioni. Elevata, sebbene inferiore alla media nazionale, è anche la quota di cittadini che condivide l´organizzazione di ronde come strumento di controllo e difesa del territorio (56%). Lo straniero, per i cittadini della zona rossa, non preoccupa in quanto sfida all´integrità della cultura, dell´identità nazionale e del sentimento religioso: ancor più che nelle regioni del Nord, i nuovi arrivati vengono considerati anzitutto come minaccia alla sicurezza dei cittadini (48%). E ciò avviene nonostante i legami sociali nel territorio - anche grazie alla piccola dimensione urbana - siano ancora forti: basti pensare che il 61% (contro una media nazionale del 56%) conosce tutti o quasi i propri vicini.
Sembra dunque esistere un sentimento di insicurezza che contrasta, in modo netto, con l´immagine sociale di aree "a misura d´uomo". Anche per questo, forse, il loro malessere si manifesta in modo così acuto: ha a che fare con gli standard elevati di partenza, e con la rapidità delle trasformazioni che, negli ultimi anni, ne hanno modificato il territorio e il paesaggio sociale. Così, da "isole felici", dove la qualità della vita raggiunge i livelli più elevati, anche queste province si riscoprono, oggi, colpite dal virus della paura.

Repubblica 9.6.08
Il biologo Edoardo Boncinelli
"La razionalità? Ci guida solo mezz´ora al giorno"
di Elena Dusi


«L´uomo è un animale razionale. Ma non più di mezz´ora al giorno» è una delle battute che Edoardo Boncinelli - genetista e biologo molecolare all´Istituto San Raffaele di Milano - ama spesso fare.
Il cervello è come un gioiello per noi. Forse lo sopravvalutiamo troppo?
«A volte dimentichiamo che ha una storia. Non ce lo siamo trovato già pronto, ma la sua evoluzione è andata avanti a morsi e bocconi, grazie al caso e ai colpi di fortuna. Neanche lui è perfetto, e non c´è nulla di cui stupirsi».
In che direzione lo ha spinto l´evoluzione?
«Oggi vediamo i frutti di un´evoluzione che ha agito più o meno 150 milioni di anni fa. Allora l´uomo non giocava certo a scacchi, né doveva scegliere l´assicurazione più conveniente. Bisognava fare più i conti con la natura, e le decisioni andavano prese in maniera piuttosto rapida, sacrificando precisione e lucidità».
Il risultato?
«Il cervello ha elaborato due modalità di lavoro. Una rapida ma piena di fallacie e un´altra molto più rigorosa, ma estremamente lenta. Ancora oggi per la maggior parte del tempo adottiamo la prima modalità, quella veloce ma imprecisa. Usiamo poco la razionalità, e anche quando ci impegniamo facciamo molti errori lo stesso. Però siamo in tanti, e controllandoci l´uno con l´altro riusciamo a evitare una buona parte di guai».
Ci sono differenze fra gli individui? Forse Einstein era razionale per più di mezz´ora al giorno.
«Anche lui ha commesso tanti errori, e non dobbiamo credere che fosse un genio solitario, perché ha sfruttato le conoscenze di molte generazioni di scienziati prima di lui».
Il cervello del futuro sarà più razionale?
«Ce ne accorgeremo solo fra 200-300mila anni. Ma forse nel frattempo avremo imparato a mettere le mani sul genoma, sostituendoci all´evoluzione».

Repubblica 9.6.08
I vuoti del cervello ecco perché scordiamo le chiavi di casa
Le aree più primitive sono quelle in comune con gli altri animali
La capacità di pensiero astratto è accompagnata da blackout nelle funzioni semplici
di Elena Dusi


Lo studio di un ricercatore americano spiega l´evoluzione caotica dell´organo più complesso Uno sviluppo durato milioni di anni ma con soluzioni spesso disordinate e incoerenti

ROMA. L´uomo ha elaborato la teoria della relatività, ma spesso la sera non riesce a ricordare dove ha parcheggiato la mattina. Al cervello più brillante della sfera terracquea, la specie sapiens affianca momenti di indicibile stupidità. E nonostante la nostra ferrea convinzione che l´intelligenza artificiale non sia mai decollata perché incapace di confrontarsi con la mente umana, di fronte a una divisione a due cifre preferiamo declinare la sfida.
Per rispondere alla domanda "ma l´uomo è stupido o intelligente" Gary Marcus, professore di psicologia evoluzionistica alla New York University, usa l´arma della storia. Ricostruisce le tappe dello sviluppo della nostra specie nel corso di milioni di anni e risponde con il titolo del suo ultimo libro, per il momento uscito solo in inglese: "Kluge: The haphazard construction of the human mind". Dove "kluge" nello slang statunitense sta per "soluzione abborracciata, rimedio pensato come temporaneo ma che poi diventa definitivo" e la tesi finale è che il nostro cervello non è stato costruito da un architetto con la laurea, ma è il frutto di aggiunte e rattoppi da parte di amanti del fai da te con un cappello di carta sulla testa. «Come spiegare altrimenti che metà degli americani crede nei fantasmi?» scrive lo psicologo, ricordando come anche gli astronauti dell´Apollo 13, di fronte alla mancanza dei filtri dell´anidride carbonica, si adattarono a rimpiazzarli con scotch, busta di plastica e calzino. Una soluzione poco elegante per gli standard Nasa, ma che li riportò sani e salvi sulla Terra.
Il viaggio nella storia del cervello, accompagnati dal professore di New York, parte dalle sue stanze più interne. Dalle zone profonde e primitive, che l´uomo ha in comune con molti animali e ci permettono di respirare, fanno battere il cuore, danno origine alla sensazione della fame e al desiderio sessuale. Poi ci sono le strutture da cui nascono emozioni come rabbia, paura e aggressività. E anche se l´uomo che vive in società ha imparato a dominarle, continuano a bussare dal basso. L´area più evoluta e "preziosa" del nostro cervello è quella corteccia cerebrale che consente solo alla nostra specie di elaborare pensieri astratti ed è considerata "sede della razionalità". Ma che spesso collide con istinti ed emozioni, armando l´un contro l´altra i cento miliardi di neuroni che si sono ritrovati a convivere in una stessa scatola cranica pur avendo storia e funzioni diverse.
Ai concetti delle diverse anime umane in contrasto fra loro, che affondano nella filosofia classica, Marcus collega nozioni sull´anatomia del cervello e sul percorso che i vari circuiti di neuroni hanno seguito nel corso dell´evoluzione, a dimostrazione che le neuroscienze sono forse la disciplina che più sta marciando in una direzione parallela alla filosofia, in questo momento. «La nostra storia evolutiva - scrive Marcus - ci ha reso facilmente ingannabili. I circuiti cerebrali grazie a cui ci formiamo delle convinzioni sono potenti, e finiscono facilmente preda di errori, superstizioni, false memorie e manipolazioni». E quando una convinzione si è insediata nella nostra testa, prosegue lo psicologo, «tenderemo a ricordare meglio le informazioni che con essa ci paiono più coerenti». Scartando quelle che ci costringerebbero a rivedere da capo la nostra costruzione del mondo.
L´uomo ascolta solo quello che gli piace ascoltare, si potrebbe rimproverare. Ma la colpa non è sua, è dell´evoluzione. Slogan politici e pubblicitari, stereotipi, pregiudizi e semplificazioni non devono far altro che accomodarsi in poltrona, con un cervello così pronto ad accoglierli in cambio di una visione semplice e coerente della realtà. «Non sarebbe un problema in sé - spiega Marcus in un´intervista a New Scientist - se solo fossimo disposti a riconoscerlo, a prendere in considerazione anche ipotesi alternative e a dare più considerazione alle opinioni altrui. Non siamo naturalmente portati a fare questa operazione, ma con un po´ di sforzo e di umiltà potremmo trarne beneficio. E andare molto più d´accordo fra noi».
Quando parla poi di quel formaggio svizzero che è la memoria, la regina di tutte le architetture traballanti, Marcus fa notare che - esattamente come nelle vecchie soffitte - il problema non è accatastare, ma ritrovare le informazioni laddove le abbiamo lasciate. Se un ricordo che sta sulla punta della lingua proprio non vuole saperne di farsi acciuffare, sembra suggerire la ricerca, la colpa è semplicemente dell´evoluzione non ha ancora dotato il cervello di un "Google" per andare a ripescare le memorie smarrite.

il Riformista 9.6.08
Allarmi La terza via è morta, il loft è al 27% e Veltroni incontra Letta
Il Pd è così liquido che il Cavaliere se lo beve
di Antonio Polito


C redo che Leonardo Morlino, che l'ha scritto sul Riformista, abbia ragione: la terza via è morta. Aggiungo ahimè. Ma poiché bisogna sempre analizzare il mondo per quello che è, e non per come vorremmo che fosse, eccoci qui. L'uscita di scena dei Clinton in America, un anno dopo l'uscita di scena di Blair in Europa, impone una riflessione.
Il successo della terza via, imitata con alterna fortuna in ogni parte del mondo, si fondava su un'altra magica teoria del tre: la triangolazione. Era la tattica con cui prima i New Democrat e poi i New Labour scardinarono dopo un lungo dominio la tradizionale «polarizzazione» della politica, inventata nel '68 dalla destra americana di Richard Nixon e Pat Buchanan. La polarizzazione divide le società in due: quella silenziosa, patriottica, religiosa, tradizionalista dei benpensanti; e quella casinista, amorale, disordinata, liberal delle elite. La prima è di destra, la seconda di sinistra. Siccome la prima è maggioranza ovunque, la destra vince. Questo era lo schema che uscì dai turbolenti '60 e raggiunse il suo apice nei reaganiani '80. La triangolazione di Clinton negava invece lo schema binario e diceva: c'è una destra reazionaria e conservatrice e c'è una sinistra casinista e liberal. Ma in mezzo c'è la vera maggioranza, classe media che lavora e produce, moderata sì, ma anche moderna. I New Democrat se la presero, e governarono per otto anni. Blair se la prese, e governò per dieci.
La triangolazione scommetteva sull'ottimismo della classe media, che abbondava nei favolosi anni '90. L'esplosione della new economy e della globalizzazione regalarono all'America e alla sua consorella britannica un decennio di espansione senza precedenti, così forte da consentire anche un sostanziale effetto trickle down, il gocciolamento di una parte della ricchezza prodotta verso gli strati più deboli. Con questa ampia coalizione sociale in campo, destra e sinistra erano entrambe troppo vecchie e troppo classiste per impensierire il nuovo centro. Fu la terza via.
Il problema è che oggi la festa è finita. La new economy c'è ancora ma sembra già old, e comunque non fa più miracoli. La globalizzazione non si fermerà, ma un miliardo di esseri umani entrati nel mondo della produzione e del consumo sono un formidabile rivale per il benessere delle classi medie europee. Dove c'era l'ottimismo, ora c'è il pessimismo. L'angoscia. La paura, per dirla col pamphlet di Tremonti. Si domanda un «mister middle class» in una vignetta dell'Economist: com'è che tutti i prezzi vanno su e solo il valore della mia casa va giù? La classe media è terrorizzata: dal ritorno dell'inflazione, il suo più terribile nemico, e dai tassi dei mutui. Sono stati questi incubi da anni '70 a risuscitare la polarizzazione: destra contro sinistra. Il new deal clintoniano e blariano è dunque in frantumi. Obama, un McGovern nero, batte la centrista Hillary. E la sinistra italiana non sa che pesci prendere.
Con Veltroni, il Pd aveva fatto una classica scelta da terza via, dieci anni dopo Blair e sedici dopo Clinton. Meglio tardi che mai. Ma i tempi in politica contano. Tutta la sua campagna elettorale è stata improntata all'ottimismo, mentre il paese tremava. È stata giovanilista, mentre l'Italia è fatta di anziani con la ricrescita e il Viagra. Ha puntato al centro e non vi ha raccolto un voto. Dice oggi Tremonti: le nuove idee della sinistra non potranno che nascere a sinistra. Comincio a pensare che abbia ragione. Non sarà mai più la sinistra di un tempo, ma sinistra ha da essere, non imitazione tardiva e ingenua delle idee di destra. Sinistra riformista, ma pur sempre sinistra. Il guaio è che qui non se ne vede l'ombra.
Io dico che le cose si stanno mettendo molto male. Un sondaggio valuta oggi il Pd intorno al 27%, con un massiccio travaso di consensi verso la destra di Di Pietro e la sinistra ultrà. Non mi meraviglia. Un partito della terza via è per definizione un partito liquido, perché deve consentire una leadership carismatica. Mentre la gente oggi non chiede immagine ma «patronage», che in inglese vuol dire sia «protezione» sia «clientela», e che noi chiameremmo «radicamento». Invece il Pd è diventato così liquido che Berlusconi se lo beve a colazione. Giuro che non avrei mai immaginato di vedere il leader dell'opposizione incontrare riservatamente un sottosegretario per parlare di Rai. La gente vede la consociazione e dimentica l'opposizione. Il governo-ombra non è cogestione, tè delle cinque con i ministri veri, trattative segrete. È prefigurazione dell'alternativa di governo. E sfida in Parlamento, mentre qui si rinvia persino l'insediamento della commissione di Vigilanza in attesa che i leader si mettano d'accordo sulla Rai. Il Pd è così liquido che in due giorni si sono riunite quattro diverse correnti di cattolici e a un anno dalle europee non sa ancora se sarà socialista o liberale a Strasburgo. Capi e capetti fingono furiose battaglie politiche per prendersi anche l'ultimo strapuntino, e una volta ottenutolo si fanno la corrente. Capirò Berlusconi, se qualche poltrona gliela regalerà anche lui. Al momento vive nel migliore dei mondi possibili.

il Riformista 9.6.08
La crisi della sinistra e le elezioni europee
di Emanuele Macaluso


Sono trascorsi meno di due mesi dal giorno in cui si conobbero i risultati delle elezioni politiche che segnarono la vittoria della destra, la sconfitta del Pd e la cancellazione dalle aule parlamentari della sinistra radicale e dei socialisti. Oggi c'è un governo attivissimo, un'opposizione targata Pd che annaspa, Di Pietro che grida e gesticola su tutto e sgrida quei suoi alleati che gli hanno dato in dote un gruppo parlamentare, Rifondazione vuole rifondarsi ma non sa come, la sinistra democratica di Mussi si è liquefatta, i Verdi sono ingialliti, i comunisti di Diliberto con la loro esistenza testimoniano che la "cosa" non esiste, i socialisti che dovevano rinascere attraverso una Costituente hanno convocato un congressino sul nulla. Questo quadro non è stato determinato solo da una legge elettorale truffaldina, ma da scelte politiche e comportamenti sbagliati. E ho l'impressione che si continui a gridare e imprecare anziché ragionare sui fatti.
La nascita del Pd è un fatto e noi su questo abbiamo cercato di ragionare. E non a caso, dopo la scissione dei Ds e la formazione della Sinistra democratica, motivata dal fatto che il Pd si separava dal socialismo europeo, abbiamo auspicato la convocazione di una Costituente socialista. Non per rimettere insieme i cocci del Psi ma per aprire una fase politica in cui tutte le forze che si riconoscevano nella storia, nei valori, nei programmi del socialismo democratico progettassero un futuro.
Le cose sono andate come sappiamo. La sinistra democratica contraddicendosi si associò nell'Arcobaleno e il gruppo dello Sdi con altri annunciò la "rinascita" di un partito socialista. Insomma, come prima, peggio di prima. I discorsi revisionisti di Bertinotti si esaurirono nelle velleitarie alternative europee al "sistema" e nella ricerca di un socialismo in contrapposizione a quello europeo che, attraverso i partiti socialisti che hanno storia e profili diversi, si identifica nel Pse.
Se leggiamo il dibattito in preparazione del Congresso del partito di Rifondazione, vediamo solo guerriglie personali, sparate demagogiche che riecheggiano vecchi slogan e fischi a chi cerca di ragionare sui fatti. I rischi di una disgregazione sono reali.
In questo panorama bisognerebbe farsi delle domande semplici e concrete: è pensabile che in Italia rinasca un partito comunista che abbia un ruolo politico e quindi una prospettiva di governo? Non credo proprio. La guerra per appropriarsi dei simboli e racimolare il 2 per cento degli elettori è stupida e indecente.
L'altra domanda che poniamo ai socialisti ha lo stesso senso: è pensabile che nella situazione di oggi rinasca un partito socialista in grado di svolgere un ruolo politico in Italia ed essere parte del Pse? Noi pensiamo di no. Dopo la nascita del Pd era chiaro come la luce del sole che solo una forza socialista consistente parte del Pse poteva competere virtuosamente con il nuovo partito. Le chiusure dei socialisti (ex Psi) e della sinistra democratica hanno consumato una possibilità e hanno subito una sconfitta politica. E, come abbiamo accennato, dopo le elezioni le cose non sono cambiate: nella confusione si legge solo un "si salvi chi può" che interessa solo i protagonisti dei congressi.
In questa fase il nostro pessimismo è grande. Ma questo non ci fa perdere la bussola con la quale è nata e ha navigato la nostra rivista. Noi continuiamo a pensare che anche in Italia non c'è spazio per una sinistra che si collochi fuori dalle mura del socialismo europeo. Questo vale, come abbiamo accennato, per la sinistra radicale, ma vale anche e soprattutto per il Pd. Le cui oscillazioni in questa fase post-elettorale sono riconducibili all'assenza della bussola politica che negli anni ha guidato i partiti socialisti europei quando sono stati all'opposizione e hanno indicato una prospettiva di governo.
Oggi il Pd gioca di rimessa: l'iniziativa resta nelle mani di Berlusconi. Intanto manca solo un anno per lo svolgimento delle elezioni europee. E l'unica cosa su cui si è discusso è se introdurre lo "sbarramento" nella legge elettorale e in che misura. Veltroni pensa di usare lo sbarramento per ripetere la storiella del "voto utile", temendo che i voti acquisiti dalla sinistra radicale, i voti in "libera uscita" direbbe Andreotti, ritornino a casa. E gli esponenti della sinistra radicale pensano che basta stare sul 3-4 per cento per stare bene. Le elezioni europee non dovrebbero essere un'occasione per rielaborare una presenza della sinistra italiana, oggi assente, in Europa? Si dice, ed è vero, che il Pse non ha una ricca e moderna elaborazione della politica europea. Ma quale contributo può venire dall'Italia? Ci piaccia o no, il Pse è la sola - ripetiamo la sola - forza alternativa ai partiti conservatori radunati nel Ppe. Il Pse dovrebbe allargare il suo perimetro e includere anche forze riformiste? Giusto. Si lavori pure per farlo se ci sono le condizioni. Ma intanto il Pd con chi farà la sua battaglia elettorale e dove si siederanno i suoi deputati? E la sinistra radicale pensa ancora che basta togliere lo sbarramento per fare arrivare a Strasburgo uno o due deputati per ogni sigla e difendere così una identità? Cerchiamo di ragionare e cogliamo questa occasione per fare i conti con la realtà italiana ed europea.

il Riformista 9.6.08
Lo spazio vuoto della sinistra radicale
di Aldo Garzia


Cosa accade in quella che è ormai l'ex Sinistra-Arcobaleno, dopo il tonfo elettorale? Il primo fatto nuovo è l'uscita di scena di Fausto Bertinotti che assai probabilmente si dedicherà a un lavoro di ricerca dietro le quinte, intorno alla rivista Alternative per il socialismo , bimestrale di cui è direttore.
Il secondo personaggio a uscire di scena è Fabio Mussi, prima leader della Sinistra Ds e poi portavoce di Sinistra democratica. Su di lui pesa la responsabilità di non aver conseguito il risultato "di una sinistra elettoralmente a due cifre", che aveva sbandierato come obiettivo dopo la separazione dai Ds. Prima troppe incertezze sull'identità del nuovo movimento (che pure reca il richiamo al socialismo europeo nel logo), poi un eccesso di ripiegamento sulle posizioni di Rifondazione, perfino nella polemica nei confronti della Cgil (l'aperta contrapposizione con il sindacato sul pacchetto welfare del governo Prodi). Infine, l'approdo improvvisato nella lista Sinistra-Arcobaleno, più simile a un accrocchio che a un progetto. Eppure, al momento della sua nascita, Sinistra democratica era percepita come la novità che poteva dare spessore al progetto di Cosa rossa.
Cinque i documenti che si contrapporranno alla fine di luglio al congresso di Rifondazione. Il primo ha come firmatario iniziale l'ex deputato Maurizio Acerbo, attuale "reggente" del Prc dopo le dimissioni del segretario Franco Giordano, ma conta su Paolo Ferrero, Claudio Grassi, Giovanni Russo Spena e Ramon Mantovani come esponenti di punta. Il testo propone la ricostruzione del Prc, scartando qualsiasi ipotesi di superamento del partito in una ipotetica "costituente della sinistra", o in una "costituente dei comunisti". Questo non significa - ripete Ferrero - che non sia necessario un rapporto unitario con Pdci, Sinistra democratica e Verdi: niente di più, però, di una federazione.
Il secondo documento ha come primi firmatari Nichi Vendola (futuro segretario in pectore?), Franco Giordano, Gennaro Migliore, Milziade Caprili, Rina Gagliardi, Alfonso Gianni e la maggioranza di quanti si sono riconosciuti in passato nella gestione bertinottiana del Prc. Questo gruppo rifiuta l'arroccamento identitario, rilancia l'idea della ricostruzione della sinistra con Rifondazione tra i protagonisti, non dà un giudizio del tutto negativo sulla partecipazione al governo Prodi e sull'esperimento di Sinistra-Arcobaleno. Il terzo e il quarto documento fanno riferimento a due minoranze tradizionali del Prc: la componente che fa capo alla rivista l'Ernesto e quella denominata "Falce e martello". Entrambe contrarie fin dall'inizio alla partecipazione del Prc nel governo Prodi, optano per «la ricostruzione di una opposizione anticapitalista». Il quinto documento ha come primi firmatari l'ex deputato Franco Russo e Walter De Cesaris (ex coordinatore della segreteria di Giordano). Questo testo si pone a metà strada tra quelli che fanno riferimento a Ferrero e Vendola: imposta il congresso più sui problemi aperti dalla sconfitta elettorale che sulle risposte immediate.
Sd, da parte sua, ha di recente eletto il nuovo portavoce. È Claudio Fava, deputato all'Assemblea regionale siciliana nel 1991 e poi alla Camera dal 1992 al 1994. Quando Walter Veltroni venne eletto segretario dei Ds nel 1999, fu scelto dal futuro leader del Pd per andare a dirigere il partito, di cui non aveva neppure la tessera, in Sicilia. Deputato europeo per la prima volta nel 2001, è stato rieletto nel 2004 con oltre duecentomila preferenze. Come primo atto della sua gestione, si è incontrato con Veltroni siglando un "patto di consultazione" che ha spiazzato Vendola, intenzionato a proporre un rapporto preferenziale tra Rifondazione e Sinistra democratica.
Proprio il giudizio e la relazione con il Pd restano tra i nodi irrisolti tra Prc e Sinistra democratica, se vorranno sperimentare una maggiore unità in vista delle elezioni europee del prossimo anno (è quasi certa l'intenzione del governo di riformare, con il consenso dell'opposizione, quella legge elettorale per introdurre la soglia di sbarramento del 3 per cento). Ma forse, in prospettiva, a fare problema ci penserà anche il tema dei rapporti con il Partito socialista (Cesare Salvi spinge in quella direzione).
I Verdi sono altrettanto divisi. Il presidente Alfonso Pecoraro Scanio, ex ministro dell'Ambiente, è dimissionario. Angelo Bonelli, ex capogruppo a Montecitorio, guarda esplicitamente al Pd come unico approdo. Paolo Cento, ex sottosegretario, chiede «un percorso di discussione per ripensare l'organizzazione dei Verdi fondandola sui territori e ponendosi il problema di incalzare il Pd». Di tutto ciò discuterà un congresso nazionale.
C'è infine da evidenziare una questione. Se la nascita del Pd ha scoperto il fronte sinistro dello schieramento politico, perché quello spazio non ha premiato la sinistra radicale? E come mai - dalla Spagna alla Francia, con l'unica eccezione della Linke in Germania - le forze di Sinistra europea (la sigla sovranazionale della nuova sinistra) sono in declino di consensi?