mercoledì 11 giugno 2008

l’Unità 11.6.08
Verona e Milano. Il volto feroce dell’Italia
di Roberto Cotroneo


Certo che no, certo che non si può dare la colpa a un intero Paese per una decina di mascalzoni, criminali e farabutti, e i termini sono assai moderati, che in una clinica di Milano hanno macellato ignare persone, operando, sventrando, e probabilmente in qualche caso uccidendo, per lucrare sul sistema sanitario nazionale, e farsi ricchi. Lo hanno fatto per denaro i medici assassini che hanno prolungato, hanno esasperato e provocato dolori, sofferenze e morte di povera gente che si affidava e si faceva assistere da loro. Certo che non si può generalizzare se poi a Verona, nel solito Veneto operoso e miracoloso del nostro esemplare Nordest, due coniugi prima fanno stipulare un’assicurazione sulla vita del loro dipendente rumeno di 28 anni, Adrian Kosmin, e poi lo invitano a casa, lo sedano, lo bruciano e simulano un incidente per incassare 900 mila euro. No, i due, marito e moglie, non sono la norma, e non sono la norma neppure i medici di quella che viene ormai chiamata «la clinica degli orrori», che non sta nel solito parassitario sud Italia, tanto villipeso da leghisti e amici affini, che non era in qualche Napoli immaginaria dove trasferiamo e proiettiamo tutti i mali del mondo. No, questo avviene a Milano.
Nella Milano che un tempo - ormai rintracciabile solo con il test del Carbonio 14, per quanto è lontano - era la cossiddetta capitale morale, la Milano della Sanità che funziona, di Formigoni, e dei leghisti. E la Verona del rumeno bruciato per 900 mila euro e la Verona del ragazzo ammazzato di botte dai nazi in pieno centro perché non aveva una sigaretta.
Le prime pagine dei giornali di ieri sono la pietra tombale del degrado morale, culturale e umano di questo paese. Vorrei vedere i vescovi, la chiesa, la conferenza episcopale tutta, distrarsi dalle coppie di fatto, dai gay pride, e sentirli tuonare su quello che è accaduto nella civile Milano, nella civile Verona. Su un povero rumeno bruciato da due criminali. Su quelli che a Milano, nella clinica degli orrori, si telefonavano tra loro e dicevano: «tutti i casi che arrivavano venivano fatti passare per tumori anche se erano tubercolosi». Quelli che affermavano: «prendevano i dottori più delinquenti che ci sono, così gli fanno guadagnare miliardi».
Non è una cosa normale, non è un caso isolato, non basta dire, solo quelli erano così e il resto, il corpo del paese è sano. Non si possono più sentire queste cose. Guardiamoci allo specchio, e diciamoci come il degrado culturale ed etico di questo paese ha portato a una degenerazione degna di paesi del terzo mondo come la Colombia o il Venezuela. Guardiamo quanta cattiveria, quanto cinismo e quanta pochezza circola tra persone che avrebbero dovuto studiarsi a menadito il giuramento di Ippocrate, gente che ha preso una laurea in medicina per massacrare gli altri, o gente che ha la piccola azienda in crisi del nordest e per risolvere i problemi di bilancio ammazza il rumeno che lavora per loro, e che ha solo 28 anni.
Avidità, pochezza, cattiveria, e nessuna etica. Nessun senso morale. Capaci di additare gli altri come il male, e incapaci di guardare l'esempio che diamo agli altri. Capaci di andare a protestare contro un piccolo campo nomadi a Mestre, perché c'è qualche fiore e un giardinetto per bambini, un campo nomadi, tra l'altro di cittadini italiani, e incapaci di scendere in piazza contro lo scempio dei giornali di ieri. Per solidarizzare con quel poveretto che dice: «stavo guarendo, mi hanno tolto un polmone». Una volta il truffatore italiano, nella commedia di tutti i luoghi comuni dell’Italia bonaria, vendeva la Fontana di Trevi all’americano di turno. Ora il truffatore è un medico stimabile, probabilmente con una ricca casa nei quartieri buoni di Milano, o con villa sul lago, che diagnostica tumori inesistenti, e opera, opera e ancora opera.
Dire “che vergogna” non è neppure una buona frase, si usa per cose assai più piccole e assai meno sconvolgenti. Qui c’è l’orrore, come hanno titolato i giornali, ma c’è l’orrore dell’associazione a delinquere su cose che si spiegano soltanto con delle follie individuali, e non con un sistema feroce e vuoto come quello. Voglio dire che non basta un medico per mettere assieme l’orrore della clinica di Milano: ci vuole un vero e proprio sistema di direttori sanitari, di radiologi, di medici diagnostici, di anestesisti compiacenti, di infermieri, di personale e amministrativo, e infine di chirurghi. E quando in un Paese civile può accadere questo, vuol dire che il segno è stato oltrepassato, vuole dire che in Italia il senso dell’etica, l’umanità, la misericordia, la pietà sono valori che non servono più a nulla, che non contano, che sono spariti.
Io me li immagino questi primari, questi chirurghi pieni di sé, passare a trovare l’ammalato il giorno dopo, guardarlo negli occhi, intubato, sofferente, speranzoso di tornarsene a casa, quasi riconoscente del duro lavoro che ha fatto il chirurgo, chiedendo se ce la faranno, affidandosi, senza sapere di avere di fronte un criminale volgare, un mostro vero, capace di ucciderli per un nuovo modello di auto sportiva, o per una vacanzuccia a Cortina, o in qualche paradiso dei Caraibi. Gente che ti strappa via un polmone sano per una cena con aragoste e champagne. O per un Rolex d’oro in più da sfoggiare in qualche festa.
E che dire del povero Adrian Kosmin, che forse era persino contento, lui regolare rumeno che faceva l’autotrasportatore per la piccola ditta dei due coniugi veronesi. Sarà stato felice di quante attenzioni riceveva, persino quella di una bella assicurazione contro gli infortuni e sulla vita. Brava gente quella che gli aveva dato lavoro. Gente che si preoccupava della sua incolumità: se stai per strada un incidente può sempre accaderti. E allora perché non fare una bella assicurazione a spese della piccola azienda. Che civiltà. Il povero Adrian, che aveva solo 28 anni, lo avrà detto alla madre, alla fidanzata, o alla sorella che era finito tra tutta brava gente. Che poi gli italiani ti aiutano, anche quando meno te lo aspetti. Ed era un bel gesto, corretto, serio, generoso. Mica poteva immaginarlo che i due lo invitano a casa, lo addormentano, lo ammazzano, e poi lo bruciano. E vogliono far passare tutto questo per un incidente, come degli idioti, non sapendo che le autopsie parlano chiaro, e uno che muore bruciato respira il fumo che poi finisce nei polmoni. Ma Adrian era già morto, non respirava più già da tempo e il fumo nei polmoni non c’era. Ed ecco che i due sono stati arrestati. Omicidio premeditato.
Sono le élites queste, imprenditori e medici, per di più del nord, sono le élites di questo Paese capaci di tutto questo orrore. Una nuova forma di cinismo e di crudeltà che lascia agghiacciati. E che nei due casi di ieri raggiunge il paradosso. Ma il cinismo gelido, l’indifferenza cattiva, il razzismo volgare, corre sul fondo. La vergogna non è più un sentimento che si prova, la lealtà, la correttezza, l’onestà non valgono più nulla. Il Paese della doppia morale, il Paese dell’intolleranza verso gli altri e dell’assoluta indulgenza verso le proprie colpe, da quelle piccole a quelle orribili, da ieri è sprofondato ancora più in basso. È colpa di tutti. Siamo tutti colpevoli, ognuno nella propria misura. Colpevoli di non essere riusciti a fare abbastanza, anche quando abbiamo provato a fare molto, contro il degrado culturale e sociale di questo paese. Che tristezza e che vergogna.
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 11.6.08
Ferrero: ricominciamo dai quartieri
Il Prc non archivi il comunismo
di Simone Collini


«Il punto non è unire la rappresentanza politica della sinistra ma fare opposizione alle politiche di destra»
«Falce e martello? Per costruire movimenti che cambino l’ordine delle cose c’è bisogno
di elementi simbolici»

PARLA tre quarti d’ora di una sconfitta «sottovalutata» e del fatto che «il problema oggi non è la costruzione di un nuovo centrosinistra», dell’errore commesso entrando nel governo Prodi «con i rapporti di forza a noi così sfavorevoli» e della necessità di
«ricostruire un’utilità sociale della sinistra», dell’operazione «politicista» dell’Arcobaleno che ora rischia di ripetersi col processo costituente proposto da Vendola, del comunismo che «non è una tendenza culturale ma una forza materiale», della pericolosità di «abbandonare i punti di riferimento tradizionali quando non se ne hanno altri con cui sostituirli». Poi fa un esempio, Paolo Ferrero, per difendere la sua proposta politica per il congresso di Rifondazione comunista: «La Chiesa cattolica, dopo aver perso i referendum su divorzio e aborto, ha ricominciato dagli oratori, non da Ruini», dice il valdese Ferrero. «Di fronte a una società che le ha detto “non ci rappresenti”, non si è arroccata, ha ricominciato su un altro terreno. A Ruini ci è arrivata. Dopo 30 anni. Ma ci è arrivata».
Bertinotti domani spiega quelle che per lui sono le ragioni della sconfitta. Lei che dice?
«Che non siamo riusciti a dimostrare l’utilità sociale della sinistra. La gente ha pensato che non servissimo a niente».
Motivo?
«I due anni di governo, il fatto che il Pd invece di applicare il programma concordato ha mediato su ogni punto con i poteri forti».
Sempre colpa del Pd, voi non avete sbagliato niente?
«Noi abbiamo sbagliato l’analisi del congresso di Venezia, e quando dico noi dico che io sono responsabile di questa sconfitta quanto Fausto Bertinotti e Franco Giordano».
Dov’è stato l’errore, porvi la questione del governo?
«L’errore è stato pensare che nonostante fossimo sconfitti nella società, potessimo nel cielo della politica fare un’operazione di costruzione del programma e di condizionamento dell’Ulivo. Siamo stati velleitari, pensavamo con una lametta da barba di riuscire a fare un buco in un muro d’acciaio. Il progetto è fallito e ha determinato la rottura del rapporto tra la sinistra e la società. Per questo ritengo sbagliato, come fa Fava, proporre una ricostruzione del centrosinistra».
Qual è allora la priorità oggi?
«Costruire una sinistra di alternativa che faccia fino in fondo i conti col suo radicamento sociale e la sua utilità sociale. Perché a questo punto dobbiamo dare una risposta a chi si domanda chi sono quelli di sinistra. Io dico che sono quelli che quando una famiglia è sotto sfratto vanno a fare picchetto, perché se non sono questo sono soltanto un pezzo di ceto politico che quando va al governo fa cose non così dissimili dagli altri e con un’utilità marginale rispetto agli altri».
Per superare questa marginalità non è meglio dar vita a un processo costituente, come propone Vendola?
«No perché è un’operazione politicista, dall’alto, proprio come la Sinistra arcobaleno. A chi dice che ci dobbiamo unire per non scomparire ricordo che noi ci siamo uniti e siamo scomparsi dal Parlamento. Ora vediamo di non scomparire anche dalla società. Anche perché il problema adesso non è serrare le fila e prepararci al voto tra cinque anni. La destra sta lavorando a smontare ulteriormente i legami sociali. Se vanno avanti così sul mondo del lavoro, sulla sicurezza, sull’uso delle emergenze per smontare l’ordinamento giudiziario, tra cinque anni ci saranno le basi per impedire politicamente, culturalmente e socialmente la possibilità di costruzione di una sinistra. Oggi dobbiamo fare opposizione alle politiche della destra con un lavoro capillare, costruendo case della sinistra in tutti i quartieri, per discutere non di come fare le liste per il mese dopo, ma di come si riesce a mettere assieme comitati e associazioni per costruire sul territorio vertenze, fare esperienze di mutualità».
Non si possono fare insieme, costituente e ricostruzione dell’utilità sociale?
«Primo, a seconda di dove si punta il riflettore si determinano particolari esiti. Secondo, tra di noi dobbiamo dirci con chiarezza se Rifondazione comunista serve per l’oggi e il domani o se è una forma politica e un progetto politico che deve andare a chiudersi. Perché per me il Prc è utile, per chi parla di costituente diventa dannosa per processi cosiddetti più avanzati».
Vendola e i sostenitori della sua mozione negano che vogliano sciogliere il partito.
«Nella mozione si parla di nuovo soggetto politico unitario. Che vuol dire? E poi si parla di costituente della sinistra, quindi non si chiama più comunista. Con due effetti. Il primo: apre lo spazio per una costituente comunista, e quindi divide e non unisce il campo della sinistra. Il secondo: si chiude l’ipotesi politica di fondo del Prc, che è quella di tenere assieme l’appartenenza a un filone politico, il comunismo inteso come idea della rivoluzione, di critica radicale al modo di produrre ricchezza, con l’innovazione. Comunismo e rifondazione, le due cose stanno assieme. Se parli di costituente di sinistra le separi, con l’innovazione che va da una parte, non si capisce bene dove, e il comunismo da un’altra, verso una caricatura».
Non è tempo di archiviare falce e martello?
«Io sono protestante e quindi tendenzialmente iconoclasta. Però l’idea che si possa aggregare chi subisce sfruttamento in assenza di punti di riferimento è priva di fondamento».

l’Unità 11.6.08
Dignità per i rom, dignità per tutti
di Dijana Pavlovic


Domenica 8 giugno a Roma c’è stata una manifestazione. Ma non era una delle tante e diverse che si sono svolte finora. Questa era la prima manifestazione, che io sappia, organizzata dai rom per i rom e questo mi ha fatto pensare all’inno del mio popolo intitolato: Upre Roma.
«Upre Roma» in lingua romanes vuol dire «Alzatevi Rom». Spesso la mia impotenza davanti ai troppi casi di diritti e libertà negati si trasformava in rabbia nei confronti del mio popolo che non ha mai reagito e mai alzato la testa in tanti secoli di discriminazione, esclusione, persecuzione fino allo sterminio. Come se subire fosse il nostro destino. Per questo la manifestazione dell’8 giugno, che è stata capace di mettere insieme i Rom con la parte sana della società che detesta e vuole reagire all’onda razzista che percorre l’Italia, non solo mi fa felice, ma ci restituisce un po’ di orgoglio, di dignità. Questo è quello che provano anche i Rom che hanno sfilato e che mi hanno telefonato, entusiasti, perché c’erano tantissime persone, perché non ci sono stati incidenti, perché ora si sentono meno soli.
Questa piccola comunità, i Rom che vivono in Italia (170.000 persone di cui 80.000 cittadini italiani e più della metà bambini), è riuscita ad avere uno scatto di orgoglio, nel momento in cui per loro vengono varate leggi speciali, anticostituzionali e discriminatorie, mentre il prefetto di Milano ordina un blitz alle cinque e mezzo di mattina in un campo di rom cittadini italiani, per schedare i Bezzecchi, una famiglia il cui capostipite è un superstite di un campo di concentramento italiano, il figlio è medaglia d’oro al valor civile e impegnato per la difesa dei diritti dei Rom.
Certo, è un piccolo passo, è solo una manifestazione. In altri paesi europei la partecipazione dei Rom nella politica e nella società è enorme rispetto all’Italia (nel mio Paese, la Serbia, per esempio, ci sono due partiti rom), ma questo per me è un passo importante. Mi sembra quasi di poter dire che la caccia allo «zingaro» scatenata negli ultimi tempi, oltre a conseguenze disastrose per i rom e l’imbarbarimento della società, abbia però prodotto un aspetto positivo: farci alzare la testa, insegnarci che anche noi abbiamo i diritti, come tutti gli altri cittadini, e come tali abbiamo il dovere di farli valere.
La consapevolezza di avere diritto al rispetto e alla dignità non aiuta solo i Rom in questo momento drammatico, ma aiuta tutti gli italiani: li fa sperare di poter diventare persone dignitose perché vivono in un paese civile, nel quale ciascuno, a qualunque etnia appartenga, si senta partecipe a pieno titolo e con pari dignità.

l’Unità 11.6.08
Il ritorno del picchiatore
di Fulvio Abbate


La mia profezia, purtroppo, si è avverata. La profezia in questione diceva esattamente così: con la vittoria elettorale della destra risorgerà lo spettro di Er Nerchia, un antico picchiatore neofascista degli anni Cinquanta-Sessanta, non sarà proprio lui a rimettersi al lavoro, a pattugliare le strade armato di mazza e ghigno, bensì i suoi molti eredi, coloro che reputano che la violenza e soprattutto l’arroganza siano un bene assoluto, un metodo di doverosa prassi quotidiana, da praticare appunto in nome dell’ordine, e dell’estro personale, come quando uno dice che gli stanno tutti antipatici.
Parlo delle aggressioni e delle molotov indirizzate ai rom, parlo dei pestaggi ai gay, parlo degli assalti ai ragazzi di sinistra e dei centri sociali, ma su tutto, molto al di là di questi picchi estremi, parlo del clima che si respira nel quotidiano, un brutto, merdoso clima che è possibile assaporare un po’ dovunque, perfino sotto casa, perfino da fermi. Inutile fare finta di niente, ma il nostro paese ama, tiene sempre nel cuore le insegne del fascismo, le ama perché il fascismo, con il suo bagaglio di certezze e di aggressività, di espressioni da fureria («tutti fuori dal cazzo!», tanto per dirne una, la più naturale), con il suo carico di rabbia coltivata come un segno di “distinzione” e di “buonsenso”, un sentimento che nasce dalla convinzione che sia finalmente giunta la resa dei conti. Anche a colpi di spranga. Con chi? Faccio subito un esempio banale. È dell’altro giorno un episodio che, sempre parlando del quotidiano, che è poi il termometro della qualità della vita e dei suoi livelli d’allarme, mi ha decisamente angosciato.
Sto facendo ritorno a casa in auto, sto anche cercando di scansare le altre vetture che non rispettano il diritto di precedenza, così come gli sportelli che si aprono all’improvviso, gli sportelli delle auto parcheggiate, beninteso, in seconda fila, ed è nel pieno di un tutti contro tutti che in corrispondenza di un passaggio pedonale intravedo una ragazza che spinge una carrozzina con un bambino. Bene, facendo del mio meglio, freno per consentire a questa persona di mettersi in salvo sul marciapiede opposto. Dunque freno, faccio soltanto il mio dovere civico memore di tutte le volte in cui mi sono trovato nella medesima situazione della mamma con carrozzina. Intendiamoci, nel mondo di oggi con siamo in molti a rispettare i diritti concessi dalla presenza delle strisce pedonali, infatti tutte le volte che ti fermi intuisci sempre qualcuno che sopraggiunge alle tue spalle, e quasi lo senti ringhiare contro il tuo rispetto del codice della strada, contro i diritti del passante, del pedone. A questo punto accade però che la mamma con carrozzina sta lì a guardarmi con odio furente, quanto basta perché io, tirando fuori la testa dal finestrino, le faccia notare che quel suo sguardo colmo di odio andrebbe riservato ad altri, «sì, signora, è inutile che guardi come, riservi a tutti quegli altri che non si fermano la sua rabbia». Un istante dopo, ecco che vedo sopraggiungere un uomo sui trent’anni (“faccia da fascista”) che prende a battere con i pugni contro la mia auto e ad insultarmi, cercando di insinuare una mia qualche responsabilità in tema di rispetto dei diritti offerti dal codice della strada, improvvisamente vedo insomma la mia posizione ribaltarsi, lo capisco dalla faccia (“da fascista”) dell’uomo che vorrebbe avermi fra le mani per fare, come dire?, “giustizia”, un istante appena ed eccomi lì come “capro espiatorio” di un mondo dove si sempre più fatica a intuire il rispetto reale per l’altro. Ovviamente, mi allontano, scelgo di mettere in salvo la pelle e il setto nasale, intanto però continuo a osservare dallo specchietto: vedo nuove minacce, vedo un gesto della mano che suona come minaccia ulteriore, un gesto che sa di amore per linciaggio, vedo ancora, a decine, le auto parcheggiate in seconda fila, vedo i poveri pedoni che inutilmente supplicano di non finire sotto la furia di chi brucia le strisce pedonali come non fossero, torno a casa e chiamo un’amica per raccontarle l’accaduto. Mi dice che la stessa cosa le è accaduta due giorni prima. Alla fine sogno di volare, sogno di non mettere più piede in un mondo che ignora la grazia, un mondo che dove il fascismo è un sentimento e uno strumento ritenuti, insieme alla violenza, molto civici.
f.abbate@tiscali.it

Corriere della Sera 11.6.08
In discussione Una confutazione di Emmanuel Le Roy Ladurie: ciò che oggi risulta falso ha avuto un senso profondo nei secoli passati
La verità al tempo delle streghe
Le credenze e il metodo storico: perché si può essere relativisti
di Quentin Skinner


Emmanuel Le Roy Ladurie nel saggio I contadini di Linguadoca (Laterza), riguardo all'insorgenza delle credenze sulla stregoneria nel periodo della Riforma, inizia sottolineando che quelle convinzioni dei contadini erano chiaramente false, ed erano poco più del prodotto di ciò che lui chiama un «delirio di massa». Per spiegare perché queste convinzioni siano state ampiamente condivise, dice Ladurie, ci serve un resoconto di ciò che può avere compromesso il processo di ragionamento e può aver fatto sì che, come lui dice, la coscienza dei contadini rompesse gli ormeggi. Afferma Ladurie che il problema sta in cosa causò l'insorgere di un simile oscurantismo e di una epidemia di convinzioni patologiche.
Il mio punto di vista è che seguire questo approccio è semplicemente fatale per la buona pratica storica, perché significa presumere che ogni volta che uno storico si trova di fronte a una convinzione che considera falsa, la spiegazione sarà sempre quella di una mancanza di razionalità. Ma questo significa identificare l'avere convinzioni razionali con l'avere convinzioni che lo storico considera vere. Si esclude pertanto la possibilità che, anche nel caso di convinzioni che oggi consideriamo chiaramente false, possano essere esistiti nel passato buoni motivi per considerarle vere.
Mi pare, in altre parole, che lo storico della cultura debba operare mantenendo ben separate la verità e la razionalità. La ragione sta nel fatto che, quando cerchiamo di spiegare convinzioni che consideriamo irrazionali, è allora — e non quando le giudichiamo false — che sorgono ulteriori problemi su come dare la migliore spiegazione. Mettere sullo stesso piano l'avere false convinzioni e la mancanza di razionalità è pertanto una preclusione di un tipo di spiegazione a spese di altre. Le cause per cui qualcuno segue quelle che sono considerate giuste norme di ragionamento saranno di ordine diverso dalle cause per cui tali norme sono violate. Ne consegue che non possiamo essere certi di identificare correttamente ciò che deve essere spiegato né, di conseguenza, impostare le nostre ricerche nella giusta direzione. Se si dimostra che esistevano basi razionali perché l'agente avesse tale convinzione, dovremo esaminare le condizioni di tale risultato. Se risultasse che avere tale convinzione non era molto razionale o era addirittura assurdo, dovremo esaminare il tipo di condizioni che possono avere impedito all'agente di seguire i canoni riconosciuti dell'evidenza e del ragionamento, o che forse hanno dato all'agente un motivo per sfidarli.
Per illustrare l'importanza di questi punti, riprendo il resoconto di Ladurie riguardo alle credenze sulla stregonerie ampiamente diffuse tra i contadini di Linguadoca. Egli non solo inizia facendo notare che queste convinzioni erano false, ma la sua spiegazione presuppone che sarebbe stato irrazionale non considerarle false. Ladurie presume che la falsità di queste credenze sia di per sé sufficiente per mostrare che non erano sostenute razionalmente. Operando su questo presupposto, si preclude ogni spazio per considerare un tipo di spiegazione storica diversa. Non può accettare il fatto che i contadini possano avere creduto all'esistenza delle streghe come conseguenza del loro avere tutta una serie di convinzioni a partire dalle quali si sarebbe potuti arrivare razionalmente a tale particolare conclusione. Per considerare soltanto la più semplice delle possibilità, supponiamo che i contadini avessero anche la convinzione — ampiamente accettata come razionale e quindi certa nell'Europa del XVI secolo — che la Bibbia sia la diretta parola di Dio. Se questa era una delle loro convinzioni, e se per loro era razionale abbracciarla, allora non credere nell'esistenza delle streghe sarebbe stato per loro il massimo dell'irrazionalità. Non solo, infatti, la Bibbia afferma che le streghe esistono, ma aggiunge che la stregoneria è un abominio e che non si può permettere alle streghe di vivere. Dichiarare di non credere all'esistenza delle streghe sarebbe equivalso a dichiarare di dubitare della credibilità della parola di Dio. Che cosa avrebbe potuto essere più irrazionale di questo? Ladurie esclude a priori la possibilità che coloro che credevano nelle streghe lo facessero come risultato dell'avere seguito una tale catena di ragionamento. Ma questo non significa solamente che lui avanza una spiegazione delle credenze magiche che, per quel che ne sa, può essere completamente irrilevante. Significa anche che ignora tutta una serie di interrogativi sul mondo mentale dei contadini a cui può essere indispensabile rispondere se si vogliono bene comprendere le loro convinzioni e il loro comportamento.
Lo storico può arrivare alla conclusione che, nonostante le credenze sulle streghe del secolo XVI fossero false, fosse assolutamente razionale considerarle vere a quel tempo. Un'altra possibile conclusione può essere quella per cui fosse razionale avere convinzioni con grado di probabilità anche piuttosto basso. Infine credo che lo storico non possa escludere di arrivare alla conclusione che le convinzioni in questione non solo erano false, ma che nemmeno a quel tempo esistevano ragioni sufficienti per considerarle vere.
L'essenza della mia argomentazione è quindi che quando uno storico della cultura vuole spiegare i sistemi di pensiero imperanti nelle società del passato, deve addirittura evitare di porsi domande sulla verità o falsità delle convinzioni che sta studiando. Ci si deve appellare al concetto di verità soltanto per domandarsi se i nostri antenati avessero ragioni sufficienti per considerare vero ciò che loro credevano che fosse vero.
So bene che chiunque si esprima in questo modo è destinato, prima o poi, ad essere biasimato (o encomiato) come relativista, quindi devo terminare spendendo qualche parola per spiegare se ho o meno adottato una posizione relativista. Per un verso, la mia argomentazione è ovviamente relativista. Ho relativizzato l'idea di «considerare vera» una certa convinzione. Come ho indicato, per i contadini di Linguadoca il credere all'esistenza di streghe alleate con il demonio poteva avere una base razionale, pur se ora tale convinzione non ci appare più razionalmente accettabile. Tutti gli storici della cultura devono essere relativisti in questo senso. Devono avere sempre presente che è possibile abbracciare una convinzione falsa in modo razionale.
È però un errore supporre che gli storici che adottano questa posizione stiano abbracciando una tesi di relativismo concettuale. Il relativismo concettuale afferma che la verità è semplicemente l'accettabilità razionale in una forma di vita. Ma non è questo ciò che ho sostenuto. Non ho asserito che fosse vero che in certo periodo siano esistite streghe alleate con il demonio. Ho semplicemente affermato che ci può essere stato un tempo in cui era razionale affermare che era vero che esistevano streghe alleate con il demonio, pur se ora tale convinzione ci appare falsa. Più in generale, mi sono limitato ad osservare che il problema di che cosa possiamo razionalmente considerare vero varia in base alla totalità delle nostre convinzioni. Non ho mai avanzato l'originale tesi che la stessa verità può variare allo stesso modo.
In altre parole, non sto dicendo che quando Tommaso d'Aquino affermava che il sole gira attorno alla terra, o quando Locke affermava che le pietre crescono, queste affermazioni erano vere per loro (come dicono i relativisti) pur se non sono vere per noi. Voglio dire che queste affermazioni non sono mai state vere. L'unico punto che ho sostenuto è che, per spiegare il loro mondo, dobbiamo accettare il fatto che loro possano avere avuto buoni motivi per ritenere vere molte convinzioni che a noi appaiono palesemente false. Ad esempio, che le pietre possano crescere.

Lo storico Quentin Skinner dell'Università di Cambridge, nato nel 1940, è uno dei massimi studiosi del pensiero politico moderno, in particolare di Hobbes e Machiavelli. Il testo pubblicato in questa pagina è una rielaborazione sintetica del discorso su «Verità e spiegazione della storia» da lui tenuto a un seminario organizzato dalla Fondazione Balzan.

Repubblica 11.6.08
Quelle donne assassinate
Un libro-denuncia che racconta un anno di "ordinaria" violenza
Trecento storie tutte vere
di Laura Lilli


Il 91,6 per cento degli stupri non viene denunciato e nonostante ci siano ormai ottime leggi ottenute dal femminismo la paura impedisce alle vittime di parlare
Tra le autrici Dacia Maraini, Elena Gianini Belotti, Lia Levi e Chiara Valentini
Permane nel nostro paese un inconscio collettivo arcaico maschilista

Eran trecento, ma non erano giovani e forti, come quelli della Spigolatrice di Sapri. Ma, come loro, sono morte. Morte, non morti. Erano donne, infatti, non uomini. E sono state uccise da violente mani maschili. Molte erano giovani come gli eroi di Sapri, alcune quasi bambine. Altre erano di mezza età e altre ancora anziane: una di 78 anni. Molte non erano attraenti. Le loro vite non avevano nulla di eroico, a parte gli eroismi quotidiani, invisibili per gli uomini, di cui è fatta l´esistenza femminile. Non avevano utopie, o straordinari progetti di vita. Nemmeno erano femministe. Semplicemente, qualcuno le aveva messe al mondo - spesso, ma non sempre, in circostanze disagiate - e vivevano: vite, a volte, anche banali o infelici. Molte sono morte nel senso fisico del termine: hanno smesso di respirare dopo essere state perseguitate, brutalizzate, stuprate, strangolate, accoltellate, uccise da pistole, martelli, bastoni, perfino da un lanciafiamme fabbricato in casa. Con accanimento, ferocia e furia difficilmente immaginabili tra esseri umani. Molte altre, invece (e chissà se non sia peggio) sono morte "dentro": divenute mentalmente inerti, come vegetali. Incapaci di sorridere, di progettare, di amare. Il loro devastato paesaggio interiore è lunare, privo di vita.
Le loro storie sono "fatti di cronaca", ripresi, mese per mese, in un prezioso libro che non ha precedenti e che non c´è dubbio presto diventerà un importante strumento di lavoro: Amorosi assassini/ Storie di violenze sulla donne, che sta per uscire da Laterza (pagg. 261, euro 16). Ne sono autrici tredici donne del gruppo femminista Controparola. Le notizie, ordinate cronologicamente mese per mese nel 2006, sono state riscritte - per ogni capitolo, una a turno in modo più esteso - e si leggono come brevi pezzi di narrativa noir.
Controparola, è composto, com´ è noto, da sole donne "di penna": narratrici e saggiste come Dacia Maraini, Elena Gianini Belotti, Lia Levi; giornaliste e saggiste come Chiara Valentini, Elena Doni, Maria Serena Palieri, Claudia Galimberti, Paola Gaglianone, Simona Tagliaventi, Cristiana di San Marzano, Francesca Sancin. E universitarie, ricercatrici, saggiste e collaboratrici di prestigiosi quotidiani come Mirella Serri o Marina Addis Saba. Il gruppo esiste da molti anni, e ha già pubblicato, nel 2001 un altro importante volume: Il Novecento delle Italiane/una storia ancora da raccontare (Editori Riuniti).
Trecento storie sono tante. Messe in fila - e non sgocciolate giorno per giorno in qualche pagina di cronaca, spesso locale - formano una massa imponente, che non può passare inosservata, suscitando semplici commenti di disapprovazione. Secondo Marx, ad un certo punto la quantità diventa qualità. E´ vero. Queste trecento storie di donne - si badi, un semplice campione, la punta di un iceberg, avverte l´introduzione - ci mettono di colpo davanti agli occhi un impressionante fenomeno sociale del nostro tempo, per il quale l´aggettivo "inquietante" non basta più. Ci vuole anche un giudizio di valore, come "mostruoso", "spregevole". Esso deve farci riflettere - e provocare risposte efficaci - non meno di grandi e drammatici temi sociali come la fame nel mondo, la pena di morte, i diritti civili, la tortura.
L´introduzione fornisce terrificanti cifre Istat. Nel 2006 sono 112 le donne uccise da un marito, un fidanzato o un "ex", che quasi mai accetta di esserlo, anche se vive con un´altra donna (uno addirittura, teneva segregata la moglie mentre viveva con una nuova compagna). Nello stesso anno, il Ministero dell´Interno ha registrato 4500 denunce di donne a polizia e carabinieri per violenze, abusi, aggressioni. E da un´altra ricerca Istat elaborata in cinque anni su 25.000 donne tra il 16 e i 70 anni, risulta che il 91,6% degli stupri non viene denunciato. E si va al 96% quando le aggressioni sono non sessuali: molestie nei luoghi di lavoro, stalking (persecuzione ossessiva, che oggi può essere aiutata da computer e cellulari), violenza psicologica, specie nel matrimonio (ingiurie, umiliazioni, minacce).
Perché le donne non parlano? In primo luogo per paura. Poi, per difficoltà familiari e anche - incredibile ma vero - per non danneggiare il persecutore. Del resto, spesso (non sempre) anche quando denunciano, non fa differenza, grazie a un´omertà maschile così forte e profonda da sembrare "naturale". Anni fa fece rumore il film Processo per stupro, in cui la donna che accusava finiva per essere l´accusata: lei "provocava", "ci stava", "se l´è voluta" etc. Oggi questo avviene in misura minore. E ci sono ottime leggi ottenute dal femminismo. Ma l´inconscio è lontano dalle leggi. Così le denunce si accumulano una sull´altra negli uffici di polizia…
Il 22 novembre 2005, all´alba, prima di entrare in fabbrica, la giovane Deborah, un´operaia del biellese viene uccisa con sette pugnalate e lasciata sull´asfalto. Si scoprirà che l´assassino, Emiliano Santangelo - che finirà per soffocarsi in carcere con un sacchetto di plastica - la perseguitava con molestie e violenze sessuali già da dieci anni, quando ancora era ragazzina. Lei ogni volta era andata al commissariato: ma le denunce erano restate lì. Tanto che l´allora ministro della giustizia Castelli, il 27 febbraio chiese ufficialmente scusa alla famiglia, e inviò ispettori del Ministero al tribunale di Biella per appurare se tutto il possibile fosse stato fatto per salvarla. Ora la famiglia vuol chiede un congruo risarcimento allo Stato.
La casistica è infinita, ed è anche uno specchio dell´Italia di oggi, sospesa fra tecnologia in continuo rinnovamento, leggi recenti e un inconscio collettivo arcaico. Ci sono figli che ammazzano la madre, educati come sono alla scuola della violenza paterna. C´è un impiegato di banca sposato con prole che, conosciuta e corteggiata chattando (!) un´adolescente di un´altra città, prende un giorno di ferie e, come dice il titolo di un famoso film, Va, (la stupra) l´ammazza e ritorna. C´è un prete stupratore "seriale": padre Fedele, al secolo Francesco Bisceglie, 69 anni, fondatore di una "Oasi di accoglienza francescana" in provincia di Cosenza, impegnato anche in missioni in Africa. Una suora lo accusa di averla violentata da sola e in gruppo, e una serie di intercettazioni le dà ragione (ecco a cosa servono!). Il frate violenta anche le collaboratrici volontarie e si fa spesso riprendere con belle giovani poco vestite, che afferma di aver "convertito". A lungo riempie le cronache dei giornali. Infine, il 23 gennaio 2006, finisce in galera.
Tante storie di donne-vittime ma anche di uomini-carnefici - molti dei quali esaltati, malati o disperati, poi finiscono per suicidarsi - ci parlano di una inquietante psiche maschile collettivamente malata. Forse dal femminismo molti uomini italiani, ricchi o poveri, colti e meno colti, hanno avuto uno choc paralizzante. Così, invece di ascoltarne le ragioni e provare ad adeguarvisi, si sono limitati a sentirsi vittime assetate di vendetta. Spossessati di un potere assoluto - quello sulla donna - che sentivano appartenergli per diritto di nascita, non hanno avuto la forza o la capacità di accettare la nuova realtà dei rapporti umani. Non caso, dice l´Istat, mentre gli omicidi in generale diminuiscono, quelli di donne aumentano. Perché questo sinistro primato dell´Italia in Europa? Un tentativo di risposta potrebbe trovarsi nella constatazione che l´Italia è il Paese in cui più diretta e intensa è l´eredità classica, con tutta la sua misoginia. Eredità viva ed ininterrotta fino ad oggi grazie alla Chiesa - anzi intensificata dopo la Controriforma. In ogni caso, c´è un enorme lavoro di rieducazione da fare, cominciando dai bambini piccoli, già alla scuola materna (nessuno è di nessuno, le persone non sono cose, la violenza è brutta, etc).
Un poco, il senso comune sta già cambiando: spesso sono i vicini di casa, sentendo grida eccezionali, ad avvertire polizia e carabinieri, riuscendo a evitare il peggio. Ci sono progetti al Ministero delle Pari Opportunità. Nel cosiddetto "Pacchetto sicurezza" è stata approvata la norma che concede il permesso di soggiorno alle immigrate che denuncino violenze subite in famiglia. E nella solita "bravissima" Spagna, già dal 2005 - in una situazione assai meno grave della nostra - esistono nuove leggi e strumenti, tra cui un "tribunale di genere".

Repubblica 11.6.08
La Curia di Nocera Inferiore: quel saggio deve andare al macero
E il vescovo censura il libro sull’Inquisizione
Nel volume sono riprodotti documenti su avvenimenti accaduti fra Sei e Settecento "Potrebbero scandalizzare il lettore", replica il prelato
di Adriano Prosperi


Al lettore normale, smarrito davanti all´abbondanza dei libri e in cerca di recensioni che lo aiutino a scegliere, diciamo subito che il libro di cui si parlerà qui non lo troverà in libreria né ora né - forse - mai. Ma il libro esiste, anche se forse non lo potremo leggere. Ne parliamo perché la sua vicenda riporta tra lettori annoiati da storie di censure più o meno inventate per ragioni di bottega il fantasma di una censura antica, che ha operato a lungo nel passato remoto e che credevamo scomparsa.
Si tratta di un libro di storia che racconta vicende accadute in un luogo d´Italia in un passato remoto, tra ´600 e ´700. Vi si incontrano persone e fatti di vita quotidiana, passati attraverso il filtro di carte processuali. C´è la storia di un uomo che aveva l´abitudine di bestemmiare la Trinità, la Madonna e san Michele Arcangelo, si rifiutava di andare in chiesa, non ascoltava le prediche; e c´è quella di un francescano che giocava a carte e quando perdeva prendeva a calci il crocifisso appeso nella sua cella; o quella di una ragazza che raccontò "con molto rossore" al vescovo e ai consultori dell´Inquisizione come si fosse trovata a confessarsi da preti che tentavano in molti modi di rubarle baci e di fare l´amore con lei.
Inquisizione: ecco la parola. Una istituzione ecclesiastica già molto temuta, che esplorava comportamenti e idee delle persone e i cui documenti sono stati ricercati e studiati dagli storici. Per molto tempo la ricerca storica ha dovuto scontrarsi col segreto imposto dagli archivi delle curie vescovili e dall´archivio del Sant´Uffizio romano, istituzione che da papa Paolo VI ricevette la nuova denominazione di Congregazione per la Dottrina della Fede.
Una svolta fondamentale si ebbe quando papa Giovanni Paolo II, preparando il giubileo del 2000 sotto il segno di una solenne "purificazione della memoria", volle l´apertura alla consultazione dell´archivio centrale dell´Inquisizione Romana. L´annuncio fu dato dall´allora cardinal Joseph Ratzinger il 22 gennaio 1998 nella sede dell´Accademia Nazionale dei Lincei. Ratzinger disse fra l´altro: «Sono sicuro che aprendo i nostri archivi si risponderà non solo alle legittime aspirazioni degli studiosi, ma anche alla ferma intenzione della Chiesa di servire l´uomo aiutandolo a capire se stesso leggendo senza pregiudizi la propria storia».
Da allora circola in questo settore di studi un nuovo fervore di interessi e di ricerche e un clima di collaborazione tra studiosi e archivisti ecclesiastici. Un´intesa tra lo Stato italiano e la Conferenza episcopale, del 2000, ha fissato una serie di punti sulla tutela e sull´apertura alla consultazione degli archivi di interesse storico appartenenti a istituzioni ed enti ecclesiastici che dovrebbe garantire sviluppi positivi alle indagini degli storici. Per quanto riguarda in particolare i fondi documentari relativi alla storia dell´Inquisizione, il loro censimento sul piano nazionale è in atto per opera di studiosi di grande e riconosciuta serietà scientifica. La ragione dell´interesse che oggi guida la maggior parte degli storici risiede non più in una volontà di polemica anticlericale ma nella ricerca di una storia più ricca e più viva. Dall´esplorazione di queste carte emergono migliaia e migliaia di volti umani, di pratiche, idee e sentimenti che attraverso il filtro del tribunale ecclesiastico dell´Inquisizione si sono calate in documenti scritti e si offrono oggi al lettore come un deposito di uno speciale tipo di archeologia: quella dei pensieri, delle pratiche, dell´economia morale di un popolo intero.
La ragione è semplice: quel tribunale, la cui segretezza ha alimentato un tempo fosche fantasie di sadica violenza, era un luogo che faceva parte della vita quotidiana anche dei piccoli centri. Lì era obbligatorio recarsi per denunziare la bestemmia del vicino, per riferire con vergogna e rossore la violenza subìta dal prete in confessione. Di tutto questo serbano memoria le carte degli archivi ecclesiastici. Su questa faccia nascosta della storia d´Italia, sulla folla di storie di vita che si sono sedimentate in quelle carte, da tempo stanno lavorando gli storici al solo scopo di capire, di restaurare una memoria meno lacunosa degli atti e dei sentimenti che hanno reso il nostro paese quello che è.
Ma ecco che in una cittadina italiana la cortina del segreto e la durezza delle intimazioni ecclesiastiche si sono levate di nuovo. Un libro scritto da una studiosa, Gaetana Mazza, su documenti dell´inquisizione conservati nell´archivio diocesano di Sarno, Curia diocesana di Nocera Inferiore, ha scatenato la furia di una entità che sembrerebbe un fantasma da operetta se non fosse reale: la censura ecclesiastica. All´autrice, che aveva inviato copia al vescovo della diocesi prima di mettere in distribuzione l´opera già stampata, è stato intimato di mandare al macero l´intero secondo volume dell´opera che riproduceva documenti d´archivio (definiti «testi di dubbia delicatezza, che potrebbero scandalizzare non poco il lettore») e di sottoporre il primo volume all´esame di una commissione ad hoc al fine di emendarlo secondo quello che le sarebbe stato imposto.
L´intimazione riporta in vita l´antico linguaggio e le abitudini della censura ecclesiastica - quella, per intenderci, dei tempi di Galileo. Ci sarebbe da credere a uno scherzo, se non fosse che quella intimazione è fatta a termini di norme concordatarie e sulla base della condizione degli archivi ecclesiastici che sono da considerarsi non pubblici anche se godono di finanziamenti statali. In quella intimazione si legge il senso di vergogna di una istituzione per i comportamenti del clero del passato e per una realtà antica di uso dei suoi poteri da cui non riesce a concepire la liberazione se non nella forma della cancellazione o segretazione dei documenti, insomma di un bavaglio agli storici. Vedremo presto se questo episodio è - come si potrebbe temere - un segno di ritorno all´antico o se è solo il riflesso condizionato di una cultura che non si è aggiornata alle intenzioni delle autorità centrali della Chiesa e alle parole solenni dell´allora cardinal Ratzinger. Basterà vedere se il libro contestato arriverà o meno in libreria.

Repubblica 11.6.08
La polemica sul documento di Artemidoro
Un papiro di pieno Ottocento
di Anna Ottani Cavina


Una serie di valutazioni storico-artistiche avvalorano la tesi secondo la quale quel reperto sarebbe un falso
Perplessità destano l´impaginazione per frammenti e lo scarto fra gli stili di alcune teste, stranamente presenti nella stessa bottega
Alcuni disegni rivelano un timbro arcaizzante (non arcaico) sulla scia di una ricerca neoprimitiva condotta fra diciottesimo e diciannovesimo secolo

Sul papiro di Artemidoro si è tenuta poche settimane fa a Bologna, nelle sale dell´Archiginnasio, una discussione serrata, rigorosa, avvincente, sui temi e sul metodo. Lontana dagli antagonismi che i giornali hanno enfatizzato nella sfida fra i duellanti (noti ormai anche al grande pubblico, Salvatore Settis e Luciano Canfora), la disputa ha coinvolto archeologi classici, egittologi, storici, filologi, storici dell´arte.
Sembrava un´università d´altri tempi, studenti attentissimi e conquistati, docenti impegnati a riflettere e a farsi capire, sullo sfondo di una philological fiction (l´affondo è di Carlo Ginzburg) che presenta alcuni nodi difficili, all´incrocio di varie discipline.
C´era un varco per intervenire sul versante delle immagini, fino ad ora toccato soltanto di striscio da un´analisi che ha privilegiato il testo, la lingua, le mappe geografiche, il cartonnage.
Le considerazioni che ho esposto in quella occasione avrebbero bisogno di spazi più ampi e sfumati. Servono comunque ad allargare il campo della discussione. Vertono sui disegni del recto, vale a dire sugli studi (pochissimi) di mani, di teste, di piedi presentati come «veri e propri esercizi di apprendistato eseguiti all´interno di una bottega» e datati al primo secolo d. C. in quella che viene raccontata come «la terza vita del papiro di Artemidoro» nell´Egitto greco-romano.
Dalla campionatura dei pochi disegni interposti nel testo emergono alcuni dati oggettivi, in primo luogo la qualità modesta degli studi, approssimati nella definizione anatomica (le mani), ridondanti, pieni di manierismi. Presentati nel catalogo di Torino come «disegni di squisita fattura», sono stati più tardi declassati (Settis, la Repubblica, 13 marzo) pur attribuendo loro un ruolo fondante per la conoscenza della grafica antica, di cui «non esistono confronti coevi rappresentativi» e nemmeno «riferimenti e informazioni nelle fonti letterarie» (pag. 473 della lussuosa edizione del Papiro appena pubblicata, 2008).
Risultano tuttavia sconcertanti sia l´impaginazione per frammenti (disegnati entro uno spazio libero, secondo tipologie che si codificano molto più tardi, come prova il confronto con le tavole settecentesche dell´Encyclopédie) che l´incongruità di alcuni gesti, difficilmente riconducibili alla gestualità classica.
Altro elemento di perplessità è lo scarto fra disegni descrittivi e veristi (quale la testa indicata come R2) e disegni abbreviati e di sintesi (la testa R 20): due stili diversi, lontani nei tempi e nei modi, stranamente presenti nello stesso momento e nella stessa bottega.
La contiguità di due stili (che attestano due culture, due forme di pensiero antitetiche prima ancora che due diverse soluzioni espressive) mette in crisi l´idea di esercitazioni condotte dalla stessa bottega su calchi di statue che, in un medesimo ambito, sarebbero state percepite in maniera tanto difforme.
È questo rapporto fra i disegni e la statuaria classica il punto debole di un ragionamento che a me pare discutibile negli accostamenti, in gran parte fisionomici, che gli autori del volume propongono con raffigurazioni antiche di Metrodoro, Epicuro, Saturno, Apollo ecc.
Sarà che, in tema di immagini, io frequento altri mondi e ho negli occhi il repertorio di secoli molto diversi, la tentazione è di introdurre una prospettiva per così dire capovolta.
La percezione dell´antichità, nelle teste disegnate sul papiro, rivela a mio parere un timbro arcaizzante (non arcaico) sulla scia di una ricerca neoprimitiva che dalla fine del Settecento percorre gran parte dell´Ottocento.
Fatte le debite proporzioni (perché le teste disegnate sul papiro sono infinitamente meno intelligenti e geniali), l´idea è quella di risalire agli archetipi, alle forme primarie dei prototipi classici. Una sorta di regressione alla ricerca di forme originarie che John Flaxman ad esempio attinge attraverso un processo altamente intellettuale, la cui suggestione persiste negli esercizi pedanti e banali che si vedono sul papiro.
L´ipotesi di una datazione molto più tarda di questi disegni, in pieno Ottocento, sarebbe confermata, a mio parere, anche da quella testa di profilo, anomala e accattivante, più vicina alla sensibilità moderna (R 20), chiusa da un segno compendiario e deciso (la linea della fronte e del naso) e da un contorno falcato (nella definizione della parte inferiore del volto) che richiama quel modo di trascrivere la realtà, in termini stilizzati e antinaturalistici, che avvicina il purismo di Ingres all´estetismo di Gustave Moreau e dei Preraffaelliti (non c´è lo spazio per produrre le immagini).
Che cosa vorrei dire in realtà? Che, se si tratta di un falso, lo si può facilmente datare in base a quegli elementi contemporanei che, come si sa, il falsario inevitabilmente ingloba e che, a distanza di anni, emergono con maggiore evidenza. Elementi che si leggono senza difficoltà, perché le lacune del papiro non compromettono la comprensione dell´immagine, colpita parrebbe da bombe intelligenti che girano intorno agli studi di teste (si è perduto - non è grave - un ricciolo, il lobo di un orecchio), senza mai centrare il cuore del disegno. Esattamente come accade alle righe del testo greco, che corrono talvolta intorno ai buchi del papiro secondo quella che è una prova classica di falsificazione (Canfora).
Si avverte una difficoltà, espressa da molti archeologi, a inserire nel puzzle del mondo antico un unicum che sconvolgerebbe la conoscenza dei suoi metodi di produzione artistica. È possibile volgere in positivo questo disagio. Procedendo per analogie piuttosto che per confronti letterali, a me sembra che la cultura dell´Ottocento (messa in campo anche da altri studiosi che contestano l´autenticità del papiro da versanti diversi) possa dare una risposta plausibile. Almeno fino a quando «il buco nero» (Settis) del disegno antico non sarà colmato da ritrovamenti compatibili.

Repubblica Firenze 11.6.08
Sesso, i ragazzini si confessano ma per il preservativo è allarme
di Ernesto Ferrara


I ragazzini e il sesso: iniziano presto ad avere rapporti, quello che sanno viene da internet. Incuranti dei rischi: «La prima volta è meglio senza preservativo». Ma Giuliano Zuccati del Centro malattie sessuali avverte: «E´ questa la vera emergenza».
"La prima volta nel letto dei miei". "Il domopak? Maschi bastardi, non ce l´hanno mai". "Non l´ho fatto ma vorrei..."
"Sesso? Io no ma mia cugina..." I ragazzini del si fa ma non si dice

«Ma te glielo fai usare il coso, il domopak? Si insomma, il preservativo?» «Mmm…» (sorride e arrossisce). «Ma come, non si copre? Che sei grulla? Vuoi un figliolo? Ti rovini!» «Mannò, lui esce prima! E poi mi fido...». Alessandra e Daniela hanno 13 e 14 anni, escono dal Brandy e Melville di via Cavour con due bustine-ine, quello è il tempio dell´abbigliamento teenager e loro hanno appena comprato le t-shirt più ricercate dell´estate. Sopra c´è scritto «Boys Bastard», le mostrano come un cimelio: «Vedi, i ragazzi sono tutti bastardi: che se ne fregano del preservativo, loro non lo comprano, glielo devo comprare io?», si chiede Daniela.
Poi spunta Giovanni, brufoli e polo verde, fa il liceo dagli Scolopi e accompagna l´amica del cuore Melania, che invece va al Dante: hanno 16 anni. «Preservativo io? Magari, sono vergine!», confessa. Ma come? Un ragazzo su tre fa sesso la prima volta tra i 12 e i 13 anni e lui ancora vergine a 16? «Sì sì, ma quest´estate mi impegno!», promette. Melania gli dà uno scappellotto e sceglie il silenzio stampa. Esce Sara, 15 anni, appena sente la parola «sesso» si mette a ridere e guarda le amiche che sono ancora dentro alla cassa, le chiama con gli occhi: «A quanti anni la prima volta? Mah, io non l´ho ancora fatto. Ma secondo me tredici è presto. Ecco magari la mia è l´età giusta. Però certo conosco una che...». Che? «Via sì, la mi´ cugina insomma, lei l´ha fatto in terza media». Con o senza? «E che ne so, mica gliel´ho chiesto!». Lo sai cos´è la sifilide? E l´herpes? «Dio bono, non sarà mica roba tipo Aids?». Mai andata al consultorio? «Per fortuna no perché non sono mai rimasta incinta!». Ma ne parli con la mamma di sesso? «No. Cioè, boh. No no», dice mentre si guarda intorno, come se qualcuno fosse lì a spiarla. Non parla volentieri, prende il cellulare e fa finta che le suoni per sgattaiolare, veloce, con le amiche.
Giovani, ingenui, spensierati. Hanno finito la scuola da tre giorni, ora guardano all´estate. Si fermano due minuti a leggere la ricerca che è su tutti i giornali e che li vorrebbe sessualmente precoci (un ragazzo su tre fa sesso prima dei 14 anni, mentre per il 50 per cento delle ragazzine la prima volta scatta tra i 14 e 16, dice l´ultimo rapporto della Società della Salute sui ragazzi fiorentini) e poco attenti alla prevenzione (uno su quattro non usa mai il condom, la metà o non lo usa o lo fa molto saltuariamente). Non parlano volentieri di sesso, nemmeno tra di loro. Ancora timorosi, intimiditi dal loro corpo, dalla paura di fallire: credono nella «prima volta», che sembra essere la prima grande prova della vita. Una ammette: «La prima volta l´ho fatto senza preservativo, volevo sentire tutto». Ma uno su tre ha malattie sessualmente trasmissibili. «Eh...», sospira. Sono nati negli anni Novanta e cresciuti in un mondo di corpi esibiti e di amplessi evocati, abituati fin da bambini a imbattersi nella pornografia virtuale della rete, figli di genitori rispettosi della loro libertà erotica ma in fuga davanti alle loro domande. Dice una mamma: «Cosa dovrei spiegare a mia figlia? Sa già tutto».
Un «tutto» che si vede alla tivù o si legge nei blog, quelli dove gli stessi adolescenti si fanno domande e si danno risposte, nascosti dietro all´anonimato dei nickname e degli avatar, alter ego virtuali che permettono di cancellare oltre al nome l´imbarazzo che, raccontano, si prova a parlare di «certe cose» anche con gli amici del cuore. Così, su forum cliccatissimi come Yahoo!Answers, c´è chi ammette di «averlo fatto senza preservativo», e si domanda quali rischi corra. E, quando a rispondere non sono medici o esperti ma, come nella maggior parte dei casi, coetanei, il verdetto è sempre quello: «Sei pazzo? Vuoi un figlio alla tua età?». Delle malattie si parla poco, pochissimo: il profilattico va usato per mettersi al riparo da gravidanze indesiderate.
E se il preservativo si rompe? «Sapresti cosa fare?», chiediamo a Luca, dicassettenne che racconta di avere rapporti con la sua ragazza da quando ne aveva 15, e di usare sempre il profilattico. «No, e in effetti non ne abbiamo mai parlato. So che esiste una pillola del giorno dopo, ma fortunatamente non ne abbiamo mai avuto bisogno». Mai pensato di andare a un consultorio, di parlare con un esperto? «Macché, non ne parliamo nemmeno tra di noi di certe cose».
Ma è più ganzo chi lo fa prima? Carlo, 16 anni, la prima volta l´ha fatto in casa, sul letto dei suoi, con Arianna, che ne ha 14 ed è ancora la fidanzata: «I preservativi ce li ho sempre in tasca, io vorrei farlo senza, ma lei non vuole». Potrebbe prendere la pillola. «Mi dice di no perché fa ingrassare», allarga le braccia. Elisa, a 17 anni, è ancora vergine, e alla sua «prima volta» ci crede tantissimo: sarà per «vero amore, e con la persona giusta». E´ certa che userà il preservativo, anche lei si è informata «su internet» e sa che «è necessario», e giura che, se lui non volesse, lei si rifiuterebbe di farlo. «Anche perché rimanere incinta a diciassette anni non è il massimo, no?».

Repubblica Firenze 11.6.08
Parla Giuliano Zuccati, responsabile del Centro malattie trasmesse sessualmente
"Giovani senza preservativo una vera emergenza"
"Il ticket di 18,36 è un ostacolo, la Regione dovrebbe prevedere un accesso gratuito alle visite"
di Simona Poli


«Adolescenti senza preservativo? Accidenti se questo è un problema. Secondo me è una vera emergenza di cui si dovrebbe parlare molto di più e in maniera seria, soprattutto a scuola. Si potrebbero prevenire molte delle malattie che ogni giorno mi trovo a curare». Chi parla è uno dei più accreditati esperti delle patologie legate alle abitudini sessuali, il dermatologo Giuliano Zuccati, da anni responsabile del centro Malattie Trasmesse Sessualmente di Santa Maria Nuova (la sede è in via della Pergola 64, aperta dalle 8 alle 13 senza appuntamento), uno dei quattro osservatori nazionali pubblici sul fenomeno insieme a quelli di Milano, Roma e Napoli. «Magari ne venissero di più di adolescenti a farsi controllare e consigliare», insiste Zuccati, che partecipa anche a corsi di educazione sessuale nelle scuole superiori. «Credo che l´ostacolo principale per i minorenni sia il ticket di 18,36 euro che qui si deve pagare per la visita, la Regione dovrebbe prevedere un accesso gratuito per i giovanissimi». Dal centro Mts passano mediamente dodicimila persone l´anno. «Quelle veramente malate sono circa 1.500», racconta il medico, «ma da qualche anno stiamo rivedendo patologie che sembravano ormai scomparse, come sifilide, linfogranuloma venereo, gonorrea. E sono in crescita anche herpes genitale e clamidia». Grandissima la varietà dei pazienti veri o presunti: «Vedo persone di ogni razza ed età, prostitute e prostituti, donne incinta e transessuali, il mondo è grande». L´entusiasmo con cui Zuccati continua a fare il suo lavoro non gli impedisce di lanciare un allarme sulle cosiddette "malattie riemergenti" che colpiscono in particolar modo tra i 20 e i 35 anni, quando si cambiano più partner. «Nel 2007 solo qui ho avuto cento casi di sifilide, anche in donne incinta che non proteggevano i rapporti in gravidanza e rischiavano di passare la malattia al neonato. E poi vedo ricomparire il linfogranuloma venereo, che si presenta anche in una nuova varietà clinica negli omosessuali. Si manifesta con ulcerazioni anali, dimagrimento, febbre. Negli etero invece con bubboni sui genitali esterni».
Tra i 1500 malati che il centro assiste «circa settecento hanno condilomi dovuti a virus hpv (human papilloma virus), che sono ad alto o basso potere oncogeno», dice Zuccati. «Dal 50 all´80 per cento della popolazione sessualmente attiva si infetta con uno di questi virus e il 50 per cento provoca il carcinoma della cervice uterina, cioè il secondo tumore delle donne dopo quello alla mammella. Quindi la prevenzione sessuale è di un´importanza vitale, il preservativo indispensabile. E i vaccini bivalenti che fanno ora alle ragazzine e che la Regione ha scelto proteggono dall´hpv 16 e 18, quelli a più alto rischio oncogeno, ma non dal 6 e dall´11, che danno condilomi e che sono coperti dal più costoso vaccino quadrivalente. Purtroppo anche l´Aids non si ferma: l´anno scorso ho avuto due nuovi casi al mese, quasi tutti omosessuali passivi».

il manifesto 10.6.08
Obiettivo lavoro per la sinistra
di Alfonso Gianni


Che cosa e a chi può importare il prossimo congresso di Rifondazione comunista? Così si interrogava Rossana Rossanda lo scorso 17 maggio su questo giornale, al termine di una sferzante disamina dei guai della sinistra dopo la disfatta elettorale. Poco e a pochi, diventa inevitabilmente la risposta se quel congresso dovesse risolversi in uno straziante martirologio con annessi cospargimenti di cenere sul capo degli astanti. Molto e a tanti, se invece quel congresso, incastonato peraltro in un fitto calendario di appuntamenti similari delle altre forze dell'ex Sinistra Arcobaleno, riuscisse a aprirsi a tutti coloro che non rinunciano a progettare un'alternativa e se si concentrasse sui temi che afferiscono al compito prevalente che abbiamo di fronte, la ricostruzione di una sinistra, e quindi di un'opposizione sociale e politica, nel nostro paese.
Perché questo accada sono necessarie alcune condizioni. La più elementare, è evitare la presunzione di pensare di potere decidere in un congresso di un solo partito per una sinistra che, per quanto mortificata e scompaginata dal tonfo del 13 e 14 aprile, non si esaurisce nelle file degli iscritti al Prc. Che Rifondazione sia la maggiore tra le forze in campo nella sinistra, che il suo contributo, malgrado le pesantissime defezioni del proprio elettorato, all'esisto meno che modesto del voto di Sa, sia stato di gran lunga il più consistente, è fuori di dubbio, come pure il fatto che gli iscritti, fintanto che non ci si inventi una nuova formula per stabilire gli ambiti della sovranità in un'organizzazione politica, hanno il pieno diritto di decidere il destino del loro partito. Ma il modo più alto per valorizzare il congresso di Rifondazione è concepirlo e praticarlo come un momento essenziale di una più generale discussione che coinvolge la sinistra diffusa. Il che è già un modo per praticare l'idea di una costituente di sinistra. Questo esito non dipende solo da noi, deriva anche dalla capacità di chi è fuori dagli attuali confini del Prc, ma non è estraneo alla sofferenza di tutta la sinistra, di interloquire nell'ordine e nel merito dei problemi senza indulgere al tifo.
E' quello che fa Rossanda quando ci ripropone il tema della solitudine del lavoro dipendente precario o perduto. Su questo tema dovevamo caratterizzare il nostro ruolo di governo, su questo abbiamo mancato e perciò siamo stati sconfitti. Eppure i segnali dall'elettorato, oltre che dalle lotte di fabbrica per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, erano giunti e copiosi. Ricordo come, pochi mesi dopo la nascita del governo Prodi, un giornale riportasse che la maggioranza degli intervistati era contenta che si agisse contro la precarietà. Tanto il tema era e è al centro dell'attenzione che il popolo della sinistra era spinto a scambiare i propri desideri con la realtà. Quando poi la distanza tra gli uni e l'altra è divenuta palese, in particolare dopo il fatale luglio, la sconfitta per la sinistra è diventata inevitabile, la collera popolare si è rivolta in primo luogo contro chi aveva sollevato il problema senza risolverlo.
Ancora oggi, un'inchiesta su un buon campione di elettori ci dice che un quarto degli stessi avrebbe voluto che si fosse parlato del lavoro in campagna elettorale. Del lavoro, si badi bene, non solo del reddito insufficiente. Del lavoro che non c'è, dunque, del modo con cui è organizzato quello che c'è, di quanto poco è pagato, della durezza della vita e della giornata lavorativa, dei rischi mortali che porta con sé, del tempo crescente che occupa nella vita delle persone a onta del posto miserabile che invece assume nella scala dei valori in questa società, cui viene contrapposto il mito del successo, non importa come, fonte inesauribile di ogni atomizzazione sociale.
La paura del futuro, la madre di tutte le paure, nasce da qui. Lo sa bene il capitale che ha deciso di sfruttare questa terribile incertezza con la sua mercatizzazione, con i future di Borsa così come con il dilagare del gioco d'azzardo istituzionalizzato. Alla sinistra non basta dire che la fine del lavoro è una sciocchezza (cosa che il Prc ha sempre fatto), né che il lavoro è cambiato. Tutto cambia, ma è decisivo il quanto e il come, il segno prevalente che assumono i processi. Su questo in primo luogo la sinistra deve produrre senso, anziché rincorrere l'identità smarrita.

La Stampa Tuttoscienze 11.6.08
Le staminali contro l’infertilità
di Giuseppe Testa


Secondo una teoria del XVII secolo, l’ovaio di Eva conteneva in miniatura, uno dentro l’altro a mo’ di matrioske, tutti gli individui. Un’immagine ingegnosa per spiegare la trasmissione della vita. Ora le matrioske hanno lasciato il campo a cellule particolarissime, gli spermatozoi e gli oociti (i gameti), ma resta intatta la fascinazione per il processo che rende queste cellule capaci di svolgere la storia delle specie. Il progresso nella comprensione dei comportamenti cellulari aumenta esponenzialmente quando si è in grado di studiare queste cellule in vitro, riproducendone non solo la crescita ma anche il funzionamento e il differenziamento. Ecco perché molti laboratori hanno cercato di coltivare al di fuori dell’organismo i precursori degli spermatozoi e degli oociti, riproducendo il graduale sviluppo che rende queste cellule competenti per la riproduzione. La maggior parte degli esperimenti è avvenuta nel topo, ma anche in questo organismo, e a maggior ragione nell’uomo, la difficoltà nel procurarsi queste cellule ha reso il progresso difficile. Recentemente, però, la convergenza di due sviluppi tecnologici ha impresso una svolta, tanto da stimolare la convocazione di un meeting del «Gruppo di Hinxton», che raccoglie da vari Paesi i principali scienziati e bioeticisti che si occupano di staminali e delle loro implicazioni sociali.
Il primo di questi sviluppi consiste nella capacità di riprodurre in vitro, a partire da cellule staminali embrionali, buona parte dello sviluppo dei gameti. Naturalmente per dire che un gamete è funzionante l’unico test è usare queste cellule nella fecondazione in vitro e vedere se danno origine a un embrione normale. La conferma di funzionalità non è stata ancora raggiunta, ma la disponibilità di un sistema di coltura lasciava già intravedere la prospettiva di ottenere gameti pienamente funzionanti dalle staminali embrionali.
Rimaneva però il problema dell’applicazione all’uomo: non solo la ricerca sulle staminali embrionali umane è limitata, ma anche nelle legislazioni più permissive la disponibilità di embrioni umani rappresenta un significativo ostacolo. Ed è qui che si innesta il secondo sviluppo: consiste nella possibilità di ottenere, nel topo e nell’uomo, cellule staminali pluripotenti da cellule della cute mediante l’attivazione di pochi geni. Queste cellule pluripotenti sono simili per alcune caratteristiche alle staminali embrionali e possono quindi essere differenziate in tutti i tipi cellulari, inclusi i gameti. Il vantaggio, però, consiste nella facilità con cui si possono ottenere, svincolando il procedimento dagli embrioni umani prodotti tramite fecondazione in vitro.
Il gruppo di Hinxton si è riunito per affrontare le implicazioni sociali ed etiche di questa ricerca. Il rapporto è stato unanime nel prevedere che nei prossimi 5-15 anni sarà possibile derivare parzialmente o totalmente in vitro spermatozoi e oociti umani a partire dalle staminali pluripotenti, che si possono a loro volta generare dalla pelle. Quali le conseguenze?
Le prime saranno sulla riproduzione assistita. Si aprirà una finestra di conoscenza sulle prime fasi dello sviluppo embrionale e, così, è facile attendersi un passo avanti per comprendere l’infertilità. Ed è altrettanto prevedibile che questi gameti derivati potranno essere usati per sopperire all’infertilità. Altre potenziali applicazioni, però, accentueranno l’irriducibile pluralismo etico che caratterizza le società nell’incontro con la biotecnologia. La disponibilità di gameti in vitro potrebbe facilitare sia la selezione genetica degli embrioni che la modificazione del loro patrimonio genetico.
Il Gruppo di Hinxton ha quindi stilato un documento per stimolare il dibattito e l’azione politica http://www.hinxtongroup.org). Si definisce una «road-map» di procedure sperimentali e approfondimenti etici che dovranno essere completati prima di qualsiasi applicazione. E quindi si invita alla cautela, evitando interventi legislativi che ostacolino l’intero ambito della ricerca. I divieti ad ampio spettro svuotano di senso lo stesso strumento giuridico. Altra cosa è invece un attento regime di regolazione, che indirizzi l’evoluzione sia della scienza sia della società, oltre alle nostre concezioni dell’essere genitori.

martedì 10 giugno 2008

Repubblica 10.6.08
L'ex leader di Prc prepara il seminario sul futuro della sinistra
Bertinotti al rientro invito a D´Alema
Veltroni manda Bettini. E Ferrero fa un contro convegno in contemporanea
di Umberto Rosso



ROMA - Per la sua prima uscita politica, lavora a mettere insieme il parterre più ricco e variegato. Ma sotto il segno dell´anti-veltronismo. Come si conviene ad un ex presidente della Camera, che per giunta dal day after elettorale ad oggi è rimasto con la bocca sigillata, mantenendo la promessa del silenzio. Così Fausto Bertinotti, che ieri è ricomparso in pubblico per presentare il libro della storico Piero Bevilacqua "Miseria dello sviluppo", pensa al colpaccio per il suo seminario di dopodomani al Frentani di Roma: è atteso, fra gli altri, anche Massimo D´Alema ad ascoltare le «Ragioni della sconfitta della sinistra». A confermare in questo modo anche "fisicamente" il ponte lanciato dall´ex vicepremier verso quella che fu la Cosa rossa. In ogni caso, a rappresentare i dalemiani alla giornata di studio promossa da "Alternative per il socialismo", la rivista teorica di Bertinotti, ci sarà Nicola Latorre, il vicecapogruppo del Pd al Senato che in questi mesi ha tenuto per conto del "capo" i contatti, in particolare con Franco Giordano. Fino all´incontro segreto fra l´ex segretario del Prc e Massimo D´Alema, allarmato per lo sbarramento elettorale alle europee, avvenuto per qualche strana coincidenza proprio mentre Veltroni era per la prima volta faccia a faccia con Berlusconi (a metà del maggio scorso). Ma Walter non intende lasciare a Massimo mano libera nella rincorsa a sinistra, ed ecco perciò che alla rentrée bertinottiana a rappresentare il segretario del Pd ci sarà Goffredo Bettini. Una presenza che ha un po´ il sapore del disgelo, visto che secondo la sinistra proprio il coordinatore del Pd sarebbe stato uno dei più accaniti fautori della ghigliottina elettorale anti-arcobaleno. Ancora, del Pd, ci sarà Pierluigi Castagnetti, anima cattolica del partito, e soprattutto ex ppi ed ex Margherita che ha lanciato l´offensiva contro l´adesione al Pse. Ancora nel doppio segno di cattolico e critico del veltronismo, non è esclusa la presenza al seminario di Bruno Tabacci, testa pensante dell´Udc che già ieri alla Feltrinelli ha fatto "da spalla" a Bertinotti nelle critiche agli sbarramenti elettorali, «concepiti da cattivi consiglieri di Veltroni». L´ex presidente della Camera fornisce previsioni cupe: «La lunga marcia del capitalismo verso la catastrofe continua».
Ma, al seminario dei Frentani, che sinistra? In dubbio (ma per ragioni personali) la presenza di Rossana Rossanda, della quale il nuovo numero di "Alternative per il socialismo" ospita un saggio, Bertinotti per questo suo ritorno sulla scena ha voluto raccogliere intellettuali, sindacalisti, ma anche quei pezzi della sinistra arcobaleno più vicini al suo progetto. Che resta quello di un grande cantiere per andare oltre Rifondazione. Ci saranno lo storico Marco Revelli, Aldo Tortorella, Mario Tronti, Tiziano Rinaldini della Fiom. Per i Verdi, la Francescato e Paolo Cento. Per la Sinistra democratica Claudio Fava e Cesare Salvi. Per il Pdci, anche se in freddo con il partito, il professor Nicola Tranfaglia. Pezzi della sinistra veltroniana di Vita e Brutti. Oltre naturalmente ai suoi fedelissimi nel Prc, a cominciare da Nichi Vendola. Di tutt´altro segno il controconvegno che, giovedì in contemporanea, Paolo Ferrero organizza nel quartiere di Torpignattara. Si parla di sinistra sociale, «niente comparsate radical-chic».

Il Giornale 9.6.08
Galimberti. Vent'anni di copia e incolla


«Ecco, sì è successo... Ma vede, non ne voglio parlare. Nel 1989 abbiamo fatto un accordo tramite gli avvocati. Il professor Umberto Galimberti avrebbe fatto mettere una noticina di avviso in apertura del suo libro... Io però mi impegnavo a non tornare più sulla questione... Perché ho accettato? Mah, mi sembrava andasse bene, era comunque un'ammissione... Poi in ambito filosofico ci sono dei pesi, delle autorevolezze... Insomma lo sa anche lei, ci sono intellettuali ad alta visibilità... che hanno un certo accesso alle case editrici, e altri meno... Ma insomma non voglio parlarne e onestamente credo, in base a quell'accordo, di essere tenuto a non parlarne...».
Difficile strappare qualcosa più di quel che avete appena letto a Guido Zingari, ricercatore dell'Università di Roma Tor Vergata che ha in affidamento la cattedra di Istituzioni di filosofia. Rispetto di un vecchio accordo passato attraverso gli avvocati, timidezza, forse anche poca voglia di esporsi contro un peso massimo della filosofia che ha spazi televisivi, giornalistici ed editoriali. Anzi, se non ci fossero già stati i casi di Giulia Sissa, Alida Cresti, Salvatore Natoli - tutti ampiamente «saccheggiati» dal professor Galimberti - forse Zingari avrebbe attaccato il telefono alla prima domanda. Allora meglio lasciar parlare i fatti, le pagine dei libri e una noticina a inizio volume che, con il senno del poi, più che ammissione di colpa sembra il programma di un modus operandi eretto a stile di vita. Sì, perché quando questa noticina l'abbiamo trovata ci siamo chiesti: e se quello fosse stato il primo dei calchi? Il «copia e incolla» praticato e brevettato dal professor Umberto Galimberti prima che Bill Gates si ingegnasse a inserirlo in Windows?
Ma, abbiamo detto, spazio ai fatti. Nel 1983 Guido Zingari pubblica Heidegger. I sentieri dell'essere per una piccola casa editrice romana: Studium. Una introduzione al pensiero del grande filosofo tedesco, un piccolo itinerario biografico e speculativo. Un onesto libro per studenti o semplici curiosi.
Nel 1986 il professor Umberto Galimberti, allora associato (diventerà ordinario solo nel 1999), ma già in odor di notorietà, pubblica Invito al pensiero di Heidegger, per la più grande e meglio distribuita casa editrice Mursia. Una introduzione al pensiero del filosofo tedesco, un piccolo itinerario biografico e speculativo. Un libro per studenti o semplici curiosi.
Insomma, proprio lo stesso prodotto, con un'unica mancanza: l'aggettivo «onesto». Aggettivo impossibile da usare, visto l'uso massivo del saccheggio. Un solo esempio di svariate righe. Zingari a pag. 19: «Husserl giungeva a Friburgo nel 1916 quale successore designato di Heinrich Rickert, che a sua volta andava ad occupare la cattedra di Windelband ad Heidelberg. Per Heidegger si trattò, come è facile immaginare, di un evento memorabile. L'insegnamento di Husserl, ricorda Heidegger, si svolgeva nella forma di un graduale esercizio al "vedere" (Sehen) fenomenologico, che nello stesso tempo era un imparare guardando (Absehen). L'esposizione e lo studio dei testi di Aristotele e degli altri pensatori greci assumevano, attraverso la fenomenologia, un significato inaspettato».
Umberto Galimberti a pag.14: «Nel 1916 Edmund Husserl giungeva a Friburgo quale successore designato di Rickert, che a sua volta andava a occupare la cattedra di Windelband ad Heidelberg. Per Heidegger si trattò, come è facile immaginare, di un evento memorabile. L'insegnamento di Husserl, ricorda Heidegger, si svolgeva nella forma di un graduale esercizio al "vedere" (Sehen) fenomenologico che nello stesso tempo era un "imparare guardando" (Absehen). L'esposizione e lo studio dei testi di Aristotele e degli altri pensatori assumevano, attraverso la fenomenologia, un significato inaspettato».
È una delle clonazioni che ha spinto Zingari e l'editrice Studium a procedere a mezzo avvocati verso Galimberti e la Mursia. E così ecco il fatidico accordo, raggiunto nell'89. Le edizioni seguenti di Invito al pensiero di Heidegger, pur non modificando il testo, pur senza aggiungere quelle note e virgolette che sarebbero di rigore (come una citazione nell'indice dei nomi...) recano sul retro del frontespizio (dove si guarda poco) questa breve notazione che dà conto del saccheggio: «Diversi passi riportati nel presente volume relativi alla vita e alle opere di Heidegger, sono stati tratti dal volume di Guido Zingari, Heidegger. I sentieri dell'essere (presentazione di J.B. Lotz), Roma, Studium, 1983. In quest'ultimo essi si trovano specificatamente alle pp. 16, 17, 18, 19, 21, 22, 23, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 36, 121, 125 (citazione identica) e alle pp. 23, 25, 26, 28, 29 (citazione con alcune modifiche e interpolazioni)».
Al solito, un'ammissione di colpa, però microscopica, e in quelle pagine dove nessuno guarda. Un'ammissione con un accordo che però mette il danneggiato (accademicamente più debole) nella condizione di tacere, che evita troppa pubblicità ad un fatto che avrebbe potuto screditare un Galimberti in ascesa. Il risultato? Il libro di Zingari, che deve essere ben scritto, visto che Galimberti lo ha copiato a piene mani, è quasi introvabile. Il saggetto di Galimberti è stato invece ristampato per anni, è diffuso in moltissime biblioteche. Peggio, campeggia sul sito dell'Università di Venezia nella bibliografia del professore come se fosse una nota di merito e non un'opera scientificamente dubbia. Insomma quanto si sbagliava Friedrich Schiller quando scriveva: «La posterità non intreccia ghirlande per gli imitatori»! Almeno nel mondo accademico italiano c'è il rischio che le intrecci, eccome.

l’Unità 10.5.08
I bambini di Gaza «grandi» per forza
di Umberto De Giovannangeli


IL TERRORE si riflette nei loro occhi. La paura li accompagna dalla nascita. Hanno visto i loro genitori o amici morire. La violenza segna anche i loro giochi. Nabil, Ahmed, la piccola Zahira... Storie di una infanzia negata. Storie dei bambini di Gaza. Senza diritti, senza speranze. Dimenticati dal mondo

Rabh Masoud ha 8 anni e vice con i genitori e sei fratelli in un monolocale a Jabaliya, il più grande campo profughi nella Striscia di Gaza, vicino al confine con Israele. «Per dormire - dice - dobbiamo fare i turni - i miei fratellini sono terrorizzati dai bombardamenti. Piangono, e per giorni si rifiutano di uscire. Io provo a far loro coraggio, ma anch’io ho paura, tanta paura». Subhiya ha 6 anni e vive anche lei con la famiglia a Jabaliya. La sua salute non è buona. La bimba soffre di orifizio ovale, problemi di deambulazione, deviazione al setto nasale e ha un fragile sistema nervoso. Necessità di un’assistenza medica pressoché costante. Il padre di Subhiya è morto sotto un bombardamento. Ora la sua famiglia dipende interamente dagli aiuti umanitari delle organizzazioni non governative.
La vita bloccata dei bimbi di Gaza. Storie di sofferenze, patimenti, mancanza di tutto che marchia fin dai primi giorni la vita di bambine e bambine «ingabbiati» in quella enorme prigione a cielo aperto che è Gaza. Storie di vite bloccate. In attesa di un aiuto che tarda ad arrivare. Storie come quelle dei bambini della scuola elementare Omar Bin Abdul Aziz che tornati a scuola dopo la pausa invernale, hanno trovato le aule buie e fredde: in quella scuola, come nelle altre 400 della Striscia, la corrente elettrica è saltuaria e le finestre sono murate per proteggere gli alunni da proiettili vaganti. Storie di piccole vite appese a un filo. A Gaza anche gli aiuti umanitari sono soggetti a restrizioni. Aya, 4 anni, affetta da meningite ha atteso per tre mesi il permesso di essere curata in Israele. Dopo tanto penare, l’agognato permesso alla fine è arrivato, per Aya ma non per i suoi genitori, che non potranno quindi accompagnarla. Storie di bambini costretti a divenire «grandi» prima del tempo. Come Ahmed, 11 anni e 5 fratelli e sorelle più piccole. Ahmed deve mantenere la famiglia dopo che il padre, Nabil, è stato ucciso, due anni fa, in un raid di Tsahal a Khan Yunes, sempre nella Striscia. «La mera sopravvivenza è ormai lo standard di vita dei bambini di Gaza», sottolinea un recente rapporto dell’Unicef. I bambini di Gaza piangono per l’orrore e l’indifferenza. Uno studio della Queen’s University ha rivelato che il 90% dei bambini di Gaza sono state vittime dirette di gas lacrimogeni, perquisizioni alle proprie case, danni personali e testimoni di sparatorie ed esplosioni. Dall’inizio della seconda Intifada, settembre 2000, studi del Gaza Community Mental Health Programme, indicano che il 70% dei bambini non riesce a concentrarsi, il 96% ha paura del buio, il 35% si isola e il 45% soffre alti livelli di ansia e di stress. «Abbiamo visto che i bambini non vogliono uscire perché sanno che qualcosa di terribile gli può succedere in qualsiasi momento, sono aumentate le liti in casa, così come il numero dei minori con incubi o attacchi di panico», riferisce il dottor Fadel Abu Hin, specialista del centro.
L’infanzia cancellata. Come quella di Faysal, 6 anni, che da quella notte di fuoco, due anni fa, ha lo sguardo perso nel vuoto: quella notte, Faysal ha visto morire sua madre, Zahira, colpita da una pallottola vagante: a Rafah, era in corso un raid dell’esercito israeliano. Da quel giorno, il piccolo Faysal non ha più parlato. Se potesse parlare, Faysal racconterebbe una storia comune alla grande maggioranza degli 884mila bambini di Gaza, dei quali 588mila sono rifugiati. È la storia di Ayman, 13 anni, e della sua sorellina, Amira, 5 anni: le sparatorie e i bombardamenti hanno terrorizzato così tanto Amira, racconta Ayman, che «mia sorella continua a svegliarsi di notte urlando». Ayman ha un sogno: poter studiare. Ayman e i suoi fratelli leggono a lume di candela. A causa del blocco dei rifornimenti di carburante (imposto da Israele in risposta ai lanci di razzi da Gaza) l’elettricità è sospesa per 8 ore al giorno. «La notte - racconta - accendiamo una candela e fino a quando non si spegne facciamo i compiti...La scuola? È stata bombardata e da mesi siamo costretti a restare a casa...». «Una intera generazione di bambini giornalmente assiste sempre più a episodi di violenza , persino all’interno delle scuole. Uno studio della Birzeit University ha rilevato che il 45% degli studenti nella Striscia di Gaza ha visto la propria scuola assediata dall’esercito israeliano, il 18% ha assistito all’uccisione di un compagno di scuola e il 13% a quello di un insegnante», rileva Save the Children, la più grande organizzazione internazionale indipendente per la tutela e la promozione dei diritti dei bambini nel mondo. Ma i bambini di Gaza non hanno diritti. E neanche speranze. Bamini come Talal, 5 anni. che allo staff di Save the Children racconta: «Vado all’asilo ogni giorno da solo. Ho paura quando vado da solo. Ho paura che gli israeliani mi spareranno. Vorrei che fosse mia madre a portarmi all’asilo, ma mia madre è occupata. Mio padre è stato arrestato dagli israeliani e adesso è in prigione. Ho visto gli israeliani prenderlo. Non l’ho più visto d’allora».
A Gaza gioco e realtà s’intrecciano. Marchiati da un comun denominatore: la violenza. Fra la polvere e la sabbia nell’infuocata periferia di Gaza City, i piccoli palestinesi giocano alla guerra. Ma non a una guerra lontana, come fanno milioni di altri bambini del mondo, ma alla guerra vera, proprio quella che praticamente ogni giorno si combatte davanti alle loro case. La guerra con Israele. La guerra tra Fatah e Hamas. Realtà e gioco. «Se noi catturiamo un giocatore di Hamas - dice Ahmed, 11 anni, che nella battaglia indossa l’uniforme di Al Fatah - possiamo deciderlo di picchiarlo, oppure ucciderlo subito. Ma se l’altra squadra ha fatto uno di noi prigioniero, allora scambiamo i due giocatori, e torniamo alla pari...». La squadra di Hamas è appena riuscita a scoprire il nascondiglio di tre miliziani di Fatah: come a mosca cieca basta toccarli perché in questa finzione si considerino presi. Hamas adesso non ha nessuno dei propri giocatori da liberare, e così sfrutta il vantaggio. I tre giocatori avversari vengono fatti inginocchiare, urlano «aiuto, aiuto» ma secondo un copione che si ripete mille volte, vengono fucilati senza esitazione. «Boom, boom, boom», scandisce il bambino tenendo puntato il fucile di legno. Poi si ricomincia, con tre punti di vantaggio. Quel giorno Nabil, 9 anni, era fiero delle sue nuovissime scarpe da calcio. Nabil non vedeva l’ora di raggiungere i suoi amici nel campetto di calcio a Jabaliya. Nabil era in ritardo, e quei minuti gli hanno salvato la vita. Il campo di calcio era stato raggiunto da granate sparate da carri armati israeliani. Nabil ha visto morire quattro bambini. Dilaniati dall’esplosione. Ancora oggi, a distanza di mesi, Nabil piange mentre ricorda di aver visto la testa decapitata di suo cugino lanciata lontano dal suo corpo, dalle sue braccia e dalle sue gambe, lontano da dove stavano giocando a calcio. Piange mentre racconta la storia, il piccolo Nabil, e le sue lacrime gli fanno più male del suo dolore psicologico, dal momento che ha ustioni sugli occhi. Ricordo di un incubo che porterà sempre con sé.

Corriere della Sera 10.6.08
E il Pdci si sgretola a colpi di mozioni e manifesti Diliberto, Rizzo e Katia Bellillo: tutti contro tutti
di R. Zuc.


ROMA — C'era una volta il Pdci. E domani? Se lo chiedono i militanti alle prese con un partito-rebus, in perenne rischio di scissione. Dell'atomo, s'intende, perché ormai la percentuale vera si perde nei calcoli infinitesimali della sinistra radicale: prendi il 3 per cento delle politiche, sottrai Rifondazione, Sd, Verdi e alla fine dividi per tre. Cioè i tre che attualmente si contendono la bandiera dei comunisti italiani: Diliberto contro Rizzo contro Bellillo.
All'insegna del meno si è, più si litiga, sono ormai in guerra tra loro. Oliviero Diliberto ( foto) canta vittoria per l'approvazione del suo documento al comitato centrale. E guarda dall'alto Marco Rizzo, concedendo al suo emendamento un residuale 8,35%.
Quest'ultimo s'arrabbia: «Non è vero: abbiamo ottenuto il 31% perché al momento del voto c'erano solo 144 presenti su 383».
Ma si parla di un semplice emendamento. A non essere d'accordo sull'intero documento è Katia Bellillo, che non partecipa al voto, crea una sua componente e lancia un contromanifesto.
Obiettivo: guardare alla Costituente della Sinistra, già sponsorizzata dall'area bertinottiana di Rifondazione e da Sinistra Democratica.
Spiega la Bellillo: «Sinceramente non capisco qual è la differenza tra Diliberto e Rizzo: entrambi ora vogliono l'unità dei comunisti. Mi sembra più che altro che il primo sia caduto nella rete del secondo. Noi invece vogliamo un movimento aperto, che guarda alle esperienze che vengono dal sociale: non possiamo tornare indietro. Abbiamo dalla nostra parte anche l'astronauta Umberto Guidoni». E Diliberto? Continua la sua battaglia contro gli attacchi che vengono da dentro e da fuori del partito.
Di ieri è il suo appello contro gli hacker:
«In queste ore il nostro sito larinascita.org è sotto attacco dei pirati informatici: vogliono far tacere la voce dei comunisti. Ma non ci riusciranno».

Corriere della Sera 10.6.08
Sassonia. I neonazisti sono al 5%


BERLINO — L'estrema destra tedesca (Npd) ha ottenuto il 5,1% delle preferenze alle elezioni comunali che si sono tenute domenica nel Land della Sassonia, nell'est della Germania. Il risultato rafforza ulteriormente la presenza del partito nella regione, con un totale di 160 mila voti, quattro volte in più rispetto ai 41 mila voti registrati alle elezioni del 2004. Forte di questo successo la Npd potrà contare su un proprio rappresentante in ogni Comune della Sassonia. Non solo: in due comuni il Partito ha perfino battuto il socialdemocratici della Spd. Allo stesso tempo, però, la Cdu della cancelliera Angela Merkel, si è confermata al primo posto con il 39,5% dei voti, seguita dalla Sinistra (Linke) con il 18,7%. Il terzo principale Partito in Sassonia è la Spd con l'11,5% dei voti.

Corriere della Sera 10.6.08
I nuovi dati Nel 2007 in Italia 270 mila confezioni, 50 mila in più del 2006
Boom della pillola del giorno dopo tra le ragazze dai 14 ai 20 anni
I ginecologi: è l'unica forma di contraccezione usata dalle giovani
di Paola D'Amico


In controtendenza il ginecologo Silvio Viale: poche le pillole vendute, bisogna incentivare la disponibilità

MILANO — La pillola del giorno dopo spopola tra le adolescenti. Sono le giovanissime tra i 14 e i 20 anni a consumare oltre la metà delle confezioni vendute. I bilanci sul ricorso alla contraccezione d'emergenza sono tali da allarmare i ginecologi. E sotto accusa finiscono i genitori, che sembrano essere totalmente all'oscuro delle abitudini sessuali dei propri figli. «Non solo sono ignoranti e danno informazioni sbagliate sull'educazione sessuale — denuncia Alessandra Graziottin, direttore del Centro di ginecologia del San Raffaele di Milano, nel corso di un convegno sull'aborto —. Ma spesso non hanno veramente idea di chi siano i loro figli. Solo 5 su cento immaginano che le figlie quattordicenni abbiano rapporti sessuali, quando in realtà si tratta del 38 per cento».
In verità, le omissioni in tema di educazione sessuale accomunano famiglia e scuola, società e medici. E se il ricorso del preservativo, accantonato lo spettro dell'Aids dopo il picco di infezioni degli anni Novanta, è in netto calo, anche la stragrande maggioranza delle mamme di figlie quindicenni «continua a non parlare di contraccezione e le spiegazioni arrivano spesso quando è troppo tardi».
Sono i dati a far riflettere: dal 2006 al 2007, le vendite del farmaco noto come «pillola del giorno dopo» sono aumentate di oltre 50mila unità, passando da 220mila a 270 mila. «Questo significa che o si sono rotti 50mila profilattici o la pillola del giorno dopo è diventata l'unica forma di contraccezione che le giovani usano», semplifica Giorgio Vittori, presidente della Sigo (Società italiana di ginecologia e ostetricia), che con l'Associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi) ha organizzato nella Capitale il convegno «Politiche per un contrasto all'interruzione di gravidanza nelle donne a rischio ».
I genitori oggi «dormono», accusano i medici che, però, fanno anche autocritica: «Aver puntato solo sulle giovani per promuovere l'uso del profilattico è stato un errore storico».
Perché non usare il preservativo, «oltre a portare a gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili», può anche «danneggiare la fertilità della donna quando vorrà avere un figlio». Non è un caso se le infezioni da clamidia (con il gonococco è la prima causa di lesione dell'endometrio e delle tube) sono decuplicate in dieci anni.
L'allarme sull'impennata del ricorso al contraccettivo di emergenza non è condiviso da tutti. Silvio Viale, ginecologo torinese e sostenitore della necessità di abolire la ricetta medica per la pillola del giorno dopo, controbatte che «trecentomila pillole vendute sono pochissime ». Perché, occorre «incentivarne la conoscenza e la disponibilità ». E su un milione di ragazze tra i 15 e i 20 anni, se questi sono i numeri, precisano dalla clinica milanese Mangiagalli, «significa che vi ha fatto ricorso appena il 10 per cento».
In fatto di legge sull'aborto, il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, ha fatto sapere che «sulla 194 potremmo varare linee guida sul modello della legge 40». Una necessità, ha concluso Roccella, «perché l'applicazione delle legge è troppo disomogenea».
Sessuologa Alessandra Graziottin accusa le mamme delle ragazze

Alessandra Kustermann: «Rifiutano i farmaci tradizionali per paura della cellulite»
«Non sono le mamme e i papà a dover pensare all'educazione sessuale dei figli», dice Alessandra Kustermann, ginecologa presso la Clinica Mangiagalli.
Chi se ne deve far carico?
«La scuola e i medici. Un genitore ti può facilitare e dire dov'è il consultorio se hai dolori mestruali, se hai le perdite bianche, se hai dei dubbi. Oltre mi pare un'intrusione. La sfera sessuale fa parte di una crescita autonoma».
I medici sono nemici degli anticoncezionali?
«Ad essere restie, per la verità, sono le ragazze, convinte che la pillola sia causa di cellulite e di aumento di peso. E, più grave ancora, che non basti per rimanere incinte il primo o anche un unico rapporto sessuale».

Corriere della Sera 10.6.08
Gli anni di piombo al centro del romanzo di Sergio Givone
Se il filosofo «rilegge» il terrorismo
di Ermanno Paccagnini


L a prima impressione, alla lettura di Non c'è più tempo di Sergio Givone, è il tentativo di fondere in narrazione le sue due anime di filosofo e romanziere. Lo fa rivisitando il 1978 terroristico, in un testo però spurio, che mescola in modo squilibrato le due carte, perdipiù poste sotto intestazione editorialmente infelice, dato che Non c'è più tempo è titolo d'un romanzo di Andrea Carraro del 2002 (Rizzoli).
Parlo volutamente di «testo», e non di «romanzo», perché Non c'è più tempo (Einaudi) ha forma espositiva e andamento propri di una sorta di rappresentazione di laica sacralità, considerando che tutto poggia sull'assurda e nullificante ritualità d'un tribunale terroristico: con capitoli-atti nei quali un protagonista, Venturino Filisdei, ex docente di architettura ora intrappolato su una sedia a rotelle e sospettato di collusione coi brigatisti, accompagnato da una badante, si reca a un appuntamento notturno nel sottosuolo fiorentino per incontrare quel figlio avuto da un'allieva sordomuta poi suicidatasi e che non ha mai conosciuto. E qui incontra via via (capitoli 2-5) singoli personaggi appartenenti a una cellula terroristica (Max Pententi e poi Quisqualis e Feuer; Dolores; il figlio; Confiteor, il capo), per poi, dopo una disamina interiore (6), ritrovarli tutti quanti insieme (7) in una sorta di tribunale rivoluzionario.
Una struttura che incrocia forma narrativa e forma dialogico-argomentativa di tradizione platonica, con ampi squarci di riflessione interiore: ove i momenti del pensiero — specie quelli del protagonista — sono calibrati, tra gli altri, su testi di Enrico Fenzi e Toni Negri (con richiami anche ai loro saggi su Petrarca e Leopardi), rileggendo l'esperienza terroristica alla luce della riflessione più propriamente givoniana sul Nulla, Morte, Nichilismo, Religione, Ethos e altro ancora.
E, in effetti, la trama (con finale narrativo a sorpresa) suona piuttosto pretesto di riflessione in forma narrativa: per un testo alfine sì anomalo, ma soprattutto di non agevole lettura e anzi pesante e dispersivo. Un testo fortemente penalizzato su entrambi i versanti, senza la forza argomentativa del saggio, ma neanche la forza narrativa che pure Givone possiede, che s'affaccia solo qua e là e si evidenzia nel finale (pp. 230-34) quando si abbandona al racconto. La riprova è nella opacità stessa degli sbiaditi personaggi: più parole che gesti. Tra i quali salvo solo la figura del prete spretato Max Penitenti.
Sergio Givone, filosofo e scrittore, è autore del romanzo «Non c'è più tempo», (Einaudi, pp. 242, € 14)

Corriere della Sera 10.6.08
Evoluzione Due studiosi a confronto sulla dimensione morale e spirituale dell'Homo sapiens
L'enigma dell'intelligenza umana
Facchini: ha origini trascendenti. Pievani: no, la scienza può capirla
di Antonio Carioti


Riduzionismo
Alcuni biologi ritengono che nei geni si trovi la grammatica universale che guida e regola il comportamento etico

Il famoso biologo ateo Richard Dawkins lo definisce (sulla scorta del collega Jared Diamond) «grande balzo in avanti». Il pontefice Giovanni Paolo II lo chiamava invece «salto ontologico». Di certo ai nostri antenati, in una fase collocabile tra 150 e 45 mila anni fa, succede qualcosa di sbalorditivo: gli ominidi appartenenti alla specie Homo sapiens
cominciano a realizzare pitture rupestri, a seppellire i cadaveri secondo un rituale, ad abbellire i propri corpi, a fabbricare oggetti ornamentali. In breve, producono cultura.
Come questo sia potuto accadere resta non solo un enigma affascinante, ma anche uno dei punti più controversi della storia naturale, al pari della questione riguardante l'origine della vita, di cui si è occupato ieri sul Corriere Sandro Modeo. E ad accrescere l'interesse del tema ci sono le sue implicazioni filosofiche, che dividono chi vede nell'intelligenza umana una scintilla divina da chi la considera il frutto più sofisticato di processi evolutivi dominati dal caso.
La polemica infuria nel mondo anglosassone, dove hanno grande risalto le posizioni estreme. Da una parte gli scienziati riduzionisti (come il già citato Dawkins, Daniel Dennett, Marc Hauser), secondo i quali lo studio della biologia può consentirci di arrivare a dire l'ultima parola sulla mente umana. Sul versante opposto i fautori del «disegno intelligente», spesso legati ad ambienti religiosi, affermano che non solo il comportamento dell'uomo, ma l'intero percorso dell'evoluzione si può spiegare solo chiamando in causa un intervento sovrannaturale.
Più sfumati e articolati sono i punti di vista prevalenti tra gli studiosi italiani. Per esempio Fiorenzo Facchini, sacerdote cattolico e docente di Antropologia, nel suo ultimo libro Le sfide della evoluzione (Jaca Book, pp. 174, e 16) critica la teoria del «disegno intelligente», che a suo dire «non appartiene alla scienza» e «porta a una confusione di piani che non giova a nessuno ». Ma al tempo stesso tiene a sottolineare che l'uomo, in quanto dotato della facoltà di pensare, «reclama una trascendenza nella sua origine, perché lo spirito non può derivare dalle forze della materia».
Insomma, bisogna distinguere l'umanità dal resto degli esseri viventi: «I sostenitori del disegno intelligente — spiega Facchini al Corriere
— commettono l'errore di introdurre un elemento sovrannaturale per spiegare fatti che rimangono nell'ambito fisico e biologico. Ma con la comparsa del pensiero umano si verifica una discontinuità molto netta, a mio avviso innegabile. L'attitudine a fare progetti, il linguaggio simbolico, l'autocoscienza e l'autodeterminazione, la capacità di gestire consapevolmente l'ambiente sono caratteristiche peculiari dell'uomo, che non si possono ricondurre al semplice sviluppo dell'attività cerebrale. A mio parere in questo caso è vano cercare una spiegazione con i metodi delle scienze naturali, perché siamo dinanzi a fenomeni trascendenti che sfuggono alla loro indagine».
Sul fatto che sia sbagliato ridurre la natura umana al dato biologico si trova d'accordo anche il filosofo della scienza Telmo Pievani, convinto darwiniano e curatore del volume L'evoluzione della mente (Sperling e Kupfer, pp. 131, e 9,20), comprendente contributi in cui alcuni illustri scienziati s'interrogano sulle origini del comportamento culturale umano.
«C'è chi dice — dichiara Pievani al Corriere — che un giorno scopriremo il cromosoma della morale, la grammatica universale del comportamento etico inscritta nel genoma umano. Ma anche se ciò dovesse avvenire, saremmo ben lontani dall'avere risolto tutti i problemi in questo campo. Si pensi alla questione della violenza. Una volta acclarato che l'uomo tende ad aggredire i suoi simili per ragioni biologico- adattative, posso al tempo stesso decidere per altre motivazioni, di natura morale, che quel comportamento è illegittimo e va messo al bando. C'è dunque un ulteriore livello di studio, nella valutazione delle vicende umane, di cui le scienze naturali non possono dar conto». Qui, però, sorge un interrogativo: per spiegare la dimensione culturale dell'Homo sapiens è necessario richiamarsi alla trascendenza?
Facchini risponde positivamente: «Una volta ammesso che l'uomo è un unicum e la sua comparsa segna un salto di qualità, ci troviamo su un piano che sfugge agli strumenti della conoscenza empirica. Non è detto che l'unica soluzione sia ammettere l'esistenza del Dio biblico: c'è chi vede il trascendente come uno spirito universale e impersonale che avvolge la realtà. Dal punto di vista cristiano l'uomo risponde a un progetto del Creatore: non un disegno intelligente che determina lo sviluppo dell'universo, ma piuttosto un "disegno superiore", posto al di là della natura e della storia».
Diverso l'approccio di Pievani: «L'irriducibilità del comportamento umano alla biologia non richiama automaticamente la trascendenza. È come dire che c'è un mistero su cui l'indagine scientifica non ha nulla da dire. Io, invece, non credo che esista una dimensione per principio inattingibile. Può esserlo di fatto, perché la scienza è un sapere provvisorio e avrà sempre di fronte a sé l'ignoto. Ma se i meccanismi biologici dell'evoluzione non bastano a spiegare la peculiarità culturale dell'uomo possiamo ricorrere ad altri livelli di analisi riguardanti le scienze umane: psicologia, sociologia, filosofia morale. Il tutto rimanendo su un terreno naturalistico e senza ricorrere a fattori trascendenti».

Repubblica 10.6.08

Le tesi di Mendel furono cassate perché contrarie al marxismo. E chi le sosteneva fu perseguitato E anche il Pci si allineò
Buzzati Traverso contestò i sovietici Calvino esaltò l´Urss e i progressi della cultura
Aragon scrisse una prefazione in cui si magnificavano i metodi dei ricercatori

La rivoluzione era cominciata quando, il 7 agosto 1948, un oscuro agronomo ucraino, Trofim Lysenko, annunziò nel corso di una importante assise scientifica sovietica: «Il Comitato Centrale del Partito Comunista dell´Unione Sovietica ha esaminato la mia relazione e l´ha approvata». Era la campana a morte per la genetica sovietica, che fino a quel momento era in piena fioritura ed era conosciuta e rispettata in tutto il mondo scientifico, dove ormai trionfava, sulla base di incontestabili evidenze, la teoria di Mendel che attribuisce ai geni, alle minuscole unità discrete contenute nei cromosomi di tutti gli esseri viventi, la responsabilità della trasmissione ereditaria dei caratteri fenotipici. Una teoria, suffragata da migliaia di rigorosi esperimenti, che coniugata con l´evoluzione darwiniana costituisce tuttora il fondamento stesso della biologia moderna e che ha assicurato uno straordinario passo avanti nella comprensione della vita e anche della medicina. E che, sulla base di questi risultati, ha spazzato via definitivamente l´ipotesi, elaborata nel ‘700 dal grande zoologo francese Jean Baptiste Lamarck, della «trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti», che attribuiva le trasformazioni del mondo vivente (animale e vegetale) alla trasmissione ai discendenti dei caratteri acquisiti da ogni individuo nel corso della sua esistenza per meglio adattarsi al suo ambiente, dal lunghissimo collo delle giraffe, frutto dello sforzo individuale di raggiungere le foglie dei rami più alti, agli artigli dei predatori: i caratteri di ogni specie - e quindi il motore dell´evoluzione, delle trasformazioni che nel corso dei millenni hanno dato vita alle nuove specie - erano quindi per Lamarck e i lamarckiani il prodotto delle trasformazioni di ogni individuo nell´adattarsi al suo ambiente.

La scoperta che alla base dell´eredità c´erano i «geni» e che l´agente delle mutazioni erano le casuali mutazioni nelle basi della lunga catena molecolare del Dna, evidenziate dalla selezione naturale secondo la loro maggiore o minore «fitness», aveva definitivamente mandato in soffitta le ipotesi lamarckiane. Un meccanismo, quello mendeliano, che, introducendo la casualità delle mutazioni puntiformi e riducendo alla selezione naturale i motori dell´evoluzione, appariva (a Stalin e agli ortodossi interpreti del materialismo dialettico di Engels) in contrasto con uno dei canoni del marxismo e quindi con la convinzione che fosse l´ambiente a determinare l´evolversi delle trasformazioni del mondo vivente, nel caso degli esseri umani l´ambiente economico e sociale che, radicalmente trasformato dalla Rivoluzione d´Ottobre, non poteva che dar luogo «all´uomo nuovo sovietico». In più si insinuava che la teoria cromosomica avvalorasse teorie eugenetiche (care ai nazisti, fautori della «razza pura») e quindi fosse non solo sbagliata, ma anche idealistica, borghese, reazionaria e - perché no? - immorale.
Su questa base si innestò, nel secondo dopoguerra, una feroce polemica che non solo ebbe in Unione Sovietica esiti tragici, ma determinò una dura crisi anche tra gli intellettuali europei che avevano aderito al comunismo e alle idee del «socialismo scientifico». A questo tema è dedicato un appassionante libro dello storico della scienza Francesco Cannata (Le due scienze. Il caso Lysenko in Italia Bollati Boringhieri, pagg. 290, euro 28), una puntigliosa e illuminante analisi del «caso Lysenko», e degli effetti che si intrecciarono almeno in Europa con gli sviluppi della guerra fredda.
L´incoronazione staliniana delle idee lamarckiane di Lysenko costituirono, allora, lo scalino che consentì all´agronomo ucraino di iniziare una lunga scalata ai vertici delle istituzioni scientifiche sovietiche condotta con l´astuta intuizione delle preferenze del dittatore russo e che portò all´ostracismo della genetica russa e alla persecuzione degli scienziati che la praticavano. In effetti, alcune innovazioni sostenute da Lysenko aveva registrato qualche successo iniziale e ciò gli diede l´autorità per partire nella sua crociata contro gli esponenti della genetica russa. Lysenko promise che in base ai suoi metodi l´agricoltura sovietica guidata dagli «scienziati scalzi» che seguivano il suo metodo, fondato non sulle astratte teorie della «scienza borghese», ma sulla pratica contadina, avrebbe trasformato le immense steppe in giardini fioriti. La genetica russa e i suoi cultori si trovarono esposti all´accusa - micidiale, in quel contesto - di essere quinte colonne della borghesia capitalista e nemici dello stato sovietico: molti scienziati furono marginalizzati, privati dei loro incarici accademici e istituzionali e il loro principale esponente, Vavilov (uno studioso di grande levatura internazionale) addirittura arrestato, rinchiuso in un carcere siberiano nel quale morì.
L´eco del terremoto che aveva investito le istituzioni scientifiche russe si propagò in Europa, suscitando l´indignazione e la protesta di molti scienziati di alto livello, anche tra quelli che aderivano apertamente al marxismo o ai rispettivi partiti comunisti: John Haldane in Inghilterra, Jacquel Monod (premio Nobel) per la Francia, Adriano Buzzati Traverso in Italia.
Inserito negli sviluppi anche ideali della guerra fredda, il «caso Lysenko» fornì l´opportunità per una campagna - robustamente incoraggiata dagli Stati Uniti - di condanna dell´Unione Sovietica e dei rozzi metodi staliniani, della violenta intrusione della politica nella ricerca scientifica. Un tema vissuto meno drammaticamente nel nostro paese, dove forse risentiva di una certa indifferenza degli intellettuali del Pci nei confronti di un dibattito che investiva lo stesso metodo scientifico, forse per la tradizionale egemonia - anche in buona parte del comunismo italiano - della cultura letteraria rispetto a quella scientifica. Un distacco di cui si fece portavoce anche uno degli scrittori più acuti e sensibili del nostro paese, Italo Calvino, che nel dicembre ‘48, scriveva su L´Unità piemontese: «In un paese socialista il progresso della cultura non è staccato dal progresso comune di tutta la società. Bisogna che lo scienziato non si proponga la scienza per la scienza. Il primo criterio deve essere serve o non serve allo sviluppo della rivoluzione».
Insomma, la propaganda sovietica aveva trasformato le ipotesi ben poco scientifiche del furbo agronomo ucraino nel paradigma della cultura socialista. Al punto che il poeta francese Aragon firmò l´introduzione a un pamphlet edito dal Partito Comunista francese dedicato alla esaltazione di Lysenko e dei suoi metodi. Nonostante l´opposizione e le messe in guardia di parecchi scienziati europei, buona parte dell´intellighentzia era convinta che come la Rivoluzione d´Ottobre aveva aperto una nuova fase nella storia umana, così la cultura che esprimeva doveva rappresentare una svolta radicale in ogni campo: lì, nelle immense distese russe, nasceva una nuova società, un uomo nuovo, «l´uomo sovietico», libero dallo sfruttamento e dai condizionamenti di classe e dall´individualismo egoistico borghese che non poteva non produrre una nuova cultura, un nuovo rapporto con la natura, nuovi rapporti umani e quindi anche una scienza nuova.
Invano, anche in Italia, alcuni scienziati pure legati al Partito Comunista, come Massimo Aloisi, cercarono di contrastare l´esaltazione acritica di Lysenko e giustificare l´ostracismo contro la genetica: contro di loro c´era l´autorità di Emilio Sereni, responsabile della commissione culturale del Pci, uomo di cultura enciclopedica e di grande intelligenza, che cercò invano di convincere l´editore Giulio Einaudi, a far tradurre e pubblicare le relazioni lisenkiane o anche il pamphlet francese prefato da Aragon. Il fiuto culturale di Einaudi e la critica di Aloisi e di altri oppositori riuscirono a impedire una operazione, la cui unica giustificazione era che «tutto ciò che viene dall´Urss è giusto e va difeso» anche se si è convinti che si tratti di una mistificazione

Repubblica 10.6.08
I nuovi rapporti tra Stato e chiesa
di Aldo Schiavone


A leggere, più a freddo, i commenti del giorno dopo, sembra proprio che l´effetto, ancora una volta, sia stato raggiunto. Con il duplice, studiatissimo bacio deposto sull´anello di Benedetto XVI all´inizio e alla fine del loro ultimo incontro, Silvio Berlusconi ha fatto ricorso all´immagine di una inattesa sottomissione per lanciare un messaggio inequivocabile: è arrivato, in Italia, il momento di una nuova alleanza fra Chiesa e guida politica del Paese. Il gesto, al posto della parola o del discorso, per trasmettere in modo sintetico e diretto il senso di una scelta. Comunicare è vincere. Poi si ragionerà. La centralità della "questione cattolica" è stata così riproposta con il valore di un annuncio e di un programma. Insieme a tanti altri aspetti del nostro passato, è venuto il momento – questo voleva dire quell´inchino – di mettere da parte anche la difficile e ingombrante laicità che aveva accompagnato finora il nostro cammino repubblicano. Fra i due lati del Tevere può scorrere ormai una nuova acqua.
Qualche tempo fa, avevo scritto su questo giornale di "un´onda neoguelfa" che sta scuotendo nel profondo la nostra società – un sentimento diffuso che assegna al Pontefice l´esercizio di una specie di protettorato nei confronti della democrazia italiana, e ne fa il custode della stessa unità morale della nazione. Ebbene, con il suo gesto Berlusconi ha assunto pienamente la leadership di questa tendenza, cercando di piegarla a suo vantaggio. In questo senso, il bacio all´anello viene dal capopartito, più che dal presidente del Consiglio: serve a completare la collocazione postelettorale del Pdl, prima che a trasmettere una certa idea del Governo e dello Stato.
Di fronte alla nettezza di questa posizione, la cosa più sbagliata sarebbe di sottovalutarne la portata e l´importanza, riducendola a un semplice aggiustamento tattico, dettato solo da un opportunismo di corto respiro. Non è così. Al contrario, essa nasconde una valutazione strategica, e si fonda su un´intuizione non banale dei cambiamenti in atto. È vero: la fine della stagione democristiana, non meno che i mutamenti del nostro scenario sociale e mentale, ci stanno spingendo verso la sperimentazione di nuovi intrecci, anche organizzativi, fra religione e politica, che si presentano in termini molto diversi rispetto al nostro più recente passato. Ed è proprio intorno a questo groviglio – alla capacità di darvi una forma matura e compiuta – che sarà combattuta la battaglia per la futura egemonia culturale del Paese, per la costruzione del tessuto intellettuale e morale in cui vivremo.
Le religioni monoteiste tendono ad avere tutte, geneticamente, un rapporto strettissimo con la politica. La loro pretesa di interezza – controllare l´uomo nella totalità della sua esistenza – e la loro esclusività («non avrai altro Dio…») le immettono sin dall´inizio in uno spazio di potere e di violenza. Il messaggio cristiano ha cercato tuttavia di spezzare in modo rivoluzionario questo nodo, recidendolo con un colpo di spada ignoto alle altre tradizioni: «A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio», come leggiamo nei Sinottici. Lungo tutta la sua storia, l´Occidente ha cercato di elaborare questa separazione, offrendone di volta in volta letture prudentemente concilianti o aspramente radicali. In questo cammino, un punto di forza della modernità è stata la distinzione fra interiorità della coscienza ed esteriorità della norma giuridica, riflessa nel corrispondente principio della neutralità etica dello Stato e del discorso pubblico che ne sorregge le basi.
Ora, il punto è che questa divisione, così come ci è stata consegnata dai classici, non regge più, e in questa crisi c´è un fortissimo segno del nostro tempo. Lo Stato e la politica (per non parlare del diritto) piuttosto che distanziarsene, hanno sempre maggior bisogno di integrare al loro interno contenuti etici forti e vincolanti, per essere in grado di disciplinare la potenza di economie e di tecniche onnipotenti, capaci di incidere sulla vita e sulla morte, di trasformare il naturale in artificiale, di arrivare a toccare lo stesso statuto biologico dell´umano. E nel conseguente corto circuito che si sta determinando finisce con il saltare ogni distinzione fra coscienza interiore e discorso pubblico, fra legge e moralità, almeno per quanto riguarda alcuni terreni decisivi, dalla genetica alla procreazione, all´idea di matrimonio e di famiglia. In un simile quadro, la pretesa di tener fuori della politica – della biopolitica che decide sulla forma della vita – il magistero morale della Chiesa, proprio nel momento in cui più acuta se ne fa la domanda a causa dell´incertezza che stiamo attraversando, diventa una pretesa assurda.
Dobbiamo saperlo accettare: i confini fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio hanno assunto contorni imprevisti, e passano su terre incognite, che appena cominciamo a esplorare. Non abbiamo bisogno di una nuova laicità per attraversarle, ma piuttosto di sondare le possibilità di una integrazione inedita tra fede e ragione, che ci accompagni almeno per un certo tratto di strada, al di là di vecchi e inservibili steccati.
Riconoscere pienamente il diritto della Chiesa di intervenire con tutto il suo peso nel discorso pubblico sull´intreccio fra etica, Stato e diritto che darà forma al futuro del Paese non deve significare però attribuirle un primato a priori. Vorremmo che questo fosse chiaro a Berlusconi e ai suoi consiglieri.
Quando l´esperienza religiosa diventa discorso pubblico, la sua verità, la sua pretesa di assoluto, devono, per dir così, accettare di relativizzarsi. Ogni democrazia è, intrinsecamente, una democrazia relativa, quanto al merito delle sue decisioni. Una Chiesa che abbia davvero compiuto quell´"autocritica" rispetto alla modernità di cui parla Benedetto XVI deve essere in grado non di rinunciare all´assoluto – e dunque alla vocazione a evangelizzare e convertire – ma alla pretesa di imporlo in quanto corazzato di potere, al di fuori di una limpida formazione del consenso democratico. È un passaggio non facile: e tuttavia non se ne intravedono altri, se non rovinosi. L´ultima cosa di cui l´Italia ha bisogno è di ritrovarsi ancora divisa fra "laici" e "cattolici". Sono convinto che la fine della Dc abbia anche condotto al tramonto del cosiddetto "cattolicesimo democratico" (ha ragione in questo Gaetano Quagliariello che ne ha appena parlato in un convegno). Il Pd dovrà tenerne debito conto. Ma come oggi sono improponibili i paradigmi di una laicità che ha perduto i suoi presupposti storici, sarebbe altrettanto inaccettabile qualunque tentativo da parte delle gerarchie cattoliche di attribuirsi il ruolo di ago della bilancia nel nascente bipartitismo italiano, per poter dettare con più agio le proprie soluzioni. Arrivano purtroppo segnali non tranquillizzanti in questa direzione. Il Pdl farebbe bene a non incoraggiarli, e a non eccedere. Prima o poi, ne pagherebbe il prezzo.