venerdì 13 giugno 2008

tg3 delle ore 19 del 12 giugno 2008



clip ricevuta da Annalina Ferrante
l’Unità 13.5.08
Bertinotti torna. E trova la mano tesa dei dalemiani
Latorre: guardiamo con attenzione all’esito del vostro congresso. Per noi non sarà ininfluente
di Simone Collini


PRIMA DI ANDAR VIA, Nicola Latorre si avvicina al tavolo della presidenza per salutare con una stretta di mano Fausto Bertinotti. «Ci sentiamo?», gli chiede l’ex presidente della Camera dopo i classici baci sulle guance. «Certo», gli assicura il vicecapogruppo
del Partito democratico al Senato. Il giorno della rentrée politica di Bertinotti viene anche esplicitamente alla luce l’asse che è andato costruendosi nelle ultime settimane, almeno da quando Massimo D’Alema ha definito un errore l’autosufficienza e sottolineato che la sinistra radicale è scomparsa dal Parlamento ma non dal Paese.
Bertinotti apre i lavori di una lunga giornata di studio promossa dalla rivista «Alternative per il socialismo» al centro congressi Frentani con un allarme sul «regime leggero» che si sta consolidando in Italia, su un Parlamento che «si presenta ora come luogo non già della rappresentanza ma della governabilità», su una Repubblica che questa «nuova destra» vorrebbe «a-fascista e quindi a-antifascista, senza radici e senza storia». Dice che c’è stata «una sottovalutazione difficilmente spiegabile» del discorso di Fini ad avvio legislatura, «un discorso che mi è sembrato del presidente della Camera di un’altra Repubblica, in cui cade il fondamento della prima Repubblica, che è anche la radice della nostra Costituzione, e cioè la discriminante antifascista». Non manca un’autocritica sull’ingresso nel governo Prodi («quel programma di 280 pagine è stato il vizio d’origine, è stata un’illusione pensare che potesse costituire un manuale per trovare soluzioni a pagina tot») e anche sull’operazione della Sinistra arcobaleno: «Ha pesato l’improvvisazione e l’assemblaggio di forze che non si sono messe in gioco». Bertinotti è però convinto che si debba insistere sulla strada della costituente di sinistra. Ma invece di partecipare ai congressi di circolo del Prc per sostenere la mozione Vendola (che pure ha firmato) farà la sua parte dando vita a una fondazione che si dedicherà ad attività di analisi sociale ma anche di formazione politica. E che lavorerà in sinergia con Italianieuropei. Non a caso.
L’area di Rifondazione che fa capo alla mozione Vendola giudica un errore applicare una teoria dei due tempi come quella prospettata dai sostenitori della mozione Ferrero-Grassi (convinti che per i prossimi due, tre anni sia necessario concentrarsi sul reinsediamento sociale, trascurando invece il lavoro politico). Anche perché il timore di Franco Giordano e degli altri dell’ex maggioranza Prc è che da qui a un paio d’anni la capacità di rappresentanza della sinistra subisca ulteriori colpi, a cominciare dalla modifica della legge elettorale per le europee. La sponda politica per evitare questo rischio è stata offerta dalla parte del Pd che più nettamente si è espressa contro il bipartitismo. Colloqui nei giorni scorsi ci sono stati tra D’Alema e Bertinotti, tra Bersani e Giordano, tra Vendola e Latorre.
È lo stesso vicecapogruppo del Pd al Senato a far venire alla luce l’asse, accettando l’invito a partecipare ai lavori (arriva anche Goffredo Bettini, ma dopo non molto va via) e pronunciando un intervento chiaro: «La separazione consensuale era un’esigenza tattica necessaria, ma sarebbe un errore considerarla una scelta strategica». Cioè, «la semplificazione emersa dal voto non può essere interpretata come un incoraggiamento al bipartitismo», anche perché se la stagione dell’Unione si è «esaurita», l’autosufficienza non può essere la soluzione: «Si tratta di ripartire per misurare i margini per un rilancio di una strategia delle alleanze». Anche Bersani, dopo aver terminato un incontro per il governo ombra del Pd, manda un chiaro segnale venendo a salutare Bertinotti e gli altri. E se Latorre dice «guardiamo con attenzione» all’esito del congresso del Prc perché questo «non sarà ininfluente rispetto alla prospettiva politica del paese», a sua volta il candidato segretario Vendola fa sapere che «la riflessione che si è aperta all’interno del Pd non ci lascia indifferenti».

Corriere della Sera 13.6.08
E Latorre «benedice» Vendola: è il mio capo corrente. Guardiamo con attenzione al congresso del Prc
Bertinotti va all'attacco di Fini: c'è un clima da regime leggero
di Andrea Garibaldi


In questo modo si costruisce una Repubblica senza storia, con una memoria condivisa perché non c'è più memoria

ROMA — La sinistra colpita e affondata esattamente due mesi fa, si muove, non sa bene verso dove. Rifondazione comunista riflette su «Le ragioni di una sconfitta», nel sottosuolo del centro congressi Cgil, via dei Frentani. Convitato di pietra, il Partito democratico, anch'esso in subbuglio. In sala, per conto di Veltroni, c'è Goffredo Bettini, che sonnecchia mentre Bertinotti seziona gli ultimi due anni mesti. Per conto di D'Alema, presenti Latorre e Bersani, incaricati di recuperare un rapporto con chi è scomparso dal Parlamento. Bersani tace. Latorre prima va da Nichi Vendola, con una battuta: «Saluto il mio capo corrente...». Poi, parla: «La separazione fra Pd e sinistra è stata un'esigenza tattica inevitabile, sarebbe un errore considerarla scelta strategica. Misuriamo adesso i margini per il rilancio delle alleanze». E conclude: «Guardiamo con attenzione al congresso di Rifondazione ». Dove il candidato segretario preferito dal Pd è Vendola e non è l'ex ministro Ferrero. Lo stesso Vendola, poco prima, aveva fatto intendere che con l'attuale gestione del Pd poco c'è da spartire: «Per me Veltroni e Berlusconi pari sono. Oggi il Pd propone solo l'organizzazione intelligente del consumo».
Era stato Bertinotti a mettere ordine negli eventi. Discorso di ottanta minuti, da teorico, non più politico attivo. Innanzitutto, la nuova destra al governo: «Ha una presa, su questa modernizzazione senza modernità, superiore a quella degli avversari. Destra pragmatica, de-ideologizzata, non più fascista». Ciò che si configura è «un regime leggero, caratterizzato dalla "a" privativa: a-fascista perché a-antifascista». Si costruisce «una Repubblica senza storia, con una memoria condivisa perché non c'è più memoria ». Simbolo e avvio di tutto questo, il discorso di Fini, neo presidente della Camera, in apertura di legislatura. Poi, ci sono le ragioni della sconfitta: «La partecipazione della sinistra al governo Prodi è ciò che ha fatto traboccare il vaso». Qui si è consumata «la scissione silenziosa della sinistra dal suo popolo». Due fattori micidiali: il governo «non ha realizzato la riforma sociale» ed è stato investito «dall'antipolitica e dalla reazione dei poteri forti». Ecco l'elenco degli errori: le oltre duecento pagine del programma, «che erano solo un manuale, senza la definizione dell'Italia che volevamo consegnare a legislatura conclusa »; la prima, pesantissima, Finanziaria; le questioni sociali, pensioni, precarietà, perdita del potere di acquisto dei salari, male affrontate. Alla fine, la costituzione della Sinistra- Arcobaleno in modo improvvisato, «assemblamento di forze diverse che non si sono messe in gioco»; la composizione delle liste. In platea, protagonisti della sinistra come Occhetto, Fava, Salvi, Curzi, Cento, D'Elia e anche amici personali: il mondano Mario D'Urso, l'attrice Franca Valeri, lo psichiatra Fagioli. Bertinotti pone a tutti domande su cui cercare risposta: «Perché ci sono lavoratori che criticano gli accordi sindacali da sinistra, che prendono la tessera Fiom e poi votano Lega? Perché un operaio su tre a Melfi consuma cocaina?». La parola più usata da Bertinotti è «devastazione», per descrivere un mondo che demolisce antichi riferimenti. Su come affrontare il futuro, niente.
Cosa accadrà? Rifondazione va a un duro congresso, fine luglio. Vendola versus Ferrero, nessuno ha la maggioranza in tasca. Alla resa dei conti, prima, anche Comunisti italiani, Sinistra democratica, Verdi: 4 congressi, dodici linee diverse. Isole in movimento, difficile prevedere cosa costruiranno.

Repubblica 13.6.08
In sala gli "osservatori" del Pd Bersani e Bettini. E Latorre: andare da soli fu tattica, non strategia
Bertinotti e il ko della sinistra "Con Prodi è traboccato il vaso"
Ferrero: per risorgere dovremo imitare le strategie della Chiesa e dell’Esercito
di Umberto Rosso


ROMA - In prima fila anche gli amici personali, quelli non del giro stretto della sinistra. L´attrice Franca Valeri, serissima. Il bon vivant Mario D´Urso, ex sottosegretario, affabile come al solito. Lo psicanalista Massimo Fagioli e una piccola corte di "fagiolini", metti Ilaria Bonaccorsi che poi va a raccontarsi alla tribuna (ricercatrice precaria ma anche moglie di Ivan Gardini). Ma il ritorno sulla scena di Fausto Bertinotti, esauriti sorrisi e incoraggiamenti privati, fa presto a diventare evento politico. Autocritica sulla partecipazione al governo Prodi, «un fallimento», e proprio questa esperienza «è ciò che ha fatto traboccare il vaso della crisi della sinistra». Il partito di lotta e di governo - dice Bertinotti nell´intervento che ieri era stato anticipato da Repubblica - non ha retto alla prova, e forse in tutta Europa oggi non c´è più spazio per una sinistra di governo.
Ai Frentani, il centro della Cgil dove l´ex presidente della Camera snocciola le ragioni della sconfitta elettorale, D´Alema non si vede ma ecco che si presenta l´alter ego Pierluigi Bersani, "sponda" dei bertinottiani al loft. All´insegna dello slogan che l´ex ministro ripete, «l´autosufficienza del Pd non basta». E arriva, Bersani, a fornire autorevole imprimatur alla mano tesa pubblicamente offerta da Nicola Latorre. La spaccatura elettorale fra Pd e Prc, spiega il vicecapogruppo del Senato, è stata «una scelta consensuale tattica e non strategica». Però datevi una mossa se no, avverte "l´inviato" dalemiano non appena si ritrova a tu per tu con Vendola, finisce che la sinistra «la rapppresentiamo noi». Con attacco a Veltroni: «Il bipartitismo non funziona nel nostro paese». Goffredo Bettini, osservatore del segretario del Pd, invece frena sul rilancio dei dalemiani. «Rispetto al tema delle alleanze - dice il coordinatore dei democratici, che lascia anzitempo il seminario per lo scambio delle consegne alla Festa del cinema con Gianluigi Rondi - io sono per darsi tempo, per valutare bene». Così pure se Bertinotti, nel suo quaderno dei dolori della sinistra che apre per la prima volta, vola alto e volutamente non mette i piedi nel piatto, nodo delle alleanze e "che fare" del Prc attraversano inevitabilmente la giornata. Sul fronte della battaglia congressuale, parte un messaggio. Secco. Adombrato nella relazione dell´ex presidente della Camera, ripreso dall´ex segretario Giordano: abbiamo rinnovato il modello culturale del nostro partito ora tocca all´organizzazione interna. In sostanza: «Le correnti vanno sciolte, e se vinciamo noi lo faremo». Siluro che viaggia verso il controconvegno promosso al Pigneto da Paolo Ferrero, capo del cartello anti-bertinottiano, che però nella guerra dei numeri è certo di avere dalla sua la maggioranza nel partito. Le aperture dei dalemiani? «Latorre sottovaluta la sconfitta», commenta l´ex ministro della Solidarietà, che come esempi di reazione alle sconfitte sociali cita la Chiesa e l´Esercito. Il leader del Pdci Diliberto invece celebra a Livorno, con l´area dell´Ernesto del Prc, la propria parte di autocoscienza. Si riapre dunque la questione del Pd, che il seminario naturalmente sogna "develtronizzato", «l´infernale macchina del voto utile» come la chiama Achille Occhetto (parafrasando la sua «gioiosa macchina di guerra»), parlando ai tanti compagni "ritrovati" che lo ascoltano (Reichlin, Tortorella, Parlato, Borgna, Tronti). Nichi Vendola ci spera: «Nel Pd si sono aperte le contraddizioni. Non le sottovalutiamo. Anzi, è un bene».

il Riformista 13.6.08
Bertinotti torna e analizza la sconfitta
I dalemiani e Fausto: che errore separarci, riproviamoci
di Alessandro De Angelis


La sconfitta fa ancora male, anzi malissimo. E ci vuole più di un'ora di discorso prima che Fausto Bertinotti pronunci in modo tondo la parola «noi». Prima vola alto, altissimo l'ex leader di Rifondazione al suo rientro in pubblico in occasione del seminario su «Le ragioni della sconfitta» promosso dalla sua rivista Alternative per il socialismo . Ha il tono distaccato dello studioso. Parla dell'Arcobaleno come altro da sé. La sinistra è fuori dal Parlamento ma lui sembra scegliere di non indicare la rotta. O meglio, la indica tra le righe dell'analisi: «Non si può proseguire a luci spente. Dalla condivisione dell'analisi dipenderà la capacità di costruire un futuro». Sa che non è più il leader. Per lui, oltre alla rivista, ci sarà la presidenza di una Fondazione. Il fedelissimo Alfonso Gianni sta già preparando le carte: sarà un pensatoio di carattere economico-sociale, molto incentrato sui temi del lavoro. Un ruolo di primo piano lo avrà il giuslavorista Piergiovanni Alleva, autore della piattaforma sul welfare su cui la Cosa rossa si sarebbe dovuta presentare alla verifica di governo di gennaio. Ma per l'atto di nascita bisogna aspettare l'autunno, quando si capirà quale sarà il destino di Rifondazione.
Per ora c'è un congresso in corso delicato, anzi delicatissimo. E Bertinotti è attento a non turbare gli equilibri interni. Parla di un regime soft: «Tra governo e governo ombra c'è un unico discorso in cui cambiano le nuances, ma manca una narrazione alternativa, una opposizione». È l'unico affondo al Pd: «Non possiamo fare l'autocritica degli altri» dice. Non nomina mai il «voto utile» o Veltroni. Il messaggio è: abbiamo fallito tutti, da qui si riparte. Nel suo intervento, il più atteso, il plenipotenziario di D'Alema, Nicola Latorre, raccoglie l'assist tendendo la mano alla sinistra extraparlamentare: «Come diceva Ingrao - afferma Latorre - la democrazia ha bisogno di tenere assieme la rappresentanza e la decisione. La strategia dell'Unione si è esaurita. Ma se la separazione consensuale tra noi è stata, forse, un'esigenza tattica sarebbe un errore considerarla una scelta strategica. Ora si tratta di aprire una discussione nel paese per rilanciare le alleanze». Ma i dalemiani non hanno rinunciato nemmeno al modello tedesco, graditissimo dalle parti di Rifondazione: «Non è vero - prosegue Latorre - che gli elettori hanno fatto ciò che la politica non è stata in grado di fare. L'assetto istituzionale è un problema aperto e la semplificazione non significa bipartitismo». Bettini ha già lasciato la sala in silenzio. Bertinotti e Latorre si abbracciano mostrandosi a telecamere e fotografi: l'asse con D'Alema, dopo mesi di contatti, esce dalla clandestinità. Arriva anche Bersani, «per un saluto». Obiettivo: un centrosinistra di nuovo conio.
Ieri Fausto ha anche dovuto riconquistare una sala ancora tramortita. In attonito silenzio ci sono tutti: da Fava a Cento, da Occhetto a Salvi, oltre a Migliore, Gianni, Giordano. La sconfitta brucia, ma Bertinotti, dopo un'ora, ci mette la faccia. E l'analisi post elettorale diventa autocritica, su tutto, dal governo all'Arcobaleno. Sul governo: «Si è aperto un fossato tra la sinistra e il suo popolo. La non risposta del governo Prodi ai problemi sociali ha provocato la caduta rovinosa della sinistra». Sull'Arcobaleno: «Abbiamo fatto un'operazione di necessità, ma ha pesato l'improvvisazione, l'assemblaggio di cose diverse. Siamo stati deboli e deficitari, pensando che nel paese una cultura critica nascesse spontaneamente». Poi, neanche tanto tra le righe, indica la rotta, rispolverando un vecchio classico. La sinistra, per Fausto, deve essere di «lotta e di governo». Parla di conflitto, di eredità del movimento operaio, del Pci del '68 da mettere a frutto. E di un sindacato da incalzare da sinistra: «Se uno prende la tessera della Fiom e vota Lega è un problema senza la soluzione del quale non esiste la sinistra».
Oltre non si può andare. Tocca a Vendola e Giordano lanciare messaggi più espliciti. Il primo al Pd: «Nel Pd - ha detto Vendola - si è aperta una riflessione sul rapporto con le forze della sinistra radicale che non ci deve lasciare indifferenti». Giordano al partito: «Abbiamo avuto in questi anni una grande innovazione culturale, ora bisogna farla sul terreno organizzativo». Tradotto: se vince Vendola, si rompono i ponti col passato. Alla fine, nonostante il taglio scelto - quello di un seminario intellettuale - il messaggio arriva: comunque vada il congresso i bertinottiani non hanno alcuna intenzione di rinchiudersi in una logica identitaria. E se l'Arcobaleno non ha funzionato, dicono, l'obiettivo di una nuova sinistra va comunque perseguito. In attesa della conta al congresso, Bertinotti vola alto, d'accordo con D'Alema.

l’Unità 13.5.08
Rodotà: non si usi la privacy per bloccare le indagini
Mi sorprende l’accelerazione legislativa. Ma sulle tangenti c’è allarme sociale, niente franchigia ai corruttori
di Federica Fantozzi


PROFESSOR RODOTÀ, c’è da risolvere un problema di privacy o di tipologie di reato?
«Esiste un serio problema di tutela della privacy. In più di un caso sono stati pubblicati brani di intercettazioni irrilevanti per le indagini e lesivi della sfera privata della
persona. Ho sempre pensato che il sistema ha bisogno di un serio intervento riformatore. Però l’argomento non va usato per deprimere la linea investigativa. Penso al terribile caso della clinica di Milano: lì le intercettazioni hanno fatto scattare tutto».
Includere certi reati e altri no è inutile?
«Con il tetto dei 10 anni di condanna il problema della privacy resta tutto. Se si intercetta chi parla di cose intime con un presunto mafioso o terrorista ignorandone l’attività, rendere pubblica questa conversazione lede la riservatezza. Determinare la sfera dei reati non è risolutivo».
Cosa lo è?
«Non dico che la soluzione sia a portata di mano, ma esiste una riflessione bipartisan. Sono un po’ sorpreso dell’accelerazione aggressiva: il problema è noto da anni. Il ministro Flick fece un disegno di legge. E nel quinquennio della CdL ne furono presentati 8 da maggioranza e opposizione. Domando: visto che Unipol e Calciopoli erano già noti perché Berlusconi non usò la sua forte maggioranza come in altri campi?».
Esiste quindi un punto di partenza condiviso. Su quali linee?
«Una volta effettuate e trasferite al magistrato le intercettazioni, lui esamina il materiale congli avvocati delle parti individuando ciò che non ha nulla a che fare con le indagini e va stralciato o distrutto. A meno che sussista il dubbio che potrà poi diventare rilevante: in quel caso va conservato in un archivio segreto sotto la responsabilità di un magistrato. Solo il resto può essere reso pubblico».
È questa la strada da seguire?
«Come tutte le soluzioni è perfettibile. Ma mi sembra ragionevole per rispettare i diritti ed eliminare il voyeurismo che ha provocato danni a molte persone».
Se ne sono lamentati sia Moggi che la Bergamini.
«Non ho elementi per entrare nel merito del caso Bergamini, ma lei definisce irrilevante il materiale messo in circolazione. La linea corretta è mettere in circolo solo ciò che merita di essere conosciuto dall’opinione pubblica. Il caso Moggi è molto diverso: è stato rinviato a giudizio per reati molto gravi».
Chi ha colpa degli abusi in questo settore?
«È un colabrodo con moltissime cause e protagonisti. Favorito dall’appalto esterno delle intercettazioni a società di telefonia privata più permeabili alla diffusione. È essenziale che siano fatte non dalla Telecom ma presso gli uffici giudiziari».
Come valuta l’ipotesi di subordinare la diffusione dei testi al rinvio a giudizio?
«Credo che in un sistema equilibrato dopo la bonifica congiunta di magistrato e avvocato possano essere diffusi. Aspettare il rinvio a giudizio comporta il rischio che la gente non sia informata di gravi comportamenti di chi ha responsabilità pubbliche, magari sotto elezioni».
Viene in mente la vicenda Unipol...
«Lì il materiale irrilevante per le indagini andava distrutto. Ma paradossalmente Fassino è stato garantito dalla divulgazione del contenuto della telefonata con Consorte. Se ci fosse stato solo il tabulato telefonico, il sospetto sarebbe rimasto per sempre. Con cellulari e mail circolano miliardi di dati privati».
Il dibattito sulle intercettazioni dei corruttori assume valenza simbolica, non crede?
«Bisogna evitare di mettere una serie di persone al riparo da controlli: escludere corruzione e concussione metterebbe di fatto una franchigia. Verrebbero puniti i poveracci e salvata la casta. Serve inflessibilità: quelli di corruzione, non solo verso la Pubblica Amministrazione, sono i veri reati di allarme sociale».
È giusto che ad autorizzare sia un organo collegiale e non il gip?
«I magistrati giustamente sottolineano che dopo il trasferimento al giudice unico della competenza in molte materie tornare al collegio sarebbe un eccesso».
Le pene ipotizzate sono giuste o troppo severe?
«Non è la stessa cosa raccogliere illegittimamente dati, trattarli o pubblicarli. Sono comportamenti diversi. Vanno sanzionati con più severità i pubblici ufficiali che violano il segreto».

l’Unità 13.5.08
La clinica degli orrori
Le cinque piaghe di Santa Rita
di Livia Turco


Il governo deve intervenire subito
avviando un’immediata ispezione
dei Nas in tutte le cliniche private
accreditate per la verifica
del rispetto dei termini
contrattuali dell’accreditamento

Quanto emerso dalle indagini sulla Clinica Santa Rita di Milano non può essere liquidato come l’ennesimo caso di malasanità. In esso si intrecciano infatti almeno cinque elementi diversi di mal funzionamento nel rapporto pubblico-privato, emersi non a caso proprio in Lombardia, dove la logica della competizione e della concorrenza esasperata in Sanità ha evidentemente facilitato comportamenti come quelli registrati in questo caso drammatico.
Il primo elemento di disfunzione è quello relativo al sistema di pagamento delle cliniche private accreditate. Esso, salvo alcune eccezioni, avviene secondo tariffe per prestazioni che, così come oggi formulate, incentivano indirettamente gli operatori privati ad effettuare prestazioni generalmente più onerose e quasi sempre più invasive per il paziente, anche quando non è necessario.
Mi spiego. L’asportazione totale della mammella per un cancro al seno ha una tariffa più alta di un intervento meno invasivo che si limita a togliere il tumore, salvaguardando la mammella della donna. Ma i costi della mastectomia, che sono effettivamente più alti di quelli di una quadrantectomia, non lo sono però in misura proporzionale all’aumento della tariffa. Ecco allora che, per un pugno di euro in più, si può arrivare all’orrore di quanto risulta essere stato fatto più di una volta in quella clinica.
Il secondo elemento da considerare è relativo al sistema di accreditamento delle strutture private. Esso ha dimostrato da tempo i suoi limiti tant’è che con la legge finanziaria del 2007 il Governo Prodi ha posto le basi per un completo riassetto del sistema che, salvo colpi di spugna dell’attuale maggioranza, andrà a regime entro il 2009. Esso si articola in tre mosse: dal 1 gennaio 2008 è prevista la decadenza di tutti gli accreditamenti concessi automaticamente in via transitoria dalle Regioni e non ancora in linea con i nuovi criteri di accreditamento stabiliti dalla legge Bindi del 1999, che prevedono standard qualitativi e meccanismi di verifica molto più approfonditi di quelli delle vecchie convenzioni.
Poi, sempre dal primo gennaio 2008, sarà vietato qualsiasi nuovo accreditamento in assenza di uno specifico atto di programmazione sanitaria regionale che ne dimostri l’esigenza e la coerenza con il fabbisogno assistenziale locale.
Infine, entro il 31 dicembre 2009, tutte le Regioni dovranno aver concluso le verifiche presso tutte le strutture accreditate per l’accertamento del possesso dei requisiti.
Dopo questa data, quindi, solo chi ha i requisiti documentati e verificati e risponde alle effettive esigenze di programmazione regionale resterà accreditato.
Cosa sta facendo l’attuale governo per garantire l’applicazione di questa legge? Ad oggi, tolte generiche dichiarazioni del ministro Sacconi sulla necessità di rivedere il sistema, non se ne sa nulla.
Il terzo elemento da valutare dopo lo scandalo della Santa Rita è sul piano dei controlli e delle verifiche. Evidentemente i controlli attuali, per stessa ammissione delle Regioni, sono troppo burocratici e poco incisivi sul piano della qualità medica e prestazionale delle cliniche private. Ad esempio, se fossero stati fatti controlli che avessero incrociato i dati della patologia con quelli della terapia adottata, sarebbe risultato evidente il numero anomalo di mastectomie della Santa Rita rispetto alla media regionale e si sarebbe potuti intervenire prima, chiedendo lumi e facendo verifiche ad hoc sul perché di quelle anomalie.
Anche su questo terreno il Governo Prodi aveva avviato il cambiamento approvando un disegno di legge, poi decaduto insieme alla legislatura, che istituiva un vero e proprio «sistema nazionale di valutazione della qualità delle prestazioni» che affiancasse i controlli di tipo economico. Solo così, intrecciando spesa e qualità delle cure, si possono tenere sotto controllo gli operatori privati e anche quelli pubblici. Cosa intende fare in proposito il ministro Sacconi? Anche su questo è urgente sapere il suo orientamento.
La quarta questione da affrontare è quella relativa allo status del personale sanitario nelle cliniche private accreditate. Pochissimi contratti a tempo indeterminato e, al loro posto, rapporti professionali saltuari o a prestazione che alimentano di fatto la rincorsa all’intervento più costoso e quindi più remunerativo.
Non è accettabile. Perché dobbiamo capire una volta per tutte che le strutture accreditate agiscono per nome e per conto del Ssn. Sono pagate con i soldi della sanità pubblica e non possono che avere le stesse regole di qualità, sicurezza, modalità di remunerazione del personale e coerenza negli obiettivi da perseguire.
E qui veniamo all’ultimo insegnamento della vicenda di Milano. Una constatazione che troppe volte abbiamo in qualche modo taciuto in ossequio alle logiche del mercato, della competizione e della concorrenza. Il privato in sanità, salvo le realtà no profit, ha un indiscusso obiettivo da raggiungere: il profitto. È chiaro che esso può essere conseguito con trasparenza e correttezza e anche grande qualità, di cui, fortunatamente, abbiamo molti esempi nel nostro Paese. Ma resta il fatto che, se al raggiungimento del profitto non si coniugano altri traguardi morali tipici del privato sociale, il rischio di considerare l’attività sanitaria come una qualsiasi altra attività commerciale è molto alto. A prescindere dalla deriva delinquenziale. Se ho in mente prima di tutto il profitto é evidente che il mio scopo, pur restando nei limiti della legalità, sarà quello di ottenere il massimo dando il minimo. E quindi, contratti con il personale al ribasso, apparecchiature più scadenti, ricerca dei pazienti più convenienti e rifiuto di quelli che richiedono molta assistenza ma anche molti investimenti per poterli assistere (come spiegare altrimenti le pochissime terapie intensive private?).
Tutto ciò ci dice il caso di Milano. Ed è veramente assordante il silenzio del Governo di fronte a uno scenario così drammatico e denso di questioni da affrontare. È ovvio che va rispettato il lavoro dei magistrati (ci mancherebbe!), come ha dichiarato l’altro giorno a Ballarò il ministro Sacconi. Ma il Governo può e deve intervenire subito, al di là delle indagini e del caso specifico.
Avviando un'immediata ispezione dei Nas in tutte le cliniche private accreditate per la verifica del rispetto dei termini strutturali e contrattuali dell’accreditamento. Concordando con le Regioni un’ulteriore azione di verifica sulla qualità e l’appropriatezza dei servizi resi dalle strutture accreditate. E infine prendendo in mano la questione delle tariffe per cambiare l'attuale sistema di rimborsi che, e se è accaduto alla Santa Rita potrebbe accadere anche altrove, rischia di incentivare l’inappropriatezza a danno dei pazienti e anche della spesa pubblica.

l’Unità 13.5.08
L’«Economist»: Pd troppo buono, opposizione fantasma altro che britannica
Analisi impietosa: «Voler collaborare con Berlusconi sulle riforme elettorali e costituzionali avrà conseguenze disastrose»


ROMA. Per l’Economist Walter Veltroni «rischia di essere troppo buono con Silvio Berlusconi» e il suo governo-ombra potrebbe diventare «un’opposizione fantasma». Nel numero da oggi in edicola, il settimanale britannico critica fortemente il leader del partito democratico e gli rinfaccia di essersi lasciato sfuggire «una serie di occasioni per mettere in imbarazzo il governo» e di aver così contribuito al rafforzamento della popolarità di Berlusconi. Tra le occasioni perse, l’Economist cita la mancata richiesta di maggiori dettagli sulle accuse mosse al presidente del Senato Renato Schifani dal giornalista Marco Travaglio per «rapporti di affari con persone poi condannate per mafia« e i mancati affondi contro il governo per il caso Alitalia, per le «aspre misure su immigrazione e sicurezza» e per la «messa al bando di gran parte delle intercettazioni telefoniche compiute dalla polizia». «Veltroni ha un’idea dell’opposizione che non appare assolutamente britannica», sottolinea la rivista, memore del fatto che nel Regno Unito l’opposizione non perde mai un’opportunità per attaccare il governo in carica. A giudizio dell’Economist Berlusconi ha senz’altro da guadagnare dalla politica del dialogo tenacemente portata avanti da Veltroni mentre «i benefici per la sinistra sono meno evidenti». «Ancor prima delle elezioni, Veltroni - spiega il periodico londinese ai suoi lettori - ha detto di volere la cooperazione con Berlusconi sulle riforme elettorali e costituzionali allo scopo di rendere l’Italia più facile da governare. È un obiettivo nobile ma è una strada che è stata tentata prima, con conseguenze disastrose». Secondo l’Economist la strategia elettorale di Veltroni è fallita, così come si è dimostrata «dolorosamente sbagliata» la candidatura di Francesco Rutelli a sindaco di Roma e la politica del dialogo impedisce quella «sofferta autopsia» di cui avrebbe bisogno il Pd.

l’Unità 13.5.08
Il nostro cervello? È del tutto suonato
di Stefania Scateni


Già alcuni scienziati hanno trovato delle forti connessioni tra la nostra musicalità e il linguaggio
Ma nessuno ancora è riuscito a svelare i suoi lati «metafisici» e strettamente affini all’esperienza mistica

IN «MUSICOFILIA» il celebre neurologo Oliver Sacks affronta il tema, ancora misterioso, di un’attività esclusivamente umana, la musica, attraverso le storie di malati che hanno perso il gusto dei suoni o lo hanno ritrovato

«My life was saved by rock’n’roll», cantavano i Velvet Underground; «My life was saved by rock’n’roll», ripeteva, citandoli, Wim Wenders. «La mia vita è stata salvata dalla musica» potrebbero dire milioni di persone in tutto il mondo. Perché la musica può curare e può anche salvare. Ma perché la musica ci salva? Perché può mandarci in estasi? Perché può aprirci le porte della percezione? Perché siamo spinti a suonare e cantare? Perché in tutto il mondo si suona e si canta? Perché la musica è anche un’esperienza spirituale? Perché siamo gli unici esseri viventi sulla terra a farla? Perché questa «attività» così specificamente umana ci dà sollievo, consolazione, gioia, tristezza, disperazione, serenità? Perché ci cambia il corpo, ci fa venire la pelle d’oca, ci muove i piedi? La risposta è ancora nel vento, inseguita da scienziati, paleontologi, neurologi, musicologi, etnologi e quanti altri hanno cominciato a studiarla. La musica è ancora uno dei grandi misteri dell’umanità, e forse rimarrà tale finché non ci rassegneremo ad accettare questo suo aspetto.
Intanto possiamo azzardare l’affascinante ipotesi che il genere umano sia nato cantando. Due gli studi che hanno ampliato le conoscenze in proposito, portando prove alla teoria che i nostri antenati abbiano «cantato» prima di parlare. Il primo, tradotto lo scorso anno dalle edizioni Codice, è quello che Steven Mithen ha raccontato ne Il canto degli antenati. Il lavoro dell’archeologo britannico è partito da una constatazione: la propensione a fare musica è uno dei più affascinanti e al tempo stesso trascurati tratti distintivi del genere umano. La letteratura scientifica ha sottovalutato questo campo di studio, relegandolo a prodotto ludico e ricreativo. Diversamente, Mithen, definisce la musica come un adattamento selettivo dell’uomo, ponendola non solo allo stesso livello del linguaggio, ma dimostrando che sarebbe stata la prima forma di comunicazione umana. Una specie di nenia, ipotizza, che usciva dalla bocca degli australopitechi come un «hmmmmmm»...
Il secondo studio è apparso una settimana fa sulla rivista scientifica Nature (e in queste pagine ne ha parlato lunedì scorso Pietro Greco) ed è stato realizzato dal neurobiologo americano Aniruddh D. Patel. Anch’esso «lega» insieme la musica e il linguaggio. Tra i primi ricercatori a studiare le basi neurologiche dell’attitudine musicale, Patel ha analizzato linguaggi e musiche utilizzati nei paesi non occidentali. E, oltre ad aver scoperto quello che ogni musicista e musicologo sa, cioè che la nostra scala musicale non è universale come non lo sono le nostre basi ritmiche, ha trovato molti legami neurobiologici tra musica e linguaggio. Molto probabilmente, scrive lo scienziato, nella elaborazione della sintassi dei due sistemi sonori, il cervello usa lo stesso sistema di integrazione dell’organizzazione gerarchica dei suoni.
Tutto questo ci dice che il nostro cervello potrebbe essersi evoluto da una musicalità primitiva a suoni articolati. Tutto questo comunque non svela né sminuisce l’ascendente misterioso che la musica esercita sulla nostra mente e sul nostro corpo. Non ci riesce - per fortuna - neanche il nuovo studio di Oliver Sacks, Musicofilia. Non ce lo svela nonostante il celebre neurologo inglese utilizzi anche in questo volume il classico metodo scientifico dell’«esposizione» di casi clinici. Un metodo che nei primi anni del secolo scorso permise al neurologo sovietico Aleksandr R. Luria di intraprendere un pionieristico studio sul funzionamento del cervello che permetteva di ottenere una visione sistematica dell’organizzazione cerebrale e del rapporto tra questa organizzazione e i processi mentali, non solo quelli elementari ma anche quelli complessi come il linguaggio, la memoria, il pensiero. Il metodo di Sacks è lo stesso: una serie di casi clinici che, in questo caso, «tirano in ballo» la musica. Come al suo solito, però, Sacks ci mette di più: una scrittura narrativa e una passione che trasformano i malati in personaggi e i casi trattati in storie, cosicché al lettore sembra di leggere un romanzo corale sull’umana sofferenza. In questo caso, tutti i disturbi e le anomalie «musicali» vengono esplorati. E sono tutti misteri. Ad esempio: un giorno, a New York, Oliver Sacks partecipa all’incontro organizzato da un batterista con una trentina di persone affette dalla sindrome di Tourette: «Tutti, in quella stanza, sembravano in balia dei loro tic: tic ciascuno con il suo tempo. Vedevo i tic erompere e diffondersi per contagio». Poi il batterista inizia a suonare, e tutti in cerchio lo seguono con i loro tamburi: come per incanto i tic scompaiono, e il gruppo si fonde in una perfetta sincronia ritmica. Altro esempio: Clive Wearing, musicista e musicologo, a 45 anni viene colpito da una grave forma di encefalite erpetica che lo lascia con una grave amnesia retrograda, in pratica il suo passato viene cancellato, e una altrettanto grave incapacità di ricordare nuovi eventi: la sua memoria copriva non più di qualche secondo. Un uomo senza passato né presente né futuro... Eppure Clive ricordava, suonando il pianoforte, tutto il repertorio classico che aveva suonato fino all’insorgere della malattia. Sacks ci racconta di pazienti amusici (incapaci di «sentire» la musica, che appare loro come un frastuono), di sordi ossessionati da canzoni che suonano a tutto volume nelle loro orecchie, di savant con doti musicali eccezionali, di chi ha l’orecchio assoluto e di chi vede i colori delle note (sinestesia), della musica che «cura» il Parkinson, lenisce le sofferenze dell’Alzheimer, restituisce l’uso del linguaggio a pazienti afasici. La sua indagine su ciò che è anomalo getta luce su fenomeni di segno opposto: la memoria fonografica, l’intelligenza musicale in generale e soprattutto l’amore per la musica - un amore che può divampare all’improvviso, come nel memorabile caso del medico che, colpito da un fulmine, nei mesi successivi alla tremenda scossa viene assalito da un «insaziabile desiderio di ascoltare musica per pianoforte». Ogni sua storia illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità si intrecciano, e ci definiscono.
Oliver Sacks non sa spiegarci fino in fondo il perché della straordinaria forza neuronale della musica, come possa permeare quasi tutto il nostro cervello, pur avendo per certi aspetti delle zone specifiche (la memoria musicale è diversa e indipendente dalla memoria verbale, ed è localizzata nell’emisfero destro solo per i non musicisti). E nel capitolo dedicato alla vicenda di Clive Wearing, quando si chiede come mai una persona con il cervello devastato come il suo, una persona che non ricorda nulla del passato e del presente, possa suonare alla perfezione il Clavicembalo ben temperato di Bach, l’autore evoca un’immagine per nulla scientifica, ma molto illuminante, per spiegarci cosa possa «essere» ascoltare, ricordare, fare musica: «Quando “ricordiamo” una melodia, essa suona nella nostra mente; ridiventa viva... Qui, richiamiamo una nota alla volta, e sebbene ogni nota riempia interamente la nostra coscienza, simultaneamente entra in rapporto con il tutto. È come quando camminiamo o corriamo o nuotiamo - lo facciamo compiendo un passo o una bracciata alla volta; eppure ogni passo e ogni bracciata è parte integrante di un tutto, la melodia cinetica del correre e del nuotare».
L’analogia di Sacks ci dà il la per fantasticare sulla natura «automatica» della musica, sul suo fare perno, cioè, a una zona antica e primitiva del nostro cervello. Nella nostra storia la musica non è stata sempre un’attività «ludica», nell’antichità era un mezzo per riappacificarsi con i gesti della vita quotidiana e per congiungersi con quella parte del mondo che potremmo definire «metafisica». D’altra parte l’universo ha una sua musica: Mark Whittle dell’Università della Virginia ha analizzato la cosmic microwave background radiation, ossia il rumore cosmico di fondo, e si è accorto che nel corso della vita dell’universo si sono prodotte leggere variazioni nella sua densità, qualcosa che a noi apparirebbe come onde su un mare altrimenti calmo e uniforme e ha dedotto che per i primi 400mila anni di vita, l’universo ha emesso un acuto vagito, proprio come quello di un neonato, che si è successivamente abbassato di tono fino ad assomigliare a un ruggito profondo. Così come anche la nostra Terra «suona». E se il canto dei nostri antenati non fosse stato altro che una mimesi? E se la filastrocca che cantiamo ai nostri bambini non fosse altro che la nenia mugolata dalle australopiteche ai loro bambini?

l’Unità 13.5.08
Niente paura, l’Europa è musulmana
di Eleonora Bujatti


IL CONVEGNO Docenti e studiosi hanno discusso a Padova di Presenza islamica e pluralità religiosa: perché quando si parla di Islam si pensa sempre a qualcosa di incompatibile con la libertà o la modernità?

Il nostro è un Paese spaventato. Ci sentiamo insicuri, minacciati, assediati; viviamo la nostra quotidianità nel sospetto costante dell’altro, come Gaber quando incrocia l’estraneo nel monologo La paura. Salvo poi accorgerci, come Gaber, che l’unica cosa che non abbiamo pensato è che l’altro poteva essere semplicemente una persona. Proviamo allora, per un momento, a supporre che diversità e pericolosità non siano sinonimi, chiudiamo le porte ai pregiudizi e alle strumentalizzazioni e apriamole all’approfondimento e al dialogo. Come si è proposta di fare l’altro giorno l’Università di Padova, ospitando alcuni tra i maggiori esperti di immigrazione e di Islam per il convegno Presenza islamica e pluralità religiosa. «Un primo passo indispensabile è quello di smarcarsi da posizioni massimaliste», chiarisce subito Felice Dassetto, docente all’Università di Louvain-la-Neuve. «Vanno esclusi tanto l’ottimismo beato quanto lo scontro di principio. Parole come multiculturalismo e integrazione sono tanto belle quanto difficili; lanciano una sfida nuova che ha bisogno di tempi lunghi. E i politici non hanno tempi lunghi, ci sono le elezioni». Una sfida che va comunque accolta, combattendo contro l’indifferenza - nel migliore dei casi - delle istituzioni e opponendosi al dilagare dei pregiudizi che non fanno onore alla complessità del reale. Perché anche la Marjane Satrapi di Persepolis è, a rigore, un’immigrata islamica. «L’Europa ormai è definitivamente anche musulmana», sottolinea Paolo Branca, docente di Islamistica alla Cattolica di Milano. «È inutile discutere di questo». La storia è già avvenuta. Questo sarebbe piuttosto il momento di riflettere su un concetto nuovo di cittadinanza, non tanto nel senso giuridico, quanto di appartenenza, di convivenza civile, di responsabilità verso le future generazioni. Eppure quando si parla di Islam scatta qualcosa che va oltre la generica diffidenza per il diverso: la convinzione diffusa che sia per sua costituzione incompatibile con la democrazia, con i diritti, la libertà, la modernità. «Si sta creando un eccezionalismo del mondo islamico», spiega Stefano Allievi, sociologo delle religioni all’Università di Padova. «Le ragioni sono due: una legata al terrorismo, alla geopolitica, all’emergere dell’Islam come attore internazionale. La seconda ha a che fare con la forte presenza islamica in Europa, per numero di aderenti e per visibilità». Le statistiche dicono che dei 15 milioni di musulmani presenti in Europa Occidentale solo il 30-40% si attiva come credente o praticante, e se la prima generazione che viene qui manifesta una particolare osservanza, già dalla seconda non è più così. Eppure si continuano a confondere Islam e fondamentalismo islamico. «Non dico che il fondamentalismo non esista o che non sia un problema» - continua Allievi - ma è essenziale distinguere. Di questa confusione sono responsabili anche le stesse comunità islamiche, che invece di tacere dovrebbero condannare pubblicamente le proprie frange estreme. Ma è innegabile che all’Islam si faccia un processo alle intenzioni, basti pensare al linguaggio che, dai libri della Fallaci alle campagne della Lega, ha trovato legittimità in Italia e che non ha paragoni in Europa. Un linguaggio che se si sostituisse la parola musulmani con ebrei sarebbe considerato indicibile». O, viceversa, basterebbe prendere un giornale del 1938 e sostituire la parola ebrei con musulmani per accorgersi di quale deriva stiamo prendendo. Un particolare accanimento dovuto forse anche al fatto che, da quando gli islamici si sono resi conto che la loro vita doveva trasferirsi definitivamente qui, hanno cominciato a chiedere presenza e riconoscibilità anche con i propri simboli. «C’è una specificità dei musulmani che li rende più visibili: la loro domanda religiosa su questioni pubbliche», sottolinea Dassetto. «Ci sono diversi temi aperti, dall’inserimento istituzionale e giuridico alle norme attinenti a problemi quotidiani come il velo, il cibo, il matrimonio. E poi c’è il culto pubblico». Quella delle moschee sembra solo una questione pragmatica, ma non è un caso che venga letta simbolicamente come un conflitto di civiltà. Ultimamente in tutta Europa, anche nei Paesi in cui le moschee esistono da tempo, cominciano a nascere contrasti sulla loro presenza. E in questo Veneto che ha ospitato il convegno il tema è particolarmente attuale. Una città, Treviso, impedisce ai musulmani di avere un luogo di preghiera e se si ritrovano nei parcheggi li multa per occupazione abusiva del suolo pubblico. A Padova invece il sindaco offre a titolo oneroso ad una comunità islamica un luogo per pregare, e la Lega si attiva con una raccolta firme per un referendum anti-moschea. «Il fatto è che il dibattito su questa tematica continua a svolgersi tra di noi a proposito dei musulmani, e non tra noi e loro», sottolinea Allievi, che alla questione di Padova - un caso che va in netta controtendenza non solo con la Regione e con il governo, ma proprio con il clima attuale - sta dedicando una pubblicazione e un documentario. «Dobbiamo uscire da questa logica, così come da quella degli opposti estremismi. Per il resto non servono leggi speciali, c’è già la nostra Costituzione». Altro caso emblematico è quello di Milano. Il sindaco sta organizzando un tavolo per discutere della moschea di Viale Jenner che il venerdì blocca il traffico della città. «Vent’anni di silenzio e di disinteresse hanno fatto male all’integrazione», nota Paolo Braga, che conosce bene la questione milanese. «Il mondo va avanti, anche nell’indifferenza delle istituzioni, e così non prevalgono certo i migliori. Quindi oggi vorrei che a quel tavolo venissero chiamate a sedere anche le nuove generazioni di musulmani, che avrebbero molto da dire e molto bisogno di farsi ascoltare. E poi mi chiedo perché le chiese debbano essere dei capolavori artistici e le moschee degli immondezzai. Nascoste, brutte, sotterranee. Questo fa davvero bene alla società? Non favorisce piuttosto un Islam carbonaro?». La nostra società non sembra attrezzata per affrontare questo passaggio dalla cultura unica alla multicultura, e si arrocca sulla propria presunzione di autosufficienza, facendo della religione cattolica il proprio marchio di identità. «Ci si costruisce un’identità reattiva», osserva Allievi. «Si manifesta un’identità non perché la si possiede, ma perché c’è l’altro. Questo fa sì che anche i simboli non vengano usati in chiave religiosa, ma in chiave etnica, e arrivo a dire anche tribale». Come quel crocifisso appeso nell’aula dell’Università che, quando non ostentato, non stona affatto con il velo delle ragazze sedute in platea. «Bisogna comprendere che il conflitto è fisiologico, ed è un’occasione per approfondire e per aprire un vero dialogo pubblico», conclude Enzo Pace, docente di Sociologia della religione a Padova. «La legge costituisce il discrimine, è il meccanismo fondamentale per l’integrazione. Si rispettino i doveri per garantire i diritti. Vanno negoziate le norme negoziabili, e vanno osservate con fermezza quelle non negoziabili, che riguardano i diritti fondamentali della persona».

l’Unità 13.5.08
È il più importante mediatore culturale tra Cina e Occidente: «Da quando ho scoperto la pittura del Rinascimento sono diventato un pellegrino d’Oriente»
François Cheng: «La bellezza? È un’epifania che nasce dal dialogo con le altre culture»
di Elena Doni


A pensarci bene l’unico indizio che potrebbe rivelarlo non autoctono è il suo francese. Troppo perfetto nella pronuncia, troppo insindacabile nella scelta dei vocaboli, insomma un francese troppo amato per essere madrelingua. Cioè una lingua con la quale si ha confidenza fin dalle prime parole («il pappo e il dindi») e la si storpia e la si usa distrattamente anche dopo.
Il professore, il filosofo, il poeta, l’Accademico di Francia non è infatti nato francese, ma lo è diventato in età adulta. François Cheng arrivò a Parigi a vent’anni senza conoscere una parola di francese e durante l’affollata conferenza che ha tenuto a Roma, all’ambasciata presso la Santa Sede, ha fatto cenno alla durezza dello scontro con una lingua tanto diversa dalla sua. «Possedere la lingua francese è stata per me una battaglia di tutta una vita. E alla fine sono diventato un altro, ma senza perdere la mia anima. E senza nessun senso di lacerazione: al contrario, con un sentimento di gratitudine. Io non sono che dialogo, il dialogo ci offre la sola possibilità che l’umanità possa raggiungere il suo posto nell’universo».
Patrick Valdrini, direttore del Centro culturale San Luigi dei Francesi che aveva organizzato l’incontro, gli ha posto allora una domanda elementare e monumentale: «Che consigli darebbe oggi a un immigrato?». E Cheng, un minuscolo signore di 79 anni che ha il garbo e la pazienza dei grandi maestri, ha detto: «Spesso chi va in un paese lontano a cercare lavoro, e lo trova, dice: “mi sono rifatto una vita”. Ma passa la sua vita a coltivare la nostalgia per la patria lontana. I miei primi dieci anni in Francia sono stati terribili, avevo un senso di perdizione. Ma rifarsi una vita vuol dire anche rinascere. Attraverso la lingua io sono entrato in un’altra cultura, quella francese, e poi anche in altre culture europee. Nel conoscere la migliore parte dell’Altro si conosce la migliore parte di sé». Oggi Cheng è considerato il più importante mediatore culturale tra la Cina e l’Europa. Secondo l’ex presidente della Repubblica Jacques Chirac «il suo itinerario tra Oriente e Occidente costituisce un’opera universale».
La conoscenza dell’altro da sé può talvolta costituire uno shock, racconta Cheng. Come nel 1960, quando venne per la prima volta in Italia e scoprì la pittura del Rinascimento. Da allora è tornato una ventina di volte: «sono diventato un pellegrino dell’oriente», dice. Ha studiato a fondo quel periodo storico, ha scritto una raccolta di poesie intitolata Cantos toscans. E in qualche modo si rifà a questa passione il suo ultimo libro (esaurito in Francia, non ancora tradotto in italiano) Pélerinage au Louvre: «perché, purtroppo per voi, i grandi capolavori del Rinascimento stanno quasi tutti a Parigi».
L’analisi della Gioconda, fatta alla conferenza ma contenuta anche nel libro Cinque meditazioni sulla bellezza edito in italiano da Bollati Boringhieri, parte dalla constatazione che la seduzione esercitata da questo ritratto non viene solo dall’armonia dei tratti della gentildonna, ma dal sorriso e dallo sguardo. E non è neppure giusto, secondo Cheng, davanti a un tale capolavoro interrogarsi sulla ragione del misterioso sorriso: “la bellezza è una sorta di epifania che nasce dal dialogo con l’universo. Con la Gioconda l’intenzione di Leonardo non era solo quella di rendere sulla tela i tratti di una donna. C’è stata in lui la volontà di trasmetterci il suo meravigliarsi davanti al miracolo dell’universo, quasi che la Gioconda ne fosse un’emanazione». Non è un caso, ha fatto notare Cheng, che Leonardo abbia rialzato il paesaggio raffigurato dietro la figura umana: nelle convenzioni dell’epoca la natura che fa da sfondo non supera mai l’altezza delle spalle della persona ritratta: nel caso della Gioconda invece arriva fino al livello degli occhi.
Alla domanda se l’Occidente gli abbia offerto chiavi di interpretazione che a noi forse sfuggono, Cheng ha risposto che la grandezza dell’Occidente è nata dal dualismo soggetto-oggetto, presente in tutta la nostra storia fin dai tempi di Platone: «l’osservazione dell’oggetto ha permesso lo sviluppo del pensiero scientifico, il porsi come soggetto ha dato vita al diritto e alla libertà. E anche alla meraviglia della ritrattistica, che la pittura cinese invece non conosce». Ma sulla quale Cheng ha scritto un libro illuminante.

Corriere della Sera 13.6.08
L'intervento di Luciano Canfora oggi a Oxford testimonia il continuo interesse della comunità scientifica internazionale
Artemidoro, il falso nascosto nel proemio
di Luciano Canfora


L'introduzione, la nozione di «Lusitania», i brani di Marciano: le tracce di un testo «moderno»

Il testo pubblicato qui di seguito è una sintesi della relazione preparata dal professor Luciano Canfora per un convegno sulla vicenda del papiro di Artemidoro che si tiene oggi in Inghilterra. L'incontro, in programma presso il Saint John's College dell'Università di Oxford, è un'ulteriore dimostrazione dell'interesse che la polemica ha suscitato nella comunità internazionale degli studiosi di antichità classiche.

Colui che creò l'«Artemidoro» intendeva palesemente e, oserei dire, quasi legittimamente incominciare con un proemio. E anche sulla scorta dell'«ipotesto» — cioè dell'Einleitung di Carl Ritter, come ha dimostrato Maurizio Calvesi — scelse le parole ovvie, quelle indicanti appunto l'atto e il fatto dell'incominciare: «Colui che si accinge ad un'opera geografica », ton epiballòmenon geographia («Dans l'introduction à un ouvrage etc.» scriveva Ritter). E perciò nel 2006 gli editori del catalogo memorabile, Le tre vite del Papiro di Artemidoro (Mondadori Electa), non poterono che tradurre «chi intende dedicarsi alla geografia » (p. 157). Non prevedevano in quale ginepraio si fossero cacciati con tale davvero onesta traduzione. Essa confermava quello che risulta chiaro dall'intero proemio: che cioè si tratta per l'appunto di un proemio generale, di una apertura dell'intera opera, di un testo che cerca, a modo suo, di spiegare che cos'è la geografia, dunque di un testo che non può immaginarsi collocato — come accade nel famigerato papiro — al principio del secondo libro (la Spagna). No, è un testo di apertura, e perciò la parola esordiale, «colui che si accinge », intendeva essere per l'appunto un termine denotante l'inizio.
Ma così cadeva in pezzi tutta la ricostruzione: che rotolo era mai questo, nel quale — a tacer d'altro (disegni para- michelangioleschi e bestiari e zodiaci, paesaggi e vignette) — il proemio generale si trova accanto alle prime righe del libro II? La ragionevolezza spinse Bärbel Kramer a proporre una via d'uscita: «Il rotolo contiene estratti!». Così essa scrisse nel suo saggio del 2006, di cui oggi l'edizione Led di Artemidoro suggerisce di non tener conto. Ma la teoria «estratti» era catastrofica: oltre tutto come si sarebbe potuto dimostrare che erano estratti presi tutti dal medesimo autore? Insomma, veniva meno ogni ragione per rifilare all'innocente Artemidoro quel proemio bizantino-ottocentesco. E il grande reperto di «estese porzioni della Geografia di Artemidoro» svaniva nel nulla (a tacere, ripetiamo, delle innumerevoli ragioni che escludono si possa rifilare al vero Artemidoro le colonne IV e V: su ciò cfr. Il papiro di Artemidoro, Laterza). Ecco allora la trovata disinvolta: cambiamo la traduzione! E così oggi nell'edizione Led (p. 196) «chi intende dedicarsi» è diventato «colui che si dedica»: simpatico sforzo volto a far scomparire l'esplicita nozione di inizio, di cominciamento. Come dire: si fa quel che si può.
Per circa dieci anni — dal lontano 1998 — gli editori hanno assunto come cardine e architrave della loro avventura artemidorea che la colonna IV (righi 1-14) del papiro corrisponde al fr. 21 Stiehle. Sul modo in cui quel frammento è tramandato avevano le idee a dir poco confuse, per non dire aberranti. Quello che doveva restare fuori discussione era che fr. 21 essendo Artemidoro, anche col. IV (e dunque tutto il papiro) è Artemidoro. (Ovviamente il ripiegamento Kramer verso l'ipotesi «estratti» faceva traballare la deduzione estesa all'intero papiro). Per circa due anni abbiamo documentato con dovizia di prove che fr. 21 è Marciano (un brano tratto dalla Epitome artemidorea, edita da Marciano sotto il nome di Artemidoro). Tale constatazione, che si accorda perfettamente con le analisi svolte da Margarethe Billerbeck sul testo di Stefano di Bisanzio, comportava che, se colonna IV, 1-14 = fr. 21 (i.e. Marciano), anche colonna IV, 1-14 è Marciano. Dunque, addio Artemidoro (e addio papiro dell'età di «Cleopatràs lussuriosa»). La risposta a questa palmare verità fu, per lungo tempo, la sordità totale.
Avevamo anche con insistenza mostrato che col. IV, 1-14 presenta ritocchi (peggiorativi) ed errori di fatto rispetto a fr. 21. Non ripeteremo qui la dimostrazione. Il lettore può trovarla riassunta in Quaderni di storia 67, pp. 287-294. Questo genere di ritocchi peggiorativi ed errori porta recta via all'attribuzione di col. IV, 1-14 (e quindi del contesto) ad un falsario moderno. Oltre all'inclusione, in quei 14 sventurati righi, di due errate congetture moderne e di un vero e proprio errore di stampa, si trattava anche di un marchiano errore storico: l'inclusione nella Hispania Ulterior dell'«intera Lusitania».
Via via che il tempo scorreva ci rendemmo conto che l'escamotage disperato avrebbe potuto essere un repentino «contrordine», e cioè: fr. 21 è Marciano ( Deo gratias!) ma colonna IV, 1-14 è Artemidoro proprio perché qua e là diverso…
Prevedendo tale gesto disperato fornimmo, al principio di gennaio 2008, il quadro chiaro delle conseguenze paradossali di un tale improvviso revirement (Quaderni di storia 67). Tra l'altro si perveniva all'assurdo di far dire ad Artemidoro quella sciocchezza sulla Hispania Ulterior e di far dire invece l'esatto contrario al suo epitomatore (fr. 21).
L'edizione Led (p. 213) ha compiuto il miracolo. Ciò che avevamo previsto si attua: fr. 21 diventa Marciano, con una levitas e naturalezza degna del manniano cavalier Cipolla, mentre colonna IV, 1-14 è Artemidoro proprio per quelle diversità che invano avevamo segnalato per due anni. Ma ovviamente il cavalier Cipolla non si perde d'animo: ciò che gli scomoda non esiste, e dunque Quaderni di storia 67 non appare mai nella pur straripante bibliografia del mastodonte Led, né si tiene alcun conto di quegli adynata che l'adozione dell'ipotesi disperata inevitabilmente comportava. E poiché la questione Lusitania è troppo ingombrante, due parole andavano dette: la soluzione adottata, alquanto surreale, è stata che con «Lusitania tutta» l'autore intende far riferimento alla nozione geografica, non politica, di Lusitania! Non si rendono evidentemente conto del fatto che la «nozione geografica» di Lusitania è di gran lunga più vasta del territorio incluso, da Augusto in avanti, nella ormai provincia di Lusitania: il che renderebbe l'affermazione di col. IV, 13-14 (la Ulterior comprende «la Lusitania tutta») ancora più inverosimile.
E questo basterebbe. Diceva il grande Paul Maas che un solo argomento davvero probante basta, cento deboli non servono.

il Riformista 13.6.08
Classe. La strana gente che sa sfidare la vita. Di Vittorio li avrebbe pianti e rimproverati
Perché solo gli operai muoiono per aiutarsi
di Peppino Caldarola


Muoiono come mosche, gli operai. Muoiono come nel passato anche se non c'è più Achille Beltrame a ritrarne il dramma sulla Domenica del Corriere . Vanno a lavorare e le famiglie temono di non rivederli, come i minatori di Marcinelle o gli edili dei palazzoni che hanno cambiato il volto e le periferie delle città negli anni Sessanta. Muoiono nelle fabbriche, nei cantieri, sulle navi, nelle cisterne mentre a Taipei, negli Emirati, negli States a centinaia parlano al cielo a cavallo di lunghissimi grattacieli e la sera tornano a casa per guardare la tv e bere una birra. Carlo Marx rabbrividirebbe. Charles Dickens lascerebbe i suoi bambini e il terribile Fagin di Oliver Twist , rivalutato dal cartoonist Will Eisner, per scrivere di loro, infelici operai moderni.
Sei morti a Mineo, Catania, mercoledì soffocati in un depuratore comunale. Due ne morirono il 18 gennaio nella stiva di una nave a Porto Marghera. Cinque a marzo a Molfetta in un'autocisterna della Truck Center. Sette alla Thyssen Krupp di Torino alla fine dello scorso anno. Bruciati, soffocati, morti violente e dolorose. Morti eroiche. C'è qualcosa di prezioso in questa classe operaia che ricompare solo negli annunci di morte.
Muoiono in tanti perché fra quelli che muoiono ci sono i soccorritori. Anche i pompieri che hanno estratto i corpi di Mineo correvano rischi. Le cronache raccontano storie che avrebbero commosso Victor Hugo. A Mineo il prete dice che gli operai sono morti abbracciati cercando di darsi reciprocamente aiuto. Nella stiva di Porto Marghera il secondo morto stava cercando di soccorrere il primo in difficoltà. A Molfetta è il padroncino dell'autocisterna a perdere la vita quando si accorge del dramma. Alla Thyssen altra storia di solidarietà. Solo fra gli operai troviamo tracce di questa antica cultura dell'aiuto. Su You Tube ha fatto epoca quel filmato in cui si vede un uomo falciato in una strada cittadina della grande America, ma poteva accadere anche qui, e per dieci minuti macchine e passanti fingevano di non veder il corpo sull'asfalto.
Voltare la testa dall'altra parte, salvarsi senza occuparsi dell'altro, non farsi turbare dallo spettacolo terribile sono la cifra della nostra epoca. Non per gli operai. Oggi sono minoranza, sono peggio pagati, lavorano come bestie, parlano spesso lingue strane e hanno facce di diverso colore. Ma si soccorrono. Forse erano una classe e lo sono tuttora non perché legati dalla produzione ma perché la produzione esaltava lo loro umanità.
Il mio compagno di lavoro non è più l'amico della vita, forse non so neppure dove abita, ma è il mio compagno di lavoro, se è in difficoltà io sono con lui. È una solidarietà laica, una umanità ribelle all'indifferenza che insegna come si sta al mondo.
Sono bestie strane questi operai. Vanno per conto loro anche quando rischiano inutilmente la vita. Tutti gli incidenti che abbiamo letto, visto in tv, ascoltato dai sopravvissuti dicono che i morti potevano non morire. Un casco, una maschera a gas, come a Mineo, una maggiore prudenza. Niente, anche nel cantiere di Montecitorio per un paio di mesi potevi fotografare l'operaio senza casco. In Italia muoiono come mosche mentre in altre parti del mondo, pensiamo ai giganteschi ponti in costruzione in Oriente e all'Ovest, accade molto di meno e non vedi un operaio che non abbia un casco, una maschera che li tuteli.
Spesso gli operai che muoiono sono operai-padroncini come a Molfetta, spesso il padrone è crudele come la Thyssen, ma a Mineo era il comune, non c'era la frusta a tener viva la loro dedizione. È che gli operai hanno certezza di sé, sanno come si lavora, il pericolo non lo allontanano con la maschera o con quel coso in testa ma con un mestiere appreso faticosamente che è quello di famiglia, il più delle volte. Operai testardi che sanno sfidare la vita e per questo spesso la perdono. Di Vittorio li avrebbe pianti e rimproverati.
Noi li piangiamo senza capirli assuefatti alle statistiche che ci dicono che sono scomparsi o rumeni. Invece salgono sulle impalcature, scendono nelle stive e vada come dio vuole. Alla salvezza ci pensano da soli, sorretti dal mestiere e dall'esperienza, l'uno fratello dell'altro. Operai italiani che non hanno letto l'invettiva di Umberto Saba contro gli italiani, abitanti di un paese in cui non si possono fare le rivoluzioni perché nella storia, da Romolo e Remo in poi, ci sono solo fratricidi e non parricidi. Loro non ammazzano i fratelli. Si fanno ammazzare per i fratelli.

il Riformista 13.6.08
Veltroni, too nice opposizione
di Antonio Polito


I eri mattina il ministro degli interni del governo-ombra britannico, il conservatore David Davis, si è dimesso dalla carica di deputato. Lo ha fatto perché ha perso la battaglia parlamentare contro la legge del governo Brown che fissa a 42 giorni il limite temporale di fermo di polizia per i sospetti di terrorismo. Lo ha fatto per protesta, perché ritiene che questa norma violi nel profondo le tradizionali libertà inglesi. Lo ha fatto nella settimana dell'anniversario della Magna Carta, che introdusse nella civiltà moderna il principio dell'habeas corpus. Costringerà dunque il suo collegio a nuove elezioni, in cui si giocherà il seggio in nome dei valori in cui crede.
Raccontiamo questa storia solo per segnalare che il governo ombra è una cosa maledettamente seria, almeno nel paese dove è nata questa originale forma di opposizione. È lotta politica aspra, costruzione di un'alternativa, non cortese attesa del proprio turno. Lotta politica che si sviluppa anche in forme drammatiche, in cui si mette in gioco perfino la propria carriera politica, come nel caso di David Davis.
Un ministro-ombra in Inghilterra può essere costretto alle dimissioni per una gaffe o per un errore esattamente come un ministro vero. I ministri-ombra non prendono il tè delle cinque nell'ufficio del ministro vero per suggerirgli un paio di buone idee. Né il premier ombra fa meeting con il premier vero o il suo sottosegretario, se non in caso di guerra. Ma costruiscono in parlamento, nella sfida crudele e decisiva del faccia a faccia davanti agli elettori, l'alternativa di governo. In una parola: il governo ombra è opposizione, non cogestione.
Con queste premesse, non sorprende che oggi il settimanale britannico Economist scriva ciò che più modestamente noi del Riformista osserviamo da molte settimane.
E cioè che, inteso alla veltroniana, «il governo-ombra rischia di essere in Italia un'opposizione fantasma». «L'idea di opposizione di Veltroni - scrive il giornale che la sinistra italiana riverisce per aver definito più volte Berlusconi "unfit" - non è affatto in linea con la tradizione britannica». Veltroni è «too nice»: troppo gentile e carino con l'avversario. È stregato dalla tentazione dell'appeasement: «Evidente il vantaggio per Berlusconi, meno chiari i benefici per la sinistra». È il contenuto della nostra critica, e la sottoscriviamo.
E - badate bene - l'Economist non è Liberazione, non chiede più radicalità o più demagogia. Soltanto più opposizione. Che si può fare benissimo da posizioni riformiste, purché nette e ben argomentate. Altrimenti il governo-ombra rischia di essere solo un passatempo, come se si puntasse a una successione piuttosto che a una sostituzione. Nella democrazia anglosassone, madre di tutti i bipartitismi, questo non c'è.

giovedì 12 giugno 2008

COMUNICATO STAMPA

Il 13 giugno alle 20.30 in via Santa Caterina da Siena 61, a due passi dal Pantheon
Incontro alla libreria “Amore e Psiche”

“La città disumanizzata”
Occorrono analisi e proposte contro la perdita di identità dei centri storici

Tutela non solo degli edifici, delle vie, dei monumenti di una città, ma anche dei contenuti di storia, di cultura e di espressioni artistiche che rendono viva la città nel suo rapporto con le persone che la abitano. Da questo presupposto nasce l’iniziativa in programma venerdì 13 giugno (ore 20.30) promossa dall’Associazione Culturale “Amore e Psiche” presso la libreria “Amore e Psiche” in via Santa Caterina da Siena 61, a Roma (p.zza della Minerva).

L’incontro-dibattito vede come protagonisti, in ordine d’intervento, Vittorio Caporioni, Paolo Berdini e Italo Insolera, coordinati da Caterina Calzini.

L’incontro vuole non solo fare luce su aspetti architettonici, urbanistici e legislativi, ma anche delineare proposte per far fronte ad una situazione nella quale il rapporto tra città e cittadini va sempre più disumanizzandosi. E’ anche un’occasione per denunciare la progressiva perdita del centro storico di Roma, di quelle attività artigianali, culturali e artistiche che creano l’identità di una città.
Il centro storico di Roma come altre città del mondo è stato dichiarato dall’Unesco “patrimonio dell’umanità”. Dobbiamo però constatare, che le forme della tutela oggi in atto sono rivolte, più che all’umanità, al patrimonio di soggetti privati. Politici e urbanisti propongono una tutela dei centri storici tutta interna alle logiche di mercato. A monte delle questioni che la politica e le singole discipline possono e debbono affrontare, c’è un problema di natura culturale.
Ci si chiede: sono sufficienti ed efficaci le regole che garantiscono gli interessi della generalità dei cittadini? I piani regolatori sono strumenti idonei alla salvaguardia dei centri storici? Possono mescolarsi o associarsi i ruoli dei poteri pubblici e quelli degli interessi privati nel gestire le trasformazioni della città? I risultati negativi di queste trasformazioni sono da ascriversi ad una errata applicazione delle regole o ad una insufficienza delle stesse?”.

Roma, 4 giugno 2008


E’ possibile seguire l’incontro in diretta ed in differita sul sito www.amorepsiche.it e www.mawivideo.it

Associazione Culturale Amore e Psiche tel. 06 6783908; fax.: 06 9761580

l’Unità 12.6.08
Oggi la «rentrée» con un discorso al Centro congressi Frentani: «Questa destra eredita alcuni tratti salienti del Ventennio»
E alla fine Bertinotti scoprì il regime. «Dolce», però
di Simone Collini


Fausto Bertinotti non ha mai parlato di «regime» e ha sempre guardato con un misto di scetticismo e diffidenza alle analisi che andavano in quella direzione. E questo perché l’ex presidente della Camera è sempre stato convinto che avere un premier proprietario di tre televisioni non bastasse a giustificare il ricorso a un tale termine. Oggi rivendicherà questa sua prudenza per quanto riguarda il passato, e però al tempo stesso pronuncerà quella parola, seppure accompagnata dagli aggettivi «dolce» e «leggero».
Il ragionamento che Bertinotti farà oggi al centro congressi Frentani per la sua rentrée politica, anticipando i punti fondamentali di un lungo articolo che verrà pubblicato sul numero di luglio di «Alternative per il socialismo», è che per la prima volta viviamo una situazione in cui un ampio potere è saldamente nelle mani di una destra che pur non potendo essere definita «fascista», eredita diversi elementi tipici del ventennio. Una destra (il punto è l’intero schieramento, non il solo Berlusconi) che per la prima volta «rompe la connessione di minoritarismo» in cui si è sempre trovata «dalla Resistenza in poi». E che già sta usando la sua condizione di maggioranza per scardinare l’attuale ordinamento sociale, muovendosi senza compattare contro di sé le controparti e utilizzando le paure diffuse e le emergenze per ottenere i risultati (non attacco all’articolo 18 ma proposta di deregulation, introduzione del reato di immigrazione clandestina, non riforma dell’ordinamento giudiziario ma introduzione di una superprocura per i rifiuti campani).
Se questa è la situazione, per Bertinotti la sinistra deve alzare un argine che non può essere fatto del materiale attualmente esistente. Perché se l’ex presidente della Camera eviterà di entrare a gamba tesa nel congresso di Rifondazione comunista (ha firmato la mozione Vendola, che propone l’avvio di una costituente della sinistra, ma non parteciperà ai congressi di circolo) un messaggio chiaro lo manderà comunque.
Il convegno di oggi, al quale sono stati invitati rispettando un rigoroso equilibrio politico Latorre, Bettini e Castagnetti per il Pd, Cento e Francescato per i Verdi, Intini per i Socialisti, Fava, Di Salvo e Leoni per Sd più diversi intellettuali e politologi (oltre ovviamente a Vendola, Giordano e altri esponenti Prc) è titolato «Le ragioni di una sconfitta» (lo stesso del numero di luglio di «Alternative»). La sconfitta è quella di un progetto politico come l’Unione, che per l’ex presidente della Camera si spiega con la «totale impermeabilità» del governo Prodi ai movimenti. Ma è soprattutto quella della Sinistra arcobaleno. La débâcle si spiega, nel ragionamento di Bertinotti, col fatto che quell’esperienza «non è stata tutto ciò che avrebbe dovuto essere». Cioè non è stata costruita «dal basso» e non è andata «oltre i partiti». Ora bisogna riprovare, è il messaggio lanciato in direzione Prc. E non sarà questo il solo passaggio dedicato al proprio partito, perché oggi Bertinotti vede quali conseguenze ha avuto il non mettere mano quando era segretario - parallelamente all’operazione culturale della nonviolenza e di rottura con lo stalinismo - al modello organizzativo del Prc e a un’innovazione della forma partito. Operazione difficile, vista la forza delle correnti interne, ma che ora Bertinotti si rende conto quanto fosse necessaria. Anche perché quella che poteva essere interpretata come una scorciatoia adatta, l’Arcobaleno, si è visto a cosa ha portato.

Repubblica 12.6.08
Perché la Sinistra ha perso
di Fausto Bertinotti


Questo è un ampio stralcio del saggio in cui Fausto Bertinotti analizza la sconfitta della sinistra alle ultime elezioni, che verrà pubblicato dalla rivista Alternative per il socialismo

Questa volta indagare le ragioni della sconfitta è un´operazione politica di prima grandezza. Sono la stessa natura e la profondità della disfatta a rendere la ricerca delle sue cause così impegnativa. Aiuta la possibilità di capire le ragioni della sconfitta l´analisi dei vincitori, l´analisi della destra italiana. E´ già stata chiamata la Nuova destra. Non credo impropriamente; essa ha mostrato una forza propria considerevole, una presa dura e originale con la modernizzazione che investe la società italiana. Nessuno più dei fattori identitari delle diverse destre italiane che avevano caratterizzato la loro storia ormai la definisce più. Non l´eredità del fascismo, non l´assolutizzazione dello stato nazione e neppure il liberismo. L´ingresso della destra nella modernizzazione, candidandosi ad essere la forza più vocata ad accompagnarla, l´ha deideologizzata, consentendole di recuperare poi scampoli e tracce delle diverse tradizioni della destra e di ricomporle in una politica definita proprio sulle risposte da dare alla crisi sociale e politica e istituzionale provocata dalla stessa modernizzazione. Non fascista, ma in grado di usare elementi di quella cultura e dei suoi depositi nel coltivare l´avversione dura e prepotente ad ogni diversità specie quando l´insicurezza si tramuta in paura e la figura del capro espiatorio riemerge dalle tenebre come lenimento proprio delle paure. (...)
Neppure pienamente liberista così da smarcarsi rispetto al neoliberismo impotente dei suoi ideologi di centro-destra come di centro-sinistra – il partito di Maastricht – e contemporaneamente aderirvi pienamente sul tema cruciale del rapporto lavoro-impresa-mercato fino a configurarsi come il partito dell´impresa (e della Confindustria). Un potente arlecchino che rispecchia la scomposizione della società, il frantumarsi anche delle soggettività forti, un arlecchino che miscela i suoi colori e le sue cento tessere con gli istinti che animano la società civile confezionando un´idea generale di restaurazione che poi rinvia alla società trasformandola in politica, senza che però ne abbia più l´apparenza: una sottile proposta di complicità. La Nuova destra cambia il registro della politica e la destra smette di essere minoritaria, ruolo a cui l´aveva consegnata la rottura operata dalla Resistenza e il lungo dopoguerra italiano. Neppure i precedenti governi di Berlusconi avevano risolto alla destra questo suo problema storico. Ma ora l´Italia è davvero entrata in una nuova era politica.
Ci sono parole che vanno maneggiate con cura, in politica, perché possono produrre, se si affermassero, quando sbagliate, guai molto seri. Tanto più sono pesanti, tanto più vanno vagliate con particolare attenzione. Una di queste è la parola regime (...) Non ci convinse il ricorso al suo uso di fronte al precedente governo Berlusconi, quando, pur in presenza di elementi assai preoccupanti, grandi contraddizioni animavano, più in generale, il quadro del paese. Ben diversa è la condizione attuale. Credo si debba ora azzardare la tesi, in prima approssimazione e sottoponendola a verifica critica, che quello che sta prendendo corpo è un nuovo regime, il regime leggero. Prendendoci una qualche licenza, si può dire che lo connota l´a-privativa; privativa della stessa politica, se intesa in senso forte come, cioè, idea di società. Nessun terreno è escluso dalla privazione. (...)
Comincia dalla Repubblica. L´avvio l´ha fornito il discorso di Fini di apertura della legislatura e, più ancora, la fortissima area di consenso con cui è stato salutato quello che si proponeva come il discorso del primo Presidente della Camera della nuova Repubblica, seconda o terza che sia. Con l´arco costituzionale veniva fatto cadere il fondamento della Costituzione repubblicana, la discriminante antifascista, nella sua forza generatrice, almeno come potenzialità aperta, di una nuova nazione, di un altro paese. (...)
Ci dovrebbe toccare, d´ora in poi, una Repubblica a-fascista e, dunque, a-antifascista , una Repubblica senza radici e senza storia. Al suo interno, il Parlamento non è più il luogo dello scontro tra governo e opposizione, del confronto rispettoso delle persone ma netto nell´opposizione delle politiche, affinché siano chiare le scelte e leggibili gli interessi che vengono rappresentati. Il Parlamento si presenta ora come luogo non già della rappresentanza, ma della governabilità, e tutto intero si configura come una sorta di governo allargato; solo resta una diversa nuance, ma all´interno della medesima dimensione, quello tra governo reale e governo ombra. Un Parlamento a-politico. E´ come se sotto gli scranni del Parlamento ci fosse una gigantesca calamita che tira verso il governo, la calamita del mercato. La stessa forza che attrae dentro queste istituzioni, l´altra grande metà della politica, le relazioni sociali. Anche le relazioni sindacali che si stanno ridefinendo (perché con il governo?) vanno in direzione dell´allargamento del governo coinvolgendovi le parti sociali in una concertazione che da eccezione è diventata regola e ora si accinge a farsi sistema, vanificando ogni autonomia del sindacato, sospinto a farsi istituzione tra le istituzioni. Così la a privativa arriva direttamente al cuore della democrazia, al conflitto. Se negarlo è impossibile, quel che invece è possibile è sospingerlo in una dimensione patologica perché priva della legittimazione sociale e politica garantita solo dal riconoscimento del suo carattere progressivo e di attore della giustizia sociale. Relazioni sindacali e sociali a-conflittuali guidate da parametri esterni alla condizione di lavoro ne costituiscono il suggello. Si consuma così in un "regime leggero" la crisi profonda della rappresentanza democratica.
E´ infatti nella lunga e strisciante crisi della democrazia, nella progressiva sostituzione della rappresentanza col governo che si è consumata la crisi della sinistra. Così come, al contrario, nel caso italiano, cioè nella straordinaria stagione del cambiamento, l´allargamento della democrazia e la sua apertura alla democrazia conflittuale e partecipata aveva accompagnato l´ascesa della sinistra, così nella crisi della democrazia si consuma la crisi della sinistra e il suo crollo elettorale. E se quella è stata la stagione delle passerelle, dei ponti, delle cerniere che consentivano gli attraversamenti, le contaminazioni arricchenti, l´ingresso dei prima esclusi, questa che si vuol aprire oggi è la stagione del fortino: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Dentro il sistema, dentro il governo allargato; fuori dal governo allargato, fuori dalla rappresentanza. La questione della sinistra nella politica, della sua disfatta come della sua possibile ricostruzione, si fa, forse, più chiara anche se non di più facile soluzione. In ogni caso è evidente che si tratta di un destino che condivide, di fatto, con le forze sociali e culturali che nella società si trovano ad affrontare il tema del loro riconoscimento, dell´inclusione. Per loro, in primo luogo, vale oggi il dentro o fuori. Bisognerà ricordare che la diffusione anche delle più orribili tendenze xenofobe e di discriminazione si alimentano nel corpo della società quando si rivelano, cinicamente funzionali a difendere assetti sociali, altrimenti indifendibili. Dall´impedire che tutto ciò si consolidi in regime dipende ormai il futuro della sinistra.
Rossana Rossanda lucidamente parlò all´inizio della campagna elettorale della sfida, per la Sinistra l´Arcobaleno, consistente nel portare a casa la pelle. La crisi era evidente, il rischio di scomparsa era, drammaticamente, nel novero delle cose prevedibili. Non ne avevamo però previsti i tempi e i modi, non avevamo previsto (non lo aveva previsto nessuno) la violenta accelerazione della crisi, il suo esito elettorale disastroso. La sinistra è stata messa dal voto fuori dal Parlamento; il PD è stato sconfitto. Per le forze della Sinistra l´Arcobaleno, la débâcle è senza appello. Ma è nel paese che si è aperto il vuoto più inquietante, il vuoto della sinistra politica.

il Riformista 11.6.08
Dopo due mesi silenzio, finisce la quarantena
La piccola linea d'ombra di Bertinotti
Torna a parlare di politica al seminario della sua rivista
di Stefano Cappellini


Quando si sceglie il silenzio, come Fausto Bertinotti dopo la disfatta elettorale del 13 e 14 aprile, si accetta anche la possibilità - di più: la certezza - che siano altri a riempirlo di significati. E Bertinotti è sparito per due mesi. Abbastanza per alimentare un piccolo filone di leggende sul suo black out mediatico. C'è chi giura: Fausto è depresso, sfibrato, ferito. E c'è chi spergiura: Fausto è sereno, placido, atarassico. Lui intanto zitto, assente, non pervenuto.
Dopo mesi in cui ogni suo respiro era buono per un lancio d'agenzia, ogni posa meritevole di uno scatto o di una inquadratura, ogni passo della giornata scandito dal cerimoniale e dalla fitta agenda di incontri, Bertinotti si è fabbricato una piccola linea d'ombra. Ha spento il cellulare, è partito per Parigi, ha disdetto impegni, s'è rifugiato nei fine settimana di Massa Martana, ha letto molto, come sempre, ma anche più, s'è immerso nelle terme toscane, ha rifiutato ogni genere di intervista e conversazione da ogni genere di quotidiano nazionale e non, ha pianto la morte dell'Amato fratello maggiore. Si è chiuso nel pudore della sconfitta. Perché Bertinotti è intelligente. Perché Bertinotti conosce il valore della disciplina. Perché Bertinotti non può nemmeno fare come Veltroni che da mesi si autoaumenta il risultato delle urne: forse 34 per cento fa più scena di 33, ma 4 per cento resta parente povero di 3.
Ma il pudore dell'ex subcomandante non è solo questione di stile, non è un comodo vestito su misura come quelli che il presidente della Camera sfoggiava attraversando le sale di Montecitorio o concionando nei salotti della Roma bene. Per lui il pudore della sconfitta è materia viva, sangue e merda come dice Formica, il tormento dell'uomo e del leader. Bertinotti è un narciso al quale il 13 aprile hanno rubato lo specchio e nessuno gli ha concesso il privilegio di restare per il triste riflesso di sé sconfitto, anzi gli amici e compagni di ieri, nemici di oggi, si sono affrettati a mettergli in mano uno specchio deforme, così che per il futuro non potesse vedersi che brutto e nero, salottiero e mondano, venduto e rammollito. Ci sono leader per i quali la sconfitta è un blob informe da ingoiare di nascosto, da ruminare giusto il tempo di risputarlo lindo e pinto per poter dire al mondo: «Sconfitta? Quale sconfitta?». Ma Bertinotti è un leader - vero, non uno di quei capibastone che infestano la politica post-postmoderna o di quegli ologrammi il cui unico realistico habitat è il "panino" del tg - e un leader umiliato dalle urne come è toccato a lui di essere si pone il problema di come tornare a dire "io" in pubblico, la prima volta dopo il disastro, senza sentirsi lo scemo del villaggio, Snoopy che vagheggia sulla cuccia o il generale Custer che chiama l'offensiva a Little Big Horn.
Silenzio, dunque. E studio. La rivista prima di tutto. Alternative per la sinistra è l'unico spazio semi-pubblico in cui Bertinotti si è calato in questi due mesi, dirigendo le riunioni di redazione col piglio da capo-redattore, affiancato da Alfonso Gianni, sodale e spin doctor, coautore di un paio di libri bertinottiani, in una parola amico amico. La prima riunione di redazione dopo il voto si è tenuta quattro giorni dopo lo tsunami elettorale al 54 di via Veneto, nella quantomai effimera sede unificata della Sinistra arcobaleno, a pochi metri da quell'Hard rock cafè dove il 14 aprile s'era insediato il quartier generale del comitato elettorale rosso-verde sbaragliato dagli exit poll e dalle proiezioni e presto rimasto in mano ai giornalisti inutilmente a caccia di qualche sopravvissuto. I pochi giorni trascorsi dalla batosta, rivisti da quella sede dismessa a tempo di record, somigliavano a decenni. E pareva proprio una sequenza da Bergman, un posto delle fragole inacidite, il Bertinotti che si aggirava per i locali ormai spogli e deserti della ex sede, che distribuiva i pezzi ai redattori sfidando l'eco delle stanze vuote, prima di riconsegnare le chiavi dell'appartamento al locatario.
Poi il ritiro. Attaccato dai nuovi detrattori interni, già protesi nella sfida a Nichi Vendola, il candidato che Bertinotti sostiene al congresso del Prc di luglio. Protetto e coccolato dai compagni che gli sono rimasti fedeli e amici. Come l'ex segretario Franco Giordano: «Fausto è una persona rigorosa. Davanti alle asprezze e alle volgarità, soprattutto queste ultime, che la vulgata colpevolista ha riversato su di lui alla ricerca di capri espiatori, ha scelto di prendersi il tempo necessario a capire. Il pudore del suo silenzio è sinonimo di grande maturità interiore». «Si è fatto da parte per una questione di pulizia, di igiene della politica», sostiene Ciccio Ferrara, già responsabile dell'Organizzazione sotto il regno bertinottiano. Aldo Garzia, coordinatore di Alternative , la mette così: «Credo che il suo periodo di riflessione si spieghi con la consapevolezza della sproporzione tra la dimensione catastrofica della sconfitta e l'inadeguatezza della parola spesa a caldo».
Bertinotti ha sigillato tutte le parole. Le è andate a cercare nei libri, quello di Giorgio Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati , divorato e apprezzato, nelle chiacchierate con Revelli, col quale c'era stata tempesta, e in quelle con Mario Tronti, a caccia di una nuova razza operaia e di un nuovo laburismo se non più pagano, almeno un po' più rude di quello arcobaleno. Praticando finalmente in disparte quel monachesimo laico che è già da qualche anno una delle cifre più autentiche dell'ultimo Bertinotti, coltivata con letture e con curiosità enciclopedica. Nel dicembre 2005 da segretario di Rifondazione comunista andò la prima volta in Cina e i funzionari del Partito comunista cinese lo portarono in una provincia dell'interno, lo Henan, a visitare i monasteri dei monaci buddisti filogovernativi. Lui non chiese dei rapporti col regime e coi monaci tibetani "cattivi", s'informò sulle differenze tra la loro "regola" e quella dei benedettini. Ancora pochi mesi fa, da presidente della Camera, Bertinotti era sul monte Athos ospite dei monaci ortodossi. In un certo senso, dopo il voto c'è tornato in spirito, e stavolta senza il rischio che il rigore del vespro mattutino svaporasse la sera insieme ai flash del fotografo Pizzi e alla galleria di istantanee da salotto frullate in rete da Dagospia col marchio che più ha fatto male al politico comunista: Berty-nights.
Questo della mondanità abbandonata ma mai ripudiata è uno dei capitoli più delicati. Dice Ferrara: «Fausto ha pagato una regressione culturale di tutta la società, e quindi anche della sinistra, che non concepisce un comunista alla presidenza della Camera, che si scandalizza se il sindacalista prende il caffè con il padrone, come se non fosse possibile farlo senza restare fermi sulle proprie idee e i propri principi». Figuriamoci poi cosa pensassero molti militanti, e pensino tuttora, del feeling tra Bertinotti e lo psicanalista-guru Massimo Fagioli. Già la psicanalisi è «roba da borghesi», ma Fagioli è peggio: è roba da borghesi radical-chic.
Domani finisce la quarantena. Bertinotti torna a parlare di politica al seminario della sua rivista. A metà luglio, sul nuovo numero, uscirà un lungo saggio sulle ragioni della sconfitta. Nessuno s'aspetti Montecristo o vendette tarantiniane. Le parole di domani sono figlie del silenzio. Lo spirito è zen. Nel partito infuria la battaglia e aleggia la scissione. Lui combatte col pensiero. Appoggio a Vendola, senza eccessi. Padre nobile sì, padrino ingombrante no. L'ex subcomandante ha lasciato da un pezzo la selva Lacandona. Se un domani ci tornasse, sarebbe per cercare gli spiriti dei boschi.

Il partito del pomodoro
Sarà un giovedì che più rosso non si può: Bertinotti, Ferrero, Diliberto domani si sfideranno a distanza a colpi di convegni. L'ex presidente della Camera ha organizzato, con la sua rivista, un seminario sulle «ragioni della sconfitta»: il primo happening pubblico cui partecipa dopo la sconfitta elettorale. Diliberto sarà a invece a Livorno per promuovere la sua «costituente comunista» con la minoranza di Rifondazione. Per gli appassionati dei seminari di sinistra, l'ex ministro Paolo Ferrero andrà a quello organizzato da "Associa, per il socialismo del XXI secolo": un convegno sul "partito sociale" che si svolgerà al Pigneto. Ospiti, tra gli altri, l'ex ministro venezuelano Jorge Giordani e Tiny Cox del «partito del pomodoro» olandese. Una formazione di ex maoisti che ha raccolto circa il 13 per cento alle scorse elezioni. Un «partito sociale», che piace a Ferrero, che ultimamente si è caratterizzato su battaglie "anti-casta", a partire dall'introduzione di un tetto di spese ai propri parlamentari.

l’Unità 12.6.08
Pochi pacifisti in corteo. Fischi al Pdci
In duemila sfilano nella capitale. Ferrando (Pcl) critica la sinistra radicale: qui ci sono solo io
di Federica Fantozzi


POCHI e pacifici. Il corteo no war si è svolto senza tensioni. In 2mila, italiani e americani, sono sfilati fino a Piazza Barberini. Contestata l’ex capogruppo Pdci
Manuela Palermi, al grido di «andatevene, la piazza ve la dovete conquistare». L’unico leader di partito presente era Ferrando, del Partito Comunista dei Lavoratori: «Scandalizza l’assenza della sinistra radicale».
Parte alle 18, con un’ora di ritardo, il serpentone da piazza della Repubblica. Nove le sigle che organizzano: sindacati (Cobas, Cgil e Fiom), pacifisti e centri sociali, partiti come Sinistra Critica (suo lo slogan più ironico: «Bush: vacanze romane? Aridatece Gregory Peck») e PcL. In testa lo striscione «No a Bush e alla guerra. Via l’Italia da Afghanistan e Libano». In coda tamburi e un cordone di polizia. In mezzo bandiere della Palestina e di Cuba, maschere di Cheney e Condi, le Donne in Nero e di Pink Code.
Davanti alla basilica di Santa Maria degli Angeli e Martiri si radunano i manifestanti. Ci sono Caruso e D’Erme. E gli ex capigruppo Prc Russo Spena («Il governo è servo di Bush») e Pdci Palermi. Una donna bionda in bicicletta apostrofa a parolacce la Palermi: «Vergognatevi, andate in fondo, andate a piazza del Popolo». Lei arretra senza scomporsi: «L’anno scorso i cortei furono diversi perché diverse erano le parole d’ordine. Noi non diciamo 10,100 Nassiryia nè bruciamo bandiere».
Un gruppetto la circonda urlando: «Fuori, andate a lavorare». Spunta un cartello: «Noi comunisti extraparlamentari, voi ex parlamentari opportunisti». Marco Rizzo commenta: «Forse non hanno tutti i torti se non apprezzano il lavoro fatto dalla sinistra al governo. Le contestazioni sono sbagliate, ma un’autocritica serve. Piazza del Popolo fu un errore per subordinazione a Prodi».
Il corteo parte. Tra bandiere rosse e cartelli contro le scie chimiche degli aviogetti militari. Magliette del Che e di Stalin. Cori Yankee go home e Hasta la victoria. Si distribuisce Il Bolscevico, organo del «partito marxista leninista italiano». Appare un adesivo sopra un senso unico: «Proletari unitevi». Un turista si avvicina: «Qui viene Bush?». Gli rispondono di no e se ne va. Striscione del Pcl: «La strage è imperialista». Striscioni americani: Shame grondante sangue; Indict US war criminals. Joan Ballard, dei Citizens for Peace & Justice legge i motivi per cui chiedono l’impeachment di Bush: dal disastro Katrina alle rendition alla distruzione di Medicare. Lucio Manisco apprezza: «You are heroic». Norman Cohen, a Roma da 5 mesi per una borsa di studio, insegna al losangelino Occidental College dove ha studiato Obama, il suo candidato presidente: «Ho già firmato contro Bush 7 anni fa, non servì. Condivido tutte le critiche che gli fanno».
Il corteo passa senza incidenti l’angolo con Via Veneto blindata. Cori contro Bush e Berlusconi «assassini» e Alemanno. Cordone davanti a Blockbuster: «Che tristezza - dice Bernocchi - Difendono le cassette». Piazza Barberini ha gli angoli sigillati. Un flop? «Parlare di ospedali e carceri non ha giovato» risponde Rizzo. Quanta gente aspettavamo? «Uno in più delle celle messe a disposizione» ribatte Sergio Cararo, uno degli organizzatori.

l’Unità 12.6.08
Il Pd, i cattolici e le cipolle d’Egitto
di Stefano Ceccanti


Il dibattito sui cattolici e il Pd, anche da parte di qualche organo di stampa cattolica sembra spesso ignorare una saggia massima latina: contra factum non valet argumentum, che potremmo tradurre nell’invito a non fare commenti prima di aver letto attentamente i dati. La ricerca più elaborata, quella di Segatti e Vezzoni, divide l’elettorato in quattro spezzoni: praticanti regolari (tutte le settimane), praticanti irregolari (qualche volta al mese), scarsamente praticanti (qualche volta l’anno), non praticanti-non credenti. Il primo spezzone riguarda il 31% degli italiani, gli altri inglobano ciascuno un 23%.
I praticanti regolari, quelli su cui si discute di più sia per questa particolare consistenza quantitativa, specifica dell’Italia, ma anche perché dopo la fine della Dc è venuto a mancare un partito di riferimento “naturale”, riservano varie sorprese. In primo luogo, essi sono più “bipartitisti” dell’insieme della popolazione, votano sia per il Pdl sia per il Pd più dell’insieme degli italiani. Il Pdl sta al 44 rispetto al 37 tra gli italiani in genere, e il Pd sta al 35 rispetto al 33 complessivo. L’Udc è sostanzialmente nella media, e ciò, insieme ai dati di Pdl e Pd, dimostra che le nostalgie di partiti centristi sono minori tra i praticanti più che tra gli altri e questo persino in un’elezione, dove a differenza delle altre, l’Udc si presentava come equidistante, quindi particolarmente in grado di intercettare voto centrista nostalgico se esso fosse davvero esistito in modo consistente. L’Udc è scavalcato persino dalla Lega, che, però prende il 7% tra i praticanti rispetto all’8% tra gli italiani nel complesso, mentre la Sinistra Arcobaleno, quasi non esiste, si ferma all’1%.
Segatti e Vezzoni ci fanno anche vedere l’evoluzione diacronica del voto, mostrando che i praticanti, essendo più liberi da appartenenze politiche stabili, normalmente accentuano le dinamiche dell’insieme della popolazione. Il Pd era finito in un baratro del 20% circa delle intenzioni di voto intorno alle amministrative del maggio 2007, quando sull’insieme della popolazione stava, com’è noto, intorno al 25%. Per questo sembra destituita di ogni fondamento qualsiasi nostalgia per l’esperienza della coalizione litigiosa dell’Unione, che talora viene riproposta proprio a partire dall’analisi del voto dei praticanti. Nei mesi successivi, dalle primarie fino alle politiche, con la proposta dell’andare liberi, il Pd recupera ben 15 punti tra i praticanti regolari e finisce sovrarappresentato di due punti rispetto all’insieme della popolazione, mentre la Sinistra Arcobaleno, che viene maggiormente identificata con i veti di quella stagione, quasi scompare tra i praticanti. Non sembra pertanto evidente neanche un effetto negativo della presenza dei radicali.
Questo insieme di dati, statici (bipartitizzazione) e dinamici (netta e costante ripresa) conferma, come ha spesso sostenuto in controtendenza il sociologo Diotallevi, e al contrario di quello che sembra sostenere Famiglia Cristiana con la critica speculare a Veltroni e Berlusconi, che i praticanti italiani sono particolarmente in sintonia con la modernizzazione politica, sono elettori di centro, ma non sono interessati a partiti identitari di centro.
Più semplice il discorso sullo spezzone opposto, quello dei non praticanti e dei non credenti, dove il Pd raggiunge il 53%, e anche su quello ad esso limitrofo degli scarsamente praticanti dove ottiene il 39% contro il 34% del Pdl, il che dovrebbe indurre a non eccedere in enfasi sulla presunta carenza della laicità del Pd, su quella che sarebbe una timidezza nell’affrontare il tema dei diritti, dove invece il Pd cerca solo equilibrio e saggezza, visto che gli elettori “più laici” questi dubbi non sembrano avvertirli.
Il vero buco il Pd ce l’ha invece solo nella seconda fascia, quello dei praticanti irregolari, cioè tra quegli elettori che, ancor più dei praticanti regolari, sono più interessati alla tenuta complessiva del Paese, di cui colgono uno dei pilastri anche nella Chiesa a cui soggettivamente si sentono di appartenere con molte riserve, che non ai temi cosiddetti “eticamente sensibili” identificati in modo troppo semplicistico e unilaterale.
Qualche anno fa Arturo Parisi invitò i cattolici impegnati del centrosinistra ad affrontare questa parte di elettorato, che già allora era quella più difficile, non col complesso del figlio fedele della parabola del figliol prodigo che è geloso perché si sente stabilmente migliore. Continua ad avere ragione, anche se oggi finisce anch’egli per riproporre una nostalgia dell’Unione che aveva anche lui contribuito a denunciare con l’iniziativa dei referendum elettorali. Da questo punto di vista l’esperienza del Pd è preziosa per tutti, anche per i molti cattolici che vi militano perché, anche per attrarre queste fasce di elettorato, nessuna delle culture originarie che affluiscono nel Pd può considerarsi pienamente in grado di dare risposte da sola.
Le tentazioni vere o false di scissioni, sono come le nostalgie per le cipolle d’Egitto durante l’Esodo, e i tentativi di creare correnti rigide che alludono a divisioni di strategia politica rifiutando poi, se vi fossero davvero, la logica conseguenza di un Congresso, sono vie di fuga dell’adorazione di vitelli d’oro. Indietro non si può tornare, anche perché le soluzioni tradizionali legate alle culture politiche precedenti sono consumate, e neanche scartare di lato verso false certezze. Abbiamo iniziato un cammino con alcuni risultati non da poco: proseguiamolo o, se abbiamo dubbi, mettiamo democraticamente in discussione, se esistano altre mete ed altri percorsi per raggiungerle. I praticanti hanno accettato positivamente l’Esodo dai partiti di centro e così indicano anche al Pd la strada di vivere con fede laica comune un altro Esodo, quello iniziato con le primarie e non negato dal risultato elettorale.

Corriere della Sera 12.6.08
L'Impero del Novecento
di Luciano Canfora


L'editore Teti di Milano ha realizzato in queste settimane uno strumento di lavoro molto utile: il dvd della «Storia universale» redatta dall'Accademia delle Scienze dell'Urss. L'opera resta un documento importante, testimonianza del punto di vista di protagonisti significativi. Carlo Maria Martini parlò della «funzione di stimolo nel pensiero e nella prassi europea, e anche nel cammino della Chiesa» rappresentato dal fenomeno storico del comunismo novecentesco. Ai polemisti tali riflessioni possono dar noia, ma per gli storici sono ovvietà. Quella storia «collettiva» aveva qualcosa in comune con la Historia Augusta: culminava nell'esaltazione dell'imperatore regnante. Nondimeno c'è un'altra faccia dell'opera alla quale gli studiosi continuano a guardare con interesse: la storia antica e medievale dell'Asia, in particolare di quell'ampia parte del continente che gravitò nell'area russa.
Le storie universali peccano di eurocentrismo. Questa no.

Corriere della Sera 12.6.08
Un libro rievoca dall'interno gli orrori del comunismo jugoslavo. Fra le vittime i seguaci di Stalin
Isola Calva, inferno nel nome di Tito
Il gulag nell'Adriatico dove si uccidevano i nemici del regime
di Predrag Matvejevic


Isola Nuda, la chiamano gli slavi. Isola Calva, dicono gli italiani d'Istria. Il libro di Dunja Badnjevic, pubblicato nei tipi della Bollati Boringhieri, sceglie per titolo la prima denominazione per indicare questo tragico luogo collocato ai confini del Quarnero. Un isolotto roccioso e di difficile accesso, che non va dimenticato dalla storia. Ne hanno parlato, anche recentemente, Claudio Magris nel suo romanzo Alla cieca (Garzanti) e Enzo Bettiza nel Libro perduto (Mondadori). Giacomo Scotti, scrittore della minoranza italiana di Fiume, le ha dedicato vari articoli e un libro. Era un vero gulag, «una Kolyma jugoslava», dice la Badnjevic: là suo padre, partigiano e comunista, trascorse più di quattro anni, incarcerato dai suoi compagni di lotta e di Resistenza.
Per comprendere meglio queste vicende è utile ricordare alcuni eventi del XX secolo. Nel corso della prima riunione di una sorta di nuova internazionale comunista, il Cominform, che ebbe luogo nel 1947 in Polonia, i rappresentanti jugoslavi, Kardelj e Djilas, si assunsero (per ordine diretto di Stalin) l'incarico di criticare i compagni italiani e francesi per «opportunismo ». Erano presenti alla riunione Longo, Reale, Duclos e altri membri dei vari Comitati centrali. Il maresciallo Tito, considerato il maggior protagonista della Resistenza, sembrava allora più apprezzato di Togliati o di Thorez. Solo un anno dopo, nella seconda riunione a Bucarest, questo potenziale rivale di Stalin nel movimento comunista doveva invece divenire obiettivo di atroci accuse e durissimi attacchi. Fu la grande divisione del movimento operaio internazionale. L'accusa più grave fu quella di un «rigurgito di trozkismo». Quella rottura brutale fu percepita da noi, in Jugoslavia, come la prosecuzione della seconda guerra mondiale o una nuova guerra. L'Armata rossa era alle frontiere del Paese in attesa dell'ordine di superarle. Tito seppe resistere e difendere la sua via autonoma, quella via che Togliatti cercava di difendere ancora agli inizi del '47 e che doveva invece rinnegare scrivendo la risoluzione del Cominform contro la Jugoslavia. Nel partito comunista jugoslavo erano tutt'altro che rari i filosovietici, convinti che la loro organizzazione dovesse essere una armata internazionale guidata dall'Unione sovietica. Ebbero così inizio le «purghe», in primo luogo all'interno dell'apparato dello Stato e del partito. Molti membri che occupavano ruoli importanti nelle istituzioni furono sostituiti e gettati in prigione. Nel conflitto con lo stalinismo si fece ricorso agli stessi metodi staliniani. Goli Otok sull'Adriatico settentrionale — l'Isola «nuda» o «calva» — divenne il gulag jugoslavo.
Esref Badnjevic, il padre dell'autrice, uno dei primi partigiani insorti nel 1941, ex ambasciatore della Jugoslavia per il Medio Oriente, non volle rinnegare le proprie convinzioni. Si rese presto conto che «non c'era posto per il dubbio. Ci si doveva dichiarare: pro o contro. Non esistevano più la solidarietà, l'amicizia, la discussione fraterna», mancava la capacità di mantenere anche nelle situazioni più difficili della guerra partigiana il rispetto delle diverse opinioni. «Se non ti riconoscevi nella linea del partito eri un traditore... Solo ieri eravamo soldati in lotta per la stessa causa», scriveva il vecchio partigiano.
Così cominciò il suo calvario. Appena approdato sulla sponda dell'isolotto, fu accolto con «una gragnola di calci, pedate, pugni, sputi». La «rieducazione» doveva essere lunga e severa. Il cosiddetto «boicottaggio» si praticava in modo feroce. Si dovevano spaccare durante tanti giorni grossi blocchi di pietra per poi buttarli in mare. Un lavoro di Sisifo. «Sento i colpi su tutto il corpo e non so da dove mi venga la forza di resistere». Non tutti riuscivano a sopportare un simile trattamento. O si suicidavano o morivano per le atrocità subite.
Esref Badnjevic riuscì a resistere come aveva resistito prima alle persecuzioni naziste. Quando ne uscì scrisse una specie di diario. Sua figlia, autrice di questo libro, l'ha utilizzato nel migliore dei modi. Ha alternato le testimonianze crude di suo padre ai ricordi della propria infanzia — spezzata da quell'improvvisa irruzione notturna della polizia che doveva portarle via il genitore e distruggere la vita della sua famiglia — ai pensieri e alle riflessioni anche su tempi più recenti. Ne risulta un racconto autentico e struggente. L'alternanza dei due percorsi produce, quasi inaspettatamente, uno straordinario effetto letterario. Da una parte il percorso della grande Storia con la sua tragedia collettiva, dall'altra il piccolo vissuto quotidiano dei dolori e delle angosce familiari.
Nel gulag dell'Isola Nuda finirono anche molti comunisti provenienti dall'Istria o dal-l'Italia stessa (particolarmente gli operai di Monfalcone) per collaborare alla «costruzione del socialismo». Pagarono così la loro fede in un mondo che ritenevano migliore.
Fino agli anni Ottanta in Jugoslavia non si poteva scrivere su questo argomento. Apparvero solo dopo la morte di Tito alcuni libri interessanti che abbiamo cercato di sostenere e divulgare, spesso senza successo. Mi sono talvolta chiesto se «misure» meno drastiche avrebbero potuto raggiungere lo stesso risultato — salvarci da Stalin e dagli staliniani. Ma ho talvolta rifiutato di porre queste domande, anche per l'amicizia nei confronti di coloro che avevano vissuto gli orrori dell'Isola e che avevano dimostrato un'onestà intellettuale e una coerenza, anche se mal riposte.
La narratrice, Dunja Badnjevic, sembra in alcuni momenti porsi domande simili e difficili. Vive da quarant'anni in Italia, è nata a Belgrado da un padre bosniaco e da una madre croata. Ha fatto conoscere in Italia alcuni tra i migliori scrittori jugoslavi. Ha curato le opere di Andric per i Meridiani della Mondadori. Ama il suo Paese, nonostante molti «conti aperti» e avverte ancora la ferita della sua dissoluzione. Ha inventato un neologismo che mi sembra renda l'idea: «apolitudine — una sorta di non appartenenza... di perdita dei luoghi geografici, di amici, di sogni, della memoria e, soprattutto, delle radici».
La conclusione è amara: «Mio padre è stato riabilitato il 24 gennaio 1990. Erano passati dieci anni dalla sua morte e quaranta dal suo primo arresto. Il Paese per il quale aveva combattuto e lottato oggi non esiste più».

Repubblica 12.6.08
Veltroni: il Pd non è socialista tornare indietro sarebbe suicida
Savona, ex ds sbatte la porta e guida la rivolta dei cattolici
Ma per D’Alema è "un onore" l’iscrizione al Pse
di Goffredo De Marchis


NAPOLI - Il congresso resta un´ipotesi in campo se continuano ad aleggiare i fantasmi della scissione, se le correnti proliferano e se i partiti fondatori hanno la tentazione di una retromarcia. Un confronto vero, con la leadership in ballo: è un orizzonte possibile. Non si può certo fare solo per risolvere il rebus della collocazione europea. Ma si può e si deve fare «se si mette in discussione l´idea stessa del Pd, se si pensa di tornare ai Ds, alla Margherita e a 14 mila componenti». Allora sì, dice Walter Veltroni, «bisognerebbe celebrare il congresso». E´ il messaggio che il segretario del Pd manda un po´ a tutti, a Francesco Rutelli che richiamandosi alla Margherita ha stoppato un accordo quasi chiuso con i socialisti continentali, alle componenti che si stanno riorganizzando prima fra tutte quella di Massimo D´Alema, a chi evoca la scissione come ha fatto Famiglia cristiana. Lo strappo del Pd, la frattura insanabile resta un´idea «plausibile», legittima perché no. «Ma tornare alle vecchie identità sarebbe un suicidio, per me», avverte Veltroni. Di questo partito plurale lui fa il segretario, il leader «di un progetto esteso capace di crescere, come è già successo nell´ultimo anno». Di una forza che nasconde altri progetti, no.
Uno dei nodi, non il solo e non necessariamente il più delicato, è quello del rapporto con i socialisti europei. Rimosso, rinviato, ma ora si avvicina la scadenza delle europee (2009). E il rischio che ciascuno ne faccia un uso strumentale esiste. Per questo Veltroni ha parlato a Napoli, dove si sono riuniti i parlamentari del gruppo socialista a Strasburgo. In un albergo vicino alla stazione, per un paio di ore hanno accantonato il grande tema del Mediterraneo. Gli eurodeputati hanno fatto una specie di interrogatorio al segretario del Pd. Tutti concordi alla fine: «Veltroni stavolta è stato chiarissimo». «Il Pd non è un partito socialista, ma una forza del centrosinistra», ha detto. Al Pse ha spiegato anche che «non basta rimanere se stessi e aprire. Bisogna cambiare davvero». Che «rispetto ai governi di sinistra in Europa nel 1997, la situazione attuale propone un dato spietato». Cioè sono rimasti in pochi. Che in Asia il socialismo non c´è, ma ci sono partiti del centrosinistra. Insomma, al Partito socialista europeo, Veltroni chiede «innovazione». E una presa d´atto della crisi.
Un partito che non è socialista non può dunque confluire nel Pse, tanto più che alcuni caratteri identitari sono duri a morire (a Paqualina Napoletano, vicepresidente del gruppo, Veltroni dice: «Sei ideologica e radicale»). Martin Schulz, capo di questa pattuglia di eurodeputati, risponde che «la socialdemocrazia tedesca non diventerà il Partito democratico tedesco solo perché ce lo chiedono gli italiani». Ma l´apertura di Schulz a qualcosa di nuovo c´è, eccome. «Possiamo creare nel Pse una struttura autonoma, politicamente e finanziariamente, in cui anche chi non viene dal socialismo si possa sentire a casa». E´ lo schema di un gruppo federato che riconosce quella che Veltroni chiama «peculiarità del Pd», cambia nome aggiungendo il richiamo ai democratici, lascia una certa libertà agli italiani. Per il momento è lo sforzo massimo che Schulz può garantire, è un compromesso sul quale i popolari del Pd sono in grado di convergere. E anche Massimo D´Alema lo sostiene.
L´ex ministro degli Esteri è il secondo ospite italiano della riunione napoletana. Parla di integrazione, di Mediterraneo. Poi, rivendica con una battuta la sua appartenenza: «Sono stato membro del gruppo Pse ed è un titolo di onore al quale non rinuncio». Ma la linea Veltroni è giusta anche per lui. «Ha fatto bene a chiarire che il Pd non è un partito socialista perché rappresenta tante culture. Dobbiamo costruire qualcosa di nuovo anche in Europa». Senza abbandonare il socialismo: «Sarebbe sbagliato isolarsi e non aiuterebbe nessuno a rinnovarsi». Non bisogna perciò immaginare un gruppo autonomo peraltro complicato da mettere su a Strasburgo. «Ma sarebbe sbagliato anche pretendere che ci integrassimo nel Pse così com´è». Lavorare insieme dentro il Pd e attendere un pronunciamento condiviso: così si procede. Dice Veltroni: «Il mio obiettivo è portare tutti i democratici italiani nello stesso gruppo». Ora, prima dell´assemblea costituente ci sono otto giorni. Chi vuole aprire altri fronti può farlo. Ma sapendo che per Veltroni il congresso (respinto ieri dalla Bindi e caldeggiato invece da Parisi) resta in campo.

Repubblica 12.6.08
Boom di operazioni per le musulmane che cercano marito
Parigi, viaggio nella clinica che restituisce la verginità. "La chirurgia salva le nostre nozze"
Sempre più ragazze musulmane chiedono l´imenoplastica
di Giampiero Martinotti


PARIGI. A due passi dagli Champs-Elysées, la clinica è uguale a tante altre dei bei quartieri: palazzo ottocentesco, una certa signorilità senza ostentazione. E una clientela soprattutto femminile, angustiata dal proprio corpo: i seni, la cellulite, le rughe. Ma qui approdano anche tante ragazze musulmane che non cercano un decolleté da sogno o un sedere perfetto. Vengono a cercare invece una nuova verginità.Chiedono di farsi ricucire l´imene per dare ai loro futuri mariti l´illusione di una purezza, rispettare tradizioni ancestrali ed evitare di essere additate come «puttane». Salgono la bella scala, vanno al primo piano dove c´è il blocco operatorio, passano qualche ora al quarto, nelle camere in cui si riposano. Poi ripartono verso la loro vita, lontano dallo sfavillio dei quartieri ricchi della capitale.
Il caso del matrimonio annullato a Lille perché la sposa non era vergine, ha riportato alla luce un fenomeno che l´ordine professionale dei ginecologi osserva da tempo: «Ci chiedono certificati di verginità e riparazioni di imene. Non è un fenomeno massiccio, ma non si era mai visto prima: l´integralismo progredisce», dice il professor Jacques Lansac. E non sono donne con il velo a chiederlo, ma ragazze che hanno avuto una vita come quella delle loro coetanee di origine europea e che all´approssimarsi del matrimonio ricadono nelle tradizioni, nei ricatti delle famiglie, nell´assurdità di un uomo che vuole essere «l´unico». Alcune di loro ricorrono ai vecchi trucchi, come un pezzetto di fegato di vitello nascosto nella vagina, altre preferiscono l´imenoplastica. E sono pronte a pagare i 2-2.200 euro richiesti: «La verginità non ha prezzo», dice una ragazza che si è fatta operare. Altre cercano prezzi più convenienti o chirurghi che accettano di far passare l´operazione sotto un´altra voce per farla rimborsare dal servizio sanitario. Oppure vanno nel Magreb.
Il peso delle famiglie, raccontano sui siti internet tantissime ragazze musulmane, è spesso insopportabile, ma è difficile liberarsene: «Mia madre mi ha sempre ripetuto: se non vai bene a scuola, si potrà sempre far qualcosa, ma se perdi quella (la verginità, ndr), non si può far niente. Non si può dare una figlia sporca». Discorsi che traumatizzano le ragazze, che a volte preferiscono praticare «l´amore da dietro», come dicono, piuttosto che perdere la verginità prima delle nozze: «Da noi non si scherza con queste cose».
Nella clinica degli Champs-Elysées, Marc Abecassis opera due o tre volte la settimana. Nel 1992 è stato uno dei primi a lanciarsi nella chirurgia del pene, da una decina d´anni si occupa anche delle donne: «All´inizio le richieste di imenoplastica erano sporadiche, da due o tre anni sono diventate regolari, soprattutto perché c´è più informazione». Le sue pazienti hanno fra i 18 e i 35 anni e origini sociali diverse: studentesse, disoccupate, professoresse, ricercatrici. «Quando vengono da me hanno ragionato e riflettuto molto. Con noi parlano, possono confidarsi. Non mi piace far questo intervento, ma non voglio giudicare: queste donne sono disperate, e io voglio alleviare la loro sofferenza».
Dietro le porte, al quarto piano della clinica, si sfiorano per qualche ora due mondi lontani mille miglia: quello delle donne che vivono nell´esuberante edonismo occidentale e non esitano a far ricorso alla chirurgia estetica per sedurre. E quello delle ragazze che invece devono ridiventare illibate per fingere di essersi date a uno solo. Due mondi non poi tanto diversi, secondo un ginecologo che opera nella periferia parigina: «Accettiamo di rifare i seni alle donne perché assomiglino alle bambole dei rotocalchi: perché non ricucire gli imeni? In entrambi i casi si tratta della sottomissione a un´ideologia, occidentale da un lato, musulmana dall´altro. Entrambe condannabili, per quanto mi riguarda». Un atteggiamento condiviso da pochi dei suoi colleghi.

Repubblica 12.6.08
Attesa, sogni e paure dei romeni d´Italia "Riscatto in una notte"
La comunità: ma domani state in casa
Tra calcio e politica la vigilia del match vista da chi è emigrato nel nostro paese
di Marco Mensurati


ROMA. Puoi ripeterlo quanto ti pare che è solo una partita di pallone, quella di domani. Non ti darà retta nessuno, al massimo ti faranno dietro un sorriso bonario. Oppure ti diranno «vatti a fare un giro a Monterotondo, sulla Salaria e chiedi di padre Bogdan, te lo spiega lui per quale motivo non sarà una partita come le altre».
E la spiegazione più che rabbiosa è rassegnata. A Monterotondo c´è una comunità di seimila romeni. Vivono qui e lavorano nei dintorni. Il loro punto di riferimento è la piccola chiesa ortodossa. Anzi: era. Perché da ieri quella chiesa è chiusa. Sbarrata, come fosse un ristorante trovato fuori norma dai vigili urbani. Il vicariato e il comune hanno revocato il permesso di utilizzare i locali promettendo in cambio di trasformare in chiesa ortodossa il magazzino di un ex mobilificio. Forse. Se arriveranno tutti i permessi. «Vorremmo che i nostri ragazzi venerdì giocassero anche per i romeni di Monterotondo - dice Giancarlo Germani, presidente del neonato partito dei romeni d´Italia - E per tutti quelli che da qualche mese a questa parte, da quando è stato deciso di utilizzare politicamente la questione sicurezza, subiscono piccole e grandi discriminazioni».
Per ragioni come questa, Italia-Romania, la gara in cui la zattera azzurra rischia il naufragio, sarà una gara speciale. Seicentomila ottime ragioni, per l´esattezza. Tante quante sono le persone appartenenti alla comunità romena nel nostro paese. Che hanno eletto la seconda partita del girone C degli Europei come la partita dell´Orgoglio romeno.
Orgoglio che gonfia le parole di tutti, in questa vigilia. Ramona Badescu interrompe le prove di uno show per spiegare i «reali contenuti» dell´appuntamento di venerdì. Dice la showgirl-politica: «Non è la prima volta che Italia e Romania si incontrano in competizioni ufficiali. Ma stavolta la sfida ha un significato particolare. Abbiamo un´ottima squadra che farà capire a tutti che la Romania non è solo violenza e cronaca nera ma anche un paese che ama il calcio e con il calcio la cultura e le tradizioni». Orgoglio che però non potrà essere ostentato. «Se fossimo a casa nostra allora ci riverseremmo nelle piazze e nei bar a seguire tutti insieme la partita e a fare il tifo - spiega Adrian German leader della squadra della comunità romena in Italia - Invece siamo ospiti e visti i recenti fatti di cronaca sarà meglio evitare. La partita la vedremo da casa insieme agli amici. Quello che abbiamo da dire lo diranno per noi i nostri ragazzi, sul campo. Del resto da noi in Romania si dice sempre che i calciatori e gli sportivi in genere sono come gli ambasciatori. Sono certo che loro ci rappresenteranno al meglio». Come? «Magari con un bel pareggio. Un risultato che a noi potrebbe anche andare bene...»
Di evitare raduni pubblici è stato richiesto ufficialmente anche da Eugen Tertelac, presidente dell´associazione dei romeni in Italia: «In seguito ai problemi che ci sono stati negli ultimi tempi non ci sentiamo molto tranquilli - dice - per questo invito tutti i miei connazionali a guardare la partita da casa propria. La situazione non è delle migliori e non possiamo ignorare che Amnesty International ha parlato di rischio xenofobia in Italia contro romeni e rom».

Liberazione 12.6.08
I diritti e la vita di chi lavora non valgono più nulla
di Rina Gagliardi


Orario di lavoro e condizioni di vita. Era più bello il 1906
Oggi la politica ha smesso di pensare all'interesse generale


Nello stesso giorno in cui i ministri degli affari sociali della Ue abbattono l'ultimo baluardo della legislazione sul lavoro - il limite delle 48 ore settimanali - a Catania sei operai muoiono sul lavoro, respirando sostanze tossiche. Solo una coincidenza temporale, si dirà. Per noi, invece, mentre la collera e il dolore ci saltano agli occhi per questa ennesima strage, tra i due eventi il nesso è stretto, strettissimo: di lavoro si continua a morire perché i diritti - e la vita - di chi lavora non valgono più nulla . Perché gli operai sono tornati ad essere i dalit, i paria, delle nostre società opulente - gli ultimi. La merce per eccellenza "flessibile", priva di solidità, di forza, di sicurezza. Così flessibile e così insicura che infatti ora, col conforto di una legge europea, dovrà faticare fino a tredici ore al giorno, fino a sessantacinque ore - di media - alla settimana. Fino a perdere energie, attenzione, capacità reattiva. Accadeva così, all'incirca un paio di secoli fa, quando il movimento operaio faceva i suoi primi veri passi, tra la fine dell'Ottocento e l'alba del Novecento. Quando, non a caso, gli operai cominciarono a lottare, insieme, per il salario e per ridurre la lunghezza - l'insopportabilità - dell'orario di lavoro che i padroni pretendevano.

Fu un anno molto intenso, quel 1906, dal punto di vista delle lotte sociali. In uno dei suoi epicentri, il Piemonte, entrarono in sciopero, tra gli altri, i tessili, i metalmeccanici, le mondariso - tutti rivendicavano aumenti salariali, ma soprattutto la riduzione dell'orario di lavoro. Fu allora che un deputato socialista di Vercelli, Modesto Cugnolio, presentò alla Camera il progetto più "audace": le otto ore lavorative per le mondine, le raccoglitrici di riso soggette a condizioni disumane e a malattie devastanti. Una proposta sostenuta dalle Leghe, dall'Alleanza Contadini e dall'appena costituito movimento sindacale. E fu in una bella giornata di sole, il 1 giugno del 1906, che le mondariso in sciopero occuparono pacificamente la piazza centrale di Vercelli: erano tutte vestite con il loro abito della festa e cantavano una canzone. «Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar E troverete la differenza di lavorar e di comandar».

Non si sa chi abbia scritto quel testo e quella musica. Si sa solo che esso si è trasmesso, di generazione in generazione, per tutto il Novecento - di volta in volta, il testo mutava, la Russia, Scelba, le lotte comuniste, ma l'incipit restava lo stesso. Le otto ore. La dignità di chi lavora e fatica. Tanto "fece egemonia" questo concetto che, nel 1923 (un anno dopo la "marcia su Roma") un decreto regio stabiliva che per tutti i lavoratori valeva la regola dell'8 per 3: che cioè per tutti la giornata non può che esser divisa tra otto ore dedicate al lavoro, otto al sonno, otto al "tempo di vita".

Sono passati centodue anni da quell'epico 1906 e il terrificante lavoro delle mondariso non esiste più - almeno qui da noi. Per nostra fortuna, chiamiamola così, viviamo in uno spicchio di mondo straordinariamente sviluppato, colmo di prodigi tecnologici e di rivoluzioni comunicative. Un progresso dall'apparenza inarrestabile. Ma com'è possibile che un tale progresso si converta nel suo esatto contrario, quando dalle macchine, dai miracoli della scienza e della tecnica, ci si addentra nell'universo del lavoro e della condizione di lavoro? Quando dalle cose si passa alle persone? Di colpo, ben più che in quel lontano 1906, le otto ore diventano un'utopia. Di colpo, si smantella un'intera civiltà, costata più di un secolo di lotte e di sudori. Ed è l'Europa a dirigere questa vera e propria controrivoluzione sociale: l'Europa che, nella sua bozza di Trattato costituzionale, aveva scelto il Mercato è la stessa che oggi si schiera "definitivamente" contro il lavoro e concede alle imprese l'orario ad esse più conveniente.

Ma non è soltanto la regressione sociale, civile e culturale, l'unico paradosso (apparente) di questa vicenda. Ve n'è un altro, che salta agli occhi di qualunque persona di buon senso: con tanti lavoratori precari, inoccupati, disoccupati, "atipici" , "interinali" che affollano il mercato del lavoro, che cosa c'è di socialmente conveniente in questa deregulation che avanza, sul modello anglosassone? E che cosa c'è di "saggio" nel dividere la società tra chi è destinato alla condanna biblica di un lavoro sempre più lungo (e di uno sfruttamento conseguentemente sempre più intenso) e chi il lavoro lo cerca, lo invoca, lo sogna, tra un impiego a termine e l'altro? Parliamo di politici, s'intende, cioè del punto di vista generale che dovrebbe guidare le scelte di chi è responsabile della res publica e delle sue leggi. Ma è proprio qui che il paradosso si svela: la politica ha perduto, da un pezzo, ogni capacità (e volontà) di pensare all'"interesse generale". Ovvero, ha assunto la logica dell'impresa e del mercato come sinonimo di bene comune e come parametro a cui orientare le proprie opzioni. Insomma, la politica si è fatta ancella dell'economia: classista in senso stretto, strettissimo, come forse non è mai avvenuto nel secolo che ci sta alle spalle.
In questa ottica squisitamente padronale, il "privilegio" di un lavoro garantito o stabile, per un numero sempre minore di lavoratori, non può, oggi, che pagare il prezzo di una radicale riduzione di diritti e di una compressione crescente della soggettività del lavoratore: l'orario allungato a dismisura, da determinare sulla base delle esigenze - immediate o strategiche - dell'impresa, è in realtà la "summa teologica" di questa spoliazione, di questo comando sempre più assoluto sulla forzalavoro. Comando del tempo, dei ritmi della vita, del fare e del pensare, dittatura sui corpi, riduzione a fortiori di tutto ciò, come la sicurezza, che chiede soldi e tempo e "rallenta la produttività". E attacco frontale all'aggregazione del lavoro, all'unità solidale di chi lavora e si organizza nel proprio comune interesse: l'altra faccia dell'orario sempre più lungo e sempre più flessibile è la fine, o la riduzione ad una parvenza, del contratto collettivo. Ma la faccia, tra tutte forse più autentica è, alla fin fine, la precarizzazione del lavoro, di tutta la condizione di lavoro in quanto tale: il suo svilimento, il suo degrado. In questo senso, non c'è contraddizione alcuna tra un nucleo di "garantiti" che faticano - per forza consenzienti - anche settanta ore a settimana, e un esercito di precari tendenzialmente cronici: non solo gli uni possono sconfinare negli altri in qualunque momento, ma gli uni e gli altri sono quasi equamente aggrediti nella loro forza soggettiva, nella loro capacità contrattuale collettiva, nella loro autonomia di soggetti e protagonisti del conflitto. Lo ripetiamo: sono tornati ad essere merci, anzi merci deperibili, mera variabile dipendente delle esigenze della competività di impresa. Non c'è nessuna malvagità, in tutto questo. Non c'è nessun "piano". E' solo il capitalismo, bellezza!

Apcom 12.6.08 13.30
Sinistra / Bertinotti: Il governo Prodi ha aperto un fossato con nostro popolo"


Fausto Bertinotti, l'ex presidente della Camera e leader della Sinistra arcobaleno rompe il silenzio e affronta le ragioni della sconfitta elettorale della sinistra, che per la prima volta è fuori del Parlamento: la crisi della sinistra è la crisi della democrazia, e con la 'Nuova destra' si va verso "un regime leggero", con cui "si consuma la crisi profonda della rappresentanza democratica", avverte dalle pagine di Repubblica, che riporta un ampio stralcio del saggio che verrà pubblicato dalla rivista 'Alternative per il socialismo', leit motive della giornata di studio sulle 'ragioni della sconfitta' che lo steso Bertinotti ha organizzato oggi al centro Frentani a Roma.

"Non avevamo previsto la violenta accelerazione della crisi. La sinistra è stata messa dal voto fuori dal Parlamento, il Pd é stato sconfitto. Ma é nel Paese che si é aperto il vuoto più inquietante, il vuoto della sinistra politica", sottolinea Bertinotti. "La natura e la profondità della disfatta" - ammette - è tale che la ricerca delle cause è "una operazione politica di prima grandezza"; dove tra i fattori aiuta capire quella che chiama la "Nuova destra", non "fascista, ma in grado di usare elementi di quella cultura e dei suoi depositi nel coltivare l'avversione dura e prepotente ad ogni diversità". Non piu' "pienamente liberista", un "potente arlecchino che rispecchia la scomposizione della società" e poi ammonisce: "Quello che sta prendendo corpo è un nuovo regime, il regime leggero, in una Repubblica senza radici e senza storia. Il Parlamento si presenta ora come luogo non già della rappresentanza, ma della governabilità. Un Parlamento a-politico".

E le relazioni sociali "si stanno ridefinendo verso una concertazione che da eccezione è diventata regola e ora si accinge a farsi sistema, vanificando ogni autonomia del sindacato, sospinto a farsi istituzione tra le istituzioni". Finita la stagione "dei ponti, delle cerniere che consentivano le contaminazioni arricchenti, l'ingresso degli esclusi, questa che si vuole aprire oggi é la stagione del fortino: chi é dentro è dentro, chi é fuori é fuori".

Roma, 12 giu. (Apcom) - Una delle principali ragioni della "debacle" della sinistra alle ultime elezioni politiche va ricercata nella linea tenuta dal governo Prodi tra il 2006 e il 2008. Fausto Bertinotti torna a parlare di politica dopo un lungo silenzio e analizza "le ragioni di una sconfitta" aprendo una giornata di riflessione in un centro congresso della Cgil. Ad ascoltare l'ex presidente della Camera ci sono, tra gli altri, Franco Giorgano, Gennaro Migliore, Cesare Salvi, Achille Occhetto, Paolo Cento, Goffredo Bettini e Nicola Latorre. Spiega Bertinotti: "L'esperienza della partecipazione della sinistra al governo Prodi è ciò che ha fatto traboccare il vaso, ha pesato negativamente, più di quello che noi già pensavamo".

Per Bertinotti "era prevedibile che ci fosse una certa influenza dei poteri forti sul governo", ma si pensava almeno che l'esecutivo potesse essere anche "permeabile" alle istanze che venivano dai movimenti. Invece il governo è sembrato stretto in una "camicia di forza dei poteri forti" ed è risultato "impermeabile ai movimenti". La sinistra al governo si è trovata "chiusa tra la Scilla e Cariddi, tra l'accettazione di uno schema di conservazione e la rottura prematura dell'esperienza di governo".

Bertinotti critica "la logica dei due tempi", ovvero la linea che ha anteposto il risanamento dei conti alla soluzione dell'emergenza sociale: definisce "la prima Finanziaria devastante rispetto al consenso nel Paese"; ricorda la primavera-estate del 2007 con il "passaggio sulle questioni sociali legate alle pensioni e alla solidarietà".

"E' accaduta una vera e propria rottura - sintetizza Bertinotti - un salto indietro, una scissione tra la sinistra e il suo popolo. Si è aperto un fossato tra la sinistra e molte delle forze che su essa avevano investito. La mancata riforma sociale ha fatto esplodere i fattori di crisi che già esistevano, la non risposta del governo Prodi ai problemi sociali e discredito nei confronti del sistema politico hanno provocato la caduta rovinosa della sinistra". Ricorda l'ex presidente della Camera: "In questi anni c'è stata una perdita del 14-15 per cento del salario reale, una perdita che è continuata durante il governo Prodi".

La Sinistra arcobaleno è stata una operazione nata in virtù di uno "stato di necessità", una costruzione di "carattere improvvisato" che ha pagato le "diverse occasioni perdute" di dar vita al progetto in passato. Fausto Bertinotti, analizzando "le ragioni di una sconfitta" volge una autocritica rispetto al percorso che ha portato all'aggregazione di Rifondazione comunista, Verdi, Sinistra democratica e Pdci alle ultime elezioni. Bertinotti premette che "la situazione ambientale della sinistra era difficilissima", rimprovera al Pd alcune "scelte che hanno svuotato ogni spazio di dialogo effettivo, che non sarebbe stato impossibile, che hanno concorso a creare una solitudine della sinistra". Ma poi aggiunge: "Non possiamo farci scudo di questo, non possiamo fare l'autocritica degli altri: la Sinistra arcobaleno è stata costruita in uno stato di necessità, ci sono state diverse occasioni perdute".

"Ha pesato molto - sottolinea - il carattere improvvisato, l'assemblaggio di forze diverse che non si sono messe in gioco. Ha pesato molto l'incommensurabilità tra le cose dette e quelle che si andava facendo, basti pensare alla composizione delle liste".

Per Bertinotti c'è stato un "errore di volontarismo, di soggettivismo: avere anteposto alla realtà un pur ambizioso progetto politico, peraltro largamente non condiviso".

Ag. Dire 12.6.08 14.00
Bertinotti ritorna e attacca: sinistra sommersa dal tracimare del governo Prodi


ROMA - "L'esperienza nel governo Prodi ha prodotto un tracimare dell'acqua che ci ha inondato e sommerso". Fausto Bertinotti ritorna in campo dopo la sonora sconfitta alle elezioni politiche. Lo fa con un lungo discorso sulle ragioni che hanno portato la sinistra a scomparire dal parlamento.

L'ex presidente della Camera ritorna all'attacco di Romano Prodi e del suo governo imputandogli una buona parte della debacle sua e dell'Arcobaleno. Ad ascoltare Bertinotti, nella sala gremita del centro congressi di via dei Frentani, sono presenti anche, tra gli altri, Claudio Fava, Nicola Latorre, Goffredo Bettini, Cesare Salvi, Paolo Cento, Franco Giordano e Nichi Vendola. Ma a precedere l'intervento dell'ex presidente della Camera e' un minuto di silenzio per ricordare i 10 operai morti ieri sul lavoro.

Tornando al governo Prodi, Bertinotti spiega che "e' li' che la sinistra ha misurato e vissuto un salto nella crisi.

Un'esperienza che ha pesato negativamente piu' di quello che tra di noi si pensava. C'e' stato un salto all'indietro, una scissione silenziosa della sinistra con il suo popolo. E questo ha moltiplicato rotture e conflitti interni. Si e' aperto un fossato tra la sinistra e le forze sociali che avevano investito su di essa". E il ruolo del Pd accusato di aver contribuito, e parecchio, alla sconfitta? "Non possiamo farci schermo per la nostra sconfitta con la critica rivolta al Pd", puntualizza Bertinotti. Certo, conclude, "la campagna elettorale ha aggravato i guai di una situazione ambientale che per la sinistra era difficilissima. E le scelte programmatiche del Pd e di collocazione hanno svuotato lo spazio di un dialogo che non sarebbe stato impossibile e hanno lasciato il posto a una sinistra in solitudine".

Rosso di Sera 12.6.08
Bertinotti: “E' accaduta una rottura che ha determinato un salto all'indietro”


'La partecipazione della sinistra al governo Prodi e' cio' che ha fatto traboccare il vaso. Ha pesato negativamente piu' di quello che si pensava'. Lo afferma l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, intervenendo al seminario 'Le ragioni della sconfitta', e ripercorrendo l'esperienza al governo della sinistra radicale

'E' accaduta una rottura che ha determinato un salto all'indietro - prosegue - e una scissione tra la sinistra e il suo popolo. Si e' aperto un fossato tra la sinistra e le forze che hanno investito su di essa'. Per l'ex leader dell’ Arcobaleno ad incidere sulla scomparsa della sinistra sono state: 'Le non risposte del governo ai problemi e il discredito nei confronti del sistema politico che ha investito la sinistra. I bassi salari - osserva ancora - sono diventati l'elemento di rottura con la sinistra stessa'. A pesare per Bertinotti e' stato inoltre il fallimento del governo, la divisione della sinistra radicale, l'incomunicabilita' con il riformismo italiano e il non coinvolgimento in passaggi decisivi di una parte della nostra gente'. 'E' fallita l'ipotesi piu' ambiziosa maturata a sinistra e cioe' l'idea che partecipando al governo si facesse fronte ad una domanda di cambiamento oggettivamente matura nella societa''.
Nelle intenzioni delle forze di sinistra che hanno preso parte al governo Prodi gli obiettivi erano due: 'Rendere il governo permeabile ai conflitti e ai movimenti e contemporaneamente rendere autonoma la sinistra radicale dal governo di cui faceva parte. In realta' - spiega ancora - era prevedibile la duplice permeabilita' del governo ai movimenti cosi' come ai poteri forti, quello che non era prevedibile - e' il ragionamento di Bertinotti - e' che il governo diventasse impermeabile ai movimenti facendo una scelta di campo verso i poteri forti'.
"Nell'allungare il canocchiale della nostra analisi all'indietro su cio' che e' avvenuto dobbiamo renderci conto che non abbiamo saputo mettere a frutto l'eredita' della sinistra italiana". Ed aggiunge: "La sinistra ha un bilancio fallimentare con la propria tradizione, l'ha dimentica, abbandonata oppure l'ha congelata in una fissita' identitaria. E' mancata una capacita' di rielaborazione della tradizione". "Senza rammemorazione, rielaborazione della tua storia, la sinistra non vive, non ha futuro".
Poi indica "tre eredita' mancate" nell'attuale sinistra. La prima e' quella del "movimento operaio", la seconda "la critica al capitalismo". Per Bertinotti, infattti, "non c'e' sinistra senza un'avversione sistematica alle forme di sfruttamento". E ricorda che "il movimento operaio italiano ha avuto il piu' grande partito comunista dell'occidente. Ma quando parlo di eredita' mancate, parlo di quello che Pasolini chiamava il Paese nel Paese e del legame prodotto da queste organizzazioni di massa".
Infine, Bertinotti, al terzo punto mette "l'eredita' del biennio '68-69. L'ultima grande stagione di cambiamento con una grande idea di democrazia partecipata. Queste e altre sono le ragioni di una sconfitta storica". Infine, dice, pur essendo importante la militanza attiva, dice: "Penso che si possa dare un contributo mantenendo la ricerca su questo terreno che e' indispensabile per la ricostruzione della sinistra e della politica".l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti mette in guardia dallo svilupparsi oggi in Italia di 'un regime leggero' connotato 'dalla a-privativa; privativa della stessa politica se intesa in senso forte e cioe' come idea di societa''. Con il 'regime leggero' osserva ancora c'e' stata 'l'espulsione dalla politica del conflitto, questa privazione si rileva nel cuore delle istituzioni politiche. L'avvio l'ha fornito il discorso di Fini di apertura della legislatura e piu' ancora - spiega Bertinotti - la fortissima area di consenso con cui e' stato salutato quello che si proponeva come il primo presidente della Camera della nuova Repubblica seconda o terza che sia. Con l'arco costituzionale veniva fatto cadere il fondamento della Costituzione repubblicana e cioe' la discriminante antifascista. Ci dovrebbe toccare d'ora in poi - conclude - una Repubblica a-fascista e dunque a-antifascista, una Repubblica senza radici e senza storia'.

Aprile on line 12.6.08 17.50
Il ritorno di Fausto
di Marzia Bonacci


Dopo due mesi di silenzio mediatico seguito alla débacle elettorale, Fausto Bertinotti torna sulla scena politica. Lo fa per lanciare il prossimo numero di "Alternative per il socialismo", interamente dedicato a "Le ragioni di una sconfitta"

Un silenzio, in cui si è auto-confinato, che si rompe oggi al centro congressi Frentani. Dopo l'epochè, la sospensione di giudizio sulla realtà, in questo caso politica, decisa a caldo dello scossone elettorale, Bertinotti ritorna sulla scena. E sceglie per farlo, non casualmente, di ripartire proprio da lì, da quel 13 aprile che ha motivato il suo stesso silenzio mediatico durato due mesi. "Le ragioni di una sconfitta", tematica che sarà al centro del prossimo numero della sua creatura, ovvero la rivista "Alternative per il socialismo", è il territorio da esplorare per poter riavviare la marcia. Nel suo intervento c'è molta riflessione sulle cause di una deblacle storica, sui nuovi vincitori, sulla società che cambia, sulla tradizione e il futuro. Si parla di politica, in senso alto, ricercando ragioni e proponendo soluzioni. Quando entra, l'applauso è sincero da parte del parterre, da Occhetto a Fava, da Vendola a Bettini, quasi a volerlo rincuorare per quelle critiche feroci che certo non lo hanno risparmiato. Nel gesto di Rina Gagliardi, che gli prende il viso tra le mani per salutarlo mentre sale sul palco, c'è condensato un po' di questo sentimento, un po' dell'amarezza che gli è precipitata addosso quando è diventato, fin dalle prime ore del dopo voto, un capro espiatorio -forse eccessivamente facile- degli errori che sono di molti e non solo suoi.

Dunque analizzare è il motto, cercare di capire dove si è sbagliato e perché. Per ricominciare. In primis, Bertinotti cita l'esperienza nel governo Prodi, che "ha prodotto un tracimare dell'acqua che ci ha inondato e sommerso", così che la sua crisi, quella di Prodi, è divenuta anche quella del centrosinistra. Ma non poteva essere altrimenti, visto che non si è saputo rispondere all' esigenza di "riforma sociale" (vedi Finanziaria e Protocollo) e al clima di "antipolitica" che, insieme, "hanno provocato la caduta rovinosa della sinistra", con la conseguente nascita di "una scissione silenziosa" fra questa e il suo popolo. Del resto la sinistra aveva scelto l'esecutivo con l'ambizione, poi fallita, "di far fronte alle domande di cambiamento nella società" attraverso due condizioni, "difficili" da realizzare riconosce lo stesso Bertinotti, che erano "la permeabilità del governo ai movimenti" e "l'autonomia dei partiti di sinistra dal governo". Una sfida quasi impossibile da vincere, la realizzazione complicata dell'essere forza di piazza e di governo, di cui poi la maggioranza non si è curata tanto, scegliendo alla fine di indossare "la camicia di forza dei poteri forti, da Confindustria al Vaticano". Dunque, stretti fra "la Scilla dell'accettazione delle scelte di politica interna e la Cariddi di una rottura prematura dell'esperienza di governo", i partiti della Sa sono rimasti stritolati, cosicchè "quando il governo è caduto da destra, il bilancio della sinistra è stato impresentabile". Ma la colpa è nel avere eluso la sfida vera, rivelando una "povertà strategica", quella di fornire una risposta, al di là di quella consegnata nelle inutili 220 pagine di programma, alla domanda: "quale Italia vogliamo consegnare dopo cinque anni di governo?".

L'autocritica coinvolge anche le elezioni, rispetto a cui, qui cita Rossanda, "sapevamo di dover portare a casa la pelle". Perché "non possiamo farci schermo per la nostra sconfitta con la critica rivolta al Pd"
cui, pure, va addebitata la responsabilità di aver ristretto lo spazio di un dialogo "che non sarebbe stato impossibile" lasciando "il posto a una sinistra in solitudine". Una sinistra che, come esperienza elettorale, è nata nello "stato di necessità" e con un "carattere
improvvisato" dando vita ad "un progetto politico ambizioso largamente non condiviso". Non fa sconti dunque, e ricorda come anche il caso delle liste abbia dimostrato "la incommensurabilità tra le cose dette e ciò che si stava facendo", difettando per volontarismo e soggettivismo, oltre che di scarso coinvolgimento della base in momenti importanti.

Governo, campagna elettorale, progettualità politica: questi gli elementi su cui si è manifestato il deficit della sinistra. Fra questi, poi, anche un'incapacità nostrana: "non aver saputo mettere a frutto alcune eredità", facendo tesoro dell'insegnamento di un filosofo che da sempre gli sta molto a cuore, Walter Benjamin, con il suo concetto di "rammemorazione". Tre in particolari i passaggi storici di questa disattesa: l'insegnamento del movimento operaio, la critica al capitalismo, perché "non c'è sinistra senza un'avversione sistematica al capitalismo", e il movimento del '68-'69. Una mancanza che si è aggiunta a quella di aver sottovalutato la portata del berlusconismo, andato di pari passo con lo "scomporsi della coscienza di classe", che hanno prodotto una società in cui le persone tendono ad avere un approccio sempre più individuale, fino agli operai che votano Lega, perché anche il sindacato è "sospinto a farsi istituzione fra le istituzioni". E' mancata insomma una "controriforma culturale" non si è avuta "resistenza critica", soprattutto a sinistra non c'è stato "quello scontro fraterno" che produce "coscienze critiche". Con i tradizionali referenti, sindacato e sinistra appunto, incapaci di non farsi schiacciare dalla "modernizzazione" a cui hanno aderito senza produrre un pensiero alternativo. In questo, si è dimostrata una "latitanza": quella degli intellettuali. "Il lavoro culturale si è desertificato. Dove è finita l'Italia delle riviste, dei convegni, delle case editrici?", chiede retoricamente accennando alla fine dei "luoghi di produzione della cultura politica".

Il risultato di questo processo regressivo è sotto gli occhi di tutti: la vittoria della destra, anzi della "nuova destra", come la definisce Bertinotti, specificando come non sia "fascista, ma in grado di usare elementi di questa cultura"; come non sia "pienamente liberista" ma poi si appiattisca a diventare "il partito di Confindustria"; non "assolutamente nazionalista, ma capace di utilizzare cinicamente i simboli del nazionalismo". Una forza che, sapendo miscelare questi "scampoli" di tradizione, "esce dalla minorità", mentre ad entrarvi è la sinistra, realizzando "un cambiamento storico per il Paese" di cui è emblema il discorso di Fini alla Camera nel momento del suo insediamento. Un discorso che era espressione "di un'altra Repubblica" in cui "cade il fondamento della prima, la radice stessa, la discriminante antifascista", generando un presente in cui è possibile anche la "memoria condivisa" semplicemente perché "non c'è nessuna memoria". Una stagione, quella di questa "Repubblica a-fascista perché a-antifascista", in cui anche la rappresentanza diventa esclusivamente "governabilità", in cui muore "il conflitto", che ha i tratti di "un regime leggero" connotato "dalla a-privativa" in tutti gli aspetti della vita pubblica.

Per impedire, conclude, che tale regime si consolidi c'è un'unica strada, che sa non essere facile da percorrere ma che gli appare necessaria: "la ricostruzione di una sinistra", che parte anche da questo centro congressi un tempo sede del Pci romano.

Aprile on line 12.6.08 18.59
Le risposte a Bertinotti
di Ma.Bo.


All'intervento dell'ex leader della Sa Bertinotti, che con convinzione ha bocciato l'esperienza della sinistra al governo, non ha tardato a rispondere l'unico uomo del Prc che di quell'esecutivo ha fatto parte, oggi principale avversario della linea bertinottiana e capo della mozione che al congresso di luglio tenterà di conquistare il partito in contrapposizione a Nichi Vndola, che dell'ex segretario di Rifondazione è figlio politico. Non si sofferma sulla crisi, avanza direttamente la proposta. "Ricostruire l'utilità della sinistra nella società": è questa la ricetta di Paolo Ferrero, il cui modello politico sembra essere quello del Partito del pomodoro, gli ex maoisti olandesi che sono riusciti a sfondare la soglia del 16% dei consensi diventando la terza formazione del Paese.
"Fare un salto verso il basso", dice Ferrero, superando l'idea che l'unico obiettivo da perseguire deve essere la presenza nelle istituzioni, riscoprendo la forza che "vale di più il volantino della comparsata a Porta a Porta". Una battuta, quest'ultima, dal sapore amaro e che appare evidentemente rivolta all'esposizione mediatica del leader, accusato anche in passato di peccare di protagonismo televisivo, oltre che di troppo salottismo (Berty-nights è la formula al vetriolo coniata dai giornalisti per indicare la frequentazione dei salotti buoni che avrebbe coinvolto l'ex segretario del Prc). Ripartire dalla società anche perché, spiega Ferrero, "la falce e martello da soli non servono a nulla, bisogna essere comunisti e intelligenti". E poi, per rafforzare la sua tesi, da buon evangelico cita anche modelli passati utili a illuminare la strada che deve condurre fuori dall'impasse politica in cui si è precipitati. "Bisogna fare come la Chiesa -dice - che, dopo la sconfitta ai referendum sul divorzio e sull'aborto è ripartita dagli oratori, dal lavoro sociale e ha vinto il referendum sulla fecondazione assistita". Se non piace il riferimento religioso, allora in alternativa vale anche l'insegnamento dell'esercito, il quale messo in crisi dall'antimilitarismo e dal pacifismo degli anni '70, "si è ricostruito un'immagine di utilità intervenendo in prima persona nei terremoti del Friuli e dell'Irpinia".
Una sfida difficile quella di un reinserimento nella società, ma che appare inevitabile perché "non stiamo attraversando il deserto, perchè all'orizzonte non c'è la Terra promessa, ma siamo in una giungla dove occorre combattere una guerra di movimento e sfuggire alle sabbie mobili". Ovvero quelle che hanno visto la destra vincitrice "non perchè gli operai stanno bene" ma anzi al contrario "perchè stanno male", con una sinistra che "non ha saputo indicare proposte di cambiamento". Boccia poi ogni legame di dipendenza con i democratici. "Noi non saremo mai l'estrema sinistra del Pd, perchè siamo un'altra cosa".

Parole che non potevano sfuggire al suo sfidante, che dai microfoni di Ecotv gli risponde ricordando come l'urgenza non sia tanto quella di rimettere in piedi il solo Prc, bensì l'intera sinistra. "Per me è importante rimettere in campo Rifondazione comunista ma è altrettanto importante che Rifondazione sia a disposizione della ricostruzione di una larga sinistra di popolo perchè se cosi non fosse resteremmo solo minoranze morte". Una sinistra, come ha spiegato Vendola intervenendo al Frentani, che guarda con interesse anche alle "contraddizioni" che stanno emergendo all'interno del Pd sul tema delle alleanze, come dimostrato dalle parole dello stesso Nicola Latorre al seminario di oggi. Il governatore della Puglia le definisce "un bene" che "non ci lascia indifferenti", e che spiega come il frutto "di una devastante sconfitta del progetto veltroniano di conquista del centro".
Precisa però che "non siamo all'individuazione delle alleanze: un'area del Pd con un'area del Prc... Questa, se posso permettermi, è una vulgata giornalistica", diversamente "siamo di fronte a tanti movimenti che accadono nel campo democratico e nascono dalla necessità di costituire una forza e una critica a questo governo e alla egemonia delle destre". Una opposizione che se condotta dalla sinistra come una crociata solitaria "sarebbe drammatica".

Cosa aveva detto il dalemiano era semplice. "L'Unione è una stagione esaurita", e fin qui tutti d'accordo, ma questo non esclude di valutare "quali margini ci siano per il rilancio di una strategia delle alleanze che non sembri però un ritorno all'indietro". E per dare credibilità e speranza agli extraparlamentari, ha aggiunto che l'opposizione in Parlamento sarà "assolutamente ferma e rigorosa" su temi come i salari, le questioni economiche e la sicurezza, avvertendo però che questa intransigenza "deve coniugarsi con il tema del completamento della transizione italiana". Dunque riformismo istituzionale, perché il voto ha confermato che "la società italiana vive male la frammentazione", ma questo non può essere interpretato come "un incoraggiamento al bipartitismo". Certo, bisogna aspettare di capire come andrà il congresso del Prc, rispetto a cui Latorre tributa autonomia ("sarebbe sbagliato da parte nostra, interferire nella discussione congressuale"), ma bisogna pur riconoscere che "gli sbocchi politici che questa discussione avrà non saranno ininfluenti rispetto alla prospettiva politica del Paese", ammonisce l'occhio vigile di D'Alema al Frentani.

INCHIESTA LEFT SU "TELECAMORRA", MINACCIATO UN PERITO
(AGI) - Roma, 12 giu. - Prima le minacce, poi l'auto distrutta. Abbastanza per chiudersi in casa e pensare seriamente di cambiare aria, per non rischiare di peggio. E' la drammatica sorte toccata al tecnico dell'alta frequenza che per alcuni giorni ha accompagnato Alessandro De Pascale, redattore del settimanale "Left", in un giro ricognitivo di quella vera e propria giungla di ripetitori che sembra essere diventata la Campania. "Il numero con la copertina dedicata alla mia inchiesta, intitolata 'Telecamorra' - racconta il giornalista - e' uscita venerdi' scorso, ma solo lunedi' nelle edicole campane: trovo inquietante la circostanza che l'avvertimento sia scattato nemmeno tre giorni dopo. Evidentemente abbiamo toccato piu' di un nervo scoperto". Attraverso un paziente lavoro di raccolta e confronto di denunce, fascicoli aperti, atti giudiziari e rapporti investigativi, De Pascale ha ricostruito una realta' ("che molti conoscono, da anni, ma che tutti tollerano") fatta di canali occupati abusivamente, di frequenze mai censite ma regolarmente utilizzate, di aumenti di potenza illegali. Il tutto, sullo sfondo di una guerra tra clan che si contendono senza esclusione di colpi la "torta" dell'etere locale. "Per verificare sul campo quanto scoperto - spiega De Pascale - una decina di giorni fa ho girato mezza Campania con un'auto e uno spettrometro in grado di misurare la potenza del segnale. Del tecnico che era con me, ovviamente, non dico ne' il nome ne' il posto in cui abita. Anche perche' una disavventura analoga e' toccata anche ad uno degli editori che mi aveva aiutato nell'inchiesta raccontando, al pari di altri colleghi, di essere esasperato da una situazione di illegalita' diffusa: mentre rientrava a casa, e' stato avvicinato e minacciato". Nel suo tour, De Pascale confessa di avere toccato con mano realta' "incredibili". Un esempio? "Il Faito, il monte alto piu' di mille metri, tra le province di Napoli, Caserta e Salerno, che domina la costiera amalfitana. Gli addetti ai lavori lo giudicano uno dei bacini di utenza piu' grandi d'Europa per le telecomunicazioni, perche' basta una buona frequenza per raggiungere piu' di 5 milioni di persone". Bene, quel monte, oggi "e' una distesa senza soluzione di continuita' di antenne e caseggiati che ospitano trasmettitori". (AGI) Bas

MAFIA: LEFT, UN "REBUS GIURIDICO" TUTELA I BENI DEI BOSS
(AGI) - Roma, 12 giu. - Ogni giorno "200 milioni di euro passano dalle mani degli imprenditori a quelle dei mafiosi". Ma questi ultimi "possono continuare a dormire sonni tranquilli", perche' "un rebus di carattere giuridico rischia seriamente di vanificare ogni azione dello Stato contro il patrimonio" dei boss. A denunciarlo e' un articolo ("Tutti i trucchi per tutelare la mafia") pubblicato sul numero di "Left" in edicola da venerdi'. Nel nuovo ddl sulla sicurezza, sostiene il settimanale, "la questione della completa separazione tra misure di prevenzione personali e patrimoniali non e' stata risolta", anzi due articoli "rischiano di rendere la faccenda ancora piu' ingarbugliata": il governo, a fronte dell'affermazione di principio contenuta nell'articolo 12 ("le misure di prevenzione personali e patrimoniali si applicano, congiuntamente o disgiuntamente, anche in caso di morte del soggetto"), avrebbe infatti "mantenuto inalterato il precedente impianto normativo, per cui la misura patrimoniale resta in posizione subordinata e accessoria rispetto a quella personale". Morale: le attivita' economiche, i patrimoni immobiliari e le ingentissime risorse finanziarie gestite dai boss "continuano a essere protetti da una normativa che invece di prendere in considerazione i precedenti specifici dell'indiziato o di verificare con quali redditi ha formato il suo patrimonio (quindi la pericolosita' passata), prende in considerazione soltanto la pericolosita' attuale, effettuando un colpo di spugna, una vera e propria sanatoria, sui patrimoni accumulati dall'indiziato nel corso degli anni". "Non sembra un caso - conclude Left - che i sequestri e le confische dei patrimoni mafiosi abbiamo subito negli ultimi anni un crollo verticale, anche in province ad alta densita' mafiosa": complessivamente, meno del 15% degli immobili sottoposti a sequestro arrivano alla confisca. (AGI) Ba