giovedì 12 giugno 2008

COMUNICATO STAMPA

Il 13 giugno alle 20.30 in via Santa Caterina da Siena 61, a due passi dal Pantheon
Incontro alla libreria “Amore e Psiche”

“La città disumanizzata”
Occorrono analisi e proposte contro la perdita di identità dei centri storici

Tutela non solo degli edifici, delle vie, dei monumenti di una città, ma anche dei contenuti di storia, di cultura e di espressioni artistiche che rendono viva la città nel suo rapporto con le persone che la abitano. Da questo presupposto nasce l’iniziativa in programma venerdì 13 giugno (ore 20.30) promossa dall’Associazione Culturale “Amore e Psiche” presso la libreria “Amore e Psiche” in via Santa Caterina da Siena 61, a Roma (p.zza della Minerva).

L’incontro-dibattito vede come protagonisti, in ordine d’intervento, Vittorio Caporioni, Paolo Berdini e Italo Insolera, coordinati da Caterina Calzini.

L’incontro vuole non solo fare luce su aspetti architettonici, urbanistici e legislativi, ma anche delineare proposte per far fronte ad una situazione nella quale il rapporto tra città e cittadini va sempre più disumanizzandosi. E’ anche un’occasione per denunciare la progressiva perdita del centro storico di Roma, di quelle attività artigianali, culturali e artistiche che creano l’identità di una città.
Il centro storico di Roma come altre città del mondo è stato dichiarato dall’Unesco “patrimonio dell’umanità”. Dobbiamo però constatare, che le forme della tutela oggi in atto sono rivolte, più che all’umanità, al patrimonio di soggetti privati. Politici e urbanisti propongono una tutela dei centri storici tutta interna alle logiche di mercato. A monte delle questioni che la politica e le singole discipline possono e debbono affrontare, c’è un problema di natura culturale.
Ci si chiede: sono sufficienti ed efficaci le regole che garantiscono gli interessi della generalità dei cittadini? I piani regolatori sono strumenti idonei alla salvaguardia dei centri storici? Possono mescolarsi o associarsi i ruoli dei poteri pubblici e quelli degli interessi privati nel gestire le trasformazioni della città? I risultati negativi di queste trasformazioni sono da ascriversi ad una errata applicazione delle regole o ad una insufficienza delle stesse?”.

Roma, 4 giugno 2008


E’ possibile seguire l’incontro in diretta ed in differita sul sito www.amorepsiche.it e www.mawivideo.it

Associazione Culturale Amore e Psiche tel. 06 6783908; fax.: 06 9761580

l’Unità 12.6.08
Oggi la «rentrée» con un discorso al Centro congressi Frentani: «Questa destra eredita alcuni tratti salienti del Ventennio»
E alla fine Bertinotti scoprì il regime. «Dolce», però
di Simone Collini


Fausto Bertinotti non ha mai parlato di «regime» e ha sempre guardato con un misto di scetticismo e diffidenza alle analisi che andavano in quella direzione. E questo perché l’ex presidente della Camera è sempre stato convinto che avere un premier proprietario di tre televisioni non bastasse a giustificare il ricorso a un tale termine. Oggi rivendicherà questa sua prudenza per quanto riguarda il passato, e però al tempo stesso pronuncerà quella parola, seppure accompagnata dagli aggettivi «dolce» e «leggero».
Il ragionamento che Bertinotti farà oggi al centro congressi Frentani per la sua rentrée politica, anticipando i punti fondamentali di un lungo articolo che verrà pubblicato sul numero di luglio di «Alternative per il socialismo», è che per la prima volta viviamo una situazione in cui un ampio potere è saldamente nelle mani di una destra che pur non potendo essere definita «fascista», eredita diversi elementi tipici del ventennio. Una destra (il punto è l’intero schieramento, non il solo Berlusconi) che per la prima volta «rompe la connessione di minoritarismo» in cui si è sempre trovata «dalla Resistenza in poi». E che già sta usando la sua condizione di maggioranza per scardinare l’attuale ordinamento sociale, muovendosi senza compattare contro di sé le controparti e utilizzando le paure diffuse e le emergenze per ottenere i risultati (non attacco all’articolo 18 ma proposta di deregulation, introduzione del reato di immigrazione clandestina, non riforma dell’ordinamento giudiziario ma introduzione di una superprocura per i rifiuti campani).
Se questa è la situazione, per Bertinotti la sinistra deve alzare un argine che non può essere fatto del materiale attualmente esistente. Perché se l’ex presidente della Camera eviterà di entrare a gamba tesa nel congresso di Rifondazione comunista (ha firmato la mozione Vendola, che propone l’avvio di una costituente della sinistra, ma non parteciperà ai congressi di circolo) un messaggio chiaro lo manderà comunque.
Il convegno di oggi, al quale sono stati invitati rispettando un rigoroso equilibrio politico Latorre, Bettini e Castagnetti per il Pd, Cento e Francescato per i Verdi, Intini per i Socialisti, Fava, Di Salvo e Leoni per Sd più diversi intellettuali e politologi (oltre ovviamente a Vendola, Giordano e altri esponenti Prc) è titolato «Le ragioni di una sconfitta» (lo stesso del numero di luglio di «Alternative»). La sconfitta è quella di un progetto politico come l’Unione, che per l’ex presidente della Camera si spiega con la «totale impermeabilità» del governo Prodi ai movimenti. Ma è soprattutto quella della Sinistra arcobaleno. La débâcle si spiega, nel ragionamento di Bertinotti, col fatto che quell’esperienza «non è stata tutto ciò che avrebbe dovuto essere». Cioè non è stata costruita «dal basso» e non è andata «oltre i partiti». Ora bisogna riprovare, è il messaggio lanciato in direzione Prc. E non sarà questo il solo passaggio dedicato al proprio partito, perché oggi Bertinotti vede quali conseguenze ha avuto il non mettere mano quando era segretario - parallelamente all’operazione culturale della nonviolenza e di rottura con lo stalinismo - al modello organizzativo del Prc e a un’innovazione della forma partito. Operazione difficile, vista la forza delle correnti interne, ma che ora Bertinotti si rende conto quanto fosse necessaria. Anche perché quella che poteva essere interpretata come una scorciatoia adatta, l’Arcobaleno, si è visto a cosa ha portato.

Repubblica 12.6.08
Perché la Sinistra ha perso
di Fausto Bertinotti


Questo è un ampio stralcio del saggio in cui Fausto Bertinotti analizza la sconfitta della sinistra alle ultime elezioni, che verrà pubblicato dalla rivista Alternative per il socialismo

Questa volta indagare le ragioni della sconfitta è un´operazione politica di prima grandezza. Sono la stessa natura e la profondità della disfatta a rendere la ricerca delle sue cause così impegnativa. Aiuta la possibilità di capire le ragioni della sconfitta l´analisi dei vincitori, l´analisi della destra italiana. E´ già stata chiamata la Nuova destra. Non credo impropriamente; essa ha mostrato una forza propria considerevole, una presa dura e originale con la modernizzazione che investe la società italiana. Nessuno più dei fattori identitari delle diverse destre italiane che avevano caratterizzato la loro storia ormai la definisce più. Non l´eredità del fascismo, non l´assolutizzazione dello stato nazione e neppure il liberismo. L´ingresso della destra nella modernizzazione, candidandosi ad essere la forza più vocata ad accompagnarla, l´ha deideologizzata, consentendole di recuperare poi scampoli e tracce delle diverse tradizioni della destra e di ricomporle in una politica definita proprio sulle risposte da dare alla crisi sociale e politica e istituzionale provocata dalla stessa modernizzazione. Non fascista, ma in grado di usare elementi di quella cultura e dei suoi depositi nel coltivare l´avversione dura e prepotente ad ogni diversità specie quando l´insicurezza si tramuta in paura e la figura del capro espiatorio riemerge dalle tenebre come lenimento proprio delle paure. (...)
Neppure pienamente liberista così da smarcarsi rispetto al neoliberismo impotente dei suoi ideologi di centro-destra come di centro-sinistra – il partito di Maastricht – e contemporaneamente aderirvi pienamente sul tema cruciale del rapporto lavoro-impresa-mercato fino a configurarsi come il partito dell´impresa (e della Confindustria). Un potente arlecchino che rispecchia la scomposizione della società, il frantumarsi anche delle soggettività forti, un arlecchino che miscela i suoi colori e le sue cento tessere con gli istinti che animano la società civile confezionando un´idea generale di restaurazione che poi rinvia alla società trasformandola in politica, senza che però ne abbia più l´apparenza: una sottile proposta di complicità. La Nuova destra cambia il registro della politica e la destra smette di essere minoritaria, ruolo a cui l´aveva consegnata la rottura operata dalla Resistenza e il lungo dopoguerra italiano. Neppure i precedenti governi di Berlusconi avevano risolto alla destra questo suo problema storico. Ma ora l´Italia è davvero entrata in una nuova era politica.
Ci sono parole che vanno maneggiate con cura, in politica, perché possono produrre, se si affermassero, quando sbagliate, guai molto seri. Tanto più sono pesanti, tanto più vanno vagliate con particolare attenzione. Una di queste è la parola regime (...) Non ci convinse il ricorso al suo uso di fronte al precedente governo Berlusconi, quando, pur in presenza di elementi assai preoccupanti, grandi contraddizioni animavano, più in generale, il quadro del paese. Ben diversa è la condizione attuale. Credo si debba ora azzardare la tesi, in prima approssimazione e sottoponendola a verifica critica, che quello che sta prendendo corpo è un nuovo regime, il regime leggero. Prendendoci una qualche licenza, si può dire che lo connota l´a-privativa; privativa della stessa politica, se intesa in senso forte come, cioè, idea di società. Nessun terreno è escluso dalla privazione. (...)
Comincia dalla Repubblica. L´avvio l´ha fornito il discorso di Fini di apertura della legislatura e, più ancora, la fortissima area di consenso con cui è stato salutato quello che si proponeva come il discorso del primo Presidente della Camera della nuova Repubblica, seconda o terza che sia. Con l´arco costituzionale veniva fatto cadere il fondamento della Costituzione repubblicana, la discriminante antifascista, nella sua forza generatrice, almeno come potenzialità aperta, di una nuova nazione, di un altro paese. (...)
Ci dovrebbe toccare, d´ora in poi, una Repubblica a-fascista e, dunque, a-antifascista , una Repubblica senza radici e senza storia. Al suo interno, il Parlamento non è più il luogo dello scontro tra governo e opposizione, del confronto rispettoso delle persone ma netto nell´opposizione delle politiche, affinché siano chiare le scelte e leggibili gli interessi che vengono rappresentati. Il Parlamento si presenta ora come luogo non già della rappresentanza, ma della governabilità, e tutto intero si configura come una sorta di governo allargato; solo resta una diversa nuance, ma all´interno della medesima dimensione, quello tra governo reale e governo ombra. Un Parlamento a-politico. E´ come se sotto gli scranni del Parlamento ci fosse una gigantesca calamita che tira verso il governo, la calamita del mercato. La stessa forza che attrae dentro queste istituzioni, l´altra grande metà della politica, le relazioni sociali. Anche le relazioni sindacali che si stanno ridefinendo (perché con il governo?) vanno in direzione dell´allargamento del governo coinvolgendovi le parti sociali in una concertazione che da eccezione è diventata regola e ora si accinge a farsi sistema, vanificando ogni autonomia del sindacato, sospinto a farsi istituzione tra le istituzioni. Così la a privativa arriva direttamente al cuore della democrazia, al conflitto. Se negarlo è impossibile, quel che invece è possibile è sospingerlo in una dimensione patologica perché priva della legittimazione sociale e politica garantita solo dal riconoscimento del suo carattere progressivo e di attore della giustizia sociale. Relazioni sindacali e sociali a-conflittuali guidate da parametri esterni alla condizione di lavoro ne costituiscono il suggello. Si consuma così in un "regime leggero" la crisi profonda della rappresentanza democratica.
E´ infatti nella lunga e strisciante crisi della democrazia, nella progressiva sostituzione della rappresentanza col governo che si è consumata la crisi della sinistra. Così come, al contrario, nel caso italiano, cioè nella straordinaria stagione del cambiamento, l´allargamento della democrazia e la sua apertura alla democrazia conflittuale e partecipata aveva accompagnato l´ascesa della sinistra, così nella crisi della democrazia si consuma la crisi della sinistra e il suo crollo elettorale. E se quella è stata la stagione delle passerelle, dei ponti, delle cerniere che consentivano gli attraversamenti, le contaminazioni arricchenti, l´ingresso dei prima esclusi, questa che si vuol aprire oggi è la stagione del fortino: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Dentro il sistema, dentro il governo allargato; fuori dal governo allargato, fuori dalla rappresentanza. La questione della sinistra nella politica, della sua disfatta come della sua possibile ricostruzione, si fa, forse, più chiara anche se non di più facile soluzione. In ogni caso è evidente che si tratta di un destino che condivide, di fatto, con le forze sociali e culturali che nella società si trovano ad affrontare il tema del loro riconoscimento, dell´inclusione. Per loro, in primo luogo, vale oggi il dentro o fuori. Bisognerà ricordare che la diffusione anche delle più orribili tendenze xenofobe e di discriminazione si alimentano nel corpo della società quando si rivelano, cinicamente funzionali a difendere assetti sociali, altrimenti indifendibili. Dall´impedire che tutto ciò si consolidi in regime dipende ormai il futuro della sinistra.
Rossana Rossanda lucidamente parlò all´inizio della campagna elettorale della sfida, per la Sinistra l´Arcobaleno, consistente nel portare a casa la pelle. La crisi era evidente, il rischio di scomparsa era, drammaticamente, nel novero delle cose prevedibili. Non ne avevamo però previsti i tempi e i modi, non avevamo previsto (non lo aveva previsto nessuno) la violenta accelerazione della crisi, il suo esito elettorale disastroso. La sinistra è stata messa dal voto fuori dal Parlamento; il PD è stato sconfitto. Per le forze della Sinistra l´Arcobaleno, la débâcle è senza appello. Ma è nel paese che si è aperto il vuoto più inquietante, il vuoto della sinistra politica.

il Riformista 11.6.08
Dopo due mesi silenzio, finisce la quarantena
La piccola linea d'ombra di Bertinotti
Torna a parlare di politica al seminario della sua rivista
di Stefano Cappellini


Quando si sceglie il silenzio, come Fausto Bertinotti dopo la disfatta elettorale del 13 e 14 aprile, si accetta anche la possibilità - di più: la certezza - che siano altri a riempirlo di significati. E Bertinotti è sparito per due mesi. Abbastanza per alimentare un piccolo filone di leggende sul suo black out mediatico. C'è chi giura: Fausto è depresso, sfibrato, ferito. E c'è chi spergiura: Fausto è sereno, placido, atarassico. Lui intanto zitto, assente, non pervenuto.
Dopo mesi in cui ogni suo respiro era buono per un lancio d'agenzia, ogni posa meritevole di uno scatto o di una inquadratura, ogni passo della giornata scandito dal cerimoniale e dalla fitta agenda di incontri, Bertinotti si è fabbricato una piccola linea d'ombra. Ha spento il cellulare, è partito per Parigi, ha disdetto impegni, s'è rifugiato nei fine settimana di Massa Martana, ha letto molto, come sempre, ma anche più, s'è immerso nelle terme toscane, ha rifiutato ogni genere di intervista e conversazione da ogni genere di quotidiano nazionale e non, ha pianto la morte dell'Amato fratello maggiore. Si è chiuso nel pudore della sconfitta. Perché Bertinotti è intelligente. Perché Bertinotti conosce il valore della disciplina. Perché Bertinotti non può nemmeno fare come Veltroni che da mesi si autoaumenta il risultato delle urne: forse 34 per cento fa più scena di 33, ma 4 per cento resta parente povero di 3.
Ma il pudore dell'ex subcomandante non è solo questione di stile, non è un comodo vestito su misura come quelli che il presidente della Camera sfoggiava attraversando le sale di Montecitorio o concionando nei salotti della Roma bene. Per lui il pudore della sconfitta è materia viva, sangue e merda come dice Formica, il tormento dell'uomo e del leader. Bertinotti è un narciso al quale il 13 aprile hanno rubato lo specchio e nessuno gli ha concesso il privilegio di restare per il triste riflesso di sé sconfitto, anzi gli amici e compagni di ieri, nemici di oggi, si sono affrettati a mettergli in mano uno specchio deforme, così che per il futuro non potesse vedersi che brutto e nero, salottiero e mondano, venduto e rammollito. Ci sono leader per i quali la sconfitta è un blob informe da ingoiare di nascosto, da ruminare giusto il tempo di risputarlo lindo e pinto per poter dire al mondo: «Sconfitta? Quale sconfitta?». Ma Bertinotti è un leader - vero, non uno di quei capibastone che infestano la politica post-postmoderna o di quegli ologrammi il cui unico realistico habitat è il "panino" del tg - e un leader umiliato dalle urne come è toccato a lui di essere si pone il problema di come tornare a dire "io" in pubblico, la prima volta dopo il disastro, senza sentirsi lo scemo del villaggio, Snoopy che vagheggia sulla cuccia o il generale Custer che chiama l'offensiva a Little Big Horn.
Silenzio, dunque. E studio. La rivista prima di tutto. Alternative per la sinistra è l'unico spazio semi-pubblico in cui Bertinotti si è calato in questi due mesi, dirigendo le riunioni di redazione col piglio da capo-redattore, affiancato da Alfonso Gianni, sodale e spin doctor, coautore di un paio di libri bertinottiani, in una parola amico amico. La prima riunione di redazione dopo il voto si è tenuta quattro giorni dopo lo tsunami elettorale al 54 di via Veneto, nella quantomai effimera sede unificata della Sinistra arcobaleno, a pochi metri da quell'Hard rock cafè dove il 14 aprile s'era insediato il quartier generale del comitato elettorale rosso-verde sbaragliato dagli exit poll e dalle proiezioni e presto rimasto in mano ai giornalisti inutilmente a caccia di qualche sopravvissuto. I pochi giorni trascorsi dalla batosta, rivisti da quella sede dismessa a tempo di record, somigliavano a decenni. E pareva proprio una sequenza da Bergman, un posto delle fragole inacidite, il Bertinotti che si aggirava per i locali ormai spogli e deserti della ex sede, che distribuiva i pezzi ai redattori sfidando l'eco delle stanze vuote, prima di riconsegnare le chiavi dell'appartamento al locatario.
Poi il ritiro. Attaccato dai nuovi detrattori interni, già protesi nella sfida a Nichi Vendola, il candidato che Bertinotti sostiene al congresso del Prc di luglio. Protetto e coccolato dai compagni che gli sono rimasti fedeli e amici. Come l'ex segretario Franco Giordano: «Fausto è una persona rigorosa. Davanti alle asprezze e alle volgarità, soprattutto queste ultime, che la vulgata colpevolista ha riversato su di lui alla ricerca di capri espiatori, ha scelto di prendersi il tempo necessario a capire. Il pudore del suo silenzio è sinonimo di grande maturità interiore». «Si è fatto da parte per una questione di pulizia, di igiene della politica», sostiene Ciccio Ferrara, già responsabile dell'Organizzazione sotto il regno bertinottiano. Aldo Garzia, coordinatore di Alternative , la mette così: «Credo che il suo periodo di riflessione si spieghi con la consapevolezza della sproporzione tra la dimensione catastrofica della sconfitta e l'inadeguatezza della parola spesa a caldo».
Bertinotti ha sigillato tutte le parole. Le è andate a cercare nei libri, quello di Giorgio Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati , divorato e apprezzato, nelle chiacchierate con Revelli, col quale c'era stata tempesta, e in quelle con Mario Tronti, a caccia di una nuova razza operaia e di un nuovo laburismo se non più pagano, almeno un po' più rude di quello arcobaleno. Praticando finalmente in disparte quel monachesimo laico che è già da qualche anno una delle cifre più autentiche dell'ultimo Bertinotti, coltivata con letture e con curiosità enciclopedica. Nel dicembre 2005 da segretario di Rifondazione comunista andò la prima volta in Cina e i funzionari del Partito comunista cinese lo portarono in una provincia dell'interno, lo Henan, a visitare i monasteri dei monaci buddisti filogovernativi. Lui non chiese dei rapporti col regime e coi monaci tibetani "cattivi", s'informò sulle differenze tra la loro "regola" e quella dei benedettini. Ancora pochi mesi fa, da presidente della Camera, Bertinotti era sul monte Athos ospite dei monaci ortodossi. In un certo senso, dopo il voto c'è tornato in spirito, e stavolta senza il rischio che il rigore del vespro mattutino svaporasse la sera insieme ai flash del fotografo Pizzi e alla galleria di istantanee da salotto frullate in rete da Dagospia col marchio che più ha fatto male al politico comunista: Berty-nights.
Questo della mondanità abbandonata ma mai ripudiata è uno dei capitoli più delicati. Dice Ferrara: «Fausto ha pagato una regressione culturale di tutta la società, e quindi anche della sinistra, che non concepisce un comunista alla presidenza della Camera, che si scandalizza se il sindacalista prende il caffè con il padrone, come se non fosse possibile farlo senza restare fermi sulle proprie idee e i propri principi». Figuriamoci poi cosa pensassero molti militanti, e pensino tuttora, del feeling tra Bertinotti e lo psicanalista-guru Massimo Fagioli. Già la psicanalisi è «roba da borghesi», ma Fagioli è peggio: è roba da borghesi radical-chic.
Domani finisce la quarantena. Bertinotti torna a parlare di politica al seminario della sua rivista. A metà luglio, sul nuovo numero, uscirà un lungo saggio sulle ragioni della sconfitta. Nessuno s'aspetti Montecristo o vendette tarantiniane. Le parole di domani sono figlie del silenzio. Lo spirito è zen. Nel partito infuria la battaglia e aleggia la scissione. Lui combatte col pensiero. Appoggio a Vendola, senza eccessi. Padre nobile sì, padrino ingombrante no. L'ex subcomandante ha lasciato da un pezzo la selva Lacandona. Se un domani ci tornasse, sarebbe per cercare gli spiriti dei boschi.

Il partito del pomodoro
Sarà un giovedì che più rosso non si può: Bertinotti, Ferrero, Diliberto domani si sfideranno a distanza a colpi di convegni. L'ex presidente della Camera ha organizzato, con la sua rivista, un seminario sulle «ragioni della sconfitta»: il primo happening pubblico cui partecipa dopo la sconfitta elettorale. Diliberto sarà a invece a Livorno per promuovere la sua «costituente comunista» con la minoranza di Rifondazione. Per gli appassionati dei seminari di sinistra, l'ex ministro Paolo Ferrero andrà a quello organizzato da "Associa, per il socialismo del XXI secolo": un convegno sul "partito sociale" che si svolgerà al Pigneto. Ospiti, tra gli altri, l'ex ministro venezuelano Jorge Giordani e Tiny Cox del «partito del pomodoro» olandese. Una formazione di ex maoisti che ha raccolto circa il 13 per cento alle scorse elezioni. Un «partito sociale», che piace a Ferrero, che ultimamente si è caratterizzato su battaglie "anti-casta", a partire dall'introduzione di un tetto di spese ai propri parlamentari.

l’Unità 12.6.08
Pochi pacifisti in corteo. Fischi al Pdci
In duemila sfilano nella capitale. Ferrando (Pcl) critica la sinistra radicale: qui ci sono solo io
di Federica Fantozzi


POCHI e pacifici. Il corteo no war si è svolto senza tensioni. In 2mila, italiani e americani, sono sfilati fino a Piazza Barberini. Contestata l’ex capogruppo Pdci
Manuela Palermi, al grido di «andatevene, la piazza ve la dovete conquistare». L’unico leader di partito presente era Ferrando, del Partito Comunista dei Lavoratori: «Scandalizza l’assenza della sinistra radicale».
Parte alle 18, con un’ora di ritardo, il serpentone da piazza della Repubblica. Nove le sigle che organizzano: sindacati (Cobas, Cgil e Fiom), pacifisti e centri sociali, partiti come Sinistra Critica (suo lo slogan più ironico: «Bush: vacanze romane? Aridatece Gregory Peck») e PcL. In testa lo striscione «No a Bush e alla guerra. Via l’Italia da Afghanistan e Libano». In coda tamburi e un cordone di polizia. In mezzo bandiere della Palestina e di Cuba, maschere di Cheney e Condi, le Donne in Nero e di Pink Code.
Davanti alla basilica di Santa Maria degli Angeli e Martiri si radunano i manifestanti. Ci sono Caruso e D’Erme. E gli ex capigruppo Prc Russo Spena («Il governo è servo di Bush») e Pdci Palermi. Una donna bionda in bicicletta apostrofa a parolacce la Palermi: «Vergognatevi, andate in fondo, andate a piazza del Popolo». Lei arretra senza scomporsi: «L’anno scorso i cortei furono diversi perché diverse erano le parole d’ordine. Noi non diciamo 10,100 Nassiryia nè bruciamo bandiere».
Un gruppetto la circonda urlando: «Fuori, andate a lavorare». Spunta un cartello: «Noi comunisti extraparlamentari, voi ex parlamentari opportunisti». Marco Rizzo commenta: «Forse non hanno tutti i torti se non apprezzano il lavoro fatto dalla sinistra al governo. Le contestazioni sono sbagliate, ma un’autocritica serve. Piazza del Popolo fu un errore per subordinazione a Prodi».
Il corteo parte. Tra bandiere rosse e cartelli contro le scie chimiche degli aviogetti militari. Magliette del Che e di Stalin. Cori Yankee go home e Hasta la victoria. Si distribuisce Il Bolscevico, organo del «partito marxista leninista italiano». Appare un adesivo sopra un senso unico: «Proletari unitevi». Un turista si avvicina: «Qui viene Bush?». Gli rispondono di no e se ne va. Striscione del Pcl: «La strage è imperialista». Striscioni americani: Shame grondante sangue; Indict US war criminals. Joan Ballard, dei Citizens for Peace & Justice legge i motivi per cui chiedono l’impeachment di Bush: dal disastro Katrina alle rendition alla distruzione di Medicare. Lucio Manisco apprezza: «You are heroic». Norman Cohen, a Roma da 5 mesi per una borsa di studio, insegna al losangelino Occidental College dove ha studiato Obama, il suo candidato presidente: «Ho già firmato contro Bush 7 anni fa, non servì. Condivido tutte le critiche che gli fanno».
Il corteo passa senza incidenti l’angolo con Via Veneto blindata. Cori contro Bush e Berlusconi «assassini» e Alemanno. Cordone davanti a Blockbuster: «Che tristezza - dice Bernocchi - Difendono le cassette». Piazza Barberini ha gli angoli sigillati. Un flop? «Parlare di ospedali e carceri non ha giovato» risponde Rizzo. Quanta gente aspettavamo? «Uno in più delle celle messe a disposizione» ribatte Sergio Cararo, uno degli organizzatori.

l’Unità 12.6.08
Il Pd, i cattolici e le cipolle d’Egitto
di Stefano Ceccanti


Il dibattito sui cattolici e il Pd, anche da parte di qualche organo di stampa cattolica sembra spesso ignorare una saggia massima latina: contra factum non valet argumentum, che potremmo tradurre nell’invito a non fare commenti prima di aver letto attentamente i dati. La ricerca più elaborata, quella di Segatti e Vezzoni, divide l’elettorato in quattro spezzoni: praticanti regolari (tutte le settimane), praticanti irregolari (qualche volta al mese), scarsamente praticanti (qualche volta l’anno), non praticanti-non credenti. Il primo spezzone riguarda il 31% degli italiani, gli altri inglobano ciascuno un 23%.
I praticanti regolari, quelli su cui si discute di più sia per questa particolare consistenza quantitativa, specifica dell’Italia, ma anche perché dopo la fine della Dc è venuto a mancare un partito di riferimento “naturale”, riservano varie sorprese. In primo luogo, essi sono più “bipartitisti” dell’insieme della popolazione, votano sia per il Pdl sia per il Pd più dell’insieme degli italiani. Il Pdl sta al 44 rispetto al 37 tra gli italiani in genere, e il Pd sta al 35 rispetto al 33 complessivo. L’Udc è sostanzialmente nella media, e ciò, insieme ai dati di Pdl e Pd, dimostra che le nostalgie di partiti centristi sono minori tra i praticanti più che tra gli altri e questo persino in un’elezione, dove a differenza delle altre, l’Udc si presentava come equidistante, quindi particolarmente in grado di intercettare voto centrista nostalgico se esso fosse davvero esistito in modo consistente. L’Udc è scavalcato persino dalla Lega, che, però prende il 7% tra i praticanti rispetto all’8% tra gli italiani nel complesso, mentre la Sinistra Arcobaleno, quasi non esiste, si ferma all’1%.
Segatti e Vezzoni ci fanno anche vedere l’evoluzione diacronica del voto, mostrando che i praticanti, essendo più liberi da appartenenze politiche stabili, normalmente accentuano le dinamiche dell’insieme della popolazione. Il Pd era finito in un baratro del 20% circa delle intenzioni di voto intorno alle amministrative del maggio 2007, quando sull’insieme della popolazione stava, com’è noto, intorno al 25%. Per questo sembra destituita di ogni fondamento qualsiasi nostalgia per l’esperienza della coalizione litigiosa dell’Unione, che talora viene riproposta proprio a partire dall’analisi del voto dei praticanti. Nei mesi successivi, dalle primarie fino alle politiche, con la proposta dell’andare liberi, il Pd recupera ben 15 punti tra i praticanti regolari e finisce sovrarappresentato di due punti rispetto all’insieme della popolazione, mentre la Sinistra Arcobaleno, che viene maggiormente identificata con i veti di quella stagione, quasi scompare tra i praticanti. Non sembra pertanto evidente neanche un effetto negativo della presenza dei radicali.
Questo insieme di dati, statici (bipartitizzazione) e dinamici (netta e costante ripresa) conferma, come ha spesso sostenuto in controtendenza il sociologo Diotallevi, e al contrario di quello che sembra sostenere Famiglia Cristiana con la critica speculare a Veltroni e Berlusconi, che i praticanti italiani sono particolarmente in sintonia con la modernizzazione politica, sono elettori di centro, ma non sono interessati a partiti identitari di centro.
Più semplice il discorso sullo spezzone opposto, quello dei non praticanti e dei non credenti, dove il Pd raggiunge il 53%, e anche su quello ad esso limitrofo degli scarsamente praticanti dove ottiene il 39% contro il 34% del Pdl, il che dovrebbe indurre a non eccedere in enfasi sulla presunta carenza della laicità del Pd, su quella che sarebbe una timidezza nell’affrontare il tema dei diritti, dove invece il Pd cerca solo equilibrio e saggezza, visto che gli elettori “più laici” questi dubbi non sembrano avvertirli.
Il vero buco il Pd ce l’ha invece solo nella seconda fascia, quello dei praticanti irregolari, cioè tra quegli elettori che, ancor più dei praticanti regolari, sono più interessati alla tenuta complessiva del Paese, di cui colgono uno dei pilastri anche nella Chiesa a cui soggettivamente si sentono di appartenere con molte riserve, che non ai temi cosiddetti “eticamente sensibili” identificati in modo troppo semplicistico e unilaterale.
Qualche anno fa Arturo Parisi invitò i cattolici impegnati del centrosinistra ad affrontare questa parte di elettorato, che già allora era quella più difficile, non col complesso del figlio fedele della parabola del figliol prodigo che è geloso perché si sente stabilmente migliore. Continua ad avere ragione, anche se oggi finisce anch’egli per riproporre una nostalgia dell’Unione che aveva anche lui contribuito a denunciare con l’iniziativa dei referendum elettorali. Da questo punto di vista l’esperienza del Pd è preziosa per tutti, anche per i molti cattolici che vi militano perché, anche per attrarre queste fasce di elettorato, nessuna delle culture originarie che affluiscono nel Pd può considerarsi pienamente in grado di dare risposte da sola.
Le tentazioni vere o false di scissioni, sono come le nostalgie per le cipolle d’Egitto durante l’Esodo, e i tentativi di creare correnti rigide che alludono a divisioni di strategia politica rifiutando poi, se vi fossero davvero, la logica conseguenza di un Congresso, sono vie di fuga dell’adorazione di vitelli d’oro. Indietro non si può tornare, anche perché le soluzioni tradizionali legate alle culture politiche precedenti sono consumate, e neanche scartare di lato verso false certezze. Abbiamo iniziato un cammino con alcuni risultati non da poco: proseguiamolo o, se abbiamo dubbi, mettiamo democraticamente in discussione, se esistano altre mete ed altri percorsi per raggiungerle. I praticanti hanno accettato positivamente l’Esodo dai partiti di centro e così indicano anche al Pd la strada di vivere con fede laica comune un altro Esodo, quello iniziato con le primarie e non negato dal risultato elettorale.

Corriere della Sera 12.6.08
L'Impero del Novecento
di Luciano Canfora


L'editore Teti di Milano ha realizzato in queste settimane uno strumento di lavoro molto utile: il dvd della «Storia universale» redatta dall'Accademia delle Scienze dell'Urss. L'opera resta un documento importante, testimonianza del punto di vista di protagonisti significativi. Carlo Maria Martini parlò della «funzione di stimolo nel pensiero e nella prassi europea, e anche nel cammino della Chiesa» rappresentato dal fenomeno storico del comunismo novecentesco. Ai polemisti tali riflessioni possono dar noia, ma per gli storici sono ovvietà. Quella storia «collettiva» aveva qualcosa in comune con la Historia Augusta: culminava nell'esaltazione dell'imperatore regnante. Nondimeno c'è un'altra faccia dell'opera alla quale gli studiosi continuano a guardare con interesse: la storia antica e medievale dell'Asia, in particolare di quell'ampia parte del continente che gravitò nell'area russa.
Le storie universali peccano di eurocentrismo. Questa no.

Corriere della Sera 12.6.08
Un libro rievoca dall'interno gli orrori del comunismo jugoslavo. Fra le vittime i seguaci di Stalin
Isola Calva, inferno nel nome di Tito
Il gulag nell'Adriatico dove si uccidevano i nemici del regime
di Predrag Matvejevic


Isola Nuda, la chiamano gli slavi. Isola Calva, dicono gli italiani d'Istria. Il libro di Dunja Badnjevic, pubblicato nei tipi della Bollati Boringhieri, sceglie per titolo la prima denominazione per indicare questo tragico luogo collocato ai confini del Quarnero. Un isolotto roccioso e di difficile accesso, che non va dimenticato dalla storia. Ne hanno parlato, anche recentemente, Claudio Magris nel suo romanzo Alla cieca (Garzanti) e Enzo Bettiza nel Libro perduto (Mondadori). Giacomo Scotti, scrittore della minoranza italiana di Fiume, le ha dedicato vari articoli e un libro. Era un vero gulag, «una Kolyma jugoslava», dice la Badnjevic: là suo padre, partigiano e comunista, trascorse più di quattro anni, incarcerato dai suoi compagni di lotta e di Resistenza.
Per comprendere meglio queste vicende è utile ricordare alcuni eventi del XX secolo. Nel corso della prima riunione di una sorta di nuova internazionale comunista, il Cominform, che ebbe luogo nel 1947 in Polonia, i rappresentanti jugoslavi, Kardelj e Djilas, si assunsero (per ordine diretto di Stalin) l'incarico di criticare i compagni italiani e francesi per «opportunismo ». Erano presenti alla riunione Longo, Reale, Duclos e altri membri dei vari Comitati centrali. Il maresciallo Tito, considerato il maggior protagonista della Resistenza, sembrava allora più apprezzato di Togliati o di Thorez. Solo un anno dopo, nella seconda riunione a Bucarest, questo potenziale rivale di Stalin nel movimento comunista doveva invece divenire obiettivo di atroci accuse e durissimi attacchi. Fu la grande divisione del movimento operaio internazionale. L'accusa più grave fu quella di un «rigurgito di trozkismo». Quella rottura brutale fu percepita da noi, in Jugoslavia, come la prosecuzione della seconda guerra mondiale o una nuova guerra. L'Armata rossa era alle frontiere del Paese in attesa dell'ordine di superarle. Tito seppe resistere e difendere la sua via autonoma, quella via che Togliatti cercava di difendere ancora agli inizi del '47 e che doveva invece rinnegare scrivendo la risoluzione del Cominform contro la Jugoslavia. Nel partito comunista jugoslavo erano tutt'altro che rari i filosovietici, convinti che la loro organizzazione dovesse essere una armata internazionale guidata dall'Unione sovietica. Ebbero così inizio le «purghe», in primo luogo all'interno dell'apparato dello Stato e del partito. Molti membri che occupavano ruoli importanti nelle istituzioni furono sostituiti e gettati in prigione. Nel conflitto con lo stalinismo si fece ricorso agli stessi metodi staliniani. Goli Otok sull'Adriatico settentrionale — l'Isola «nuda» o «calva» — divenne il gulag jugoslavo.
Esref Badnjevic, il padre dell'autrice, uno dei primi partigiani insorti nel 1941, ex ambasciatore della Jugoslavia per il Medio Oriente, non volle rinnegare le proprie convinzioni. Si rese presto conto che «non c'era posto per il dubbio. Ci si doveva dichiarare: pro o contro. Non esistevano più la solidarietà, l'amicizia, la discussione fraterna», mancava la capacità di mantenere anche nelle situazioni più difficili della guerra partigiana il rispetto delle diverse opinioni. «Se non ti riconoscevi nella linea del partito eri un traditore... Solo ieri eravamo soldati in lotta per la stessa causa», scriveva il vecchio partigiano.
Così cominciò il suo calvario. Appena approdato sulla sponda dell'isolotto, fu accolto con «una gragnola di calci, pedate, pugni, sputi». La «rieducazione» doveva essere lunga e severa. Il cosiddetto «boicottaggio» si praticava in modo feroce. Si dovevano spaccare durante tanti giorni grossi blocchi di pietra per poi buttarli in mare. Un lavoro di Sisifo. «Sento i colpi su tutto il corpo e non so da dove mi venga la forza di resistere». Non tutti riuscivano a sopportare un simile trattamento. O si suicidavano o morivano per le atrocità subite.
Esref Badnjevic riuscì a resistere come aveva resistito prima alle persecuzioni naziste. Quando ne uscì scrisse una specie di diario. Sua figlia, autrice di questo libro, l'ha utilizzato nel migliore dei modi. Ha alternato le testimonianze crude di suo padre ai ricordi della propria infanzia — spezzata da quell'improvvisa irruzione notturna della polizia che doveva portarle via il genitore e distruggere la vita della sua famiglia — ai pensieri e alle riflessioni anche su tempi più recenti. Ne risulta un racconto autentico e struggente. L'alternanza dei due percorsi produce, quasi inaspettatamente, uno straordinario effetto letterario. Da una parte il percorso della grande Storia con la sua tragedia collettiva, dall'altra il piccolo vissuto quotidiano dei dolori e delle angosce familiari.
Nel gulag dell'Isola Nuda finirono anche molti comunisti provenienti dall'Istria o dal-l'Italia stessa (particolarmente gli operai di Monfalcone) per collaborare alla «costruzione del socialismo». Pagarono così la loro fede in un mondo che ritenevano migliore.
Fino agli anni Ottanta in Jugoslavia non si poteva scrivere su questo argomento. Apparvero solo dopo la morte di Tito alcuni libri interessanti che abbiamo cercato di sostenere e divulgare, spesso senza successo. Mi sono talvolta chiesto se «misure» meno drastiche avrebbero potuto raggiungere lo stesso risultato — salvarci da Stalin e dagli staliniani. Ma ho talvolta rifiutato di porre queste domande, anche per l'amicizia nei confronti di coloro che avevano vissuto gli orrori dell'Isola e che avevano dimostrato un'onestà intellettuale e una coerenza, anche se mal riposte.
La narratrice, Dunja Badnjevic, sembra in alcuni momenti porsi domande simili e difficili. Vive da quarant'anni in Italia, è nata a Belgrado da un padre bosniaco e da una madre croata. Ha fatto conoscere in Italia alcuni tra i migliori scrittori jugoslavi. Ha curato le opere di Andric per i Meridiani della Mondadori. Ama il suo Paese, nonostante molti «conti aperti» e avverte ancora la ferita della sua dissoluzione. Ha inventato un neologismo che mi sembra renda l'idea: «apolitudine — una sorta di non appartenenza... di perdita dei luoghi geografici, di amici, di sogni, della memoria e, soprattutto, delle radici».
La conclusione è amara: «Mio padre è stato riabilitato il 24 gennaio 1990. Erano passati dieci anni dalla sua morte e quaranta dal suo primo arresto. Il Paese per il quale aveva combattuto e lottato oggi non esiste più».

Repubblica 12.6.08
Veltroni: il Pd non è socialista tornare indietro sarebbe suicida
Savona, ex ds sbatte la porta e guida la rivolta dei cattolici
Ma per D’Alema è "un onore" l’iscrizione al Pse
di Goffredo De Marchis


NAPOLI - Il congresso resta un´ipotesi in campo se continuano ad aleggiare i fantasmi della scissione, se le correnti proliferano e se i partiti fondatori hanno la tentazione di una retromarcia. Un confronto vero, con la leadership in ballo: è un orizzonte possibile. Non si può certo fare solo per risolvere il rebus della collocazione europea. Ma si può e si deve fare «se si mette in discussione l´idea stessa del Pd, se si pensa di tornare ai Ds, alla Margherita e a 14 mila componenti». Allora sì, dice Walter Veltroni, «bisognerebbe celebrare il congresso». E´ il messaggio che il segretario del Pd manda un po´ a tutti, a Francesco Rutelli che richiamandosi alla Margherita ha stoppato un accordo quasi chiuso con i socialisti continentali, alle componenti che si stanno riorganizzando prima fra tutte quella di Massimo D´Alema, a chi evoca la scissione come ha fatto Famiglia cristiana. Lo strappo del Pd, la frattura insanabile resta un´idea «plausibile», legittima perché no. «Ma tornare alle vecchie identità sarebbe un suicidio, per me», avverte Veltroni. Di questo partito plurale lui fa il segretario, il leader «di un progetto esteso capace di crescere, come è già successo nell´ultimo anno». Di una forza che nasconde altri progetti, no.
Uno dei nodi, non il solo e non necessariamente il più delicato, è quello del rapporto con i socialisti europei. Rimosso, rinviato, ma ora si avvicina la scadenza delle europee (2009). E il rischio che ciascuno ne faccia un uso strumentale esiste. Per questo Veltroni ha parlato a Napoli, dove si sono riuniti i parlamentari del gruppo socialista a Strasburgo. In un albergo vicino alla stazione, per un paio di ore hanno accantonato il grande tema del Mediterraneo. Gli eurodeputati hanno fatto una specie di interrogatorio al segretario del Pd. Tutti concordi alla fine: «Veltroni stavolta è stato chiarissimo». «Il Pd non è un partito socialista, ma una forza del centrosinistra», ha detto. Al Pse ha spiegato anche che «non basta rimanere se stessi e aprire. Bisogna cambiare davvero». Che «rispetto ai governi di sinistra in Europa nel 1997, la situazione attuale propone un dato spietato». Cioè sono rimasti in pochi. Che in Asia il socialismo non c´è, ma ci sono partiti del centrosinistra. Insomma, al Partito socialista europeo, Veltroni chiede «innovazione». E una presa d´atto della crisi.
Un partito che non è socialista non può dunque confluire nel Pse, tanto più che alcuni caratteri identitari sono duri a morire (a Paqualina Napoletano, vicepresidente del gruppo, Veltroni dice: «Sei ideologica e radicale»). Martin Schulz, capo di questa pattuglia di eurodeputati, risponde che «la socialdemocrazia tedesca non diventerà il Partito democratico tedesco solo perché ce lo chiedono gli italiani». Ma l´apertura di Schulz a qualcosa di nuovo c´è, eccome. «Possiamo creare nel Pse una struttura autonoma, politicamente e finanziariamente, in cui anche chi non viene dal socialismo si possa sentire a casa». E´ lo schema di un gruppo federato che riconosce quella che Veltroni chiama «peculiarità del Pd», cambia nome aggiungendo il richiamo ai democratici, lascia una certa libertà agli italiani. Per il momento è lo sforzo massimo che Schulz può garantire, è un compromesso sul quale i popolari del Pd sono in grado di convergere. E anche Massimo D´Alema lo sostiene.
L´ex ministro degli Esteri è il secondo ospite italiano della riunione napoletana. Parla di integrazione, di Mediterraneo. Poi, rivendica con una battuta la sua appartenenza: «Sono stato membro del gruppo Pse ed è un titolo di onore al quale non rinuncio». Ma la linea Veltroni è giusta anche per lui. «Ha fatto bene a chiarire che il Pd non è un partito socialista perché rappresenta tante culture. Dobbiamo costruire qualcosa di nuovo anche in Europa». Senza abbandonare il socialismo: «Sarebbe sbagliato isolarsi e non aiuterebbe nessuno a rinnovarsi». Non bisogna perciò immaginare un gruppo autonomo peraltro complicato da mettere su a Strasburgo. «Ma sarebbe sbagliato anche pretendere che ci integrassimo nel Pse così com´è». Lavorare insieme dentro il Pd e attendere un pronunciamento condiviso: così si procede. Dice Veltroni: «Il mio obiettivo è portare tutti i democratici italiani nello stesso gruppo». Ora, prima dell´assemblea costituente ci sono otto giorni. Chi vuole aprire altri fronti può farlo. Ma sapendo che per Veltroni il congresso (respinto ieri dalla Bindi e caldeggiato invece da Parisi) resta in campo.

Repubblica 12.6.08
Boom di operazioni per le musulmane che cercano marito
Parigi, viaggio nella clinica che restituisce la verginità. "La chirurgia salva le nostre nozze"
Sempre più ragazze musulmane chiedono l´imenoplastica
di Giampiero Martinotti


PARIGI. A due passi dagli Champs-Elysées, la clinica è uguale a tante altre dei bei quartieri: palazzo ottocentesco, una certa signorilità senza ostentazione. E una clientela soprattutto femminile, angustiata dal proprio corpo: i seni, la cellulite, le rughe. Ma qui approdano anche tante ragazze musulmane che non cercano un decolleté da sogno o un sedere perfetto. Vengono a cercare invece una nuova verginità.Chiedono di farsi ricucire l´imene per dare ai loro futuri mariti l´illusione di una purezza, rispettare tradizioni ancestrali ed evitare di essere additate come «puttane». Salgono la bella scala, vanno al primo piano dove c´è il blocco operatorio, passano qualche ora al quarto, nelle camere in cui si riposano. Poi ripartono verso la loro vita, lontano dallo sfavillio dei quartieri ricchi della capitale.
Il caso del matrimonio annullato a Lille perché la sposa non era vergine, ha riportato alla luce un fenomeno che l´ordine professionale dei ginecologi osserva da tempo: «Ci chiedono certificati di verginità e riparazioni di imene. Non è un fenomeno massiccio, ma non si era mai visto prima: l´integralismo progredisce», dice il professor Jacques Lansac. E non sono donne con il velo a chiederlo, ma ragazze che hanno avuto una vita come quella delle loro coetanee di origine europea e che all´approssimarsi del matrimonio ricadono nelle tradizioni, nei ricatti delle famiglie, nell´assurdità di un uomo che vuole essere «l´unico». Alcune di loro ricorrono ai vecchi trucchi, come un pezzetto di fegato di vitello nascosto nella vagina, altre preferiscono l´imenoplastica. E sono pronte a pagare i 2-2.200 euro richiesti: «La verginità non ha prezzo», dice una ragazza che si è fatta operare. Altre cercano prezzi più convenienti o chirurghi che accettano di far passare l´operazione sotto un´altra voce per farla rimborsare dal servizio sanitario. Oppure vanno nel Magreb.
Il peso delle famiglie, raccontano sui siti internet tantissime ragazze musulmane, è spesso insopportabile, ma è difficile liberarsene: «Mia madre mi ha sempre ripetuto: se non vai bene a scuola, si potrà sempre far qualcosa, ma se perdi quella (la verginità, ndr), non si può far niente. Non si può dare una figlia sporca». Discorsi che traumatizzano le ragazze, che a volte preferiscono praticare «l´amore da dietro», come dicono, piuttosto che perdere la verginità prima delle nozze: «Da noi non si scherza con queste cose».
Nella clinica degli Champs-Elysées, Marc Abecassis opera due o tre volte la settimana. Nel 1992 è stato uno dei primi a lanciarsi nella chirurgia del pene, da una decina d´anni si occupa anche delle donne: «All´inizio le richieste di imenoplastica erano sporadiche, da due o tre anni sono diventate regolari, soprattutto perché c´è più informazione». Le sue pazienti hanno fra i 18 e i 35 anni e origini sociali diverse: studentesse, disoccupate, professoresse, ricercatrici. «Quando vengono da me hanno ragionato e riflettuto molto. Con noi parlano, possono confidarsi. Non mi piace far questo intervento, ma non voglio giudicare: queste donne sono disperate, e io voglio alleviare la loro sofferenza».
Dietro le porte, al quarto piano della clinica, si sfiorano per qualche ora due mondi lontani mille miglia: quello delle donne che vivono nell´esuberante edonismo occidentale e non esitano a far ricorso alla chirurgia estetica per sedurre. E quello delle ragazze che invece devono ridiventare illibate per fingere di essersi date a uno solo. Due mondi non poi tanto diversi, secondo un ginecologo che opera nella periferia parigina: «Accettiamo di rifare i seni alle donne perché assomiglino alle bambole dei rotocalchi: perché non ricucire gli imeni? In entrambi i casi si tratta della sottomissione a un´ideologia, occidentale da un lato, musulmana dall´altro. Entrambe condannabili, per quanto mi riguarda». Un atteggiamento condiviso da pochi dei suoi colleghi.

Repubblica 12.6.08
Attesa, sogni e paure dei romeni d´Italia "Riscatto in una notte"
La comunità: ma domani state in casa
Tra calcio e politica la vigilia del match vista da chi è emigrato nel nostro paese
di Marco Mensurati


ROMA. Puoi ripeterlo quanto ti pare che è solo una partita di pallone, quella di domani. Non ti darà retta nessuno, al massimo ti faranno dietro un sorriso bonario. Oppure ti diranno «vatti a fare un giro a Monterotondo, sulla Salaria e chiedi di padre Bogdan, te lo spiega lui per quale motivo non sarà una partita come le altre».
E la spiegazione più che rabbiosa è rassegnata. A Monterotondo c´è una comunità di seimila romeni. Vivono qui e lavorano nei dintorni. Il loro punto di riferimento è la piccola chiesa ortodossa. Anzi: era. Perché da ieri quella chiesa è chiusa. Sbarrata, come fosse un ristorante trovato fuori norma dai vigili urbani. Il vicariato e il comune hanno revocato il permesso di utilizzare i locali promettendo in cambio di trasformare in chiesa ortodossa il magazzino di un ex mobilificio. Forse. Se arriveranno tutti i permessi. «Vorremmo che i nostri ragazzi venerdì giocassero anche per i romeni di Monterotondo - dice Giancarlo Germani, presidente del neonato partito dei romeni d´Italia - E per tutti quelli che da qualche mese a questa parte, da quando è stato deciso di utilizzare politicamente la questione sicurezza, subiscono piccole e grandi discriminazioni».
Per ragioni come questa, Italia-Romania, la gara in cui la zattera azzurra rischia il naufragio, sarà una gara speciale. Seicentomila ottime ragioni, per l´esattezza. Tante quante sono le persone appartenenti alla comunità romena nel nostro paese. Che hanno eletto la seconda partita del girone C degli Europei come la partita dell´Orgoglio romeno.
Orgoglio che gonfia le parole di tutti, in questa vigilia. Ramona Badescu interrompe le prove di uno show per spiegare i «reali contenuti» dell´appuntamento di venerdì. Dice la showgirl-politica: «Non è la prima volta che Italia e Romania si incontrano in competizioni ufficiali. Ma stavolta la sfida ha un significato particolare. Abbiamo un´ottima squadra che farà capire a tutti che la Romania non è solo violenza e cronaca nera ma anche un paese che ama il calcio e con il calcio la cultura e le tradizioni». Orgoglio che però non potrà essere ostentato. «Se fossimo a casa nostra allora ci riverseremmo nelle piazze e nei bar a seguire tutti insieme la partita e a fare il tifo - spiega Adrian German leader della squadra della comunità romena in Italia - Invece siamo ospiti e visti i recenti fatti di cronaca sarà meglio evitare. La partita la vedremo da casa insieme agli amici. Quello che abbiamo da dire lo diranno per noi i nostri ragazzi, sul campo. Del resto da noi in Romania si dice sempre che i calciatori e gli sportivi in genere sono come gli ambasciatori. Sono certo che loro ci rappresenteranno al meglio». Come? «Magari con un bel pareggio. Un risultato che a noi potrebbe anche andare bene...»
Di evitare raduni pubblici è stato richiesto ufficialmente anche da Eugen Tertelac, presidente dell´associazione dei romeni in Italia: «In seguito ai problemi che ci sono stati negli ultimi tempi non ci sentiamo molto tranquilli - dice - per questo invito tutti i miei connazionali a guardare la partita da casa propria. La situazione non è delle migliori e non possiamo ignorare che Amnesty International ha parlato di rischio xenofobia in Italia contro romeni e rom».

Liberazione 12.6.08
I diritti e la vita di chi lavora non valgono più nulla
di Rina Gagliardi


Orario di lavoro e condizioni di vita. Era più bello il 1906
Oggi la politica ha smesso di pensare all'interesse generale


Nello stesso giorno in cui i ministri degli affari sociali della Ue abbattono l'ultimo baluardo della legislazione sul lavoro - il limite delle 48 ore settimanali - a Catania sei operai muoiono sul lavoro, respirando sostanze tossiche. Solo una coincidenza temporale, si dirà. Per noi, invece, mentre la collera e il dolore ci saltano agli occhi per questa ennesima strage, tra i due eventi il nesso è stretto, strettissimo: di lavoro si continua a morire perché i diritti - e la vita - di chi lavora non valgono più nulla . Perché gli operai sono tornati ad essere i dalit, i paria, delle nostre società opulente - gli ultimi. La merce per eccellenza "flessibile", priva di solidità, di forza, di sicurezza. Così flessibile e così insicura che infatti ora, col conforto di una legge europea, dovrà faticare fino a tredici ore al giorno, fino a sessantacinque ore - di media - alla settimana. Fino a perdere energie, attenzione, capacità reattiva. Accadeva così, all'incirca un paio di secoli fa, quando il movimento operaio faceva i suoi primi veri passi, tra la fine dell'Ottocento e l'alba del Novecento. Quando, non a caso, gli operai cominciarono a lottare, insieme, per il salario e per ridurre la lunghezza - l'insopportabilità - dell'orario di lavoro che i padroni pretendevano.

Fu un anno molto intenso, quel 1906, dal punto di vista delle lotte sociali. In uno dei suoi epicentri, il Piemonte, entrarono in sciopero, tra gli altri, i tessili, i metalmeccanici, le mondariso - tutti rivendicavano aumenti salariali, ma soprattutto la riduzione dell'orario di lavoro. Fu allora che un deputato socialista di Vercelli, Modesto Cugnolio, presentò alla Camera il progetto più "audace": le otto ore lavorative per le mondine, le raccoglitrici di riso soggette a condizioni disumane e a malattie devastanti. Una proposta sostenuta dalle Leghe, dall'Alleanza Contadini e dall'appena costituito movimento sindacale. E fu in una bella giornata di sole, il 1 giugno del 1906, che le mondariso in sciopero occuparono pacificamente la piazza centrale di Vercelli: erano tutte vestite con il loro abito della festa e cantavano una canzone. «Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar E troverete la differenza di lavorar e di comandar».

Non si sa chi abbia scritto quel testo e quella musica. Si sa solo che esso si è trasmesso, di generazione in generazione, per tutto il Novecento - di volta in volta, il testo mutava, la Russia, Scelba, le lotte comuniste, ma l'incipit restava lo stesso. Le otto ore. La dignità di chi lavora e fatica. Tanto "fece egemonia" questo concetto che, nel 1923 (un anno dopo la "marcia su Roma") un decreto regio stabiliva che per tutti i lavoratori valeva la regola dell'8 per 3: che cioè per tutti la giornata non può che esser divisa tra otto ore dedicate al lavoro, otto al sonno, otto al "tempo di vita".

Sono passati centodue anni da quell'epico 1906 e il terrificante lavoro delle mondariso non esiste più - almeno qui da noi. Per nostra fortuna, chiamiamola così, viviamo in uno spicchio di mondo straordinariamente sviluppato, colmo di prodigi tecnologici e di rivoluzioni comunicative. Un progresso dall'apparenza inarrestabile. Ma com'è possibile che un tale progresso si converta nel suo esatto contrario, quando dalle macchine, dai miracoli della scienza e della tecnica, ci si addentra nell'universo del lavoro e della condizione di lavoro? Quando dalle cose si passa alle persone? Di colpo, ben più che in quel lontano 1906, le otto ore diventano un'utopia. Di colpo, si smantella un'intera civiltà, costata più di un secolo di lotte e di sudori. Ed è l'Europa a dirigere questa vera e propria controrivoluzione sociale: l'Europa che, nella sua bozza di Trattato costituzionale, aveva scelto il Mercato è la stessa che oggi si schiera "definitivamente" contro il lavoro e concede alle imprese l'orario ad esse più conveniente.

Ma non è soltanto la regressione sociale, civile e culturale, l'unico paradosso (apparente) di questa vicenda. Ve n'è un altro, che salta agli occhi di qualunque persona di buon senso: con tanti lavoratori precari, inoccupati, disoccupati, "atipici" , "interinali" che affollano il mercato del lavoro, che cosa c'è di socialmente conveniente in questa deregulation che avanza, sul modello anglosassone? E che cosa c'è di "saggio" nel dividere la società tra chi è destinato alla condanna biblica di un lavoro sempre più lungo (e di uno sfruttamento conseguentemente sempre più intenso) e chi il lavoro lo cerca, lo invoca, lo sogna, tra un impiego a termine e l'altro? Parliamo di politici, s'intende, cioè del punto di vista generale che dovrebbe guidare le scelte di chi è responsabile della res publica e delle sue leggi. Ma è proprio qui che il paradosso si svela: la politica ha perduto, da un pezzo, ogni capacità (e volontà) di pensare all'"interesse generale". Ovvero, ha assunto la logica dell'impresa e del mercato come sinonimo di bene comune e come parametro a cui orientare le proprie opzioni. Insomma, la politica si è fatta ancella dell'economia: classista in senso stretto, strettissimo, come forse non è mai avvenuto nel secolo che ci sta alle spalle.
In questa ottica squisitamente padronale, il "privilegio" di un lavoro garantito o stabile, per un numero sempre minore di lavoratori, non può, oggi, che pagare il prezzo di una radicale riduzione di diritti e di una compressione crescente della soggettività del lavoratore: l'orario allungato a dismisura, da determinare sulla base delle esigenze - immediate o strategiche - dell'impresa, è in realtà la "summa teologica" di questa spoliazione, di questo comando sempre più assoluto sulla forzalavoro. Comando del tempo, dei ritmi della vita, del fare e del pensare, dittatura sui corpi, riduzione a fortiori di tutto ciò, come la sicurezza, che chiede soldi e tempo e "rallenta la produttività". E attacco frontale all'aggregazione del lavoro, all'unità solidale di chi lavora e si organizza nel proprio comune interesse: l'altra faccia dell'orario sempre più lungo e sempre più flessibile è la fine, o la riduzione ad una parvenza, del contratto collettivo. Ma la faccia, tra tutte forse più autentica è, alla fin fine, la precarizzazione del lavoro, di tutta la condizione di lavoro in quanto tale: il suo svilimento, il suo degrado. In questo senso, non c'è contraddizione alcuna tra un nucleo di "garantiti" che faticano - per forza consenzienti - anche settanta ore a settimana, e un esercito di precari tendenzialmente cronici: non solo gli uni possono sconfinare negli altri in qualunque momento, ma gli uni e gli altri sono quasi equamente aggrediti nella loro forza soggettiva, nella loro capacità contrattuale collettiva, nella loro autonomia di soggetti e protagonisti del conflitto. Lo ripetiamo: sono tornati ad essere merci, anzi merci deperibili, mera variabile dipendente delle esigenze della competività di impresa. Non c'è nessuna malvagità, in tutto questo. Non c'è nessun "piano". E' solo il capitalismo, bellezza!

Apcom 12.6.08 13.30
Sinistra / Bertinotti: Il governo Prodi ha aperto un fossato con nostro popolo"


Fausto Bertinotti, l'ex presidente della Camera e leader della Sinistra arcobaleno rompe il silenzio e affronta le ragioni della sconfitta elettorale della sinistra, che per la prima volta è fuori del Parlamento: la crisi della sinistra è la crisi della democrazia, e con la 'Nuova destra' si va verso "un regime leggero", con cui "si consuma la crisi profonda della rappresentanza democratica", avverte dalle pagine di Repubblica, che riporta un ampio stralcio del saggio che verrà pubblicato dalla rivista 'Alternative per il socialismo', leit motive della giornata di studio sulle 'ragioni della sconfitta' che lo steso Bertinotti ha organizzato oggi al centro Frentani a Roma.

"Non avevamo previsto la violenta accelerazione della crisi. La sinistra è stata messa dal voto fuori dal Parlamento, il Pd é stato sconfitto. Ma é nel Paese che si é aperto il vuoto più inquietante, il vuoto della sinistra politica", sottolinea Bertinotti. "La natura e la profondità della disfatta" - ammette - è tale che la ricerca delle cause è "una operazione politica di prima grandezza"; dove tra i fattori aiuta capire quella che chiama la "Nuova destra", non "fascista, ma in grado di usare elementi di quella cultura e dei suoi depositi nel coltivare l'avversione dura e prepotente ad ogni diversità". Non piu' "pienamente liberista", un "potente arlecchino che rispecchia la scomposizione della società" e poi ammonisce: "Quello che sta prendendo corpo è un nuovo regime, il regime leggero, in una Repubblica senza radici e senza storia. Il Parlamento si presenta ora come luogo non già della rappresentanza, ma della governabilità. Un Parlamento a-politico".

E le relazioni sociali "si stanno ridefinendo verso una concertazione che da eccezione è diventata regola e ora si accinge a farsi sistema, vanificando ogni autonomia del sindacato, sospinto a farsi istituzione tra le istituzioni". Finita la stagione "dei ponti, delle cerniere che consentivano le contaminazioni arricchenti, l'ingresso degli esclusi, questa che si vuole aprire oggi é la stagione del fortino: chi é dentro è dentro, chi é fuori é fuori".

Roma, 12 giu. (Apcom) - Una delle principali ragioni della "debacle" della sinistra alle ultime elezioni politiche va ricercata nella linea tenuta dal governo Prodi tra il 2006 e il 2008. Fausto Bertinotti torna a parlare di politica dopo un lungo silenzio e analizza "le ragioni di una sconfitta" aprendo una giornata di riflessione in un centro congresso della Cgil. Ad ascoltare l'ex presidente della Camera ci sono, tra gli altri, Franco Giorgano, Gennaro Migliore, Cesare Salvi, Achille Occhetto, Paolo Cento, Goffredo Bettini e Nicola Latorre. Spiega Bertinotti: "L'esperienza della partecipazione della sinistra al governo Prodi è ciò che ha fatto traboccare il vaso, ha pesato negativamente, più di quello che noi già pensavamo".

Per Bertinotti "era prevedibile che ci fosse una certa influenza dei poteri forti sul governo", ma si pensava almeno che l'esecutivo potesse essere anche "permeabile" alle istanze che venivano dai movimenti. Invece il governo è sembrato stretto in una "camicia di forza dei poteri forti" ed è risultato "impermeabile ai movimenti". La sinistra al governo si è trovata "chiusa tra la Scilla e Cariddi, tra l'accettazione di uno schema di conservazione e la rottura prematura dell'esperienza di governo".

Bertinotti critica "la logica dei due tempi", ovvero la linea che ha anteposto il risanamento dei conti alla soluzione dell'emergenza sociale: definisce "la prima Finanziaria devastante rispetto al consenso nel Paese"; ricorda la primavera-estate del 2007 con il "passaggio sulle questioni sociali legate alle pensioni e alla solidarietà".

"E' accaduta una vera e propria rottura - sintetizza Bertinotti - un salto indietro, una scissione tra la sinistra e il suo popolo. Si è aperto un fossato tra la sinistra e molte delle forze che su essa avevano investito. La mancata riforma sociale ha fatto esplodere i fattori di crisi che già esistevano, la non risposta del governo Prodi ai problemi sociali e discredito nei confronti del sistema politico hanno provocato la caduta rovinosa della sinistra". Ricorda l'ex presidente della Camera: "In questi anni c'è stata una perdita del 14-15 per cento del salario reale, una perdita che è continuata durante il governo Prodi".

La Sinistra arcobaleno è stata una operazione nata in virtù di uno "stato di necessità", una costruzione di "carattere improvvisato" che ha pagato le "diverse occasioni perdute" di dar vita al progetto in passato. Fausto Bertinotti, analizzando "le ragioni di una sconfitta" volge una autocritica rispetto al percorso che ha portato all'aggregazione di Rifondazione comunista, Verdi, Sinistra democratica e Pdci alle ultime elezioni. Bertinotti premette che "la situazione ambientale della sinistra era difficilissima", rimprovera al Pd alcune "scelte che hanno svuotato ogni spazio di dialogo effettivo, che non sarebbe stato impossibile, che hanno concorso a creare una solitudine della sinistra". Ma poi aggiunge: "Non possiamo farci scudo di questo, non possiamo fare l'autocritica degli altri: la Sinistra arcobaleno è stata costruita in uno stato di necessità, ci sono state diverse occasioni perdute".

"Ha pesato molto - sottolinea - il carattere improvvisato, l'assemblaggio di forze diverse che non si sono messe in gioco. Ha pesato molto l'incommensurabilità tra le cose dette e quelle che si andava facendo, basti pensare alla composizione delle liste".

Per Bertinotti c'è stato un "errore di volontarismo, di soggettivismo: avere anteposto alla realtà un pur ambizioso progetto politico, peraltro largamente non condiviso".

Ag. Dire 12.6.08 14.00
Bertinotti ritorna e attacca: sinistra sommersa dal tracimare del governo Prodi


ROMA - "L'esperienza nel governo Prodi ha prodotto un tracimare dell'acqua che ci ha inondato e sommerso". Fausto Bertinotti ritorna in campo dopo la sonora sconfitta alle elezioni politiche. Lo fa con un lungo discorso sulle ragioni che hanno portato la sinistra a scomparire dal parlamento.

L'ex presidente della Camera ritorna all'attacco di Romano Prodi e del suo governo imputandogli una buona parte della debacle sua e dell'Arcobaleno. Ad ascoltare Bertinotti, nella sala gremita del centro congressi di via dei Frentani, sono presenti anche, tra gli altri, Claudio Fava, Nicola Latorre, Goffredo Bettini, Cesare Salvi, Paolo Cento, Franco Giordano e Nichi Vendola. Ma a precedere l'intervento dell'ex presidente della Camera e' un minuto di silenzio per ricordare i 10 operai morti ieri sul lavoro.

Tornando al governo Prodi, Bertinotti spiega che "e' li' che la sinistra ha misurato e vissuto un salto nella crisi.

Un'esperienza che ha pesato negativamente piu' di quello che tra di noi si pensava. C'e' stato un salto all'indietro, una scissione silenziosa della sinistra con il suo popolo. E questo ha moltiplicato rotture e conflitti interni. Si e' aperto un fossato tra la sinistra e le forze sociali che avevano investito su di essa". E il ruolo del Pd accusato di aver contribuito, e parecchio, alla sconfitta? "Non possiamo farci schermo per la nostra sconfitta con la critica rivolta al Pd", puntualizza Bertinotti. Certo, conclude, "la campagna elettorale ha aggravato i guai di una situazione ambientale che per la sinistra era difficilissima. E le scelte programmatiche del Pd e di collocazione hanno svuotato lo spazio di un dialogo che non sarebbe stato impossibile e hanno lasciato il posto a una sinistra in solitudine".

Rosso di Sera 12.6.08
Bertinotti: “E' accaduta una rottura che ha determinato un salto all'indietro”


'La partecipazione della sinistra al governo Prodi e' cio' che ha fatto traboccare il vaso. Ha pesato negativamente piu' di quello che si pensava'. Lo afferma l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, intervenendo al seminario 'Le ragioni della sconfitta', e ripercorrendo l'esperienza al governo della sinistra radicale

'E' accaduta una rottura che ha determinato un salto all'indietro - prosegue - e una scissione tra la sinistra e il suo popolo. Si e' aperto un fossato tra la sinistra e le forze che hanno investito su di essa'. Per l'ex leader dell’ Arcobaleno ad incidere sulla scomparsa della sinistra sono state: 'Le non risposte del governo ai problemi e il discredito nei confronti del sistema politico che ha investito la sinistra. I bassi salari - osserva ancora - sono diventati l'elemento di rottura con la sinistra stessa'. A pesare per Bertinotti e' stato inoltre il fallimento del governo, la divisione della sinistra radicale, l'incomunicabilita' con il riformismo italiano e il non coinvolgimento in passaggi decisivi di una parte della nostra gente'. 'E' fallita l'ipotesi piu' ambiziosa maturata a sinistra e cioe' l'idea che partecipando al governo si facesse fronte ad una domanda di cambiamento oggettivamente matura nella societa''.
Nelle intenzioni delle forze di sinistra che hanno preso parte al governo Prodi gli obiettivi erano due: 'Rendere il governo permeabile ai conflitti e ai movimenti e contemporaneamente rendere autonoma la sinistra radicale dal governo di cui faceva parte. In realta' - spiega ancora - era prevedibile la duplice permeabilita' del governo ai movimenti cosi' come ai poteri forti, quello che non era prevedibile - e' il ragionamento di Bertinotti - e' che il governo diventasse impermeabile ai movimenti facendo una scelta di campo verso i poteri forti'.
"Nell'allungare il canocchiale della nostra analisi all'indietro su cio' che e' avvenuto dobbiamo renderci conto che non abbiamo saputo mettere a frutto l'eredita' della sinistra italiana". Ed aggiunge: "La sinistra ha un bilancio fallimentare con la propria tradizione, l'ha dimentica, abbandonata oppure l'ha congelata in una fissita' identitaria. E' mancata una capacita' di rielaborazione della tradizione". "Senza rammemorazione, rielaborazione della tua storia, la sinistra non vive, non ha futuro".
Poi indica "tre eredita' mancate" nell'attuale sinistra. La prima e' quella del "movimento operaio", la seconda "la critica al capitalismo". Per Bertinotti, infattti, "non c'e' sinistra senza un'avversione sistematica alle forme di sfruttamento". E ricorda che "il movimento operaio italiano ha avuto il piu' grande partito comunista dell'occidente. Ma quando parlo di eredita' mancate, parlo di quello che Pasolini chiamava il Paese nel Paese e del legame prodotto da queste organizzazioni di massa".
Infine, Bertinotti, al terzo punto mette "l'eredita' del biennio '68-69. L'ultima grande stagione di cambiamento con una grande idea di democrazia partecipata. Queste e altre sono le ragioni di una sconfitta storica". Infine, dice, pur essendo importante la militanza attiva, dice: "Penso che si possa dare un contributo mantenendo la ricerca su questo terreno che e' indispensabile per la ricostruzione della sinistra e della politica".l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti mette in guardia dallo svilupparsi oggi in Italia di 'un regime leggero' connotato 'dalla a-privativa; privativa della stessa politica se intesa in senso forte e cioe' come idea di societa''. Con il 'regime leggero' osserva ancora c'e' stata 'l'espulsione dalla politica del conflitto, questa privazione si rileva nel cuore delle istituzioni politiche. L'avvio l'ha fornito il discorso di Fini di apertura della legislatura e piu' ancora - spiega Bertinotti - la fortissima area di consenso con cui e' stato salutato quello che si proponeva come il primo presidente della Camera della nuova Repubblica seconda o terza che sia. Con l'arco costituzionale veniva fatto cadere il fondamento della Costituzione repubblicana e cioe' la discriminante antifascista. Ci dovrebbe toccare d'ora in poi - conclude - una Repubblica a-fascista e dunque a-antifascista, una Repubblica senza radici e senza storia'.

Aprile on line 12.6.08 17.50
Il ritorno di Fausto
di Marzia Bonacci


Dopo due mesi di silenzio mediatico seguito alla débacle elettorale, Fausto Bertinotti torna sulla scena politica. Lo fa per lanciare il prossimo numero di "Alternative per il socialismo", interamente dedicato a "Le ragioni di una sconfitta"

Un silenzio, in cui si è auto-confinato, che si rompe oggi al centro congressi Frentani. Dopo l'epochè, la sospensione di giudizio sulla realtà, in questo caso politica, decisa a caldo dello scossone elettorale, Bertinotti ritorna sulla scena. E sceglie per farlo, non casualmente, di ripartire proprio da lì, da quel 13 aprile che ha motivato il suo stesso silenzio mediatico durato due mesi. "Le ragioni di una sconfitta", tematica che sarà al centro del prossimo numero della sua creatura, ovvero la rivista "Alternative per il socialismo", è il territorio da esplorare per poter riavviare la marcia. Nel suo intervento c'è molta riflessione sulle cause di una deblacle storica, sui nuovi vincitori, sulla società che cambia, sulla tradizione e il futuro. Si parla di politica, in senso alto, ricercando ragioni e proponendo soluzioni. Quando entra, l'applauso è sincero da parte del parterre, da Occhetto a Fava, da Vendola a Bettini, quasi a volerlo rincuorare per quelle critiche feroci che certo non lo hanno risparmiato. Nel gesto di Rina Gagliardi, che gli prende il viso tra le mani per salutarlo mentre sale sul palco, c'è condensato un po' di questo sentimento, un po' dell'amarezza che gli è precipitata addosso quando è diventato, fin dalle prime ore del dopo voto, un capro espiatorio -forse eccessivamente facile- degli errori che sono di molti e non solo suoi.

Dunque analizzare è il motto, cercare di capire dove si è sbagliato e perché. Per ricominciare. In primis, Bertinotti cita l'esperienza nel governo Prodi, che "ha prodotto un tracimare dell'acqua che ci ha inondato e sommerso", così che la sua crisi, quella di Prodi, è divenuta anche quella del centrosinistra. Ma non poteva essere altrimenti, visto che non si è saputo rispondere all' esigenza di "riforma sociale" (vedi Finanziaria e Protocollo) e al clima di "antipolitica" che, insieme, "hanno provocato la caduta rovinosa della sinistra", con la conseguente nascita di "una scissione silenziosa" fra questa e il suo popolo. Del resto la sinistra aveva scelto l'esecutivo con l'ambizione, poi fallita, "di far fronte alle domande di cambiamento nella società" attraverso due condizioni, "difficili" da realizzare riconosce lo stesso Bertinotti, che erano "la permeabilità del governo ai movimenti" e "l'autonomia dei partiti di sinistra dal governo". Una sfida quasi impossibile da vincere, la realizzazione complicata dell'essere forza di piazza e di governo, di cui poi la maggioranza non si è curata tanto, scegliendo alla fine di indossare "la camicia di forza dei poteri forti, da Confindustria al Vaticano". Dunque, stretti fra "la Scilla dell'accettazione delle scelte di politica interna e la Cariddi di una rottura prematura dell'esperienza di governo", i partiti della Sa sono rimasti stritolati, cosicchè "quando il governo è caduto da destra, il bilancio della sinistra è stato impresentabile". Ma la colpa è nel avere eluso la sfida vera, rivelando una "povertà strategica", quella di fornire una risposta, al di là di quella consegnata nelle inutili 220 pagine di programma, alla domanda: "quale Italia vogliamo consegnare dopo cinque anni di governo?".

L'autocritica coinvolge anche le elezioni, rispetto a cui, qui cita Rossanda, "sapevamo di dover portare a casa la pelle". Perché "non possiamo farci schermo per la nostra sconfitta con la critica rivolta al Pd"
cui, pure, va addebitata la responsabilità di aver ristretto lo spazio di un dialogo "che non sarebbe stato impossibile" lasciando "il posto a una sinistra in solitudine". Una sinistra che, come esperienza elettorale, è nata nello "stato di necessità" e con un "carattere
improvvisato" dando vita ad "un progetto politico ambizioso largamente non condiviso". Non fa sconti dunque, e ricorda come anche il caso delle liste abbia dimostrato "la incommensurabilità tra le cose dette e ciò che si stava facendo", difettando per volontarismo e soggettivismo, oltre che di scarso coinvolgimento della base in momenti importanti.

Governo, campagna elettorale, progettualità politica: questi gli elementi su cui si è manifestato il deficit della sinistra. Fra questi, poi, anche un'incapacità nostrana: "non aver saputo mettere a frutto alcune eredità", facendo tesoro dell'insegnamento di un filosofo che da sempre gli sta molto a cuore, Walter Benjamin, con il suo concetto di "rammemorazione". Tre in particolari i passaggi storici di questa disattesa: l'insegnamento del movimento operaio, la critica al capitalismo, perché "non c'è sinistra senza un'avversione sistematica al capitalismo", e il movimento del '68-'69. Una mancanza che si è aggiunta a quella di aver sottovalutato la portata del berlusconismo, andato di pari passo con lo "scomporsi della coscienza di classe", che hanno prodotto una società in cui le persone tendono ad avere un approccio sempre più individuale, fino agli operai che votano Lega, perché anche il sindacato è "sospinto a farsi istituzione fra le istituzioni". E' mancata insomma una "controriforma culturale" non si è avuta "resistenza critica", soprattutto a sinistra non c'è stato "quello scontro fraterno" che produce "coscienze critiche". Con i tradizionali referenti, sindacato e sinistra appunto, incapaci di non farsi schiacciare dalla "modernizzazione" a cui hanno aderito senza produrre un pensiero alternativo. In questo, si è dimostrata una "latitanza": quella degli intellettuali. "Il lavoro culturale si è desertificato. Dove è finita l'Italia delle riviste, dei convegni, delle case editrici?", chiede retoricamente accennando alla fine dei "luoghi di produzione della cultura politica".

Il risultato di questo processo regressivo è sotto gli occhi di tutti: la vittoria della destra, anzi della "nuova destra", come la definisce Bertinotti, specificando come non sia "fascista, ma in grado di usare elementi di questa cultura"; come non sia "pienamente liberista" ma poi si appiattisca a diventare "il partito di Confindustria"; non "assolutamente nazionalista, ma capace di utilizzare cinicamente i simboli del nazionalismo". Una forza che, sapendo miscelare questi "scampoli" di tradizione, "esce dalla minorità", mentre ad entrarvi è la sinistra, realizzando "un cambiamento storico per il Paese" di cui è emblema il discorso di Fini alla Camera nel momento del suo insediamento. Un discorso che era espressione "di un'altra Repubblica" in cui "cade il fondamento della prima, la radice stessa, la discriminante antifascista", generando un presente in cui è possibile anche la "memoria condivisa" semplicemente perché "non c'è nessuna memoria". Una stagione, quella di questa "Repubblica a-fascista perché a-antifascista", in cui anche la rappresentanza diventa esclusivamente "governabilità", in cui muore "il conflitto", che ha i tratti di "un regime leggero" connotato "dalla a-privativa" in tutti gli aspetti della vita pubblica.

Per impedire, conclude, che tale regime si consolidi c'è un'unica strada, che sa non essere facile da percorrere ma che gli appare necessaria: "la ricostruzione di una sinistra", che parte anche da questo centro congressi un tempo sede del Pci romano.

Aprile on line 12.6.08 18.59
Le risposte a Bertinotti
di Ma.Bo.


All'intervento dell'ex leader della Sa Bertinotti, che con convinzione ha bocciato l'esperienza della sinistra al governo, non ha tardato a rispondere l'unico uomo del Prc che di quell'esecutivo ha fatto parte, oggi principale avversario della linea bertinottiana e capo della mozione che al congresso di luglio tenterà di conquistare il partito in contrapposizione a Nichi Vndola, che dell'ex segretario di Rifondazione è figlio politico. Non si sofferma sulla crisi, avanza direttamente la proposta. "Ricostruire l'utilità della sinistra nella società": è questa la ricetta di Paolo Ferrero, il cui modello politico sembra essere quello del Partito del pomodoro, gli ex maoisti olandesi che sono riusciti a sfondare la soglia del 16% dei consensi diventando la terza formazione del Paese.
"Fare un salto verso il basso", dice Ferrero, superando l'idea che l'unico obiettivo da perseguire deve essere la presenza nelle istituzioni, riscoprendo la forza che "vale di più il volantino della comparsata a Porta a Porta". Una battuta, quest'ultima, dal sapore amaro e che appare evidentemente rivolta all'esposizione mediatica del leader, accusato anche in passato di peccare di protagonismo televisivo, oltre che di troppo salottismo (Berty-nights è la formula al vetriolo coniata dai giornalisti per indicare la frequentazione dei salotti buoni che avrebbe coinvolto l'ex segretario del Prc). Ripartire dalla società anche perché, spiega Ferrero, "la falce e martello da soli non servono a nulla, bisogna essere comunisti e intelligenti". E poi, per rafforzare la sua tesi, da buon evangelico cita anche modelli passati utili a illuminare la strada che deve condurre fuori dall'impasse politica in cui si è precipitati. "Bisogna fare come la Chiesa -dice - che, dopo la sconfitta ai referendum sul divorzio e sull'aborto è ripartita dagli oratori, dal lavoro sociale e ha vinto il referendum sulla fecondazione assistita". Se non piace il riferimento religioso, allora in alternativa vale anche l'insegnamento dell'esercito, il quale messo in crisi dall'antimilitarismo e dal pacifismo degli anni '70, "si è ricostruito un'immagine di utilità intervenendo in prima persona nei terremoti del Friuli e dell'Irpinia".
Una sfida difficile quella di un reinserimento nella società, ma che appare inevitabile perché "non stiamo attraversando il deserto, perchè all'orizzonte non c'è la Terra promessa, ma siamo in una giungla dove occorre combattere una guerra di movimento e sfuggire alle sabbie mobili". Ovvero quelle che hanno visto la destra vincitrice "non perchè gli operai stanno bene" ma anzi al contrario "perchè stanno male", con una sinistra che "non ha saputo indicare proposte di cambiamento". Boccia poi ogni legame di dipendenza con i democratici. "Noi non saremo mai l'estrema sinistra del Pd, perchè siamo un'altra cosa".

Parole che non potevano sfuggire al suo sfidante, che dai microfoni di Ecotv gli risponde ricordando come l'urgenza non sia tanto quella di rimettere in piedi il solo Prc, bensì l'intera sinistra. "Per me è importante rimettere in campo Rifondazione comunista ma è altrettanto importante che Rifondazione sia a disposizione della ricostruzione di una larga sinistra di popolo perchè se cosi non fosse resteremmo solo minoranze morte". Una sinistra, come ha spiegato Vendola intervenendo al Frentani, che guarda con interesse anche alle "contraddizioni" che stanno emergendo all'interno del Pd sul tema delle alleanze, come dimostrato dalle parole dello stesso Nicola Latorre al seminario di oggi. Il governatore della Puglia le definisce "un bene" che "non ci lascia indifferenti", e che spiega come il frutto "di una devastante sconfitta del progetto veltroniano di conquista del centro".
Precisa però che "non siamo all'individuazione delle alleanze: un'area del Pd con un'area del Prc... Questa, se posso permettermi, è una vulgata giornalistica", diversamente "siamo di fronte a tanti movimenti che accadono nel campo democratico e nascono dalla necessità di costituire una forza e una critica a questo governo e alla egemonia delle destre". Una opposizione che se condotta dalla sinistra come una crociata solitaria "sarebbe drammatica".

Cosa aveva detto il dalemiano era semplice. "L'Unione è una stagione esaurita", e fin qui tutti d'accordo, ma questo non esclude di valutare "quali margini ci siano per il rilancio di una strategia delle alleanze che non sembri però un ritorno all'indietro". E per dare credibilità e speranza agli extraparlamentari, ha aggiunto che l'opposizione in Parlamento sarà "assolutamente ferma e rigorosa" su temi come i salari, le questioni economiche e la sicurezza, avvertendo però che questa intransigenza "deve coniugarsi con il tema del completamento della transizione italiana". Dunque riformismo istituzionale, perché il voto ha confermato che "la società italiana vive male la frammentazione", ma questo non può essere interpretato come "un incoraggiamento al bipartitismo". Certo, bisogna aspettare di capire come andrà il congresso del Prc, rispetto a cui Latorre tributa autonomia ("sarebbe sbagliato da parte nostra, interferire nella discussione congressuale"), ma bisogna pur riconoscere che "gli sbocchi politici che questa discussione avrà non saranno ininfluenti rispetto alla prospettiva politica del Paese", ammonisce l'occhio vigile di D'Alema al Frentani.

INCHIESTA LEFT SU "TELECAMORRA", MINACCIATO UN PERITO
(AGI) - Roma, 12 giu. - Prima le minacce, poi l'auto distrutta. Abbastanza per chiudersi in casa e pensare seriamente di cambiare aria, per non rischiare di peggio. E' la drammatica sorte toccata al tecnico dell'alta frequenza che per alcuni giorni ha accompagnato Alessandro De Pascale, redattore del settimanale "Left", in un giro ricognitivo di quella vera e propria giungla di ripetitori che sembra essere diventata la Campania. "Il numero con la copertina dedicata alla mia inchiesta, intitolata 'Telecamorra' - racconta il giornalista - e' uscita venerdi' scorso, ma solo lunedi' nelle edicole campane: trovo inquietante la circostanza che l'avvertimento sia scattato nemmeno tre giorni dopo. Evidentemente abbiamo toccato piu' di un nervo scoperto". Attraverso un paziente lavoro di raccolta e confronto di denunce, fascicoli aperti, atti giudiziari e rapporti investigativi, De Pascale ha ricostruito una realta' ("che molti conoscono, da anni, ma che tutti tollerano") fatta di canali occupati abusivamente, di frequenze mai censite ma regolarmente utilizzate, di aumenti di potenza illegali. Il tutto, sullo sfondo di una guerra tra clan che si contendono senza esclusione di colpi la "torta" dell'etere locale. "Per verificare sul campo quanto scoperto - spiega De Pascale - una decina di giorni fa ho girato mezza Campania con un'auto e uno spettrometro in grado di misurare la potenza del segnale. Del tecnico che era con me, ovviamente, non dico ne' il nome ne' il posto in cui abita. Anche perche' una disavventura analoga e' toccata anche ad uno degli editori che mi aveva aiutato nell'inchiesta raccontando, al pari di altri colleghi, di essere esasperato da una situazione di illegalita' diffusa: mentre rientrava a casa, e' stato avvicinato e minacciato". Nel suo tour, De Pascale confessa di avere toccato con mano realta' "incredibili". Un esempio? "Il Faito, il monte alto piu' di mille metri, tra le province di Napoli, Caserta e Salerno, che domina la costiera amalfitana. Gli addetti ai lavori lo giudicano uno dei bacini di utenza piu' grandi d'Europa per le telecomunicazioni, perche' basta una buona frequenza per raggiungere piu' di 5 milioni di persone". Bene, quel monte, oggi "e' una distesa senza soluzione di continuita' di antenne e caseggiati che ospitano trasmettitori". (AGI) Bas

MAFIA: LEFT, UN "REBUS GIURIDICO" TUTELA I BENI DEI BOSS
(AGI) - Roma, 12 giu. - Ogni giorno "200 milioni di euro passano dalle mani degli imprenditori a quelle dei mafiosi". Ma questi ultimi "possono continuare a dormire sonni tranquilli", perche' "un rebus di carattere giuridico rischia seriamente di vanificare ogni azione dello Stato contro il patrimonio" dei boss. A denunciarlo e' un articolo ("Tutti i trucchi per tutelare la mafia") pubblicato sul numero di "Left" in edicola da venerdi'. Nel nuovo ddl sulla sicurezza, sostiene il settimanale, "la questione della completa separazione tra misure di prevenzione personali e patrimoniali non e' stata risolta", anzi due articoli "rischiano di rendere la faccenda ancora piu' ingarbugliata": il governo, a fronte dell'affermazione di principio contenuta nell'articolo 12 ("le misure di prevenzione personali e patrimoniali si applicano, congiuntamente o disgiuntamente, anche in caso di morte del soggetto"), avrebbe infatti "mantenuto inalterato il precedente impianto normativo, per cui la misura patrimoniale resta in posizione subordinata e accessoria rispetto a quella personale". Morale: le attivita' economiche, i patrimoni immobiliari e le ingentissime risorse finanziarie gestite dai boss "continuano a essere protetti da una normativa che invece di prendere in considerazione i precedenti specifici dell'indiziato o di verificare con quali redditi ha formato il suo patrimonio (quindi la pericolosita' passata), prende in considerazione soltanto la pericolosita' attuale, effettuando un colpo di spugna, una vera e propria sanatoria, sui patrimoni accumulati dall'indiziato nel corso degli anni". "Non sembra un caso - conclude Left - che i sequestri e le confische dei patrimoni mafiosi abbiamo subito negli ultimi anni un crollo verticale, anche in province ad alta densita' mafiosa": complessivamente, meno del 15% degli immobili sottoposti a sequestro arrivano alla confisca. (AGI) Ba

mercoledì 11 giugno 2008

l’Unità 11.6.08
Verona e Milano. Il volto feroce dell’Italia
di Roberto Cotroneo


Certo che no, certo che non si può dare la colpa a un intero Paese per una decina di mascalzoni, criminali e farabutti, e i termini sono assai moderati, che in una clinica di Milano hanno macellato ignare persone, operando, sventrando, e probabilmente in qualche caso uccidendo, per lucrare sul sistema sanitario nazionale, e farsi ricchi. Lo hanno fatto per denaro i medici assassini che hanno prolungato, hanno esasperato e provocato dolori, sofferenze e morte di povera gente che si affidava e si faceva assistere da loro. Certo che non si può generalizzare se poi a Verona, nel solito Veneto operoso e miracoloso del nostro esemplare Nordest, due coniugi prima fanno stipulare un’assicurazione sulla vita del loro dipendente rumeno di 28 anni, Adrian Kosmin, e poi lo invitano a casa, lo sedano, lo bruciano e simulano un incidente per incassare 900 mila euro. No, i due, marito e moglie, non sono la norma, e non sono la norma neppure i medici di quella che viene ormai chiamata «la clinica degli orrori», che non sta nel solito parassitario sud Italia, tanto villipeso da leghisti e amici affini, che non era in qualche Napoli immaginaria dove trasferiamo e proiettiamo tutti i mali del mondo. No, questo avviene a Milano.
Nella Milano che un tempo - ormai rintracciabile solo con il test del Carbonio 14, per quanto è lontano - era la cossiddetta capitale morale, la Milano della Sanità che funziona, di Formigoni, e dei leghisti. E la Verona del rumeno bruciato per 900 mila euro e la Verona del ragazzo ammazzato di botte dai nazi in pieno centro perché non aveva una sigaretta.
Le prime pagine dei giornali di ieri sono la pietra tombale del degrado morale, culturale e umano di questo paese. Vorrei vedere i vescovi, la chiesa, la conferenza episcopale tutta, distrarsi dalle coppie di fatto, dai gay pride, e sentirli tuonare su quello che è accaduto nella civile Milano, nella civile Verona. Su un povero rumeno bruciato da due criminali. Su quelli che a Milano, nella clinica degli orrori, si telefonavano tra loro e dicevano: «tutti i casi che arrivavano venivano fatti passare per tumori anche se erano tubercolosi». Quelli che affermavano: «prendevano i dottori più delinquenti che ci sono, così gli fanno guadagnare miliardi».
Non è una cosa normale, non è un caso isolato, non basta dire, solo quelli erano così e il resto, il corpo del paese è sano. Non si possono più sentire queste cose. Guardiamoci allo specchio, e diciamoci come il degrado culturale ed etico di questo paese ha portato a una degenerazione degna di paesi del terzo mondo come la Colombia o il Venezuela. Guardiamo quanta cattiveria, quanto cinismo e quanta pochezza circola tra persone che avrebbero dovuto studiarsi a menadito il giuramento di Ippocrate, gente che ha preso una laurea in medicina per massacrare gli altri, o gente che ha la piccola azienda in crisi del nordest e per risolvere i problemi di bilancio ammazza il rumeno che lavora per loro, e che ha solo 28 anni.
Avidità, pochezza, cattiveria, e nessuna etica. Nessun senso morale. Capaci di additare gli altri come il male, e incapaci di guardare l'esempio che diamo agli altri. Capaci di andare a protestare contro un piccolo campo nomadi a Mestre, perché c'è qualche fiore e un giardinetto per bambini, un campo nomadi, tra l'altro di cittadini italiani, e incapaci di scendere in piazza contro lo scempio dei giornali di ieri. Per solidarizzare con quel poveretto che dice: «stavo guarendo, mi hanno tolto un polmone». Una volta il truffatore italiano, nella commedia di tutti i luoghi comuni dell’Italia bonaria, vendeva la Fontana di Trevi all’americano di turno. Ora il truffatore è un medico stimabile, probabilmente con una ricca casa nei quartieri buoni di Milano, o con villa sul lago, che diagnostica tumori inesistenti, e opera, opera e ancora opera.
Dire “che vergogna” non è neppure una buona frase, si usa per cose assai più piccole e assai meno sconvolgenti. Qui c’è l’orrore, come hanno titolato i giornali, ma c’è l’orrore dell’associazione a delinquere su cose che si spiegano soltanto con delle follie individuali, e non con un sistema feroce e vuoto come quello. Voglio dire che non basta un medico per mettere assieme l’orrore della clinica di Milano: ci vuole un vero e proprio sistema di direttori sanitari, di radiologi, di medici diagnostici, di anestesisti compiacenti, di infermieri, di personale e amministrativo, e infine di chirurghi. E quando in un Paese civile può accadere questo, vuol dire che il segno è stato oltrepassato, vuole dire che in Italia il senso dell’etica, l’umanità, la misericordia, la pietà sono valori che non servono più a nulla, che non contano, che sono spariti.
Io me li immagino questi primari, questi chirurghi pieni di sé, passare a trovare l’ammalato il giorno dopo, guardarlo negli occhi, intubato, sofferente, speranzoso di tornarsene a casa, quasi riconoscente del duro lavoro che ha fatto il chirurgo, chiedendo se ce la faranno, affidandosi, senza sapere di avere di fronte un criminale volgare, un mostro vero, capace di ucciderli per un nuovo modello di auto sportiva, o per una vacanzuccia a Cortina, o in qualche paradiso dei Caraibi. Gente che ti strappa via un polmone sano per una cena con aragoste e champagne. O per un Rolex d’oro in più da sfoggiare in qualche festa.
E che dire del povero Adrian Kosmin, che forse era persino contento, lui regolare rumeno che faceva l’autotrasportatore per la piccola ditta dei due coniugi veronesi. Sarà stato felice di quante attenzioni riceveva, persino quella di una bella assicurazione contro gli infortuni e sulla vita. Brava gente quella che gli aveva dato lavoro. Gente che si preoccupava della sua incolumità: se stai per strada un incidente può sempre accaderti. E allora perché non fare una bella assicurazione a spese della piccola azienda. Che civiltà. Il povero Adrian, che aveva solo 28 anni, lo avrà detto alla madre, alla fidanzata, o alla sorella che era finito tra tutta brava gente. Che poi gli italiani ti aiutano, anche quando meno te lo aspetti. Ed era un bel gesto, corretto, serio, generoso. Mica poteva immaginarlo che i due lo invitano a casa, lo addormentano, lo ammazzano, e poi lo bruciano. E vogliono far passare tutto questo per un incidente, come degli idioti, non sapendo che le autopsie parlano chiaro, e uno che muore bruciato respira il fumo che poi finisce nei polmoni. Ma Adrian era già morto, non respirava più già da tempo e il fumo nei polmoni non c’era. Ed ecco che i due sono stati arrestati. Omicidio premeditato.
Sono le élites queste, imprenditori e medici, per di più del nord, sono le élites di questo Paese capaci di tutto questo orrore. Una nuova forma di cinismo e di crudeltà che lascia agghiacciati. E che nei due casi di ieri raggiunge il paradosso. Ma il cinismo gelido, l’indifferenza cattiva, il razzismo volgare, corre sul fondo. La vergogna non è più un sentimento che si prova, la lealtà, la correttezza, l’onestà non valgono più nulla. Il Paese della doppia morale, il Paese dell’intolleranza verso gli altri e dell’assoluta indulgenza verso le proprie colpe, da quelle piccole a quelle orribili, da ieri è sprofondato ancora più in basso. È colpa di tutti. Siamo tutti colpevoli, ognuno nella propria misura. Colpevoli di non essere riusciti a fare abbastanza, anche quando abbiamo provato a fare molto, contro il degrado culturale e sociale di questo paese. Che tristezza e che vergogna.
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 11.6.08
Ferrero: ricominciamo dai quartieri
Il Prc non archivi il comunismo
di Simone Collini


«Il punto non è unire la rappresentanza politica della sinistra ma fare opposizione alle politiche di destra»
«Falce e martello? Per costruire movimenti che cambino l’ordine delle cose c’è bisogno
di elementi simbolici»

PARLA tre quarti d’ora di una sconfitta «sottovalutata» e del fatto che «il problema oggi non è la costruzione di un nuovo centrosinistra», dell’errore commesso entrando nel governo Prodi «con i rapporti di forza a noi così sfavorevoli» e della necessità di
«ricostruire un’utilità sociale della sinistra», dell’operazione «politicista» dell’Arcobaleno che ora rischia di ripetersi col processo costituente proposto da Vendola, del comunismo che «non è una tendenza culturale ma una forza materiale», della pericolosità di «abbandonare i punti di riferimento tradizionali quando non se ne hanno altri con cui sostituirli». Poi fa un esempio, Paolo Ferrero, per difendere la sua proposta politica per il congresso di Rifondazione comunista: «La Chiesa cattolica, dopo aver perso i referendum su divorzio e aborto, ha ricominciato dagli oratori, non da Ruini», dice il valdese Ferrero. «Di fronte a una società che le ha detto “non ci rappresenti”, non si è arroccata, ha ricominciato su un altro terreno. A Ruini ci è arrivata. Dopo 30 anni. Ma ci è arrivata».
Bertinotti domani spiega quelle che per lui sono le ragioni della sconfitta. Lei che dice?
«Che non siamo riusciti a dimostrare l’utilità sociale della sinistra. La gente ha pensato che non servissimo a niente».
Motivo?
«I due anni di governo, il fatto che il Pd invece di applicare il programma concordato ha mediato su ogni punto con i poteri forti».
Sempre colpa del Pd, voi non avete sbagliato niente?
«Noi abbiamo sbagliato l’analisi del congresso di Venezia, e quando dico noi dico che io sono responsabile di questa sconfitta quanto Fausto Bertinotti e Franco Giordano».
Dov’è stato l’errore, porvi la questione del governo?
«L’errore è stato pensare che nonostante fossimo sconfitti nella società, potessimo nel cielo della politica fare un’operazione di costruzione del programma e di condizionamento dell’Ulivo. Siamo stati velleitari, pensavamo con una lametta da barba di riuscire a fare un buco in un muro d’acciaio. Il progetto è fallito e ha determinato la rottura del rapporto tra la sinistra e la società. Per questo ritengo sbagliato, come fa Fava, proporre una ricostruzione del centrosinistra».
Qual è allora la priorità oggi?
«Costruire una sinistra di alternativa che faccia fino in fondo i conti col suo radicamento sociale e la sua utilità sociale. Perché a questo punto dobbiamo dare una risposta a chi si domanda chi sono quelli di sinistra. Io dico che sono quelli che quando una famiglia è sotto sfratto vanno a fare picchetto, perché se non sono questo sono soltanto un pezzo di ceto politico che quando va al governo fa cose non così dissimili dagli altri e con un’utilità marginale rispetto agli altri».
Per superare questa marginalità non è meglio dar vita a un processo costituente, come propone Vendola?
«No perché è un’operazione politicista, dall’alto, proprio come la Sinistra arcobaleno. A chi dice che ci dobbiamo unire per non scomparire ricordo che noi ci siamo uniti e siamo scomparsi dal Parlamento. Ora vediamo di non scomparire anche dalla società. Anche perché il problema adesso non è serrare le fila e prepararci al voto tra cinque anni. La destra sta lavorando a smontare ulteriormente i legami sociali. Se vanno avanti così sul mondo del lavoro, sulla sicurezza, sull’uso delle emergenze per smontare l’ordinamento giudiziario, tra cinque anni ci saranno le basi per impedire politicamente, culturalmente e socialmente la possibilità di costruzione di una sinistra. Oggi dobbiamo fare opposizione alle politiche della destra con un lavoro capillare, costruendo case della sinistra in tutti i quartieri, per discutere non di come fare le liste per il mese dopo, ma di come si riesce a mettere assieme comitati e associazioni per costruire sul territorio vertenze, fare esperienze di mutualità».
Non si possono fare insieme, costituente e ricostruzione dell’utilità sociale?
«Primo, a seconda di dove si punta il riflettore si determinano particolari esiti. Secondo, tra di noi dobbiamo dirci con chiarezza se Rifondazione comunista serve per l’oggi e il domani o se è una forma politica e un progetto politico che deve andare a chiudersi. Perché per me il Prc è utile, per chi parla di costituente diventa dannosa per processi cosiddetti più avanzati».
Vendola e i sostenitori della sua mozione negano che vogliano sciogliere il partito.
«Nella mozione si parla di nuovo soggetto politico unitario. Che vuol dire? E poi si parla di costituente della sinistra, quindi non si chiama più comunista. Con due effetti. Il primo: apre lo spazio per una costituente comunista, e quindi divide e non unisce il campo della sinistra. Il secondo: si chiude l’ipotesi politica di fondo del Prc, che è quella di tenere assieme l’appartenenza a un filone politico, il comunismo inteso come idea della rivoluzione, di critica radicale al modo di produrre ricchezza, con l’innovazione. Comunismo e rifondazione, le due cose stanno assieme. Se parli di costituente di sinistra le separi, con l’innovazione che va da una parte, non si capisce bene dove, e il comunismo da un’altra, verso una caricatura».
Non è tempo di archiviare falce e martello?
«Io sono protestante e quindi tendenzialmente iconoclasta. Però l’idea che si possa aggregare chi subisce sfruttamento in assenza di punti di riferimento è priva di fondamento».

l’Unità 11.6.08
Dignità per i rom, dignità per tutti
di Dijana Pavlovic


Domenica 8 giugno a Roma c’è stata una manifestazione. Ma non era una delle tante e diverse che si sono svolte finora. Questa era la prima manifestazione, che io sappia, organizzata dai rom per i rom e questo mi ha fatto pensare all’inno del mio popolo intitolato: Upre Roma.
«Upre Roma» in lingua romanes vuol dire «Alzatevi Rom». Spesso la mia impotenza davanti ai troppi casi di diritti e libertà negati si trasformava in rabbia nei confronti del mio popolo che non ha mai reagito e mai alzato la testa in tanti secoli di discriminazione, esclusione, persecuzione fino allo sterminio. Come se subire fosse il nostro destino. Per questo la manifestazione dell’8 giugno, che è stata capace di mettere insieme i Rom con la parte sana della società che detesta e vuole reagire all’onda razzista che percorre l’Italia, non solo mi fa felice, ma ci restituisce un po’ di orgoglio, di dignità. Questo è quello che provano anche i Rom che hanno sfilato e che mi hanno telefonato, entusiasti, perché c’erano tantissime persone, perché non ci sono stati incidenti, perché ora si sentono meno soli.
Questa piccola comunità, i Rom che vivono in Italia (170.000 persone di cui 80.000 cittadini italiani e più della metà bambini), è riuscita ad avere uno scatto di orgoglio, nel momento in cui per loro vengono varate leggi speciali, anticostituzionali e discriminatorie, mentre il prefetto di Milano ordina un blitz alle cinque e mezzo di mattina in un campo di rom cittadini italiani, per schedare i Bezzecchi, una famiglia il cui capostipite è un superstite di un campo di concentramento italiano, il figlio è medaglia d’oro al valor civile e impegnato per la difesa dei diritti dei Rom.
Certo, è un piccolo passo, è solo una manifestazione. In altri paesi europei la partecipazione dei Rom nella politica e nella società è enorme rispetto all’Italia (nel mio Paese, la Serbia, per esempio, ci sono due partiti rom), ma questo per me è un passo importante. Mi sembra quasi di poter dire che la caccia allo «zingaro» scatenata negli ultimi tempi, oltre a conseguenze disastrose per i rom e l’imbarbarimento della società, abbia però prodotto un aspetto positivo: farci alzare la testa, insegnarci che anche noi abbiamo i diritti, come tutti gli altri cittadini, e come tali abbiamo il dovere di farli valere.
La consapevolezza di avere diritto al rispetto e alla dignità non aiuta solo i Rom in questo momento drammatico, ma aiuta tutti gli italiani: li fa sperare di poter diventare persone dignitose perché vivono in un paese civile, nel quale ciascuno, a qualunque etnia appartenga, si senta partecipe a pieno titolo e con pari dignità.

l’Unità 11.6.08
Il ritorno del picchiatore
di Fulvio Abbate


La mia profezia, purtroppo, si è avverata. La profezia in questione diceva esattamente così: con la vittoria elettorale della destra risorgerà lo spettro di Er Nerchia, un antico picchiatore neofascista degli anni Cinquanta-Sessanta, non sarà proprio lui a rimettersi al lavoro, a pattugliare le strade armato di mazza e ghigno, bensì i suoi molti eredi, coloro che reputano che la violenza e soprattutto l’arroganza siano un bene assoluto, un metodo di doverosa prassi quotidiana, da praticare appunto in nome dell’ordine, e dell’estro personale, come quando uno dice che gli stanno tutti antipatici.
Parlo delle aggressioni e delle molotov indirizzate ai rom, parlo dei pestaggi ai gay, parlo degli assalti ai ragazzi di sinistra e dei centri sociali, ma su tutto, molto al di là di questi picchi estremi, parlo del clima che si respira nel quotidiano, un brutto, merdoso clima che è possibile assaporare un po’ dovunque, perfino sotto casa, perfino da fermi. Inutile fare finta di niente, ma il nostro paese ama, tiene sempre nel cuore le insegne del fascismo, le ama perché il fascismo, con il suo bagaglio di certezze e di aggressività, di espressioni da fureria («tutti fuori dal cazzo!», tanto per dirne una, la più naturale), con il suo carico di rabbia coltivata come un segno di “distinzione” e di “buonsenso”, un sentimento che nasce dalla convinzione che sia finalmente giunta la resa dei conti. Anche a colpi di spranga. Con chi? Faccio subito un esempio banale. È dell’altro giorno un episodio che, sempre parlando del quotidiano, che è poi il termometro della qualità della vita e dei suoi livelli d’allarme, mi ha decisamente angosciato.
Sto facendo ritorno a casa in auto, sto anche cercando di scansare le altre vetture che non rispettano il diritto di precedenza, così come gli sportelli che si aprono all’improvviso, gli sportelli delle auto parcheggiate, beninteso, in seconda fila, ed è nel pieno di un tutti contro tutti che in corrispondenza di un passaggio pedonale intravedo una ragazza che spinge una carrozzina con un bambino. Bene, facendo del mio meglio, freno per consentire a questa persona di mettersi in salvo sul marciapiede opposto. Dunque freno, faccio soltanto il mio dovere civico memore di tutte le volte in cui mi sono trovato nella medesima situazione della mamma con carrozzina. Intendiamoci, nel mondo di oggi con siamo in molti a rispettare i diritti concessi dalla presenza delle strisce pedonali, infatti tutte le volte che ti fermi intuisci sempre qualcuno che sopraggiunge alle tue spalle, e quasi lo senti ringhiare contro il tuo rispetto del codice della strada, contro i diritti del passante, del pedone. A questo punto accade però che la mamma con carrozzina sta lì a guardarmi con odio furente, quanto basta perché io, tirando fuori la testa dal finestrino, le faccia notare che quel suo sguardo colmo di odio andrebbe riservato ad altri, «sì, signora, è inutile che guardi come, riservi a tutti quegli altri che non si fermano la sua rabbia». Un istante dopo, ecco che vedo sopraggiungere un uomo sui trent’anni (“faccia da fascista”) che prende a battere con i pugni contro la mia auto e ad insultarmi, cercando di insinuare una mia qualche responsabilità in tema di rispetto dei diritti offerti dal codice della strada, improvvisamente vedo insomma la mia posizione ribaltarsi, lo capisco dalla faccia (“da fascista”) dell’uomo che vorrebbe avermi fra le mani per fare, come dire?, “giustizia”, un istante appena ed eccomi lì come “capro espiatorio” di un mondo dove si sempre più fatica a intuire il rispetto reale per l’altro. Ovviamente, mi allontano, scelgo di mettere in salvo la pelle e il setto nasale, intanto però continuo a osservare dallo specchietto: vedo nuove minacce, vedo un gesto della mano che suona come minaccia ulteriore, un gesto che sa di amore per linciaggio, vedo ancora, a decine, le auto parcheggiate in seconda fila, vedo i poveri pedoni che inutilmente supplicano di non finire sotto la furia di chi brucia le strisce pedonali come non fossero, torno a casa e chiamo un’amica per raccontarle l’accaduto. Mi dice che la stessa cosa le è accaduta due giorni prima. Alla fine sogno di volare, sogno di non mettere più piede in un mondo che ignora la grazia, un mondo che dove il fascismo è un sentimento e uno strumento ritenuti, insieme alla violenza, molto civici.
f.abbate@tiscali.it

Corriere della Sera 11.6.08
In discussione Una confutazione di Emmanuel Le Roy Ladurie: ciò che oggi risulta falso ha avuto un senso profondo nei secoli passati
La verità al tempo delle streghe
Le credenze e il metodo storico: perché si può essere relativisti
di Quentin Skinner


Emmanuel Le Roy Ladurie nel saggio I contadini di Linguadoca (Laterza), riguardo all'insorgenza delle credenze sulla stregoneria nel periodo della Riforma, inizia sottolineando che quelle convinzioni dei contadini erano chiaramente false, ed erano poco più del prodotto di ciò che lui chiama un «delirio di massa». Per spiegare perché queste convinzioni siano state ampiamente condivise, dice Ladurie, ci serve un resoconto di ciò che può avere compromesso il processo di ragionamento e può aver fatto sì che, come lui dice, la coscienza dei contadini rompesse gli ormeggi. Afferma Ladurie che il problema sta in cosa causò l'insorgere di un simile oscurantismo e di una epidemia di convinzioni patologiche.
Il mio punto di vista è che seguire questo approccio è semplicemente fatale per la buona pratica storica, perché significa presumere che ogni volta che uno storico si trova di fronte a una convinzione che considera falsa, la spiegazione sarà sempre quella di una mancanza di razionalità. Ma questo significa identificare l'avere convinzioni razionali con l'avere convinzioni che lo storico considera vere. Si esclude pertanto la possibilità che, anche nel caso di convinzioni che oggi consideriamo chiaramente false, possano essere esistiti nel passato buoni motivi per considerarle vere.
Mi pare, in altre parole, che lo storico della cultura debba operare mantenendo ben separate la verità e la razionalità. La ragione sta nel fatto che, quando cerchiamo di spiegare convinzioni che consideriamo irrazionali, è allora — e non quando le giudichiamo false — che sorgono ulteriori problemi su come dare la migliore spiegazione. Mettere sullo stesso piano l'avere false convinzioni e la mancanza di razionalità è pertanto una preclusione di un tipo di spiegazione a spese di altre. Le cause per cui qualcuno segue quelle che sono considerate giuste norme di ragionamento saranno di ordine diverso dalle cause per cui tali norme sono violate. Ne consegue che non possiamo essere certi di identificare correttamente ciò che deve essere spiegato né, di conseguenza, impostare le nostre ricerche nella giusta direzione. Se si dimostra che esistevano basi razionali perché l'agente avesse tale convinzione, dovremo esaminare le condizioni di tale risultato. Se risultasse che avere tale convinzione non era molto razionale o era addirittura assurdo, dovremo esaminare il tipo di condizioni che possono avere impedito all'agente di seguire i canoni riconosciuti dell'evidenza e del ragionamento, o che forse hanno dato all'agente un motivo per sfidarli.
Per illustrare l'importanza di questi punti, riprendo il resoconto di Ladurie riguardo alle credenze sulla stregonerie ampiamente diffuse tra i contadini di Linguadoca. Egli non solo inizia facendo notare che queste convinzioni erano false, ma la sua spiegazione presuppone che sarebbe stato irrazionale non considerarle false. Ladurie presume che la falsità di queste credenze sia di per sé sufficiente per mostrare che non erano sostenute razionalmente. Operando su questo presupposto, si preclude ogni spazio per considerare un tipo di spiegazione storica diversa. Non può accettare il fatto che i contadini possano avere creduto all'esistenza delle streghe come conseguenza del loro avere tutta una serie di convinzioni a partire dalle quali si sarebbe potuti arrivare razionalmente a tale particolare conclusione. Per considerare soltanto la più semplice delle possibilità, supponiamo che i contadini avessero anche la convinzione — ampiamente accettata come razionale e quindi certa nell'Europa del XVI secolo — che la Bibbia sia la diretta parola di Dio. Se questa era una delle loro convinzioni, e se per loro era razionale abbracciarla, allora non credere nell'esistenza delle streghe sarebbe stato per loro il massimo dell'irrazionalità. Non solo, infatti, la Bibbia afferma che le streghe esistono, ma aggiunge che la stregoneria è un abominio e che non si può permettere alle streghe di vivere. Dichiarare di non credere all'esistenza delle streghe sarebbe equivalso a dichiarare di dubitare della credibilità della parola di Dio. Che cosa avrebbe potuto essere più irrazionale di questo? Ladurie esclude a priori la possibilità che coloro che credevano nelle streghe lo facessero come risultato dell'avere seguito una tale catena di ragionamento. Ma questo non significa solamente che lui avanza una spiegazione delle credenze magiche che, per quel che ne sa, può essere completamente irrilevante. Significa anche che ignora tutta una serie di interrogativi sul mondo mentale dei contadini a cui può essere indispensabile rispondere se si vogliono bene comprendere le loro convinzioni e il loro comportamento.
Lo storico può arrivare alla conclusione che, nonostante le credenze sulle streghe del secolo XVI fossero false, fosse assolutamente razionale considerarle vere a quel tempo. Un'altra possibile conclusione può essere quella per cui fosse razionale avere convinzioni con grado di probabilità anche piuttosto basso. Infine credo che lo storico non possa escludere di arrivare alla conclusione che le convinzioni in questione non solo erano false, ma che nemmeno a quel tempo esistevano ragioni sufficienti per considerarle vere.
L'essenza della mia argomentazione è quindi che quando uno storico della cultura vuole spiegare i sistemi di pensiero imperanti nelle società del passato, deve addirittura evitare di porsi domande sulla verità o falsità delle convinzioni che sta studiando. Ci si deve appellare al concetto di verità soltanto per domandarsi se i nostri antenati avessero ragioni sufficienti per considerare vero ciò che loro credevano che fosse vero.
So bene che chiunque si esprima in questo modo è destinato, prima o poi, ad essere biasimato (o encomiato) come relativista, quindi devo terminare spendendo qualche parola per spiegare se ho o meno adottato una posizione relativista. Per un verso, la mia argomentazione è ovviamente relativista. Ho relativizzato l'idea di «considerare vera» una certa convinzione. Come ho indicato, per i contadini di Linguadoca il credere all'esistenza di streghe alleate con il demonio poteva avere una base razionale, pur se ora tale convinzione non ci appare più razionalmente accettabile. Tutti gli storici della cultura devono essere relativisti in questo senso. Devono avere sempre presente che è possibile abbracciare una convinzione falsa in modo razionale.
È però un errore supporre che gli storici che adottano questa posizione stiano abbracciando una tesi di relativismo concettuale. Il relativismo concettuale afferma che la verità è semplicemente l'accettabilità razionale in una forma di vita. Ma non è questo ciò che ho sostenuto. Non ho asserito che fosse vero che in certo periodo siano esistite streghe alleate con il demonio. Ho semplicemente affermato che ci può essere stato un tempo in cui era razionale affermare che era vero che esistevano streghe alleate con il demonio, pur se ora tale convinzione ci appare falsa. Più in generale, mi sono limitato ad osservare che il problema di che cosa possiamo razionalmente considerare vero varia in base alla totalità delle nostre convinzioni. Non ho mai avanzato l'originale tesi che la stessa verità può variare allo stesso modo.
In altre parole, non sto dicendo che quando Tommaso d'Aquino affermava che il sole gira attorno alla terra, o quando Locke affermava che le pietre crescono, queste affermazioni erano vere per loro (come dicono i relativisti) pur se non sono vere per noi. Voglio dire che queste affermazioni non sono mai state vere. L'unico punto che ho sostenuto è che, per spiegare il loro mondo, dobbiamo accettare il fatto che loro possano avere avuto buoni motivi per ritenere vere molte convinzioni che a noi appaiono palesemente false. Ad esempio, che le pietre possano crescere.

Lo storico Quentin Skinner dell'Università di Cambridge, nato nel 1940, è uno dei massimi studiosi del pensiero politico moderno, in particolare di Hobbes e Machiavelli. Il testo pubblicato in questa pagina è una rielaborazione sintetica del discorso su «Verità e spiegazione della storia» da lui tenuto a un seminario organizzato dalla Fondazione Balzan.

Repubblica 11.6.08
Quelle donne assassinate
Un libro-denuncia che racconta un anno di "ordinaria" violenza
Trecento storie tutte vere
di Laura Lilli


Il 91,6 per cento degli stupri non viene denunciato e nonostante ci siano ormai ottime leggi ottenute dal femminismo la paura impedisce alle vittime di parlare
Tra le autrici Dacia Maraini, Elena Gianini Belotti, Lia Levi e Chiara Valentini
Permane nel nostro paese un inconscio collettivo arcaico maschilista

Eran trecento, ma non erano giovani e forti, come quelli della Spigolatrice di Sapri. Ma, come loro, sono morte. Morte, non morti. Erano donne, infatti, non uomini. E sono state uccise da violente mani maschili. Molte erano giovani come gli eroi di Sapri, alcune quasi bambine. Altre erano di mezza età e altre ancora anziane: una di 78 anni. Molte non erano attraenti. Le loro vite non avevano nulla di eroico, a parte gli eroismi quotidiani, invisibili per gli uomini, di cui è fatta l´esistenza femminile. Non avevano utopie, o straordinari progetti di vita. Nemmeno erano femministe. Semplicemente, qualcuno le aveva messe al mondo - spesso, ma non sempre, in circostanze disagiate - e vivevano: vite, a volte, anche banali o infelici. Molte sono morte nel senso fisico del termine: hanno smesso di respirare dopo essere state perseguitate, brutalizzate, stuprate, strangolate, accoltellate, uccise da pistole, martelli, bastoni, perfino da un lanciafiamme fabbricato in casa. Con accanimento, ferocia e furia difficilmente immaginabili tra esseri umani. Molte altre, invece (e chissà se non sia peggio) sono morte "dentro": divenute mentalmente inerti, come vegetali. Incapaci di sorridere, di progettare, di amare. Il loro devastato paesaggio interiore è lunare, privo di vita.
Le loro storie sono "fatti di cronaca", ripresi, mese per mese, in un prezioso libro che non ha precedenti e che non c´è dubbio presto diventerà un importante strumento di lavoro: Amorosi assassini/ Storie di violenze sulla donne, che sta per uscire da Laterza (pagg. 261, euro 16). Ne sono autrici tredici donne del gruppo femminista Controparola. Le notizie, ordinate cronologicamente mese per mese nel 2006, sono state riscritte - per ogni capitolo, una a turno in modo più esteso - e si leggono come brevi pezzi di narrativa noir.
Controparola, è composto, com´ è noto, da sole donne "di penna": narratrici e saggiste come Dacia Maraini, Elena Gianini Belotti, Lia Levi; giornaliste e saggiste come Chiara Valentini, Elena Doni, Maria Serena Palieri, Claudia Galimberti, Paola Gaglianone, Simona Tagliaventi, Cristiana di San Marzano, Francesca Sancin. E universitarie, ricercatrici, saggiste e collaboratrici di prestigiosi quotidiani come Mirella Serri o Marina Addis Saba. Il gruppo esiste da molti anni, e ha già pubblicato, nel 2001 un altro importante volume: Il Novecento delle Italiane/una storia ancora da raccontare (Editori Riuniti).
Trecento storie sono tante. Messe in fila - e non sgocciolate giorno per giorno in qualche pagina di cronaca, spesso locale - formano una massa imponente, che non può passare inosservata, suscitando semplici commenti di disapprovazione. Secondo Marx, ad un certo punto la quantità diventa qualità. E´ vero. Queste trecento storie di donne - si badi, un semplice campione, la punta di un iceberg, avverte l´introduzione - ci mettono di colpo davanti agli occhi un impressionante fenomeno sociale del nostro tempo, per il quale l´aggettivo "inquietante" non basta più. Ci vuole anche un giudizio di valore, come "mostruoso", "spregevole". Esso deve farci riflettere - e provocare risposte efficaci - non meno di grandi e drammatici temi sociali come la fame nel mondo, la pena di morte, i diritti civili, la tortura.
L´introduzione fornisce terrificanti cifre Istat. Nel 2006 sono 112 le donne uccise da un marito, un fidanzato o un "ex", che quasi mai accetta di esserlo, anche se vive con un´altra donna (uno addirittura, teneva segregata la moglie mentre viveva con una nuova compagna). Nello stesso anno, il Ministero dell´Interno ha registrato 4500 denunce di donne a polizia e carabinieri per violenze, abusi, aggressioni. E da un´altra ricerca Istat elaborata in cinque anni su 25.000 donne tra il 16 e i 70 anni, risulta che il 91,6% degli stupri non viene denunciato. E si va al 96% quando le aggressioni sono non sessuali: molestie nei luoghi di lavoro, stalking (persecuzione ossessiva, che oggi può essere aiutata da computer e cellulari), violenza psicologica, specie nel matrimonio (ingiurie, umiliazioni, minacce).
Perché le donne non parlano? In primo luogo per paura. Poi, per difficoltà familiari e anche - incredibile ma vero - per non danneggiare il persecutore. Del resto, spesso (non sempre) anche quando denunciano, non fa differenza, grazie a un´omertà maschile così forte e profonda da sembrare "naturale". Anni fa fece rumore il film Processo per stupro, in cui la donna che accusava finiva per essere l´accusata: lei "provocava", "ci stava", "se l´è voluta" etc. Oggi questo avviene in misura minore. E ci sono ottime leggi ottenute dal femminismo. Ma l´inconscio è lontano dalle leggi. Così le denunce si accumulano una sull´altra negli uffici di polizia…
Il 22 novembre 2005, all´alba, prima di entrare in fabbrica, la giovane Deborah, un´operaia del biellese viene uccisa con sette pugnalate e lasciata sull´asfalto. Si scoprirà che l´assassino, Emiliano Santangelo - che finirà per soffocarsi in carcere con un sacchetto di plastica - la perseguitava con molestie e violenze sessuali già da dieci anni, quando ancora era ragazzina. Lei ogni volta era andata al commissariato: ma le denunce erano restate lì. Tanto che l´allora ministro della giustizia Castelli, il 27 febbraio chiese ufficialmente scusa alla famiglia, e inviò ispettori del Ministero al tribunale di Biella per appurare se tutto il possibile fosse stato fatto per salvarla. Ora la famiglia vuol chiede un congruo risarcimento allo Stato.
La casistica è infinita, ed è anche uno specchio dell´Italia di oggi, sospesa fra tecnologia in continuo rinnovamento, leggi recenti e un inconscio collettivo arcaico. Ci sono figli che ammazzano la madre, educati come sono alla scuola della violenza paterna. C´è un impiegato di banca sposato con prole che, conosciuta e corteggiata chattando (!) un´adolescente di un´altra città, prende un giorno di ferie e, come dice il titolo di un famoso film, Va, (la stupra) l´ammazza e ritorna. C´è un prete stupratore "seriale": padre Fedele, al secolo Francesco Bisceglie, 69 anni, fondatore di una "Oasi di accoglienza francescana" in provincia di Cosenza, impegnato anche in missioni in Africa. Una suora lo accusa di averla violentata da sola e in gruppo, e una serie di intercettazioni le dà ragione (ecco a cosa servono!). Il frate violenta anche le collaboratrici volontarie e si fa spesso riprendere con belle giovani poco vestite, che afferma di aver "convertito". A lungo riempie le cronache dei giornali. Infine, il 23 gennaio 2006, finisce in galera.
Tante storie di donne-vittime ma anche di uomini-carnefici - molti dei quali esaltati, malati o disperati, poi finiscono per suicidarsi - ci parlano di una inquietante psiche maschile collettivamente malata. Forse dal femminismo molti uomini italiani, ricchi o poveri, colti e meno colti, hanno avuto uno choc paralizzante. Così, invece di ascoltarne le ragioni e provare ad adeguarvisi, si sono limitati a sentirsi vittime assetate di vendetta. Spossessati di un potere assoluto - quello sulla donna - che sentivano appartenergli per diritto di nascita, non hanno avuto la forza o la capacità di accettare la nuova realtà dei rapporti umani. Non caso, dice l´Istat, mentre gli omicidi in generale diminuiscono, quelli di donne aumentano. Perché questo sinistro primato dell´Italia in Europa? Un tentativo di risposta potrebbe trovarsi nella constatazione che l´Italia è il Paese in cui più diretta e intensa è l´eredità classica, con tutta la sua misoginia. Eredità viva ed ininterrotta fino ad oggi grazie alla Chiesa - anzi intensificata dopo la Controriforma. In ogni caso, c´è un enorme lavoro di rieducazione da fare, cominciando dai bambini piccoli, già alla scuola materna (nessuno è di nessuno, le persone non sono cose, la violenza è brutta, etc).
Un poco, il senso comune sta già cambiando: spesso sono i vicini di casa, sentendo grida eccezionali, ad avvertire polizia e carabinieri, riuscendo a evitare il peggio. Ci sono progetti al Ministero delle Pari Opportunità. Nel cosiddetto "Pacchetto sicurezza" è stata approvata la norma che concede il permesso di soggiorno alle immigrate che denuncino violenze subite in famiglia. E nella solita "bravissima" Spagna, già dal 2005 - in una situazione assai meno grave della nostra - esistono nuove leggi e strumenti, tra cui un "tribunale di genere".

Repubblica 11.6.08
La Curia di Nocera Inferiore: quel saggio deve andare al macero
E il vescovo censura il libro sull’Inquisizione
Nel volume sono riprodotti documenti su avvenimenti accaduti fra Sei e Settecento "Potrebbero scandalizzare il lettore", replica il prelato
di Adriano Prosperi


Al lettore normale, smarrito davanti all´abbondanza dei libri e in cerca di recensioni che lo aiutino a scegliere, diciamo subito che il libro di cui si parlerà qui non lo troverà in libreria né ora né - forse - mai. Ma il libro esiste, anche se forse non lo potremo leggere. Ne parliamo perché la sua vicenda riporta tra lettori annoiati da storie di censure più o meno inventate per ragioni di bottega il fantasma di una censura antica, che ha operato a lungo nel passato remoto e che credevamo scomparsa.
Si tratta di un libro di storia che racconta vicende accadute in un luogo d´Italia in un passato remoto, tra ´600 e ´700. Vi si incontrano persone e fatti di vita quotidiana, passati attraverso il filtro di carte processuali. C´è la storia di un uomo che aveva l´abitudine di bestemmiare la Trinità, la Madonna e san Michele Arcangelo, si rifiutava di andare in chiesa, non ascoltava le prediche; e c´è quella di un francescano che giocava a carte e quando perdeva prendeva a calci il crocifisso appeso nella sua cella; o quella di una ragazza che raccontò "con molto rossore" al vescovo e ai consultori dell´Inquisizione come si fosse trovata a confessarsi da preti che tentavano in molti modi di rubarle baci e di fare l´amore con lei.
Inquisizione: ecco la parola. Una istituzione ecclesiastica già molto temuta, che esplorava comportamenti e idee delle persone e i cui documenti sono stati ricercati e studiati dagli storici. Per molto tempo la ricerca storica ha dovuto scontrarsi col segreto imposto dagli archivi delle curie vescovili e dall´archivio del Sant´Uffizio romano, istituzione che da papa Paolo VI ricevette la nuova denominazione di Congregazione per la Dottrina della Fede.
Una svolta fondamentale si ebbe quando papa Giovanni Paolo II, preparando il giubileo del 2000 sotto il segno di una solenne "purificazione della memoria", volle l´apertura alla consultazione dell´archivio centrale dell´Inquisizione Romana. L´annuncio fu dato dall´allora cardinal Joseph Ratzinger il 22 gennaio 1998 nella sede dell´Accademia Nazionale dei Lincei. Ratzinger disse fra l´altro: «Sono sicuro che aprendo i nostri archivi si risponderà non solo alle legittime aspirazioni degli studiosi, ma anche alla ferma intenzione della Chiesa di servire l´uomo aiutandolo a capire se stesso leggendo senza pregiudizi la propria storia».
Da allora circola in questo settore di studi un nuovo fervore di interessi e di ricerche e un clima di collaborazione tra studiosi e archivisti ecclesiastici. Un´intesa tra lo Stato italiano e la Conferenza episcopale, del 2000, ha fissato una serie di punti sulla tutela e sull´apertura alla consultazione degli archivi di interesse storico appartenenti a istituzioni ed enti ecclesiastici che dovrebbe garantire sviluppi positivi alle indagini degli storici. Per quanto riguarda in particolare i fondi documentari relativi alla storia dell´Inquisizione, il loro censimento sul piano nazionale è in atto per opera di studiosi di grande e riconosciuta serietà scientifica. La ragione dell´interesse che oggi guida la maggior parte degli storici risiede non più in una volontà di polemica anticlericale ma nella ricerca di una storia più ricca e più viva. Dall´esplorazione di queste carte emergono migliaia e migliaia di volti umani, di pratiche, idee e sentimenti che attraverso il filtro del tribunale ecclesiastico dell´Inquisizione si sono calate in documenti scritti e si offrono oggi al lettore come un deposito di uno speciale tipo di archeologia: quella dei pensieri, delle pratiche, dell´economia morale di un popolo intero.
La ragione è semplice: quel tribunale, la cui segretezza ha alimentato un tempo fosche fantasie di sadica violenza, era un luogo che faceva parte della vita quotidiana anche dei piccoli centri. Lì era obbligatorio recarsi per denunziare la bestemmia del vicino, per riferire con vergogna e rossore la violenza subìta dal prete in confessione. Di tutto questo serbano memoria le carte degli archivi ecclesiastici. Su questa faccia nascosta della storia d´Italia, sulla folla di storie di vita che si sono sedimentate in quelle carte, da tempo stanno lavorando gli storici al solo scopo di capire, di restaurare una memoria meno lacunosa degli atti e dei sentimenti che hanno reso il nostro paese quello che è.
Ma ecco che in una cittadina italiana la cortina del segreto e la durezza delle intimazioni ecclesiastiche si sono levate di nuovo. Un libro scritto da una studiosa, Gaetana Mazza, su documenti dell´inquisizione conservati nell´archivio diocesano di Sarno, Curia diocesana di Nocera Inferiore, ha scatenato la furia di una entità che sembrerebbe un fantasma da operetta se non fosse reale: la censura ecclesiastica. All´autrice, che aveva inviato copia al vescovo della diocesi prima di mettere in distribuzione l´opera già stampata, è stato intimato di mandare al macero l´intero secondo volume dell´opera che riproduceva documenti d´archivio (definiti «testi di dubbia delicatezza, che potrebbero scandalizzare non poco il lettore») e di sottoporre il primo volume all´esame di una commissione ad hoc al fine di emendarlo secondo quello che le sarebbe stato imposto.
L´intimazione riporta in vita l´antico linguaggio e le abitudini della censura ecclesiastica - quella, per intenderci, dei tempi di Galileo. Ci sarebbe da credere a uno scherzo, se non fosse che quella intimazione è fatta a termini di norme concordatarie e sulla base della condizione degli archivi ecclesiastici che sono da considerarsi non pubblici anche se godono di finanziamenti statali. In quella intimazione si legge il senso di vergogna di una istituzione per i comportamenti del clero del passato e per una realtà antica di uso dei suoi poteri da cui non riesce a concepire la liberazione se non nella forma della cancellazione o segretazione dei documenti, insomma di un bavaglio agli storici. Vedremo presto se questo episodio è - come si potrebbe temere - un segno di ritorno all´antico o se è solo il riflesso condizionato di una cultura che non si è aggiornata alle intenzioni delle autorità centrali della Chiesa e alle parole solenni dell´allora cardinal Ratzinger. Basterà vedere se il libro contestato arriverà o meno in libreria.

Repubblica 11.6.08
La polemica sul documento di Artemidoro
Un papiro di pieno Ottocento
di Anna Ottani Cavina


Una serie di valutazioni storico-artistiche avvalorano la tesi secondo la quale quel reperto sarebbe un falso
Perplessità destano l´impaginazione per frammenti e lo scarto fra gli stili di alcune teste, stranamente presenti nella stessa bottega
Alcuni disegni rivelano un timbro arcaizzante (non arcaico) sulla scia di una ricerca neoprimitiva condotta fra diciottesimo e diciannovesimo secolo

Sul papiro di Artemidoro si è tenuta poche settimane fa a Bologna, nelle sale dell´Archiginnasio, una discussione serrata, rigorosa, avvincente, sui temi e sul metodo. Lontana dagli antagonismi che i giornali hanno enfatizzato nella sfida fra i duellanti (noti ormai anche al grande pubblico, Salvatore Settis e Luciano Canfora), la disputa ha coinvolto archeologi classici, egittologi, storici, filologi, storici dell´arte.
Sembrava un´università d´altri tempi, studenti attentissimi e conquistati, docenti impegnati a riflettere e a farsi capire, sullo sfondo di una philological fiction (l´affondo è di Carlo Ginzburg) che presenta alcuni nodi difficili, all´incrocio di varie discipline.
C´era un varco per intervenire sul versante delle immagini, fino ad ora toccato soltanto di striscio da un´analisi che ha privilegiato il testo, la lingua, le mappe geografiche, il cartonnage.
Le considerazioni che ho esposto in quella occasione avrebbero bisogno di spazi più ampi e sfumati. Servono comunque ad allargare il campo della discussione. Vertono sui disegni del recto, vale a dire sugli studi (pochissimi) di mani, di teste, di piedi presentati come «veri e propri esercizi di apprendistato eseguiti all´interno di una bottega» e datati al primo secolo d. C. in quella che viene raccontata come «la terza vita del papiro di Artemidoro» nell´Egitto greco-romano.
Dalla campionatura dei pochi disegni interposti nel testo emergono alcuni dati oggettivi, in primo luogo la qualità modesta degli studi, approssimati nella definizione anatomica (le mani), ridondanti, pieni di manierismi. Presentati nel catalogo di Torino come «disegni di squisita fattura», sono stati più tardi declassati (Settis, la Repubblica, 13 marzo) pur attribuendo loro un ruolo fondante per la conoscenza della grafica antica, di cui «non esistono confronti coevi rappresentativi» e nemmeno «riferimenti e informazioni nelle fonti letterarie» (pag. 473 della lussuosa edizione del Papiro appena pubblicata, 2008).
Risultano tuttavia sconcertanti sia l´impaginazione per frammenti (disegnati entro uno spazio libero, secondo tipologie che si codificano molto più tardi, come prova il confronto con le tavole settecentesche dell´Encyclopédie) che l´incongruità di alcuni gesti, difficilmente riconducibili alla gestualità classica.
Altro elemento di perplessità è lo scarto fra disegni descrittivi e veristi (quale la testa indicata come R2) e disegni abbreviati e di sintesi (la testa R 20): due stili diversi, lontani nei tempi e nei modi, stranamente presenti nello stesso momento e nella stessa bottega.
La contiguità di due stili (che attestano due culture, due forme di pensiero antitetiche prima ancora che due diverse soluzioni espressive) mette in crisi l´idea di esercitazioni condotte dalla stessa bottega su calchi di statue che, in un medesimo ambito, sarebbero state percepite in maniera tanto difforme.
È questo rapporto fra i disegni e la statuaria classica il punto debole di un ragionamento che a me pare discutibile negli accostamenti, in gran parte fisionomici, che gli autori del volume propongono con raffigurazioni antiche di Metrodoro, Epicuro, Saturno, Apollo ecc.
Sarà che, in tema di immagini, io frequento altri mondi e ho negli occhi il repertorio di secoli molto diversi, la tentazione è di introdurre una prospettiva per così dire capovolta.
La percezione dell´antichità, nelle teste disegnate sul papiro, rivela a mio parere un timbro arcaizzante (non arcaico) sulla scia di una ricerca neoprimitiva che dalla fine del Settecento percorre gran parte dell´Ottocento.
Fatte le debite proporzioni (perché le teste disegnate sul papiro sono infinitamente meno intelligenti e geniali), l´idea è quella di risalire agli archetipi, alle forme primarie dei prototipi classici. Una sorta di regressione alla ricerca di forme originarie che John Flaxman ad esempio attinge attraverso un processo altamente intellettuale, la cui suggestione persiste negli esercizi pedanti e banali che si vedono sul papiro.
L´ipotesi di una datazione molto più tarda di questi disegni, in pieno Ottocento, sarebbe confermata, a mio parere, anche da quella testa di profilo, anomala e accattivante, più vicina alla sensibilità moderna (R 20), chiusa da un segno compendiario e deciso (la linea della fronte e del naso) e da un contorno falcato (nella definizione della parte inferiore del volto) che richiama quel modo di trascrivere la realtà, in termini stilizzati e antinaturalistici, che avvicina il purismo di Ingres all´estetismo di Gustave Moreau e dei Preraffaelliti (non c´è lo spazio per produrre le immagini).
Che cosa vorrei dire in realtà? Che, se si tratta di un falso, lo si può facilmente datare in base a quegli elementi contemporanei che, come si sa, il falsario inevitabilmente ingloba e che, a distanza di anni, emergono con maggiore evidenza. Elementi che si leggono senza difficoltà, perché le lacune del papiro non compromettono la comprensione dell´immagine, colpita parrebbe da bombe intelligenti che girano intorno agli studi di teste (si è perduto - non è grave - un ricciolo, il lobo di un orecchio), senza mai centrare il cuore del disegno. Esattamente come accade alle righe del testo greco, che corrono talvolta intorno ai buchi del papiro secondo quella che è una prova classica di falsificazione (Canfora).
Si avverte una difficoltà, espressa da molti archeologi, a inserire nel puzzle del mondo antico un unicum che sconvolgerebbe la conoscenza dei suoi metodi di produzione artistica. È possibile volgere in positivo questo disagio. Procedendo per analogie piuttosto che per confronti letterali, a me sembra che la cultura dell´Ottocento (messa in campo anche da altri studiosi che contestano l´autenticità del papiro da versanti diversi) possa dare una risposta plausibile. Almeno fino a quando «il buco nero» (Settis) del disegno antico non sarà colmato da ritrovamenti compatibili.

Repubblica Firenze 11.6.08
Sesso, i ragazzini si confessano ma per il preservativo è allarme
di Ernesto Ferrara


I ragazzini e il sesso: iniziano presto ad avere rapporti, quello che sanno viene da internet. Incuranti dei rischi: «La prima volta è meglio senza preservativo». Ma Giuliano Zuccati del Centro malattie sessuali avverte: «E´ questa la vera emergenza».
"La prima volta nel letto dei miei". "Il domopak? Maschi bastardi, non ce l´hanno mai". "Non l´ho fatto ma vorrei..."
"Sesso? Io no ma mia cugina..." I ragazzini del si fa ma non si dice

«Ma te glielo fai usare il coso, il domopak? Si insomma, il preservativo?» «Mmm…» (sorride e arrossisce). «Ma come, non si copre? Che sei grulla? Vuoi un figliolo? Ti rovini!» «Mannò, lui esce prima! E poi mi fido...». Alessandra e Daniela hanno 13 e 14 anni, escono dal Brandy e Melville di via Cavour con due bustine-ine, quello è il tempio dell´abbigliamento teenager e loro hanno appena comprato le t-shirt più ricercate dell´estate. Sopra c´è scritto «Boys Bastard», le mostrano come un cimelio: «Vedi, i ragazzi sono tutti bastardi: che se ne fregano del preservativo, loro non lo comprano, glielo devo comprare io?», si chiede Daniela.
Poi spunta Giovanni, brufoli e polo verde, fa il liceo dagli Scolopi e accompagna l´amica del cuore Melania, che invece va al Dante: hanno 16 anni. «Preservativo io? Magari, sono vergine!», confessa. Ma come? Un ragazzo su tre fa sesso la prima volta tra i 12 e i 13 anni e lui ancora vergine a 16? «Sì sì, ma quest´estate mi impegno!», promette. Melania gli dà uno scappellotto e sceglie il silenzio stampa. Esce Sara, 15 anni, appena sente la parola «sesso» si mette a ridere e guarda le amiche che sono ancora dentro alla cassa, le chiama con gli occhi: «A quanti anni la prima volta? Mah, io non l´ho ancora fatto. Ma secondo me tredici è presto. Ecco magari la mia è l´età giusta. Però certo conosco una che...». Che? «Via sì, la mi´ cugina insomma, lei l´ha fatto in terza media». Con o senza? «E che ne so, mica gliel´ho chiesto!». Lo sai cos´è la sifilide? E l´herpes? «Dio bono, non sarà mica roba tipo Aids?». Mai andata al consultorio? «Per fortuna no perché non sono mai rimasta incinta!». Ma ne parli con la mamma di sesso? «No. Cioè, boh. No no», dice mentre si guarda intorno, come se qualcuno fosse lì a spiarla. Non parla volentieri, prende il cellulare e fa finta che le suoni per sgattaiolare, veloce, con le amiche.
Giovani, ingenui, spensierati. Hanno finito la scuola da tre giorni, ora guardano all´estate. Si fermano due minuti a leggere la ricerca che è su tutti i giornali e che li vorrebbe sessualmente precoci (un ragazzo su tre fa sesso prima dei 14 anni, mentre per il 50 per cento delle ragazzine la prima volta scatta tra i 14 e 16, dice l´ultimo rapporto della Società della Salute sui ragazzi fiorentini) e poco attenti alla prevenzione (uno su quattro non usa mai il condom, la metà o non lo usa o lo fa molto saltuariamente). Non parlano volentieri di sesso, nemmeno tra di loro. Ancora timorosi, intimiditi dal loro corpo, dalla paura di fallire: credono nella «prima volta», che sembra essere la prima grande prova della vita. Una ammette: «La prima volta l´ho fatto senza preservativo, volevo sentire tutto». Ma uno su tre ha malattie sessualmente trasmissibili. «Eh...», sospira. Sono nati negli anni Novanta e cresciuti in un mondo di corpi esibiti e di amplessi evocati, abituati fin da bambini a imbattersi nella pornografia virtuale della rete, figli di genitori rispettosi della loro libertà erotica ma in fuga davanti alle loro domande. Dice una mamma: «Cosa dovrei spiegare a mia figlia? Sa già tutto».
Un «tutto» che si vede alla tivù o si legge nei blog, quelli dove gli stessi adolescenti si fanno domande e si danno risposte, nascosti dietro all´anonimato dei nickname e degli avatar, alter ego virtuali che permettono di cancellare oltre al nome l´imbarazzo che, raccontano, si prova a parlare di «certe cose» anche con gli amici del cuore. Così, su forum cliccatissimi come Yahoo!Answers, c´è chi ammette di «averlo fatto senza preservativo», e si domanda quali rischi corra. E, quando a rispondere non sono medici o esperti ma, come nella maggior parte dei casi, coetanei, il verdetto è sempre quello: «Sei pazzo? Vuoi un figlio alla tua età?». Delle malattie si parla poco, pochissimo: il profilattico va usato per mettersi al riparo da gravidanze indesiderate.
E se il preservativo si rompe? «Sapresti cosa fare?», chiediamo a Luca, dicassettenne che racconta di avere rapporti con la sua ragazza da quando ne aveva 15, e di usare sempre il profilattico. «No, e in effetti non ne abbiamo mai parlato. So che esiste una pillola del giorno dopo, ma fortunatamente non ne abbiamo mai avuto bisogno». Mai pensato di andare a un consultorio, di parlare con un esperto? «Macché, non ne parliamo nemmeno tra di noi di certe cose».
Ma è più ganzo chi lo fa prima? Carlo, 16 anni, la prima volta l´ha fatto in casa, sul letto dei suoi, con Arianna, che ne ha 14 ed è ancora la fidanzata: «I preservativi ce li ho sempre in tasca, io vorrei farlo senza, ma lei non vuole». Potrebbe prendere la pillola. «Mi dice di no perché fa ingrassare», allarga le braccia. Elisa, a 17 anni, è ancora vergine, e alla sua «prima volta» ci crede tantissimo: sarà per «vero amore, e con la persona giusta». E´ certa che userà il preservativo, anche lei si è informata «su internet» e sa che «è necessario», e giura che, se lui non volesse, lei si rifiuterebbe di farlo. «Anche perché rimanere incinta a diciassette anni non è il massimo, no?».

Repubblica Firenze 11.6.08
Parla Giuliano Zuccati, responsabile del Centro malattie trasmesse sessualmente
"Giovani senza preservativo una vera emergenza"
"Il ticket di 18,36 è un ostacolo, la Regione dovrebbe prevedere un accesso gratuito alle visite"
di Simona Poli


«Adolescenti senza preservativo? Accidenti se questo è un problema. Secondo me è una vera emergenza di cui si dovrebbe parlare molto di più e in maniera seria, soprattutto a scuola. Si potrebbero prevenire molte delle malattie che ogni giorno mi trovo a curare». Chi parla è uno dei più accreditati esperti delle patologie legate alle abitudini sessuali, il dermatologo Giuliano Zuccati, da anni responsabile del centro Malattie Trasmesse Sessualmente di Santa Maria Nuova (la sede è in via della Pergola 64, aperta dalle 8 alle 13 senza appuntamento), uno dei quattro osservatori nazionali pubblici sul fenomeno insieme a quelli di Milano, Roma e Napoli. «Magari ne venissero di più di adolescenti a farsi controllare e consigliare», insiste Zuccati, che partecipa anche a corsi di educazione sessuale nelle scuole superiori. «Credo che l´ostacolo principale per i minorenni sia il ticket di 18,36 euro che qui si deve pagare per la visita, la Regione dovrebbe prevedere un accesso gratuito per i giovanissimi». Dal centro Mts passano mediamente dodicimila persone l´anno. «Quelle veramente malate sono circa 1.500», racconta il medico, «ma da qualche anno stiamo rivedendo patologie che sembravano ormai scomparse, come sifilide, linfogranuloma venereo, gonorrea. E sono in crescita anche herpes genitale e clamidia». Grandissima la varietà dei pazienti veri o presunti: «Vedo persone di ogni razza ed età, prostitute e prostituti, donne incinta e transessuali, il mondo è grande». L´entusiasmo con cui Zuccati continua a fare il suo lavoro non gli impedisce di lanciare un allarme sulle cosiddette "malattie riemergenti" che colpiscono in particolar modo tra i 20 e i 35 anni, quando si cambiano più partner. «Nel 2007 solo qui ho avuto cento casi di sifilide, anche in donne incinta che non proteggevano i rapporti in gravidanza e rischiavano di passare la malattia al neonato. E poi vedo ricomparire il linfogranuloma venereo, che si presenta anche in una nuova varietà clinica negli omosessuali. Si manifesta con ulcerazioni anali, dimagrimento, febbre. Negli etero invece con bubboni sui genitali esterni».
Tra i 1500 malati che il centro assiste «circa settecento hanno condilomi dovuti a virus hpv (human papilloma virus), che sono ad alto o basso potere oncogeno», dice Zuccati. «Dal 50 all´80 per cento della popolazione sessualmente attiva si infetta con uno di questi virus e il 50 per cento provoca il carcinoma della cervice uterina, cioè il secondo tumore delle donne dopo quello alla mammella. Quindi la prevenzione sessuale è di un´importanza vitale, il preservativo indispensabile. E i vaccini bivalenti che fanno ora alle ragazzine e che la Regione ha scelto proteggono dall´hpv 16 e 18, quelli a più alto rischio oncogeno, ma non dal 6 e dall´11, che danno condilomi e che sono coperti dal più costoso vaccino quadrivalente. Purtroppo anche l´Aids non si ferma: l´anno scorso ho avuto due nuovi casi al mese, quasi tutti omosessuali passivi».

il manifesto 10.6.08
Obiettivo lavoro per la sinistra
di Alfonso Gianni


Che cosa e a chi può importare il prossimo congresso di Rifondazione comunista? Così si interrogava Rossana Rossanda lo scorso 17 maggio su questo giornale, al termine di una sferzante disamina dei guai della sinistra dopo la disfatta elettorale. Poco e a pochi, diventa inevitabilmente la risposta se quel congresso dovesse risolversi in uno straziante martirologio con annessi cospargimenti di cenere sul capo degli astanti. Molto e a tanti, se invece quel congresso, incastonato peraltro in un fitto calendario di appuntamenti similari delle altre forze dell'ex Sinistra Arcobaleno, riuscisse a aprirsi a tutti coloro che non rinunciano a progettare un'alternativa e se si concentrasse sui temi che afferiscono al compito prevalente che abbiamo di fronte, la ricostruzione di una sinistra, e quindi di un'opposizione sociale e politica, nel nostro paese.
Perché questo accada sono necessarie alcune condizioni. La più elementare, è evitare la presunzione di pensare di potere decidere in un congresso di un solo partito per una sinistra che, per quanto mortificata e scompaginata dal tonfo del 13 e 14 aprile, non si esaurisce nelle file degli iscritti al Prc. Che Rifondazione sia la maggiore tra le forze in campo nella sinistra, che il suo contributo, malgrado le pesantissime defezioni del proprio elettorato, all'esisto meno che modesto del voto di Sa, sia stato di gran lunga il più consistente, è fuori di dubbio, come pure il fatto che gli iscritti, fintanto che non ci si inventi una nuova formula per stabilire gli ambiti della sovranità in un'organizzazione politica, hanno il pieno diritto di decidere il destino del loro partito. Ma il modo più alto per valorizzare il congresso di Rifondazione è concepirlo e praticarlo come un momento essenziale di una più generale discussione che coinvolge la sinistra diffusa. Il che è già un modo per praticare l'idea di una costituente di sinistra. Questo esito non dipende solo da noi, deriva anche dalla capacità di chi è fuori dagli attuali confini del Prc, ma non è estraneo alla sofferenza di tutta la sinistra, di interloquire nell'ordine e nel merito dei problemi senza indulgere al tifo.
E' quello che fa Rossanda quando ci ripropone il tema della solitudine del lavoro dipendente precario o perduto. Su questo tema dovevamo caratterizzare il nostro ruolo di governo, su questo abbiamo mancato e perciò siamo stati sconfitti. Eppure i segnali dall'elettorato, oltre che dalle lotte di fabbrica per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, erano giunti e copiosi. Ricordo come, pochi mesi dopo la nascita del governo Prodi, un giornale riportasse che la maggioranza degli intervistati era contenta che si agisse contro la precarietà. Tanto il tema era e è al centro dell'attenzione che il popolo della sinistra era spinto a scambiare i propri desideri con la realtà. Quando poi la distanza tra gli uni e l'altra è divenuta palese, in particolare dopo il fatale luglio, la sconfitta per la sinistra è diventata inevitabile, la collera popolare si è rivolta in primo luogo contro chi aveva sollevato il problema senza risolverlo.
Ancora oggi, un'inchiesta su un buon campione di elettori ci dice che un quarto degli stessi avrebbe voluto che si fosse parlato del lavoro in campagna elettorale. Del lavoro, si badi bene, non solo del reddito insufficiente. Del lavoro che non c'è, dunque, del modo con cui è organizzato quello che c'è, di quanto poco è pagato, della durezza della vita e della giornata lavorativa, dei rischi mortali che porta con sé, del tempo crescente che occupa nella vita delle persone a onta del posto miserabile che invece assume nella scala dei valori in questa società, cui viene contrapposto il mito del successo, non importa come, fonte inesauribile di ogni atomizzazione sociale.
La paura del futuro, la madre di tutte le paure, nasce da qui. Lo sa bene il capitale che ha deciso di sfruttare questa terribile incertezza con la sua mercatizzazione, con i future di Borsa così come con il dilagare del gioco d'azzardo istituzionalizzato. Alla sinistra non basta dire che la fine del lavoro è una sciocchezza (cosa che il Prc ha sempre fatto), né che il lavoro è cambiato. Tutto cambia, ma è decisivo il quanto e il come, il segno prevalente che assumono i processi. Su questo in primo luogo la sinistra deve produrre senso, anziché rincorrere l'identità smarrita.

La Stampa Tuttoscienze 11.6.08
Le staminali contro l’infertilità
di Giuseppe Testa


Secondo una teoria del XVII secolo, l’ovaio di Eva conteneva in miniatura, uno dentro l’altro a mo’ di matrioske, tutti gli individui. Un’immagine ingegnosa per spiegare la trasmissione della vita. Ora le matrioske hanno lasciato il campo a cellule particolarissime, gli spermatozoi e gli oociti (i gameti), ma resta intatta la fascinazione per il processo che rende queste cellule capaci di svolgere la storia delle specie. Il progresso nella comprensione dei comportamenti cellulari aumenta esponenzialmente quando si è in grado di studiare queste cellule in vitro, riproducendone non solo la crescita ma anche il funzionamento e il differenziamento. Ecco perché molti laboratori hanno cercato di coltivare al di fuori dell’organismo i precursori degli spermatozoi e degli oociti, riproducendo il graduale sviluppo che rende queste cellule competenti per la riproduzione. La maggior parte degli esperimenti è avvenuta nel topo, ma anche in questo organismo, e a maggior ragione nell’uomo, la difficoltà nel procurarsi queste cellule ha reso il progresso difficile. Recentemente, però, la convergenza di due sviluppi tecnologici ha impresso una svolta, tanto da stimolare la convocazione di un meeting del «Gruppo di Hinxton», che raccoglie da vari Paesi i principali scienziati e bioeticisti che si occupano di staminali e delle loro implicazioni sociali.
Il primo di questi sviluppi consiste nella capacità di riprodurre in vitro, a partire da cellule staminali embrionali, buona parte dello sviluppo dei gameti. Naturalmente per dire che un gamete è funzionante l’unico test è usare queste cellule nella fecondazione in vitro e vedere se danno origine a un embrione normale. La conferma di funzionalità non è stata ancora raggiunta, ma la disponibilità di un sistema di coltura lasciava già intravedere la prospettiva di ottenere gameti pienamente funzionanti dalle staminali embrionali.
Rimaneva però il problema dell’applicazione all’uomo: non solo la ricerca sulle staminali embrionali umane è limitata, ma anche nelle legislazioni più permissive la disponibilità di embrioni umani rappresenta un significativo ostacolo. Ed è qui che si innesta il secondo sviluppo: consiste nella possibilità di ottenere, nel topo e nell’uomo, cellule staminali pluripotenti da cellule della cute mediante l’attivazione di pochi geni. Queste cellule pluripotenti sono simili per alcune caratteristiche alle staminali embrionali e possono quindi essere differenziate in tutti i tipi cellulari, inclusi i gameti. Il vantaggio, però, consiste nella facilità con cui si possono ottenere, svincolando il procedimento dagli embrioni umani prodotti tramite fecondazione in vitro.
Il gruppo di Hinxton si è riunito per affrontare le implicazioni sociali ed etiche di questa ricerca. Il rapporto è stato unanime nel prevedere che nei prossimi 5-15 anni sarà possibile derivare parzialmente o totalmente in vitro spermatozoi e oociti umani a partire dalle staminali pluripotenti, che si possono a loro volta generare dalla pelle. Quali le conseguenze?
Le prime saranno sulla riproduzione assistita. Si aprirà una finestra di conoscenza sulle prime fasi dello sviluppo embrionale e, così, è facile attendersi un passo avanti per comprendere l’infertilità. Ed è altrettanto prevedibile che questi gameti derivati potranno essere usati per sopperire all’infertilità. Altre potenziali applicazioni, però, accentueranno l’irriducibile pluralismo etico che caratterizza le società nell’incontro con la biotecnologia. La disponibilità di gameti in vitro potrebbe facilitare sia la selezione genetica degli embrioni che la modificazione del loro patrimonio genetico.
Il Gruppo di Hinxton ha quindi stilato un documento per stimolare il dibattito e l’azione politica http://www.hinxtongroup.org). Si definisce una «road-map» di procedure sperimentali e approfondimenti etici che dovranno essere completati prima di qualsiasi applicazione. E quindi si invita alla cautela, evitando interventi legislativi che ostacolino l’intero ambito della ricerca. I divieti ad ampio spettro svuotano di senso lo stesso strumento giuridico. Altra cosa è invece un attento regime di regolazione, che indirizzi l’evoluzione sia della scienza sia della società, oltre alle nostre concezioni dell’essere genitori.